Sei sulla pagina 1di 82

1

DISTORSIONE
ONIRICA

2
3
Federico De Caroli

LA CROCE DI ACACIA

4
Trascrizione e revisione definitiva del manoscritto originale
Savona - 1986/87

1. - VITA NOTTURNA

Improvvisi suoni di violino e di trombe riempivano gli spazi vuoti

5
coprendo le voci e le immagini che potevano suggerire; ma il
caleidoscopio di tamburi non aveva mai fine.
Dafne era seduta al centro della stanza, con le gambe incrociate,
completamente immobile. Il suo sguardo non andava oltre le lenti
scure degli occhiali da sole. Tutti i nervi del suo corpo erano
rilassati. Neanche il ritmo incessante avrebbe potuto sbloccarla,
indurla al movimento o allo scatto istintivo.
Dafne sembrava una scultura plastica, ma si percepiva l'alito di vita
che il suo corpo emanava.
La stanza era vuota, fatta eccezione per l'impianto stereofonico e
il tappeto su cui era seduta.
Aveva strappato persino i cavi del lampadario e i mobili stavano
ammucchiati in cucina, alcuni semidistrutti.
Soltanto i suoi pochi indumenti erano stati appesi alla maniglia
della porta, ma sulla parte esterna alla stanza.
Il suono cupo dei tamburi continuava a rimbalzare.
La penombra era uniforme, senza zone di luce più distinte.
Un solo led azzurro brillava come la prima stella della sera: il
pianeta di luce riflessa sullo sfondo del tramonto.
La musica cresceva come un vulcano lievitante. Cresceva,
cresceva, cresceva, esplodeva in un'armonia...
Dafne entrò in cucina e si versò del latte in un bicchiere.
Tutto era rimasto come prima. Non era mai cambiato nulla in quei
pochi metri quadrati di appartamento. Le tendine alle finestre si
erano ingiallite per il fumo che saliva dalla cucina a gas e sopra il
frigorifero c'erano le solite presine di lana mezzo bruciacchiate.
Niente poteva essere cambiato durante quei tre lunghi anni.
Dafne rivide il terrazzo, il semaforo, la bottiglia di gin, l'uomo che
si sfracellava dodici piani più sotto. Ricostruiva mentalmente ogni
volta la storia che Eugene le aveva raccontato, creando un suo
collage mentale; vivendo sensazioni che in realtà non aveva mai
vissuto.
Le parole non significavano nulla senza un percorso mentale le
valutasse e le organizzasse.

Dafne vide la sua faccia specchiarsi vagamente sulla superficie


lucida del tavolo. Contorni indistinti, due buchi neri al posto degli
occhi, i capelli pettinati ancora come un tempo.

6
Cercò di non farsi ipnotizzare dalla propria fissità.
Si versò dell'altro latte.
Poi andò nella sua piccola camera e accese il televisore,
accomodandosi sul letto ancora disfatto.
Frammenti di programmi restavano sullo schermo, mescolandosi
col senso di confusione che assorbiva ogni pensiero. Rumori,
suoni voci, oceani di parole in perfetta sintonia con le sue
ricostruzioni mnemoniche. E ancora una volta bastava ripescare il
passato per ritrovarsi seduti in poltrona col telecomando in mano,
a passare in rassegna immagini senza senso, con una madre sfatta
alle spalle.
Ma allora ogni fruizione di trasmissioni si perdeva nel subconscio.
Percezione subliminale.
Dafne spense il televisore e restò alcuni istanti a guardare una fila
di libri sullo scaffale bianco. Con tutto che la camera era
perfettamente in ordine, il letto era un casino, con le coperte
ammonticchiate e il cuscino messo di sbieco contro la parete.
Non poteva avere senso. Era come le immagini della televisione.
Si alzò, prese tutti i libri dallo scaffale e li scaraventò sul letto.
C'era odore di chiuso là dentro. Odiava quell'odore di corpo che
trasudava dal materasso e dalle lenzuola, ma non voleva
assolutamente rifare il letto, ora che era pieno di libri.
Si ricordò che doveva scrivere la pagina quotidiana sul suo diario.
Prese una penna e senza neppure sedersi alla scrivania cominciò
ad improvvisare una breve annotazione per la giornata.
<<24 giugno - Oggi è la fine. Credo che Eugene approverebbe. Ma è tutta
merda.>>
Richiuse l'agenda e lanciò la penna verso il televisore, colpendo
però la porta. Aveva l'espressione glaciale di una ragazza insana.
In altre occasioni le sarebbe venuta voglia di volare, di raggiungere
le alte sfere del cielo e poi piombare giù tra i palazzi. Le venne in
mente il giorno in cui si era messa a volare a pochi centimetri dal
soffitto di un cinema al di sopra degli sguardi esterrefatti del
pubblico presente in sala, con una frotta di ragazzetti che la
incitavano a fare acrobazie da brivido.
Era stato proprio quel giorno che aveva notato due strani
personaggi vestiti di verde e nero uscire dal cinema con fare
sospetto. Un ragazzo coi capelli lunghi e una ragazzina con degli

7
occhiali da sole triangolari.
Aveva cercato di pedinarli, ma in mezzo a centinaia di persona era
risultata una cosa impossibile.
Dafne appoggiò le mani alla scrivania ingombra di quaderni e fogli
sparsi, rimpiangendo per un attimo le sue voglie originali.
Conosceva alla perfezione cinque lingue e aveva viaggiato per il
mondo in lungo e in largo. Ora, invece, desiderava solo spaccare
ogni cosa e concludere il suo esperimento. Da sola.
Si cambiò e uscì.
Fuori stagnava un'umidità tiepida da fine primavera e la gente
camminava in mille direzioni diverse nell'indifferenza assoluta.
In una giornata come quella nessuno avrebbe minimamente
pensato di andare alla mostra di pappagalli, ma Dafne ci andò.
Lungo la strada incontrò una sua vecchia conoscenza, Davide Lo
Smilzo, ex studente della facoltà di lingue e grande appassionato di
musica rock.
Lo incrociò mentre lui stava giocando con un pallone bianco di
materiale morbido. Dafne notò la strana consistenza del pallone
perché le dita di Davide ci affondavano dentro come fosse di
gommapiuma. E poi notò anche che lui aveva un gatto grigio con
sé.
Si scambiarono per pochi minuti le solite frasi di circostanza da
studenti cresciuti; ma lei, però, era distratta continuamente dal
gatto. Voleva non ricordare le tante storie di gatti che aveva
condiviso con Eugene, soprattutto quella storia piena di sangue e
di dubbi.
Si congedò dunque da Davide frettolosamente e proseguì la
camminata verso il mare, con l'amaro in bocca di chi sa bene cosa
è sbagliato e non può rimediare.
Il mare era calmo e pulito. Gli enormi capannoni della fiera
costruiti sull'immenso piazzale antistante la spiaggia creavano un
contrasto insopportabile. Grigiastri, squadrati, inerti.
Dafne si sedette sul muretto della passeggiata e osservò l'enorme
cartellone che pubblicizzava la mostra dei pappagalli.
Un'esistenza di piume colorate con la catena alla zampa e la
scodellina per i semi.
Quinta fiera dell'ornitologia esotica, ovvero una celebrazione di
quelli che non erano più uccelli, dato che gli uccelli volano.

8
Decise di non entrare e di godersi il sole là fuori, seduta sulla
pietra come una sbandata. Concentrò su di sé la fissità
dell'ambiente circostante e si convinse che provare a muoversi
come fa la gente era una cosa estremamente pericolosa.
ben presto una pigrizia pesante le avvolse il corpo e la mente e
vide solo una macchia gialla davanti a sé, come un tuorlo d'uovo
luminoso.
Si risvegliò che era già notte.
Il silenzio ammantava la costa e tutti i suoi rumori di fondo, flebili
e sofferti.
Dafne: le chiome immobili degli alberi, alle sue spalle il mare si
disperdeva sulla sabbia ritmicamente come i passi di un corteo
funebre.
Si vedevano solo le luci lontane dell'autostrada e il riflesso lunare
sui capannoni dell'esposizione.
Si incamminò verso il centro città e si ritrovò a transitare davanti
all'ospedale. Le infermiere del turno di notte uscivano ogni tanto
per andare a comprare riviste all'edicola che stava aperta fino a
tardi, anche lì trovavano quasi sempre solo giornaletti porno e
prostitute che chiacchieravano.
Sul marciapiede c'era una culla di paglia intrecciata. Dafne gettò
un'occhiata e vide che dentro, del bambino, era rimasta solo la
testa. Il resto erano lenzuolini inzuppati di sangue.
Continuò a camminare, calpestando rimasugli di verdure lasciati a
imputridire ovunque. Quando sbaraccava il mercato rionale, le
strade tornavano ad essere quelle del XVIII secolo.
I tronchi degli alberi del corso erano tappezzati da locandine che
annunciavano l'arrivo di Thanai, l'ultimo paladino della musica
elettronica, idolo assoluto dei giovani indifferente e croce dei
critici musicali.
Dafne lo odiava artisticamente parlando, ma lo amava per il lato
oscuro che aveva cominciato a cogliere quando lui era diventato
una star. C'era qualcosa di fortemente magico e triste nel
personaggio di Thanai e le dispiaceva che la sua musica non
riuscisse ad esprimere quel lato così profondo e affascinante.
Sicuramente sarebbe andata al concerto e in un modo o nell'altro,
questa volta, sarebbe riuscita a parlargli.
Un grosso gatto stava rovistando nel pattume di un cassonetto e

9
Dafne pensò che quel gatto era suo fratello, perché faceva anche
lui vita notturna.
All'incrocio con la piazza del monastero assistette al tentativo di
suicidio di una ragazza con gli occhiali neri. Una cieca?...
Alcuni amici cercavano di dissuaderla, di trattenerla, ma lei riuscì a
lanciarsi giù dal balcone, cadendo tra le urla disperate e i fasci di
luce dei lampioni.
Dafne non poté fare a meno di sorridere per quel breve volo dal
secondo piano. Pensò che certi suicidi nemmeno sapevano cosa
volessero esattamente.
La ragazza con gli occhiali neri si rialzò gemendo.
Dafne si lasciò alle spalle quel gruppetto di squilibrati che
iniziarono a ridere e far festa per la scampata morte.
Quella città stava diventando pericolosa per tutti.
Le mancavano ancora cinquecento metri per tornare a casa ed era
stufa di camminare in silenzio. Sputò su una saracinesca
arrugginita l'amaro che aveva in bocca. Provò ad immaginare cosa
poteva essere quella strada alle sei di sera del sabato e sputò di
nuovo in segno di disprezzo per la folla.
Notò che qualcuno aveva scritto con la vernice spray proprio
davanti al negozio di dischi "PORCELLONI TOTALE 41".
Le lettere rosse spiccavano sul lastricato grigio.
Quella città stava realmente diventando pericolosa.
Dafne entrò nell'androne e guardò l'orologio. Alle tre di notte
nessuno avrebbe potuto vederla. Strinse il pugno e lo sferrò
contro le cassette della posta. Tre andarono in frantumi e le
schegge di plastica schizzarono dappertutto.
Si osservò la mano ancora serrata e si compiacque del successo di
quell'operazione che avrebbe sicuramente suscitato l'interesse di
qualcuno. C'erano schegge di plastica persino sulla prima rampa di
scale.
Il mattino dopo Dafne si ridestò in mezzo al disordine della
stanza con l'incubo ancora dentro la testa.
La sveglia si era fermata sulle quattro. E non aveva suonato.
Sbatté le mani sul materasso due o tre volte, bestemmiando tra i
denti, e si alzò cercando di vincere il sonno.
Fece luce sulla situazione più che caotica e dovette farsi strada a
calci tra cumuli di abiti, riviste, carte appallottolate.

10
Respirò la polvere della strada affacciandosi alla finestra e fissò
stralunata la gente che già stava correndo su e giù per la città,
indaffarata e robotizzata.
Anche l'orologio alla fermata dell'autobus era fermo.
Dafne sbuffò e tornò sul campo di battaglia.
Avrebbe voluto dare fuoco a tutti quei vestiti con la sadica rabbia
di un piromane professionista. E si ricordò di un giorno - molti
anni prima - in cui ancora bambina aveva incendiato l'automobile
di suo zio. Cospargendola di alcol etilico.
Le era piaciuto tanto farlo: quell'episodio le aveva lasciato dentro
un indelebile piacere. L'atto di distruzione col fuoco era un atto
estetico.
Si infilò gli occhiali da sole perché la luce cominciava a infastidirla
e poi andò a rovistare in cucina, cercando un pezzo di pane secco
da mangiare per colazione.
Accese la radio e dovette sorbirsi un notiziario del mattino con la
sua sequenza di notizie stronze e impareggiabilmente inutili.
Ogni tanto un intermezzo musicale basato su scadente musica
pop dell'ultima ora.
Prima di fare training autogeno, si lavò accuratamente sotto la
doccia e poi lasciò un'annotazione sul suo diario.
Alle undici era pronta a concentrarsi; accese l'impianto stereo e si
sedette al centro della stanza con le gambe incrociate.

2. - IL PUZZLE

Fandango Tony aveva i capelli unti e l'alito che sapeva di muschio.

11
Guardò il biglietto appena acquistato per il concerto di Thanai:
soldi ben spesi - pensò - rimettendolo nel portafogli.
Quando arrivò il cameriere, Fandango Tony un frappè alla rosa e
poi si accese una sigaretta. A quell'ora nel bar non c'era nessuno,
fatta eccezione per i due camerieri e un vecchio sdentato che
beveva vino bianco. Non era un bar da clientela selezionata,
trovandosi a due passi dalla stazione. Anzi, i migliori affari in
quella zona si facevano con gli sbandati che si aggiravano in zona
e con la gente di passaggio: vecchi immigrati, venditori ambulanti,
preti e suore.
Sedie e tavolini erano adeguati a quella caleidoscopica situazione.
Là dentro si respirava un'aria internazionale tutto l'anno; un'aria
fatta di colori sgargianti che ispiravano viaggi esotici, odori caldi e
freddi.
Fandango Tony ringraziò il cameriere che gli aveva portato il
frappè. Cominciò a succhiare con la grossa cannuccia a righe
bianche e gialle e intanto fece mente locale sulla decisione da
prendere a proposito del suo contratto editoriale.
Era quasi certo di mollare tutto e accettare la vantaggiosa
proposta della rivista Sentieri Aperti, con un contratto quinquennale
per l'esclusiva dei suoi racconti e un posto da redattore nella
sezione narrativa. Si vedeva già calato nel suo ruolo di
responsabilità, con la sua dattilografa personale, la sua linea
telefonica dedicata, il suo mezzo ufficio ben arredato.
Dopo anni di vita trasparente, passata a scrivere storie da
sottoscala per un gruppo editoriale in costante via di fallimento,
finalmente si trovava davanti l'allettante sogno di un lavoro serio,
ben retribuito e degno di considerazione e delle sue capacità.
Avrebbe avuto tutto il tempo per creare e perfezionare i suoi
scritti; e inoltre la possibilità di vagliare gli scritti altrui ed
esprimere pareri rilevanti. Avrebbe avuto un peso nella gestione
della rivista.
Finì di svuotare il bicchiere e si sentì certo di firmare quel
contratto.

Lasciò qualche moneta sul bancone e uscì sprizzando ottimismo


da i pori, dalle orecchie e da tutti gli altri buchi. C'era voluto tanto
per convincersi che niente era stato inutile: tutti i suoi sforzi, i

12
sacrifici, la disperazione, l'impegno. Tutto si era concentrato per
consentirgli di arrivare alla meta. Il destino era stato benevolo.
Prima di tornare nel suo malconcio bilocale con cucinino, passò
alla sede telefonica centrale per chiamare Galdi, l'amico che aveva
fatto da intermediario con la direzione di Sentieri Aperti.
La centrale era a soli due isolati da lì, dalla piazza in cui si trovava
il bar. Per cui si incamminò senza fretta sulla strada che puntava
verso la periferia.
Passò davanti a un negozio di dischi dalla cui vetrina un'effige del
Duce ammiccava storicamente; poi davanti a una profumeria, a un
negozio di dolciumi, quindi a un grande portone, a un'edicola, a
una tabaccheria che teneva esposta una scatola enorme.
Fandango Tony si fermò a leggere l'enorme cartello giallo
incollato sulla scatola: INDOVINA QUANTE TESSERE DEL
PUZZLE CI SONO QUI DENTRO - VINCI LA CASA DEI TUOI
SOGNI.
Il concorso era legato ad una nota marca di chewingum, di quello
che non si attacca ai denti.
Fandango, dopo un attimo di esitazione, entrò e chiese al
tabaccaio quali fossero le modalità di partecipazione al concorso.
Uscì pochi istanti dopo con una confezione da ventiquattro stick
in mano e sostò ancora a guardare la scatola per valutarne le
dimensioni.
Non era trasparente, come quelle usate solitamente per quel
genere di sfide. Dunque, impossibile farsi un'idea seppur vaga. Le
tessere lì dentro potevano essere da zero ad almeno cinquemila,
considerando le dimensioni dei puzzle più grandi.
Fandango tornò a casa col suo pacchetto e cominciò a spremersi
le meningi su come calcolare in modo probabilistico il numero di
tessere, dimenticando completamente di telefonare a Galdi.
Si sedette alla piccola scrivania, prese carta e penna e buttò giù un
po' di numeri approssimativi, ma realistici.
Dopo venti minuti di calcoli, Fandango capì che solo un colpo di
culo poteva aiutarlo ad azzeccare il numero giusto.
Lasciò da parte carta e penna e aprì la confezione di chewingum.
Tra gli stick trovò un cartoncino con su scritto un estratto del
regolamento del concorso.
Lo lesse tutto con attenzione, pur conscio che le postille da

13
fregatura certo non le avrebbe trovate lì sopra. Ed ebbe così
conferma che era solo questione di culo.
Tuttavia il premio era troppo allettante per non provare. Il
regolamento diceva che il premio sarebbe stato comunque
assegnato anche a chi si fosse avvicinato per difetto o per eccesso
al numero esatto con uno scarto inferiore a 5. Un premio
consistente in un grande alloggio da arredare a proprio gusto con
l'unico limite di non superare l'importo prestabilito dal concorso,
considerando acquisto dell'immobile e arredi.
Fandango pensò che l'importo non era poi così elevato, specie per
certe persone già facoltose. Però, per uno come lui, sarebbe stato
il culmine della fortuna. Tanto più per il fatto che il concorso
terminava in concomitanza con i giorni in cui avrebbe firmato il
nuovo contratto.
In preda a un'euforia incontrollata, rovesciò una pila di libri sul
pavimento. Si sentiva come se avesse già vinto.
Prima di andare a dormire, restò quasi un'ora seduto sul water a
rovellarsi, cercando di forzare il suo intuito per risolvere il mistero
delle tessere. E dopo altri scatti di esaltazione, decise che per il
momento era meglio scaricarsi l'intestino e coricarsi per dormirci
sopra.
Probabilmente - pensò - sarebbe arrivato a una soluzione
plausibile anche facendo la somma delle cifre del suo codice
fiscale.
La radio di un vicino stava trasmettendo l'ultimo singolo di
Thanai e Fandango Tony si ricordò dell'imminente concerto.
Sicuramente avrebbe scritto qualcosa in merito.
Si addormentò sognando la sua nuova casa e il suo nuovo lavoro.
I tempi dello spirito di massa stavano per finire un'altra volta.
Il mattino dopo si svegliò con un sapore di cavolo bollito in gola e
gli occhi appiccicosi.
Ruttò e scorreggiò di brutto.
La prima cosa che vide quando tirò su la tapparella furono i
pacchetti di chewingum sul tavolo e la cartolina da compilare per il
concorso.
Mise sul fuoco la caffettiera nel piccolo lercio angolo cucina di
quel maledettissimo bilocale e ricominciò a pensare all'illusione del
premio in palio. Più considerava il caso, più propendeva per la

14
masticatura di palle come soluzione qualora avesse perso quel
premio.
Uno iellato cronico come lui era scontato che sperasse di vincere.
Con la prassi che difficilmente la vita regala qualche grande
soddisfazione al momento giusto o quando ce lo aspettiamo.
Prese una biro e compilò la cartolina in tutte le sue parti con
mano tremante. Nel riquadro ove indicare la soluzione scrisse il
numero 30 che era la sua età, ma anche la data di nascita di suo
fratello, morto da bambino investito da una BMW nera. Un'auto
che per anni era stata al centro dei suoi peggiori incubi.
Pur conscio che quel numero fosse poco plausibile per un puzzle,
si fidò delle sue cabale.
Alle otto e mezza Fandango Tony scese in strada fra la gente. La
gente a guardarla dava un'impressione di vuoto riempito (con cosa
non si sa).
Per prima cosa andò alla posta centrale a imbucare la cartolina,
quindi si infilò in una cabina telefonica per chiamare Galdi.
Si era segnato il contatto su un biglietto dell'autobus usato, con la
penna rossa; ma non aveva né gettoni né monete.
Entrò in una tabaccheria e chiese se potevano cambiargli una
banconota. Il tabaccaio gli rispose che il pezzo era troppo grosso
da cambiare tutto in spiccioli, ben sapendo che in realtà bastava
appena per comprarsi la carta igienica.
Fandango, spazientito, ma fiducioso, infilò la porta di una
pasticceria. Il tizio dietro il bancone gli disse che gli dava la
moneta a patto che usasse il telefono del suo negozio. Telefono su
cui spiccava l'etichetta GUASTO.
Lui guardò il pasticcere e si trattenne da insultarlo.
Dopo un'ulteriore mezz'ora di ricerche vane, riuscì a chiamare
Galdi che fortunatamente era ancora in ufficio.
Fandango appurò che fosse sempre intenzionato a raccomandarlo
per il posto in redazione e si fece dare un appuntamento per
definire la questione. Galdi, col suo vocione da panettone, fu
molto gentile e lo pregò di stare tranquillo perché il posto era suo
e lo avrebbe avuto quanto prima.
Una sensazione di felicità acquisita si impadronì della sua persona
e quando uscì dalla cabina non si avvide di una grossa macchina
che sopraggiungeva a velocità sostenuta.

15
Lui attraversò la strada con il sorriso sulle labbra e a nulla servì il
grido di una donna che aveva intuito l'imminente tragedia.
Una frenata paurosa e poi il tonfo vibrante del corpo che
rimbalzava sul cofano.
Le gambe piegate e spezzate furono risucchiate sotto il veicolo e il
resto decollò verso le chiome dei platani allineati lungo il viale.
Spruzzi di sangue raggiunsero i volti di alcuni passanti atterriti,
scatenando il panico, mentre il conducente investitore scendeva e
cominciava a piangere e vomitare.
La rapida eclissi dell'esistenza di Fandango Tony finì in pochi
istanti con quella sconfitta.
Fortunatamente per lui, non ebbe nemmeno il tempo di
accorgersi che il sapore dell'illusione è più amaro del peggiore
veleno. E soprattutto più letale.
Quando i volontari della Croce Rossa caricarono sull'ambulanza i
resti della vittima notarono che i muscoli del suo viso erano
ancora contratti in quel sorriso fiducioso.

3. - LAVORO ACCURATO

Sulla scalinata del duomo un gruppetto di tossicodipendenti se ne

16
stava stravaccato a lamentarsi, tra le merde di piccione e nell'odore
di cera fusa. Alcuni di loro avevano i denti visibilmente rotti e gli
occhi acquosi. Tutti puzzavano come carogne bruciate dal sole.
Uno di loro, in grado di farlo, leggeva un numero di Topolino.
Nell'afa del dopopranzo arrivò un furgoncino blu che, lì per lì,
sembrò proseguire oltre. I tossici non ci fecero caso.
Arrivato all'altezza dell'incrocio, però, il veicolo blu accostò e si
fermò; quindi si accesero i fari bianchi della retromarcia.
Il silenzio dilagante suggeriva un'atmosfera da film poliziesco.
Quando il furgoncino si arrestò nuovamente, proprio davanti al
portale del duomo, uno degli stravaccati disse:
- Sono venuti a rapinare il vescovo. -
I due uomini che scesero dal mezzo non avevano l'aria di
malviventi, a dire il vero. Avevano più l'aspetto inquietante di
becchini. Indossavano abiti neri e portavano i corti capelli pettinati
all'indietro spalmati di brillantina. Uno dei due aveva profonde
occhiaie scure e una crosta enorme in mezzo alla fronte.
Con modi molto professionali si avvicinarono alla scalinata e
sollevarono uno del gruppetto afferrandolo per le braccia. Il
giovane emaciato non oppose la minima resistenza e solo uno dei
suoi compari debosciati trovò il fiato per chiedere cosa stessero
pensando di fare.
I due del furgoncino non risposero e trascinarono la preda fino al
portello posteriore: quello con la crosta lo aprì e l'altro, con poco
sforzo, scaraventò all'interno il corpo praticamente inerme.
Dopodiché risalirono a bordo entrambi e ripartirono zitti e
tranquilli.
Dal gruppo di sconvolti non si levò il minimo commento e il
silenzio calò di nuovo come una coppa di ferro sulla zona deserta,
in compagnia del caldo soffocante e delle merde di piccione.
Il furgoncino compì un lungo tragitto attraverso la città e più volte
l'uomo con la crosta ebbe modo di far tacere il lamentoso ospite a
bordo con qualche pugno ben assestato sulla bocca.
Giunti a destinazione, la faccia del giovane drogato era ridotta un
macello, viola di ematomi e rossa di sangue.
Posteggiarono lungo la statale, sullo spiazzo antistante una grossa
baracca. Prima di scaricare il malcapitato, i due indossarono delle
tute da meccanico sopra gli abiti neri e tirarono fuori una sacca di

17
cuoio da sotto il sedile. Poi, mentre quello con la crosta andava ad
aprire la porta della baracca, l'altro afferrava per il collo il
prigioniero e lo strattonava giù dal pianale.
Una volta portatolo dentro, lo incatenarono pesantemente a una
trave, immobilizzando gli arti e il busto come temendo che
potesse fuggire nonostante le condizioni pessime.
Quello con la crosta lo guardò con noncuranza e l'altro, afferrata
una scure nuova di zecca, gli assestò un colpo netto all'altezza
della gola, staccandogli la testa quasi del tutto.
La decapitazione fu completata con un paio di fendenti
supplementari. La testa prima scivolò un po' di lato e poi rotolò
sulle assi marce del pavimento. Un copioso fiotto di sangue
sprizzò verso l'alto e formò rapidamente una pozza ai piedi della
vittima, impregnando i capelli sudati del capo mozzato.
I due pulirono accuratamente la lama della scure, raccolsero la
testa e la riposero nella sacca di cuoio. Dopodiché abbandonarono
la baracca lasciando il cadavere sanguinolento incatenato alla trave
e ripartirono col piccolo furgone in direzione ovest, verso la città,
per andare a fare la consegna a riscuotere il giusto compenso per il
lavoro eseguito.
Una volta in vista dei primi caseggiati della periferia, si
assicurarono che le cose stessero esattamente come convenuto. Si
fermarono a una cabina telefonica e il boia scese per contattare il
numero che gli avevano lasciato quelli dell'organizzazione su un
biglietto. L'altro restò a bordo, al posto di guida, aspettando con
impazienza e controllando continuamente la borsa. Entro le ore
venti avrebbero dovuto consegnare la testa.
Quando il compare tornò, fatta la telefonata, ebbe un attacco di
ansia indicibile.
- Allora?... - gli chiese ansimando.
- Alle sette davanti alla gru gialla in porto. Hai presente? -
- No! Gru gialla quale? -
- Quella sul molo grande, no? Comunque venti cocuzze, come
stabilito. -

L'uomo con la crosta sentì il sangue defluirgli dal cervello. Un


segno consueto della tensione che si scaricava al termine di un
lavoro difficile svolto con precisione e responsabilità. Quando il

18
compenso stava per materializzarsi, andava in apprensione,
nonostante fosse un tipo freddo e poco scalfibile. Finché non
vedeva la moneta sonante non era mai tranquillo.
Il furgoncino ripartì e schizzò in mezzo al traffico, lasciandosi alle
spalle la monotonia grigia della periferia per tuffarsi nelle
metamorfosi colorate della città.
Sul cavalcavia ferroviario spiccava un gigantesco manifesto che
reclamizzava il concerto di Thanai.
L'uomo con la crosta riuscì per qualche istante a fissare quel volto
alienato. Poi scomparve nell'ombra del sottopassaggio.
Tre isolati più in là una Ferrari nera cercava di inserirsi tra le auto
parcheggiate ai bordi della strada e quelle in coda al semaforo.
L'autista in divisa nera e gialla stava perdendo la pazienza e
bestemmiò all'indirizzo dell'eccessivo movimento di veicoli al'ora
di punta. Stringeva nervosamente il piccolo volante e ogni tanto
puntava l'occhio sul retrovisore per controllare che nessuno si
avvicinasse troppo alla costosissima carrozzeria lucidata.
Accanto a lui, seduto comodamente e solo apparentemente
tranquillo, c'era Thanai che si rosicchiava le unghie.
L'autista sapeva bene che anche un solo lieve graffio sulla Ferrari
avrebbe rovinato l'intera giornata al suo capo. Continuò a
bestemmiare tra i denti e a controllare la situazione.
- Non spazientirti, Mega - gli disse Thanai con tono pacato e
sguardo fino.
Proprio in quel momento una Volvo massiccia tagliò loro la strada
nonostante avessero diritto di precedenza.
Mega lanciò un insulto irripetibile all'indirizzo dello sciagurato e lo
lasciò inveire, senza accorgersi che il capo stava cominciando a
respirare aria elettrica e a distrarsi dalla contingenza.
- Con calma, Mega. Con calma. Io sono molto calmo, vedi? Siamo
tutti calmi. E se vuoi guidare bene, devi restare calmo. -
Il bolide proseguì lentamente nel caos.
L'Hotel Ahra sembrava introvabile e Mega cercò di intuire la
strada giusta seguendo le indicazioni per il porto.
- Ogni lavoro deve essere fatto con calma e accuratezza. -
Thanai si infilò gli occhiali scuri e appoggiò la mano sottile sulla
testa del suo autista.
Si voltò verso il finestrino. Più guardava la gente, più

19
comprendeva quanto fosse difficile continuare ad essere ottimi. Il
mondo era fatto di gente che lavorava per un mondo fatto di
gente che lavorava per un mondo fatto di gente... e così via.
Egli stesso stava fuggendo dal controllo superiore e sapeva che
neanche l'auto su cui era seduto esisteva realmente.
L'Hotel Ahra non esisteva perché non riusciva a trovarlo e ad
arrivarci.
Mega non esisteva.
Non c'era più niente di niente intorno e si sentiva una strana
scossa dentro, come se avesse assorbito e inglobato i generatori di
un synth.
Thanai era aria pura.
- Perché mi tieni una mano sulla testa? -
- Riesci a guidare anche così. Lo vedi? Ogni lavoro è buono se lo
svolgi accuratamente. -
Mega sterzò bruscamente e imboccò un vialetto che conduceva
all'albergo. Aveva adocchiato l'insegna blu all'ultimo momento.
Non appena in vista dell'edificio, la prima scena che si presentò fu
uno sciame di fotografi e cronisti che da almeno un paio d'ore
aspettavano il suo arrivo.
Thanai si stupì che tanta gente fosse riuscita a sapere dove e
quando. Avevano programmato un arrivo in sordina, senza il
solito codazzo di auto e collaboratori in parata al più prestigioso
hotel disponibile. Fino all'ultimo la sua agenzia di management
aveva diffuso false notizie e depistaggi. Il nome dell'albergo era
stato secretato. Evidentemente la strategia non aveva funzionato
in ogni caso.
La Ferrari nera si fermò all'ingresso del parking e mentre Mega
prendeva accordi con il valet, Thanai fu assalito da un'orda di
rompipalle della stampa, noncuranti di vederlo poco propenso a
parlare con loro. Quantomeno a parlare educatamente e in modo
esauriente.
- Siete come le mosche sulla merda. -
Scattavano foto a raffica e lo tempestavano di domande.
- Qualche sorpresa per il concerto di domani sera? -
- Quanti sono stavolta i tecnici e gli ingegneri impegnati nella
tournée? -
- Presenterai i nuovi brani? -

20
- Cosa ne pensi del fenomeno di ritorno del rock degli anni '70? -
- Una dichiarazione per i fans club!! -
Ignorandoli dietro le lenti scure, Thanai camminò fino all'entrata e
si intrufolò nella hall lasciandosi dietro un nugolo di irriducibili
che tentarono di seguirlo dentro.
Quando fu al centro della sala si voltò di scatto.
- La cautela del soggetto è la chiave di volta per il tempo di durata
- disse con voce ferma.
L'ammucchiata di giornalisti rimasta compressa sull'entrata si
affrettò ad annotare quelle parole, concedendo un attimo di
silenzio.
Lui ne approfittò per farsi dare la chiave e firmare il registro,
dopodiché sgattaiolò verso gli ascensori. Però incappò in uno
zelante fattorino che volle accompagnarlo al piano a tutti i costi,
certo di potergli chiedere un autografo personale.
La massa degli addetti stampa e i fotografi, intanto, aveva forzato
il blocco riversandosi nella hall con l'intenzione di assediarlo e
inglobarlo, per poi sbraitare domande idiote.
Thanai, a quel punto, alzò le braccia in segno di resa e annunciò
che avrebbe tenuto una conferenza stampa estemporanea nel
pomeriggio, in via eccezionale. Li aspettava lì in hotel.
Tutti soddisfatti.

4. VITA DIURNA

Dafne era all'apice della fobia urbana. Da due giorni se ne stava

21
chiusa in casa, al buio, mangiando tonno in scatola e carote
nell'aria pesante e acida.
Non riusciva neppure a pensare cosa potesse essere una massa di
persone nelle strade, in mezzo ad automobili roventi di frastuono,
tra voci e strilli, con le case incombenti sulle teste di ognuno e coi
vetri pronti ad infrangersi.
Soltanto la vista di una persona, anche sullo schermo del
televisore, la rendeva nervosa e allarmata.
Quella mattina decise comunque di mettere un po' d'ordine prima
di dedicarsi al solito training.
Cominciò a selezionare degli abiti da indossare al concerto di
Thanai. Quindi impegnò un'ora per pulire i pavimenti, spolverare,
sbattere in lavatrice la roba più sporca e infine farsi una doccia.
Asciugata, pettinata e vestita, trovò la forza di uscire per andare a
comprare qualcosa da mettere in dispensa, dato che le provviste
erano praticamente terminate e il frigo era vuoto.
Cercò di darsi un'aria di ragazza dignitosa e assolutamente
normale, pensando che questo l'avrebbe aiutata a superare
l'impatto con la realtà esterna che non sapeva più affrontare.
In strada si sentì subito a disagio. Il movimento di cose e uomini
lo sentiva vibrare fino alla radice del cervello e provò un senso di
svalutazione della sua persona. Vedere il caso metropolitano nella
sua completezza era come cogliere di far parte di un mosaico
senza importanza, un complicato gioco da fare e disfare e rifare e
poi da buttare via.
Camminò con falsa disinvoltura fino ai mercati generali,
chiudendo ogni tanto gli occhi dietro le lenti scure. Poi si tuffò nel
mare di donne che facevano la spesa mattutina. E andò a colpo
sicuro come un automa, riempiendo in pochi minuti due grosse
borse con frutta fresca, scatolame, pane, cartocci di latte e dolci
vari. Grosse al punto che si rese conto di non essere in grado di
trasportarle a casa da sola.
Una volta fuori dalla bolgia, respirò a pieni polmoni e per un
attimo evitò di accorgersi della città e della gente.

Le borse pesavano una maledizione. Non aveva alcuna intenzione


di trascinarsele dietro così, anche perché le sarebbe venuta
sicuramente una crisi e le avrebbe mollate a terra per calmarsi e

22
riprendere il controllo.
Si avvicinò al bordo del marciapiede, posò il fardello
delicatamente e si mise in posizione da autostoppista senza
pensarci due volte.
L'ora di punta le fu favorevole perché quasi subito una Citroen
nera si fermò accanto a lei e un uomo si sporse dal finestrino
salutandola.
Lo conosceva quel tizio. Doveva abitare dalle sue parti e qualche
volta si erano scambiati un mezzo sorriso.
- Serve un passaggio? -
Lei fece il giro del veicolo e si aprì la portiera. Poi prese le borse e
le caricò su, quindi si sedette accanto a lui senza dire una parola.
Il tizio era sulla quarantina, ben vestito, aria da persona regolare.
Probabilmente un libero professionista con trascorsi goliardici. Un
fighetto insomma.
- Non devo fare chilometri. Mi lasci pure giù vicino al teatro. E'
che queste borse sono davvero pesantissime. Ho fatto la spesa e
non mi sono resa conto. -
- Nessun problema. Sono cinque minuti, signorina. Anche col
traffico. -
Signorina??...
La Citroen si rimise in marcia.
Durante i pochi istanti che precedettero l'incidente, Dafne poté
parzialmente ripulirsi il cervello dalla nausea che provava. E
guardando ogni tanto l'uomo alla guida, pensò che anche lui era
uno dei tanti, uno della gente, un nulla totale che le stava dando
un passaggio perché era una donna avvenente. E basta.
Sicuramente lui era fiero della sua auto da stronzi che guidava in
mezzo ad altre auto da stronzi. Sicuramente non avrebbe rifiutato
un invito a casa per riconoscenza, o anche una sveltina in
macchina come "pagamento pedaggio".
Le tornò la nausea, immaginando una mano come quella sulla sua
pelle.
La collisione avvenne all'altezza di un incrocio con scarsa visibilità.

La Citroen nera prese in pieno una Fiat celeste scaraventandola


dieci metri più avanti e sfondandole tutta la fiancata destra.
Una folla di passanti si radunò istantaneamente attorno a quella

23
rottamaia, pronta a disperdersi non appena si fosse udita la parola
"testimoni".
Dafne, un po' intontita, ma illesa e per nulla spaventata, uscì dal
catorcio della Citroen. Poco dopo anche il suo autista emerse
dall'abitacolo presentandosi agli occhi del pubblico con un braccio
visibilmente sanguinante e imprecando a tutta voce.
Nel frattempo quello della Fiat si era già diretto verso di loro,
scusandosi per la manovra azzardata e chiedendo di poter fornire i
suoi dati per le solite procedure assicurative. Il fighetto, però,
senza nemmeno lasciarlo finire gli sferrò un pugno in pieno volto,
infuriato come una belva. Lo fece ostentatamente e l'altro cadde a
terra.
- Figlio di troia! - inveì - Bastardo! Guarda cosa hai combinato! -
Per nulla sorpresa di quella reazione, Dafne restò in piedi sull'orlo
del marciapiede mescolandosi agli altri spettatori. Aveva lasciato le
sue borse nell'auto e non intendeva recuperarle, se non una volta
terminato quel teatrino.
Il tizio della Fiat si rialzò e prese le distanze.
- Cerchi di non esagerare, per favore. Ora chiamiamo la polizia e
risolviamo tutto. La colpa è mia. Non si preoccupi. Mi prendo
ogni responsabilità. -
- Col cazzo! Sei una iena! Io t'ammazzo! - continuò lui.
Con movenze esagitate gli fu addosso in un attimo e cominciò a
tempestarlo di calci e pugni.
Ogni tentativo di difesa fu vano. In pochi istanti si ritrovò con le
costole spezzate e la faccia tumefatta.
Nessuno dei presenti (almeno una trentina di persone) mosse un
dito per intervenire. Quando la vittima stramazzò sull'asfalto con
le orbite spappolate e il volto dipinto di sangue, qualcuno
cominciò ad allontanarsi in silenzio.
Dafne poteva percepire la marcia indifferenza che corrodeva tutti
quei marci esseri con due gambe e sentì salire un conato di
vomito.
Prima dell'arrivo di una pattuglia, l'aggressore trovò il modo di
infierire ancora sul maldestro guidatore, usando un pezzo di
lamiera staccatasi dalla sua stessa auto. Lo colpì ripetutamente sul
collo per staccargli la testa e poi gli scarnificò un braccio fino al
biancore dell'osso.

24
Quando finalmente un poliziotto fermò quella furia cieca e lo
addormentò con una botta ben data, Dafne, disgustata, ma con
una certa freddezza, si allontanò da lì e si avviò verso casa.
Diede un'ultima occhiata al cadavere scempiato, martire
dell'incubo metropolitano. C'era di che ponderare su quel
simpatico episodio e sulle varie conseguenze, ma preferì
dimenticare, tornare alla sua estraniazione totale dal mondo, senza
più voglia di niente e senza borse della spesa.
Nell'androne le cassette della posta erano ancora sfondate e
inoltre, sulla parete, era comparsa una vistosa scritta: FANCULO
Gli inquilini del palazzo cominciavano evidentemente a dare segni
di vita.
A riprova di ciò la ottantaseienne signora Elmo cercò di intavolare
con lei una conversazione in ascensore.
- Eh signorina... Non c'è più rispetto per nulla, vede? Ho paura a
stare in casa anche col catenaccio tirato - si lamentò la vegliarda.
- Ma se tanto sta per tirare le cuoia - sussurrò lei tra i denti.
Scese al piano e lasciò la Elmo nella sua scatola di idiozia senile,
tra le parole che ancora le rimbalzavano attorno.
Appena entrata nel soggiorno, diede libero sfogo alla sua rabbia
istintiva e fisica, rovesciando coi denti serrati sedie e pile di riviste
e giornali. Spaccò due bicchieri lanciandoli contro il muro e sferrò
un calcio al cestino delle cartacce.
Non contenta, si trasferì in camera da letto con movimenti risoluti
e distruttivi, gettando in aria gli indumenti che via via si toglieva e
bestemmiando al mondo con le lacrime agli occhi e i singhiozzi in
gola.
Le pagine del diario erano ancora macchiate di sangue del giorno
prima e rivide l'uomo appena ucciso sull'asfalto proprio in quelle
pagine. Persino il legno della scrivania si stava inzuppando di
rosso.
Quando non ebbe più nulla addosso, tirò fuori da un cassetto un
portadocumenti di finta pelle e ne estrasse il biglietto del concerto,
assieme ad una piccola fotografia di sua sorella Vivida e ad una
bustina di coca che anni prima le aveva regalato un ragazzo.
Annusò il biglietto di carta plastificata e lo infilò nel portafogli.
Restò lì a ricordare sua sorella, con la memoria rigenerata dalla
piccola foto. Sua sorella che era stata l'unica cosa buona che la vita

25
le aveva dato e che poi si era ripresa, lasciandola sola al mondo.
Vivida portava i capelli castani e riccioluti, anche se in natura
erano scuri e solo ondulati. La sua bocca era qualcosa di
indimenticabile, così regolare ed espressiva, capace di ispirare
semplicità e sensualità e di suggerire il sentore di un profumo
penetrante.
Vivida era stata una specie di anima gemella, strappatale via dalle
circostanze avverse.
Quella foto sbiadita era l'unico ricordo tangibile di lei che le
restava.
Dafne ripose il portadocumenti nel cassetto e poi fece una scelta
definitiva per la "divisa da concerto". Di lì a sette ore si sarebbe
presentata ai cancelli dello stadio, attraversando l'immensità dei
figli della notte, pronta a ricevere i messaggi dell'oscuro ed
emblematico Thanai.
Nonostante la sua gelida musica elettronica le dicesse ben poco,
aveva già assistito a due suoi spettacoli in esaltante rapimento
dell'estasi. In entrambe le occasioni non era però riuscita ad
avvicinarlo e a comunicare con lui come avrebbe voluto, nel
tentativo di cogliere da vicino i segreti onirici della sua persona.
Thanai, dopotutto, era sfuggente e impalpabile.
Quella sera doveva assolutamente coronare il suo sogno e parlargli
a tu per tu, interrogarlo, imparare e capire grazie a lui ciò che
ancora non le apparteneva.
Si sentiva emozionata, fervida. Conscia che quei concerti le
procuravamo sempre un rigurgito di sommessa felicità repressa.
Paradossalmente, la moltitudine in adorazione di Thanai la
liberava dall'ansia generata dalla metropoli.
Mise ordinatamente sul letto i capi che avrebbe indossato per la
gran serata. Un costume da bagno intero, color nero lucido; una
tuta di cotone nero con dei fregi dorati e degli inserti di catenelle
intrecciate; un foulard rosso da annodare al collo; un paio di
scarpe aperte, sportive, con lunghi lacci che salivano fino al
ginocchio.

Al make-up avrebbe provveduto subito prima di uscire,


improvvisando.
L'orologio segnava le dieci e mezza. Le restava il tempo per

26
rilassarsi e pensare ai dettagli dei preparativi.
Approfittando del fatto che era ancora nuda, si dedicò
innanzitutto al training.
La musica già le martellava in testa.

5.- ROUTINE DA STAR

Nella Suite Oro numero 223 dell'Hotel Arha la rubinetteria del

27
bagno era in argento trattato. E lui odiava l'argento.
Thanai si domandò perché un posto come quello lasciasse
accedere alla hall a bande di cafoni quali solo certi giornalisti
sapevano essere.
Rubinetti di argento purificante e ignoranti fautori della cultura di
massa.
D'altronde la risposta era chiara: un modo come un altro per farsi
della pubblicità. Piuttosto noto tra i vip, ma defilato, l'hotel voleva
comunque mantenere un certo profilo mondano. Dove
pullulavano cronisti e paparazzi la visibilità era assicurata.
Thanai sputò catarro nel lavabo e tornò nella camera da letto
principale, dove Mega aveva appena fatto scaricare il suo bagaglio;
che consisteva in due valige nere nuove, un case con dentro
apparecchiature per riprodurre musica e una scatola contenente
delle registrazioni.
Si sdraiò sul letto fresco di bucato e osservò la poca raffinatezza
degli arredi. Avrebbe preferito un ambiente più stilizzato, più
modernità, con tanto vetro e tanto metallo satinato, illuminazione
elettronica a luce grigia, impianto audio digitale. Insomma, tutto
ciò che si confaceva ai suoi gusti.
Invece la testiera del letto era in ottone, le poltrone super-
imbottite dal design retrò, le pareti tappezzate con colori pastello e
marezzature imbarazzanti. Una stanza da deputati, non da
musicisti o da filosofi.
Osservando il profilo orribile della vasca da bagno, Thanai pensò
di regalare al direttore dell'hotel un'automobile nuova. Sportiva,
magari. Pensò che doveva ordinarla al più presto e fargliela poi
consegnare. Voleva in qualche modo premiarlo e incoraggiarlo.
Dopotutto stava facendo del suo meglio, l'atmosfera generale
dell'albergo non era male e con la gestione dei giornalisti era stato
comprensivo.
Il regalo sarebbe stato accompagnato dal suo consiglio di artista
illuminato: più modernità e più audacia, nel suo hotel!
Prese il telefono e compose il numero privatissimo della segreteria
della Fondazione Ti.
- Pronto? Layla?... Ciao cara. Sono io ovviamente.... Sì, sono in
hotel. A questo proposito... Mi dovresti provvedere a una piccola
commissione personale. Appena puoi contatta Margoni. Devo

28
fare un regalo... Sì, non preoccuparti, fatti consigliare da lui.
Prendi un bel coupé... Volendo anche una Ferrari, perché no? Lui
nell'usato ha pezzi eccellenti a cifre abbordabili... Ma sì, la cifra
comunque non è un problema. -
Di Layla poteva fidarsi ciecamente.
- Procedi pure. Poi per la consegna ti dico. Parlo io con
l'ingegnere. Ciao Layla. -
Chiuse la telefonata.
Si preparò una striscettina di coca e la sniffò più per tirarsi un po'
su col conforto emotivo che con gli effetti chimici. Poi si sdraiò e
cominciò a ripassare mentalmente lo svolgimento del concerto,
focalizzando tutte le cose che avrebbe dovuto proclamare.
I suoi fans volevano immergersi nelle rarefazioni della sua musica
e le parole dovevano cadere con esattezza cronometrica, precise
nel contesto dei flussi sonori. Frasi brevi e di effetto deflagrante.
Sniffò altra coca, pensando con piacere che i suoi fans erano
persone intelligenti perché capivano bene il significato della sua
arte e mantenevano sempre le promesse.
La settimana precedente aveva fatto diramare comunicati in cui
chiedeva che nessuno dei suoi veri ammiratori doveva farsi trovare
davanti agli hotel in cui soggiornava durante il tour. E tutti
avevano obbedito.
Tutti tranne i giornalisti e i fotografi, chiaramente. Ma quelli non
erano suoi ammiratori. Erano un'altra specie animale.
Gli sovvenne improvvisamente l'idea geniale escogitata apposta
per premiare i suoi ardimentosi fans e volle accertarsi che i ragazzi
avessero provveduto.
Compose sul telefono un altro numero privatissimo.
- Pronto? Sono io... Non c'è male... Sì, state tranquilli tutti quanti.
Piuttosto, avete trovato quello che volevo per stasera?...
Esattamente. Bene... Benissimo... Cercate soltanto di non fare
troppo rumore intorno a questa trovata, sennò finiamo tutti in
galera. Tu Bertini per primo.... Ok. Ci vediamo tra poco allo stadio
per il sound-check. -
Riattaccò senza salutare.
Il caldo stava attenuandosi e una leggera brezza si era levata sul
mare. L'aria sapeva di profumato salmastro.
Era il momento ideale per revisionare i pezzi in modo definitivo e

29
memorizzare le sequenze suonate dal vivo, senza ripensamenti
dell'ultima ora.
Sistemò il riproduttore e inserì il primo supporto delle
registrazioni.
Mentre ascoltava in cuffia i suoi magici brani, tirava coca ad
esaurimento. Si riempì il naso.
Si distese sul letto continuando a sniffare e lasciar fluire i suoni e
sognò a mente aperta i cinquantamila che urlavano il suo nome
ritmicamente. L'oceano mosso di fanatici che lo idolatravano, un
popolo di cervelli iperattivi in sintonia con la geniale vibrazione
elettronica della sua musica onirica.
Quando partì il terzo brano della scaletta, gli venne da vomitare e
non riuscì ad evitare di inondare le lenzuola e i suoi apparecchi.
Anzi, si vomitò anche addosso e quasi non se ne accorse, benché
un liquame giallastro stesse colando dappertutto.
Gli vennero in mente, invece, le ragazze che di solito vomitavano
in preda a una crisi quando lui compariva sul palcoscenico.
La musica continuò comunque ad andare. L'ambiente intorno a lui
diventò irreale, deformato e stanco. Il vomito sembrava come
assorbito dal mobilio, dalle pareti; e i suoni si dilatavano fino ad
assumere la stessa consistenza del liquame acido.
Thanai provò a fermare la riproduzione premendo un pulsante,
ma il dito gli affondò nella plastica e la musica continuò a
spandersi e a sciogliersi.
Il suo più grande desiderio, in quel momento, era quello di
indossare un abito bianco e di avere un potente sonnifero per
dormire.
Se ci fosse stata lì sua madre, avrebbe provveduto lei a tutto. ma
sua madre era sepolta sotto tre metri di terra.
Pregò che almeno Mega o anche qualcuno dell'hotel arrivasse in
camera a prendersi cura di lui perché stava per sprofondare
irreparabilmente nella crisi di transizione. Dovevano tirarlo fuori
da quel lago di vomito, ripulirlo e metterlo in condizioni di
suonare per la sua folla.

Il pubblico adorava vederlo strafatto, quando iniziava a delirare e a


creare musica sulla scena, raccontando episodi di vita onirica e
storie di ragazzine perverse che mandavano in visibilio anche i

30
critici più ostili.
Lu però non poteva collassare senza neppure avere dettato
testamento.
Finalmente qualcuno bussò alla porta. Con voce lamentosa e
falsata, tra un conato e l'altro, chiamò il nome del suo fidato
autista certo che potesse trattarsi solo di lui. Il modo di bussare
era inequivocabile.
La porta si aprì lentamente e la figura appannata di un'inserviente
dell'hotel si delineò davanti al suo sguardo acquoso.
Riuscì a distinguere vagamente la divisa azzurra.
Tentò di dire qualcosa, ma l'ennesimo conato spruzzò le lenzuola
ormai fradice.
L'inserviente, già allarmata da quella voce incomprensibile quando
era fuori, non aveva esitato ad entrare a costo di disturbare
l'ospite. Casi del genere non erano certo una novità, lì dentro,
specie quando si trattava della Suite Oro numero 223.
Si adoperò per intervenire senza attirare l'attenzione e creare
scompiglio. Avvisò il direttore con l'interfono dedicato e
attivarono immediatamente il medico personale di Thanai che si
trovava in un altro albergo a poche centinaia di metri dall'Arha.
L'inserviente, dunque, chiuse la porta della suite e si occupò del
corpo quasi inerme della rockstar. Vincendo ogni ripugnanza, levò
di torno apparecchi e oggetti vari, gettò via la camicia che si era
tolto, poi gli pulì la faccia come meglio poteva, accertandosi che
stesse respirando almeno un po'.
Il dottor Albis giunse all'hotel contemporaneamente a Mega e a
Furyio Lipp, principale artefice del successo commerciale di
Thanai, che era stato a sua volta allertato.
L'inserviente disse loro che non aveva fatto nulla di rischioso, se
non pulirgli la faccia dal vomito. Il dottore e Furyo la
ringraziarono e la congedarono.
Il concerto poteva ritenersi salvo.
Alle quindici spaccate, Furyo Lipp fece il punto della situazione
col dottor Albis in una saletta privata dell'albergo

- Allora, come mi diagnostica la cosa? Lo stato di forma di Thanai


è sufficiente per stasera? - gli domandò preoccupato.
Il dottore aprì le braccia e sospirò.

31
Albis era ormai da tre anni al seguito della loro carovana e
conosceva i problemi psicofisici di Thanai meglio di chiunque
altro. Quel suo gesto di incertezza era abbastanza frequente
quando si trattava di un momento critico per la salute del paziente.
- Lo sai Furyo... La questione fondamentale è tutta dentro quella
testa. Thanai dovrebbe smettere di sognare. Dovrebbe smettere di
vivere in questa sovrapposizione di coscienza e subcoscienza. La
dimensione onirica lo condiziona totalmente. E' come se tu o io
fossimo in preda a continua allucinazione, una confusione
costante della percezione del mondo qui intorno. E certo, le
schifezze che aspira non contribuiscono a migliorare il suo stato.
Anzi... -
Furyo aveva sentito quella spiegazione decine di volte e si limitò
ad annuire, stropicciandosi le mani.
- Adesso è abbastanza in sé per sostenere la prova di stasera -
continuò il dottore - Però non escludo che da un momento
all'altro dobbiate interrompere il tour. Thanai potrebbe
raggiungere uno stato di perenne mescolamento realtà-sogno. E
diventare definitivamente un soggetto da clinica psichiatrica. -
Furyo fece una smorfia rassegnata.
- Io so che mi accusano da sempre di una cosa in particolare, cioè
di aver sfruttato Thanai solo per fini economici. Del resto, anche
lei lo sa meglio di tutti... E' proprio il suo stato speciale a
permettergli di creare quella musica. E' qualcosa che lui farebbe
comunque. I suoni! I suoni che crea persino la critica avversa li
incensa come capolavori geniali in sé. Thanai è perfettamente
consapevole di tutto. Ma mai l'abbiamo sentito dire: fermatemi!
non ce la faccio più! sono sfinito! voglio farmi una vacanza! Per lui
la vera vacanza è lavorare tra i suoi strumenti, comporre, tradurre
in suoni i suoi sogni e le sue visioni. Se lo ricorda quando salì sul
palco con una colica renale due giorni dopo aver avuto un
collasso? Con la febbre altissima? Restò in scena a suonare quasi
tre ore! -
- Me li ricordo sì! Gli avevo proibito di muoversi dal letto.
Avevamo allestito un infermeria dietro il palco, con l'ossigeno, le
flebo, il defibrillatore. Ricordo bene. -
Gli occhi di Furyo Lipp ebbero un vago bagliore di compiaciuta
esaltazione.

32
- Thanai è un irresponsabile, ma non è pazzo. Lui sa sempre in
che stato si trova. Anche quando sembra non essere più tra noi.
Non fa questa vita perché glielo chiediamo noi e per
responsabilità di un giro d'affari miliardario. Lui ha voluto tutto
questo a prescindere e non ci rinuncerà mai. -
Il dottor Albis assentì e si alzò dalla poltrona. Ogni volta che
parlava con Furyo o con qualcun altro del management si
ritrovava di fronte le solite verità. E se da un punto di vista clinico
aveva il dovere di dire la sua e forzare la mano, per il resto non
poteva dire nulla.
Thanai glielo aveva detto chiaramente, un giorno. Gli aveva detto
di essere differente perché lo aveva desiderato. A qualsiasi costo.
Lasciarono l'Arha poco prima delle sedici e trenta e tornarono
ciascuno nel proprio hotel.
Furyo si premurò di sentire il team allo stadio per aggiornamenti.
Poi chiamò un collega al telefono e intanto pensò a come
rimediare una ragazza per la notte. Fare sesso con un'estranea lo
aiutava moltissimo a controllare al meglio lo svolgimento della
tournée.
Nella Suite Oro, intanto, Mega faceva resuscitare l'Idolo
Elettronico per metterlo in condizioni di suonare ai massimi livelli.
Come sempre, d'altronde.
Mega durante i concerti se ne stava defilato ai margini della scena,
seduto dietro un muro di amplificatori. Si beava ogni volta dello
spettacolo e si sentiva un privilegiato estremamente felice, oltre
che un elemento chiave per la riuscita dell'evento. Sapeva che
Thanai non avrebbe mai suonato senza un Mega nei dintorni.

6. - VERSO LA META

Al momento cruciale del make-up Dafne si rese conto che da

33
almeno due mesi non aveva rapporti sessuali. Pensarci era assurdo
perché anche il sesso era un aspetto del mondo da cui tenersi
lontana, del mondo da rifiutare. Ma la mano le tremò ugualmente,
facendole finire il rimmel sul naso.
Si pulì con del cotone e riprese a truccarsi col viso incollato allo
specchio.
Sentiva ancora negli occhi il movimento ipnotico dei led che poco
prima avevano guidato il suo training.
Il ritmo era disegnato col gel nei suoi capelli.
Ben altro ritmo sarebbe esploso allo stadio con le percussioni laser
di Thanai, di lì a poco.
Finì di ritoccarsi gli occhi canticchiando l'ultimissima hit dell'Idolo
Elettronico e uscì dal bagno con quel ritornello conficcato nel
cervello. Conficcato così bene che difficilmente se ne sarebbe
andato.
Andò a rimirarsi nello specchione della stanza e convenne che
tutto le era venuto alla perfezione. Si vedeva dotata di grande stile,
per quella serata. Nel giro di mezza giornata era come se avesse
subito una metamorfosi e questo le fece quasi dimenticare la
nausea che la affliggeva costantemente.
Prese i documenti, i soldi, il biglietto, il pugnale, spense la luce,
controllò che il gas fosse chiuso. Pronta per avviarsi alla meta.
Un attimo prima di abbandonare casa, le cadde lo sguardo sulla
cartolina che aveva trovato in una scatola di chewingum, unico
acquisto rimastole addosso dopo lo sfortunato incidente del
mattino. Sapendo che avrebbe dimenticato di occuparsene il
giorno dopo, la compilò velocemente coi suoi dati e buttando lì
un 30 come risposta al quiz, di cui peraltro non aveva la minima
cognizione. Doveva scrivere un numero e 30 le suonava bene.
Non credeva nella fortuna, specialmente per quel genere di cose;
ma partecipava a tutti i concorsi che le capitavano proprio per
mantenere viva la certezza che la fortuna non stava dalla sua.
Affrancò la cartolina mettendo insieme francobolli residui di varie
pezzature e volò fuori sbattendo la porta.

Non mancava poi molto all'inizio del concerto e lo stadio non era
poi così vicino da raggiungere a piedi.
Imbucò la cartolina alla prima buca che incontrò e proseguì di

34
buon passo lungo il viale, in direzione Ovest, senza degnare di
un'occhiata la folla anonima che si muoveva odiosamente tutto
intorno colmando la città.
L'unica peculiarità che riuscì a notare in quel grigiume fu un
gruppo di plastics, i ragazzi fluorescenti della nuova generazione,
tutti fans di Thanai e di altri emuli. Evidentemente in procinto di
dirigersi verso lo stadio.
Colse anche un frammento dei loro discorsi. Uno di loro stava
dichiarando a gran voce che un solo album di Thanai valeva
almeno tre dei migliori album di David Bowie, il vecchio artista
che per decenni aveva dettato tendenze.
Dafne pensò che quella era una cazzata. Pensò anche che, invece,
poteva essere vero che Thanai valeva tre volte un Bowie come
personalità. Il carisma psichico di Thanai era di un altro mondo.
Sul piano musicale, però, il cuore di un Bowie surclassava gli
algoritmi e i gelidi fendenti del suono di Thanai.
Sul filo di quei ragionamenti, si ritrovò all'altezza della Banca
Europea e optò per una scorciatoia che portava velocemente alla
stazione ferroviaria e quindi allo stadio garantendo un risparmio
di parecchi minuti. Decise così, pur essendo quella una zona
urbana piuttosto monotona e con un'atmosfera davvero poco
stimolante. Tutta l'atmosfera metropolitana era terribile,
comunque.
Dafne scese fino alla piazza con il monumento alla gloria della
classe operaia, svoltò a sinistra in una buia stradina male asfaltata e
piena di buche sabbiose, sbucò su una strada più ampia e ben
illuminata che però non ricordava di aver mai percorso.
Regolandosi con la posizione del mare, riprese a camminare dopo
un attimo di esitazione, avviandosi verso la stazione e osservando
quei palazzi nuovi dalle vetrate scure. La zona era una delle più
vecchie della città e ci si sarebbe aspettato un paesaggio più
vetusto, di edifici corrosi dal tempo e inferriate sporche. Invece,
lungo quella strada case e negozi avevano un aspetto molto
moderno e pulito. Persino i rari passanti sembravano venire da un
contesto più sereno e distaccato, con l'aria per nulla affannata o
preoccupata, l'aspetto impeccabile.
La cosa cominciava a piacerle e cercò di godersi quelle percezioni
rallentando un po' il passo. Al punto che ci prese gusto e si

35
distrasse, assorbita da quell'atmosfera, dimenticandosi quasi di
dove era diretta e del tempo che stringeva. Al punto che non si
accorse di tre uomini piazzati in modo equivoco ai lati della strada,
con gli occhi puntati su di lei come fosse una preda da cacciare
con raffinata strategia.
Dafne inciampò sul piede di uno di loro. Restò in equilibrio per
miracolo.
- Oh, mi scusi... - borbottò voltandosi.
I tre, con intesa perfetta, la afferrarono per le braccia e per la vita
sincronicamente, trascinandola con forza in un androne col
portone già aperto. Prima che potesse rendersi conto di quello che
stava accadendo e di attuare una minima difesa, si trovò
schiacciata contro un muro, nella penombra.
Da tre che, però, sottovalutavano totalmente le sue risorse.
Appena riuscì a inquadrare la situazione e a percepire le vere
intenzioni degli aggressori, fu certa del da farsi in un centesimo di
secondo.
Cominciarono a strattonare la sua tuta per strappargliela di dosso
e lei li fermò subito con un approccio accondiscendente e
rilassato.
- Calma ragazzi! Fermi su...! Così mi rovinate i vestiti. -
Quello che la teneva per le spalle scambiò uno sguardo fugace e
mollò la presa istintivamente.
- Allora ci stai. Ma bene! Siamo incappati in una vera puttanella -
ridacchiò soddisfatto e sollevato.
L'altro ammiccò e annuì.
- Facciamo le cose per bene, allora. -
Dafne continuò a recitare quella parte mantenendo i nervi saldi.
Solo il terzo sembrava non aver afferrato la svolta accomodante.
Le stringeva a tenaglia un braccio e le faceva male.
- Tu! Mollami 'sto braccio o vai in bianco! -
- Hai sentito? - lo incalzò il compare - Lasciala cazzo! -
Sorrisi compiaciuti e perfidi.
Quello mollò la presa e finalmente lei fu completamente libera.

I tre sembravano ansiosi di concludere l'operazione con la sua


complice collaborazione.
- Ora mi tolgo la tuta. Ma non fate i ragazzacci! E' un po'

36
complicata da slacciare, ma a voi piace no? Potete assistere. E' una
tuta fatta apposta per far sbavare gli uomini - disse strizzando
l'occhio.
I tre si misero a sghignazzare, restando in posa come fotomodelli
di borgata da quattro soldi.
Dafne approfittò dell'ilarità generale per infilare la mano destra tra
le catene che legavano la manica al busto e sfilò il pugnale dal
fodero sotto l'ascella.
Prima che potessero accorgersi dell'arma, la lama saettò sulla gola
del più alto. Un profondo solcò dischiuse le carni tenere e
cominciò a buttare sangue in abbondanza.
Lui cadde sulle ginocchia col respiro bloccato e il volto attonito,
mentre lei pugnalava allo stomaco con tutta la forza quello a
fianco, appoggiato alla parete. E fece leva sfilando la lama in
modo da squarciargli il ventre dall'altro verso il basso.
Il terzo, nel frattempo, era indietreggiato di qualche passo verso il
portone e fissava i corpi sanguinanti dei compari accasciarsi sul
pavimento.
Due pozze rosse e brillanti si unirono sulle lastre di marmo
lucidato.
- Troia.... Troia... - cominciò a sibilare lui tra i denti - Li hai
ammazzati... Li hai ammazzati... -
Dafne si accorse della bambina improvvisamente. Doveva essere
scesa per le scale e si era trovata davanti quella scena irreale
quando ormai aveva i piedi nel sangue.
L'uomo si avventò contro Dafne nonostante lei tenesse la lama
del pugnale puntata in avanti. Le sferrò un calcio basso che la fece
vacillare e cadere contro il muro.
La bambina, con gli occhi sbarrati e il pianto fermo in gola, di
colpo si mosse e scattò per riguadagnare la rampa di scale da cui
era arrivata. Scivolò sulla chiazza rossa e finì addosso all'uomo
sgozzato, ancora agonizzante, con il viso a due centimetri da
quella ferita calda e orribile. E trovò la forza di urlare.
Distratto dallo strillo, l'aggressore non si accorse che Dafne era
scivolata lungo la parete spostandosi a distanza sufficiente da
aggirarlo e aprire il portone. Col pugnale pronto a colpire di
nuovo.
Fidandosi dell'intuito, si spostò a sua volta verso i corpi dei suoi

37
compari, nella zona più in ombra dell'androne, certo di poter
controllare meglio le mosse di Dafne; ma scivolò a sua volta e
rovinò con tutto il peso sopra la bambina che stava tentando di
rialzarsi.
Dafne lanciò il pugnale verso di lui proprio mentre scivolava e
l'arma colpì di piatto il muro, tintinnando poi sul marmo.
Si udì contemporaneamente un suono bizzarro. Un gommoso
scricchiolare di ossa mescolato con la sensazione del liquido
vischioso e di un respiro smorzato.
Due gambette bianche spuntavano da sotto la massa scura,
spiccando su tutto il resto.
Dafne recuperò il pugnale e prima che qualcuno desse ancora
segni di vita residua si precipitò fuori, infilando le mani sporche di
sangue sotto un lembo sbottonato della tuta.
Raggi di sole piovevano obliqui sui tetti grigi dei palazzi e sulla
gente che a quell'ora si era infittita e camminava elegantemente sui
marciapiedi di quel quartiere così invitante e pulito.
Lei deviò decisamente verso la prima fermata di autobus che
avvistò e, cercando di avere un atteggiamento disinvolto, si
sciacquò le mani ad una fontanella situata accanto alla pensilina.
Riprese fiato.
Le ascelle grondavano sudore e aveva la gola impastata. La lama
fredda premeva sulla pelle del costato, fuori dal fodero.
Doveva abbandonare quel posto immediatamente. Per fortuna
stava sopraggiungendo l'autobus diretto allo stadio e vi saltò sopra
senza indugio.
Guardò di sfuggita l'orologio attaccato al palo di un lampione e
vide che, tutto sommato, non aveva perso moltissimo tempo. Per
uccidere almeno tre persone non ci voleva poi tanto. E le restava
ancora un'ora abbondante per arrivare al concerto e presentarsi
all'ingresso E col suo biglietto plastificato.
Il grosso mezzo rosso era inevitabilmente stracolmo di fans di
ogni età. Quasi tutti vestiti con abiti di plastica lucida, colori
prevalenti il nero e il giallo fluorescente, gli inconfondibili occhiali
con la montatura a forma di diesis.
Tutti fumavano nonostante il divieto; e l'aria a bordo era satura di
una coltre talmente densa da stordire l'operaio di una fonderia.
Dafne si tenne a un tubolare d'acciaio per tutto il tragitto e si

38
augurò di non appestare qualcuno col suo maleodorante sudore
marcio. Non sopportava quel genere di cose.
- Merda - mormorò tra sé.
Tanti preparativi per avere una forma smagliante e poi andare al
concerto con la coscienza e i vestiti sporchi.
Tornò a pensare alla nausea che il mondo le procurava,
all'indifferenza generale, alla fuorviante oniria metropolitana in
grado di uccidere anche l'individuo più equilibrato.
Tutti quei fans di Thanai erano una massa di frustrati che ogni
giorno andava a scuola o in ufficio a lavorare, una massa di gente
che per una sera si illudeva di concedersi una trasgressione da
eletti, ovvero la magia e la stranezza di un'arte a cui non
appartenevano.
Su quel bus lei era l'unica che ne capiva davvero qualcosa. L'unica
a vivere quotidianamente il sogno (o l'utopia) dell'ascesi di
contatto, del buio quieto, della vita notturna interiore come
liberazione. E lei era l'unica al mondo a fare prove così concrete
per la grande realizzazione finale, per il progetto supremo che
avrebbe consacrato il suo nome alla Storia.
L'autobus raccolse altri ragazzi lungo il percorso, ma se ne
vedevano anche molti in sella alle moto che seguivano la corrente
di traffico verso lo stadio.
Dafne si chiese se l'uomo sopravvissuto avesse cercato di seguirla
in qualche modo oppure se avesse memorizzato il volto
dell'assassina per vendicarsi un giorno. Lui, comunque, a sua volta
non poteva dormire sonni tranquilli.
Si tranquillizzò all'idea che era piuttosto difficile raccogliere indizi
a suo carico e che i tre aggressori probabilmente erano
pregiudicati. E due - oltretutto - erano cadaveri.
Nessun testimone.
Già. La bambina. Povera piccola.
Dopotutto era schiattata sotto il corpo dell'unico ancora vivo...
Dafne vide sempre meno concrete le ipotesi di coinvolgimento
della sua persona. La causa di tutto, tangibilmente, erano quei tre
stronzi balordi.
La mole dello stadio apparve improvvisamente tra i profili dei
palazzi del viale e il tono concitato delle voci sull'autobus aumentò
di colpo.

39
Man mano che si avvicinavano alla meta, la massa nera e
brulicante diventava visibile, là contro le cancellate arancioni. Solo
in alcuni punti era come divisa da postazioni di network televisivi
e da veicoli del servizio di sorveglianza.
Alla fermata, il drappello fumante si riversò sulla strada con
l'ordine di un branco di foche e andò ad amalgamarsi col resto
della grande tribù. Chi riconosceva subito facce amiche nel
mucchio si affrettava a lanciare saluti a base di stronzo e puttana.
Tutta la colossale macchina organizzativa che sovrastava la zona la
potevi quasi respirare. Il tour era ogni volta qualcosa di epocale, di
biblico. Ovunque troneggiavano cartelloni col volto di Thanai,
camper e roulotte mirabilmente dipinti coi temi delle sue opere,
squadre di addetti rigorosamente con la divisa gialla e nera, punti
mobili di ristoro arredati nei modi più avveniristici.
Mancava mezz'ora all'apertura dei cancelli e almeno ventimila
persone erano assiepate là contro come fossero sotto pressione.
Senza contare un'estesa folla di curiosi arrivati solo per guardare lo
spettacolo nello spettacolo.
Dafne tentò di aprirsi un varco e di raggiungere le primissime file
schiacciate sulle inferriate, memore delle difficoltà riscontrate nel
tour precedente. Doveva assolutamente assicurarsi una posizione
di favore sotto il palco e sapeva che il momento dell'accesso era
determinante. C'era sempre pieno di scoppiati che correvano ad
occupare la zona migliore del prato e poi passavano la serata a
fumare con lo sguardo per aria, senza quasi seguire la musica.
Sgusciando tra i corpi appiccicati, toccò una sbarra dell'inferriata
dopo dieci minuti di sforzi sovrumani e gomitate nelle costole.
Inutile incazzarsi per gli abiti ormai sporchi e logori e il make-up
disfatto. L'importante era poter contattare Thanai di persona.
Il sole stava cominciando ad avviarsi al tramonto e il fermento
cresceva visibilmente tra la folla. Una specie di onda di energia
silenziosa si impadronì degli stati emotivi di ciascuno per caricarli
e farli poi esplodere al momento giusto.
In quei momenti bastava il passaggio di un elicottero o la voce
gracchiante di un altoparlante per alimentare il sacro fuoco
dell'entusiasmo e dell'apprensione.
Un fuoco che nessuno avrebbe potuto domare.
Ancora una volta si era creata la magica intesa collettiva che

40
dominava ogni esibizione di Thanai
E i cancelli si aprirono lentamente.

7. - IL CONCERTO

L'uomo da tre milioni di dollari fu trasportato davanti all'ingresso

41
secondario dell'Hotel Jolly, dove lo aspettavano il suo produttore
Marvin Desolados e Andrea Effe, braccio destro di Furyo Lipp
nonché tour manager.
Mega posteggiò la Ferrari accuratamente e si sporse dal finestrino
per chiamare i due.
Nell'ombra della sera cittadina nessuno avrebbe potuto vedere
Thanai all'interno dell'abitacolo, ma bisogna comunque prestare
attenzione. Mega gli chiese se andava tutto bene e lui fece un
cenno vago. Stava ripassando mentalmente le programmazioni
simultanee di un nuovo pezzo molto complicato su cui puntava
molto. Un pezzo che se avesse suscitato il clamore sperato,
avrebbe dominato le classifiche del mese successivo.
Marvin e Andrea salirono su una BMW lunghissima e fecero
segno a Mega di seguirli.
Si infilarono nel traffico dell'ora di punta e il motore della Ferrari
lanciava rombi gentili, ma potenti che non passavano inascoltati.
Le grosse ruote gommate accarezzarono l'asfalto caldo per un
paio di chilometri fino a condurli davanti allo stadio.
Thanai si osservò nello specchietto che portava cucito sulla
manica della giacca. Vide occhi spenti e un ciuffo di capelli poco
originale. L'inizio del tour meritava qualcosa di meglio.
- Dici che riusciranno a tingermi i capelli ora? - domandò
visibilmente preoccupato.
- Certo! Per te trovano il modo di fare qualsiasi cosa. Sempre. -
Doveva tenerlo libero da ansie di quel genere perché erano le più
pericolose e deleterie, specie poco prima di un concerto. Non era
agitato, in realtà, ma spesso poco prima di andare in scena si
perdeva in piccoli rischiosi capricci che mandavano in tilt l'intero
staff.
Thanai passava dal rispondere a grandi quesiti universali al
disquisire del colore delle stringhe.
La BMW di Marvin faceva strada serpeggiando nel traffico e
quando furono in vista dello stadio Mega si concentrò al massimo,
conscio del suo prezioso ruolo e delle sue responsabilità.
- Coraggio star! Tra poco avrai il tuo popolo tra le mani. -
La star, però, aveva in mano soprattutto se stessa e i suoi sogni.
Fece un sorriso al suo autista e poi cominciò a canticchiare
sommessamente, come se fosse in chiesa.

42
I due veicoli neri si occultarono dietro le recinzioni provvisorie
sotto la curva sud, infilandosi tra una fila di TIR e i numerosi
caravan del team tecnico.
Qualche fan isolato, sfuggito al cordone di controllo, intercettò la
Ferrari e la indicò col braccio teso, balbettando qualcosa di
inudibile.
Alcuni addetti con la tuta gialla attesero che i quattro scendessero
dalle auto e infilassero il corridoio provvisorio che portava dritto
nel ventre della struttura, sistemando poi altre transenne davanti
all'ingresso.
Marvin Desolados fumava sigari enormi e lasciava dietro di sé una
scia da locomotiva.
I passi si riverberavano tra le pareti e il basso soffitto,
mescolandosi alle parole di Andrea che spiegava a Thanai alcuni
dettagli a proposito delle luci e dei tempi della scaletta. Ogni
esibizione prevedeva diverse variazioni degli effetti speciali
rispetto a quella precedente, a seconda della location e dei brani
eseguiti. Lo spettacolo doveva offrire il meglio a ogni singolo
spettatore.
Thanai si grattava l'orecchia destra e teneva a braccetto Andrea.
- Spiegami tutto, o sacro cerimoniere. -
- Sì, ti spiego... Dunque, abbiamo fatto spostare una file di fari sul
proscenio perché l'ingegnere ha detto che creavano un qualche
fastidio alla regia mobile sopraelevata. -
- Poi?... -
- Poi... è stata un'idea di Furyo questa... anticipiamo il filmato del
suicidio di due pezzi. Lo mettiamo prima di "Crystal". Tutti si
aspettano per certo che il suicidio sarà dopo "Japan" e questo
diminuisce l'impatto. Ma in compenso metteremo su "Japan" la
nuova esplosione nucleare tridimensionale. E' più calzante, non
trovi? La gente resterà a bocca aperta. Coprirà un po' il finale del
pezzo perché la deflagrazione è sbalorditiva, ma ne vale la pena. -
Thanai guardò Andrea e sputò per terra.
- A parte il fatto che questi dettagli riguardano gli specialisti e non
me. Voglio dire... Io vorrei sapere se è stata inserita la mia nuova
trovata. -
- Quella è per la fine del concerto. Per evitare eventuali disordini a
metà spettacolo. Abbiamo pensato che il fortunato avrà modo di

43
difendere meglio la sua proprietà e raggiungere il camerino
scortato subito dalla squadra. Senza intoppi, capisci? -
- Ok. Vedo che avete afferrato. -
A quel punto del corridoio si palesò un improvviso viavai di gente
più o meno concitato.
I quattro si fermarono davanti a una porta con sopra scritto
FIRST.
Qualcuno li salutò frettolosamente, ma con cordialità.
Una squadra di elettricisti si avvicinò ad Andrea e lo aggiornò su
una situazione di ripiego per una cablatura preparata male. Lui
ascoltò e poi diede approvazione per la soluzione adottata.
Furyo Lipp sbucò alle loro spalle, agghindato con una giacca
trasparente e dei calzoni neri lucidi. Mega si mise a ridere.
Thanai, invece, era troppo preoccupato a trovare un parrucchiere
che gli aggiustasse i capelli per far caso agli abiti del suo manager.
- Ehi Klikko! - strillò non appena vide passare uno dei suoi
acconciatori.
Il giovane coiffeur smilzo con la chioma arancione lo salutò con la
mano e lo raggiunse sorridente.
Mentre Furyo interrogava a valanga Andrea in merito all'effetto
dell'esplosione atomica, lui si appartò con Klikko per risolvere il
problema del ciuffo.
- Mister! Che piacere! - squittì giulivo - Hai bisogno di me? -
- Ecco, sì! Ce la fai a farmi una tintura rosso fuoco a 'sto ciuffo
qui davanti? -
Sembravano due adolescenti in vena di confidenze divertenti e un
po' segrete. Thanai si passò una mano tra i capelli spazientito,
augurandosi che Marvin non sabotasse il suo esperimento
dell'ultimo quarto d'ora. Tutti erano occupatissimi a definire i
minimi dettagli e a fare verifiche, sempre le stesse dette da
ciascuno con parole diverse dopo averci già perso la testa per un
mese.
Come non bastasse, un nugolo di inservienti, ingegneri, elettricisti
e tecnici vari sciamava lì attorno a rompere i coglioni.

Lui ne approfittò per sgattaiolare nel suo camerino enorme


assieme a Klikko. La colorazione del maledetto ciuffo era
fondamentale.

44
Intanto, là fuori, qualche metro più sopra, il pubblico era in preda
al marasma in attesa dell'Ora X.
Il palco a forma di mezzaluna era ancora occultato da una barriera
di sfere gonfiabili nere e gialle che sarebbero in parte esplosi e in
parte lanciati in volo verso la stratosfera alle prime note del
concerto.
Riflettori mobili al plasma illuminavano porzioni di folla facendo a
gara con l'ultima luce del giorno e qualche laser fendeva l'aria
dividendosi sulla curva opposta dello stadio.
Il sentore di magia cresceva furiosamente in migliaia di teste e
qualcuno cominciava a lasciarsi prendere da isterismi e fanatismi.
Ricchi spinelli circolavano ovunque assieme a polveri e liquidi di
ogni genere. Quasi tutti prendevano parte a quel rito preliminare
con accurata devozione, certi che alcune sostanze predisponessero
alla fruizione ottimale della droga più potente in assoluto che di lì
a poco sarebbe piovuta copiosa. Il nirvana assoluto. La storia di
sempre.
Due elicotteri sorvolavano la zona lanciando ogni tanto nevicate
di piccole fotografie luccicanti autografate. Nemmeno una toccò
terra. Alcune ragazze scalmanate riuscirono ad arraffarne a
manciate per poi scambiarle con chi era rimasto senza, barattando
droghe e altri feticci. Collezionare immagini di Thanai era un
dovere, più che altro per tappezzarci la camera da letto.
Al momento convenuto, l'ologramma dello Stemma nero si formò
al centro dello stadio dieci metri sopra le teste e l'ovazione fu un
boato immediato. La piramide rovesciata ruotò su se stessa e
scomparve per lasciare spazio a un saluto di benvenuto.
Mega si arrampicò su una catasta di bauli, accanto alla muraglia di
amplificatori, e attese che Thanai si sistemasse tra i suoi strumenti
per dare a Furyo il segnale convenuto.
Furyo si trovava su una piattaforma mobile, pronto a fluttuare
sopra il palco per presentare lo show e attivare le sfere gonfiabili.
Inoltre, doveva dare l'ok finale ad ogni squadra collegata.
Quando anche il capo tecnico degli effetti speciali accese la sua
luce gialla, mega alzò la mano e Furyo tirò la cloche verso di sé.
La piattaforma si sollevò come un disco volante e un fascio
abbagliante la centrò perfettamente. Furyo cominciò a parlare
senza vedere assolutamente nulla.

45
Dopo trenta secondi, con perfetta sincronia, le sfere furono
attivate. Una cascata di luce iridescente inondò il palco e la musica
esplose in tutto il suo delirante fragore.
I cinquantamila presenti schizzarono in piedi e Thanai li folgorò
subito con l'orgasmo sonoro di "Clockwork", sparato a un volume
terrificante, ma nitidissimo.
Immagini di una corsa automobilistica d'altri tempi venivano
proiettate sullo schermo alle sue spalle
Il flusso ritmico investì la folla e dopo qualche istante gli addetti
del servizio sanitario erano già all'opera per prelevare individui in
preda al panico e a crisi epilettiche da crampi al cervello.
Chi riuscì a superare quel primo olocausto musicale restò in piedi
per miracolo, dimenticando hashish, marijuana e acidi vari. Il
totale coinvolgimento psicofisico dello spettatore era la carta
vincente su cui l'organizzazione puntava.
Ovviamente, anche Thanai stesso non era immune a quell'onda
travolgente di suoni e il suo interagire con l'energia collettiva era la
spinta che mandava avanti tutto.
A pochi metri dalla sua postazione il dottor Albis monitorava le
funzioni vitali e cerebrali attraverso la complessa e costosissima
strumentazione, consentendogli di capire fino a che punto
l'attività onirica indotta dalla musica potesse procurare danni.
I brani della scaletta si susseguirono vertiginosamente tra
proiezioni olografiche stupefacenti, sequenze subliminali di film
hardcore, bombardamenti luminosi tra cortine di fumo dagli
svariati aromi. Le ondate di esaltazione del pubblico rimbalzavano
ovunque, accompagnando come un mantra invisibile ogni nuovo
brano.
Thanai era in grado di mantenere il climax altissimo senza rendersi
conto consciamente di quello che stava facendo. Trasmutava sul
momento in musica i suoi sogni, suonando senza sosta le sue
tastiere avveniristiche.
Dominò incontrastato il suo popolo per oltre due ore sulla sua
postazione-trono, manovrando pannelli digitali che interpretavano
in tempo reale i suoi movimenti creandogli attorno strutture di fili
di rame viventi e variando il colore della sua tuta in fibra a gas.
"Japan", "On Fugg", Tok Vlub", "Zoo & House": sparò tutto il
miglior repertorio fino all'apoteosi di "SuperDoom", con una

46
scarica di impulsi all'infrarosso che sollecitavano battaglie
psichiche tra gli spettatori e suggestioni erotiche altamente
condizionanti.
Il tutto corredato di assoli mirabolanti e invenzioni estemporanee,
inframmezzando la musica a pensieri onirici che si
materializzavano nell'aria con immagini fluttuanti.
Pensieri che erano una lezione esclusiva per i suoi accoliti.
Prima di dare l'arrivederci e di scomparire nei sotterranei, Thanai
in persona si portò ai bordi del palco e parlò alla folla nel suo
micro-microfono.
- Amici miei! Ho una sorpresa per voi! -
Un silenzio quasi totale calò sullo stadio.
Thanai si avvicinò a una scatola nera che era stata lasciata appesa a
un'impalcatura e la aprì.
- Lancerò qualcosa verso di voi e chi riuscirà ad afferrarla potrà
incontrarmi personalmente tra poco. -
Un'ovazione terrificante squassò il silenzio e decine di migliaia di
mani si alzarono dalla calca, pronte a difendere l'eventuale bottino.
Una tensione tangibile aveva raggiunto il suo culmine e molti,
sotto il palco, persero i sensi ancor prima del lancio.
Quando Thanai tirò fuori dalla scatola quella strana palla, una
schiera di sanitari e di inservienti si preparò ad intervenire. Risse
feroci erano attese una volta che qualcuno avesse afferrato il
misterioso premio.
Mega restò col fiato sospeso e confidò che finisse tra le mani di
un fan che si meritasse davvero quell'incontro. Thanai stesso gli
aveva detto di essere certo che avrebbe incontrato una persona
speciale.
La testa imbalsamata compì una parabola degna di un lanciatore
da Olimpiade e piovve verso la zona dove si trovava Dafne.
Con un colpo di reni inaudito, riuscì a balzare sopra quelli che le
stavano attorno e artigliò il trofeo con le dita, portandolo poi al
petto per proteggerlo dai contendenti urlanti.
Fino all'arrivo del servizio d'ordine che si fece strada a spallate tra
il pubblico, Dafne difese strenuamente la testa come un pallone da
rugby e sferrò gomitate e calci a più non posso.
Thanai, rimasto ai bordi del palco, osservò la scena rischiarata da
un fascio luminoso. Poi salutò definitivamente il suo popolo con

47
una delle sue frasi ad effetto:
- Morire in lungo è il privilegio! -
L'ultimo scampolo di enigmatiche dottrine oniriche venne
sottolineato da uno scroscio di applausi.
Buona parte del pubblico cominciò comunque a defluire, mentre
Dafne veniva scortata a fatica dietro le quinte.

8. - TOCCATA E FUGA

Solo quando si trovò sulle scale, Dafne si accorse che la testa che

48
aveva tra le mani non era un fantoccio, un simulacro di stracci e
cartapesta, ma una testa vera, autentica, imbalsamata bene.
Con raccapriccio la consegnò a uno degli inservienti che la
stavano scortando, domandandosi come e perché avessero
consentito di fare una cosa del genere.
Ben presto, tuttavia, altri pensieri cominciarono a prevalere sullo
sconcerto per il macabro trofeo e una strana emozione di verità e
incubo si impadronì della sua mente.
Camminava con passo deciso verso colui che da anni
rappresentava per lei la rivelazione ultima, l'emblema perfetto della
perfetta filosofia di vita. Finalmente stava giungendo alla "Meta".
Il dono più bello di una vita intera.
La squadra in divisa che la scortava le fece segno di fermarsi nei
pressi della porta con l'insegna FIRST.
Lei si appoggiò al muro intonacato del corridoio e attese con
nervosismo, torcendosi le mani e sudando senza freni.
Sentiva le pulsazioni del suo cuore in ogni parte del corpo.
Cosa avrebbe fatto una volta di fronte a Thanai? Cosa avrebbe
detto?
Ora che poteva instaurare un rapporto diretto, si sentiva bloccata
da un'emotività che non le apparteneva. Auspicò di riuscire a
ritrovare la giusta freddezza non appena a tu per tu con il profeta.
Buona parte degli inservienti di scorta se ne andarono. Nel
corridoio stava diventando palpabile un certo nervosismo, c'era
molto movimento e voci che si accavallavano. Volti noti si
affacciavano di tanto in tanto da altre porte.
Riconobbe Furyo Lipp, in compagnia di due avvenenti stangone
che avevano tutta l'aria di essere escort di lusso convocate per
ricaricargli le batterie. E riconobbe anche il famoso parrucchiere
Klikko Skifin, il quale si stava lamentando con alcuni collaboratori
per la sparizione di un set di spazzole.
In quel caos elitario Dafne si sentiva tutto sommato a suo agio, a
differenza che in quello della quotidianità cittadina, generato da
individui banali e grigi. Lì dentro, quanto meno, si trattava di
persone che erano legate alla più grande mente artistica dell'era
elettronica, gente che aveva a che fare con lui e costituiva il suo
alveare produttivo.
L'attesa, comunque, si protrasse a lungo e solo dopo una mezz'ora

49
ebbe modo di vedere da vicino Thanai.
La porta dei locali adibiti ad infermeria - poco più avanti - si aprì;
e due uomini in tuta bianca portarono fuori il corpo
apparentemente esanime del musicista, appena in grado di
poggiare i piedi a terra per farsi trascinare. Aveva un respiratore
sul volto e i cerotti di un accesso venoso sul braccio.
Passandole a pochi centimetri, si infilarono impacciati nel suo
camerino personale, senza quasi fiatare.
Dafne, presa da un brivido gelato, capì che di lì a poco l'avrebbero
congedata gentilmente, spiegandole la situazione.
Oppure che le avrebbero permesso di entrare un attimo a vedere
Thanai, pur impossibilitato a parlare con lei, ma giusto per fare
una foto ricordo. Una foto con lui accasciato su una poltrona,
quasi irriconoscibile magari.
Cogliendola di sorpresa, un poliziotto la salutò e la invitò a
voltarsi mettendo le mani contro il muro per permettergli di
eseguire un controllo.
Da dove era sbucato quello?
L'uomo in divisa aveva una voce calda e rassicurante.
- Capisce bene signorina che non possiamo correre rischi.
Normale controllo di routine per tutti quelli che entrano in
contatto con certe personalità. -
Lei assentì con un'ombra di rassegnazione ed eseguì gli ordini
quasi automaticamente.
Solo quando la mano del poliziotto le premette il fodero contro le
costole, ebbe un capogiro e sentì il sangue affiorare alla superficie.
Deglutì con forza e visualizzò la vertigine del suo immediato
futuro.
Il tutore dell'ordine non ci mise molto a capire di cosa si trattava.
Le afferrò un polso e le piegò il braccio dietro le reni, senza
concitazione. Poi - intuì - fece un cenno ad un collega a tiro di
sguardo e in pochi secondi si trovò con la faccia schiacciata contro
il muro, i polsi ammanettati con una fascetta e la canna pesante di
un'arma puntata contro.
Avrebbe voluto sprofondare, scomparire.
La portarono in una stanza vuota, sotto lo sguardo sbigottito dei
presenti. Furono convocati due degli inservienti che l'avevano
scortata lì sotto e le prelevarono da una tasca della tuta i pochi

50
documenti che aveva con sé.
Il poliziotto cortese controllò carta d'identità e tesserino fiscale
con molta attenzione. Quindi, disse al collega di rimuovere la
fascetta dai polsi e chiese agli inservienti di effettuare una
perquisizione minuziosa.
Dafne maledì la fottutissima nuova legge, la cosiddetta Legge
Ascona che permetteva a chiunque ne avesse autorità di perquisire
in qualsiasi modo necessario un soggetto di qualsiasi sesso. Niente
più disparità di genere in sede giuridica. Anche un uomo poteva
infilarle un dito dentro alla ricerca di qualche indizio.
Fosse successo solo quattro mesi prima, sarebbe stata ben altra
situazione; e non avrebbero potuto metterla alle strette così
facilmente.
Dopo averle tirato giù la tuta, sganciarono le cinghie del fodero
con dentro il pugnale e consegnarono il tutto al poliziotto. Quindi
finirono di spogliarla completamente per accertarsi che non avesse
addosso altre armi o sostanze stupefacenti.
- Allora signorina? -
Otto occhi la squadrarono in modo chiaramente accusatorio,
senza peraltro manifestare alcun imbarazzo. Lo sguardo tipico
della razza nata per stare al servizio di chi fa le regole.
Il copione prevedeva la domanda idiota che non esigeva risposta e
che doveva contenere in due parole tutta la gravità del fatto.
- Detenzione illegale di arma da taglio con tracce di sangue sulla
lama. Trattandosi di una circostanza come questa potrei
aggiungere anche premeditazione dell'attentare all'incolumità di
una persona di chiara fama. Senza contare che dovrà spiegarci da
dove viene quel sangue. -
Dafne, nuda e impaurita, sentendosi del tutto indifesa accusò
un'improvvisa vampata critica. Inspirò con forza l'aria umida del
sotterraneo e cercò di non crollare.
- Si rivesta. La trasferiamo immediatamente alla centrale. -
Il poliziotto uscì senza aggiungere altro, decretando che non aveva
via di scampo.

Dafne pensò che al massimo entro il giorno successivo avrebbero


acquisito ogni prova relativa al triplice omicidio del pomeriggio,
per il quale poteva rischiare tranquillamente l'ergastolo.

51
Si tirò su il costume e poi la tuta, allacciandola alla meglio.
Un altra fascetta le strinse i polsi.
I tre uomini le dissero di seguirli e la condussero fuori dallo stadio.
Passarono davanti alla porta del camerino di Thanai e provò un
dispiacere immenso per il mancato atto finale del suo progetto.
Invece che un colloquio confidenziale con lui, la aspettavano
interrogatori in questura e le sbarre del carcere.

* * *

Quei due giorni trascorsero interminabili e solo il lunedì mattina


uno sbirro annoiato andò a convocarla dicendo che aveva visite.
Dafne intuì di chi si trattava e per un attimo riuscì ad obliare tutta
quella storia e la percezione del posto dove si trovava.
Nulla doveva condizionare negativamente quell'ultimo regalo
prima della fine.
Incontrò Thanai in una delle stanzette adibite a parlatorio per i
reclusi di passaggio e appena lo vide si rese conto che non
avrebbe voluto incontrarlo in un ambiente così squallido e ridotta
come una vagabonda sporca e volgare.
Lì per lì pensò che era meglio tacere, comunque.
L'idolo elettronico era vestito completamente di nero e indossava
degli occhiali scuri che rendevano intraducibile il suo volto, anche
se lei avvertiva un certo nervosismo da piccoli indizi.
Lui chiese che quell'incontro si svolgesse in maniera privata, senza
presenze estranee e senza registrazioni. E la cosa gli fu garantita
seduta stante, benché già concordata sicuramente da accordi fatti
in alto loco. Marvin e Furyo avevano un team di legali fortissimi e
ben agganciati.
Thanai si adoperò al massimo per rendere l'atmosfera disinvolta e
confidenziale.
Dafne si sedette di fronte a lui e restò a guardarlo, interdetta dal
suo atteggiamento estraniato e intimo nel contempo.
Il destino aveva agito di proposito?

Le dita sottili del musicista si incrociarono e gli indici uniti,


sollevati verso l'alto, indicarono un punto morto (e forse
essenziale) nello spazio.

52
Lei era certa che avrebbe parlato per primo e continuò a tacere.
- Riesci a proiettarti fuori di qui? - mormorò lui.
Lei sospirò e sentì il sangue precipitarle dalla testa ai piedi.
- Io avevo un sogno quasi realizzato Thanai. E me l'hanno
distrutto proprio nel momento cruciale. Ora vivrò il resto dei miei
giorni in una cella. -
- Riesci a proiettarti fuori di qui? -
- No - rispose lapidaria.
Lui la osservò imperturbabile e poi le avvolse i polsi con le mani.
- Sapevo fin dall'inizio del concerto che saresti arrivata tu. Sapevo
che ti avrei ricevuta nel mio camerino. Ma qualcosa ha interferito.
La Polizia mi ha poi spiegato la situazione. Si parlava anche di
attentato. Io sono qui per te e farò il possibile per farti uscire da
questa situazione. Da questo mondo di inchiostro. -
Le dita fecero forte pressione su quei polsi ossuti.
- Io ti ho portato qui, in un certo senso, e io ti farò uscire per farti
imparare ciò che sai. Devi continuare la tua vita di rifiuto
dell'ordine costituito, di rifiuto del mondo. Ma ogni giorno dovrai
insegnarmi qualcosa e intanto penseremo al tuo progetto, al tuo
sogno. -
Dafne si rese conto che inaspettatamente le posizioni si erano
invertite e che l'incontro con Tnanai doveva risolvere un problema
non suo.
Lei era una pedina essenziale del gioco, un elemento cardine. Lei
per prima aveva evidentemente compreso qual'era la soluzione
finale, riuscendo a portare avanti il suo progetto.
Thanai, perso nella sua atemporalità di artista assoluto, si trovava
invece a un punto fermo delle sue realizzazioni. Da un paio d'anni
aveva eliminato dalla scena buona parte degli altri musicisti e si era
come arenato. I suoi potenti sogni erano diventati semplici
diramazioni senza alcun vero sviluppo coerente, continuando a
crescere isolati senza frutto.
Da quel punto di vista il suo progetto era giunto ad un apice senza
futuro e aveva bisogno di aggregarsi ed integrarsi a qualcuno
ancora in corsa.
Dafne avvolse a sua volta i polsi di Thanai e provò un sentimento
di commozione misto a presunzione.
- Io voglio dar vita a una creatura al di sopra di qualsiasi altro

53
possibile genio artistico. Devo generare l'artista totale e definitivo.
In grado di portare all'estremo ogni manifestazione musicale,
pittorica, poetica, narrativa... Capace di sintetizzare tutto ciò che è
stato e di governare il destino di ciò che sarà. Per mesi ho
condotto un mio training speciale che potesse prepararmi a farlo
germogliare e crescere nel mio ventre nel modo migliore.
Convintissima che tutto funzionerà come ho immaginato. -
- Tu vuoi un figlio da me, quindi. -
Thanai pronunciò quelle parole col tono di chi ha già accon-
sentito.
Dafne fu certa che solo dalla fusione delle loro forze il progetto si
sarebbe realizzato pienamente. Energie oniriche potentissime
profonde, congiunte e catalizzate dalla sua musica.
- Dafne, non c'è tempo da perdere. Dobbiamo andare via dalla
città e ritirarci in un posto adatto. D'ora in poi credo che non sarei
più in grado di suonare in pubblico, comunque. -
Si separò da lei e si alzò di scatto, avvicinandosi alla porta. Bussò
con forza e chiamò ad alta voce l'uomo di guardia che li aveva fatti
entrare.
Una volta che ebbe disattivato il sistema di accesso, quello entrò
tenendo la mano sullo sfollagente e con un'arma automatica a
tracolla, accertandosi che la reclusa fosse seduta e con i polsi
legati.
Thanai sorrise appena e gli cedette il passo.
- Alzati tu. Torniamo in cella - disse impugnando la mitraglietta.
Dafne si voltò per guardarlo in faccia e assentire.
Thanai, ormai alle sue spalle, lo colpì con rabbia alla nuca
spezzandogli quasi certamente una vertebra. Poi si affrettò a
sorreggerlo in modo che non cadesse in avanti e non azionasse
passivamente l'arma.
Dafne si alzò e pur con le mani mezze inabili lo aiutò a sdraiare il
corpo sotto il tavolo.
Lui, usando una chiave sottratta alla guardia, segò la fascetta e le
fece cenno di prendere l'arma. Quindi si affacciò sul corridoio per
accertarsi che non sopraggiungesse qualcuno.
- Andiamo Dafne. -
Uscirono dalla stanza e si diressero con passo risoluto verso la
postazione del piantone. Fecero irruzione nell'atrio illuminato e la

54
prima raffica sventagliò da una parete all'altra, sforacchiando
l'intonaco.
L'uomo di guardia fu preso in pieno prima che potesse capire cosa
stava succedendo e scomparve dietro la paratia del gabbiotto.
Due poliziotti sbucarono da non si sa dove e risposero al fuoco
con una prontezza incredibile, appostandosi dietro i punti ciechi
del corridoio e proteggendo le uscite che davano sul cortile del
caseggiato.
Dafne e Thanai restarono per qualche istante schiacciati contro
quel che restava del gabbiotto, tra i vetri frantumati. Poi corsero
risoluti verso il corridoio facendosi scudo di raffiche brevi e
continue. I poliziotti, sicuramente presi alla sprovvista da tanta
audacia, non ebbero la tempestività di agire nel modo migliore e
furono crivellati senza pietà.
Un allarme cominciò a suonare come un lamento assordante.
- Qui ci fanno a pezzi! - urlò Dafne - Dobbiamo raggiungere il
cancello sul retro. Dall'uscita principale non se ne parla. Forse
passando dal parcheggio... -
Thanai pur conscio del tentativo suicida che stavano per compiere,
assalito da un sentore di morte, guardò il corridoio che portava al
cortile e poi pensò alla sua Ferrari posteggiata almeno duecento
metri oltre il portone d'ingresso.
- Proviamo col parcheggio - le disse.
Dafne si chinò su uno dei poliziotti abbattuti e gli prese la pistola.
Poi sporse la testa nel gabbiotto e trovò un mitra simile a quello
che aveva Thanai.
Pavimento allagato di sangue e decorato di fori neri.
L'allarme spaccava i timpani, ma non abbastanza da permettere di
udire voci concitate rimbombare nelle vicinanze.
Cominciarono a correre lungo il corridoio incrociando le
traiettorie e sfiorando ogni volta il muro come palline di un
flipper. Dafne con la rabbia tra i denti si sentiva pronta ad
uccidere chiunque fosse a tiro.
Quando si trovarono a pochi metri dalla cancellata, una pioggia di
proiettili li investì da ogni direzione. Tre o quattro uomini in divisa
arrivarono correndo dal porticato e si pararono davanti a loro
senza indugio, sparando raffiche basse quasi con un moto di sfida.
Dafne ne colpì uno alla spalla e quello si accasciò al suolo. A sua

55
volta, però, avvertì un bruciore sconosciuto al braccio sinistro.
Con la coda dell'occhio vide che Thanai si era portato avanti e
guardava verso l'alto, riparandosi dietro un furgone. Il fuoco
avversario dai piani superiori era cessato, forse per il timore di
beccare gli uomini giù nel parcheggio.
Immaginò per un attimo cosa stessero pensando di loro. Due
pazzi scatenati pronti a fotterli. E non provò alcun rimorso perché
aveva fatto fuori individui destinati comunque a morire dopo una
vita spesa a sporcarsi la coscienza pensando di essere dalla parte
del giusto.
Thanai con due balzi raggiunse il cancello e si voltò per scaricare
la sua arma sul poliziotto che stava per sparargli. Quindi si infilò
nella cabina della postazione d'accesso e con un fortunato primo
tentativo riuscì ad azionare lo sblocco elettrico. Evidentemente
nessuno si era premurato di negar loro quella possibilità
disattivando i circuiti.
La paratia pesante e massiccia cominciò a scorrere sulla rotaia
ronzando. Dafne, con la maglia inzuppata di sangue, riprese a
correre e oltrepassò la cancellata senza quasi rendersene conto.
Thanai le fu accanto in un attimo e la incitò a seguirlo, certo che
potessero raggiungere l'auto e che Mega fosse ancora al volante
come previsto.
La Ferrari nera in effetti era ancora dove l'aveva lasciata. Il suo
fido autista se ne stava in piedi delicatamente appoggiato alla
fiancata, fumando una sottile sigaretta.
Quando si avvide dei due che correvano nella sua direzione ebbe
un attimo di esitazione, ma poi gettò la sigaretta e saltò a bordo,
mettendo in moto con un rombo urlante.
Thanai si lanciò letteralmente all'interno dello stretto abitacolo e si
sistemò come meglio poteva per permettere a Dafne di sedersi tra
le sue gambe.
Le gomme enormi sfrigolarano sull'asfalto concertando con i
dodici cilindri un frastuono che coprì le sirene degli inseguitori.
- Puttana troia! Mi hanno squarciato il braccio! -

- Non ti agitare adesso. Non c'è tempo per fare niente. Ti stringo
qualcosa attorno alla spalla per l'emorragia. -
Muoversi in modo coordinato là dentro era un'impresa da

56
contorsionisti. Lei si strappò parzialmente la manica della maglia
grigia e vide la ferita malconcia, ma sicuramente superficiale.
- L'osso è a posto credo. -
Il flusso ematico era però abbondante e stava schizzando i pregiati
rivestimenti del bolide.
Mega guidava come un pilota in gara. Ad ogni sterzata e ad ogni
frenata i corpi sbattevano ovunque.
- Fanculo il braccio! Dove stiamo andando? -
- Andiamo alla tenuta di Furyo! -
Mega rallentò.
- La tenuta dei cavalli? -
- Sì, quella! -
La Ferrari imboccò varie strade in modo apparentemente casuale,
seminando quante più volanti della Polizia possibili. Mega stava
via via percorrendo direttrici che portassero fuori dalla città
evitando comunque quelle più ovvie.
- Niente autostrada. Zona industriale e poi la provinciale. -
Mega assentì, continuando a mangiarsi l'asfalto.
Thanai aveva completamente cambiato atteggiamento. Sembrava
disposto a qualsiasi cosa pur di portare in salvo la sua evasa. Era
concentrato, determinato. Coordinò quella fuga in modo efficace,
sfruttando l'abilità del suo autista e l'inarrivabile potenza dell'auto;
che anche su strade non proprio consone riusciva a sfiorare i
duecento all'ora.
La pianura era sgombra dalla solita nebbia di quella stagione e le
geometrie delle vaste coltivazioni si estendevano a perdita d'occhio
tutto intorno. Filari di alberi e piccoli gruppi di cascine
costellavano quel paesaggio fiabesco.
Una volta raggiunta la tenuta di Furyo averebbero potuto
concedersi una breve pausa per tirare il fiato, pulire la ferita di
Dafne e fare il punto per pianificare la vera fuga. Sicuramente un
mandato di cattura per entrambi era pronto per essere emanato e
la caccia all'uomo si sarebbe dispiegata in modo capillare.
- Abbiamo un'ora. Forse un'ora e mezza. -

Mega cominciava ad accusare un vago nervosismo e si sentiva


stanco. Un elicottero ci avrebbe messo pochi minuti a intercettare
una Ferrari nera.

57
Guardò Thanai e percepì che in lui si stava manifestando uno
sviluppo mentale positivo. Per la prima volta da quando lavorava
per lui, lo vedeva agire con una volontà concreta. L'idolo dei
sognatori, astro collassato di un mondo tutto suo, aveva messo in
atto qualcosa di tangibile con lo scopo di salvare qualcuno che
non fosse se stesso e la sua gloria. Il suo enorme potere al servizio
di qualcosa che andava oltre la musica in quanto tale.
Poteva essere l'inizio di una nuova vita.
Anche la ragazza sanguinante lì con loro aveva lo stesso profilo
straniante e onirico del suo nuovo angelo custode.
Thanai, accaldato, teneva la testa appoggiata alla spalla sana di
Dafne. E pensava.
Si stava astraendo dall'angusto spazio dell'abitacolo per proiettarsi
altrove. Se tutto filava liscio come lui voleva immaginare e credere,
avrebbero potuto raggiungere il suo resort nel Pacifico entro
ventiquattr'ore.
Bisognava essere tempestivi. Anzi, bisognava anticipare il tempo
in velocità.
E bisognava far predisporre uno dei suoi aerei privati, avvisando le
poche persone giuste. Precisione e discrezione. Una volta
staccatisi da terra nessuno avrebbe fermato il suo nuovo progetto.
L'artista si sarebbe ricongiunto con l'uomo.
Dafne, invece, pensava a sua sorella Vivida.
Mentre Mega pensava a Dafne.
La donna sulla bicicletta sbucò da dietro un filare di gelsi,
tardando a portarsi sulla corsia opposta.
Quando Mega capì che non aveva calcolato bene i tempi era
ormai fatta. La frenata secca e stridente fermò la Ferrari cento
metri più avanti, lasciando l'asfalto scannato di nero.
Dafne picchiò violentemente la testa contro il parabrezza, facendo
da scudo a Thanai. Mega sentì le costole piegarsi sotto la
pressione della cintura.
Sulla strada, travolta dal bolide, la ciclista giaceva inerme in un
lago di sangue.

Tubi d'acciao contorti e ruote svergolate sbucavano da sotto il


veicolo.
Nell'abitacolo per qualche istante solo il respiro affannato e

58
irregolare di Dafne.
Mega uscì all'aria aperta, col cuore in gola, incredulo dell'accaduto.
Camminò fino al punto dell'impatto sentendosi irreale ed estraneo
a quel deserto verde che lo circondava. Si chinò sul cadavere e,
osservando bene, si accorse con riluttanza che la donna era
incinta.
Tra gli abiti laceri poteva scorgere il ventre scoppiato da cui
spuntavano i macabri resti del feto.
Ebbe un conato di vomito e una crisi isterica. Cadde a sedere
sull'asfalto con un tonfo, con la pelle d'oca e gli occhi sbarrati.
Thanai, cento metri più in là, tirava fuori dall'auto il corpo svenuto
di Dafne.
- Cristo Mega! Questa non ce la fa più! - urlò sorreggendola a
fatica.
Vedeva il suo autista di spalle, accanto a quel fagotto disordinato
là in mezzo. Vedeva il nastro scuro, più oltre, che si perdeva in
mezzo ai campi nel cielo lattiginoso del mattino.
Cominciò a piangere in silenzio, mentre un elicottero si abbassò
improvvisamente su di loro come un presagio.

9. - COLLABORAZIONE ONIRICA

Dafne si ritrovò seduta al centro della stanza, con la testa

59
appoggiata alle ginocchia e un forte dolore alla schiena. Le
sembrava di udire ancora il rumore delle pale meccaniche e di
sentire il fluido del sangue che le colava sulle labbra.
Aprì gli occhi e guardò la stanza: quattro pareti nude e la luce
fredda di un neon che illuminava tutto rasoterra, proiettando
ombre opache dappertutto.
L'odore famigliare dei suoi abiti la risvegliò del tutto.
- Ma... Ma dove sono? - mormorò osservando quell'ambiente
sconosciuto.
Non era la sua camera del training e non era la cella dove aveva
trascorso un paio di giorni.
Visualizzò gli schizzi rossi sul parabrezza.
L'avevano trasportata lì dopo l'incidente. Lei era svenuta.
Visualizzò il senso di affanno che l'aveva colta e sentì di dover
uscire immediatamente.
Si alzò di scatto e impugnò la maniglia della porta.
Aprì. Davanti a lei si apriva la strada: un viale alberato deserto e
buio.
Poco più a sinistra i cancelli dello stadio e le luci giallastre dei
lampioni che seguivano il contorno del piazzale.
Richiuse la porta alle sue spalle e mosse qualche passo sull'asfalto,
respirando l'aria fresca della notte a pieni polmoni, proprio come
amava fare nelle sue solitarie passeggiate notturne.
Non le pareva possibile. Il suo corpo e la sua mente stavano
rispondendo nel migliore dei modi allo stimolo della notte
profonda e silenziosa. Cominciò a camminare con sicurezza,
allontanandosi dalle murate dello stadio e dirigendosi verso una
cabina telefonica che sfarfallava luce poco distante.
(hey hey now, goodbye...)
Le tornarono in mente le parole di un ritornello famosissimo di
Thanai e lo stimolo divenne imperativo. Si infilò nella cabina
protetta da due grossi platani e sollevò il ricevitore.
La linea era accessibile. Niente moneta.
- Quattro quattro tre sette due uno uno - sussurrò a memoria.

Conosceva quel numero da sempre o solo da quando si era


svegliata?
- Hotel Arha. Pronto? - rispose una voce forte.

60
- Buonasera. Scusi l'ora. E' possibile parlare col signor Eugene
Alvar? Cioè... con Thanai? -
- Mi perdoni, ma credo che il signor Alvar stia dormendo. -
- E' una comunicazione strettamente personale e della massima
urgenza. La pregherei di avvisarlo. -
Un prolungato silenzio ronzante.
- Va bene. Chi devo annunciare? -
- Dafne. Gli dica solo Dafne e lui capisce. -
- Attenda, prego. -
Il portiere notturno lasciò in pausa la chiamata.
Dafne, appoggiata disinvoltamente alla paratia della cabina, restò
ad aspettare di udire la voce di Thanai. Nel mentre percepiva
l'energia anomala dell'incubo crescerle dentro.
Qualcosa stava seppellendo il suo passato e ogni cosa volava verso
il perfezionamento tanto desiderato. Il coronamento di tutte le sue
ambizioni era davvero a portata di mano.
- Pronto? Ciao Dafne. Che succede? - disse lui improvvisamente.
- In che città suoni domani? Ho bisogno di vederti. -
- Hai avuto fortuna a trovarmi in grado di parlare. Ho appena
finito di vomitare. -
- Okay. Ma dimmi dove sarai domani per favore. -
- Vado a Milano. Vuoi partire con me? Vado via nel pomeriggio. -
- No. Non c'è bisogno. Vengo in treno per conto mio.
L'importante è che mi fai entrare quando il concerto è finito. -
- Sì Dafne. Avremo un figlio? -
Lei non rispose.
Passò un'auto, fari rossi nel buio. La seguì con lo sguardo.
- Domani notte ci vediamo, allora. Non preoccuparti per me. Sto
bene adesso. Sto bene. Buonanotte. -
- Buonanotte. -
La voce di Thanai si dissolse nei circuiti telefonici e lei riagganciò.
Il contatto era nuovamente stabilito. Soprattutto era certa che lui
lo avesse accettato, perché era un elemento fondamentale.
Uscita dalla cabina, riprese e camminare lungo il viale e si scrollò
di dosso la tragedia di quell'incubo. Tutto quel sangue era solo una
reminiscenza. La traccia del rimorso per tutti i fatti accaduti
nell'infanzia e nell'adolescenza e poi nella maturità. Sangue forzato
ad uscire da corpi altrui.

61
Trovò un bar aperto, pieno di solitudine e di umidità.
C'era un cameriere che se ne stava andando via e il titolare lavava il
bancone dopo aver accatastato le sedie. Aveva i capelli rossi e
baffoni folti da prussiano. Le faceva schifo.
Si sedette su uno sgabello alto al banco e si passò una mano tra i
capelli sporchi, un po' a disagio in quell'ambiente dalla luce incerta
e dai colori decadenti. Si aspettò di veder strisciare qualche insetto
unto fuori dalla macchina del caffè.
- Prende qualcosa? - domandò il baffone.
- Mmm sì. Può farmi un Martini? -
- Un Martini?... -
Non sapeva perché avesse voglia proprio di un Martini a quell'ora.
Di certo non avrebbe lasciato il bicchiere pieno.
Nel bar c'era un juke-box, un vecchio modello, senza il video.
Ancora acceso e rutilante di colori puntinati.
Era sicura che ci avrebbe trovato il disco che voleva sentire.
- Scusi, ha della moneta? E' per il juke-box. -
Baffone rosso sorrise e prelevò un centino dalla cassa.
- Ecco signorina. L'ultimo della giornata, proprio perché è l'ultima
cliente. -
Lei prese la moneta e si avvicinò al baraccone sonoro.
Seguì col dito l'elenco dei titoli sulle etichette sbiadite e
incolonnate. Lo trovò al numero 229. Infilò la moneta e selezionò.
Poi tornò a sedersi, aspettando che la musica partisse di colpo
come una piccola esplosione nel locale vuoto.
- Il suo Martini - disse baffone porgendole il bicchiere.
Il lancinante basso di "Idrogeno" attraversò l'aria stantia e si
infranse sullo specchio della bottiglieria e quindi si fuse con la
massa compatta delle voci distorte trasmesse dal computer alla
tastiera-madre.
Il Martini le scivolò in gola come metallo rovente e fu come se si
impastasse al suono scendendo dalla gola allo stomaco.
- Ah! Ma lei è una plastic! Una fan di Thanai - esclamò sorpreso
l'omone con un'espressione divertita.
Dafne scosse il capo.
- No. Non sono una fan di Thanai. Per me è qualcosa di diverso. -
Lui finse di aver capito e sorrise.
Il bicchiere vuoto sostò sul bancone per tutta la durata della

62
canzone. Che poi definirla canzone, se raffrontata alla media della
sua produzione, era riduttivo, trattandosi di un assoluto
capolavoro.
Dafne adorava "Idrogeno" perché era il primo pezzo di Thanai
che le aveva fatto assimilare l'aura ultraterrena dell'artista. Con
quel pezzo aveva compiuto il suo primo training, seduta a gambe
divaricate in una grande bacinella di olio crudo.
Quando la musica finì, si alzò e lasciò una banconota nel
posacenere. Prese una confezione di chewingum di nascosto e se
la infilò sotto la tuta.
- le ho lasciato lì i soldi eh! -
Il baffone la salutò con un cenno e lei abbandonò quel luogo
malsano.
Appena all'angolo dell'isolato, tirò fuori i chewingum e ne scartò
uno. Se lo mise in bocca e poi ne scartò altri quattro.
Con cinque pezzi da masticare poteva sfogare tutta la tensione che
aveva nelle mandibole. Masticò fino a stancarsi.
La notte la protesse durante quella passeggiata. Non incontrò
quasi nessuno, fatta eccezione per una pattuglia di metronotte, due
prostitute dal look dark e un ubriaco borbottante. Arrivò in vista
del porto che erano le sei e le luci lattiginose dell'alba si stavano
sciogliendo sul mare scuro.
Qualche cenno di movimento cominciò ad animare la città e poté
rendersi conto dell'estremo potere che il passaggio al nuovo
giorno le infondeva.
Rumori di ferraglia, catene, piccoli spostamenti sui ponti delle navi
rugginose; bagliori rapidissimi di fari d'automobile.
Si sedette su un muretto che correva lungo la calata, pieno di
graffiti d'amore e di sesso. E continuò a masticare gomma così
dolce che l'euforia la costringeva a piegare all'insù gli angoli della
bocca.
Sull'acqua unta del porto galleggiavano bidoni di plastica anneriti e
rifiuti irriconoscibili. Forse persino ossa umane.
Dafne inorridì all'idea di qualche aborto clandestino fatto sparire
nei canali delle fogne. Il suo bambino doveva essere l'archetipo di
vitalità e salute.
Un vecchio pescatore si fermò accanto agli ormeggi di un piccolo
peschereccio giallo e blu e preparò delle reti da aggiustare. Aveva

63
la pelle delle mani completamente raggrinzita e bruciata dal sole,
ma i suoi occhi erano come di vetro, lucenti e dipinti d'azzurro
screziato.
Più a fondo, su di essi, galleggiavano ben altri rifiuti.
Dafne vide l'unto scivolare via e colare su quel volto secolare.
Il sole fece capolino da una striatura di nuvole nere e fucsia, una
palla rossa e piatta sull'orizzonte. I primi riflessi arancioni
ravvivarono i colori tristi del porto e la vita già agitata di bordo
prese ad essere quasi frenetica. Camion e marinai attraversavano le
banchine incrociandosi in linee ideali tracciate nell'aria piena di
fumi di scarico. Funi sporche di nafta si srotolavano cadendo in
mare con un tonfo bagnato.
Dafne lesse attentamente le scritte sul muretto, ma doveva
rientrare a casa per non soccombere all'imminente esplosione
diurna.
Qualcuno voleva qualcun altro.
Qualcuno voleva scopare qualcun altro.
Le carte dei chewingum finirono a bagno.
Poi una grossa nave si nazionalità portoghese ebbe una specie di
rollio improvviso e cozzò contro il cemento della banchina.
Rimase in piedi accanto al muretto ad osservare la scena, come
rapita.
Il pescatore sbuffò e mosse la testa come a voler sottolineare
l'inutilità di qualsiasi ipotesi.
La nave - un gigantesco cargo pitturato malamente di verde e
grigio antracite - ondeggiava mostruosamente sollevando acqua e
sbattendo ogni volta con un boato cupo. I marinai a bordo
urlavano, mentre quelli a terra si sbracciavano e correvano
disordinatamente scontrandosi tra loro. Alcuni cercavano di far
fermare i numerosi autocarri che transitavano.
Tutto intorno, il solito pubblico occasionale volle consumare la
tragedia come una iena consuma la carogna lasciata sotto il sole
dai predatori. Svariate vetture accostarono azionando le frecce,
sfaccendati a zonzo e portuali dall'alto dei docks si fermarono a
guardare, mentre addetti della capitaneria cercavano di capire cosa
stesse accadendo prima di fare qualcosa di sensato.
Una nave di quella stazza che rollava in quel modo sull'acqua
immobile in una rada era qualcosa di mai visto prima.

64
Poi, in pochi secondi, l'immenso scafo si piegò del tutto sul lato
destro e cominciò ad affondare, formando dei vortici lenti e scuri.
Quasi tutti i marinai si lanciarono in mare prima di restare
intrappolati, ma alcuni erano rimasti a bordo impietriti in precario
equilibrio.
Nessuno ebbe il tempo di fare congetture realistiche.
Dafne lasciò che tutti quegli uomini nuotassero nell'acqua marcia,
corressero come pazzi e urlassero. Saltò giù dal muretto e
camminò oltre la strada, frettolosamente. Non vedeva l'ora di
chiudersi in casa, tra le sue pareti, sotto il soffitto, crogiolandosi
nell'intimità sorda della sua stessa presenza.
Si sarebbe sprangata dentro, immersa nel buon odore di chiuso,
accoccolata sul letto per liberarsi il cervello.
Entrò nel portone pieno di vernice rossa e di polvere e salì di
corsa le scale dimenticando di accendere la luce. Penetrò
nell'oscurità sempre più intensa fino al terzo piano e si fermò per
riprendere fiato. Sembrava che nel palazzo tutto si fosse realmente
spento.
Tese l'orecchio per cogliere qualche segno di vita, ma udì soltanto
l'urlo delle sirene che andavano a raccattare i superstiti della nave
portoghese.
Scrutò nell'oscurità e intuì il profilo delle porte con le maniglie di
ottone, dei gradini di marmo sporco, come in una foto
sottoesposta del tardo surrealismo.
Si propose di riprendere a salire nonostante il buio pesto, ma
temeva qualche incomoda sorpresa ad ogni rampa di scale.
Soprattutto sapeva che avrebbe potuto incontrare il gatto albino,
quello grosso come un cane. Il gatto albino dagli occhi rossi.
Ricordi antichissimo presero una vaga forma nella mente e salire
le scale al buio costituiva l'elemento probante di una situazione già
vissuta tempo prima (o forse ancora da vivere, ma già premonita).
Tendaggi di velluto rosso, corrimano di legno laccato, estintori e
folle di spettatori in attesa di assistere allo show; e libri aperti e
chiusi, fiamme e iconografia cristiana.

Riprese a correre verso l'ultimo piano con la paura che le sfiorava


la schiena e il fiato corto. Ogni scalino era una ferita.
Il buio, ormai, la avvolgeva completamente e riusciva a non

65
inciampare solo per un fortunato istinto.
Quando mise i piedi sul suo pianerottolo credette di scoppiare e si
piegò per lo sforzo. I movimenti concitati avevano fatto slacciare
tutto il lato sinistro della tuta e lembi di tessuto nero pendevano
fino a toccare il pavimento. La pelle nuda ebbe un brivido e i
polmoni le si riempirono completamente dell'aria stantia.
Aprì la porta di casa con difficoltà e la sbatté violentemente una
volta dentro al suo rifugio.
- Diomio! - si disse a mezza voce e ridacchiando - Sto cadendo a
pezzi. Sono distrutta. -
La risata si fece più sostenuta e andò fino in cucina ansimando,
certa che bere qualcosa di forte l'avrebbe aiutata a riprendersi.
- Non lo farò mai più. Guarda come sono ridotta. Sto perdendo le
tette. -
Afferrò con una mano il lembo ancora allacciato della tuta e
strappò via con rabbia, lanciando il tutto contro il frigorifero.
Restò con indosso il costume - malconcio pure quello - e le
scarpe. Non si domandò come mai il costume fosse mezzo
scucito e si sedette sul tavolo con le braccia penzoloni e le gambe
incrociate per riposare un po'.
Non aveva nulla da rimproverarsi, ma era conscia di essere in uno
stato di decadimento fisico e nervoso e non intendeva lasciarsi
andare e perdere del tutto le energie. Non proprio quando Thanai
le era finalmente vicino.
Il fine prefissato aveva bisogno di una persona sana e almeno lei
voleva essere sana, perché lui di certo non lo era. Lui era un essere
senza organismo.
Distese le dita delle mani più volte e serrò le mascelle. Si accorse
di essersi graffiata sul seno quando aveva strappato la tuta. Una
riga rossa attraversava obliquamente tutto il petto.
- Mi butto a bagno. Mi butto nella vasca che è meglio - biascicò.
Pensò alla nave che affondava, il simbolo premonitore della sua
possibile morte, in acque calme.
Si sdraiò sul tavolo e finì di lacerarsi ciò che restava del costume e
poi tirò via le scarpe piene di lacci. Si stiracchiò come appena
svegliata.
Riempì la vasca di acqua bella calda e si immerse lentamente,
assaporando la differenza di temperatura centimetro per

66
centimetro. E man mano che la pelle si bagnava, la sensazione di
svuotamento cresceva e i pori si dilatavano.
Cominciò a vedere distintamente una mano ferma. Poi due mani,
dapprima immobili e successivamente in movimento.
L'onda d'urto andava e veniva, ma non era possibile ascoltarla.
Colui che la produceva connetteva il movimento delle mani allo
spostamento degli atomi, annichilendo ogni forma di vita.
Dafne era sicura che qualcosa la stesse ustionando, qualcosa che le
era entrato nel corpo. Doveva trovare il filo che legava una
situazione all'altra, i luoghi e le idee, le immagini olografiche e la
terribile piramide rovesciata. Doveva concepire il figlio del suono
e fare del suo giaciglio la piramide nera.
L'acqua le lambì la bocca e lei socchiuse le labbra per farne entrare
un po'. Chiuse gli occhi e serrò le gambe, come se stesse per
addormentarsi.
La luce fioca del nuovo sole si infilò attraverso le tapparelle e colpì
come uno spot teatrale il bordo della vasca. E si spostava. Si
spostava impercettibilmente verso l'acqua mentre il sole cresceva
nel cielo.
Mugoli di pulviscolo galleggiavano nella luce e scomparivano.
Dafne tirò fuori una mano dal liquido fumante e attese che il
raggio caldo la illuminasse.
- Domani Thanai sarà il numero uno - disse tra sé ridendo.
Lievi fluttuazioni epidermiche, cambiamenti di stato, invasione
superficiale all'altezza dell'inguine. Poteva rilassarsi, ma la mano
non ce la faceva più a restare fuori. La luce stava piegandosi in
direzione del volto, come una cosa pensante, e fu allora che dai
capezzoli cominciò a sgorgare sangue. Sangue che si espanse
nell'acqua e le annebbiò lo sguardo fisso su un punto indefinito.
Quel sangue era il latte. Il suo bambino sarebbe cresciuto
bevendolo, attaccato al seno materno in un tangibile sentore di
allucinazione.
- Domani Thanai sarà il numero uno. Domani faremo le prove.
Ho dormito nella sua auto... e ci sono crepata dentro. Oh! Io lo
conosco bene e so per certo che vorrà aiutarmi a ultimare il
progetto. Thanai sarà il numero uno. -
La vasca era ormai piena di sangue rosso cupo e il vapore non
riusciva più a staccarsi dalla superficie del liquido. Il sangue che era

67
latte.

10. - DAL DIARIO UNICO DI EUGENE ALVAR THANAI

Devo farla finita con qualcosa.

68
Tutte le volte che mi corico la posizione individuale rispetto al
mondo diventa un incubo. Quattro incubi per notte e svegliarsi
nelle posizioni più strane, con i volti sconosciuti nella mente.
Odio la gente e ogni sua manifestazione viva. Odio dal profondo
chi mi fa sentire insicuro, svantaggiato, irrimediabilmente
differente. Continuo a galleggiare nella mia disperata solitudine, in
questa devastazione personale che altro non respira se non morte.
Trascorro momenti suonando, senza neanche sapere se la musica
di quegli istanti entrerà a far parte del tempo. Dove vanno a finire
tutte le note casuali, le note perdute? Vedere led rossi nel buio e
piangere piano, in silenzio, incapace di apprendere gli arcani
motivi di questa assurda condizione.
Solo con me stesso. Soli con noi stessi. La ragione di fondo è che
l'essere consci della solitudine ci impedisce di vincerla, di
combattere per entrare a far parte degli "altri", di chi amiamo. A
questo punto mi rifiuto di credere che esista il sentimento, fatta
eccezione per quello suscitato da una propria pulsione.
Voglio dire: se ascolto un brano musicale che ho suonato con
determinati sentimenti, posso ricreare il riflesso di questi
sentimenti. Ma se il sentimento nasce da una pulsione esterna,
diciamo da una persona, allora è impossibile che ci sia uno
scambio, una connessione tra me e quella persona.
Ho paura. Anzi... terrore di ottenere ogni volta ciò che desidero e
di non dividerlo con nessuno. Il mio pubblico è una massa di
cervelli pulsanti, ma ogni singolo componente della massa non
esiste. E questo pubblico, in realtà, non mi ha mai dato nulla.
Semmai mi ha tolto una fetta di anima.
Adesso come posso restare delle ore a cercare qualcosa da fare,
come un idiota. Sono molto stanco, eppure so già che il sonno mi
porterà angoscia e dolore. Scrivere non basta a farmi riversare il
fiume di odio e disperazione che ho dentro. le parole rimangono
sulla carta solo per me stesso. Nessuno verrà investito dall'ondata
di lacrime.
Sento che qualcuno si avvicina, ma sono certo che si
addormenterà subito.
Il mattino mi attende per calarmi nel baratro oscuro dove regna il
dio del male. La pioggia non basta a spegnere l'ustione che vivere
mi provoca nel cuore.

69
11. - LA MORTE RIFLESSA

Thanai e Dafne si incontrarono sotto i portici del distretto

70
bancario e si baciarono senza dire nulla. Si conoscevano da
sempre.
La perfetta identità si era rivelata inequivocabilmente attraverso la
scelta accurata degli abiti: tutti e due indossavano un paio di
pantaloni bianchi e una maglia nera. Ognuno dei due leggeva
nell'altro il senso di inconscia abitudine al contrasto.
- Hai già mangiato qualcosa? - domandò Dafne quando decisero
di fare una passeggiata verso il mare.
- Ho buttato giù solo due anfe con un sorso di gin - rispose
dolorosamente lui.
- Sta attento con l'alcol. Fattici una doccia, piuttosto. -
Proseguirono lungo tutte le principali arterie di traffico della città
e ogni tanto si fermavano a guardare la gente impalata ad aspettare
l'autobus. Come pesci in via di estinzione.
L'aria era limpida, in quei giorni, e respirare era come avvelenarsi
nei giorni bui dell'inverno inoltrato.. Il cemento e l'acciaio che
davano forma alle cose non sembravano così opprimenti.
L'idea generale era che tutto si stesse espandendo per poi
contrarsi; questo al di là di ogni relatività, quindi anche nelle
piccole cose, come gli insetti, la crescita dei capelli e la voglia di
fuggire. Tutto saliva e poi scendeva, ma nell'arco di millenni, forse.
Dafne strinse il braccio di Thanai, per indicargli due persone che
stavano attraversando la strada. Erano due giovani di sesso
indefinibile col sorriso sulle labbra e croci dipinte sulle mani,
come stigmate di un suicidio primordiale.
Thanai, però, sembrava non accorgersi nemmeno che lei gli stava
stritolando il bicipite.
- Thanai! Thanai! Sveglia! - strillò scrollandolo.
Il volto scomparve e una opalescenza accompagnata da un odore
di corpo umido e sudato diede il benvenuto al ritorno nel mondo
reale.
Nel sogno termina il risveglio del sogno.
Dafne si ritrovò sul suo letto, in un bagno di sangue e sudore,
stringendo fino allo spasmo il suo stesso braccio sinistro. Si era
conficcata le dita nella carne.
sbatté via le lenzuola fradice a calci e soffiò un grido di dolore e
repulsione serrando i denti.
Saltando giù dal letto piegò male un polso e sentì una fitta acuta

71
fino al gomito che la costrinse a bloccarsi per smaltire la scossa
tremenda. Nella disperazione di tutti quei dolori corporei non
riusciva a rendersi conto del suo stato psicologico: un misto di
affanno mortifero e rabbia incontrollata.
Qualsiasi cosa le dovesse accadere, non avrebbe abbandonato il
proposito di avvisare Thanai.
Si alzò in piedi a fatica e il sangue gocciolò sul tappeto. Andò in
bagno per lavarsi la ferita autoinferta e tuffare la testa nell'acqua
fredda, per risvegliarsi del tutto. Ancora non era sicura di essere
uscita dal sogno.
Oltrepassando la porta al fondo del corridoio picchiò
inavvertitamente il ginocchio contro lo spigolo di un mobile e
l'articolazione cedette, facendola cadere a terra. Bestemmiò e
cercò di tirarsi su, spingendo di lato per evitare che il braccio
ferito toccasse il pavimento gelido. Doveva verificare l'entità del
danno al ginocchio. Si appoggiò allo stipite della porta e si sedette
contro il mobile maledetto: un profondo taglio sulla rotula con i
margini tumefatti e l'osso biancastro a vista.
Le uscì qualche lacrima. Diede un colpo di reni per lasciarsi
nuovamente cadere distesa a terra. Desiderava abbandonarsi al
dolore senza reagire per forza. Ogni movimento poteva essere
fatale, in quella situazione.
Polvere dappertutto. Poteva vederla bene in controluce e la stava
respirando. Le cose, guardate da quella prospettiva, erano
tremendamente enormi, incombenti. C'era di che preoccuparsi di
finire intrappolata sotto qualche mobile, nell'oscurità soffocante,
dove nessuno avrebbe mai pensato di cercarla.
Sicuramente qualche virus si annidava negli angoli sotto la libreria,
sotto il letto, sotto la cassapanca. Ma non lo vedeva. E sarebbe
finita anche lei là sotto, in un lago di sangue, piena di tagli e
contusioni.
Il ginocchio pulsava forte, tanto che annullava la sensibilità del
braccio ferito e del polso distorto. Non sapeva come medicarsi e
comunque non le importava nulla. Presto sarebbe morta.

La morte ormai le era entrata dentro e aveva iniziato la sua opera


di devastazione.
Restò ancora un po' sul pavimento, inerme e distrutta. Poi decise

72
di provare ad alzarsi. Quando fu in piedi, malsicura sulle gambe, si
trascinò in cucina e si versò una birra fresca. Si sentiva la bocca
marcia. Tracannò due bicchieri spumeggianti che le diedero
sollievo alla gola e gettò nel lavello ciò che restava nella bottiglia.
La birra gorgogliò giù nello scolo, come un fluido vitale che
scendeva all'inferno.
Dafne si passò una mano tra i capelli e li sentì duri come riccioli di
rame ossidato. Non le era mai capitato di averli così arruffati e
sporchi. Erano così densamente appiccicosi che fece fatica a
infilarci le dita.
I sintomi della decadenza erano forti. L'allucinazione dell'agonia,
ormai, le faceva vedere ciò che non c'era, le faceva sentire ciò che
non poteva esistere. I dolori del suo corpo si mescolavano,
cambiavano zona, posizione, si spostavano dal ginocchio alla
fronte, dal polso alla caviglia e fino alla schiena.
Sicuramente la morte si stava spostando dentro di lei come un
verme in una carogna succulenta.
Si osservò la mano ridotta a una poltiglia di carne rossa. I capelli
duri avevano lacerato le dita come una trappola.
Scrollò il polso e briciole sanguinolente si spiaccicarono tutto
intorno, sulle piastrelle, sul pavimento. Grondava la vita da quella
mano, ma senza dolore.
La birra nello stomaco si agitava acida e frizzante.
Andò al frigorifero, aprì la ghiacciaia e ci infilò dentro la mano,
sperando di bloccare l'emorragia.
Il ghiaccio si condensò velocemente e l'avambraccio scomparve
tra i vapori in quel candido micromondo che lo inghiottiva.
Un altro pezzo che spariva all'inferno.
Dafne riuscì a pensare alla verità come se stesse rivedendo un film
proiettato direttamente nella sua testa. I protagonisti riconoscibili
nei volti di suo padre e di sua madre, nel parto della gatta, nello
stomaco aperto di MacArt... L'animazione di quel periodo e i
misteri concernenti la fuga dei gattini e la colonna d'aria che era
esplosa sopra il tetto della casa. Amava parlare volgarmente e
adorava la televisione, a quei tempi.
Il film continuò nei trascorsi più antichi, quando frequentava
l'università e si divertiva con gruppi di neo-intellettuali
d'avanguardia. I giorni passavano tra lezioni di letteratura straniera

73
e le feste plastiche, le esperienze sperimentali e l'amore asettico.
Fino a che non era tornata in patria per stabilirsi lì, da perfetta
single, aveva girato l'Europa con la speranza di trovare il
divertimento puro, la sublimazione dell'essere indifferenti e
sollevati dalla gravosa normalità umana.
Oltretutto, fino a che il suo più affezionato idolo di gioventù non
aveva fatto nascere il gattino cieco, tutto sembrava il centro di una
favola individuale, coscientemente lontana dal mistico terrore dei
nuovi culti devianti della metropoli.
Nell'ambito teatrale si era ritrovata di fronte alla vera cultura, a
gente onnisciente, agli occhi rossi del gatto albino, al vertice della
scalata del profumo di legno che conduceva i più arditi alla verità
del sogno. Come due dita sul telecomando.
Il sangue colò giù dalla ghiacciaia.
Dafne si affrettò a prendere un grosso coltello nel cassetto e vibrò
diversi colpi all'altezza del polso per recidersi la mano appoggiata
sul tavolo. Era insensibile, ma il suono dei nervi e delle ossa colpiti
ricreava nella mente il dolore che avrebbe dovuto provare.
Continuò ad abbassare la lama affilata e pesante e poi, non
ottenendo un risultato definitivo, prese il batticarne e terminò
l'operazione con quello.
La mano restò sul tavolo in una pozza di sangue. Pezzetti di osso
sparsi intorno.
Si guardò il moncherino e provò repulsione mista a meraviglia. Lì
c'era la sua carne. Guardò la mano. Posò il batticarne su un
ripiano di fòrmica e prese fiato. L'amputazione era il primo passo
della sua distruzione, da concludersi nel giro di poche ore di quella
strana mattina.
Se resisteva abbastanza all'emorragia c'erano altre soddisfazioni da
togliersi. Dovevano trovarla già morta da un pezzo. E sapeva che
Thanai avrebbe cambiato il corso della propria evoluzione artistica
dopo aver appreso la notizia. Altro che figlio! La giornata iniziava
con l'exploit della nuova esistenza onirica, oltre la città-materiale,
oltre il bisogno di seminare eredi della propria persona.
Scelse lo spigolo della vasca da bagno.
Si inginocchiò lentamente, mise le braccia dietro la schiena e
sbatté ripetutamente bocca e mento sulla ceramica dura e fredda.
sbatté regolarmente senza fermarsi, con un ritmo asciutto,

74
assorbendo l'urto dapprima con i denti e quindi con l'osso della
mandibola.
Altro sangue rigò il biancore della vasca, rosso e denso.
Lo specchio non mentì: brandelli di labbro tumefatti, denti
spaccati fino alla gengiva, pelle del mento lacerata.
Ebbe un rigurgito ematico dal cavo orale e la lingua penzolò fuori
come un pezzo di intestino. La metà inferiore del suo viso era una
maschera grottesca, irriconoscibile, che cercava di mettere a nudo
le ossa del teschio in un'opera di autentica arte.
Ancora insensibile al dolore.
Abbandonò la vasca e preparò un ferro da arroventare sulla
fiamma della cucina a gas. Tenendolo con un paio di pinze lo fece
diventare incandescente, quasi giallo brillante.
Serrò con impeto la mascella, gengiva contro gengiva, e chiuse gli
occhi prima di conficcarsi il metallo rovente nell'angolo esterno di
quello sinistro. Sfrigolio e odore di carne bruciata. Un rivolo di
sangue solcò la guancia e il ferro uscì da quella piccola voragine di
polpa nerastra.
Provò ad aprire gli occhi e si accorse con sorpresa che era ancora
in grado di vedere bene. Però sentiva la palpebra appiccicata e una
lieve distorsione della vista prospettica le disse che probabilmente
aveva lesionato qualche nervo importante.
Era proprio quello che voleva.
Trovò delle lamette da barba rimaste lì da chissà quando, in una
scatola blu, assieme ad un piccolo asciugacapelli. Ricordava di
averle comprate tempo prima per un'eventuale depilazione a
rasoio mai avvenuta. Erano nuove, mai usate. Confezionate in
bustine sigillate colorate, in acciaio sottile, flessibile, altamente
tagliente.
Ne prese due tra le dita della mano rimasta e si incise il collo
proprio sotto la carotide e una narice, senza penetrare troppo a
fondo.
Le lasciò conficcate lì, le lamette. Come asce di boscaioli in pausa
nel tronco di un albero da abbattere.

Lo specchio le rivelò il volto in tutto il suo splendore. Di intatto le


rimanevano un occhio, le orecchie, parte del naso e la fronte.
Il maquillage rosso andava completato nei minimi particolari.

75
Respirava male. Grumi di sangue le ostruivano la laringe.
Non si perdette d'animo e dedicò tutte le forze residue all'ultima
parte della distruzione.
Con una biro nera si disegnò approssimativamente una stella in
fronte e poi tracciò altre linee confuse sulle cosce e sulla pancia.
Siccome erano sottili e poco visibili, le ripassò col suo stesso
sangue intingendo la punta della biro nel moncherino e nelle
labbra spaccate come un pennino. In quel gesto vide i significati
finali del suo training.
Salì sul tavolo in un trionfo di morte e si preparò al tuffo sul
pavimento per rompersi la testa. Salì con grande impegno e
affanno e i sensi le vennero meno, facendola scivolare giù
scompostamente.
Lei quasi non se ne rese conto. La gamba destra oltrepassò lo
schienale di una sedia inforcandola brutalmente. La sinistra si
piegò in avanti spezzandosi con un colpo secco in cima al femore,
mentre l'osso pubico cozzò sullo spigolo durissimo dello
schienale.
Dopo qualche attimo di immobilità in quella postura da
marionetta rotta, si accasciò in avanti e si abbatté a peso morto
sulle piastrelle del pavimento.
La lametta conficcata nel collo sprofondò del tutto recidendole
l'arteria e l'emorragia copiosa la restituì oltre la vita in qualche
minuto di completa incoscienza.

* * *
Sulla Tangenziale Sud di Milano, la Ferrari nera sfrecciava nella
brezza dell'alba rallentando di tanto in tanto in prossimità degli
svincoli.
Mega stava fischiettando "Superdoom" cercando di sovrastare il
rombo incessante del motore. Thanai sfogliava i suoi appunti su
un piccolo taccuino.
Il profilo della città si estendeva per chilometri sull'orizzonte: una
skyline di cemento grigio e rossiccio, di tabelloni variopinti, di
macchie verdi annaspanti nella caligine.
Il cielo scendeva senza sfumature lasciando prevedere una totale
assenza di sole per l'intera giornata.
- Hai intenzione di fare qualche variazione stasera? - disse Mega

76
tutto allegro.
Il traffico sembrava scorrevole.
Thanai storse le labbra e scarabocchiò il notes.
- Voglio inserire due minuti di composizione libera alla fine della
prima sezione. -
- Col computer o in manuale? -
- Tutto in manuale. Mi sento in grado di farlo. Cercherò di
elaborare i suoni col controllo psichico e di sviluppare le sequenze
sul momento. -
Mega si mostrò meravigliato. Non era mai accaduto prima che
Thanai modificasse i suoni in pubblico con quel tipo di processo.
- Come pensi di poterlo fare? Sarà necessaria una carica emotiva
enorme. In pratica dovrai suonare mentre sogni. Lì sul palco! -
- Lo so. Ma so anche che questa sera i miei sentimenti troveranno
una valvola di sfogo sullo strumento diretta. -
Mega non aggiunse altro. Si concentrò sulla guida e lasciò che il
musicista si preoccupasse degli inevitabili spunti maniacali che non
gli davano pace. Prima di ogni concerto era un continuo
sottilizzare.
Entrarono in città e iniziò a piovigginare. L'atmosfera milanese
non era la più adatta a rendere efficiente Thanai, anche se
l'esibizione si sarebbe tenuta al chiuso in un contesto creato
appositamente per concentrare energia elettrica.
La Ferrari si fermò a diversi semafori lungo il tragitto, suscitando
ammirazione e invidia nei passanti e negli altri automobilisti.
La stessa storia di sempre.
Thanai non sopportava la gente con quel tipo di sguardo. Non
sopportava che potessero riconoscerlo pur occultato dai vetri
scuri. E lo mandava in paranoia l'idea che altri lo pensassero così
ricco e così ostentatore.
Le geometrie del capoluogo catturarono il flusso multiforme e
niente poté mettere in discussione la supremazia dell'acciaio e
dell'asfalto. Anche la luce era un semplice accessorio.
- Dove vuoi fermarti? -

Thanai fece un gesto vago e chiuse il taccuino per riporlo nel vano
della portiera.
- Voglio fare colazione in una latteria. Ce ne abbiamo ancora

77
soldi? -
- Quasi due centoni sono andati di benzina. Ma qualche spicciolo
mi è rimasto. -
- Va bene. Passeremo in banca più tardi a prendere qualoca, un po'
di liquido. Non credo di sapere dove ho messo gli assegni. -
Lo disse con voce lagnosa.
- Saranno almeno due mesi che hai finito il libretto. Non ne hai
più. -
- Appunto! Io non ci capisco più niente. Di soldi non voglio
occuparmene nemmeno per un caffè. I soldi.... Cosa sono? Dove
sono? Perché hanno valore? Perché io valgo tanti soldi? -
Mega non rispose e aguzzò la vista, rallentando, tentando di
individuare una latteria aperta.
Gli vennero in mente la testa che si erano procurati per il concerto
della sera precedente, l'ingente somma di denaro consegnata ai
due killer e poi i regali agli amici e ai non amici, i conti degli hotel
per le stanze lasciate in condizioni penose. Come la Suite Oro
all'Ahra.
E lui chiedeva cosa fossero i soldi?...
- Senti Mega. Dovrei fare anche una telefonata. Non è che hai... -
- Lì sotto c'è della moneta. Gettoni, guarda un po'... Ora
posteggio, tu telefoni e poi facciamo colazione. -
- Bene! Ho fame! Devo telefonare a una tizia... Spero che sia in
casa. Lo spero proprio. -
Mega accostò lungo il marciapiede del viale, accanto a un cabina
telefonica e al chiosco di un'edicolante.
Thanai scese stancamente e si avviò. Il suo autista lo aspettò
facendo due passi lì intorno per sgranchirsi le gambe e sbirciando
i titoli dei giornali stampati da poco.
L'uomo del chiosco stava ascoltando la radio. La voce di uno
speaker stava annunciando qualcosa a proposito del grande
concorso legato ai chewingum "Stripe". Vinci la casa dei tuoi
sogni.
Mega riuscì a capire che la super-fortunata era una certa Dafne,
sorteggiata all'ultimo momento in quanto l'unico partecipante che
aveva azzeccato la soluzione era deceduto, nel frattempo.
Thanai stava telefonando.
Pioveva a tratti e l'aria era pregna di umidità autunnale.

78
Oltrepassata l'edicola, Mega perse l'eco della radio e agguantò i
rumori della strada.
Qualcuno aveva vinto la casa dei sogni. Beh, la giornata iniziava
bene.
La carrozzeria della Ferrari era ricoperta di goccioline brillanti e
sicuramente corrosive.
Thanai uscì dalla cabina visibilmente seccato, facendo ballare le
monete sul palmo della mano. Si fermò a comprare La Stampa.
Per un istante fu una figura immobile davanti all'edicola, fasciata
nella tuta nera e gialla.
Fu solo un flash sullo sfondo grigio, ma Mega lo vide indifeso e
spaurito e rassegnato, su quello sfondo di foresta di rami secchi.
Goccioline sulla vernice dell'auto.
L'eco della radio.
Poi, ecco la croce di acacia sovrastare l'idolo delle folle.

79
80
81
INDICE

1. - VITA NOTTURNA pag. 5


2. - IL PUZZLE pag. 11
3. - LAVORO ACCURATO pag. 16
4. - VITA DIURNA pag. 21
5. - ROUTINE DA STAR pag. 27
6. - VERSO LA META pag. 33
7. - IL CONCERTO pag. 41
8. - TOCCATA E FUGA pag. 48
9. - COLLABORAZIONE ONIRICA pag. 59
10. - DAL DIARIO UNICO DI EUGENE ALVAR THANAI pag. 68
11. - LA MORTE RIFLESSA pag. 70

82

Potrebbero piacerti anche