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L’evoluzione del concetto di popolo nella storia

La categoria del popolo non è qualcosa di ovvio: il termine popolo ha infatti un significato e
un’estensione che variano notevolmente secondo i contesti. In generale, intendiamo per popolo il
complesso degli individui di uno stesso paese che, avendo origine, lingua, tradizioni religiose e
culturali, istituti, leggi e ordinamenti comuni, sono costituiti in collettività etnica e nazionale, o
formano comunque una nazione, indipendentemente dal fatto che l'unità e l'indipendenza politica
siano state realizzate. Però la parola popolo non ha sempre avuto questa definizione, infatti
vedremo nel corso della storia quali evoluzioni ha avuto.

Se facciamo un passo indietro fino all’età antica, in particolare in Grecia, troviamo il demos che
come dimostra Moses Finley, voleva significare sia il corpo civico nel suo complesso, sia la gente
comune includendo anche i poveri. Una situazione parallela si verificò nell’Impero Romano, il
populus infatti, oscilla tra due significati: per un verso l’insieme degli abitanti di uno stato,
dall’altro la plebaglia. L'identificazione del populus della Roma arcaica con l'esercito fa sorgere
innanzitutto il problema della sua composizione. Nel secolo scorso ha prevalso la tesi che
giudicava l'esercito formato dai soli patrizi e di conseguenza escludeva la plebs dal populus
originario. In particolare tale idea venne approfondita all'inizio dell'Ottocento da Niebuhr, affermò
che nei primi tempi di Roma la città era abitata dai patres e dai loro clienti, mentre la plebs
risiedeva in campagna: in origine l'esercito sarebbe stato composto dai soli patres, mentre a
partire da Servio Tullio la necessità di rafforzare le milizie avrebbe indotto i patres a concedere la
cittadinanza ai loro clienti; la plebs, che abitava fuori della città e non rientrava nella clientela delle
famiglie patrizie, sarebbe invece rimasta al di fuori dell'esercito e, quindi, del populus.
Nell'ordinamento repubblicano viene richiamata la testimonianza di Polibio, che nel VI libro delle
sue Storie descrive l'ordinamento istituzionale romano del suo tempo, individuandone
un'articolazione in tre parti - i magistrati, in primo luogo i consoli, il Senato e il popolo - tra loro
strettamente connesse e reciprocamente integrate al punto da conferire alla costituzione
dell'Urbe un carattere del tutto originale, difficilmente incasellabile nelle forme di governo
monarchico, aristocratico o democratico.
Spostandoci nell’età medievale, il popolo indicava la comunità residente in un luogo nella sua
totalità. Nei comuni medievali italiani, la designazione di popolo fu data alle organizzazioni di
cittadini reclutati su base professionale, o territoriale (come le società armate nelle quali si
raggruppavano gli abitanti delle stesse zone); tali organizzazioni in alcuni comuni (Firenze,
Bologna) si unirono in società generali dotate di organi propri: consigli allargati, ristretti, come gli
anziani, che ne costituirono il governo stabile, un capitano del popolo eletto a imitazione del
podestà del comune. In alcuni centri urbani le associazioni di popolo accrebbero il loro potere di
condizionamento della vita politica cittadina affiancandosi agli organismi del comune e giungendo
in taluni casi a esautorarli. Il vescovo francese Adalberone da Laon affermava che la realtà della
fede è una sola, ma gli stati di vita sono tre. La legge umana distingue due condizioni: il nobile e il
servo non sono governati da una legge identica, questi sono guerrieri, protettori delle chiese,
difendono tutti gli uomini del popolo, grandi e piccoli, e ugualmente difendono sé stessi. L'altra
parte è quella dei servi: questa razza non possiede nulla senza dolore. Ricchezze e vesti sono
fornite a tutti dai servi, infatti nessun uomo libero può vivere senza i servi. Questi tre ordini vivono
insieme e non possono essere separati; il servizio di uno solo permette le azioni degli altri due; con
alterne vicende si aiutano. Come è prevalsa la legge allora il mondo ha goduto la pace. Oggi le leggi
si indeboliscono e già ogni pace sparisce; cambiano i costumi degli uomini, cambia anche l'ordine
della società.
Il termine 'popolo' nell'età moderna è stato usato in tutta una serie di significati, alcuni dei quali
neutri (popolazione, gruppo etnico, gente) altri, invece, carichi di implicazioni politiche, spesso
molto differenti. Ciò ha indotto, più di una volta, a ritenerlo talmente equivoco da risultare
inutilizzabile “per ogni indagine realmente esatta", o ad espungerlo dai lessici politici, salvo poi
inserirlo in unione ad altri concetti (per esempio popolo-nazione). Tuttavia, 'popolo' è stato usato
quasi sempre pensando anche ad altre entità - repubblica, impero, Stato, patria - sicché il termine
designa ora una realtà esistente, ora una aspirazione o addirittura un 'mito', ed è stato invocato
dai conservatori e dai rivoluzionari, ciascuno dei quali riteneva di interpretarne le tendenze
profonde proponendo un modello ideale, descrittivo e prescrittivo. Nel Settecento europeo, il
secolo dei Lumi, nel quale nacque un sentimento politico del tutto differente rispetto al passato di
rivolte di sussistenza, vi è una novità nella formazione di una volontà collettiva. Il primo ministro
napoletano Bernardo Tanucci, commentava che il popolo aveva il bisogno fondamentale di
praticare una religione ‘materiale’ e ‘mercantile’ come a dire ‘civile’. Sosteneva che si doveva
attuare un programma in cui vi era la trasfigurazione delle classi sociali del regno e fondato sulla
necessità di ‘nazionalizzare’ gli abitanti. in genere, il ‘popolo’ per Tanucci non era concepito come
un’astrazione politica che designava uno spazio sociale preciso, ma, piuttosto, come il nome che
definiva un insieme di esseri, una ‘natura’ particolare della specie umana.
Nell'uso politico dell'età moderna 'popolo' designa, insomma, sia la fonte della sovranità, sia
coloro sui quali il potere, derivante dalla sovranità, si esercita. Questo carattere bifronte era ben
presente a Hobbes, che si sforzò di esorcizzarne le conseguenze introducendo una distinzione, che
ha avuto molta fortuna, tra popolo inteso come "un certo numero di uomini" che vivono in
un'area geografica (il popolo d'Inghilterra e il popolo di Francia) e popolo come portatore presunto
o 'virtuale' della sovranità, lasciando impregiudicate le forme, o le persone, con le quali
quest'ultima viene esercitata. È ovvio che la 'moltitudine' obbedisce a pochi, e questa
constatazione apre la strada ad un'altra definizione di popolo, come insieme dei governati di cui
però, propriamente parlando, non fanno parte coloro che si distinguono per rango e per ricchezza.
Anche questa distinzione ha una lunga tradizione, da Machiavelli sin almeno alla fine
dell'Ottocento; Nella di formula Bismarck, si scorge l'idea della "nazionalizzazione delle masse"
(Mosse), cioè dell'amalgama, nello Stato moderno, di tutti i gruppi della popolazione. Eppure
'popolo' continua a mantenere il suo significato bivalente: nei testi costituzionali esso compare
come il detentore della sovranità, ma viene presentato, anche, come colui cui è impedito, o
almeno reso difficile, di esercitare davvero quella prerogativa. Con le guerre di religione
cambiarono i termini del problema: non si trattava più di ricostituire un popolo, bensì di stabilire a
chi spettasse, in esso, la sovranità, e quali fossero sia il fondamento che gli strumenti del diritto di
resistenza. Una lunga tradizione storiografica indica in alcune correnti protestanti le fonti del
liberalismo; ma si tratta di un rapporto tutt'altro che diretto. Per circa un secolo coloro che
rivendicavano la libertà dell'individuo di professare pubblicamente le proprie convinzioni furono
nettamente minoritari, e spesso proprio costoro restano volontariamente ai margini dello scontro
armato. Per quelli, invece, che vi si impegnavano il popolo fu una importante figura teorica: il
'popolo di Dio', esemplato sull'antica Israele, la comunità dei credenti cui Dio ha affidato la sua
legge, e che ne è la custode anche di fronte ai sovrani. In un testo famoso, si legge che "le città non
consistono in un mucchio di pietre, ma in quello che chiamiamo popolo", il vero "proprietario"
dello Stato, intendendo con ciò non l'intera popolazione, "quella bestia da un milione di teste",
bensì i magistrati intermedi (cioè i notabili, ma anche i signori, purché, beninteso, seguaci della
vera fede) che "rappresentano l'intero corpo del popolo". Occorre però aggiungere che la storia di
un popolo incomincia prima che esso sia tale in senso politico: il momento giusto per istituirlo è
quando esso è "giovane", ma più vicino alla maturità che alla fanciullezza; situazione ottimale
sarebbe quella in cui fossero riunite "la solidità di un antico popolo" e la "docilità di un popolo
nuovo". Non sarebbe corretto voler ricavare troppo da queste formule, ma è difficile contestare
che, a caratterizzare il popolo, ci sia anche una memoria collettiva.

In Italia, anni dopo, Mazzini, fece del popolo il 'dogma' della sua azione politica. 'Popolo', per lui, è
"l'universalità degli uomini componenti nazione", e in esso sono comprese tutte le classi. Ma è
facile rendersi conto che egli intende soprattutto la moltitudine dominata, che pure è distratta,
"giacente", inerte. Soltanto in essa, infatti, si trovano gli elementi motori del progresso: a) l'istinto
di "unità morale" (presente in tutti i popoli) che è la premessa dell'unità politica; b) la "vita latente
che freme nella tradizione"; c) "l'istinto d'azione e l'immensa forza": è dal popolo che procede
"l'iniziativa materiale", è esso "la sola vera forza rivoluzionaria". Tutte queste espressioni hanno
corrispettivi in autori che si sono citati prima, che non è però obbligatorio considerare fonti di
Mazzini. Ad indebolire il concetto di popolo contribuì anche la diffusione del socialismo scientifico.
Sia Marx che Engels avevano esordito come democratici, e si erano serviti ampiamente del
termine 'popolo', il quale sopravvisse, nell'uso pubblicistico, anche dopo la pubblicazione del
Manifesto (1848).All'inizio della rivoluzione del 1848 essi chiedevano che il parlamento di
Francoforte proclamasse la "sovranità del popolo tedesco", erano per la sovranità (nel senso di
indipendenza) dei popoli, distinguevano il "popolo rivoluzionario" dai "lazzaroni", ovvero dal
Lumpenproletariat (nel commento ai fatti di Napoli del maggio 1848). Ma bastarono poche
settimane perché l'insurrezione operaia di Parigi (giugno 1848) imponesse un altro linguaggio:
popolo è sinonimo di proletari, o di operai, e nello stesso tempo si registra che la Francia si è divisa
in due campi, o in due nazioni, proletariato e borghesia; parlando dei contadini francesi (e
tedeschi) Engels li definisce "barbari", esempi di "ostinata stupidità". Il concetto di popolo ha
perso la sua unitarietà: occorre distinguere sempre tra "le diverse classi del popolo" e questo
termine, comunque, non serve più come nome collettivo.
La rassegna di teorie, o ideologie, sul popolo che si è esposta, conferma che 'popolo' designa una
base prepolitica in procinto di, o che dovrebbe, diventare politica; ma anche che esso è un corpo
che aspetta di ricevere forma, di essere compreso, riconosciuto, rigenerato. Nel significato di
popolo come idea-forza sono compresi almeno tre connotati: a) la partecipazione; b) la forza; c) la
permanenza, non sempre necessariamente presenti con la stessa intensità, né con le stesse
sfumature. Anzi, ciascuno di essi è integrato con elementi tratti da altri paradigmi politici: per
esempio la partecipazione può essere intesa, in chiave giusnaturalistica, come l'esercizio di un
diritto originario dell'individuo a dare il proprio assenso alle leggi che lo governano, e a designare
coloro che lo guidano; la forza segnala che vengono dal popolo gli uomini delle guerre e delle
rivoluzioni, ma anche quelli del lavoro; la permanenza, a sua volta, può essere spiegata in base alla
geografia (sono la natura e la disposizione del suolo a plasmare il carattere di chi vi risiede
durevolmente, a prescindere dalle sue origini etniche), alla razza (ivi compresa la capacità di essa
di assimilare i nuovi arrivati), alla tradizione culturale, di cui espressione fondamentale è il
linguaggio. Dunque, la diversità, all'interno del popolo, è un carattere positivo, in quanto consente
ad ogni singolo di dare il meglio di sé, ma anche di vivere a proprio talento, senza la costrizione
delle regole, artificiali, di uno Stato burocratico. C'è, in quasi tutte le ideologie popolari, anche in
quelle che non predicano la rivoluzione, e magari la combattono, una forte carica antiautoritaria
(se ne resero conto immediatamente i governanti che, in Germania e in Russia, non accettarono la
collaborazione dei profeti del Volkstum e del narodnost); ma c'è, insieme, una altrettanto forte
carica cesaristica, nel senso che chi si appella al popolo lo fa per contestare una oligarchia
governante (nobiliare, proprietaria, burocratica, parlamentare) che ne usurperebbe i diritti,
prospettando, in alternativa, un rapporto più diretto tra base e vertice, che economizzi, per così
dire, sul costo e sui tempi della intermediazione. L'egualitarismo non si trova d’accordo all'idea di
corpi intermedi autorinnovantisi, mentre il capo è il simbolo vivente dell'unità, legittimato dalla
democrazia plebiscitaria, nella quale il popolo esercita, ogni volta, un ruolo costituente, che lo
colloca sopra le leggi. Già Weber notava che "ogni democrazia ha questa inclinazione"; e non è un
caso che molti avversari delle dittature del XX secolo abbiano rimpianto la legittimità andata in
frantumi nel corso delle rivoluzioni, o abbiano proposto un 'ordine' senza popolo.

Bibliografia:

• Roberto Tufano, Popolo e populismo, Farò politica ‘’Jacques Delors’’, Prima edizione 2017;
• Pierre-André Tagguieff, L’Illusione populista, Milano, Bruno Mondadori,2002;
• Enciclopedia Treccani.

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