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Logica filosofica

e Filosofia
della Conoscenza

INTRODUZIONE GENERALE

Di fronte ad una affermazione io posso accettare o non accettare o restare nel dubbio, oppure ho
bisogno di giustificare e specificare il perché...
Se vogliamo rendere ragione di ciò che diciamo abbiamo bisogno di uno strumento: la logica.
Il fondatore della logica, Aristotele, chiama in un altro modo la logica distinguendo tutti gli scritti
in:
- ANALITICI PRIMI
- ANALITICI SECONDI
l'insieme di questi testi è l'ORGANON, strumento di controllo.
Qualsiasi disciplina o sapere che noi vogliamo affrontare ha bisogno di uno strumento di controllo
logico... per affermare o giustificare qualcosa... Colui che afferma o dichiara qualcosa ha bisogno di
giustificarla...
Io non posso pormi di fronte ad un enunciato solo con un atto di fede, ma ho bisogno di rendere
ragione attraverso un processo dimostrativo che mi renda l'evidenza dell'enunciato. C'è bisogno,
dunque, di uno strumento di controllo logico...
La logica è un'etica del pensiero. Si arriva ad una giusta risposta attraverso una giusta
argomentazione. Un'opinione giustificata è scienza, quindi l'opinione non giustificata rimane una
semplice opinione. Quando l'opinione è giustificata non rimane più opinione ma sapere opinativo.
L'opinione resta nell'ambito soggettivo, invece, un'opinione giustificata, cioè l'episteme, diventa
sapere oggettivo e si può insegnare.
La logica ci emancipa, ci fa pensare con la nostra testa, ci dà le regole del retto pensare. "La logica
come scienza del pensato in quanto pensato" (detto degli antichi latini).
Il pensiero si muove su due livelli:
- ORDINARIO
- META LOGICO (livello di riflessione)
quando il pensiero riflette su se stesso fa logica (riflette sui suoi contenuti).
Meta-logica o meta-pensiero. La logica grammatica del pensiero.
Doppia caratteristica: astratta e più vicina.

La logica è una tecnica che studia le tecniche e prescinde dalle verità di ciò che dice. Mentre la
conoscenza non può prescindere dalle verità anzi ne è lo scopo. C'è un rapporto tra logica e
conoscenza, nel senso che la conoscenza si serve delle tecniche della logica. Forma e contenuto
sono due facce della stessa medaglia.
La conoscenza è una OPINIONE GIUSTIFICATA che si serve della LOGICA.

- Linguaggio naturale
- Termini
- Logica come "organon"
- Principio di identità e di non contraddizione

La LOGICA può essere intesa:


- come grammatica: "studio delle regole", norme che il pensiero da a se stesso. Ma non mi dà solo
regole del pensare.
- in sé per sé: mi fa scoprire i principi dell'essere... la logica ci aiuta a capire che ci sono diversi
modi di esistere: il reale e l'ideale.

L'essere non è disgiunto dal pensiero e il pensiero non è disgiunto dall'essere... a patto che sia
pensiero logico.

- TERMINI CATEGOREMATICI: assoluti, senso compiuto... ad es.: Ivo - grosso - nuota.


- TERMINI SINCATEGOREMATICI: sono termini che hanno significato se stanno con altri
termini... ad es.: e - allora - se.

La logica è la scienza delle procedure, dei dispositivi, che mi aiutano a ragionare...

- Petitio principi
- Logica biontologica
- Sviluppo storico (la logica ha subito un percorso di rigorizzazione)

- Rapporto tra PENSIERO e REALTÁ


Quando il pensiero vuole pensare la realtà c'è coincidenza tra pensiero e realtà?
Ci sono varie correnti di pensiero a riguardo.
- L'ordine del pensiero è l'ordine della realtà.
- L'ordine della realtà è l'ordine del pensiero.
Se teniamo separati i due livelli resterà sempre uno scarto tra ordine del pensiero e ordine della
realtà.

Spinoza dice che la realtà è costituita da


DIO
(sostanza)

PENSIERO ESTENSIONE
(libertà) (necessità)

Un pensiero autentico è dove non c'è contrasto tra pensiero ed estensione.


Questo significa che c'è una identità tra pensiero e realtà (pensiero di radice platonica e ancor prima
di Parmenide che afferma che pensare e dire sono sempre il pensare e il dire "dell'essere").
Cosa è logico? cosa si rifà al principio di identità e di non contraddizione...
Episteme - pensiero fondato, solido...

- L'idea per Platone è la verità delle cose... quindi per Platone il pensiero è principio della realtà.
- In Aristotele l'ordine logico non è riconducibile alla forma logica della realtà.

Necessario - dal punto di vista logico si dice di ciò che è e che non è possibile che non sia.
Nel pensiero domina la libertà e può essere inteso come carattere opposto alla necessità. Il pensiero
deve rispecchiare la realtà.

Ordine razionale e intellegibile - per Platone fuori dal mondo.


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C'è per l'uomo la possibilità di dire l'ordine, l'intelligibilità...?
L'unico strumento per mettere in ordine è il logos, la parola, da cui logica.
La garanzia della corrispondenza delle nostre parole con la realtà in Spinoza è che l'ordine delle
idee e l'ordine delle parole coincidono. Le idee vere sono le idee adeguate alle cose, le idee false
sono le idee diverse dalle cose...

LOGICA MAIOR - logica filosofica, logica del pensiero, mirante alla conoscenza.
LOGICA MINOR - logica simbolica, logica del linguaggio.

PRIMA PARTE

Logica filosofica
INTRODUZIONE

La parola «bello» indica il campo dell’estetica.


La parola «buono» indica il campo dell’etica.
La parola «giusto» indica il campo del diritto.
La parola «vero» indica il campo della logica.

Tutte le scienze, in quanto tali, sono finalizzate alla verità, ma la logica individua le leggi
«dell’esser vero». Verità: da aletheia, con -a privativo che significa non nascondimento.

Queste leggi («dell’esser vero») le conosciamo per riflessione, perciò possono essere chiamate
«leggi del pensiero». L’espressione «leggi del pensiero» non deve esser presa in modo simile a
«legge naturale»; se così fosse, significherebbe quanto vi è di generale nell’evento o processo
mentale del pensiero. Saremmo nella psicologia e non nella logica (distinzione strutturale tra la
fisiologia del cervello e le leggi del pensiero). Come la medicina studia la funzione respiratoria, la
psicologia studia la funzione conoscitiva, che sorge e si svolge nel tempo da parte di un soggetto,
cioè studia le sue operazioni, ne definisce la natura e ne spiega le cause. La logica, invece, studia le
proprietà del pensiero in quanto pensiero, ovvero le caratteristiche di quelle nozioni che derivano
dalle cose esterne (percepisco una cosa e me ne faccio un'idea, rifletto le caratteristiche di questa
cosa).
Le cose esterne sono reali, ma le nozioni che ne derivano sussistono nella mente: sono enti ideali
(esistono nella mente). La logica studia le entità logiche (esistono nella realtà), le loro funzioni e le
loro reciproche relazioni.
Questi enti ideali si chiamano intenzioni seconde (intentiones secundae) perché risultano dalla
riflessione (logica) sul primo movimento dell’intelligenza che è diretto alle cose reali. Non si inizia
mai con la conoscenza degli enti logici (intentiones secundae): le prime nozioni che acquisiamo
derivano dall’intenzione della mente verso la realtà. Queste si denominano intenzioni prime
(intentiones primae).

- Intentio prima: vedo il cane e si crea in me la nozione di cane.


- Intentio secunda: rifletto sulla nozione di cane (è qui la logica).

Per esempio, se considero la frase: «Tutti gli uomini sono peccatori» preoccupandomi di sapere che
cosa succede agli uomini di questo mondo, in vista di imparare qualche cosa intorno all’uomo, non
faccio logica, ma giudico, constato (caratteri che appartengono alla realtà). Infatti rivolgendomi a
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un certo oggetto ne considero certi aspetti che esso ha o può avere in se stesso, ad esempio l’essere
peccatore.
Faccio logica, invece, quando considero l’oggetto pensato in quei caratteri che ha per il fatto di
essere pensato (caratteri che appartengono al pensiero). «Tutti gli uomini sono peccatori» è una
proposizione dichiarativa, universale e affermativa.
Infatti l’essere peccatore compete all’uomo in quanto uomo, mentre l’essere proposizione
dichiarativa universale affermativa non può competere a nessuna cosa di questo mondo in se stessa,
ma solo a un oggetto pensato (la forma che ha appreso l'oggetto pensato - il modo in cui diamo
forma è una proposizione).
Ecco perché si dice che la logica è la scienza del pensato in quanto pensato.

LOGICA 1
A CHE SERVA LA LOGICA?

La ragione umana in ogni suo atto procede seguendo un certo ordine. L'uomo non agisce per il
semplice impulso dei propri istinti, ma, per conoscere la verità e soddisfare così il fine
dell'intelligenza, egli deve seguire un ordine che chiamiamo ordine logico o logica spontanea.
La logica spontanea l'ordine che la ragione umana segue naturalmente nel conoscere le cose.
L'ordine logico spontaneo è comune a tutti gli uomini.
Il fine della logica spontanea, così come quello di qualsiasi forma di logica scientifica, è la
conoscenza della verità.

Oggetto della logica scientifica sono gli atti del pensiero, in quanto ordinati a conoscere la realtà.
Il metodo attraverso cui si compie questa operazione è la riflessione logica, ossia quell'operazione
che si compie pensando il pensato.
Da questo procedimento si distingueranno le conoscenze dirette, che corrispondono al primo
movimento della mente nell'apprendere, diretto alla conoscenza della realtà, chiamate anche
intenzioni prime, e le conoscenze riflesse, che risultano dalla riflessione logica, chiamate intenzioni
seconde.
E poiché la nostra conoscenza si esprime attraverso il linguaggio, il metodo più efficace di
riflessione logica è quello che porta ad osservare le strutture del linguaggio umano, determinandone
gli elementi, le funzioni e il modo in cui questi vengono posti in reciproca relazione. Esaminiamo il
linguaggio in quanto esso permette di analizzare il nostro modo di conoscere.

A che cosa serve la logica? (utilità della logica)


Sono state date diverse risposte:
a) a studiare le "regole" e i "principi" del pensiero con cui condurre le idee e assicurare la
rettitudine della "conoscenza";
b) a "chiarire" il linguaggio che usiamo per ragionare;
c) a mostrare o rivelare gli errori di argomentazione, le cosiddette fallacie (le fallacie sono
ragionamenti apparentemente giusti);
d) a indicare quali sono le regole per discutere in modo corretto, più rapido ed efficace
(discussione - svolgere un'attività con lo scopo di pervenire ad un grado maggiore di verità,
a condizione che quelle degli altri siano migliori delle mie);
e) a studiare e classificare le diverse forme argomentative, segnatamente come valide o
corrette (discorso retorico - è un discorso apparentemente vero, pseudo-vero; dobbiamo,
dunque, distinguere i discorsi veri dagli argomenti per valutarne la verità...).

La logica, quindi, non è il fondamento del sapere scientifico, ma ne è semplicemente lo strumento.

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Se ogni ragionamento è pensiero, non ogni pensiero è un ragionamento.
Analizzare (analitica era il termine che Aristotele, il fondatore della logica, usava per questa
scienza) vuol dire scomporre il pensiero nei suoi elementi per determinare quali di essi
corrispondono a simboli, cioè segni o espressioni convenzionali variabili nei diversi linguaggi, e
dunque uguali per tutti, e alle cose concrete della realtà.
C’è dunque una perfetta corrispondenza fra piano linguistico (linguaggio), piano mentale (pensiero)
e piano reale (realtà).
Del linguaggio si occupa la logica simbolica (logica minor), del pensiero si occupa la logica
filosofica (logica maior) o teoria della conoscenza (gnoseologia), della realtà si occupa la
metafisica.

Questo non vuol dire che soltanto chi ha studiato logica è in grado di ragionare, ciò equivarrebbe,
per esempio, ad affermare che può correre bene soltanto chi ha studiato fisica e fisiologia umana.
Si vuole dire che, tra due pari intelligenze naturali, quella che ha studiato logica probabilmente
ragiona più correttamente di chi non ha mai riflettuto sui principî generali impliciti in questa attività
(tornando all'esempio precedente: corre meglio chi ha studiato fisica e fisiologia umana o chi non
l'ha studiata? entrambi; invece trova più beneficio chi ha studiato fisica e fisiologia perchè sa come
muoversi nella corsa).
Per esempio lo studio della logica mi consente di distinguere quale dei seguenti due ragionamenti è
da ritenersi valido:
1. «O Fido è corso via o Fido è stato investito da una macchina. Fido non è corso via. Dunque
Fido è stato investito da una macchina».
2. «O Fido è corso via o Fido è stato investito da una macchina. Fido è corso via. Dunque Fido
non è stato investito da una macchina».
Il 2° esempio presenta una certa somiglianza con il 1°, ma è palesemente fallace; se analizziamo le
premesse ci accorgiamo di essere di fronte a una alternativa che prevede che la verità di una
disgiunta non implica la falsità dell’altra disgiunta. Insomma i termini «o…o» significano vera o
l’una o l’altra o entrambe le possibilità.
Ma «o…o» nel linguaggio ordinario può avere "anche" un significato disgiuntivo, che prevede che
sia vera o l’una o l’altra delle disgiunte ma non entrambe (ad es. «o è giorno o è notte»).
Infine (alcuni studiosi della logica aggiungono) «o…o» nel linguaggio ordinario può avere "anche"
un significato esclusivo, che prevede che sia vera o l’una o l’altra o nessuna delle due possibilità (ad
es. «Ivo o è cattolico o è protestante»).
È evidente, dunque, che la logica mi aiuta a evitare ambiguità e trabocchetti che si annidano nel
linguaggio corrente o naturale.
Proviamo a riflettere, come ultimo esempio, sui significati che la seguente frase può assumere a
seconda di come accentiamo certi suoi termini:
 «Noi non dovremmo parlare male dei nostri amici» (!?)
Abbiamo 3 significati diversi.

Se la logica è lo studio dei metodi e dei principî usati nel distinguere i ragionamenti corretti da
quelli scorretti, avremo meno possibilità di commettere errori quando è facile scoprirli (il processo
di analisi logica è un processo di liberazione, di emancipazione...).
Se assumiamo un punto di vista filosofico, cioè finalizzato non a qualsiasi conoscenza ma a quella
riguardante la realtà considerata nella sua totalità, e secondo i suoi fini ultimi, la logica costituisce
un requisito fondamentale per elaborare e verificare la validità dei discorsi.
- La relazione tra religione e fini ultimi riguarda la salvezza.
- La relazione tra filosofia e fini ultimi riguarda la verità.
Che rapporto c'è tra verità e salvezza?
Quando proponiamo una nostra tesi implicitamente riteniamo non solo che sia vera, ma che risulti
vera. Ciò vale anche per chi pretende di proporci la sua tesi: non siamo tenuti ad accettarla se essa
non appare logicamente vera.

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Chi voglia studiare logica correttamente, dovrà affrontarla tanto come "arte" quanto come
"scienza", e imparare con l’esercizio i particolari della teoria, sia per costruire discorsi validi, cioè
discorsi che contengano la giustificazione delle conclusioni cui pervengono (inferenza), sia per
individuare le fallacie (gli errori) e i modi scorretti di ragionare.
Due strade: confutazione o dimostrazione.

Vedremo, soprattutto nell’occuparci della teoria della conoscenza, che la logica non è solo lo studio
della corretta inferenza che si può applicare a qualsiasi discorso che voglia dirsi «scientifico» e in
quanto tale adoperabile come strumento (organon) di tutte le scienze.
La logica è soprattutto scienza di per se stessa, cioè (come già detto sopra) scienza del linguaggio e
del pensiero, e, attraverso questi, delle realtà e delle loro relazioni, di cui essi sono segni.
Come vedremo nella seconda parte del corso, benché possa essere elaborata con una certa
autonomia, la logica nel suo primo significato, cui possiamo dare il nome di logica formale, è
fondata sulla logica nel suo secondo significato, cui possiamo dare il nome di logica filosofica.
La logica filosofica si occupa del rapporto che intercorre tra la mente, il linguaggio e la realtà.
Ovvero il rapporto tra il piano del pensiero, quello semantico e quello ontologico:

PAROLA

PENSIERO COSA

Piano LOGICO CONCETTO PROPOSIZIONE ARGOMENTAZIONE


Piano PSICOLOGICO APPRENSIONE GIUDIZIO RAGIONAMENTO

Divisione della logica


Il pensiero umano si articola intorno a tre operazioni fondamentali:
- la semplice apprensione, grazie alla quale concepiamo le nozioni e le idee (concetti);
- il giudizio, per cui mezzo componiamo fra loro i concetti (proposizioni);
- il ragionamento, con il quale uniamo i giudizi e otteniamo quindi nuove verità.

La logica si sviluppa di conseguenza in tre grandi parti:


 logica delle nozioni o concetti;
 logica del giudizio;
 logica del ragionamento.
La logica della scienza studia il modo in cui le tre operazioni della mente si organizzano nel sapere
sistematico - casuale, ossia il sapere scientifico.

La logica inoltre può essere formale o materiale:


- quella formale analizza, a prescindere dalla loro concretezza, le diverse forme assunte dalle
operazioni logiche; essa non prescinde totalmente dalla verità poiché tutte le leggi logiche, per
quanto astratte, sono sempre e universalmente vere.
- mentre quella materiale analizza invece le forme che trovano concretezza nella realtà; studio
riflesso sulla corrispondenza fra ordine logico e ordine ontologico - essa vuole chiarire l'essenza del
giudizio, dei ragionamenti, e delle diverse strutture conoscitive.

La logica formale ha bisogno della logica materiale, ossia della logica filosofica, per dare un
fondamento all'argomentazione, per approfondire certi problemi come il valore dei concetti
universali, la natura dell'astrazione, la relazione fra pensiero e linguaggio, ecc...
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LOGICA 2
IL CONCETTO

IL CONCETTO E L'ASTRAZIONE
Da dove si parte per intraprendere questo studio della logica?
Il primo elemento che esaminiamo si chiama concetto. Esso risulta dall’atto mentale chiamato
apprensione.
Il concetto, allora, è la prima operazione della mente, esso in termini logici può essere
chiamato anche apprensione. Si ottiene attraverso un atto della mente chiamato apprensio,
che mi permette di focalizzare e tenere presente un oggetto nella mia mente.
L’apprensione è l’atto col quale ho presente un oggetto, un certo contenuto, senza affermare nulla di
esso. Ad esempio cane, cielo nuvoloso, vizio. L’apprensione è un atto conoscitivo fondamentale a
cui corrisponde il concetto. La logica si occupa non dell’apprensione, ma del concetto, perché ad
essa interessa non l’attività psichica, (come detto sopra) ma i tipi di pensato che le corrispondono.
Interessa ciò cui termina l’attività conoscitiva elementare dell’apprensione.

Apprendere una cosa significa intenderla facendola intelligibile. Questa operazione fornisce la
mente di una nozione, di un contenuto. Questo contenuto, che deriva dall’apprensione, in quanto sta
nella mente si chiama concetto. In quanto sta nella cosa si chiama essenza.
Questo concetto deriva da un actus mentis. L'essenza deriva da un actus entis.
Quindi i concetti significano le essenze delle cose (ossia l'essenza non si dà senza il concetto), cioè
le proprietà intelligibili delle cose.

Per chiarire l'affermazione precedente potremmo esemplificare il rapporto in questo modo:


1. Percezione sensibile del cane Rex;
2. Elevazione a contenuto generale della sensazione e ritenzione di esso sotto forma di
concetto (pura apprensione [apprehensio simplex]);
3. Tale contenuto presente nel pensiero consiste in proprietà riferibili alle cose, cioè sono le
essenze possedute dalle cose, la loro natura, il quid (che cosa è?).
L'actus mentis fa sempre riferimento all'actus entis.
Pensiero - linguaggio - realtà: conoscenza triadica.

I concetti, dunque, non si identificano con l’essenza, ma la significano secondo un aspetto


determinato (come il concetto sta al significato, l'essenza sta alla cosa).
In che cosa consista l'essere del concetto (aspetto psicologico) è facilmente comprensibile, dato che
il CONCETTO sta nella mente, l’ESSENZA sta nelle cose.
Quanto invece al significare il concetto (aspetto logico), bisogna distinguere il significato, che è
reale, dal modo di significare, che appartiene alla natura del concetto come segno.
Mediante il concetto abbiamo una certa conoscenza delle cose che si manifesterà quando sapremo
riconoscere in alcuni individui (il cane Fido, il cane Argo, il cane Rex, il cane Billy…) i portatori di
tale natura o essenza, e adopereremo correttamente la parola per indicare tale essenza.

I concetti possono essere:


 CHIARI, quando significano l'essenza con precisione, anche se in modo imperfetto e
limitato (es. porta);
 IMPERFETTI, riflettono una realtà in modo adeguato, ma anche imperfetto, in quanto
questa realtà è molto più ricca (es. Dio);
 VAGHI, non permettono di giudicare con determinazione (es. aminoacido, iperbolico);
 FALSI, non perché contengono affermazioni false, ma perché si attribuiscono loro delle
caratteristiche che essi non hanno.

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I concetti si formano per astrazione a partire dalla loro conoscenza sensibile, nell'insieme dei dati
forniti dall'esperienza, l'intelligenza coglie gli aspetti intelligibili delle cose (cfr. libro).
L'astrazione può essere totale - se riguarda una natura universale, significando insieme tutto
l'individuo - astrazione che riguarda tutto l'ente (ad esempio uomo senza menzionare esplicitamente
le caratteristiche che l'uomo può avere)
L'astrazione può essere formale - se riguarda una natura universale senza l'individuo, come se essa
fosse una realtà separata dalla cosa concreta (es. umanità, santità).

Il concetto non va confuso con l’immagine; entrambi sono rappresentazione delle cose, ma:
- l’immagine rappresenta aspetti sensibili delle cose (l'immagine non è il concetto, essa ha a che
fare con gli aspetti psichici-sensoriali);
- il concetto rappresenta il "contenuto intellegibile" delle cose, ciò che ne esprime la natura, il quid,
o essenza.
Perciò gli animali possono immaginare le cose naturali nei loro aspetti sensibili, ma non le
pensano: sono incapaci di formarsi dei concetti, e proprio per questo non possono, in senso proprio,
parlare (la rappresentazione sensibile è comune a tutti gli animali - la rappresentazione concettuale
è propria degli uomini).

Le caratteristiche del concetto in generale:


 Estensione/comprensione
 Chiarezza/oscurità
 Termine Categorematico, sincategorematico

- L’estensione di un termine (concetto) è il numero dei soggetti dei quali esso è predicabile.
Risponde alla domanda: Di quanti soggetti si dice?
- La comprensione è l’insieme dei caratteri contenuti nel termine. Risponde alla domanda: Che
cosa si dice?
Estensione e comprensione sono tra loro inversamente proporzionali: quanto maggiore è l’una tanto
minore è l’altra. Per es. il termine “animale”, che è più esteso del termine “uomo” è meno
comprensivo.

Quanto alla comprensione il termine si può distinguere in:


a. Finito o (finitante), dice ciò che un oggetto è. Per es. “intelligente”.
b. Infinito o (Infinitante), dice ciò che un oggetto non è. Per es. “non intelligente”.
c. Negativo, per es. "Ivo è inintelligente".
d. Concreto, dice una cosa avente un certo carattere, significa una cosa unita a una sua
determinazione. Per es. “uomo” significa “l’essere umano”, “ciò che ha umanità”.
e. Astratto, dice (non nel senso generale secondo cui i concetti sono astratti) la determinazione
come staccata dalla cosa determinata. Per es. “umanità”, “bianchezza”.

Il concetto quanto a chiarezza può essere:


a. Proprio, se ottenuto direttamente dall’esperienza (rapporto "diretto" con la cosa).
b. Analogico, se ottenuto dall’esperienza diversa da quella di cui è concetto (se il concetto è
ricavato "indirettamente", ad es.: "l'orma sulla sabbia").
c. Chiaro, se basta a far "distinguere" una cosa dall’altra.
d. Oscuro, se non basta (per. es. il bambino che scambia una pecora per un cane).
e. Distinto, si dice di un concetto chiaro se contiene i caratteri essenziali (costitutivi) della cosa.
f. Confuso, se non li contiene (per es. il pastore ha un concetto chiaro della pecora ma confuso,
perché sa distinguerla da altre bestie, ma non sa quali sono i caratteri essenziali).
g. Completo (o incompleto), si dice di un concetto distinto se contiene tutti i caratteri essenziali
della cosa.
h. Apprensivo (o comprensivo) è un concetto considerato al massimo della sua adeguazione in
tutti i suoi aspetti e in tutti i legami con le altre cose dell’universo.
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Un tale concetto può esserci solo in un intelletto divino!

“Ugo” “bianco” “vola” sono termini.


In generale, nomi, verbi, avverbi, e aggettivi dotati di senso sono considerati termini.
Una frase, per es. “il tavolo è verde”, è composta di termini.
Esistono però anche altri termini, come gli articoli, le preposizioni, le congiunzioni… che non
hanno un senso in sé, ma solo nel contesto della frase: per es. “Ugo e Ivo sono fratelli".
Tali termini sono utili per modificare il senso della frase, come quando si utilizza la negazione
“non”: “Ivo non è italiano”.
 I termini categorematici (o semantici) sono quelli in sé dotati di senso.
 I termini sincategorematici (o sinsemantici) sono quelli non dotati di senso in sé, ma che
acquistano senso collegandosi con quelli che ne sono dotati, secondo le regole della sintassi del
linguaggio in uso.

IL LINGUAGGIO COME ESPRESSIONE DEL PENSIERO (cfr. testo)

IL SIGNIFICATO ANALOGO DEI CONCETTI


Il "CONCETTO" come termine della proposizione può essere:
a. univoco: dice la medesima cosa di tutti i soggetti dei quali si predica, senza varianti (per es. “Il
gatto è animale”, “Il topo è animale”, “Il lupo è animale”) - termini che significano qualcosa di
determinato, senza varianti;
b. equivoco: dice cose totalmente diverse dei diversi soggetti dei quali si predica (“cane” come
animale, come costellazione, come dispositivo della pistola, come espressione dispregiativa) -
termini con significati completamente diversi;
c. analogo: dice cose in parte uguali in parte diverse nei diversi soggetti dei quali si predica (uomo
“sano”, cibo “sano”, esercizio “sano”) - sono termini che hanno più significati in parte diversi, in
parte uguali.

La proprietà logica dell’ANALOGIA è molto importante dal punto di vista della conoscenza. Essa
mostra come certe caratteristiche sono possedute in modo diverso da diversi soggetti:
- un diverso modo di essere determina un diverso modo di significare.
- Trattando di un diverso modo di significare perché vi è un diverso modo di essere, la dottrina
dell’analogia riveste una particolare importanza anche per la metafisica generale.
Dal punto di vista della conoscenza il concetto analogico mostra la limitatezza della nostra mente,
in quanto esso è un modo che quest’ultima ha di adeguarsi agli oggetti significati (non possiamo far
coincidere la bontà di una mamma con la bontà di Dio, tra le due c'è una analogia).
Questa particolare attenzione richiesta nell’applicare i concetti alla realtà, comporta il
riconoscimento dell’analogia delle nozioni e della polivalenza di sensi di cui godono le nostre idee.
Non possiamo forzare la realtà adoperando per nozioni come “libertà”, “unità”, “vita”, “scienza”,
“storia”, “giustizia”, “numero”, una definizione univoca, che non troverebbe poi riscontro adeguato
nel reale.

I vari tipi di analogia che troviamo in Tommaso sono comunemente ridotti a due:
Analogia di attribuzione (o di proporzione), analogia di proporzionalità (da non confondere con
quella di proporzione).
 La prima (attribuzione) ha luogo quando uno stesso nome, ad es. “ente”, ha molti significati i
quali stanno tutti in rapporto con uno di essi (multorum ad unum). Questo è anteriore a tutti gli
altri, anzi ne è causa, perciò gli altri hanno un rapporto di dipendenza o di derivazione (per prius et
posterius), che indica proporzione o commensurabilità (in greco λòγος, in latino ratio).
Algebricamente: a/a, b/a, c/a, d/a, ecc., diverse grandezze tutte rapportabili a una (...).

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 La seconda (proporzionalità) si ha quando uno stesso termine ha molti significati, ciascuno
dei quali sta sempre nel medesimo rapporto con un altro nome, o termine, a cui pertanto viene ad
essere proporzionato come accade nelle proporzioni aritmetiche, dove numeri o grandezze diverse
stanno sempre nello stesso rapporto con numeri o grandezze ad essi commensurabili. L’identità del
rapporto giustifica l’espressione “proporzionalità” (identitas proportionis o, kantianamente, paritas
rationis). Ciò è esprimibile con la formula: a/b = c/d = e/f = g/h, ecc.; diverse grandezze ciascuna
rapportabile ad un’altra secondo un rapporto che è sempre lo stesso, ma senza che siano
commensurabili tra loro (comunanza di rapporti, non di modelli).

I PREDICABILI, MODALITÀ LOGICHE DEGLI UNIVERSALI


Il concetto quando è considerato come termine in senso stretto, ossia nella funzione che ha nella
proposizione, prende il nome di termine.
 Soggetto è il termine "di cui" si dice qualche cosa;
 Predicato è il termine "che" dice qualche cosa.
Il predicato, come abbiamo già visto a proposito del concetto, può essere univoco, equivoco,
analogo.

Categorie (o predicamenti) sono i supremi generi dei predicati che si possono attribuire alle cose
(generi supremi della realtà), rispondono alla domanda:
- qual è il genere supremo a cui appartiene il predicato “animale”? Sostanza
- qual è il genere supremo a cui appartiene il predicato “biondo”? Qualità
- qual è il genere supremo a cui appartiene il predicato “padre di Ivo”? Relazione
- qual è il genere supremo a cui appartiene il predicato “alto 170 cm”? Quantità
- e così via: Azione, Passione, Tempo, Luogo, Situs, Habitus.
(In Kant le categorie sono 12).
Essi sono supremi predicati, non supremi generi dell’essere (sono generi di predicati). Perciò non si
possono dedurre da un principio unico, dall’intelletto puro inteso come formatore dell’oggetto
dell’esperienza (Kant).
Le categorie provengono dall’esperienza (non a priori come dice Kant), ossia «per induzione». Su
ciò torneremo trattando delle varie teorie della conoscenza. Le categorie sono strutture
trascendentali ma sono parte di quella facoltà dell'uomo che si chiama astrazione.

Categoremi (o predicabili) sono i modi in cui un predicato si predica di un soggetto. Risponde alla
domanda: “In che modo si predica animale di Ivo?" (non più l'attenzione al genere di predicato).
I predicabili si dividono in "essenziali" (ossia il contenuto proprio dell'essenza [genere - specie -
differenza specifica]) ed "accidentali" (ossia fuori dal contenuto proprio dell'essenza [proprietà -
accidente logico]).
 Genere, esprime tutta l’essenza presa indeterminatamente - il predicabile che indica una parte
dell'essenza comune ad altre specie (“animale”, "vivente", "vegetale").
 Specie, esprime l’essenza in modo completo includendo soggetti che differiscono solo
numericamente - il predicabile che significa l'essenza completa dell'individuo (“uomo”, "cavallo").
 Differenza specifica, esprime tutta l’essenza nell’aspetto che la determina - è il predicabile che
significa la caratteristica propria della specie, che la distingue dalle altre (“razionale”, "la vita
sensitiva").

 Proprietà o "proprium", esprime ciò che compete agli individui di una specie, soltanto ad essi
e sempre - è il predicabile che indica qualcosa non appartenente all'essenza, ma che da essa deriva
necessariamente (“avvocato”, "l'uomo è capace di ridere", proprietà dell'uomo è il "linguaggio", la
"socialità"...).
 Accidente, esprime un carattere non necessariamente connesso con l’essenza - è il predicabile
che indica la caratteristica di un soggetto, non risultante necessariamente dall'essenza (“bianco”,
"essere sportivo").

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Se consideriamo il termine come soggetto, la proprietà più importante è quella della supposizione
(suppositio - ossia ciò che sta al posto di).
Per sapere cos’è la supposizione possiamo chiederci, quali soggetti rappresenta, di quali oggetti
tiene il luogo quel termine? (Quando parliamo, infatti, abbiamo davanti non le cose stesse, ma
termini che stanno al posto delle cose).
Un soggetto ha un riferimento (Significato, Bedeutung [cfr. Gottlob Frege - logico dell'800],
Denotation) a qualcosa mediante un’espressione (Senso, Sinn, Connotazione). Per es. “la stella del
mattino” e “la stella della sera” hanno lo stesso riferimento o significato, cioè Venere, ma
espressione o senso diverso.
Ovviamente non posso rispondere alla precedente domanda se non considero il termine del soggetto
legato a quello del predicato o ad altri, cioè al fatto che il soggetto sta in una proposizione.
Per es. “Ogni uomo qui è felice” ha una supposizione diversa da quella di “Ogni uomo è felice”,
perché il termine "qui" restringe la supposizione del soggetto uomo. Oppure: “L’uomo mieteva il
grano” e “L’uomo è una specie del genere animale”, hanno una supposizione diversa perché nella
prima “uomo” può essere Ivo, mio amico, mentre nella seconda, Ivo non può essere una specie del
genere animale. Nella prima il soggetto significa, sta in luogo di, un certo individuo umano, nella
seconda sta in luogo di un concetto, e un concetto non può essere… amico!

DIVISIONE E OPPOSIZIONE DEI CONCETTI


Le relazioni tra generi, specie e differenze danno luogo a due operazioni complementari, che
appartengono alla semplice apprensione e ne rappresentano il coronamento: la definizione, per la
quale determiniamo o circoscriviamo la specie, e la divisione, per cui mezzo un concetto si
scompone nelle sue specie inferiori.

Non basta avere concetti, bisogna che essi siano intelligibili e perspicui (efficaci, chiari).
Ma come si passa da concetti più rozzi e primitivi a concetti precisi e determinati?
Mediante la definizione e la divisione: la prima circoscrive la specie (composizione), la seconda
scompone la specie nelle sue parti inferiori (scomposizione). La definizione traccia un confine,
colloca nei limiti, conferisce le specificità, mentre la divisione scompone nelle sottospecie.
Queste operazione rendono dinamici i categoremi (generi, specie, differenza, proprietà, accidente),
consentendoci di precisare il più possibile una nozione approssimativa, che riteniamo suscettibile di
maggiore esattezza e rigore.

La DEFINIZIONE esprime l’essenza (la specificità, ciò che aiuta a distinguere) di una cosa
(specie) attraverso il genere prossimo e la differenza specifica. Risponde alla domanda: “che
cos’è?”, il quid (il quid ci resta oscuro ma non per questo non sappiamo nulla).
Alla definizione si arriva mediante l’osservazione, rilevando le somiglianze e le differenze tra gli
individui, evidenziati dai generi e le specie.
Ovviamente non si possono definire né gli individui in quanto tali, né i predicamenti (o categorie). I
primi (gli individui) sono indefinibili (possono essere definiti solo riguardo alla loro specie), perché
mancano di differenza specifica. I secondi (i predicamenti) perché non possono essere inclusi in un
genere superiore, benché ne possiamo comprendere il significato e descriverli in qualche modo.
Non posso definire né il particolare (l'individuo) né l'universale (le categorie) ma ciò che sta in
mezzo.

La definizione può essere: Nominale e reale.


- Nel primo caso spiega solo il significato del nome sostituendo ad una parola un’altra con
significato equivalente. Per es. “il tachimetro è il misuratore di velocità”;
- nel secondo caso spiega cosa sia l’oggetto significato dal nome ed è essenziale quando definisce
ciò che costituisce il definito nella sua essenza: il genere prossimo e la differenza specifica.
Vi sono anche modi più estrinseci di definizione che aiutano nella precisione, ma non nella
individuazione dell’essenza. Abbiamo già visto la definizione nominale che, ad es., dice: “la balena
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è un cetaceo marino”. Tale definizione pur essendo utile non tocca le istanze conoscitive del
filosofo e dello scienziato, in tal caso la definizione si ridurrebbe a una questione verbale, perché
l’uso dei termini è convenzionale.
Altre definizioni di questo tipo sono: descrittiva, genetica e causale.
 descrittiva: quando si riferisce alle proprietà più importanti o alle parti costitutive di qualcosa -
“La massa è il rapporto tra il volume e la densità”, "l'acqua è una sostanza incolore, inodore,
insapore;
 genetica: nella quale si definisce una cosa secondo il modo in cui viene prodotta - “Il bronzo è
una lega di rame, zinco e stagno” (nel senso che il bronzo deriva da...);
 causale: quando qualcosa viene definito attraverso la sua causa efficiente o finale - “L’Eneide è
un poema scritto da Virgilio”.

Come dev’essere allora una buona definizione? Qualità della definizione


Una definizione corretta, oltre che chiara, deve essere:
a. Precisa: non approssimativa, né generica: più chiara del definito, se no è inutile. Non è preciso
definire il lavoro agricolo “mettersi in relazione con la natura”;
b. Propria: che non confonda il definito con una sua specie - deve essere convertibile col definito,
perciò non deve contenere una sua specie come, ad esempio, per il triangolo “figura di tre lati
uguali”, e per l’automobile “una FIAT”, oppure un suo genere come nel caso dell’automobile
“una macchina”;
c. Breve: se lunga richiederebbe per le sue parti altre definizioni;
d. Non circolare: il definito non deve entrare nella definizione come per es. “la giustizia è la virtù
che ci fa essere giusti”, "la pace è assenza di guerra" (non ci dice più di tanto, si rimanda
all'inizio in maniera circolare...);
e. Positiva: possibilmente non deve utilizzare termini negativi, per esempio per il triangolo
equilatero: “quello che non è né isoscele, né scaleno”.

Anche la DIVISIONE serve a rendere più chiari e distinti i concetti. Mira a distinguere le varie
parti di un oggetto o i vari significati di un termine. Essa è l’operazione logica per la quale si
distinguono le varie specie di un genere, cioè di un tutto distribuito nelle sue parti.
Si può chiamare anche, nell’ambito delle scienze, "classificazione" (tassonomia). Può essere:
a. Nominale, se distingue i vari significati di un termine;
b. Reale, se distingue le varie parti di un oggetto.

La divisione si basa su un "criterio" o "fondamento" che rispecchia il genere che si vuole dividere,
sia quanto alla sua natura (sostanza - animale intelligente e animale non intelligente), sia quanto ai
suoi accidenti (animale bianco e animale bruno).
Il criterio della divisione deve restare "costante", coerente (non posso dividere gli uomini in europei
e pescatori).
La divisione deve essere "completa", deve cioè contenere tutte le parti che esauriscono l’intero (del
concetto) diviso senza escluderne alcuna dal tutto. Naturalmente ogni parte enumerata deve essere
minore del tutto (dire: “l’animale può essere intelligente o sensitivo” è sbagliato perché tutti gli
animali, anche quelli intelligenti, sono sensitivi).
La divisione deve essere "dicotomica", deve contenere una certa opposizione tra le sue parti, per
distinguere meglio le sue parti (per es. animali vertebrati e invertebrati, essere spirituale e materiale,
mortale e immortale). La dicotomia produce divisione completa del concetto, ma può essere
artificiosa, non aderente alla natura del medesimo.

L’opposizione tra concetti


Mentre ci sono concetti che ne includono altri, per meglio comprenderli, ce ne sono di quelli che
significano aspetti reali reciprocamente escludentesi. In logica questa incompatibilità si chiama
opposizione.
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I concetti opposti, dunque, sono quelli significanti attributi che non possono inerire insieme ad uno
stesso soggetto (non posso dire “volatile” e insieme “quadrupede” di un animale).
Abbiamo quattro tipi di opposizione:
a. Contraddittoria
b. Privativa
c. fra Contrari
d. Relativa

 L’opposizione contraddittoria fra due concetti si verifica quando l’uno è la totale opposizione
dell’altro, quando l’uno esprime un modo d’essere che l’altro nega (animale/non-animale,
vivente/non-vivente). Ovviamente, l’estremo negativo dei contraddittori può essere soltanto un ente
di ragione.
 L’opposizione privativa denota una mancanza di una caratteristica che un soggetto è capace di
possedere. Ad es. bene/male, verità/falsità, vista/cecità, scienza/ignoranza, ecc. Non si tratta di una
negazione pura, ma di una negazione di una caratteristica dovuta ad un soggetto.
 L’opposizione fra contrari si presenta tra forme estreme dello stesso genere, poiché ciascuna di
esse implica una perfezione. Nel genere della temperatura, per esempio, freddo e caldo; nel genere
del colore: giallo e azzurro; nel genere dello spazio, grande e piccolo, ecc. A differenza della
contraddizione e della privazione, i contrari ammettono gradi intermedi di intensità, che possono
determinare gradi diversi di perfezione o agli estremi oppure nel grado intermedio, come in certe
virtù.
 L’opposizione relativa ha luogo tra due concetti che ad un tempo si escludono e si implicano,
per es. “padre” si oppone “figlio”, ma l’essere padre implica necessariamente una relazione al figlio
(non c’è padre senza figlio e viceversa). Lo stesso dicasi per l’opposizione relativa “destra” e
“sinistra”. Sono relativi due concetti positivi auto-escludentesi e insieme autoimplicantisi, in quanto
dipendono l'uno dall'altro.

LOGICA 3
LA PROPOSIZIONE

LA PROPOSIZIONE IN GENERALE
L'enunciazione o proposizione è il termine logico del giudizio.
Un concetto resta sospeso se non lo inseriamo in una frase di senso compiuto, appunto una
proposizione. I concetti sono imperfetti perché la mente umana non può cogliere con un solo atto di
apprensione tutte le perfezioni di un soggetto. Interviene il giudizio col quale la mente compone i
concetti, attribuendo una proprietà a un soggetto (mediante il verbo "essere").
Per es. la differenza tra il concetto “uomo buono” e la proposizione “l’uomo è buono” deriva dal
fatto che è quest’ultima che, nel comporre in atto il soggetto col predicato, rende possibile al
soggetto di possedere il suo attributo. La proposizione si ha quando la definizione è attribuita al
definito.
Non ogni frase è l’espressione di un giudizio (per essere precisi il termine "frase" non si usa in
logica). Talora noi esprimiamo preghiere, comandi, desideri, esclamazioni, ecc. (“Ascoltaci o
Signore!”, “Portami il breviario”, “Volesse il cielo che i corruttori andassero in galera”, “Chi lo
sa?”, “Alleluia!”, “Chi ha scritto l’Eneide?”, “Si prega di non entrare senza bussare”, “Non ne posso
più!”). Sono espressioni dotate di significato, si chiamano discorsi semantici, frasi (orationes), ma
non enunciazioni. Non ha senso attribuire loro un valore di verità.
L’enunciazione è la specie particolare di frase di cui si occupa la logica; si chiama discorso
apofantico, o oratio perfecta. Nei manuali di logica formale si chiamano asserzioni o enunciati
dichiarativi del tipo: “Le foche non volano”, “La neve è verde”, “Il mio vicino di casa è pescatore”.

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La caratteristica principale dei discorsi apofantici, cioè dell’enunciazione dichiarativa, dunque, è
quella di essere vera o falsa.
 “Vero” si dice dell’enunciato quando unisce ciò che è unito o disunisce ciò che è disunito. Per es.
“L’aquila è dotata di artigli”, "Il pinguino non vola".
 “Falso” si dice dell’enunciato quando unisce ciò che è diviso o divide ciò che è unito. Per es. “Il
Papa attuale porta la barba”, “A Riccardo Muti non piace la musica”.
Come si nota dagli esempi, si può dire la verità o la falsità ugualmente negando o affermando.

- Una prima proprietà dell’enunciato dichiarativo consiste nel comporre o dividere a seconda che
le cose siano realtà composte o divise tra loro. L’enunciato esprime un "vincolo" tra quegli aspetti
riflessi dai concetti mediante un verbo (il concetto sta nella mente - apprensio; l'enunciato sta nella
realtà - esperienza).
Abbiamo il concetto di “rosa” e quello di “bianco” che nel giudizio sono uniti nell’espressione “La
rosa è bianca” o “La rosa non è bianca”.
Ovviamente l’enunciato può riferirsi a qualcosa di reale oppure soltanto a concetti e non intendere
corrispondente a una connessione reale (“La Fenice risorge dalle sue ceneri” - suppositio
FORMALE - è vera nella mente; "La Fenice è il teatro che si trova a Venezia - suppositio REALE -
è vera nella realtà).
- Una seconda proprietà dell’enunciato dichiarativo sta nel fatto che esso afferma che qualcosa è o
non è. Esso intende dichiarare che la relazione tra due concetti, per es. “il vate” (il poeta) e “il
piangere” si sta producendo in atto: “Il vate piange”.
È evidente che l’apprensione e il concetto sono ordinati al giudizio e questo all’enunciato
dichiarativo, i quali rappresentano la conoscenza intellettuale. Si passa da una fase potenziale
dell’apprensione a quella attuale dell’enunciato.

Gli elementi dell’enunciazione sono: soggetto e predicato.


 Il soggetto è ciò "di" cui si parla, è l’elemento determinabile (ossia da chiarire ulteriormente) -
l'elemento che riceve l'attribuzione.
 Il predicato è ciò "che" si dice di un soggetto, è l’elemento determinatore - ciò che si attribuisce
al soggetto.

In ogni proposizione vi è una predicazione. Per predicazione si intende l’attribuzione di un


predicato ad un soggetto. La predicazione suppone quindi una "identità" fra soggetto e predicato. É
l'identità che rende possibile la determinabilità di un soggetto da parte del predicato. Per esempio,
dire che l’uomo è animale significa riconoscere che la realtà significata dal concetto “uomo” è
quella stessa che è significata dal concetto “animale”.
A = B identità, perché B mi dice qualcosa di A,
ma B non è A, è un aspetto di A, gli aggiunge qualcosa.

Nell’enunciazione si distingue la forma e la materia:


 Materia dell’enunciazione sono i termini di cui è costituita, soggetto e predicato;
 Forma è il nesso fra i termini.
Il nesso è costituito dal verbo (non da intendere solo in senso grammaticale ma come elemento
temporale della proposizione - cioè l'attuazione nel tempo della predicazione). Ad es.: "Io sono" -
questo io entra nel tempo e si attua; il verbo fa sì che il soggetto si attui nel tempo.
Il verbo indica il convenire del predicato al soggetto. Per esempio: “la mela è rossa” indica l’inerire
del rosso alla mela. A volte il predicato può essere lo stesso verbo. Per esempio: “il gabbiano vola”.
La funzione verbale consente il comporsi in atto di un attributo con un soggetto; il verbo significa
l'inerire stesso, l’attuazione dell’atto attribuito, l’attuarsi di una proprietà.
Questa funzione è svolta dal verbo “essere” secondo lo schema copula essere-proprietà. Per
esempio: “L’uva è bianca”.

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Questo schema può sostituire teoricamente ogni verbo. Ad esempio: “Il cavallo corre” può stare per
“Il cavallo è corrente”. Ovviamente, questa conversione non si potrebbe fare con: “La mela diventa
rossa”, perché si renderebbe con l’improbabile: “La mela è ‘rossante’”.
Il verbo "essere" svolge, dunque:
- una funzione grammaticale come "copula", cioè legame tra soggetto e predicato: “è”.
- una funzione logica, cioè la composizione, da parte della mente, di un soggetto e un concetto
predicato.
- una funzione reale, cioè l’inerenza attuale di una proprietà a un soggetto, il verbo “essere” in
questa terza funzione è alla base della composizione logico-grammaticale.

CLASSI DI PROPOSIZIONE
Dall’estensione del soggetto dipende la quantità dell’enunciato che può essere:
 Universale, quando il predicato è attribuito (o negato) a tutti gli enti ai quali si estende la
nozione che esprime il soggetto: per es. “Ogni uomo è mio fratello”, oppure “Nessun pinguino vive
al Polo Nord”.
 Particolare, quando il predicato è attribuito (o negato) ad alcuni soltanto degli enti ai quali si
estende la nozione che esprime il soggetto: per es. “Alcuni preti sono teologi”, oppure “Alcuni
cittadini non votano”.
 Singolare, quando il predicato è attribuito (o negato) a un solo individuo: per es. “Lionel Andrés
Messi è Pallone d’Oro”, oppure “la regina Elisabetta II del Regno Unito non ha la patente” (in
ambito logico il singolare rientra nel particolare).
 Indefinito, quando il predicato è attribuito (o negato) al soggetto, senza che si precisi a quanti
enti ai quali si estende la nozione che esprime il soggetto vada attribuito quel predicato: per es.
“L’aereo vola”, “il devoto prega” (in ambito logico l'indefinito può essere assimilato
all'universale).

I medievali, per comodità di calcolo, indicheranno i tipi fondamentali di proposizione secondo la


qualità e la quantità con le seguenti quattro lettere tratte dalle parole latine adfirmo e nego:
A = universale affermativa
I = particolare affermativa
E = universale negativa
O = particolare negativa

Ecco il "Quadrato Logico":

QUALITÁ
Affermativa Negativa
Universale A E
QUANTITÁ
Particolare I O

L’enunciazione può essere semplice o composta.


a. La semplice, o atomica (categorica), consta solo di soggetto e di predicato ed esprime quindi una
sola affermazione o negazione (di conseguenza abbiamo due tipi di proposizione: affermative e
negative): per es. “Il rettore è juventino” - la proposizione che si limita ad attribuire o a negare un
predicato a un soggetto.
b. La composta, o molecolare, consta di più proposizioni semplici unite insieme: per es. “Prego e
studio”, “Se studio sono felice”, “O prego o dormo”.

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L’enunciazione composta si divide in:
a. Copulativa (degli esempi sopra è la prima).
b. Disgiuntiva (la terza)
c. Condizionale o ipotetica (la seconda)

 La proposizione copulativa è quella in cui due affermazioni o due negazioni sono poste insieme,
questo tipo di proposizione composta si costruisce con la congiunzione "e" che deve significare
qualche nesso di unione fra le frasi. Per es.: “La Terra si muove e il Sole sta fermo”, "Piove e
tuona", oppure “Né la Terra sta ferma né il Sole si muove”. È vera se entrambe le parti di cui è
composta sono vere.
S e P
V V V
V F F
F F V
F F F

 La proposizione disgiuntiva esprime una contrapposizione, un’alternativa o un'esclusione, infatti


si costruisce con la congiunzione "o". Per es.: “O Pio si cura o morirà”. Una parte esclude ciò che
l’altra pone. È vera se le due parti non possono avverarsi o non avverarsi insieme, è falsa se le due
parti possono avverarsi o non avverarsi insieme.

S o P
V F V
V V F
F V V
F F F

 La proposizione condizionale o ipotetica enuncia che una cosa è o non è, se un’altra è o non è.
Esprime un nesso fra una condizione (antecedente) e un condizionato (conseguente). Per es.: “Se
Pio è di Bari, allora è pugliese” consta della condizione “Se Pio è di Bari” e del condizionato “allora
è pugliese” e risulta vera non dalla verità di essi singolarmente presi, ma dalla verità del nesso fra
loro. Se dicessi che è falso il condizionale “Pio è di Bari” (cioè Pio non è di Bari ma di Leuca), e
vero il condizionato “allora è pugliese”, la proposizione ipotetica risulterebbe comunque vera.
Perché risponderebbe al criterio secondo cui la proposizione ipotetica è sempre vera tranne quando
il condizionale è vero e il condizionato è falso.

S P
V V V
V F F
F V F
F V V

Due proposizioni sono tra loro opposte quando, avendo il medesimo soggetto e il medesimo
predicato si escludono fra loro.
L’opposizione può essere:
a. Contraddittorie (A e O; I ed E): l’una nega l’altra (per questo non ammettono gradi intermedi),
non possono essere entrambe vere né entrambe false, se l’una è vera, l’altra è falsa.
b. Contrarie (A ed E): non possono essere entrambe vere, ma possono essere entrambe false
(poiché ammettono gradi intermedi).
c. Subcontraria (I e O): possono essere entrambe vere, non possono essere entrambe false.
d. Subalterne (A e I; E e O): se l'universale è vera lo è anche la particolare, ma non viceversa; e se
la particolare è falsa lo è anche l'universale.
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Ecco lo schema dei tipi di opposizione:

A Tutti i fiori Nessun fiore E


profumano Contrarie profuma

Subalterne Contraddittorie Subalterne

I Qualche fiore Subcontrarie Qualche fiore O


profuma non profuma

LA VERITÁ DEI GIUDIZI


Il concetto prescinde dall’esistenza, ma il giudizio l’afferma proprio in quanto compone la natura
con il soggetto concreto.
Ciò detto si rilevano due lati del legame posto dal giudizio, due aspetti del problema:
1. Il valore esistenziale della proposizione: non ogni giudizio implica l’affermazione dell’esistenza
del soggetto, infatti se le proposizioni si riferiscono all'universale metafisico come tale, non
implicano un'affermazione di esistenza (per es.: “Essere generosi è lodevole” non dice se qualcuno
sia generoso), mentre i giudizi, che contengono una suppositio reale affermano l'esistenza (“Venere
è luminosa”, presuppone l’esistenza attuale di Venere).
2. Giudizio d’esistenza: è contenuto in quei giudizi che affermano che qualcosa è, o esiste.
Si può affermare l’esistenza in tre modi (abbiamo tre significati):
a. realtà: ciò che è opposto all’essere che sta solo nella mente (cioè ciò che non sta solo nella
mente come per es. il triangolo);
b. attualità: ciò che è contrapposto a possibilità;
c. attualità positiva: realtà e attualità si fondano non sulla negazione dell’essere mentale o
possibile ma su qualcosa di “positivo” che si possiede non a modo di proprietà – l’esistere
viene prima di ogni proprietà – ma come costitutivamente, che rende attuale, cioè rende
esistente un ente, un individuo. È atto di una natura (actus essendi) che ci consente di dire che
qualcosa è individualmente o in quanto è, può agire (esistenza di individui / la realtà si
realizza nell'individuo).

Noi percepiamo l’esistente o come vissuto (leben - vivere / erleben - coscienza di ciò che si vive -
vissuto) o come sperimentato sensibilmente (deriva, cioè, dall'esperienza sensibile). Si può dire che
ci sono due forme di conoscenza: esperienza (esterna) e vissuto (interna). Questi due contenuti sono
"distinti" perché hanno due derivazioni diverse ma sono anche da conciliare...
Quando vogliamo chiarire che cosa esso sia adoperiamo concetti astratti. Tali concetti che
esprimiamo sulla realtà percepita vanno controllati onde stabilire se corrispondono veramente a ciò
che percepiamo1.
1
cfr. Heidegger - caratteristiche dell'ente.
"L'essere lo conosciamo attraverso gli enti".
- "Die sorge" [la cura] che è l’infuturamento del presente. Gli esseri umani si prendono cura, ciò in previsione del
futuro; si prepara il futuro.
- "Dasein" [esserci] la caratteristica di questo essere è l'esserci, ossia non abbiamo deciso noi, e questo esserci è
caratterizzato dalla cura.
- "Possibilità" o "probabilità", ossia un'altra caratteristica del dasein è l'essere per la morte.
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L’atto col quale diciamo: sì, le cose stanno così, è il giudizio.
Ma il giudizio sulla realtà è possibile perché partiamo da una percezione della realtà esistente,
quindi la conoscenza dell’esistente concreto è anteriore (logicamente) al giudizio.

Nella percezione della realtà esistente è implicito il giudizio di esistenza. Nessuno, infatti, mentre
prende il sole in spiaggia dice: esiste il Sole, oppure mentre fa le sue abluzioni: io esisto.
Il giudizio di esistenza si pronuncia su realtà la cui esistenza, non cadendo nella nostra esperienza, è
solo dimostrata. Parto dall’esperienza di certi fenomeni e dimostro l’esistenza di qualcosa che ne è
causa.
Per esempio: percepisco che i corpi cadono e dico che esiste la forza di gravità, oppure percepisco
delle alterazioni cutanee e dico che esistono i raggi ultravioletti, o ancora, percepisco il molteplice
fenomenico è dico che esiste Dio, e infine, vedo un cadavere pugnalato alla schiena e dico che
esiste un assassino.
Non sentiamo l’esistenza in astratto, ma la sentiamo come esistente nell’ente concreto, ossia come
qualcosa che è. Noi abbiamo la facoltà di scoprire l’essere delle cose, come abbiamo la facoltà di
scoprire i colori, la luminosità, la forma, ecc.

Quando un giudizio si dice vero?


Diciamo che un giudizio è vero quando afferma che è ciò che è, e che non è ciò che non è.
Quando afferma ciò che va affermato e quando nega ciò che va negato. Per esempio sono veri i
seguenti giudizi: X=Y, Z≠Y, A, ¬B (¬ significa "non" quindi: non B).
Questa definizione di verità esprime un aspetto logico, cioè formale di verità ed esprime una
proprietà dell’intelligenza. Ma della verità possiamo domandarci anche un aspetto gnoseologico o
filosofico. La domanda “quando un giudizio è vero” significa anche che cosa rende un giudizio tale
per cui affermo quando ha da essere affermato e nego quando ha da essere negato? Questa verità
esprime una proprietà dell’essere delle cose.
La verità della mente dipende dall'essere delle cose, dalla verità ontologica.
Se dico: “Il Sole splende di luce propria”, “La Luna non splende di luce propria”, esprimo un
aspetto della realtà che la mia mente rileva (ci sono due piani della verità: "formale" e "di
contenuto").
In tal caso il giudizio è vero poiché esprime l’adeguazione o la conformità della mente alle cose
(adaeguatio intellectus ad rem); è invece erroneo quando contraddice l’essere delle cose, le quali
evidentemente non possono essere ciò che non sono (o non essere ciò che non sono).
Di conseguenza, la falsità non si può dare nelle cose, ma soltanto in chi sbaglia, nella mente di chi
compie l’errore; il falso, dunque, è un ente di ragione.

Il valore di verità delle proposizioni si basa sul principio di non-contraddizione: "É impossibile
che qualcosa sia e non sia insieme e nello stesso senso". Esso è una legge dell’ente e di
conseguenza è anche una legge logica fondamentale. Se la realtà potesse essere e non essere, una
verità qualunque potrebbe essere insieme vera e falsa, il che è assolutamente impossibile.
Sul piano logico questo principio si può esprimere così: “É impossibile che due proposizioni
contraddittorie siano insieme vere e false”, che è come dire: "É impossibile che uno stesso attributo
appartenga e non appartenga insieme e nello stesso senso allo stesso soggetto".
Se so che la proposizione p è vera, non posso non concludere che non-p è falsa. Se negassi questa
regola distruggerei ogni verità.

Il giudizio è vero o falso nella misura in cui si riferisce alla realtà.


L’enunciato “questa sedia è bianca” non è né vero né falso finché non si sappia a quale sedia ci si
riferisce.
Sul piano formale una proposizione è vera indipendentemente dal riferimento: “Ivo è vivo o è
morto”. É una proposizione sempre vera, è una tautologia (ossia una proposizione che non ha
bisogno di essere evidenziata in quanto è autoevidente).
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La logica classica è dunque una logica bivalente: vero/falso, basata sul principio di non-
contraddizione e su quello del terzo escluso.

Alcune eccezioni:
Quando la proposizione non si può riferire alla realtà si sospende il valore di vero/falso, ma ciò non
compromette il principio di non-contraddizione. Questo caso riguarda gli enunciati di futuro
contingente, per esempio: “Il cardinale Ravasi sarà eletto papa”. Le proposizioni di futuro
contingente non sono né vere né false fintanto che non se ne possa affermare la corrispondenza alla
realtà.
Per Dio, che conosce il futuro dall’eternità e non temporalmente, questi giudizi sono veri o falsi!

Si possono dare casi in cui il riferimento alla realtà risulta approssimativo (Giudizi il cui predicato
ammette un più o meno), ammette un più e un meno, per esempio: “Don Pio è diligente”, a seconda
del contesto può essere un po’, abbastanza o molto. In tal caso l’enunciato è vero in senso
approssimativo, sebbene la verità in senso proprio non ammetta gradi.
Quando si dice che qualcosa è vero per alcuni e non per altri, è perché il predicato di un enunciato è
relativo (la verità dei giudizi relativi), cioè indica una relazione di movimento, posizione, distanze,
tempi, circostanze, e non certo perché una stessa proposizione sia nello stesso tempo vera e falsa.
Ciò violerebbe il principio di non-contraddizione. Per esempio, la proposizione “La Terra è
immobile” è vera rispetto alla Luna ma non rispetto al Sole.
Un altro caso speciale di giudizi di verità sono dati dalle proposizioni (verità) necessarie e
immutabili, le quali enunciano una proprietà essenziale inerente a una materia, per cui il predicato
deve essere attribuito al soggetto (la proprietà di un ente geometrico, di ragione), oppure affermano
la necessità di qualcosa quando si compie il suo atto d'essere (“Napoleone è morto il 5 maggio
1821”, “Il mondo deriva da Dio”, “L’uomo è dotato di un’anima individuale”) - Ogni verità è in un
certo senso necessaria, dato che qualcosa non può essere e non essere insieme, perciò i fatti passati
una volta realizzatisi sono necessari in quanto ciò che è stato non può non essere.

Quando si apprende la realtà si è nella verità, ma non si conosce ancora la verità, cioè non si
esprime ancora il rapporto di adeguazione alla realtà; non sempre chi conosce sa di adeguarsi alla
realtà.
Quindi per conoscere la verità bisogna conoscere la conformità tra l’intelligenza e il reale.
Ma allora bisogna prima riflettere sull’atto conoscitivo per sapere se esso è o no conforme alla
realtà. Ciò significherebbe porre l’autocoscienza a fondamento di ogni conoscenza. Solo una
preliminare riflessione sulla nostra facoltà conoscitiva consentirebbe la conoscenza?

Cfr. ARTICOLO DI TARSKI: "IL CONCETTO DI VERITÁ" (dal libro)

LOGICA 4
L'ARGOMENTAZIONE

L'argomentazione è il termine logico della terza operazione dello spirito: il ragionamento. Questo
è un movimento della mente per il quale passiamo da diversi giudizi all'elaborazione di un nuovo
giudizio, che segue necessariamente da quelli precedenti.
Il ragionamento ci consente di passare da una proposizione nota ad un’altra. Esso è finalizzato a
giustificare una certa tesi contenuta in una premessa. Implica un movimento, un discursus, da una
conoscenza ad un’altra, secondo un nesso di antecedente e conseguente.

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All’argomentazione compete di essere corretta. Quando essa è conforme alle regole, cioè rispetta
le regole del processo inferenziale, cioè il procedimento per cui si passa da date premesse a una
certa conclusione, allora è buona e valida o, appunto, corretta.
Le condizioni in base alle quali si deve ritenere che la proposizione A implichi la proposizione B,
equivalgono a mostrare che non si può contemporaneamente “pensare” legittimamente A e la
negazione di B. In tal caso deduciamo B da A o dimostriamo che B è implicato in A.
(Questa potrebbe chiamarsi logica estensionale, logica che fa dipendere la validità di
un'argomentazione al valore di verità delle proposizioni che la compongono).

L’argomentazione è basata sul valore di verità (o falsità) degli enunciati (verità per se notae).
L’inferenza (illatio) è basata sul valore di correttezza (o scorrettezza) dell’argomentazione, che
consente di passare da un enunciato all’altro (verità per aliud notae - conosciute per mezzo di altre).
Possiamo avere allora (regole del ragionamento):
 Premesse vere e inferenze valide.
 Premesse false e inferenze valide.
 Premesse vere e inferenze invalide.
 Premesse false e inferenze invalide.
Solo nel primo caso il ragionamento è giusto; negli altri casi il ragionamento è errato.
Facciamo degli esempi:
 “A implica B, ma A, quindi B”; “Se sono a Bari sono in Puglia, ma sono a Bari, allora sono
in Puglia”. (premessa vera, inferenza valida).
 “La ricchezza rende felici, Ivo è ricco, allora Ivo è felice” (premessa falsa, inferenza valida).
 “Poiché in Italia è in vigore dal 1970 la legge sul divorzio, aumenta il numero dei matrimoni
che falliscono”; “Se sono a Trani, allora sono in Puglia. Sono in Puglia, perciò sono a Trani”
(premessa vera, inferenza invalida; fallacia "dell’affermazione del conseguente").
 “La religione porta all’idolatria, i tuoi amici tranesi sono religiosi, allora i tranesi sono
idolatrici”; “la cicuta è purgante, la cicuta è una radice, le radici sono purganti” (premessa
falsa, inferenza invalida).

Come si vede dagli esempi proposti, i ragionamenti costituiscono i mezzi che consentono di
rimanere nell’ambito della verità anche quando questa non sia immediatamente nota. Tuttavia già il
senso comune avverte che in un discorso dimostrativo vi è un punto di vista diverso tra correttezza
del ragionamento e verità della sua conclusione. Correttezza e verità sono requisiti non equivalenti
di un ragionamento, e il sussistere dell’una non implica affatto il sussistere dell’altra.
Ancora un esempio. Se dico: “Tutti i mammiferi hanno sei zampe, ma il cane è un mammifero,
quindi il cane ha sei zampe”, abbiamo una conclusione banalmente falsa, eppure nessuno
negherebbe la correttezza di questo ragionamento. La conclusione è falsa non a causa del
ragionamento scorretto, ma semplicemente perché è falsa una delle due premesse.

Un ragionamento risulta corretto quando le premesse sostengono la conclusione a tutti gli effetti.
Se dico: “La vittima è stata uccisa per denaro. Il vicino di casa è ricco di famiglia. Quindi il vicino è
innocente”. Il sostegno fornito dalle premesse è debole, perché il vicino di casa potrebbe benissimo
aver commesso il delitto per accrescere ulteriormente la propria ricchezza.
Se dico: “Vi sono persone oneste e persone disoneste. Tra le persone oneste, ve ne sono alcune che
sono anche generose. Purtroppo Pio non è tra queste”. Non c’è punto argomentazione, ma solo una
sequenza di proposizioni le cui condizioni di accettabilità sono sullo stesso piano: nessuna viene
asserita e giustificata in virtù delle altre e non ha senso parlare di premesse come non ha senso
individuare una conclusione.

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Non sempre le cose sono così facili e può rendersi necessario un lavoro di analisi del testo prima di
stabilire se un dato insieme di proposizioni costituisce una argomentazione.
Tanto per cominciare il numero di proposizioni può variare da un caso all’altro, per esempio:
“Domani è domenica. Perciò i negozi alimentari saranno chiusi”. Abbiamo due sole proposizioni e,
perché l’argomentazione sia valida, richiede che sia implicita una terza: “La domenica i negozi
alimentari sono chiusi. Domani è domenica. Quindi domani i negozi alimentari saranno chiusi”.
In secondo luogo non tutte le argomentazioni seguono il formato canonico, per esempio: “Pia è del
segno del Leone. Infatti è nata ai primi di agosto”. Si comincia affermando la conclusione e poi si
enuncia una premessa in suo sostegno.
Oppure in presenza di più premesse, la conclusione può anche apparire nel bel mezzo del discorso,
per esempio: “Ugo è andato al cinema. Quindi a casa non c’è nessuno. Mi risulta infatti che Ivo e
Pia siano in vacanza”.

In alcuni casi le argomentazioni sono camuffate, in quanto si presentano con frasi interrogative che
in quanto tali non rientrano nella logica. Ciononostante il contesto suggerisce abbastanza
chiaramente che possiamo servircene per esprimere premesse o conclusioni in maniera indiretta, per
es.: “Come è possibile migliorare l’economia? Il deficit cresce di giorno in giorno”. Nonostante la
domanda (retorica), si evince l’argomentazione seguente: Se il deficit continua a crescere
(premessa), allora l’economia non può migliorare (conclusione).

Nei discorsi correnti la logica ci può aiutare a riconoscere argomentazioni apparenti e a identificare
le argomentazioni autentiche.
Si danno argomentazioni solo quando un insieme di premesse viene fornito a sostegno di una
conclusione. Dobbiamo quindi individuare se ci sono indicatori inferenziali che esprimono
l’intenzione di giustificare certe conclusioni col sostegno di certe premesse.
Ecco alcuni esempi di indicatori:

INDICATORI DI CONCLUSIONE INDICATORI DI PREMESSA


 Quindi Poiché
 Dunque Perché
 Pertanto Siccome
 Ragion per cui Dato che
 Ne segue che Visto che
 Questo significa che Assumendo che
 Perciò Considerato che
 Se ne deduce che Come mostrato dal fatto che

Una volta identificata l’argomentazione, ai fini dell’analisi è utile riscrivere le asserzioni che la
compongono secondo un formato che ne espliciti la struttura in forma canonica: prima le premesse
e poi la conclusione, per esempio:
“L’inflazione è diminuita considerevolmente, mentre i tassi di interesse sono rimasti alti. Quindi, in
termini reali, i prestiti sono diventati più costosi, visto che a queste condizioni il denaro preso a
prestito non può essere ripagato con euro altamente inflazionati (mentre poteva esserlo quando
l’inflazione era alta)”.
Identifichiamo subito gli indicatori inferenziali visti sopra:
1. [premessa] L’inflazione è diminuita considerevolmente, mentre i tassi di interesse sono
rimasti alti
2. visto che a queste condizioni il denaro preso a prestito non può essere ripagato con euro
altamente inflazionati (mentre poteva esserlo quando l’inflazione era alta)”
3. [conclusione da 2] Quindi, in termini reali, i prestiti sono diventati più costosi.
Un altro esempio di riscrittura in forma canonica:

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“Certi politici sono degli ipocriti. Dicono che per tenere sotto controllo il deficit nazionale
dovremmo pagare più tasse, ma poi sprecano un sacco di soldi per le loro campagne elettorali”.
1. Certi politici dicono che per tenere sotto controllo il deficit nazionale dovremmo pagare più
tasse.
2. Quegli stessi politici sprecano un sacco di soldi per le loro campagne elettorali.
3. Dunque quei politici sono degli ipocriti.

Se osserviamo rigorosamente la correttezza, cioè i nessi, e i contenuti delle proposizioni, possiamo


affermare che:
Le regole fondamentali del ragionamento sono:
 Se l’antecedente è vero, il conseguente deve essere vero (ex vero non sequitur nisi verum).
 Se l’antecedente è falso, il conseguente è falso, ma potrebbe essere vero solo
accidentalmente (ex falso sequitur quodlibet), per es. “Giovanni Paolo II era ceco, i cechi
sono slavi, allora Giovanni Paolo II era slavo”, “l’uomo è uccello, dunque è animale”.

Il ragionamento può essere:


 Dimostrativo, in cui le premesse sono assunte come vere, quindi non discutibili e le
inferenze sono deduttive, rigorosamente codificate dalla logica e seguono in modo
necessario e non discutibile, per es.: “Se A è uguale a C e se B è uguale a C, allora A è
uguale a B”.
 Argomentativo, in cui sia le premesse, sia le inferenze sono suscettibili di critica e le cui
conclusioni non sono necessarie, per es.: “Chi ha la salute è felice, gli sportivi hanno la
salute, allora gli sportivi sono felici”.
 Fallace, in cui una o più inferenze sono invalide. Va rigettato anche se le premesse sono
vere, per es.: “Se vinci, vuol dire che giochi. Tu giochi, perciò vinci”.
 Apparente, le asserzioni non si supportano, per es.: “Il casamento si trovava in un quartiere
decadente. Era molto malmesso e i serramenti cadevano a pezzi. Scorribande di topi
echeggiavano per le stanze vuote”.

Prima di passare alla inferenza vera e propria, quella mediata, cioè quella che si serve di un termine
intermedio per arrivare a una conseguenza, va menzionata l’inferenza immediata.
Se per esempio dico: “Non è vero che non corro”, da ciò si inferisce la proposizione “Corro”,
oppure se dico “Non è vero che Pio è pigro e pavido” inferisco che “O Pio non è pigro o non è
pavido”.
Queste inferenze più che dar vita a un nuovo contenuto concettuale, danno origine a delle formule
equivalenti, dicono la stessa cosa in un altro modo derivato da un procedimento di conversione,
ancora qualche esempio: “Qualche religioso è francescano” si converte in “Qualche religioso non è
francescano”, oppure “Tutti i cardinali sono preti” equivale a “Nessun cardinale non è prete”, ecc.

ANALISI DEL RAGIONAMENTO: IL SILLOGISMO


Passiamo all’inferenza mediata, denominata sillogismo.
Il sillogismo è un insieme di proposizioni che ci permettono di passare dal generale al particolare,
infatti utilizza il metodo deduttivo. Questo si divide in:
- sillogismo categorico, composto di proposizioni semplici;
- sillogismo ipotetico, composto di proposizioni complesse.

Nel sillogismo si distingue una materia e una forma:


- La materia è costituita dalle singole proposizioni.
- La forma è costituita dal nesso logico che unisce le premesse alle conclusioni.

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Il fondamento reale dell’inferenza razionale consiste nel principio secondo cui: Ciò che gode di
una perfezione, possiede tutto ciò che di essa è implicato propriamente ("per sé" e non "per
accidens").
 Tutto ciò che si dice universalmente di un concetto, va predicato di tutto ciò che sotto quel
concetto è contenuto (dictum de omni). Per es.: “Se A possiede X e B appartiene ad A, allora
B possiede X”.
 Tutto ciò che si nega universalmente di un concetto, va negato di tutto ciò che sotto quel
concetto è contenuto (dictum de nullo). Per es.: “Se A non possiede X e B appartiene ad A,
allora B non possiede X”.
Il ragionamento inferenziale, dunque, si fonda sul principio di non-contraddizione dell’ente: si
darebbe infatti contraddizione tra il possedere una perfezione e il non avere ciò che questa implica
necessariamente. Pertanto, la contraddizione invalida qualsiasi ragionamento.
Se dico: “Napoleone era tedesco. I tedeschi sono europei, dunque Napoleone era europeo”, esprimo
un ragionamento nel quale la forma è corretta, ma la materia, cioè le proposizioni, la prima
premessa, sono false.
Se dico: “L’uomo è animale, l’asino è animale, dunque l’uomo è un asino”, esprimo premesse vere,
ma concludo scorrettamente per difetto di forma.

Il sillogismo categorico o sillogismo semplice è una inferenza mediata che, dato un enunciato
(chiamato “premessa maggiore”) permette di derivarne un altro (“conclusione”) aggiungendo una
premessa supplementare (“premessa minore”).
Ogni inferenza sillogistica è composta di tre enunciati:
1. La premessa maggiore, che collega un termine – detto estremo maggiore – a un altro, detto
medio;
2. La premessa minore, che collega un termine – detto estremo minore – al medio;
3. La conclusione che unisce i due estremi, nell’ordine il minore e il maggiore.

Indichiamo con M il termine medio, con P l’estremo maggiore e con S l’estremo minore, si ha:
 Premessa maggiore Tutti gli uomini (M) sono mortali (P)
 Premessa minore Tutti gli ateniesi (S) sono uomini (M)
 Conclusione Tutti gli ateniesi (S) sono mortali (P)

Cominciamo con il principio fondamentale del ragionamento sillogistico.


Il principio di convenienza e di discrepanza:
Esso dice che se due termini convengono con un terzo, allora convengono tra loro.
Al contrario, se due termini non convengono con un terzo, allora non convengono tra loro.
Per esempio: se C sta con B e A sta con C, allora A sta con B. Per es.: “Se tutti gli uomini (C) sono
mortali (B) e Socrate (A) è uomo (C), allora Socrate (A) è mortale (B)”.

Tale principio si può esprimere anche così:


 Ciò che si afferma universalmente di un soggetto deve affermarsi anche di tutti gli inferiori
ai quali esso si estende (dictum de omni);
 Ciò che si nega universalmente di un soggetto deve negarsi anche di tutti gli inferiori ai
quali esso si estende (dictum de nullo).

É evidente che un ragionamento sillogistico "funziona" se in esso si danno tre termini tra loro
coordinati.

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Quando facciamo un uso spontaneo del sillogismo accade che omettiamo, ovvero non esprimiamo
la coordinazione. Per esempio: “Tizio è uomo, allora Tizio è mortale” è un sillogismo che manca,
ma è sottesa, della premessa che gli uomini siano mortali. L’articolazione completa allora è: “Tutti
gli uomini sono mortali, Tizio è uomo, dunque Tizio è mortale”. Dove “Tutti gli uomini sono
mortali” e “Tizio è uomo” sono l’antecedente e “Tizio è mortale” è il conseguente.
Dimostrare significa esibire le ragioni che rendono vera una conclusione. É necessario avere
premesse vere, articolazioni valide che ci portano ad avere conclusioni vere.
Tre sono i termini:
 “Tizio” è l’estremo minore
 “mortale” è l’estremo maggiore
 “uomo” è il termine medio (permette che i due estremi possano essere legati).
Poiché nell’antecedente bisogna mettere l’estremo maggiore e l’estremo minore in rapporto con un
terzo termine, che si chiama termine medio, l’antecedente dovrà essere costituito di due premesse e
non di una come nell’esempio precedente (“Tizio è uomo, allora Tizio è mortale”).
In una premessa si mette in rapporto col medio l’estremo maggiore (“uomo” con “mortale”), e
questa si chiama premessa maggiore.
Nell’altra premessa si mette in rapporto col medio l’estremo minore (“uomo” con “Tizio”), e questa
si chiama premessa minore.
Quindi nessuna delle due premesse presa separatamente genera la conclusione.

Uomini MORTALI

Tizio

REGOLE DEL SILLOGISMO


Abbiamo detto che i sillogismi possibili sono 256. Ma solo
quelli che rispettano le leggi del sillogismo sono validi. Oltre a
quella generale della "convenienza" (se due termini convergono
con un terzo, convergono tra loro - 3 termini), le altre sono (le prime quattro
riguardano i termini, le ultime quattro le premesse):

1. I termini debbono essere soltanto tre per il principio della convenienza. Bisogna evitare di
prendere un termine con senso diverso per non avere occultamente una quaternio
terminorum.

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Per esempio: “La legge morale comanda di non rubare, la natura spinge a rubare, allora la
legge morale è contro natura". Se si riflette il termine “natura” nella premessa minore e nella
conclusione ha un significato diverso: nella prima significa “natura corrotta”, nella seconda
“natura integra ed elevata”.
2. I termini devono avere la medesima estensione nelle premesse e nelle conclusioni.
Per esempio: “Tutti i rivoluzionari sono pericolosi, tutti i rivoluzionari sono filosofi, allora
tutti i filosofi sono pericolosi”. “Filosofi” nella conclusione è preso in tutta la sua estensione
rispetto alla premessa minore; si dice che è “distribuito”.
3. Il medio non deve mai entrare nella conclusione.
Esso serve a legare i due estremi quindi non può fare da estremo.
4. Il medio deve essere preso almeno una volta in tutta la sua estensione, cioè deve essere
distribuito.
Per esempio: “Gli attori sono uomini, i filosofi sono uomini, allora i filosofi sono attori”.
Si noti che il termine medio “uomini” è preso non in tutta la sua estensione né nella
maggiore, né nella minore. Esso non è unico, ma duplice.
1.
2.
3.
4.
5. Due premesse negative non danno nessuna conclusione. In tal caso si dice solo che due
cose differiscono da una terza, quindi non si può concludere nulla.
6. Due premesse affermative danno necessariamente una conclusione affermativa. In tal
caso, i due estremi convengono con un terzo, cioè col medio, dunque devono
affermativamente convenire tra loro.
7. Due premesse particolari non danno alcuna conclusione. Infatti, se le premesse sono
affermative, i termini saranno particolari e il medio non potrà essere preso in tutta la sua
estensione (4ª regola).
Se le premesse sono negative si va contro la 5ª regola.
Se sono una affermativa e l’altra negativa, c’è un solo posto per un termine universale,
quello di predicato della negativa, e questo deve essere occupato dal medio. Dunque i due
estremi devono essere presi non in tutta la loro estensione e allora dovranno essere presi non
in tutta la loro estensione anche nella conclusione (per la 2ª legge).
Ma invece la conclusione deve essere negativa, perché negativa è una delle premesse (8ª
legge) e in una proposizione negativa il predicato è preso in tutta la sua estensione.
Per es. “Qualche europeo è calvo, qualche greco (particolare) non è europeo (medio
universale o distribuito), qualche calvo non è greco (universale).
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8. La conclusione segue sempre la parte peggiore (o più debole). Se una premessa è negativa,
la conclusione sarà negativa. Se una premessa è particolare, la conclusione sarà particolare.
É evidente perché i due estremi non convengono nel medio, e quindi non possono convenire
tra loro.
Per esempio: “Kant era scapolo, nessuno scapolo è padre, Kant non fu padre”; gli estremi
“Kant” e “Padre” non convengono entrambi con il medio “scapolo”. Per esempio: “Chi è
diligente fa il suo dovere, è dubbio che Ugo sia diligente, allora è dubbio che Ugo faccia il
suo dovere”.

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Indichiamo con M il termine medio, con P l’estremo maggiore e con S l’estremo minore, si ha:
 Premessa maggiore Tutti gli uomini (M) sono mortali (P)
 Premessa minore Tutti gli ateniesi (S) sono uomini (M)
 Conclusione Tutti gli ateniesi (S) sono mortali (P)

Aristotele suddivide il sillogismo categorico in figure e modi:


- le figure sono le forme che il sillogismo riveste a seconda della posizione occupata dal termine
medio nelle premesse;
- i modi sono le configurazioni di ogni figura, a seconda che le premesse siano A, E, I, O. Le
combinazioni possibili di questi quattro enunciati in una figura di tre proposizioni (43) sono 64; e
tale numero, moltiplicato per le quattro figure, da un totale di 256 possibilità. Secondo le regole
della corretta deduzione tuttavia sono leciti solo 19 casi.
Secondo la posizione del termine medio nelle due premesse (non compare mai nella conclusione)
abbiamo 4 figure (σχήματα) di sillogismi:

I fig. II fig. III fig. IV fig.


 MP PM MP PM
 SM SM MS MS
 SP SP SP SP

Esempio di 1 figura:
 Tutti gli uomini sono mortali (MP)
 Tutti gli ateniesi sono uomini (SM)
 Tutti gli ateniesi sono mortali (SP)

Esempio di II figura:
 Nessun cane è un felino (PM)
 Tutti i gatti sono felini (SM)
 Nessun gatto è un cane (SP)

Esempio di III figura:


 Qualche animale è feroce (MP)
 Tutti gli animali sono esseri viventi (MS)
 Qualche essere vivente è feroce (SP)

Esempio di IV figura
 Qualche europeo è cristiano (PM)
 Tutti i cristiani sono credenti in Dio (MS)
 Qualche credente in Dio è europeo (SP)

Sappiamo che un enunciato categorico può essere di quattro tipi, A, E, I, O.


In ogni figura abbiamo tre enunciati.
Ciò comporta che ogni figura può essere data in 64 modi diversi (43 = 64).
Ne consegue che, dal momento che quattro sono le figure disponibili, si hanno in tutto 64x4=256
possibili sillogismi.
Ma non tutti fra questi “modi” del sillogismo sono validi, bensì solo quelli che soddisfano le regole.

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Se si rispettano le regole della corretta deduzione avremo allora solo 19 casi leciti. Grazie a queste
regole i 256 sillogismi possibili si riducono a 24 sillogismi validi, di cui 19 normali e 5 indeboliti.
Per ricordarli si adoperano nomi, detti modi, formati dalle 4 vocali (A, E, I, O) più le consonanti
iniziali e interne.
I logici medievali rappresentavano i vari modi del sillogismo con simboli mnemotecnici: ogni caso
legittimo riceve un nome le cui tre vocali indicano il tipo di proposizione corrispondente alle
premesse e alla conclusione. Ad esempio, Barbara indica che, partendo da due premesse A-A, se ne
conclude A. I modi concludenti sono:

I Barbara, Celarent, Darii, Ferio


II Cesare, Camestres, Festino, Baroco
III Darapti, Felapton, Disamis, Datisi, Bocardo, Feriso
IV Bramantip, Camenes, Dimaris, Fesapo, Fresison

Le tre vocali (fra a, e, i, o,) identificano i tipi di enunciato della premessa maggiore, della premessa
minore e della conclusione. Per esempio il modo Barbara è un sillogismo formato da tre universali
affermative A A A.
 La consonante iniziale di ciascun nome di sillogismo costituisce un’indicazione per ridurre
quel sillogismo a un altro della prima figura che cominci con la stessa consonante.
Per esempio il modo Felapton si può trasformare nel modo Ferio.
 Le consonanti interne s, p, m, c, indicano le inferenze immediate che consentono di
trasformare un modo della II, III e IV figura nel modo della I figura il cui nome comincia
con la stessa lettera.
I sillogismi della 2ª, 3ª, 4ª figura possono sempre essere ricondotti alla 1ª.
Le consonanti s, p, m, c indicano le inferenze immediate che consentono di trasformare un
modo nella II, III, IV figura nel modo della prima:
o S dice che l’enunciato, indicato dalla vocale precedente, deve essere trasformato per
conversio simplex (o totale). Per es.: “Nessun quadrato è triangolo” si converte in
“nessun triangolo è quadrato”. Si noti che la quantità della proposizione resta
inalterata, e solo la E e la I si convertono totalmente.
o P dice che l’enunciato indicato dalla vocale precedente, deve essere trasformato per
conversione per accidens (o parziale). Per esempio: “Tutti gli uomini sono mortali”
si converte in “Alcuni mortali sono uomini”. Si noti che si modifica la quantità e si
trasforma la universale in particolare.
o M dice che si deve mutare l’ordine delle premesse, mutatio premissarum.
o C dice che bisogna ricorrere a una contradictio, cioè l’enunciato indicato dalla
vocale che precede la c viene sostituito dalla contraddittoria della conclusione.

Supponiamo di avere il sillogismo Baroco - quindi del tipo A, O, O - dove il termine medio è il
predicato di entrambe le premesse:
 Tutte le trote sono pesci (A)
 Qualche animale non è un pesce (O)
 Qualche animale non è una trota (O)
Visto che in Baroco la consonante iniziale è B, questo modo va ridotto a quello della prima figura
che inizia pure con B, cioè Barbara. La consonante interna individuabile tra le quattro (s, p, m, c)
nel nostro caso è “c” che indica la riduzione per contraddizione.
La lettera “c” segue la vocale “o” si sostituisce il corrispondente enunciato (“qualche animale non è
un pesce”) con la contraddittoria della conclusione, cioè con “tutti gli animali sono trote”.
Si ottiene così un sillogismo in Barbara:
 Tutte le trote sono pesci
 Tutti gli animali sono trote
 Tutti gli animali sono pesci

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Si noti che la conclusione di questo nuovo sillogismo è in contraddizione con la premessa sostituita:
questo significa che il sillogismo considerato in partenza è valido. Questa riduzione deve essere
intesa come una verifica di validità del sillogismo dato (in Baroco).

Altri tipi di sillogismo sono:


 Espositorio (o semplice), è un ragionamento che unisce due termini, esso ha per medio un
singolare. Per esempio: “Socrate è greco, Socrate è filosofo, dunque un greco è filosofo” (è una
proposizione individuale).
 Composto, in cui una o entrambe le premesse sono proposizioni composte. Il sillogismo
composto a sua volta si distingue in condizionale e disgiuntivo.
o Per esempio è condizionale: “Se esiste il mondo esiste Dio; ora esiste il mondo, dunque
esiste Dio”; “Se hai il passaporto, passi la frontiera, hai attraversato la frontiera, dunque
avevi il passaporto”.
o Per esempio è disgiuntivo: “A, o è B, o è C. È B, dunque non è C. È C, dunque non è B.
Non è B, dunque è C. Non è C, dunque è B.

Si noti che nel sillogismo disgiuntivo, la premessa maggiore è data dalla composizione disgiunta di
due enunciati categorici, mentre la premessa minore è un unico enunciato categorico che rompe la
disgiunzione della premessa maggiore. Per esempio:
 Ugo è di Bari o è di Ruvo
 Ugo è di Bari
 Ugo non è di Ruvo

 Il sillogismo ipotetico, al pari di quello disgiuntivo, ha premesse non necessariamente


categoriche. Nel sillogismo ipotetico, entrambe o una, le premesse sono ipotetiche. Per esempio
abbiamo rispettivamente:
 Se Vito è calvo, allora Vito non usa il pettine
 Se Vito non usa il pettine, allora Vito non compra pettini
 Se Vito è calvo, allora Vito non compra pettini
Questo è un sillogismo ipotetico puro, perché entrambe le sue premesse sono ipotetiche. Ogni
premessa è costituita da due enunciati (corrispondenti all’antecedente e al conseguente di un
periodo ipotetico), mentre la conseguenza ha come antecedente l’antecedente della premessa
maggiore e come conseguente il conseguente della premessa minore.
Questo sillogismo si basa sulla transitività dell’implicazione
 Se Vito è calvo, allora Vito non usa il pettine
 Vito è calvo
 Vito non usa il pettine
Questo è un sillogismo ipotetico misto, in cui la premessa maggiore è ipotetica e la premessa
minore contiene l’affermazione dell’antecedente.
Si chiama modus ponens.
 Se Vito è calvo, allora Vito non usa il pettine
 Vito usa il pettine
 Vito non è calvo
Questo è un sillogismo ipotetico misto, in cui la premessa maggiore è ipotetica e la premessa
minore contiene la negazione del conseguente.
Si chiama modus tollens.

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 Un’altra classe di sillogismi categorici è quella dei sillogismi categorici imperfetti, ossia degli
entimemi nei quali può mancare la premessa maggiore, per esempio: “Nico è buono” allora
“Nico deve essere amato”;
o manca la premessa minore, per esempio: “Tutti i greci sono uomini liberi” allora “tutti gli
ateniesi sono uomini liberi”;
o manca la conclusione, per esempio: “Nessun buon governante si lascia corrompere”,
“qualcuno al governo si è lasciato corrompere”.

 “Chi non ama non gode”


 “Chi non gode non passa momenti felici”
 “Chi non passa momenti felici è triste”
 allora “Chi non ama è triste”

 Questo è uno strano sillogismo, chiamato sorite. É formato da una catena di enunciati ove
l’ultimo è la conclusione che è ottenuta dal soggetto del primo enunciato e dal predicato del
penultimo enunciato. Inoltre il predicato di ogni premessa è il soggetto della premessa
seguente. Si basa sul principio aristotelico secondo cui ciò che si predica del predicato
costituisce un predicato del soggetto.

 Simile al sorite è il polisillogismo.


 Tutti i baresi sono pugliesi
 Qualche barese è calvo
 Qualche pugliese è calvo
 Tutti i calvi non si pettinano
 Qualche pugliese non si pettina
Si tratta di una catena di due o più sillogismi ove la premessa maggiore è a sua volta la
conclusione di un sillogismo.

 Anche l’epicherema è un sillogismo “strano”:


 Tutti i corpi cadono verso la Terra, per la legge dell’attrazione gravitazionale
 La penna è un corpo
 La penna cade verso la terra
Si vede che una premessa (o entrambe) è seguita da una giustificazione.

 Anche nei sillogismi non categorici la conclusione ha carattere necessitante.


 P1 Tutti i pesci vivono nell’acqua
 P2 Tutte le trote sono pesci
allora
 C Tutte le trote vivono nell’acqua (Barbara).

 Se i pugliesi sono uomini saggi, allora rispettano lo straniero


 I pugliesi sono uomini saggi
 I pugliesi rispettano lo straniero (modus ponens).

Entrambi i sillogismi si formalizzano così


 P1 p→q
 P2 p
allora
 C q

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L'INDUZIONE
Il valore delle verità delle conclusioni di un ragionamento si fonda sul valore di verità delle sue
premesse. Ogni ragionamento parte dal valore di verità delle sue premesse.
Da dove prendiamo le premesse?
In alcuni casi esse provengono dalle conclusioni di precedenti ragionamenti.
Se non vogliamo regredire all’infinito, dobbiamo ammettere che alcune verità devono essere
assunte come originarie.
In tal caso si chiamano verità indimostrabili.
Sulla loro origine la filosofia si è cimentata fin dal suo esordio, aprendo uno dei suoi capitoli
fondamentali: la natura della conoscenza
Se sappiamo da dove attingiamo le conoscenze di base, allora possiamo farci un’idea sulla
conoscenza…
Possiamo conoscere la conoscenza.

Per il realismo aristotelico, la mente umana può cogliere nell’esperienza le prime verità con cui
costruire giudizi universali intorno alla natura delle cose.
Il procedimento che ci consente di passare dall’esperienza sensibile e particolare a una verità
intelligibile e universale, si chiama INDUZIONE (processo di ragionamento mediante il quale
passiamo dal particolare all'universale).
Il procedimento, invece, che va da principi universali e ad enunciati sia universali sia particolari, si
chiama DEDUZIONE.
L'induzione e la deduzione non devono essere intese come due modi separati di conoscere: esse si
intersecano continuamente, in quanto l'esperienza amplia il raggio di azione dell'argomentare,
mentre le dimostrazioni propongono sempre nuovi campi di esperienza. La conoscenza è il risultato
di un intreccio dell’uno e dell’altro procedimento. Tuttavia il momento iniziale appartiene
all’induzione.

Esistono due tipi fondamentali di induzione: ESSENZIALE ed EMPIRICA.

L'INDUZIONE ESSENZIALE è la scoperta realizzata dall'intelletto unità all'esperienza di un


vincolo necessario e universale, esistente e materiale, tra un soggetto e una proprietà. Essa è
chiamata anche induzione astrattiva, in quanto è affine all'astrazione. Non si tratta di un
procedimento dimostrativo, infatti non appartiene all'operazione razionale, ma si inquadra nella
funzione intellettiva (intellectus) della mente, la quale considera con immediatezza certe verità
iniziali.

Mentre nel sillogismo si afferma la connessione di due termini in virtù di un termine medio,
nell’induzione si afferma la connessione tra due termini in tanti casi particolari.
Nell’induzione è dunque l’esperienza dei casi particolari quella che fa da medio. Per esempio: «Il
corpo A è pesante, il corpo B è pesante, il corpo C è pesante, dunque tutti i corpi sono pesanti».
L’enumerazione di un certo numero di casi uguali (favorevoli) ci fa capire qual è la ragione di quel
fatto (l’«essere pesante») che abbiamo constatato tante volte.
L’induzione ci dice qual è l’essenza che è il vero soggetto del predicato che abbiamo trovato
nell’esperienza.

Con l’induzione essenziale l’intelletto scopre (l’azione con la quale leggiamo-dentro = intus legere)
un vincolo necessario e universale esistente e manifesto attraverso l’esperienza tra un soggetto e una
proprietà.
L’induzione essenziale si compie mediante un processo astrattivo che evidenzia nei dati di
esperienza il contenuto essenziale e una serie di relazioni essenziali.
Per esempio: io vedo cadere un pezzo di rame, poi vedo cadere una pietra, poi vedo cadere un pezzo
di carta, un pezzo di legno pure. Mi domando qual è la ragione di quel cadere, di quella pesantezza.
30
Rispondo: non è l’essere rame, pietra, carta, legno, ma l’essere corpo. L’essere corpo è anche il
vero soggetto del predicato “è pesante”, infatti chi è veramente pesante è il corpo, la natura o
essenza corporea.

In questo procedimento si possono distinguere due fasi:


- in primo luogo, l'induzione si prepara attraverso un'adeguata esperienza sensibile
- infine, il procedimento induttivo culmina nell'intellezione di un giudizio universale.

L’essenza individuata e il giudizio universale che determiniamo non risulta da una


generalizzazione, ma dalla individuazione di una proprietà fondamentale.
La proposizione indotta non è collettiva, ma essenziale.
Il numero di casi osservati deve essere sufficiente a farmi individuare il legame esistente tra
proprietà osservata e la natura (tra pesantezza e corporeità).
Posso osservare moltissimi casi senza arrivare a individuare la natura di un fenomeno.
Certo è pure che la ripetizione di casi è importante come segno indubitabile dell’esistenza di una
causa permanente che li produce.

L’induzione essenziale ci fa comprendere i giudizi metafisici, morali, e un gran numero di verità


universali. Per esempio il concetto di libertà, di causalità, di finalità, di conoscenza, di dovere, di
obbligo, di colore, di forma, ecc.
La matematica fa uso della induzione ricorsiva, che consiste in una certa intuizione delle proprietà
di tutti i numeri di una serie. È una posizione discutibile e dubbia che determinate proprietà dei
numeri, individuate mediante l’induzione ricorsiva (caratteristiche che si ripetono, che ricorrono), si
possa assimilare all’induzione essenziale. Per es. la generalizzazione «A+B=B+A» deriva dalla
constatazione che «1+2=2+1», «2+3=3+2», «3+4=4+3» …

L’induzione che coglie l’essenza e la esprime in un giudizio è mossa dalla stessa composizione
reale delle cose, in quanto risulta evidente all’intelletto.
Questo genere di giudizi dà vita a verità immediate o per se notae, cioè conosciute per se stesse e
non per mezzo di altre proposizioni universali (per aliud notae). Il predicato di questi giudizi (delle
proposizioni "per se notae") è contenuto nel soggetto quale sua proprietà o parte della sua essenza,
sono dunque giudizi per se e non per accidens (accidentale significa che è ma potrebbe non essere).
Per esempio: «Pio è uomo», «la luce è energia», «il bue è animale».

I giudizi "per se" sono assimilabili ai giudizi analitici (cfr. Kant), quelli il cui predicato è
contenuto nel soggetto, in modo tale che non è possibile negarli senza contraddizione. Essi
corrispondono alla predicazione del genere, della differenza, e della proprietà, che si ricavano dalla
definizione.
Per esempio: «un uomo onesto non è corrotto», «il nipote è il figlio del figlio», «gli angoli interni di
un triangolo sono due retti», «Dio è perfetto», «il patrocinatore è avvocato».

I giudizi sintetici corrispondono ai giudizi "per accidens". Possono essere negati senza
contraddizione perché aggiungono al soggetto una caratteristica non insita nella definizione. Tale
caratteristica è aggiunta, invece, mediante l’induzione empirica.
Le proposizioni universali sintetiche contengono proprietà che derivano dall’essenza in modo
necessario o contingente, ed è solo per difetto di intelligenza che l’uomo non le conosce a partire
dall’esame dell’essenza.
Se si fa uno sforzo adeguato di analisi scientifica e filosofica dell’essenza, può permettere il
passaggio dalle generalizzazioni sintetiche alla predicazione essenziali.

Secondo la distinzione kantiana, i giudizi analitici sono a priori, i giudizi sintetici sono a
posteriori. In effetti, tutte le verità necessarie vengono conosciute dall’esperienza, o sono dedotte da
principi conosciuti per mezzo dell’induzione essenziale.
31
Tutte le enunciazioni per se notae sono conoscibili per se stesse a chiunque colga tutti gli attributi
essenziali (la natura) del soggetto. Solo per chi non conosca la definizione del soggetto,
l’enunciazione non è per se nota.

Oltre all’induzione essenziale si dà anche quella EMPIRICA.


L'induzione empirica è la generalizzazione di un fatto ripetuto nella natura, quando non ci è
nota la connessione necessaria fra il soggetto e la proprietà (per questo motivo ci limitiamo a
generalizzare un fatto ripetuto nella natura). Per esempio, notiamo che ogni volta che avviciniamo
la mano al fuoco, questo brucia la nostra pelle. Allora generalizziamo mediante l’enunciato
universale «il fuoco brucia».
Questa induzione è caratteristica del nostro modo di conoscere il mondo fisico, poiché l'essenza
specifica delle cose naturali (come l'essenza del cane) in quanto tale ci è conosciuta, anche se con lo
studio possiamo avvicinarci ad essa con una certa sicurezza. È evidente che la verità di questo
enunciato non si basa sull’essenza specifica, cioè sulla comprensione della natura, ma sulla
ripetizione del fenomeno testimoniata dai sensi.
L’induzione empirica tuttavia non si limita alla constatazione puramente accidentale del
fenomeno, perché sa che esso non avviene per caso, ma per una causa che in ultima termine riporta
alla natura, all’essenza delle cose.

Nell’induzione empirica è insito il «procedimento induttivo» che non procede all’astrazione, ma


considera i casi particolari e le loro variazioni, per formulare un giudizio universale di maggiore o
minore portata.
La struttura formale è questa:
 Questo animale, e quest’altro, e quest’altro, ragliano
 Questo animale, e quest’altro, e quest’altro, sono asini
 Allora, tutti gli asini ragliano
Il termine medio è una enumerazione di casi particolari e il sillogismo è invalido perché il termine
“cane” nella seconda premessa è particolare, mentre nella conclusione è universale (regola 8ª del
sillogismo). Quindi, per essere valido o la conclusione deve essere particolare, oppure
occorrerebbe avere una enumerazione completa (universale) degli asini nella seconda premessa, in
caso contrario raggiunge solo un grado di probabilità.
Siccome l’enumerazione completa è impossibile (è possibile solo se il numero degli individui è
finito), l’induzione empirica ottiene solo un grado di probabilità. Tale probabilità dà origine ad
una certezza fisica, non metafisica.

Il fondamento dell’induzione empirica non è la semplice abitudine psicologica che ci porta ad


attendere un fenomeno perché fino ad ora lo abbiamo sempre visto (Hume). Non è neanche perché
applichiamo la categoria a priori (struttura trascendentale - elemento formale delle leggi universali)
della causalità (Kant).
Il fondamento è invece la conoscenza induttiva essenziale della causalità e dell’ordine del mondo,
della relazione natura-operazioni.
Il mutamento del mondo non è casuale, ma dipende o dalla loro natura o da una causa estrinseca,
compreso le eccezioni e le variazioni nel trascorrere del tempo. Esso dipende da leggi profonde,
appartenenti anch’esse alla natura delle cose.
Legare l’induzione empirica, l’intelligibilità generica delle scienze a tale fondamento, la riscatta dal
puro ambito numerico delle coincidenze per accidens.

I SOFISMI E LE FALLACIE (cfr. testo)

32
SECONDA PARTE

Filosofia
della Conoscenza
La nuova scienza (la rivoluzione scientifica)
e la filosofia della conoscenza o gnoseologia

Bacone (1561-1626) e Galilei (1565-1642)

BACONE
C'è una nuova scienza perché c'è un nuovo metodo (da odos - guida/strada)
La conoscenza vera è basata solo sull’induzione, osservazione → nuovo metodo!
La conoscenza nel mondo antico ara basata sulla qualità | sull’essenza | il suo fine.

Elementi in comune tra Bacone e Galileo:


Il confine di separazione tra il mondo classico (greco latino medioevale) si ha sul puntare solo sulla
quantità
- Dalla qualità (essenze) e dalla finalità alla quantità!
Le quantità determinano le qualità: la caratteristica fondamentale di questo metodo è che la natura
non è più studiata e osservata secondo le qualità (essenze) e i fini ma dal punto di vista della
quantità. La natura è ateleologica. Le uniche cause che possono spiegare la natura sono quella efficiente e
materiale.

- Questo nuovo metodo è basato dunque sull'osservazione → costruita sulla base di schemi che ci
permettono di cogliere i dati osservati perché da essi possiamo ricavare nuova conoscenza. Osservazione è
una sorta di revisione | riforma del concetto di osservazione. L'osservazione acquista una nuova specificità
raccolta in maniera sistematica e metodica.
L’osservazione e la raccolta dei dati mediante la stesura di tabulae.
Bisogna osservare sulla base di schemi: TABULAE. Richiede un nuovo e particolare approccio osservativo
di tipo tabulare. Ossia le tabulae permettono la raccolta di elementi sufficienti per ricavare soluzioni in
determinate cause.
 Tabula praesentiae → osservare con quale presenza un fenomeno si presenta
 Tabula absentiae → osservare il fenomeno a partire dalla sua assenza
 Tabula per graduum → va a vedere il fenomeno con quale intensità e grado si manifesta si manifesta

A questi aspetti Galileo aggiunge (anche se già Bacone aveva già concettualizzato l'ipotesi e
l'esperimento ma senza realizzarli):
L’ipotesi di soluzione.
L’esperimento.
La matematica.
Le ipotesi vanno formulate in termini matematici.
33
Gli esperimenti vanno condotti in termini matematici.

(MODELLO EMPIRISTICO → ricava la conoscenza dalla struttura osservativa di tipo sistematico)


- Ipotesi di soluzione → teorizza il bisogno delle ipotesi, ma non lo metterà mai in pratica [Bacone]

- Esperimento → riproduzione del fenomeno in laboratorio non come esso si svolge in natura (cf.
Galileo).
Bacone → parlerà di "experimentum crucis" (cruciale) → situazione in cui chi fa l’esperimento
viene a trovarsi di fronte a un crocicchio… l’esperimento esclude la strada sbagliata, di fronte a due
soluzioni ti segnala la strada sicura.

- Matematica → è la lingua con la quale è scritto il libro della natura, con i numeri e le figure
geometriche [cfr. questa è una novità di Galileo]. Esprime la quantità | intensità del fenomeno. Il
linguaggio matematico dice le quantità. Matematica è la lingua con la quale è scritta la natura.

GALILEO
Per Galilei i sapori, odori, suoni, colori, ecc., non appartengono ai corpi esterni al
nostro, ma nel corpo sensitivo che rimosso questo sono rimossi quelli.
Figura, dimensione, movimento, estensione, numero sono chiari e convincenti, cioè
posseggono esatta conoscibilità, mentre le qualità corporee no.
Le qualità corporee (es. di Galileo) sono paragonabili al solletico prodotto in noi da
una piuma che passi sul nostro corpo: il solletico non è una qualità della piuma, ma
risiede solo in noi, nel corpo senziente (le qualità sono fatti soggettivi, del corpo
senziente).
Notiamo il fatto che i corpi siano di fatto sì estesi, ma anche colorati. È vero che
l’estensione è più intellegibile dei colori, cioè possiamo avere concetti più specifici
delle qualità.
Degli aspetti quantitativi del mondo corporeo possiamo avere verità necessarie, ossia
proposizioni analitiche, e perciò a priori.
Per gli aspetti qualitativi del mondo corporeo dobbiamo limitarci a formulare
constatazioni di fatto o conclusioni indotte, cioè proposizioni sintetiche a posteriori.

Tuttavia per quale ragione dovremmo ammettere l’esistenza solo di ciò che è per noi
pienamente intelligibile? Solo ciò che noi comprendiamo esiste? Ciò significherebbe
che siamo noi i creatori della realtà. Ma questo è un presupposto ingiustificato in
filosofia. In ragione delle nostre capacità conoscitive abbiamo la pretesa di decidere
ciò che esiste e non esiste.
Non tutte le qualità sono un modo d’essere (soggettivo) → perciò l’affermazione di
Galilei non è valida (Ex. Solletico | suono – colore). Quanto al solletico, è arbitrario
assimilarlo a tutte le qualità come il colore e i suoni, perché mentre il solletico è dato
come mio al pari del piacere e del dolore, colori e suoni non mi sono dati come miei,
come miei modi di essere, tanto è vero che il colore bianco lo attribuiamo per
esempio alle penne d’oca non al solletico.
Galilei pensava che le qualità corporee sono soggettive perché risiedono nel corpo
sensitivo (struttura materiale e fisica del soggetto) non nell’anima, sono un fatto
fisiologico non psichico.

34
Per lui il mondo non senziente è pura estensione in movimento; soltanto nei corpi
sensitivi si formano qualità.
Da fisico Galilei non si preoccupa di inquadrare la sua teoria in una concezione
generale dell’universo, in una vera e propria filosofia della natura.

Cartesio (1596-1650)
Fondatore della filosofia moderna.
Il rappresentazionismo: conosciamo non le cose, ma l’immagine di esse, le loro
rappresentazioni.
Scopo del sapere è uno e uno solo: il domino dell’uomo su se stesso, sulle loro
passione. Non solo un sapere che domini la natura, ma che domini anche l’uomo, che
è una parte speciale della natura.

Locke (1632-1704)
Ogni conoscenza immediata della conoscenza è costituita dall’idea (rappresentazione
– non conosciamo le cose, ma le loro immagini).

Berkeley (1685-1753)
L’essere degli oggetti si riduce al loro essere percepiti (esse est percipi).

Hume (1711-1776)
Ogni conoscenza è basata sull’esperienza.

CARTESIO
Cartesio si chiede: come si spiega quel salto qualitativo che viene ad esserci fra il fisico e il
fisiologico? Fra il corpo non-sensitivo (pura estensione amorfa) e il corpo sensitivo (qualificato e
qualificatore)?
Che cos’è quel più che c’è nel corpo sensitivo?
Potremmo rispondere con Aristotele e San Tommaso che c’è la forma sostanziale.
Ma tale concetto, che è fondamentale per una filosofia della natura (utilizza categorie particolari
che non possono essere adoperate per fare scienza), non è necessario per elaborare una scienza della
natura, poiché la scienza mira alla conoscenza dello specifico.
Si può certo affermare che in ogni corpo c’è una forma sostanziale (il quid che non possiamo negare
| essenza | definizione), ma non conosciamo la forma sostanziale del tale o tal altro corpo.
La tarda scolastica, invece si era illusa di elaborare una scienza della natura con concetti puramente
filosofici, e con concetti universali come quello di forma sostanziale, potessero dare una conoscenza
specifica dei fenomeni naturali.
Tale pretesa ha indotto Galilei e Cartesio a reagire alle forme e a privilegiare solo gli individui
eliminando anche le qualità.

Per Cartesio si conosce con certezza solo ciò che ha evidenza matematica (assume come criterio di
certezza quello matematico - che non è sensibile: "le cose certe sono quelle che vengono dai sensi
ma essi a volte ci ingannano").
Le evidenze sensibili sono portatici di qualità (colori, sapori, odori, suoni) che non hanno valore
oggettivo. Galilei diceva che esse risiedono nel corpo sensitivo, quindi sono secondarie ai fini della
conoscenza. Matematismo → matematica disciplina fondativa della conoscenza | monopolio
conoscitivo.
L’unica realtà conoscibile è quella matematizzabile. (→ Galilei)
35
La realtà è conoscibile in quanto è estensione e movimento (res extensa).
Ne consegue che tutto ciò che non è né estensione né movimento viene relegato nel mondo dello
spirito (res cogitans).
Le due uniche realtà, dunque, sono la res extensa e la res cogitans → dualismo cartesiano.
Ma come giunge a questa conclusione di natura metafisica partendo da una questione conoscitiva?

Cartesio assume come criterio di certezza quello matematico (poiché le idee matematiche sono
universali e univoche).
Come faccio a dire che i sensi sono affidabili? Per essere sicuro che ci sia corrispondenza tra ciò
che percepisco con i sensi e la realtà dovrei avere dei sensi dei sensi → è come se io dovessi uscire
da me e giustificarmi mentre giustifico la realtà con i sensi.

Egli parte dall’assunto che per fondare una scienza rigorosa bisogna mettere in dubbio tutto ciò che
abbiamo accettato passivamente, acriticamente. → Dubbio metodico (in opposizione ai dogmatici).
Si deve accettare solo ciò che è rigorosamente dimostrato e non presupporre nulla, perché è il
dubbio che deve pervenire a un fondamento.
Se esamino le mie evidenze, sia quelle sensibili che quelle intellettuali, esse appaiono inattendibili. I
sensi e i ragionamenti qualche volta ci ingannano.
Una sola cosa è certa: se dubito, penso; e se penso, sono → cogito ergo sum.
Dubitare è pensare: una cosa è certa - il mio pensiero: dunque, se penso allora esisto.
L’evidenza sta nell’atto del cogito e nell’implicazione dell’esistenza di una cosa pensante, e della
quale non posso dunque dubitare.

Per Cartesio l’Io è soltanto una cosa pensante. → privilegia solo un aspetto: si perde l’unità.
Quando vogliamo fondare tutto sull’uomo finiamo per perdere di vista anche l’uomo stesso
(antropologia esasperata).

Io non sono una cosa senziente… perché:


 Per sentire bisogna avere un corpo → ma se ho messo in dubbio la verità dei sensi non è
certo che io abbia un corpo
 Talvolta si crede di sentire cose solo immaginate, ma mai sentite.
Convincono queste due giustificazioni contro l'essere senziente dell'uomo?
Egli è convinto che il sentire non si attesta da sé. Il sentire si attesta solo mediante il pensare di
sentire → il sentire ha valore solo nella misura in cui io penso di sentire (mette in discussione, in un
certo senso il metodo galileiano).
C’è pensiero dove c’è immagine!!!
Dal punto di vista logico il cogito ergo sum vale → argomento dialettico confutativo! → modo per
mostrare la fallacia della tesi: c’è un genio maligno che ci sta prendendo in giro e ci fa credere cose
che non esistono… ammettiamo che ci sia il genio maligno (se fosse vero non ci sarebbe
contraddizione). La conseguenza contraddittoria di tale ammissione è: una cosa è certa: che io
esisto, ci sono almeno io a farmi prendere in giro dal genio. Conclusione: potrò dubitare di tutto
tranne che io esista, perché esso deve avere qualcuno da prendere in giro (cioè me stesso).
All’illusorietà del sentire si può rispondere che saranno illusorie le cose sentite non che sia illusorio
il sentire.

Risposta in termini ontologici


È lo stesso identico uomo che percepisce e di conoscere e di sentire → sento di conoscere e sento di
sentire (ipse idem homo est percipit se intelligere et sentire).
Con la chiara convinzione che il sentire sensibile non può avvenire senza il corpo (sentire autem
non est sine corpore) → il corpo senziente esiste perché è la nostra (non l’unica | è un aspetto)
dimensione di esistenza.

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Per cui l’intelletto cognitivo in atto e l’intelligibile nell’atto dell’intellezione sono la stessa cosa
(sunt unum).
Come sono la stessa cosa la sensibilità somatica o “senso materiale” e l’oggetto della sensazione o
“il sensibile”.
La globalità dell’autocoscienza (idem homo), come fatto d’unità consustanziale del composto
umano è contrario quindi a ogni dualismo sia platonico che cartesiano.

Le radici del razionalismo (Cartesio: ci sono idee innate - la realtà è nella ragione) che
dell’empirismo (Locke: tutte le idee vengono dall'esperienza) risiedono nella nuova scienza della
natura.
La conoscenza non coincide con la conoscenza scientifica ma nell'età moderna ci si deve
confrontare con il nuovo modo di concepire la conoscenza della natura (galileiana - newtoniana).

"Razionalismo" assunto in 2 significati:


1. Prospettiva semantica → ismo → attenzione! Deformazione | deviazione in ambito negativo
2. Prospettiva storica → corrente di pensiero che si è affermata nel dibattito scientifico e
filosofico a seguito della rivoluzione scientifica. È l’altra parte dell’empirismo. Significato
circostanziato all’interno di un dibattito storico (tra 600 e 700)
3. Generale tendenza a fare della ragione il criterio unico ed assoluto per cui noi definiamo ciò
che si può conoscere e ciò che non si può conoscere. I modi con i quali la ragione si esprime
non sono unici ma molteplici (c'è una molteplicità di ragionare).

Tendenza: fa della ragione un uso univoco | rigido | che ha un solo significato. Adotta una ed una
sola forma di razionalità. Quando parliamo della razionalità parliamo di un fatto complesso → modi
con in quali la ragione estrinseca le sue peculiarità sono molteplici (non unici!!).
Dimostrazione per elenctico (elenkos → confutazione) → dimostrazione elenctica: la ragione
quando dimostra in un modo esplica delle caratteristiche, quando dimostra in altro modo esplica
altre caratteristiche.

Nell’800, quando la furia razionalistica comincerà a mostrare i suoi limiti, assistiamo all’emergere
del Romanticismo → reazione alle forme eccessive del razionalismo.
Privilegia il sentimento.
Quando non si è trovata una razionalità pienamente soddisfacente si è arrivati all’irrazionalismo o
allo scetticismo → quando il razionalismo si pone come unico paradigma mostra i suoi limiti. Porta
al rifiuto della ragione.

"Empirismo"
Non è l’opposto del razionalismo, benché sia in opposizione ad esso.
Gli empiristi accettano l’idea cartesiana che noi conosciamo non le cose ma solo le idee di esse:
cioè l'oggetto della conoscenza deriva direttamente dall’esperienza.
Oggetto della conoscenza non sono le cose (come nella tradizione del realismo classico - cioè gli
enti come nella scolastica): gli enti | la cosa) ma le idee (immagini) delle cose.
Ci sono due livelli di evidenza, una di tipo sensibile e l'altra intellettiva:
- Vi è un’evidenza di tipo sensibile → rappresentazionismo → la conoscenza è strutturata secondo
il principio della rappresentazione. Noi conosciamo non la cosa, ma l'immagine delle cose stesse.
Noi conosciamo solo ciò che immaginiamo come immagine prodotta da un'esperienza.

Non accettano invece l’assunto delle idee innate sostenuto da Cartesio.


Tutte le idee derivano dall'esperienza.

Epistemologi contemporanei: Si può andare all’essenza delle cose senza compromettere i risultati
della scienza moderna? È possibile andare alle cose stesse? E quindi costruire una filosofia che
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riconosca il valore della scienza e non ci faccia dimenticare la natura profonda (metafisica) delle
cose?

Sia Hobbes (1588-1679) che Locke (1632-1704) sono annoverabili tra gli empiristi.
HOBBES
Per Hobbes il nostro conoscere è moto del corpo senziente, che è quello in quo insunt phantasmata.
I corpi esteri che colpiscono il nostro generano la conoscenza.
Causa del moto è ciò che preme o tocca l’organo di senso. La conoscenza non è altro che l’incontro
tra corpi che produce immagini.
La sensazione è quindi un moto interno al senziente, generato da un moto delle parti interne
dell’organo di senso. Mettere in moto → subire una modificazione | subire uno spostamento. La
modificazione produce le immagini.
Il soggetto è passivo! Conoscenza è anzitutto un subire movimenti corporei dall’esterno verso
l’interno.
Epicuro: "i sensi sono i nunzi del vero e non si sbagliano mai" → i sensi non mi ingannano a meno
che io non sia totalmente passivo a trattare i contenuti che mi derivano dai sensi. La verità non è da
prendere in modo assoluto, ma in modo relativo → quello che ho scorto con i sensi sono solo un
punto di vista di conoscere le cose.
L’oggettività è sempre da porre in relazione all’esperienza e al contesto. Conosciamo l’oggetto nelle
condizioni date dall’esperienza: dalla conoscenza sensibile.
L’organo di senso reagisce al moto proveniente dall’oggetto, e produce il phàntasma: è
l'immagine... non è il fatto, la cosa, la realtà... non conosciamo i fatti ma il phantasma, ossia quello
che i sensi producono in noi.

Tutta la realtà in quanto corporea (basata sulla pura sensibilità) non può non essere la base su cui
costruiamo la conoscenza.

LOCKE
Per Locke noi non conosciamo mai le essenze reali delle cose, le “forme” delle sostanze.
Nominalista → le parole che indicano gli universali non indicano le cose reali, perché le cose reali
sono quelle che passano attraverso la relazione empirica tra corpo senziente e corpo sentito.
Ciò che esprimiamo delle definizioni delle sostanze sono solo delle “essenze nominali”: i significati
dei nomi stessi, necessari per dire “di che sorta sono” → tale posizione dipende dal fatto che l’unica
fonte della conoscenza è costituita dall’esperienza.
Esperienza → significato preciso → [Galilei → sensate esperienze: quelle fatte con i sensi] apporto
che per il tramite dei sensi noi registriamo attraverso il nostro apparato. Non esperienza né
significato più ampio.
1° problema → esperienza dà un apporto importante, ma non sufficiente!
L’esperienza produce in noi due idee:
1. di Sensazione → dall'esperienza esterna
2. di Riflessione → dall'esperienza interna
Tale esperienza produce idee semplici corrispondente a singole qualità dei corpi fisici (colore,
suono), o singoli fatti psichici (una percezione, un desiderio o un atto di volontà).
Per Locke è fondamentale cercare una piattaforma comune su cui costruire in impalcatura
semantica condivisa per concordare sui contenuti delle parole.

Le qualità dei corpi fisici possono essere oggetto di una singola sensazione (colore, odore sapore).
Oppure di più sensazioni come la “solidità”, l’“estensione” e la “figura” → queste si possono
misurare | sono oggettive. Sono qualità primarie.

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Colore, odore, sapore sono qualità secondarie, perché producono sensazioni solo attraverso le
qualità primarie. Queste esistono perché ci sono oggetti colorati, saporiti, profumati… per tal
ragione sono qualità secondarie.
Quando molte idee semplici si raggruppano costantemente insieme si forma nella mente un'idea
complessa → da che cosa provengono? Da diverse esperienze che noi accostiamo tra loro.
Le idee complesse non sono da intendere come universali, perché hanno sempre un contenuto
particolare determinato dalle idee semplici.
Non sono idee universali

Le idee complesse possono essere idee di:


 SOSTANZA → derivante dalla costante associazione di idee semplici. La sostanza non
viene percepita, tuttavia la si postula (= ammettere senza giustificare) come ciò che sostiene
(sta sotto) e tiene unite le diverse qualità empirico-visibili delle singole cose. Egli la chiama
SOSTRATO OSCURO (substratus obscurus) privo di giustificazione.
 MODI → affezioni | accidenti esistenti nelle sostanze o dipendenti da essi (numero, durata,
azione, intensità…)
 RELAZIONE → tra le sostanze (per esempio l’"identità" di una sostanza con se stessa o la
"causalità" di una sostanza in rapporto ad un'altra).

HUME
Si può costruire una scienza dell’uomo con lo stesso rigore della scienza newtoniana?
È il punto da cui inizia la questione posta da Hume.
Prima si conosceva con esattezza la natura (le leggi della meccanica) → possiamo conoscere con la
stessa esattezza l’uomo?
Anche l’uomo fa parte della natura di cui Newton ha individuato le leggi universali. Ma se l’uomo
fa parte della natura, qual è la natura dell’uomo? Abbiamo per l’uomo categorie e metodi di
oggettività richieste dal modello di scienza newtoniano?

Come per Locke la base primaria di ogni nostra conoscenza (ossia di ogni nostro rapporto con la
realtà) è la percezione, che rinchiude l’uomo nell’ambito della propria soggettività.
Le percezioni si dividono in impressioni e idee:
 Le Impressioni → sono più forti, più evidenti, vivide: percezione impressa (es.: lo schiaffo,
il fiore: vedo un fiore, ne sento il profumo, ne tocco i petali).
 Le Idee → sono più deboli e illanguidite, qualche volta complicate e ambigue (quando non
ho più un fiore dinanzi a me, ma me ne ricordo il colore, il profumo e la morbidezza, posso
dire di averne l'idea).
Tra impressioni e idee vi è quindi piena corrispondenza: sono le stesse percezioni considerate in due
momenti diversi della loro penetrazioni della mente.

Ci sono tuttavia idee cui manca una impressione corrispondente: per ex. una montagna d’oro, un
ippogrifo, ecc.… → sono idee arbitrarie costruite da noi, partendo tuttavia da impressioni singole
che poi noi abbiamo congiunte fra loro: montagna con oro, cavallo con aquila.
La corrispondenza di queste idee non è ad impressione, ma ad idee singole → Ipostasi →
trasformazione di una realtà in qualcosa di veramente esistente.
Per giudicare se un’idea è fondata bisogna naturalmente risalire alle impressioni di cui essa si
compone. Altrimenti l’idea è priva di significato.

Secondo Hume, ne consegue che:


 Le idee generali o astratte (gli universali) sono impossibili. Le idee in sé non esistono!
 L’idea astratta è soltanto il nome (il modo) con il quale noi indichiamo le idee particolari
che presentano una reciproca somiglianza. Gli universali sono nolo NOMI.
 Non esistono idee innate, cioè indipendenti dall’esperienza
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 A differenza di Locke, Hume preferisce non usare il termine ambiguo “innato”. Ad esempio,
se per innato si intende semplicemente “naturale” allora tutte le impressioni sono innate.

Le idee hanno una caratteristica particolare → hanno una specie di automobilità, sono dinamiche:
una naturale tendenza all’associazione vicendevole secondo:
- Principi di somiglianza → ex. Un ritratto ci rimanda all’originale | all’uomo somigliante.
- Contiguità nello spazio e nel tempo → ex. Nell'Idea di casa il ricordo di una stanza ci fa
pensare alle altre stanze della stessa casa (contiguità-vicinanza-prossimità... La casa è fatta
dalla camera da letto segue il corridoio, poi il tinello, ecc....).
- Di relazione causa-effetto → ex l'idea di una ferita (causa) è connessa a quella del dolore
(effetto) | es2. fuoco e fumo.

Hume distingue 2 generi fondamentali di conoscenza:


1. Le conoscenze che riguardano "Relazioni tra idee" (relations of ideas) → sono ottenute
ricavando un’idea dall’altra, senza dover ricorrere all’esperienza → CONOSCENZA
ANALITICA (prescindono dall’esperienza) conoscenza che deriva per analisi. Ex. 2+2=4 |
risulta non dall'esperienza poiché l’idea di 4 è già contenuta nel 2+2.
Queste sono idee:
a. A priori → non derivano dall’esperienza, indipendenti da essa;
b. Necessarie → perché il loro contrario implica contraddizione.
2. L'altro genere di conoscenze è relativo "a materia di fatto" (matter of fact) → (Leibnitz:
verità di fatto): in queste è sempre possibile il contrario di ciò che viene affermato.
Per esempio dire che «domani non sorgerà il sole» non comporta contraddizione, poiché
nell’idea di «sole» non è contenuta l’idea che «esso debba necessariamente sorgere tutti i
giorni».
Queste conoscenze sono dunque possibili soltanto in virtù dell’esperienza e si fondano sul
principio di causalità. Per esempio: se vedo il fumo, inferisco da ciò la presenza del fuoco.
Sono possibili soltanto in virtù dell’esperienza e si fondano sul principio di casualità. →
scetticismo.

Ma Hume si chiede se le connessioni causali tra fatti siano sempre valide, ovvero se la relazione tra
causa ed effetto ha davvero un carattere necessario - come pensavano Cartesio e Newton.
Lanciando su un biliardo la palla A contro la palla B, siamo soliti dire che A – urtando B – ne causa
lo spostamento e il movimento.
Abbiamo ragioni sufficienti per dire che A causa lo spostamento di B?
Il fatto suesposto testimonia soltanto tre cose:
1. Lo spostamento di B ha luogo soltanto quando si verifica un rapporto di contiguità spaziale
tra le due palle: soltanto quando A è in contatto con B, B si mette in movimento.
2. Tra il movimento di A e quello di B si dà un rapporto di successione temporale: prima si
muove A, e poi si muove B.
3. Fino a questo momento tra A e B c’è sempre stata una connessione costante: finora si è
sempre verificato che, quando A viene a contatto con B, B si mette in movimento.
Ne consegue che, secondo Hume, queste tre osservazioni non sono sufficienti a giustificare l’azione
causale di A su B. Tale movimento, infatti, potrebbe essere privo di causa o essere prodotto da una
causa a noi sconosciuta.
La legge non esprime alcuna essenza delle cose, bensì esse non sono altro che la generalizzazione di
atti che noi abbiamo costantemente visto in un certo modo, ma alla ragione non è chiaro il nesso
intrinseco tra A e B. a noi è chiaro che ogni volta che abbiamo visto questo fenomeno abbiamo
visto l’1 il 2 e il 3.
In tal caso, la contiguità tra le due palle o la successione dei loro movimenti si presenterebbe solo
casualmente insieme alla vera causa dello spostamento di B.
Rapporto causale → data una cosa ne consegua, in forza della proprietà di questa cosa, un’altra.

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La ragione non vede le ragioni per cui dato A si deve dare B → la ragione vede idee che vanno
insieme per abitudine | per contiguità.

Anche il fatto che finora la connessione tra A e B si è verificata sempre alle stesse condizioni
potrebbe essere casuale.
Non vi è, infatti, alcuna garanzia che la relazione rimanga la stessa anche in futuro.
Non c’è nulla nella palla A che possa di per sé spiegare il movimento della palla B.
Un uomo che avesse soltanto esperienza di A senza aver mai visto B non potrebbe mai derivare da
A la conoscenza di B, come avverrebbe se la connessione tra A e b fosse necessaria.
Ma allora in base a che cosa affermiamo che esiste un nesso causale tra A e B?
 Hume risponde: in base all’abitudine.
 Ogni nostra inferenza causale si fonda sull’abitudine a osservare una certa connessione
tra fenomeni.
 Ogni nostra inferenza causale è congiunta al presupposto dell’uniformità della natura.
 In base a questo presupposto noi riteniamo che la natura obbedisca a leggi costanti,
identiche per il passato, il presente e il futuro.
 Quando vediamo che A viene in contatto con B, per abitudine non mi limito a prevedere il
movimento di B, ma credo che B si muoverà a causa di A.
 L’abitudine ad associare tra loro due fenomeni genera dunque la CREDENZA nella
realtà della loro connessione.
 La credenza non ha dunque nessun fondamento in una argomentazione razionale, ma è
espressione di un istinto connaturato nell’uomo.
 Non esiste una rigida contrapposizione tra ragione e istinto: anche la ragione è un
istinto.
 La tendenza dell’uomo a sottoporre tutto a critica e a verificare è essa stessa
manifestazione di un impulso istintivo radicato nella natura umana.

Per Hume la credenza (belief) nell’esistenza dei corpi - come in quella di causalità - deriva
dall’abitudine a vedere associati un insieme di impressioni (colore, forma, solidità, peso).
Noi non abbiamo, infatti, nessuna esperienza e quindi nessuna impressione dei corpi materiali,
perciò non possiamo affermare l’esistenza delle sostanze materiali. La credenza giustifica il
principio invisibile di causa-effetto. Esperienza: vissuto in cui la realtà si rende evidente e
conoscibile in tutte le sue manifestazioni, non solo quelle immaginative.
Ciò vale anche per l’idea della sostanza spirituale, cioè l’esistenza del soggetto conoscente. Noi
siamo fasci di sensazioni siamo tanti io quante sono le sensazioni. Perciò non possiamo costruire
una scienza di essenze: metafisica.
Noi non abbiamo esperienza, cioè impressione del nostro «io», ma solo dei nostri stati di coscienza
(ricordi, passioni, sensazioni, desideri, idee), i quali fanno la loro apparizione nella nostra coscienza
come in una specie di teatro.
Noi, secondo Hume, non siamo una sostanza sempre identica a se stessa, una «persona» dotata di
una propria identità immutabile, ma siamo soltanto un fascio di impressioni che si susseguono nel
tempo.
Se l’io fosse una sostanza, tutte le cose, le quali non sono altro che impressioni, sarebbero dei modi
di questa sostanza e si avrebbe pertanto una concezione panteistica come quella di Spinoza.

Anche in questo caso, ciò che ci assicura della nostra esistenza e della nostra identità personale, è
semplicemente la credenza, cioè il sentimento, la convinzione di essere sempre la stessa persona,
nonostante il susseguirsi, e quindi il mutare, dei nostri stati di coscienza.
Come già Locke faceva dipendere dalla coscienza, cioè dalla memoria, l’identità personale, così
Hume fa dipendere il soggetto dall’abitudine a riferire certe impressioni a noi stessi distinto dalle
impressioni piuttosto che a un corpo esterno.
In realtà questo soggetto non ha maggiore realtà di quanta ne abbiano i corpi (si giustifica per
credenza).
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Con ciò Hume è convinto di avere spiegato l’autentica scienza dell’uomo, cioè di avere spiegato
scientificamente come e perché gli uomini credano nell’esistenza delle cose, della natura e di se
stessi.
È evidente che in questa convinzione Hume applica innumerevoli volte il principio di causalità, o
di ragion sufficiente cioè come certezza che ogni cosa abbia una spiegazione, ovvero un perché.
Hume vuole spiegare dei perché prescindendo dal principio di causalità.

KANT (1724-1804)
La questione di fondo della sua teoria della conoscenza consiste nella domanda non se la ragione
abbia valore, ma se certe conoscenze e precisamente se la metafisica abbia valore.
Tale domanda sorge dalla constatazione che non esiste la metafisica – come esiste la geometria –
ma le metafisiche.
Ciò sembra dimostrare che la ragione ha fallito.
Kant non mette in discussione tutta la conoscenza, ma un certo tipo di conoscenza. Di sicuro ha
quel sapere che dimostra di aver successo → in base ad esso può stabilire se anche la metafisica
possa rientrare o no nel sapere.
Siccome la metafisica non lavora sulle intuizioni sensibili, essa corre il rischio di cadere nella
fantasticheria → i metafisici costruiscono castelli in aria.
Perciò è necessario che il metodo preceda la scienza, affinché indichi alla ragione la strada che le
impedisca di andare a finir male. Devo lavorare sul metodo, che mi dà il materiale. Le scienze
empiriche invece hanno il materiale già pronto.
Tale metodo (la critica della ragion pura) deve consistere nella spiegazione dell’origine della
scienza, cioè delle leggi della ragione pura (expositio legum rationis purae, est ipsa scientiae
genesis).
In primo luogo Kant intende indagare come sono possibili le scienze in cui la ragione riesce (le
scienze fisico-matematiche). Poi verificare se questo procedimento si possa applicare anche alla
metafisica.

Come funzionano la matematica e la fisica secondo Kant? (non se! Parte dalla convinzione assoluta
che esse funzionano! Ora vuole sapere come funzionano. La base sicura è già data).
Esse sono costituite di proposizioni necessarie (se le pensassi diversamente mi contraddirei) e
universali (si riferiscono ad un complesso di fenomeni raggruppati in un medesimo genere) →
ossia a priori (non deriva dall’esperienza).
Tuttavia non sono proposizioni analitiche → cioè il predicato è contenuto nel soggetto analizzando
il quale avrò il predicato. Non sono analitiche perché le leggi della scienza aggiungono conoscenza
ai predicati. Ampliano il sapere. Altrimenti ci direbbero ciò che già sappiamo.
Ma sono anche giudizi che ci insegnano qualcosa di nuovo (non sono pure tautologie), il che vuol
dire che in essi il predicato non è identico al soggetto → devono derivare dall’esperienza. A
posteriori.
Sono dunque giudizi sintetici a priori: sintetici perché in essi il predicato aggiunge qualcosa di
nuovo al soggetto, a priori, perché sono necessari e universali.

Scienza è fatta di proposizioni sintetiche (perché in essi il predicato aggiunge qualcosa di


nuovo al soggetto) a priori (perché sono necessari e universali) hanno 2 caratteristiche:
- Necessari e universali
- Ci insegnano qualcosa

I giudizi sintetici a priori sono possibili perché l’oggetto su cui sono pronunciati è un fenomeno.
Fenomeno è ciò che risulta dai dati della sensibilità e da certe forme a priori che ordinano tali dati in
un’unità oggettiva.
Le condizioni della possibilità dell’esperienza sono a un tempo condizioni della possibilità degli
oggetti dell’esperienza (non conosce gli oggetti ma conosce le impressioni) - le modalità con le

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quali io posso fare esperienza cono le stesse modalità dell'oggetto che mi si presenta →
corrispondenza tra condizione di esistenza degli oggetti e della pensabilità degli oggetti stessi.
Se i dati della sensibilità fossero intesi come impressioni di tipo humeano non sarebbero possibili
giudizi a priori.

Kant è d’accordo con Hume nel ritenere che la sola esperienza non basta a giustificare il valore dei
giudizi scientifici.
Tuttavia si chiede com’è possibile che tali giudizi siano in grado di prevedere con esattezza i
fenomeni che essi descrivono.
Non basta ricorrere all’abitudine per spiegare la capacità anticipatrice e previsionale delle leggi
della scienza. Accetta la pars destruens di Hume, ma non quella costruens (troppo debole).
Per Kant bisogna individuare il principio che rende le leggi così efficaci, cioè necessarie e
universali.
Tale principio egli lo trova nella specifica procedura che la scienza pone in atto per individuare il
funzionamento dei fenomeni.
Rifacendosi a Galilei, Kant sostiene che l’ipotesi formulata dallo scienziato trova conferma
nell’esperimento in quanto quest’ultimo risponde a una aspettativa la cui rispondenza lo scienziato
stesso a creato. Galileo ha trasformato il fenomeno in numeri, lasciando da parte tutto il resto.
Lo scienziato trova nel fenomeno sperimentato ciò che egli stesso vi ha messo.
Se il fenomeno, come dice Hume, mi resta inconoscibile, vuol dire che il contenuto conoscitivo
posso apprenderlo solo lo immetto io stesso nel fenomeno.
Immetto in esso due cose che non sono del fenomeno, ma del soggetto:
 Lo spazio-tempo i fenomeni che percepiamo sono nell’atto in cui li percepiamo spazializzati
e temporalizzati. Noi non percepiamo spazio e tempo perché sono condizioni di conoscenza,
non sono realtà delle cose. Sono intuizioni pure: il modo con cui noi percepiamo le cose.
FENOMENO → DATITÀ SPAZIO-TEMPORALE.
 Le categorie → Il materiale dell’esperienza è grezzo: va filtrato e fatto diventare fenomeno,
va affinato entro categorie, schemi | questi concetti (le categorie).
In questo modo rendo l’oggetto intelligibile, perché gli conferisco la conoscibilità, altrimenti esso
resterebbe estraneo.
Per questa ragione Kant dell’oggetto distingue due aspetti:
 Quello del suo essere fenomeno, del suo apparire a me
 Quello del suo essere noumeno, del suo essere in sé - forma sostanziale.
Noi conosciamo le cose non uti sunt, ma uti apparent.

L’oggetto nel venire percepito subisce una spazializzazione, cioè viene trasformato in fenomeno
ovvero in ciò che per apparire subisce una spontanea azione da parte dell’intuizione sensibile del
soggetto.
La stessa cosa avviene a proposito del tempo: le cose sono spontaneamente intuite nel tempo, cioè
in una disposizione di successione (prima/poi) o simultaneità (ora).
È evidente che noi non percepiamo passivamente le impressioni, come diceva Hume, ma
attivamente le cose fenomenizzate, cioè ordinate in schemi spaziali e in successioni o simultaneità.
Per Kant, quindi, lo spazio e il tempo non sono realtà extra soggettive, autonome e indipendenti,
ma intuizioni empiriche.

Il secondo elemento che, secondo Kant, il soggetto immette nell’oggetto è quello delle categorie.
Esse sono forme o concetti che ordinano i contenuti empirici i quali senza di essi sarebbero ciechi,
cioè non porterebbero a nessun sapere necessario e universale.
Per Kant le categorie sono funzioni dell’intelletto →
I concetti derivano dai corrispondenti giudizi divisi in 4 gruppi:

1. Quantità
a. unità
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b. pluralità
c. totalità
2. Qualità
a. realtà
b. negazione
c. limitazione
3. Relazione
a. inerenza
b. causalità
c. reciprocità
4. Modalità
a. possibilità
b. esistenza
c. necessità

Quando il soggetto vuole conoscere l’oggetto in realtà ha davanti un fenomeno che viene descritto
da giudizi che evidenziano rapporti e relazioni tra concetti.
Beninteso da giudizi sintetici a priori, cioè giudizi scientifici.
Giudizi che contengono i caratteri di necessità e di universalità e, contemporaneamente, quelli
ampliativi del sapere derivanti dall’esperienza.
In questo modo Kant ritiene di aver superato lo scetticismo di Hume e insieme di aver giustificato il
valore della scienza moderna.

Osservazioni critiche

 Ammette il valore del sapere matematico senza discussione.


 Matematica e fisica sono trattate al medesimo livello psicologico.
 Per Leibniz Locke Hume invece la matematica è analitica, la fisica esprime conoscenze
generalizzanti, sono giudizi sintetici a posteriori.

Dialettica è logica della parvenza, è arte di dare alle proprie illusioni il carattere di verità.

La metafisica si compone di questi tre postulati:


Dio → produce una teologia razionale → si può fare una scienza di Dio? → su dio non si possono
costruire ragionamenti volti a dimostrarne l’esistenza, si commettono errori: paralogismi.
Anima → produce una psicologia razionale → si può fare una scienza dell’anima? →
Mondo → produce una cosmologia razionale → si può fare una scienza del mondo? → vi sono dei
ragionamenti che portano a antinomie → una risposta no esclude una posizione opposta. Non si
escludono le possibilità opposte.

Si può fare scienza a partire da questi 3 fondamentali capitoli che all'epoca di Kant costituivano la
metafisica (cfr. Leibniz, Wolff)? Kant risponde di no, è critico a riguardo...
Si possono commettere degli errori (paralogismi).
cfr. Dialettica trascendentale
Ragionamenti dialettici con accezione negativa (con Platone invece aveva una accezione positiva -
il filosofo era un dialettico).
La metafisica, dunque, non è risolvibile in quanto non abbiamo argomenti a riguardo... Essa non è
oggetto fenomenico.

1. Ammette il valore del sapere matematico senza discussione → matematismo. Ammette un sapere
che per sua natura ammette un valore paradigmatico. Lo assume come metodo e non lo mette in
discussione.
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Ma dice Kurt Godel che la matematica non può essere dimostrata con proposizioni matematiche.
Ciò vuol dire che i fondamenti della matematica stanno fuori della matematica → stanno in una
considerazione riguardante la particolarità ontologica di alcuni enti. La risposta sta nell’analisi
formale di una certa ontologia formale, della caratteristica degli enti ideali numerici.

2. Matematica e fisica sono trattate al medesimo livello psicologico → la proposizione della


matematica, per Kant, ha lo stesso valore della proposizione della fisica quanto a rigore. Ma la
matematica tratta di enti ideali (i numeri) la fisica di enti reali. La matematica è più rigorosa della
fisica perché produce risultati standard invece i risultati della fisica sono mutabili perché gli enti
reali della fisica mutano a loro volta.

3. Per Leibnitz, Locke, e Hume invece la matematica è analitica, la fisica esprime le conoscenze
generalizzanti, sono giudizi sintetici a posteriori.

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