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UMANESIMO E RINASCIMENTO

Nell'Umanesimo e nel Rinascimento l'organizzazione culturale non spetta più al clero, ma alla
borghesia e alla nuova aristocrazia cittadina.

La nascita e lo sviluppo della civiltà rinascimentale del Quattrocento e del Cinquecento


coincidono, sul piano storico, con alcuni eventi di grande portata, che segnano il trapasso dall'età
medievale a quella moderna: la fioritura delle monarchie europee, le scoperte geografiche, le
invenzioni della stampa e della polvere da sparo, la Riforma protestante.

Fra i maggiori Stati troviamo: Milano, Venezia, Firenze, Stato della Chiesa, Regno di Napoli.

L'Umanesimo rinascimentale rappresenta invece l'esplicita elaborazione di una cultura nuova,


che, spezzando ogni compromesso con i vecchi schemi mentali e rispecchiando le differenti
esigenze di una civiltà urbana e mercantile giunta a piena maturità, riflette coerentemente, a livello
teorico, il mutato atteggiamento dell'uomo di fronte alla vita e al mondo. Figlia di una società
radicalmente trasformata a opera delle varie tecniche mercantili, industriali, finanziarie, agricole,
urbanistiche, nautiche, idrauliche, militari, politiche ecc., la cultura del Quattrocento cerca per la
prima volta di interpretare filosoficamente i propri mutamenti di struttura mediante una nuova
immagine globale dell’uomo.

CONCEZIONE RINASCIMENTALE DELL’UOMO

Il nucleo dell'antropologia rinascimentale risiede nella celebre affermazione, attinta dal mondo
classico, secondo cui homo faber ipsius fortunae (l'uomo è fabbro della propria sorte), mediante
la quale gli scrittori del Rinascimento intendono dire che la prerogativa specifica dell'uomo, cioè la
sua "dignità" particolare nei confronti degli altri esseri, risiede nel forgiare se medesimo e il
proprio destino nel mondo. Nell'orazione De hominis dignitate (Sulla dignità dell'uomo), che può
essere considerata come una sorta di manifesto del pensiero antropologico rinascimentale, Pico
della Mirandola presenta l'uomo come “libero e sovrano artefice di se stesso”.

CUSANO

Il platonismo del Rinascimento si esprime soprattutto nell'Accademia fiorentina. Ma già


precedentemente aveva risuonato una voce platonica, o platonizzante, di prim'ordine: quella di
Niccolò Cusano, considerato il maggiore rappresentante di questo indirizzo filosofico.

Nikolaus Chrypffs, o Krebs, detto "Cusano" dal paese di origine (Cusa, presso Treviri, in
Germania), nacque nel 1401, studiò in Germania e a Padova, fu cardinale e vescovo di
Bressanone e morì a Todi nel 1464. Durante un viaggio in Grecia familiarizzò con i pensatori e i
teologi greci più significativi del tempo ed entrò in più diretto rapporto con la filosofia greca. La
sua opera principale è La dotta ignoranza (1440).

La conoscenza è possibile, secondo Cusano, solo quando c’è proporzione (cioè omogeneità o
convenienza) tra ciò che già si conosce e ciò che si vuole conoscere.

Quando ciò che si cerca di conoscere non ha alcuna proporzione con ciò che già si conosce (cioè
ne è lontanissimo), allora non resta che proclamare la propria ignoranza, che in questo caso sarà
un'ignoranza "dotta", cioè consapevole e fondata su buoni motivi. Questo è il caso della
conoscenza di Dio, il quale è infinito: tra l'infinito e il finito che è conosciuto dall'uomo non c'è
proporzione, quindi l'uomo potrà indefinitamente avvicinarsi alla verità e all'essere infinito di Dio,
ma non potrà mai raggiungerli.

Dall'altro lato, egli deriva anche una nuova concezione del mondo fisico, che prelude direttamente
a quella di Keplero, Copernico e Galilei. Cusano nega che una parte del mondo, quella celeste,
possieda una perfezione assoluta e sia quindi ingenerabile e incorruttibile. Per lui non sussiste
quella separazione tra sostanza celeste (o etere) e sostanza composta dei quattro elementi che
era stata stabilita da Aristotele. Tutte le parti del mondo hanno, secondo Cusano, lo stesso valore,
ma nessuna raggiunge la perfezione che è propria di Dio.

Il mondo non ha un centro e una circonferenza, come Aristotele aveva supposto, giacché
altrimenti fuori di questa circonferenza esisterebbe altro spazio, vuoto di realtà, mentre il mondo
comprende tutto lo spazio e tutta la realtà. Il mondo ha il centro dappertutto e la circonferenza in
nessun luogo, giacché circonferenza e centro sono Dio stesso. Il mondo è privo di confini, anche
se non possiede l'infinità che è propria di Dio. Non essendovi un centro, la Terra non è al centro
del mondo; essa si muove di un movimento che è circolare.

ERASMO DA ROTTERDAM

L'aspetto filologico-umanistico della riforma religiosa è rappresentato dalla celebre figura di


Erasmo da Rotterdam (Geert Geertsz).

Nato a Rotterdam nel 1466, Erasmo fu il più famoso umanista della sua epoca. Fu prete e si
laureò in teologia presso l'Università di Torino (1506), ma il compito che egli riconobbe come
proprio fu quello di scrittore e di filologo. Preparò l'edizione di alcuni padri della Chiesa e lavorò a
un testo critico del Nuovo Testamento. L’opera più famosa di Erasmo è l’Elogio della pazzia in cui
adopera la satira e il sarcasmo con l’intento di mettere a nudo la decadenza morale della società
del suo tempo.

Più tardi, nel 1524, Erasmo attacca apertamente la Riforma sul problema del libero arbitrio.
Nell'opera intitolata appunto De libero arbitrio, egli rivendica per l'uomo, contro la negazione di
Lutero, la libertà di scegliere di salvarsi (o di dannarsi), vedendo nella grazia divina soltanto la
causa principale della salvezza e nella libertà dell'uomo la causa secondaria. La salvezza sarebbe
così frutto della collaborazione tra l'uomo e Dio. Mentre Lutero si pone decisamente sul terreno
della pura fede religiosa, dove l'atteggiamento fondamentale è l'abbandono totale e
incondizionato all'onnipotenza divina, Erasmo parla ancora come un umanista filosofo e muove
quindi a difendere quella libertà senza la quale la dignità dell'uomo non ha più senso.

LUTERO

Martin Lutero (1483-1546) è l'assertore più risoluto del ritorno alle fonti cristiane come via di
rinnovamento della coscienza religiosa. Egli nega il valore della tradizione cristiana e sceglie di
riportarsi direttamente al Vangelo. Il ritorno al Vangelo implica, inoltre, la negazione della funzione
mediatrice del sacerdozio e dei sacramenti istituiti dalla Chiesa. Lutero riduce i sacramenti prima
a tre (battesimo, eucarestia, penitenza), poi a due soltanto: il battesimo e l'eucarestia, giacché
questi soli sono stati istituiti da Cristo.

Al De libero arbitrio di Erasmo, Lutero replica nel 1525 con il De servo arbitrio. Il libero arbitrio,
secondo Lutero, è nulla, un nome vano. Dio prevede, propone e manda a compimento con
volontà eterna e infallibile. La prescienza e la predestinazione divine implicano che nulla accade
che Dio non voglia.

CALVINO

Per Giovanni Calvino (1509-1564) il ritorno alle fonti del cristianesimo è essenzialmente il ritorno
alla religiosità del Vecchio Testamento. Calvino ammette e difende nella sua opera del Vecchio
fondamentale, Istituzione della religione cristiana (1559), l'unità del Vecchio e del Nuovo
Testamento, combattendo la tesi che il Vecchio Testamento abbia additato agli Ebrei una felicità
puramente terrena. E in realtà dagli scritti del Vecchio Testamento egli desume il concetto di Dio
come assoluta sovranità e potenza.

Il lavoro è per Calvino un dovere sacro e la stessa buona riuscita negli affari può costituire una
prova del favore di Dio. Secondo il calvinismo Dio manifesta la sua predilezione aiutando l'uomo a
raggiungere la prosperità e il benessere, come risulta dal Vecchio Testamento. E sull'etica
calvinista si modellò in qualche misura lo spirito attivo, aggressivo e alieno da ogni
sentimentalismo della nascente borghesia capitalistica.

CONTRORIFORMA E RIFORMA CATTOLICA

Si suole chiamare "Controriforma" la reazione della Chiesa cattolica alla Riforma protestante, che
inizia con il Concilio di Trento (1545-1563). Il Concilio di Trento negò quindi che le Scritture
bastassero da sole alla salvezza e si oppose al principio della libera interpretazione, riaffermando
il diritto della Chiesa (già difeso dai padri dei primi tempi) di dare, essa sola, l'interpretazione
autentica dei testi biblici. Riconfermò anche la funzione mediatrice della Chiesa, la validità dei
sacramenti e dei riti, il valore delle opere. Il maggiore rappresentante di questa linea di pensiero fu
il cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), gesuita, teologo e consultore del Santo Uffizio.

MACHIAVELLI

Iniziatore dell'indirizzo storicistico è Niccolò Machiavelli (1469-1527), che dedicò la propria vita al
tentativo di realizzare una comunità politica italiana. Compose Il Principe nel 1513.

Rinunciando a ogni vagheggiamento di repubbliche e principati ideali, Machiavelli indica il


compito del politico, identificato nella figura del «principe», nell'attenersi alla realtà di fatto e
nell'affrontare a occhi aperti le dure esigenze del suo compito. Il principe, se vuole riuscire nei
suoi disegni, deve fare i suoi calcoli per il caso peggiore: deve perciò presupporre che tutti gli
uomini siano cattivi.

IL GIUSNATURALISMO

L'altra delle due correnti in cui si esprime lo sforzo politico di rinnovamento del Rinascimento è
quella del giusnaturalismo, che si propone di chiarire la natura permanente e razionale dello Stato,
allo scopo di riportare a essa ogni comunità politica esistente.

MORO

Si può vedere una prima manifestazione della tendenza giusnaturalistica nell'opera dell'inglese
Tommaso Moro (Thomas More, 1478-1535), letterato e statista noto per essere stato imprigionato
e condannato a morte a causa della sua opposizione all'atto con cui il parlamento dichiarava nullo
il matrimonio di Enrico VIII con Caterina d'Aragona.

Moro espone le proprie idee soprattutto in Utopia (1516), una sorta di romanzo filosofico che
contiene la proiezione fantastica di quello che dovrebbe essere uno Stato conforme a ragione, nel
quale gli stessi principi religiosi sono quelli che la ragione può difendere e far valere.

Il punto di partenza di Moro è la critica delle condizioni sociali dell'Inghilterra del suo tempo.

Dall'analisi di questa situazione il filosofo è indotto a vagheggiare una riforma radicale di Utopia.
Così, nell'isola di Utopia descritta nell'opera omonima, la proprietà privata è abolita.

BRUNO

Bruno nacque nel 1548 a Nola. A circa 15 anni entrò nel chiostro domenicano di Napoli, dove per
le sue qualità eccezionali di memoria e di ingegno crebbe come un ragazzo prodigio. Ma a 18 anni
i primi dubbi sulla verità della religione cristiana lo posero in urto con l'ambiente ecclesiastico e
dieci anni dopo (1576) fu costretto a riparare prima a Ginevra, poi a Tolosa e a Parigi. Qui
pubblicò, nel 1582, la commedia Il candelaio.

Da Parigi passò nel 1583 in Inghilterra, dove insegnò a Oxford e fu in relazione con la corte della
regina Elisabetta. A questo periodo appartengono i dialoghi italiani. Ritornato a Parigi, fu costretto
ad andar via per l'ostilità degli ambienti aristotelici, che egli aveva aspramente attaccato. Si
trasferì allora in Germania (1586).

Accolse quindi l'invito del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, che si aspettava di essere
istruito da lui nell'arte magica, e si recò a Venezia, credendosi al sicuro sotto la protezione della
Repubblica. Ma, denunciato dal Mocenigo, venne arrestato il 23 maggio 1592 dall'Inquisizione di
Venezia. Bruno si sottomise.

Ma nel 1593 Bruno fu trasferito all'Inquisizione di Roma. Rimase in carcere sette anni. Rifiutò i
ripetuti inviti a ritrattare le sue dottrine, affermando di non aver nulla da ritrattare, e il 17 febbraio
1600 venne arso vivo in Campo dei Fiori a Roma, senza essersi riconciliato con il Crocifisso, dal
quale, negli ultimi istanti, distolse lo sguardo.

Gli scritti principali di Bruno sono: La cena delle ceneri; Lo spaccio della bestia trionfante; Cabala
del cavallo pegaseo; L’asino cillenico; Degli eroici furori.

Tutti gli scritti di Bruno presentano una nota fondamentale comune: l'amore per la vita nella sua
potenza dionisiaca, nella sua infinita espansione. Questo gli rese insopportabile il chiostro, che
egli chiamò in un sonetto «prigione angusta e nera».

Dall'amore per la vita scaturì, infine, l'interesse per la natura, che in Bruno non sfociò, come in
Telesio, in un pacato naturalismo, ma si esaltò in un impeto lirico e religioso, che trovò spesso
espressione nella forma poetica.

Di qui la predilezione per la magia, che si fonda appunto sul presupposto di un panpsichismo
universale.

Il naturalismo di Bruno è in realtà una religione della natura: impeto lirico, raptus mentis,
contractio mentis, esaltazione e furore eroico. La sua opera segna pertanto una battuta d'arresto
nello sviluppo del naturalismo scientifico, ma esprime, nella forma più appassionata e potente,
quell'amore per la natura che fu indubbiamente uno degli aspetti fondamentali del Rinascimento.

Egli ne riconosce l’utilità “per l’istituzione di rozzi popoli”.

Secondo Bruno, infatti, la religione consiste in un insieme di superstizioni direttamente contrarie


alla ragione e alla natura.

Lo spaccio della bestia trionfante, Cabala del cavallo pegaseo e L'asino cillenico sono tutti
intessuti di una feroce satira anticristiana, che non si arresta neppure di fronte al mistero
dell'incarnazione del Verbo. Nemmeno il cristianesimo riformato, che Bruno aveva direttamente
conosciuto a Ginevra, in Inghilterra e in Germania, si salva.

Ma di fronte a questa religiosità, che Bruno deride come «santa asinità» ritenendola direttamente
contraria alla natura e alla ragione.

Bruno parla di Dio in duplice modo: come mente al di sopra di tutto (mens super omnia) e come
mente presente in tutte le cose (mens insita omnibus).

Per il primo aspetto, Dio è fuori dal cosmo e dalla portata delle capacità razionali dell'uomo.
Utilizzando il principio neoplatonico della trascendenza, inconoscibilità e ineffabilità di Dio.

Dio è oggetto di fede e di Lui ci parla solo la rivelazione.

Per il secondo aspetto, Dio è invece principio immanente del cosmo e risulta accessibile alla
ragione umana.

In quanto mente presente in tutte le cose, Dio è anima del cosmo, che opera tramite l'intelletto
universale, cioè tramite l'insieme di tutte le idee, o forme, che plasmano dal di dentro quel grande
ricettacolo universale che è la materia.

In quanto spirito animatore delle cose, Dio è causa e principio dell'essere: causa in quanto
energia produttrice del cosmo, principio in quanto elemento costitutivo delle cose. L'universo,
infatti, è un immenso organismo dotato di un'unica forma e di un'unica materia: l'unica forma è
appunto Dio come anima del mondo datrice di forme (principio attivo); l'unica materia è la massa
corporea del mondo, il sostrato, che l'intelletto divino anima e plasma (principio passivo).

Si noti tuttavia che per Bruno la materia: non è pura potenza, o assoluta passività, in quanto non
riceve passivamente le forme dall'esterno, ma, avendole già in sé, per opera dell'intelletto «le
manda e caccia fuori dal suo seno» e non è qualcosa di separato dalla forma, ma costituisce un
tutt'uno globale con essa.

Tuttavia l'attributo fondamentale dell'universo, quello che accende ed esalta l'impeto lirico di
Bruno e costituisce il tema preferito della sua speculazione, è l’infinità: polemizzando con la
visione aristotelico-tolemaica, egli concepisce l'universo come qualcosa di illimitato e di infinito,
ospitante in sé una molteplicità inesauribile di mondi e di creature.

Nella sua infinità, la natura rappresenta al tempo stesso il movente, il tema e lo scopo ultimo della
speculazione bruniana, che in essa, infatti, pone il termine finale della conoscenza e della vita. Il
simbolo di ciò è il mito di Atteone, esposto in Degli eroici furori. Atteone, che giunge a
contemplare Diana nuda e viene trasformato in cervo, diventando preda anziché cacciatore, è la
metafora dell'anima umana, la quale, andando in cerca della natura e giunta finalmente a vederla,
diventa essa stessa natura.

Per Bruno il grado più alto della speculazione filosofica non è dunque l'estasi mistica di Plotino,
cioè un congiungimento con Dio che sia oblio del mondo spazio-temporale, ma la visione magica
dell'unità della natura e della sua vita inesauribile. Per questo il filosofo è il «furioso», l'assetato di
infinito e l'ebbro di Dio.

In altre parole, l’«eroico furore» è la traduzione naturalistica del concetto platonico di amore,
poiché mostra come l'uomo, «arso d'amore», vada in cerca dell'infinito, che solo può innalzarlo al
di sopra dei «bassi furori» che lo incatenano alle cose finite e generare la suprema unione d'amore
tra lui e la natura.

CAMPANELLA

Tommaso Campanella nacque a Stilo, in Calabria, il 5 settembre 1568. Entrò nell'ordine


domenicano, ma subì ben presto, in varie parti d'Italia, processi e condanne per accuse di eresia.
Ritornato a Stilo, ordì contro il governo spagnolo una congiura che avrebbe dovuto portare alla
realizzazione del suo ideale religioso-politico: una repubblica teocratica.

L’opera principale è La Città del Sole.

Come Telesio, Campanella ritiene che tutta la conoscenza si riduca alla sensibilità. La vera
sapienza è quella fondata sui sensi.

Campanella apre la propria Metafisica riproducendo il movimento di pensiero di Agostino: anche


lo scettico, che sa di non sapere nulla, conosce almeno questa verità, cioè "sa" di non sapere.

L’anima è oscurata dalla conoscenza acquisita che è prodotta dalle cose esterne.

Solo in Dio, che è privo di ogni conoscenza acquisita, la conoscenza innata conserva tutta la sua
potenza.

Così com'è, tuttavia, il principio di Campanella costituisce l'ultima e più complessa formulazione
del presupposto animistico del naturalismo rinascimentale. L'autocoscienza rivela, secondo
Campanella, i principi fondamentali della realtà naturale. Noi siamo consapevoli di sapere, di
potere e di amare e dobbiamo ammettere che l'essenza di tutte le cose è costituita appunto da
queste tre primalità: il potere (potentia), il sapere (sapientia) e l'amore (amor).

Nella Città del Sole Campanella immagina e descrive un ideale Stato teologico universale
perfetto, governato da un principe sacerdote, detto Sole, o Metafisico, assistito da tre principi
collaterali: Pon. Sin e Mor, cioè Potestà, Sapienza e Amore, che sono le tre primalità della
metafisica. Le caratteristiche di questo Stato, nel quale tutto è ordinato e predisposto da uomini
di scienza, sono la comunanza dei beni e delle donne (secondo il modello di Platone) e la religione
naturale.

Questa religione naturale è innata (indita) in tutti gli uomini ed è il fondamento di tutte le religioni
positive.

Individuando nel cattolicesimo la religione più vicina alla religione indita, Campanella si fa
patrocinatore di una riforma della religione cattolica.

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