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DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA: PARTE GENERALE

LA CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UE: INQUADRAMENTO, VALORE GIURIDICO, EFFETTI

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea costituisce lo strumento ad hoc volto ad assicurare il
rispetto di uno dei principi generali di diritto dell’unione, il principio della tutela dei diritti fondamentali
della persona umana. Questo ha l’importante funzione di fungere da parametro di legittimità dell’azione
delle istituzioni e degli sm, e la sua osservanza da parte di questi è assicurata dalla CGUE, come essa stessa
afferma nella sentenza Hauer del 1979. Nel garantire la tutela di tali diritti essa si ispira alle tradizioni
costituzionali comuni agli sm e tiene conto anche dei trattati internazionali in materia di tutela dei diritti
dell’uomo. Inoltre tale rispetto deve essere assicurato anche nell’interpretazione dei trattati quale criterio
ermeneutico e si impone alle autorità nazionali in attuazione delle norme dei trattati. Tale principio è stato
consacrato nel trattato di Maastricht ed è poi confluito nell’art 6 TUE, con un esplicito richiamo ai diritti
fondamentali come garantiti dalla CEDU, firmata a Roma nel 1950, e dalle tradizioni costituzionali degli sm,
predisponendo un apposito strumento di rilevazione di quei diritti, La Carta dei diritti fondamentali. Questa
è stata adottata nel 2000 con il trattato di Nizza e inizialmente era priva di valore giuridico vincolante, ma le
era riconosciuto un valore interpretativo, poiché ricognitiva di diritti già altrove consacrati in forma
giuridica. Al suo interno sono infatti ricompresi i diritti sanciti dalla CEDU, dalla Carta sociale europea del
1961 e quelli connessi allo status di cittadino dell’ue, ma non sempre sono formulati in modo pienamente
coincidente con quello di tali fonti e sono anche menzionati nuovi diritti. La carta esprimeva quindi una
lettura di questi diritti condivisa dalle tre istituzioni politiche, commissione, parlamento e consiglio, che la
avevano congiuntamente proclamata nel 200, ed è stata considerata dalla corte quale ulteriore testo di
riferimento per l’individuazione di diritti fondamentali. Nel 2007, con il trattato di Lisbona, pur
costituendone un allegato, la carta ha acquistato efficacia vincolante, in quanto l’art 6 par 1 comma 1 TUE
afferma che ha lo stesso valore giuridico dei trattati, il che modifica profondamente il preesistente rapporto
con le fonti originarie di molti diritti da essa sanciti. Infatti se prima era un mero ausilio interpretativo della
cedu e altri strumenti di tutela, finisce così per costituire un catalogo dei diritti fondamentali e per
assumere il ruolo di primo documento in base al quale individuare il parametro per valutare l’effettivo
rispetto di tali diritti. In base al suo art 51 par 1 sono da questa vincolati le istituzioni, gli organi e organismi
dell’unione, nel rispetto del principio di sussidiarietà, e gli sm, esclusivamente nell’attuazione del diritto
dell’ue. Questa espressione significa, come ha chiarito la corte nella sentenza del 2013 Akerberg Fransson,
che tale carta si applica solo alle situazioni disciplinate dal diritto UE, al di fuori occorre applicare la cedu, in
modo che in questi casi non venga meno la tutela dei diritti fondamentali dedotti in giudizio. In caso poi di
conflitto tra disposizioni di diritto interno che attuano il diritto UE e disposizioni della carta, il giudice
nazionale deve garantire piena efficacia al diritto dell’ue, disapplicando all’occorrenza qualsiasi disposizione
nazionale contrastante, anche posteriore. Per quanto riguarda l’interpretazione della carta, in base all’art
52 si deve tenere conto delle Spiegazioni che la accompagnano, pur essendo strumenti interpretativi non
vincolanti, anche se ciò comporta in alcuni casi la circoscrizione restrittiva di alcuni diritti (ad esempio i
diritti sociali). Se poi i diritti della carta corrispondono a quelli già enunciati in altri strumenti, devono essere
interpretati e applicati in modo che il loro significato e la loro portata siano uguali a quelli dei diritti
corrispondenti. L’art 53 invece prevede una clausola di salvaguardia del più elevato standard di protezione
riconosciuto in quell’ambito; rispetto al rapporto con le norme costituzionali degli sm la corte ha però
precisato che gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali devono essere applicati senza
compromettere il livello di tutela previsto dalla carta, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto ue.
Limitazioni ai diritti riconosciuti dalla carta sono ammesse solo se previste dalla legge, non pregiudicano il
loro contenuto essenziale e rispondono a effettive finalità di interesse generale o a un’esigenza di
protezione dei diritti altrui: tale possibilità è quindi condizionata al rispetto di proporzionalità e
sussidiarietà. La corte ha però individuato alcuni diritti che non sono possibili di alcuna restrizione, quale il
diritto alla vita o il divieto di tortura. In base infine all’art 6 TUE, le disposizioni della carta non estendono le
competenze dell’ue, quindi i diritti della carta corrispondenti a diritti presenti nei trattati alle condizioni e
nei limiti da questi stabiliti.

L’applicabilità della carta è limitata dal Protocollo n 30 relativamente a Regno Unito e Polonia (e anche la
Repubblica Ceca è in procinto di aderirvi): la corte e i giudici nazionali non possono giudicare sulla
conformità di una norma interna alle disposizioni della carta e quelle relative ai diritti sociali non creano per
questi stati diritti azionabili dinnanzi a un organo giurisdizionale. La corte ha però smentito che il protocollo
abbia una portata derogatoria e limiti la portata soggettiva generale della carta: quindi tali stati non sono
esonerati dall’obbligo di rispettarne le disposizioni. Lo stesso art 6 TUE ha previsto poi l’adesione dell’ue alla
cedu, colmando una lacuna dei trattati che aveva fino a quel momento impedito l’adesione. Tale passo è
significativo non dal punto di vista della vincolatività delle norme della cedu per l’unione, già vincolata, ma
perché l’UE si è così sottoposta al controllo della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Si pone il
problema di individuare il corretto destinatario di un ricorso della corte EDU, che può pronunciarsi sia
quando la violazione deriva da un atto dell’ue sia di uno sm: non può però decidere sulla ripartizione delle
competenze tra ue e sm, compito che aspetta solo alla Cgue. Per questa e altre preoccupazioni la corte ha
espresso un parere negativo circa la competitività del progetto di accordo di adesione, perché non
garantisce la salvaguardia delle forme specifiche e dell’autonomia dell’unione.

IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’

L’esercizio delle competenze dell’Unione Europea è sottoposto al rispetto di due dei principi generali del
diritto dell’Unione, il principio di proporzionalità e il principio di sussidiarietà. Il secondo ha assunto portata
generale con il Trattato di Maastricht, all’art 5 TCE, il quale afferma che la Comunità interviene, secondo
tale principio, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere
sufficientemente realizzati dagli stati membri e possono essere meglio realizzati a livello comunitario. Tale
disposizione è in seguito confluita nell’art 5 par. 3 del TUE, subendo solo lievi modifiche: la più rilevante
riguarda la precisazione che né a livello centrale, né regionale o locale un’azione degli stati membri possa
consentire di raggiungere gli obiettivi previsti in maniera soddisfacente. Tale articolo limita l’applicazione
del principio in questione ai settori che non attengono a competenze esclusive dell’Unione, ma riguarda
solo le competenze condivise, in quanto tale principio regola l’esercizio delle competenze dell’UE, ma non
ne mette in discussione la titolarità. Per quanto invece concerne le procedure per verificare il rispetto dei
presupposti per il suo operare, trova una più dettagliata disciplina nel Protocollo n2 sull’applicazione dei
principi di sussidiarietà e proporzionalità. Questo prevede che prima della formulazione della proposta di
un atto legislativo dell’unione nonché degli atti adottati ex art 352 TFUE, questi debbano essere valutati alla
luce del principio di sussidiarietà e motivati sotto questo profilo. In particolare la Commissione deve
effettuare consultazioni sul rapporto tra la proposta e tale principio, valutando con attenzione la sua
pertinenza a livello dell’unione, che riguarda numerosi aspetti tra cui la portata geografica, il numero di
soggetti interessati e di SM interessati, nonché le ripercussioni economiche, ambientali e sociali. La
limitazione dell’ambito di applicazione del Protocollo ai soli atti legislativi non significa però che l’esercizio
delle competenze dell’unione attraverso altri atti non debba osservare tale principio, ma che solo tali atti
sono soggetti alla specifica procedura di controllo prevista al suo interno. Tale procedura infatti coinvolge
anche i parlamenti nazionali degli SM, ai quali sono trasmessi i progetti di atti legislativi e le deliberazioni
preparatorie, che potranno eccepire la contrarietà del progetto al principio di sussidiarietà entro 8
settimane dalla sua trasmissione, formulando un parere motivato. Premesso che ciascun parere
corrisponde a un voto se espresso da una singola camera e a due se espresso dall’intero parlamento,
l’autore del progetto dovrà riesaminarlo (per decidere se mantenerlo, modificarlo o ritirarlo) quando i
pareri motivati corrispondono a 1/3 dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali, o a ¼ se il progetto riguarda la
cooperazione giudiziaria in materia penale o di polizia (cd cartellino giallo). Se la Commissione, nel quadro
della procedura legislativa ordinaria, decide di mantenere la proposta nonostante i pareri corrispondano
alla maggioranza semplice dei voti complessivi, il Consiglio (con il voto favorevole del 55% dei suoi membri)
e il Parlamento (a maggioranza dei voti espressi) possono bloccare definitivamente la proposta (cd
cartellino arancione).

Il principio di sussidiarietà è formalmente giustiziabile, ossia atti dell’unione possono essere impugnati
davanti alla Corte di giustizia e annullati non solo per violazione degli obblighi procedurali previsti dal
protocollo, ma anche se non è rispettato il principio in quanto tale. Secondo l’art 8 del protocollo tali ricorsi
possono essere introdotti da uno SM ma anche dal Comitato delle regioni. Si evince in conclusione come
accertare il rispetto di tale principio da parte di un’azione delle istituzioni sia questione più di ordine
politico ed economico, che giuridico: infatti la sussistenza delle condizioni richieste è oggetto di
apprezzamento da parte delle istituzioni responsabili dell’adozione dell’atto, quindi è assai ridotto lo spazio
di valutazione lasciato alla Corte, che per questo spesso si limita a valutare la formale congruità della
motivazione.

GLI EFFETTI DIRETTI DELLE DIRETTIVE

Le direttive esprimono un modo di funzionamento delle competenze dell’unione articolato su di una


ripartizione del potere normativo fra questa e gli stati membri. Operano infatti sulla base di una riserva di
competenza a favore di questi, in quanto implicano la permanenza di normative nazionali e necessitano
delle autorità nazionali per poter svolgere i propri effetti all’interno dello stato. Sono infatti definite dall’art
288 comma 3 TFUE come strumento che vincola lo sm cui è rivolto a un risultato da raggiungere, ferma
restando la competenza degli organi nazionali quanto alla forma e ai mezzi. Spesso però sono molto
dettagliate, riducendo così sul piano sostanziale la riserva di competenza a favore degli stati membri e
lasciando loro esigui margini di discrezionalità nella trasposizione di queste in norme nazionali. La Corte di
Giustizia ha ritenuto questa prassi, cui è stato dato il nome informale di “direttive dettagliate”, legittima e
non in contrasto con l’art 288 TFUE, nel caso in cui si riveli indispensabile ottenere una totale identità tra le
disposizioni nazionali (risultato perseguito di regola dai regolamenti).

L’attuazione delle direttive nell’ordinamento interno è oggetto di un obbligo che gli sm devono adempiere
mediante l’emanazione e la comunicazione alla Commissione di un atto di recepimento, entro il termine
fissato dalla direttiva stessa. La corte ha precisato che tale attuazione deve avvenire con le forme e i mezzi
più idonei a garantire l’efficacia reale delle disposizioni della direttiva e deve rispondere alle esigenze di
chiarezza e certezza delle situazioni giuridiche: le autorità nazionali competenti devono quindi emanare un
atto vincolante a carattere normativo equivalente a quello che sarebbe stato adottato nel diritto interno
per realizzare un obiettivo analogo a quello della direttiva.

Tuttavia la necessaria trasposizione nel diritto interno non esclude che le direttive possano avere effetti
nell’ordinamento interno, in particolare garantendo ai privati la possibilità di far valere dinnanzi ai giudici
nazionali gli obblighi posti a carico dallo stato dalle norme della direttiva, altrimenti secondo la Corte ne
risulterebbe ristretta la portata. La giurisprudenza della Corte ha però previsto la possibilità che le direttive
esplichino effetti diretti non come attribuzione a queste del carattere di immediata applicabilità,
riconosciuto esclusivamente ai regolamenti, ma come garanzia minima a vantaggio degli individui, che però
non fa venir meno la necessaria esecuzione delle direttive tramite l’adozione di atti di recepimento
appropriati. Ha infatti precisato che in tutti i casi in cui una direttiva è attuata, produce effetti nei confronti
dei singoli attraverso disposizioni di esecuzione adottate dagli sm; solo quando l’attuazione non sia
avvenuta o sia incompleta, il singolo deve potersi avvalere in giudizio dei diritti che la direttiva gli riconosce,
altrimenti lo stato se inadempiente trarrebbe giovamento dall’inadempimento sottraendosi agli obblighi
che gli derivano dalla direttiva inattuata. Gli effetti diretti sono quindi conseguenza di un’ interpretazione
funzionale, volta ad evitare il paradosso sopra descritto.

La direttiva esplica effetti diretti solo a partire dalla scadenza del termine concesso per la sua attuazione, in
quanto solo a partire da questo momento potrà essere valutato l’adempimento a quell’obbligo, poiché
prima grava sugli sm il solo obbligo di astenersi dall’adottare disposizioni che possano gravemente
compromettere la realizzazione del risultato prescritto dalla direttiva. L’adozione entro il termine di misure
di trasposizione non comporta l’esaurimento degli effetti della direttiva in quanto gli sm rimangono
obbligati ad assicurarne la piena ed effettiva applicazione: qualora tali misure non garantiscano il risultato
previsto, i singoli sono legittimati ad invocare direttamente dinanzi ai giudici nazionali le disposizioni della
direttiva in questione. Eventuali effetti diretti di una direttiva sono per la precisione da ricondurre non a
questa ma a sue singole disposizioni, valutando se la natura, lo spirito e la lettera di queste consentono di
riconoscere loro efficacia immediata nei rapporti tra sm e singoli, e se abbiano un contenuto precettivo
chiaro e preciso, non condizionato all’emanazione di atti ulteriori.

I privati possono far valere tali effetti diretti solo nei confronti degli sm e non nei confronti di altri privati, in
quanto hanno efficacia verticale e non orizzontale, a meno che una direttiva non dia applicazione a un
principio generale del diritto dell’UE che esplichi in quanto tale effetti orizzontali, che derivano però in
questo caso dal principio e non dalla direttiva. Allo stesso modo sono stati esclusi effetti verticali all’inverso,
che permettano cioè che le direttive siano fatte valere da uno sm contro i singoli. La limitazione ai soli
effetti diretti verticali si spiega alla luce dell’art 288 TFUE, che vincola solo gli stati: la direttiva non può di
per sé creare obblighi a carico di un singolo ( sent Faccini Dori 1994), competenza connessa al potere di
emanare regolamenti. Tale limitazione si giustifica anche alla luce della funzione sanzionatoria degli effetti
diretti delle direttive, la quale permette di impedire che lo sm inadempiente possa giovarsene a danno del
singolo (CdG sent Marshall 1986): da ciò però non deriva una estensione di tali effetti ai rapporti tra privati.

L’obbligo degli sm di conseguire il risultato voluto da una direttiva non si esaurisce con la sua trasposizione
formale nel diritto interno da parte degli organi normativi, ma si impone anche agli altri organi, i quali
devono garantire nell’ambito della propria competenza l’applicazione effettiva della direttiva. In particolare
gli organi giurisdizionali devono interpretare il diritto interno alla luce del testo e della finalità della
direttiva, prediligendo l’interpretazione delle norme nazionali maggiormente conforme a questa, in modo
da assicurare la piena efficacia del diritto dell’unione. La questione se una norma nazionale contraria al
diritto dell’ue infatti si pone solo quando non sia possibile ricavarne alcuna interpretazione conforme. Può
quindi accadere che, anche in assenza di effetti diretti orizzontali, una direttiva esplichi la sua efficacia sui
rapporti tra privati, grazie all’interpretazione conforme che il giudice deve dare della normativa interna
applicabile a tali rapporti. L’obbligo di interpretazione conforme trova però dei limiti nel principio di
certezza del diritto e non retroattività.

L’IMPUGNAZIONE DEGLI ATTI UE DA PARTE DEI PRIVATI: PRESUPPOSTI, NORMATIVA, GIURISPRUDENZA

La Corte di Giustizia è competente per il controllo di legittimità degli atti dell’ue. In particolare l’art 263
TFUE attribuisce agli sm, alle istituzioni dell’unione e ai soggetti privati, il diritto di ricorrere alla corte per
motivi di legittimità contro gli atti delle istituzioni per chiederne l’annullamento.

Oggetto del giudizio sono i comportamenti delle istituzioni, quindi le autorità nazionali non possono essere
convenute in giudizio. Inizialmente legittimati passivi erano solo il Consiglio e la Commissione,
successivamente è stato ricompreso anche il controllo sugli atti emanati congiuntamente dal parlamento e
dal consiglio e quelli autonomamente adottati dalla Bce, nonché gli atti del Parlamento e del Consiglio
europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi. La corte ha poi precisato che possono
essere impugnati anche atti di altri organismi, se suscettibili di produrre effetti giuridici in capo al ricorrente.

Sono impugnabili gli atti che non siano raccomandazioni o pareri, o quelli che non producono effetti
giuridici nei confronti dei terzi. Per individuarli in modo preciso occorre individuare gli atti impugnabili in
base ai trattati, verifica tutt’altro che agevole. Secondo la corte non rileva la forma né la denominazione
ufficiale dell’atto, ma il contenuto e gli effetti. Si ritengono dunque impugnabili gli atti definitivi emanati
dalle istituzioni nell’esercizio del loro potere d’imperio e produttivi di effetti obbligatori nei confronti di
terzi. L’atto deve presentarsi come atti del collegio destinati a produrre effetti giuridici , che rappresenti lo
stadio finale del procedimento interno, mediante il quale l’istituzione statuisca definitivamente e innovi
nelle posizioni giuridiche preesistenti.

In ossequio al principio di legalità, gli atti dell’ue devono essere conformi alle norme contenute nei trattati o
negli atti di applicazione, altrimenti l’atto è invalido e si apre la possibilità di far valere i rimedi predisposti,
tra cui preminente è l’annullamento dell’atto in via giurisdizionale, che costituisce il più radicale strumento
di reazione all’esercizio illegale delle proprie funzioni da parte delle istituzioni. L’annullabilità opera in
presenza di vizi che inficiano la validità degli atti: l’incompetenza, la violazione di forme sostanziali, la
violazione del trattato e lo sviamento di potere.

Il vizio di incompetenza sussiste quando l’istituzione che ha adottato l’atto ha invaso le prerogative di
un’altra istituzione o dell’ue, in generale o rispetto alla sfera di competenza degli sm. È un vizio molto
grave, rilevabile d’ufficio in quanto motivo di ordine pubblico e invocabile in qualsiasi momento del
procedimento.

Il vizio di violazione di forme sostanziali è una qualificazione da effettuare con cautela perché vige il
principio della libertà delle forme degli atti: è irrilevante la veste esterna dell’atto mentre sono essenziali i
requisiti sostanziali che riguardano la natura e il tipo. Tale qualificazione in un sistema antiformalistico va
effettuata in modo restrittivo, ritenendo che incida soprattutto l’incidenza delle forme sulla sostanza del
provvedimento finale, ossia l’idoneità a condizionarne l’esistenza, il contenuto e l’efficacia giuridica. Ciò
perché tali forme sono volte a garantire la tutela dei destinatari e a garantire l’attendibilità dei
provvedimenti. Rilievo preminente assume ad esempio l’obbligo di motivazione, la cui violazione è così
grave da poter essere rilevata d’ufficio come motivo di ordine pubblico.

Il vizio di violazione dei trattati invece riguarda anche altre norme giuridiche, in particolare atti delle
istituzioni, principi generali di diritto e la carta dei diritti fondamentali. Si riferisce alla legalità interna di tali
norme e pertanto racchiude tutti i difetti che concernono la legalità di un atto, dunque viene delimitato per
esclusione rispetto agli altri specifici vizi. In particolare riguarda la mancata o inesatta applicazione di una
norma e i vizi relativi alla valutazione della fattispecie concreta cui è stata applicata. Quanto alla valutazione
della legalità di un atto in rapporto a un altro, emerge una chiara gerarchia tra le fonti di diritto derivato
solo tra atti legislativi e non, per il resto rilevano i tradizionali criteri gerarchici.

L’ultimo è il vizio di sviamento di potere, che si ha quando il potere è esercitato in modo diverso da quello
in vista del quale era stato attribuito. Secondo la corte è l’adozione da parte di un’istituzione di un atto allo
scopo esclusivo o determinante di raggiungere fini diversi da quelli dichiarati o eludere una procedura
prevista dal trattato per far fronte alle circostanze del caso di specie. L’atto è conforme al dettato
normativo quanto alla competenza, la forma, gli aspetti procedurali ma contrasta con i fini perseguiti dalla
base normativa che lo giustifica. L’accento è dunque posto sui motivi che hanno guidato l’istituzione, a
testimonianza di un orientamento della Corte favorevole alla nozione subiettiva del vizio.

Il controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni non è esercitato d’ufficio dalla corte ma deve essere
attivato tramite la presentazione di un ricorso. Legittimati attivi sono le istituzioni, gli sm e i soggetti di
diritto interno. Dunque le persone fisiche e giuridiche possono sollecitare il controllo di legittimità della
corte sugli atti dell’unione, ed è la più importante fra le forme dirette di garanzia apprestate dal sistema
giurisdizionale dell’unione per tali soggetti, nonostante la disciplina di tali ricorsi sia più restrittiva rispetto a
quella dei ricorsi di sm e istituzioni. Sono infatti previste delle condizioni di ricevibilità di tali ricorsi, per
alcuni troppo severe: infatti non solo i privati devono poter invocare una lesione diretta e attuale di un
interesse giuridicamente tutelato, ma sono imposte ulteriori limitazioni circa la natura dell’atto impugnato
e il rapporto tra atto e ricorrente. Prima delle modifiche apportate dal trattato di Lisbona, le persone fisiche
e giuridiche in base all’art 230 TCE potevano impugnare le decisioni prese nei loro confronti e che appaiono
come regolamenti ma li riguardavano individualmente e direttamente, nonché quelle nei confronti di altri,
che allo stesso modo li riguardavano direttamente e individualmente. Piena tutela era, come si evince
chiaramente da questo quadro, assicurata solo nel caso di decisioni, in quanto unici atti realmente
suscettibili di recare ai singoli un immediato pregiudizio. L’atto inoltre doveva riguardarli individualmente,
ossia come singoli e non in quanto inseriti in una generalità di soggetti, e direttamente, ovvero quando i
suoi effetti in capo al ricorrente si realizzano in conseguenza diretta dell’emanazione dell’atto, dunque
indipendentemente dall’intervento di altri soggetti o provvedimenti. Non si pongono particolari problemi
interpretativi per le decisioni che hanno per destinatario il ricorrente, ma per i cosiddetti regolamenti
mascherati, che nella sostanza costituiscono vere e proprie decisioni, per portata ed effetti, ritenuti
impugnabili solo se produttivi di effetti diretti e individuali in capo al ricorrente. Nel caso ulteriore di ricorsi
contro decisioni indirizzate verso altri soggetti ma che riguardano direttamente e individualmente altre
persone, vi era invece la necessità di consentire il ricorso non solo ai destinatari formali, ma anche ai terzi
interessati, tra i quali la giurisprudenza della Corte ha ricompreso anche gli sm. La stessa Carta dei diritti
fondamentali ha alimentato, per mezzo dell’art 47 che prevede il diritto ad un ricorso effettivo, nuove
critiche nei confronti dei criteri di legittimazione dei privati, considerati troppo severi perché impediscono il
pieno godimento di tale diritto; la corte continuava però a sostenere che il sistema dei rimedi appariva
idoneo a garantire il rispetto del principio di legalità. Solo con il trattato di Lisbona, all’art 263 comma 4
TFUE, è stata assicurata ai privati la possibilità di proporre ricorso contro gli atti adottati nei loro confronti o
che li riguardino direttamente e individualmente e contro atti regolamentari, che li riguardino direttamente
ma non più individualmente, purché non comportino alcuna misura di esecuzione. È il secondo l’aspetto più
innovativo della disposizione: è venuta meno la restrizione sancita dall’avverbio “individualmente”; quanto
poi alle misure di esecuzione, se presenti potranno essere impugnate direttamente a seconda delle
competenze dinanzi al giudice ue o nazionale.

Dunque per valutare la ricevibilità di tale tipo di ricorsi occorre, in base alla sentenza Stichtling Woonpunt
del 2004, accertare se si è in presenza di un atto regolamentare (tutti gli atti di portata generale esclusi
quelli legislativi); se si tratta di un atto legislativo o a portata individuale il privato dovrà dimostrare di
essere stato colpito da questo individualmente e direttamente. Se si tratta di un atto regolamentare la corte
deve accertare se l’atto si indirizza direttamente al ricorrente e non comporta misure di esecuzione, in caso
contrario il privato deve dimostrare di essere stato colpito individualmente.

GLI EFFETTI DELLE SENTENZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA NEI GIUDIZI PROMOSSI IN VIA PREGIUDIZIALE

La corte vanta una peculiare competenza giurisdizionale a carattere non contenzioso prevista dall’art 267
TUE, la competenza pregiudiziale, in virtù della quale la corte può pronunciarsi in via pregiudiziale su
questioni di interpretazione di disposizioni del diritto dell’unione e interpretazione o validità di atti delle
istituzioni, a seguito dei rinvii che le giurisdizioni degli sm sono obbligate o abilitate a compiere ove la
soluzione di tali questioni sia necessaria per risolvere la controversia pendente innanzi a esse. La corte si
pronuncia dunque prima che sia formulato il giudizio dei giudici nazionali. Tale competenza ha carattere
non contenzioso perché non è attivata su ricorso dalle parti di una controversia, ma a seguito del rinvio del
giudice nazionale e non è destinata a risolvere la controversia ma a fornire solamente gli elementi necessari
alla sua soluzione nel processo principale: la Corte svolge dunque un ruolo ancillare rispetto ai giudici
nazionali, ma è una funzione giurisdizionale e non meramente consultiva, in quanto la pronuncia vincola il
giudice del rinvio. È una funzione che si basa su un rapporto di stretta collaborazione tra giurisdizioni
nazionali e Corte di Giustizia, che non si qualifica come una subordinazione né comporta una deminutio del
ruolo dei primi. Ha avuto uno straordinario successo, occupando quasi i due terzi dell’attività della corte.

La sua finalità principale è quella di assicurare l’uniformità del diritto europeo, evitando una
nazionalizzazione delle regole comuni e interpretazioni divergenti da uno sm all’altro. In questo modo la
corte può garantire l’unità e la coerenza del diritto europeo non solo rispetto al relativo ordinamento, ma
anche rispetto agli ordinamenti degli sm, assicurando la salvaguardia del principio di certezza del diritto.
Inoltre è volta a rilevare i principi cardine dell’ordinamento giuridico dell’unione e funge da strumento di
cooperazione con i giudici nazionali, che assumono così il ruolo di giudici decentrati del diritto dell’unione,
nonché mezzo di tutela dei diritti dell’ue, in particolare la tutela giudiziaria dei privati, sia nei confronti delle
istituzioni sia nei confronti degli sm.

E’ una competenza esclusiva della corte, anche se può essere devoluta al Tribunale in materie specifiche
determinate dallo statuto. I giudici nazionali possono porre ala corte questioni di interpretazione del diritto
dell’ue e interpretazione e validità di atti di diritto derivato, quando il diritto dell’ue è di applicazione, il che
non avviene nel settore della PESC e se non sono presenti elementi transfrontalieri. Le questioni di
interpretazione del diritto ue possono riguardare qualsiasi disposizione di quel diritto, mentre la corte non
può pronunciarsi su norme o prassi nazionali. Il controllo di validità invece riguarda gli atti delle istituzioni e
si sviluppa sul modello del controllo di legittimità svolto nei ricorsi di annullamento.

Legittimati ad operare il rinvio pregiudiziale sono gli organi giurisdizionali degli sm di ogni ordine e grado,
che presentano determinati requisiti individuati dalla stessa corte. Se il giudice non è di ultima istanza ha la
facoltà di operare il rinvio, altrimenti può interpretare autonomamente l’atto in causa e la sua validità,
anche se in caso di esito negativo dovrà deferire la dichiarazione di invalidità alla corte di Lussemburgo.
Tale libertà si spiega con il fatto che gli interessati possono impugnare la decisione e riproporre nel
successivo grado di giudizio la richiesta di rinvio alla corte, mentre invece per gli organi giurisdizionali
contro le cui decisioni non possa proporsi un ricorso di diritto interno, il rinvio costituisce un obbligo. La
decisione di sospendere il giudizio nazionale e sottoporre alla corte la questione pregiudiziale è di esclusiva
competenza dei giudici nazionali, che si trovano nella posizione migliore per effettuare tale valutazione, e la
stessa corte non può sindacare tali valutazioni in quanto solo il giudice nazionale può ritirare l’ordinanza di
rinvio. La corte gode comunque di ampi margini di discrezionalità nel valutare la propria competenza e la
ricevibilità dell’ordinanza: innanzitutto valuta se il giudice ha fornito gli elementi necessari per consentire il
corretto svolgimento di tale funzione, ma soprattutto la rilevanza dei quesiti ai fini della decisione del
giudizio a quo (sussiste una presunzione di rilevanza), e infine verificare se non si tratti di processi fittizi,
istituiti ad arte dalle parti per provocare la pronuncia della CGUE.

La corte decide di regola con sentenza, ma in alcuni casi può adottare un’ordinanza motivata. In termini
generali le sentenze sono obbligatorie per il giudice a quo e definiscono i principi di diritto, mentre il giudice
nazionale stabilisce le modalità di applicazione di tali principi, immettendolo nell’ordinamento nazionale. In
quanto diritto dell’unione prevalgono sulle norme nazionali, ma non si è esaurita la problematica del
rapporto fra competenze giurisdizionali in campo. Occorre in particolare distinguere tra le questioni di
interpretazione di norme ue o di validità degli atti delle istituzioni.

Nel primo caso la decisione, dichiarativa, produce effetti obbligatori per il giudice del rinvio, che dovrà
attenersi alla pronuncia della corte. Il principio di diritto invece si impone con effetti erga omnes a tutti i
giudici che interpretino o applichino tale disposizione. Ha quindi diretta e immediata applicazione
nell’ordinamento interno e determina l’effetto della non applicazione della legge nazionale incompatibile
col diritto ue. Nel caso in cui infatti dalla decisione risulti l’incompatibilità di una legge nazionale col diritto
ue, lo sm deve prendere tutte le misure necessarie a conformare il proprio ordinamento alla decisione e a
risarcire gli eventuali danni.

Nella seconda ipotesi invece, qualora sia stata affermata la validità dell’atto, l’efficacia della sentenza sarà
limitata alla controversia dedotta dal giudizio a quo, fatta salva la possibilità per i giudici nazionali di
riproporre la medesima questione di validità. In caso contrario la sentenza, sebbene non comporti come nei
giudizi di annullamento che l’atto sia nullo e non avvenuto, di fatto produce i medesimi effetti, poiché,
anche se formalmente indirizzata al giudice a quo, costituisce per gli altri giudici un motivo sufficiente per
considerare tele atto non valido ai fini di una decisione che debba emettere e in secondo luogo le autorità
nazionali non devono applicare l’atto dichiarato invalido e infine le istituzioni dell’ue devono adottare tutti i
provvedimenti che comporta la sentenza. Dunque pur essendo la declaratoria di invalidità destinata ad
operare ex tunc, la corte ha ritenuto di potere eventualmente limitarne gli effetti nel tempo, facendo
applicazione analogica del potere conferitole in relazione alle sentenze di annullamento. Fermo restando
che la retroattività è la regola, tale limitazione è stata posta dalla corte anche agli effetti delle pronunce
interpretative: hanno di norma effetto retroattivo, ma in nome della certezza del diritto la corte può
limitarlo, se la decisione implica rischio di gravi ripercussioni economiche e se i soggetti interessati siano
stati indotti ai comportamenti difformi da una rilevante certezza circa l’interpretazione della norma in
causa. In ogni caso però la limitazione degli effetti deve far salvi i diritti dei soggetti che abbiano già
proposto un’azione giudiziaria prima della sentenza.

IL PRINCIPIO DI ATTRIBUZIONE DELLE COMPETENZE E LA CLAUSOLA DI FLESSIBILITA’

Il sistema giuridico dell’unione creato dai trattati si basa sull’attribuzione alle istituzioni di questa della
competenza ad agire solamente nell’ambito di determinate materie. Tale sistema si fonda infatti sul
principio di attribuzione delle competenze, enunciato all’art 5 par 2 TUE, in base al quale l’unione agisce nei
limiti delle competenze che le sono attribuite dagli sm nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi
stabiliti. Di conseguenza qualsiasi competenza non attribuitale dai trattati appartiene agli sm.

Prima del trattato di Lisbona vigeva una situazione di indeterminatezza, poiché le competenze attribuite
all’ue non erano esplicitamente enunciate dai trattati, ma soltanto desumibili dagli obiettivi dell’unione, cui
però non sempre corrispondeva un’attribuzione esplicita di competenza. In un’ottica di maggior chiarezza,
oggi invece il Tfue, nel titolo I, parte I, agli artt 2-6, presenta un’elencazione delle competenze dell’ue,
suddividendole in competenze esclusive ( art 3), concorrenti ( art 4.2), azioni di sostegno e integrazione
dell’azione degli sm (4.3-4.4, 5, 6). In realtà anche questa elencazione risulta piuttosto generica e manca di
esaustività poiché elenca solo i settori principali di competenza dell’ue, ma non le precise competenze di
cui dispone in un determinato settore. Inoltre è poco funzionale perché non se ne possono ricavare criteri
puntuali e precisi che possano servire a determinare se una certa azione o misura rientri tra le competenze
dell’ue o tra quali di queste. Occorre pertanto rifarsi alle disposizioni specifiche di ciascuno di questi settori,
come precisa l’art 2.6 TFUE : “la portata e le modalità d’esercizio delle competenze dell’ue sono
determinate dalle disposizioni dei trattati relative a ciascun settore”. Ciò nonostante, continua ad essere
difficile l’individuazione della portata precisa di una competenza dell’unione, il che rende meno stringente il
limite posto alla capacità di azione delle istituzioni dal principio di attribuzione, anche se per la maggior
parte la sua rigidità è stata attenuata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, che ha finito col
privilegiare interpretazioni volte ad ampliare la portata di tali competenze. In particolare ha affermato il
principio generale secondo il quale quando una disposizione dei trattati affida un determinato compito alle
istituzioni o un obiettivo si deve ritenere che abbia attribuito loro anche i poteri necessari per svolgerlo (cd
principio dei poteri impliciti). Tale principio è stato applicato soprattutto in relazione alla competenza di
concludere accordi internazionali con stati terzi: secondo la corte, ogniqualvolta il diritto ue abbia attribuito
alle istituzioni determinati poteri sul piano interno, l’unione è competente ad assumere gli impegni
internazionali necessari per raggiungere tale obiettivo anche in assenza di espresse disposizioni (cd
principio del parallelismo tra competenze interne ed esterne, art 3.2 TFUE).

Fin dalle origini la portata del principio di attribuzione è stata fortemente attenuata dalla clausola di
flessibilità, espressa nei trattati, che consente a determinate condizioni un’azione dell’unione anche al di
fuori di un’attribuzione specifica di competenza. L’art 352 Tfue infatti dispone che se un’azione dell’ue
appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai
trattati senza che questi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando
all’unanimità su proposta della commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le
disposizioni appropriate. La finalità di tale clausola è di permettere all’ue, al di là del criterio di attribuzione
espressa dei poteri, di far fronte agli sviluppi imprevisti del processo di integrazione europea, per i quali i
trattati non le attribuiscano i necessari poteri. Tale clausola ha consentito alla Comunità europea di
ampliare i propri settori di competenza. Proprio perché permette alle istituzioni di oltrepassare i limiti posti
dal principio di attribuzione, il ricorso a tale clausola è sottoposto a condizioni procedurali rigorose.
Inizialmente è stata prevista una delibera all’unanimità del consiglio, previa consultazione del Parlamento,
alla quale con il trattato di Lisbona è stata aggiunta al procedimento una previa approvazione da parte di
quest’ultimo, che può così porre il suo veto alla decisione del consiglio. Inoltre con il par 2 dell’art 352 Tfue
viene esteso alle proposte della commissione basate su questo articolo il meccanismo di controllo del
principio di sussidiarietà: la commissione deve richiamare l’attenzione dei parlamenti nazionali sulla
proposta.

Un limite intrinseco alla clausola di flessibilità è stato individuato dalla giurisprudenza della corte nel fatto
che essa non può costituire il fondamento per ampliare i poteri dell’unione, né per adottare disposizioni
che condurrebbero a una modifica del trattato che sfugga all’apposita procedura. Inoltre dal suo ambito di
applicazione è escluso il settore della PESC, per evitare di alterare i meccanismi di questo settore tramite il
ruolo di commissione e parlamento, che assumerebbe posizione preponderante in un settore in cui invece il
loro ruolo è meramente marginale. Il par 4 dell’art 352 poi impone di rispettare i limiti posti dall’art 40
comma 2 Tue, secondo il quale l’azione delle istituzioni ai sensi degli altri settori deve lasciare
impregiudicata l’applicazione delle procedure e la portata delle attribuzioni previste per l’esercizio delle
competenze dell’unione nel quadro della PESC (ma anche negli altri settori).

Se in una materia sussiste la competenza delle istituzioni, ciò non significa di per sé che tale competenza
non sia più utilizzabile dagli sm. Infatti lo stesso art 2 Tue classifica le competenze ue in diverse categorie. Vi
sono le competenze esclusive (art 2.1), che delimitano settori in cui solo l’ue può legiferare e adottare atti
giuridicamente vincolanti, mentre gli sm possono farlo autonomamente solo se autorizzati dall’ue o per
dare attuazione agli atti dell’unione. Tale autorizzazione è volta ad evitare il vuoto normativo nei casi in cui
le istituzioni non abbiano ancora esercitato la loro competenza esclusiva e gli sm agiranno in veste di
gestori dell’interesse comune.

Al di fuori di questa ipotesi la competenza delle istituzioni non fa venir meno quella degli sm, i quali però
devono rispettare e applicare gli atti derivati dalla competenza ue e non possono prendere misure contrarie
agli obblighi imposti loro dall’unione (il concetto di competenze non esclusive è residuale). Ciò è evidente
nel caso delle competenze parallele, in cui gli sm hanno una competenza simmetrica a quella dell’unione
senza che le due sfere di competenza siano destinate a interferire sul piano formale. Le due azioni
dovranno però integrarsi sulla base di un obbligo di coordinamento volto a garantire la coerenza di
politiche nazionali e dell’ue. L’unione ha in questo caso competenza per condurre azioni, in particolare
definire e attuare programmi, senza che l’esercizio di tale competenza possa impedire agli sm di esercitare
la loro.

Diversamente, nel caso delle competenze concorrenti (art 2.2), la competenza dell’ue interviene nello
spazio normativo proprio di quella corrispondente degli sm: l’ue e gli sm possono legiferare e adottare atti
giuridicamente vincolanti in tali settori, ma gli sm esercitano la propria competenza solo nella misura in cui
l’unione non ha esercitato la propria o se non pregiudicano l’uniforme applicazione delle norme dell’unione
e il pieno effetto dei provvedimenti adottati in applicazione delle stesse. Gli stati incontrano dunque un
limite di contenuto alle proprie competenze, talvolta previsto nei trattati, ma più spesso rimesso alla
volontà delle istituzioni.

Tale situazione però, anche qualora fosse particolarmente ampia la portata dell’intervento delle istituzioni,
non è assimilabile alle competenze esclusive in quanto in questo caso è illecita un’azione degli sm
indipendentemente dalla compatibilità o meno col diritto ue. Il recupero di una competenza da parte degli
sm è possibile solo tramite una revisione dei trattati nel caso di competenza esclusiva, nel caso di
competenza concorrente invece solo se l’unione cessa di esercitare la propria competenza, come enunciato
dall’art 2.2. Va però precisato che anche l’esercizio di competenze esclusive degli sm può essere
condizionato dal diritto dell’unione, nella misura in cui incida sul corretto funzionamento di questo.

Gli articoli del titolo I del TFUE arrivano ad elencare le competenze dell’ue ripartendole in ciascuna di
queste categorie, anche se questa classificazione non sempre rende chiare le ragioni della collocazione in
una determinata categoria. Soprattutto nel caso delle competenze esclusive non è facile prevedere un
elemento comune ai settori elencati all’art 3.1, che appaiono eterogenei: unione doganale, definizione
regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, politica monetaria sm che hanno
adottato l’€, conservazione risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca,
politica commerciale comune, conclusione di accordi internazionali se prevista in un atto legislativo o
necessaria per esercitare le competenze interne. Le competenze parallele invece sono indicate all’art 6, che
le definisce come volte a sostenere, completare o coordinare l’azione degli sm. Tutte le restanti sono invece
concorrenti, anche se l’art 4 elenca solo i settori principali in cui esse possono essere esercitate.

FACOLTA’ E OBBLIGO DI RINVIO PREGIUDIZIALE DA PARTE DEL LEGISLATORE NAZIONALE

Legittimati ad operare il rinvio pregiudiziale sono gli organi giurisdizionali degli sm di ogni ordine e grado,
che presentano determinati requisiti individuati dalla stessa corte. Se il giudice non è di ultima istanza ha la
facoltà di operare il rinvio, altrimenti può interpretare autonomamente l’atto in causa e la sua validità,
anche se in caso di esito negativo dovrà deferire la dichiarazione di invalidità alla corte di Lussemburgo. Ciò
per assicurare sia l’uniformità nell’applicazione del diritto dell’ue, sia la coerenza del sistema di tutela
giurisdizionale istituito dal trattato, che se prevede da una parte che sia la corte a dover annullare un atto di
un’istituzione, deve prevedere anche il potere di questa di accertarne l’invalidità. La corte ha riconosciuto al
giudice del rinvio il potere di sospendere, in attesa della sua pronuncia, l’efficacia di provvedimenti
nazionali fondati su atti dell’unione rispetto alla cui validità nutra forti dubbi. La libertà di non effettuare il
rinvio pregiudiziale si spiega con il fatto che gli interessati possono impugnare la decisione e riproporre nel
successivo grado di giudizio la richiesta di rinvio alla corte, mentre invece per gli organi giurisdizionali
contro le cui decisioni non possa proporsi un ricorso di diritto interno, il rinvio costituisce un obbligo. Non è
necessario che la giurisdizione sia al vertice della gerarchia giurisdizionale, ma solo che contro le sue
decisioni non siano proponibili ulteriori rimedi giurisdizionali di diritto interno. Detto obbligo viene però
meno in alcune ipotesi, ad esempio quando la questione sollevata sia materialmente identica ad altra già
sottoposta alla corte in relazione ad analoga fattispecie, quando sul punto esista già una consolidata
giurisprudenza della corte, quando l’applicazione della norma ue al caso concreto si imponga con tale
evidenza da non lasciare spazio a ragionevoli dubbi. Al di fuori di tali casi, l’inosservanza di tale obbligo
costituisce una violazione del trattato e può giustificare un ricorso per inadempimento da parte della
commissione.

La decisione di sospendere il giudizio nazionale e sottoporre alla corte la questione pregiudiziale è di


esclusiva competenza dei giudici nazionali, che si trovano nella posizione migliore per effettuare tale
valutazione poiché hanno conoscenza diretta dei fatti di causa, e la stessa corte non può sindacare tali
valutazioni in quanto solo il giudice nazionale può ritirare l’ordinanza di rinvio. La corte gode comunque di
ampi margini di discrezionalità nel valutare la propria competenza e la ricevibilità dell’ordinanza:
innanzitutto valuta se il giudice ha fornito gli elementi necessari per consentire il corretto svolgimento di
tale funzione, ma soprattutto la rilevanza dei quesiti ai fini della decisione del giudizio a quo ( a tal
proposito sussiste una presunzione di rilevanza), e infine verificare se non si tratti di processi fittizi, istituiti
ad arte dalle parti per provocare la pronuncia della CGUE.

LA COOPERAZIONE RAFFORZATA: FUNZIONI, DISCIPLINA E PRASSI

Lo status di membro dell’unione europea comporta l’applicazione dell’acquis comunitario, ossia del
complesso delle norme e dei principi ricavabili dai trattati, dalla prassi delle istituzioni e dalla giurisprudenza
della corte e dagli atti di varia natura adottati in applicazione dei trattati. Dunque il sistema dell’unione è
basato su un principio di applicazione generale e uniforme del suo diritto, anche se ciò non esclude che tale
principio possa avere deroghe ed eccezioni, se consentite dai trattati e altri atti di diritto primario. Questo
accade soprattutto nel caso di adesione di nuovi stati membri, in cui si può avere una limitazione
dell’applicazione a specifici sm delle normative dell’ue di portata generale, per via di problemi di carattere
politico o ordinamentale riguardante tali stati. In corrispondenza però dell’aumento degli sm, si è avvertita
la nuova esigenza, di fronte alla crescente difficoltà di trovare le maggioranze necessarie in seno al
consiglio, di dar vita ad iniziative normative in un numero più ristretto di stati, mantenendole però
all’interno dell’unione, per evitare che venissero realizzate tramite strumenti di diritto internazionale
operanti al di fuori dell’unione.

Tale esigenza a trovato risposta nel trattato di Amsterdam, con l’introduzione dell’istituto della
cooperazione rafforzata, poi perfezionato con il trattato di Lisbona. Questa consiste nella decisione di un
gruppo di stati membri di realizzare tra di essi, ma nel quadro dell’ue ed avvalendosi delle sue istituzioni, un
obiettivo dei trattati che non possa essere conseguito al momento dall’unione tutta per mancanza delle
necessarie maggioranze in Consiglio. Si differenzia dalle applicazioni differenziate, perché in quel caso uno
stato si sottrae all’applicazione della normativa comune, mentre qui un gruppo di sm dà vita a una
normativa più avanzata dell’unione, che convive con quella comune.

Questo istituto è oggi disciplinato dall’art 20 TUE e da una serie di altre disposizioni del TFUE. L’iniziativa
deve essere presa da un gruppo di almeno 9 stati e il suo oggetto deve rientrare tra le competenze non
esclusive dell’unione. Sul piano del merito, deve rispettare il diritto ue e degli sm che non vi partecipano,
non deve recare pregiudizio al mercato interno o alla libera concorrenza; a loro volta gli sm non
partecipanti non devono ostacolarne l’attuazione. Da una parte si presenta come una modalità d’azione da
porre in essere rispetto a un ambito normativo ampio dell’unione, ma non è esclusa l’ipotesi di iniziative
isolate.

L’avvio della cooperazione deve essere autorizzato dal consiglio, a maggioranza qualificata, sulla base di
una proposta della commissione preparata dagli stati in questione, e previa approvazione del Parlamento.
Se l’iniziativa riguarda i settori della PESC, il consiglio decide all’unanimità sulla base dei pareri emessi
dall’Alto Rappresentante dell’unione per la sicurezza e gli affari esteri e dalla commissione circa la sua
coerenza con le aree di rispettiva competenza. In ogni caso la decisione è adottata dal consiglio di ultima
istanza, ossia quando sia chiaro che non è possibile realizzare l’obiettivo perseguito con un’azione dell’ue,
per evitare che il primo insuccesso in seno al consiglio possa subito condurre all’instaurazione di una
cooperazione rafforzata, senza tentare di trovare un compromesso. Sono previsti casi in cui l’autorizzazione
va ritenuta concessa de jure, ad esempio per i settori della cooperazione penale e in materia giudiziaria
penale e di polizia: in questa ipotesi, se non si raggiungono le maggioranze richieste in Consiglio o se il
Consiglio europeo vede porsi il cd freno d’emergenza, potrà instaurarsi una cooperazione rafforzata (nel
primo caso su iniziativa di 9 sm, nel secondo caso di uno solo) senza la necessità di verificare la condizione
dell’ultima istanza.

Deve essere consentita l’adesione successiva di altri sm, purché soddisfino le condizioni di cui
all’autorizzazione. In tal caso spetterà alla commissione la verifica delle condizioni richieste e l’adozione di
eventuali misure transitorie; se ritiene che tali condizioni non siano soddisfatte, lo stato può rivolgersi al
consiglio, nel caso della Pesc in consultazione con l’Alto rappresentante. Una volta instaurata, la
cooperazione funziona secondo le istituzioni e procedure previste dalla base giuridica della materia che ne
forma l’oggetto, fermo restando che solo gli sm partecipanti hanno diritto di voto sulle deliberazioni prese
dal consiglio. Fatta eccezione per le decisioni che hanno implicazioni militari o riguardano il settore della
difesa, il consiglio può decidere, all’unanimità degli stati partecipanti, di applicare il voto a maggioranza
qualificata o la procedura legislativa ordinaria a deliberazioni per cui sarebbe prevista l’unanimità e la
procedura speciale. Gli atti adottati devono essere fondati sulle pertinenti basi giuridiche dei trattati e
costituiscono diritto dell’ue, anche se vincolano solo gli sm partecipanti e non sono parti dell’acquis.

I trattati prevedono due ipotesi di cooperazione direttamente disciplinate al loro interno. La prima è la
cooperazione strutturata permanente, che l’art 42.6 TUE prevede in materia di missioni che l'UE può
effettuare nel quadro della politica estera e difesa comune. Non appena gli sm che rispondono a criteri più
elevati in termini di capacità militari abbiano notificato la loro intenzione di partecipare all’alto
rappresentante e al consiglio, questo la istituisce a maggioranza qualificata e sarà aperta all’adesione di altri
sm, anche se in questo caso la partecipazione è reversibile: sono possibili sospensione e recesso volontario.

La seconda ipotesi riguarda la materia dell’eliminazione dei controlli alle frontiere comuni oggetto
dell’accordo di Schengen del 1985, nata al di fuori dell’unione come cooperazione di diritto internazionale,
è autorizzata dal protocollo 19 allegato al trattato di Amsterdam, che definisce la posizione di Regno Unito,
Danimarca e Irlanda, unici sm non partecipanti. Possono aderire quando lo vorranno, ma anche partecipare
all’elaborazione o accettare singole misure sulla base di un meccanismo definito opting in.

All’ipotesi della cooperazione istituita dai trattati è ricondotta anche la disciplina dell’euro da alcuni, non
applicabile a tutti gli sm, in quanto alcuno sono stati con deroga che si collocano fuori dalla zona euro. Tale
posizione non è però solitamente frutto della loro scelta, ma dell’esito negativo della verifica sul rispetto dei
criteri di convergenza che il consiglio detta ogni due anni. Una vera deroga è concessa solo a Danimarca e
Regno Unito, dando però piuttosto luogo ad un’applicazione differenziata, poiché due protocolli ad hoc
escludono per loro l’obbligo di adottare la moneta unica.

LA PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA

Il processo decisionale dell’ue, che porta all’adozione di uno degli atti previsti dai trattati, vede la
partecipazione di più istituzioni o organi, la quale non avviene ogni volta con le stesse modalità. Infatti
queste dipendono dal contenuto dell’atto, o meglio dalla sua base giuridica (l’articolo dei trattati che fonda
la competenza a regolare una certa materia). Il consiglio è quasi sempre coinvolto nella decisone, ma è di
regola bilanciato da altre istituzioni espressivi di interessi differenti da quelli dei governi. Le procedure sono
molto numerose, solo quelle principali superano la ventina, e coesistono con procedure specifiche relative
al settore della PESC e dell’azione esterna.

La funzione normativa primaria dell’unione, con cui sono adottate le discipline di base nei suoi settori di
competenza, si fonda sui procedimenti che prevedono la decisione finale del consiglio, i procedimenti
cosiddetti principali. Questi riflettono l’equilibrio tra le istituzioni politiche, consiglio, parlamento e
commissione. La procedura legislativa ordinaria, prima di Lisbona, era la cosiddetta procedura di
codecisione, introdotta con il trattato di Maastricht, caratterizzata da una sostanziale equiparazione di ruoli
tra parlamento e consiglio nel processo decisionale, poiché non si può adottare l’atto senza accordo tra le
due istituzioni.

Con il trattato di Lisbona, la procedura legislativa ordinaria, disciplinata all’art 294 TFUE, ha preso il posto di
quella di codecisione, innanzitutto in termini quantitativi, ma anche sotto il profilo qualitativo, perché
presenta alcuni aggiustamenti rispetto alla precedente. L’avvio della procedura di codecisione si basava su
uno schema analogo a quello della procedura di consultazione: presentazione della proposta da parte della
commissione, parere del parlamento, pronuncia del consiglio sia all’adozione dell’atto, in caso di
condivisione del parere del parlamento, sia ad una posizione comune del consiglio su cui si innestava la
seconda fase della procedura. Invece nella procedura legislativa ordinaria il parlamento esprime una
posizione di prima lettura al pari del consiglio, anche se il ruolo delle due istituzioni è identico a quello della
precedente procedura.

Il parlamento deve adottare la posizione e trasmetterla al consiglio: se la approva, l’atto è adottato nella
formulazione espressa nella posizione, anche se diverge dalla proposta della commissione. Se il consiglio
non concorda con il parlamento invece, adotta una posizione in prima lettura e la trasmette al primo, dando
inizio alla fase della seconda lettura. Il parlamento ha tre mesi per pronunciarsi e possono prodursi tre
differenti scenari: nel primo caso si ha un’approvazione, implicita (mancata pronuncia entro la scadenza) o
esplicita, nel secondo una bocciatura. In entrambi casi si pone fine al procedimento e l’atto è
definitivamente adottato o non adottato. In una terza ipotesi invece, il parlamento, a maggioranza dei suoi
membri, propone emendamenti alla posizione del consiglio, su cui la commissione deve formulare un
parere. Entro tre mesi il consiglio dovrà approvare gli emendamenti a maggioranza qualificata (unanimità
se vi è il parere contrario della commissione), oppure entro 6 settimane dovrà convocare, d’intesa col
parlamento, un comitato composto da membri del consiglio e del parlamento in pari numero, al quale
partecipa anche la commissione. Il comitato di conciliazione ha il compito di trovare entro sei settimane un
accordo su un progetto comune, che possa dar luogo, entro un identico termine, all’adozione di un atto da
parte del consiglio (maggioranza qualificata) e del parlamento (maggioranza dei voti espressi), nel quadro
della terza lettura. Nel caso in cui non riesca a raggiungere un accordo, l’atto si considera non adottato.; ciò
può verificarsi anche se non si trovano le necessarie maggioranze nella terza lettura, anche se finora tale
ipotesi si è verificata solo tre volte.

A tale procedura, basata sulla votazione a maggioranza qualificata in seno al consiglio, si applica la
previsione dell’art 293.1 Tfue, secondo cui, quando in virtù dei trattati delibera su proposta della
commissione, il consiglio può emendare la proposta solo deliberando all’unanimità; il consiglio può non
applicare tale regola solo quando vota sul progetto comune del comitato di conciliazione. La regola della
maggioranza qualificata ha fatto sì che, per estendere tale procedura a settori particolarmente delicati, sia
stato necessario introdurre il meccanismo del cd. freno di emergenza, in base al quale, quando un membro
del consiglio ritenga che l’atto da adottare incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento, può
investire della questione il consiglio europeo e la procedura è sospesa. Se entro 4 mesi il consiglio europeo
trova un accordo al suo interno, riprende il corso normale della procedura di adozione, altrimenti questa si
interrompe definitivamente e l’atto si considera non adottato.

In casi eccezionali, l’iniziativa di adottare un atto con tale procedura può venire dagli sm, dalla Corte di
giustizia, dalla BCE: la commissione può comunque essere coinvolta partecipando al comitato di
conciliazione o esprimendo un parere.

In ogni caso, la procedura legislativa ordinaria mette sullo stesso piano il consiglio e il parlamento, poiché è
indispensabile la volontà concorde di entrambe le istituzioni, il che incide pesantemente sulla durata del
procedimento, che di media è di ben due anni.
LA RAPPRESENTANZA DEMOCRATICA NEL PARLAMENTO EUROPEO

Il Parlamento Europeo è l’istituzione attraverso la quale si esprime maggiormente il principio di democrazia


a livello dell’ordinamento dell’unione europea. Infatti questo è composto da rappresentanti dei cittadini
degli sm eletti a suffragio diretto (art 14 TFUE): in base all’art 10 par 2 TUE i cittadini sono direttamente
rappresentati nell’unione dal parlamento europeo. Tale principio democratico si riflette nelle sue
competenze: la partecipazione del parlamento al processo decisionale garantisce la valenza democratica di
questo. Tuttavia il grado con cui questo principio viene realizzato non è uniforme nei trattati, poiché il
coinvolgimento di questa istituzione varia da una semplice consultazione sulle proposte di atti del consiglio
a una condivisione del potere normativo di questo.

Il carattere democratico-rappresentativo del parlamento si esprime poi anche in un generale ruolo di


controllo politico, di cui è destinataria in particolare la commissione: il parlamento partecipa alla sua
nomina, può rivolgerle interrogazioni e ha nei suoi confronti potere di censura. Da parte sua invece, la
commissione presenta ogni anno al parlamento una relazione generale sull’attività dell’ue. IN forma più
attenuata poi un ruolo di interlocuzione politica diretta è previsto nei confronti anche di altre istituzioni:
può rivolgere interrogazioni al consiglio e all’alto rappresentante il quale, come il consiglio europeo, ha
l’obbligo di informare regolarmente sulla sua attività il parlamento. Un potere più generale di controllo è
infine esercitato tramite l’inchiesta e il Mediatore europeo. IL primo strumento consiste nella possibilità di
costituire, d’ufficio o sulla base di petizioni di cittadini ue, commissioni di inchiesta incaricate di esaminare
denunce di infrazione o cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto ue. Invece il Mediatore
europeo è un organo permanente nominato dal parlamento, che esamina casi di cattiva amministrazione di
organi e istituzioni.

In base all’art 14 TUE, il numero dei membri del parlamento non può superare i 750, compreso il presidente
(anche se si sono verificate ipotesi di superamento per via dell’adesione di nuovi sm a legislatura avviata). I
membri sono ripartiti tra gli sm in modo da riflettere il peso di ciascuno di essi: il criterio di ripartizione è
demografico, dunque il numero di parlamentari è commisurato alla popolazione dello sm, con un tetto
minimo di 6 e un tetto massimo di 96 rappresentanti. Vige a tal proposito il principio di proporzionalità
degressiva, in base al quale agli sm con popolazione maggiore sono assegnati più seggi, ma gli sm con
minore popolazione ottengono più seggi rispetto a quanti ne dovrebbero avere sotto il profilo puramente
proporzionale, con la conseguenza che un parlamentare di un paese più popolato rappresenta più cittadini
di un parlamentare di un paese meno popolato, al fine di evitare che l’istituzione assuma dimensioni
elefantiache. La ripartizione è decisa dal consiglio europeo all’unanimità, nel rispetto di tale principio, su
iniziativa e approvazione del parlamento.

La rappresentatività del parlamento tuttavia non si fonda strettamente sul principio di nazionalità, poiché
nulla esclude che un seggio spettante a uno sm sia assegnato a un cittadino di un altro sm: i cittadini dell’ue
hanno diritto di elettorato attivo e passivo anche di sm diversi dal proprio. Le elezioni europee avvengono
sulla base dell’Atto del 20 settembre 1976, a suffragio universale diretto. Originariamente avrebbe dovuto
prevedere una procedura elettorale uniforme, ma non si è raggiunto l’accordo in proposito e presenta
dunque solo principi comuni, ma la procedura è disciplinata dal diritto nazionale degli sm. Il regime delle
incompatibilità, tra cui quelle col mandato di parlamentare nazionale, membro del governo nazionale o di
un’altra istituzione, è disciplinato a livello europeo con l’Atto del 1976.

Il parlamento è eletto per 5 anni e all’inizio della legislatura nomina tra i suoi membri un presidente e un
vicepresidente, che rimangono in carica due anni e mezzo per consentire il ricambio dei gruppi politici.
Infatti i parlamentari si accorpano per gruppi politici, che devono avere un numero minimo di membri, i
quali devono provenire da più sm ed essere affini politicamente. Beneficiano di immunità ai sensi del
Protocollo n7 sui privilegi e le immunità dell’ue: non possono essere ricercati, detenuti o perseguiti per i
voti o le opinioni espressi nell’esercizio delle loro funzioni. Inoltre durante le sessioni del parlamento
godono sul territorio nazionale delle immunità riconosciute ai parlamentari azionali, e in ogni altro sm
dell’esenzione dai provvedimenti di detenzione o giudiziari.

La loro attività si divide tra le commissioni parlamentari e la sessione plenaria, cui spetta il potere
deliberativo, che si esercita a maggioranza dei voti espressi. Invece per approvare una mozione di sfiducia
nei confronti della commissione è prevista la maggioranza dei 2/3 dei voti espressi e dei membri del
parlamento, per esprimere invece il parere sull’adesione di un nuovo sm la maggioranza assoluta. I lavori
parlamentari si ripartiscono tra Strasburgo, dove si tengono le 12 sedute plenarie ordinarie annuali, e
Bruxelles, dove si svolgono le riunioni delle commissioni e dei gruppi politici; invece Lussemburgo è la sede
principale del Segretariato.

IL CONSIGLIO: COMPOSIZIONE E MODALITA’ DI FUNZIONAMENTO

Il Consiglio rappresenta la veste ordinaria della riunione dei rappresentanti dei governi degli sm ed è il
centro di gravità dell’equilibrio istituzionale dell’unione. L’art 16 TUE afferma che questo esercita la
funzione legislativa e di bilancio, funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni
stabilite nei trattati. Dunque in esso si concentrano una serie di funzioni che lo caratterizzano come titolare
del potere legislativo ed esecutivo. È infatti lo snodo istituzionale attraverso cui passano tutte le decisioni
formali su cui si basa l’azione quotidiana dell’unione, a volte affiancato da altre istituzioni, ma è questo il
protagonista del potere decisionale a livello dell’ue. Fornisce all'UE gli indirizzi politici e ne definisce gli
orientamenti generali, gli spettano le decisioni istituzionali non riservate al consiglio europeo, fa capo a
questo l’attività legislativa, detiene la titolarità del potere estero e infine assicura il coordinamento delle
politiche economiche degli sm.

È formato da un rappresentante di ciascuno stato membro a livello ministeriale, abilitato ad impegnare il


governo dello sm che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto (art 16 par 2 TUE). La scelta del
rappresentante è rimessa al singolo sm, purché abbia livello ministeriale: possono dunque partecipare
anche sottosegretari di governo e membri dei governi di entità infrastatali.

Si riunisce di regola a Bruxelles dove ha sede il suo Segretariato, e vede modificarsi la sua composizione a
seconda degli argomenti all’ordine del giorno. Per espressa previsione del suo regolamento interno, invece,
nei mesi di aprile, giugno e ottobre si riunisce a Lussemburgo. L’elenco delle diverse formazioni
(attualmente 10) in cui il consiglio può riunirsi è deciso dal consiglio europeo a maggioranza qualificata,
salvo che per le formazioni affari esteri e affari generali, previste direttamente dall’art 16 par 6 TUE: la
prima elabora l’azione esterna dell’unione e assicura la coerenza della sua azione, la seconda assicura la
coerenza delle varie formazioni del consiglio. Nonostante però l’articolazione in diverse formazioni, resta
ferma l’unicità del consiglio in quanto istituzione.

Non costituisce invece una vera e propria formazione, benché composto dai ministri delle finanze,
l’Eurogruppo, in cui tali ministri dei paesi in cui vige l’euro si riuniscono in modo informale con la
partecipazione della commissione e della BCE, per discutere di questioni in materia di moneta unica. Si
riscontrano all’interno del consiglio delle forme di gerarchia sostanziale tra le formazioni: preminente
importanza riveste ad esempio il consiglio affari generali, volto a coordinare i lavori del consiglio, ed anche
il consiglio ECOFIN.

Oltre all’articolazione orizzontale per formazioni, presenta anche un’articolazione verticale a clessidra, volta
a facilitare i suoi lavori. Alla base vi sono oltre 170 gruppi di lavoro, specializzati per materia e composti da
funzionari degli sm, cui spetta l’esame tecnico dei singoli dossier. La preparazione delle deliberazioni viene
poi perfezionata dal Comitato dei rappresentanti permanenti degli sm a Bruxelles (COREPER), suddiviso in
COREPER I (rappresentanti aggiunti) e II (rappresentanti permanenti, competente per affari generali, esteri,
giustizia e affari economici). Infine spetta al consiglio a livello di ministri, in una delle formazioni, prendere
la decisione finale. Ciascuna delle istanze preparatorie (gruppi tecnici e COREPER) produce nella
composizione intergovernativa e nelle procedure di funzionamento il livello ministeriale, anche se sono
prive di una propria identità e di potere deliberativo autonomo. Tuttavia il COREPER è un elemento
essenziale dell’articolazione verticale, in quanto, essendo composto dai rappresentanti diplomatici degli sm
presso l’unione, ha carattere generalista, rispetto alle altre due componenti specializzate, ed assicura la
coerenza generale dei lavori e delle decisioni del consiglio.

Il Consiglio è presieduto a turno dagli sm sulla base di un sistema di rotazione (art 16.9), disciplinato della
decisione del consiglio europeo 2009/881/UE: è prevista una presidenza per gruppi predeterminati di tre
sm, che se ne ripartiscono l’esercizio per 18 mesi, all’interno dei quali ciascuno esercita la presidenza per 6
mesi con l’assistenza degli altri due sulla base di un programma comune. Ciascun gruppo è costituito
secondo un sistema di rotazione paritaria, che tiene conto della diversità degli sm e degli equilibri geografici
dell’ue. Prima del trattato di Lisbona avveniva ugualmente una rotazione semestrale, ma al di fuori di un
meccanismo di gruppo, anche se la maggiore novità è data dal fatto che al nuovo sistema fa eccezione la
presidenza del consiglio affari esteri, che è riservata all’alto rappresentante. Anche i gruppi di lavoro di
questa formazione sono guidati da rappresentanti dell’Alto rappresentante, con l’eccezione del coreper. Il
consiglio è assistito da un apparato amministrativo, il segretariato generale, al cui vertice è posto il
segretario generale nominato dal consiglio a maggioranza qualificata.

Prima del trattato di Lisbona, decideva a maggioranza semplice se non era indicata una modalità di voto
specifica, mentre ora la regola è la maggioranza qualificata, mentre quella semplice rimane applicabile per
l’adozione del regolamento interno e le decisioni di procedura. Invece l’unanimità è confinata alle decisioni
politicamente più sensibili, ad esempio è la regola generale nel settore della PESC. Ai sensi dell’art 31 par 2
TUE, il consiglio può votare a maggioranza qualificata in questo settore solo quando adotta una decisione
che definisce un’azione o una posizione dell’ue o in base a una proposta dell’alto rappresentante.
L’astensione non osta al raggiungimento dell’unanimità e l’atto sarà applicabile comunque allo sm
astenutosi. Se si è nell’ambito della PESC, questa regola può trovare un’eccezione se uno stato accompagna
l’astensione con una dichiarazione formale di non voler essere vincolato dalla decisione (cd astensione
costruttiva). Se vi fanno ricorso sm che rappresentano un terzo dei membri del consiglio e della popolazione
dell’ue, la decisione non è adottata perché se lo fosse poggerebbe su un consenso troppo esiguo.

La maggioranza qualificata si fonda su un sistema che tiene conto della grandezza degli sm, in quanto il
numero di voti è commisurato al peso demografico ed economico degli sm, combinato con regole di
equilibrio politico, e oscillava tra un minimo di tre e un massimo di 29 voti. In caso di voto su proposta della
commissione, su un totale di 352 voti, la maggioranza era raggiunta con 260 voti favorevoli e inoltre un
membro del consiglio poteva chiedere l’ulteriore soglia del 62% della popolazione totale dell’ue. In assenza
di proposta della commissione i voti favorevoli dovevano provenire da 2/3 del totale degli sm.

Il 1° aprile 2017 tale sistema di voto ponderato è stato sostituito da un meccanismo di doppia maggioranza:
è necessario il voto favorevole del 55% degli sm, che comprendono almeno 15 sm e rappresentano il 65%
della popolazione dell’unione, fermo restando che la minoranza di blocco deve comprendere almeno 4
membri del consiglio. Se non vi è proposta della commissione, poiché viene meno la salvaguardia
dell’interesse generale, è richiesto il voto favorevole del 72% degli sm, così come quando nel settore PESC
non vi è la proposta dell’alto rappresentante.

Nel 1966 con il compromesso di Lussemburgo è stata prevista la possibilità di un rinvio dell’adozione a
maggioranza di una delibera del consiglio nel caso in cui uno sm invocasse il pregiudizio di propri interessi
molto importanti. È stato però interpretato come un diritto di veto ed ha impedito che si procedesse a
maggioranza qualificata anche se prevista dai trattati. Nel 1995 è stato istituito invece il compromesso di
Ioannina, che prevedeva, in caso di una minoranza consistente ma non tale da bloccare una delibera, la
ricerca di una soluzione soddisfacente entro un tempo ragionevole. Oggi invece, in forza della Dichiarazione
n7 allegata all’Atto finale di Lisbona, in caso di una quasi minoranza di blocco, il consiglio è tenuto a
ricercare una soluzione soddisfacente entro un tempo ragionevole, in mancanza potrà passare al voto.

LE SENTENZE DI INADEMPIMENTO/INFRAZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA E I LORO EFFETTI

Il ricorso per inadempimento o procedura di infrazione assume un rilievo particolare in quanto competenza
che attiene al controllo sui comportamenti degli sm, poiché riguarda l’osservanza dei trattati da parte di
essi. Azioni contro questi per inadempimento degli obblighi derivanti dal diritto dell’ue possono essere
promosse dalla commissione e dagli stessi sm. Oggetto delle procedure di infrazione è dunque
l’accertamento della sussistenza di un inadempimento da parte degli sm degli obblighi derivanti dal diritto
ue, quali enunciati dai trattati e dagli atti vincolanti adottati dalle istituzioni, nonché il rispetto dei diritti
fondamentali enunciati nella carta di Nizza e del principio di leale collaborazione. La responsabilità per
l’inadempimento incombe allo stato nella sua unità e questo può concretizzarsi sia in un’azione sia in
un’omissione. Tale responsabilità ha carattere assoluto e oggettivo e lo stato può esonerarsi solo in casi di
forza maggiore, ma non invocando prassi del proprio ordinamento o una reazione all’infrazione di un altro
sm. Per escludere l’infrazione occorre che il rispetto degli obblighi sia assicurato dallo stato in termini non
formali ma di effettività.

Il TFUE definisce una disciplina dettagliata delle varie fasi della procedura di accertamento della violazione,
che si articola in due passaggi essenziali: una fase precontenziosa, nelle mani della commissione, ed una
fase giudiziaria, che spetta alla corte. La prima fase è avviata d’ufficio o su reclamo di un soggetto, fermo
restando che la commissione dovrà valutare in ogni caso se sia opportuno dare il via alla procedura,
valutando se sussiste l’inadempimento o meno. Non può dunque essere obbligata ad avviare la procedura,
né da uno sm né dai privati, che però possono denunciare le violazioni del diritto ue. La fase precontenziosa
si articola in due momenti: la lettera di messa in mora e l’eventuale parere motivato. Con la prima la
commissione comunica allo sm l’apertura della procedura e questo può entro un certo termine presentare
osservazioni: è una fase essenziale e necessaria poiché è l’ultimo tentativo di componimento della
controversia in sede extragiudiziale, tende a garantire il diritto di difesa dello sm e a definire con chiarezza i
termini della questione. Lo sm non è tenuto a reagire alla lettera di messa in mora, se però non risponde o
non soddisfa la commissione, questa può emettere un parere motivato, con il quale sollecita lo stato a
porre fine al proprio comportamento entro 2 mesi. Non ha carattere vincolante, ma è un passaggio formale
essenziale della procedura, anche se non conclusivo. Non può modificare l’oggetto della contestazione né
ampliarlo, ma solo ridurlo, deve essere adeguatamente motivato, altrimenti sarà irricevibile il ricorso della
commissione.

Se entro questo termine lo sm non si conforma al parere motivato, la commissione può adire la corte (art
258 tfue): il mancato rispetto del parere va inteso solo come presupposto del ricorso, ma l’oggetto è la
violazione del diritto ue. La commissione gode di piena discrezionalità nel decidere se e quando proporre
ricorso, ma non deve incorrere in uno sviamento di procedura o rendere più difficile l’esercizio dei diritti di
difesa dello sm. Il ricorso sarà ricevibile se è stata svolta correttamente la fase precontenziosa, vi è
coincidenza tra le censure mosse allo stato e quelle invocate nel ricorso, è decorso inutilmente il termine
fissato nel parere motivato. Nel merito potrà essere accolto se la commissione prova la sussistenza
dell’inadempimento.

Ove accerti l’inadempimento, la corte pronuncia una sentenza che, seppur definita di condanna, è
meramente dichiarativa, in quanto esaurisce la sua funzione nell’accertare l’inadempimento. Ai sensi
dell’art 260 Tfue, lo sm deve prendere i provvedimenti necessari per l’esecuzione della sentenza, ma
l’obbligo discende dalla disposizione e non dalla pronuncia della corte. La corte infatti non ha il potere di
ingerirsi direttamente nella legislazione e amministrazione degli sm, perciò sarà lo sm a disporre le misure
necessarie per l’adempimento. Destinatario della sentenza è lo stato nella sua interezza: tutti i suoi organi
devono garantire nei settori di propria competenza l’esecuzione della sentenza. Pur essendo gli sm liberi
nella scelta dei mezzi, devono in ogni caso assicurare con effetto immediato la piena osservanza della
sentenza, altrimenti la commissione potrebbe presentare alla corte un nuovo ricorso. Se lo stato è
doppiamente inadempiente, la commissione può chiedere alla corte di imporre a questo una sanzione
pecuniaria, da calcolare sulla base della gravità dell’infrazione, della sua durata e della necessità di imporre
un effetto dissuasivo. E’ prevista una specifica disciplina nel caso in cui si abbia mancata comunicazione dei
provvedimenti nazionali di trasposizione di una direttiva: tali misure possono essere imposte già nel primo
ricorso.

La procedura fin qui descritta può essere attivata anche da uno sm, secondo l’art 259 TFUE, nel caso in cui
ritenga che un altro stato abbia violato gli obblighi imposti dai trattati. La fase precontenziosa è molto
simile a quella sopra descritta: lo sm deve rivolgersi prima alla commissione, che deve tentare di risolvere il
conflitto in via preliminare. Si tratta di controversie interne al sistema dell’unione, ma che non devono
rimanere al livello di conflitti tra due stati, poiché gli sm sono legittimati attivi in quanto sm, non in quanto
lesi dalla violazione altrui. Lo sm denunciante domanda alla commissione di avviare la procedura, questa lo
comunica allo sm interessato e istituisce un contraddittorio tra i due: se è inattiva, lo sm può adire
direttamente la corte. Al termine del contraddittorio, la commissione emette un parere motivato, che
esprime un giudizio interlocutorio, se non ritiene di poter prendere un atteggiamento definitivo, favorevole
allo stato accusato oppure allo stato denunciante. Nei primi due casi se quest’ultimo è in disaccordo con la
commissione può comunque adire la corte, nel terzo caso si constaterà l’illecito dello sm accusato e questo
dovrà prendere i necessari provvedimenti entro un certo termine. Decorsi tre mesi dalla domanda, se la
commissione non emette il parere, lo stato denunciante può adire comunque la corte. Per il resto vale
quanto detto per i ricorsi della commissione.

I RAPPORTI TRA LE NORME DELL’UNIONE EUROPEA E LE NORME COSTITUZIONALI

L’ordinamento dell’unione europea è un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto
internazionale, poiché propri soggetti non sono solo gli sm, ma anche i loro cittadini. I trattati infatti sono
andati al di là di un accordo che si limitasse a creare obblighi reciproci tra gli stati contraenti, e hanno
portato all’instaurazione di organi dotati di poteri sovrani da esercitare nei confronti di sm e loro cittadini.
Trasferendo all’unione quei poteri, gli sm hanno creato un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini
e loro stessi, che ha dato vita ad un ordinamento giuridico autonomo, integrato negli ordinamenti nazionali.
Da ciò deriva che non si pone dal punto di vista del diritto ue, affinché le sue norme producano i loro effetti,
la necessità di un intervento dei singoli ordinamenti nazionali che dia efficacia a quelle norme, in quanto
estranee. Ciò è vero innanzitutto per le norme dei trattati e gli atti dell’ue direttamente applicabili, i
regolamenti, la cui efficacia all’interno degli sm è in re ipsa, per il solo effetto della ratifica dei trattati e
l’adozione da parte del legislatore europeo, senza bisogno di un provvedimento dello sm. Ma ciò vale anche
nei casi in cui gli atti non abbiano efficacia diretta, come le direttive, poiché tale carattere deriva da un
modo di operare dell’atto, non da una inidoneità di quella fonte ad operare all’interno degli sm.

La capacità del diritto ue di disciplinare direttamente fattispecie interne agli stati non esclude tuttavia che
esista anche per l’ordinamento dell’unione un problema di rapporti con le legislazioni nazionali. Come ha
sottolineato infatti la corte nella sentenza Costa c. Enel del 1964, i due ordinamenti vivono in un rapporto di
integrazione, che vede quello dell’unione avvalersi dell’ordinamento degli sm per molti aspetti del suo
funzionamento, con il risultato di un permanente potenziale conflitto tra norme. Ciò è particolarmente
evidente nel caso di rapporto tra norme europee e norme interne contrastanti, risolto nella Dichiarazione
n17 sul primato col principio della supremazia del diritto dell’unione, dovuto alle caratteristiche
dell’ordinamento ue. Infatti l’integrazione nel diritto di ciascuno sm di norme che promanano da fonti
comunitarie postulano l’impossibilità per gli sm di far prevalere un provvedimento unilaterale contro un
ordinamento giuridico da essi accettato in condizioni di reciprocità. Il diritto dell’ue infatti non potrebbe
trovare un limite nei provvedimenti interni senza che sia scosso lo stesso fondamento giuridico dell’unione.
Tale rapporto non si fonda su di una prevalenza gerarchica, ma sulla considerazione delle rispettive sfere di
competenza e azione dell’unione e degli sm: pertanto gli atti legislativi nazionali che invadono sfere di
competenza ue sono privi di qualsiasi efficacia giuridica e qualsiasi giudice nazionale ha l’obbligo di
applicare il diritto ue disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, anche se
successive (sentenza Simmenthal, 1978). A tale obbligo sono sottoposti anche gli altri organi statali,
specialmente quelli amministrativi. La corte ha precisato poi l’obbligo dei giudici nazionali di non applicare
norme dello stato, anche se costituzionali, che, anche se non direttamente in contrasto con la norma
europea concretamente applicabile, ne impediscano l’effettiva attuazione, menomando l’unità e l’efficacia
del diritto ue.

Si pone poi un’ipotesi diversa, in cui vi sia il contrasto di norme europee con i principi fondamentali di un
ordinamento costituzionale e i diritti fondamentali della persona umana. Infatti la supremazia del diritto
scaturito dai trattati si pone nei confronti dell’ordinamento nazionale nel suo complesso, comprese norme
di rango costituzionale. Nell’ambito della sentenza Frontini ad esempio, la nostra corte costituzionale aveva
risolto tale questione con riferimento all’articolo 11 della Costituzione, affermando che le limitazioni di
sovranità derivanti dalla partecipazione all’unione potevano essere validamente assunte tramite legge
ordinaria, implicando così la prevalenza delle norme europee su quelle costituzionali. Ciò era però
affermato in relazione a quelle norme costituzionali che regolano la formazione delle leggi e
l’organizzazione dei poteri statali, essendo invece inammissibile un potere dell’ue di violare i principi
fondamentali di un ordinamento costituzionale e i diritti inviolabili dell’uomo. Quindi pur ammettendo la
preminenza del diritto ue sulle norme costituzionali, la nostra corte ha previsto a questo un limite con
riferimento a un nucleo di principi fondamentali caratterizzanti il nostro assetto costituzionale, sul rispetto
del quale si riserva di esercitare il proprio sindacato costituzionale.

La corte non ha però fornito ancora elementi interpretativi capaci di far comprendere il contenuto effettivo
di quel nucleo di principi e diritti, da essa definiti come controlimiti all’ingresso delle norme dell’ue nel
nostro ordinamento e quindi alle limitazioni di sovranità consentite dall’art 11 cost. Sembra però
delimitarne il perimetro in modo restrittivo, in quanto afferma che rappresentano gli elementi identificativi
e irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, perciò sottratti anche a revisione costituzionale, quali la
forma repubblicana e tutti quei principi che appartengono all’essenza dei valori supremi su cui si fonda la
costituzione italiana.

Si ritiene però che il contrasto in questione sia improbabile ed eccezionale, perché lo stesso ordinamento
ue gli pone argini: per quanto riguarda i diritti fondamentali dell’uomo prevedendo a tal proposito un
obbligo di rispetto da parte delle istituzioni con l’art 6 TUE e con l’inserimento della carta di Nizza nei
trattati; per quanto invece riguarda l’assetto costituzionale degli sm prevedendo all’art 4 tue il rispetto
dell’identità nazionale, insita nella struttura fondamentale, politica e costituzionale degli sm. Infatti la corte
costituzionale ha quasi sempre escluso la fondatezza della questione, con un’eccezione: ha posto alla corte
di giustizia la questione se l’obbligo di disapplicazione vada osservato dai giudici di uno sm anche quando si
ponga in contrasto con i suoi principi supremi dell’ordine costituzionale o con i diritti inalienabili
riconosciuti dalla costituzione. Con questo rinvio la corte costituzionale imprime sviluppi alla precedente
giurisprudenza in materia di controlimiti. Fa in primo luogo riferimento ai principi fondamentali come
aspetto dell’identità nazionale che l’unione deve rispettare in base all’art 4 par 2 tue, imponendo una
visione ancora più restrittiva del perimetro dei controlimiti. In secondo luogo sostiene che sia non la corte
di giustizia, ma essa stessa a dover effettuare la verifica ultima circa l’osservanza dei principi supremi di uno
sm, tesi difficilmente condivisibile dalla corte di giustizia, la cui competenza ad assicurare il rispetto del
diritto e nell’interpretazione dei trattati è posta dall’art 19 TUE.

LA CORTE DI GIUSTIZIA: ARTICOLAZIONE INTERNA

La storia della corte di giustizia dell’ue si lega strettamente a quella del processo di integrazione europea, in
quanto fu prevista per la prima volta nel trattato istitutivo della CECA del 1951. Se prima inizialmente era
prevista una corte per ogni comunità, con la Convenzione relativa a talune istituzioni dell’ue del 1957 si
optò per un’unica corte, che avrebbe sostituito quella della CECA. L’unità era però solo strutturale, in
quanto le competenze di queste erano imputate ora ad una comunità, ora all’altra. Con il trattato di
Lisbona, con la soppressione della precedente struttura a pilastri dell’ue, si sono accentrati gli aspetti di
unitarietà dell’azione della corte. Nel 1989 è stata affiancata da un altro organo, il tribunale di primo grado
cui, con il trattato di Nizza è stata prevista la possibilità di affiancare organi giurisdizionali di primo grado
(come il tribunale della funzione pubblica, soppresso nel 2016). In questo modo la corte si connota come
giudice di mera legittimità e supremo garante dell’unità giuridica del sistema, mentre il tribunale assume il
ruolo di giudice di diritto comune. Sebbene distinti quanto a composizione, attribuzione e funzionamento,
sono coordinati sul piano organico, funzionale e strutturale: l’art 19 TUE riassume nella denominazione
“Corte di giustizia dell’ue” tanto la corte stessa, quanto gli organi che la affiancano, la quale concorre ad
assicurare il risetto del diritto nell’interpretazione e applicazione dei trattati.

Le regole sulla composizione, funzionamento e competenze della corte si rinvengono, oltre che nei trattati,
nel protocollo sullo statuto e nel regolamento di procedura, da questa stabilito e approvato dal consiglio a
maggioranza qualificata. Attualmente è composta da un giudice per ogni sm, quindi 28, assistiti da 11
avvocati generali. Manca per i suoi membri la condizione di nazionalità comunitaria, dunque teoricamente
potrebbero essere nominati anche giudici di stati terzi, e non si può invocare l’assenza di giudici della
propria nazionalità al fine di una modificazione della sua composizione. Gli AG sono 8, secondo l’art 252
TFUE, ma il numero può variare con delibera del consiglio all’unanimità, previa richiesta della corte. Il
sistema di rotazione degli AG opera sulla base di un criterio di nazionalità: 6 sm hanno diritto a un posto
permanente, gli altri 22 partecipano a un sistema di rotazione per i posti restanti. Il compito di questi è
presentare pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle
cause che richiedono il loro intervento. Assistono la corte in quasi tutti i passaggi della procedura, salvo la
fase decisionale, e partecipano alla gestione delle attività amministrative della corte. Sono membri della
corte a tutti gli effetti, salvo l’elettorato attivo e passivo per l’elezione del presidente e dei presidenti di
sezione, e rappresentano un istituto peculiare, assimilabile al procuratore generale della corte di
cassazione. Le loro conclusioni costituiscono le opinioni di un membro dell’istituzione, in quanto
concorrono alla funzione giudiziaria.

Particolare è il ruolo del primo AG (prima eletto ogni anno dalla corte su proposta degli AG, dal 2015 eletto
dalla corte per un triennio), che opera come primus inter pares, promuove il procedimento di riesame e
distribuisce le cause tra gli AG. I giudici e gli AG sono nominati per 6 anni dai governi degli sm, tra
personalità che offrano garanzie di indipendenza e le condizioni richieste per le più alte funzioni
giurisdizionali o siano giuristi di notoria competenza. Con il trattato di Lisbona, la nomina è subordinata alla
previa consultazione di un apposito comitato, composto da 7 persone scelte tra ex membri della corte e
giuristi di notoria competenza, nominati dal consiglio su proposta del presidente della corte, uno dei quali
proposto dal PE. LA nomina avviene secondo un sistema di rinnovo parziale triennale, che interessa a turno
14 giudici, e alternativamente 5 e 6 AG: il mandato può essere rinnovato e può cessare anche per dimissioni
volontarie o d’ufficio, decise dalla corte all’unanimità. Prima di assumere le loro funzioni, tutti i membri
prestano giuramento; la loro indipendenza è assicurata dall’immunità dalla giurisdizione, dalle
incompatibilità e dai doveri di riservatezza, imparzialità e correttezza.

Il presidente è eletto fra e dai soli giudici, rappresenta la corte, ne presiede le riunioni, le udienze, le
deliberazioni della seduta plenaria e della grande sezione e vigila sul corretto funzionamento dei servizi
dell’istituzione, distribuisce le cause tra i giudici e nomina il relatore. Nel 2012 è stato introdotto il
vicepresidente, anch’esso eletto da e tra i soli giudici per tre anni, il quale decide l’adozione delle misure
provvisorie e d’urgenza.

Ai sensi dell’art 251 TFUE, la corte si riunisce in sezioni composte da tre o cinque giudici; può decidere
anche di riunirsi in grande sezione (15 giudici) quando lo richiedono uno sm o un’istituzione parti in causa.
Tra questi vi sono il presidente, il vicepresidente e tre presidenti di sezioni da cinque giudici. SI riunisce poi
in assemblea plenaria nei casi previsti dall’art 16 dello statuto (giudizi sui comportamenti dei membri di
organi ue) e in caso di giudizi di importanza eccezionale. LA scelta della formazione competente è operata
dalla corte in occasione della riunione generale cui partecipano con cadenza settimanale tutti i membri
dell’istituzione. Invece in sede giurisdizionale essa delibera in camera di consiglio, in presenza dei soli
giudici membri del collegio giudicante. Le delibere sono prese in numero dispari: per la validità occorre per
le sezioni da 3 o 5 giudici la presenza di tra giudici, per la grande sezione di almeno 11 e per l’assemblea
plenaria di 17.

La corte di Lussemburgo è infine assistita da un cancelliere, da essa nominato per 6 anni, il quale è al vertice
dell’apparato burocratico e cura la gestione amministrativa e finanziaria, anche se è presente pure un
comitato amministrativo.

Essa è affiancata in primo luogo dal Tribunale, a partire dalla modifica del TCE dall’AUE, poi sancita nei
trattati istitutivi. Ha la finalità di assicurare anche nell’ambito del sistema dell’unione il principio del doppio
grado di giudizio e per alleggerire il carico di lavoro della corte. Se prima era competente solo per le
controversie di impiego e i ricorsi in tema di concorrenza, ora lo è per tutti i ricorsi introdotti da persone
fisiche e giuridiche. Grazie alle modifiche apportate dal trattato di Nizza, ha assunto la competenza,
indipendentemente dalla natura del ricorrente, per i ricorsi di annullamento, in carenza, in materia di
responsabilità extracontrattuale dell’ue, dei dipendenti, il contenzioso in materia contrattuale. Non si tratta
di un’elencazione tassativa delle competenze, perché l’art 256 par 1 TFUE prevede che lo statuto possa
includervi altre categorie di ricorsi. Inoltre per materie specifiche la sua competenza può essere estesa
anche ai ricorsi in via pregiudiziale, anche se ciò non è ancora avvenuto.

Sul piano strutturale è composto da soli giudici, in quanto la nomina di AG è eventuale, ed ha una
composizione variabile, poiché il numero è fissato nello statuto, fermo restando che deve esserci almeno
un giudice per ogni sm. Sono stati dunque a lungo 28, ma recentemente è stato previsto di raddoppiarli
entro il 2019 a 56 per far fronte al crescente carico di lavoro, stabilendo al contempo l’abolizione del
tribunale della funzione pubblica. Per il resto lo statuto è pressoché identico a quello della corte. Anche il
tribunale si articola in sezioni, composte da 3 o 5 giudici, mentre in determinati casi decide la grande
sezione o la seduta plenaria; considerato il crescente carico di lavoro, specie in materia di diritti di marchi, il
consiglio lo ha autorizzato a statuire in casi tassativamente indicati nella persona del giudice unico.

Già il trattato di Nizza aveva autorizzato il consiglio a istituire camere giurisdizionali incaricate di conoscere
in primo grado di alcune categorie di ricorsi in materie specifiche, poi ridenominate a Lisbona tribunali
specializzati, affidandone la istituzione congiuntamente a consiglio e parlamento. I loro membri sono
nominati dal consiglio all’unanimità e sono scelti tra persone che possiedano garanzie di indipendenza e le
capacità per l’esercizio di funzioni giurisdizionali. I loro provvedimenti potranno essere oggetto di
impugnazione per i soli motivi di diritto, e in alcuni casi anche di fatto, dinanzi al tribunale. Le sue decisioni
possono essere oggetto di un riesame dinanzi alla corte ove sussistano gravi rischi che l’unità o la coerenza
del diritto ue siano compromesse. Finora è stato istituito solo il TFP, composto da sei membri, competente
in primo grado a pronunciarsi sulle controversie tra l’ue e i suoi agenti. Ha però avuto vita breve, essendo
stato soppresso nel 2016, con trasferimento al tribunale della sua competenza.

LA REVISIONE DEI TRATTATI ISTITUTIVI

Al vertice del complesso di fonti dell’unione vi sono i trattati istitutivi, i quali hanno doppia natura: per
l’origine sono atti di diritto internazionale, ma se li si considera dal punto di vista dell’ordinamento europeo
hanno natura diversa. Il TUE e TFUE costituiscono l’atto fondante dell’unione, che disciplina le sue
competenze, le sue procedure di funzionamento, i principi di base dell’intervento delle istituzioni. Sono
dunque, le loro, norme sovraordinate rispetto a tutte le altre norme dell’ordinamento, in quanto i
procedimenti produttivi di queste ultime traggono l’idoneità a farlo dai trattati. Tale collocazione al vertice
spiega perché se ne è parlato in termini di costituzione, dal momento che costituiscono la carta
costituzionale di una comunità di diritto: si tratta però di un paragone improbabile se si considera che le
costituzioni hanno di regola struttura snella e contenuti essenziali, mentre i trattati ue sono dettagliati e
poderosi. Senza dubbio però questa assimilazione ha permesso di sottolineare le peculiarità di questi
rispetto ai normali accordi internazionali. In primo luogo per il modo in cui le loro norme vanno
interpretate: si ritiene infatti che le interpretazioni di carattere sistematico prevalgono sul criterio letterale,
utilizzato solitamente per le carte costituzionali, e dunque ogni norma va interpretata alla luce del proprio
contesto e dell’insieme delle disposizioni del diritto ue, delle sue finalità e del suo stadio di evoluzione.
Quanto invece alle limitazioni che incontra il potere di emendamento dei trattati, l’affermazione del loro
carattere costituzionale rappresenta una parte di verità: a differenza di ciò che accade normalmente nel
diritto internazionale, gli stati non sono liberi circa il procedimento da seguire per le modifiche dei trattati,
ma devono osservare l’art 48 Tue, e la corte valuta la correttezza o meno del modo in cui sono stati
utilizzati i procedimenti di revisione dei trattati. Inoltre essa può anche trovarsi nella condizione di non
poter riconoscere come validamente avvenute le modifiche, come nel caso in cui ci si riferisse a prassi
modificative degli sm in deroga a norme dei trattati. In realtà tuttavia si sono prospettate ipotesi di
modificazione dei trattati sulla base di un accordo unanime dei trattati realizzatosi al di fuori del
procedimento dell’art 48 TUE, come ad esempio recentemente per rispondere ad alcune questioni del
governo britannico in vista del referendum sulla Brexit.

L’art 48 disciplina puntualmente il procedimento di revisione dei trattati, prevedendo in primo luogo una
procedura ordinaria: quando uno sm, il PE o la commissione presentino una proposta di revisione dei
trattati e il consiglio europeo, previa consultazione del PE e se del caso della commissione, esprima a
maggioranza semplice il proprio parere favorevole, è convocata una convenzione composta da
rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei capi di stato e governo degli sm, del PE e della commissione, a
meno che ciò appaia inutile in ragione dell’entità ridotta delle modifiche. In questa ipotesi sarà convocata
una conferenza intergovernativa tra gli sm sulla base di un mandato fissato dal consiglio europeo;
altrimenti la convenzione elabora il mandato nella veste di un progetto, sulla base del quale la conferenza
intergovernativa dispone le modifiche, che entrano in vigore una volta ratificato dagli sm secondo le
rispettive procedure costituzionali.

Sono poi previste due procedure semplificate, la prima riguardante modifiche della parte terza del Tfue che
non comportino un’estensione delle competenze ue, la seconda il passaggio alla maggioranza qualificata
per l’adozione di decisioni del consiglio nel quadro del Tfue e del titolo V del Tue. Spetta al consiglio
europeo decidere all’unanimità su tali modifiche su iniziativa di uno sm, del PE o della commissione, previa
consultazione di questi due (BCE se settore monetario) nel primo caso e su propria iniziativa e previa
approvazione del PE nel secondo caso. Nel primo caso sarà necessaria l’approvazione degli sm, nel secondo
caso entra in vigore a meno che un parlamento nazionale non si opponga entro 6 mesi.
IL RUOLO DEI PARLAMENTI NAZIONALI E RISPETTO DEL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’

A seguito del trattato di Lisbona, nell’esercizio di alcune delle loro funzioni le istituzioni dell’ue a carattere
più marcatamente politico sono tenute a confrontarsi anche con i parlamenti nazionali. Infatti in base all’art
12 TUE questi sono chiamati a contribuire attivamente al buon funzionamento dell’unione e a tal fine i
trattati li coinvolgono in una serie di procedure, facendone i protagonisti della vista istituzionale
dell’unione. Innanzitutto esercitano un ruolo fondamentale nel quadro del controllo sul rispetto del
principio di sussidiarietà, disciplinato dal Protocollo n2. Tale procedura infatti coinvolge anche i parlamenti
nazionali degli SM, ai quali sono trasmessi i progetti di atti legislativi e le deliberazioni preparatorie, che
potranno eccepire la contrarietà del progetto al principio di sussidiarietà entro 8 settimane dalla sua
trasmissione, formulando un parere motivato. Premesso che ciascun parere corrisponde a un voto se
espresso da una singola camera e a due se espresso dall’intero parlamento, l’autore del progetto dovrà
riesaminarlo (per decidere se mantenerlo, modificarlo o ritirarlo) quando i pareri motivati corrispondono a
1/3 dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali, o a ¼ se il progetto riguarda la cooperazione giudiziaria in
materia penale o di polizia (cd cartellino giallo). Se la Commissione, nel quadro della procedura legislativa
ordinaria, decide di mantenere la proposta nonostante i pareri corrispondano alla maggioranza semplice
dei voti complessivi, il Consiglio (con il voto favorevole del 55% dei suoi membri) e il Parlamento (a
maggioranza dei voti espressi) possono bloccare definitivamente la proposta (cd cartellino arancione).

Per il resto, si tratta nella maggior parte dei casi della loro informazione diretta da parte delle istituzioni
dell’unione (prevista dal protocollo n1) e dall’obbligo di queste di sospendere la procedura per un tempo
sufficiente (solitamente 8 settimane) a permettere una reazione dei parlamenti nazionali. È poi prevista
l’associazione di questi al controllo politico sulle due agenzie europee, Europol ed Eurojust e alla
valutazione sull’attuazione delle politiche dell’ue nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Possono infine
bloccare direttamente, senza la mediazione dei governi, decisioni delle istituzioni, ad esempio nel quadro
del diritto di famiglia un parlamento nazionale può bloccare una decisione entro 6 mesi dal ricevimento
della proposta della commissione. In realtà forme di partecipazione dei parlamenti nazionali alla vita
dell’unione sono attivi anche da prima di Lisbona, in particolare sotto la veste di una cooperazione
interparlamentare tra il PE e i parlamenti degli sm nata negli anni ’80, diretta a permettere tra di essi lo
scambio di informazioni e buone pratiche e una discussione congiunta di temi europei di interesse comune.
Non c’è dubbio però che le forme di coinvolgimento introdotte con il trattato di Lisbona presentino una
novità rispetto a quelle precedenti, in termini di maggiore incisività e perché non hanno come finalità di
esprimere una generica posizione comune del sistema parlamentare europeo, ma di far intervenire in via
individuale i singoli parlamenti nella sfera europea. Inizialmente ci si era basati sull’idea di una
rappresentanza unitaria degli sm attraverso i rispettivi governi, mentre oggi i parlamenti sono chiamati ad
esprimere posizioni autonome e potenzialmente contrastanti con quelle dei rispettivi esecutivi, dando vita
ad un loro controllo politico diretto su aspetti del funzionamento dell’unione. Ciò però inevitabilmente
finisce per comportare una sovrapposizione dei parlamenti nazionali con il ruolo del parlamento europeo,
attraverso il quale i cittadini dell’unione partecipano all’esercizio del potere, rischiando di mettere in
discussione la piena legittimità del PE a rappresentare i cittadini degli sm all’interno del sistema
istituzionale.

DIRITTO DELL’UE E DEFINITIVITA’ DELLE DECISIONI GIUDIZIALI NAZIONALI

La tutela giurisdizionale offerta dall’Ue sarebbe incompleta e non effettiva se non fosse completata
dall’attività svolta dai giudici nazionali, organi decentrati del diritto europeo. Innanzitutto i giudici nazionali
devono assicurare la tutela delle situazioni giuridiche sorte negli ordinamenti degli sm fondate sulle norme
dell’ue. Pertanto i privati hanno il diritto di invocare direttamente le disposizioni dell’unione dinanzi ai
giudici nazionali e l’obbligo di disapplicare le norme interne incompatibili con quelle disposizioni, per via dei
principi del primato del diritto ue e della sua diretta e immediata applicabilità. La corte ha quindi sviluppato
degli orientamenti giurisprudenziali volti ad assicurare il pieno rispetto del diritto ue e del suo primato,
interferendo così sullo stesso modo di essere dei sistemi giudiziari degli sm. Esaltando infatti la
cooperazione circolare e l’integrazione tra i due livelli di protezione giudiziaria, la corte ha potuto volgerla
più efficacemente in funzione dell’obiettivo della tutela dei privati e del rafforzamento complessivo del
sistema. La tutela giudiziaria delle situazioni giuridiche soggettive garantite dal diritto ue deve essere
anzitutto assicurata con gli strumenti predisposti negli e dagli sm: ha preteso dunque, in nome dei principi
di leale collaborazione e del primato dell’ue, che lo sm non solo assicuri la corretta applicazione delle
norme ue, ma anche renda concretamente operante un sistema di rimedi giurisdizionali e procedimenti
volti a garantire tale tutela in modo pieno. In base al principio dell’autonomia procedurale, in mancanza di
una specifica disciplina comunitaria, è l’ordinamento giuridico interno di ciascuno sm che designa il giudice
competente e stabilisce le modalità procedurali delle azioni giudiziali volte a garantire tale tutela. Tuttavia
tale libertà non può esercitarsi in modo tale da mettere a rischio l’effettiva tutela dei privati: gli sm devono
quindi assicurare che le modalità non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di
natura interna (principio di equivalenza) e non rendano impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei
diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (cd principio di effettività).

Tale prassi è stata accolta negli ordinamenti nazionali senza particolari resistenze, ma ha stimolato un
vivace dibattito il filone giurisprudenziale relativo all’incidenza del diritto dell’unione sugli atti nazionali
definitivi, di natura amministrativa e giudiziaria. La corte aveva infatti stabilito che i principi generali del
diritto dell’ue, in particolare quello di leale collaborazione, impongono a determinate condizioni di
riesaminare una decisone nazionale definitiva rivelatasi contraria al diritto dell’unione a seguito di una
successiva pronuncia della corte. Si era dedotto che questo orientamento avesse implicato un superamento
del tradizionale principio dell’intangibilità del giudicato interno. È stata in realtà la stessa corte a
sottolineare l’importanza di questo principio sia nell’ordinamento dell’ue sia degli sm; non era poi stato
adeguatamente sottolineato che tra le condizioni alle quali la corte subordinava l’obbligo di riesame
assumeva importanza determinante il fatto che l’organo nazionale adito disponesse del potere di revisione
di una decisione definitiva per violazione di una norma di diritto. Conformemente ai principi di equivalenza
ed effettività, anche qualora venga in rilievo il principio della res iudicata, il diritto ue deve poter beneficiare
dinanzi al giudice nazionale dei medesimi strumenti processuali applicabili in circostanze analoghe a
controversie di natura interna.

Nel noto caso Lucchini del 2007, la corte aveva affermato che il diritto comunitario osta all’applicazione di
una disposizione del diritto nazionale, volta a sancire il principio dell’autorità della cosa giudicata, che
impedisce il recupero di un aiuto di stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui
incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della commissione divenuta
definitiva. In questo caso era messo in discussione lo stesso principio del primato: la sentenza nazionale
passata in giudicato non solo aveva legittimato un aiuto di stato a fronte del potere esclusivo di valutazione
della commissione, ma lo aveva fatto senza tenere conto della decisone di questa che aveva dichiarato
l’incompatibilità dell’aiuto.

Nel successivo caso del 2009 Fallimento Olimpiclub, si era invece affermato che ostacoli all’applicazione di
una norma ue in materia di IVA non possono essere giustificati dal principio della certezza del diritto e
devono essere considerati in contrasto col principio di effettività. Così si è confermato che la definizione
della portata di un principio generale non può essere sempre e solo questione di diritto interno, ma deve
fare i conti con gli obblighi che il diritto dell’unione impone agli sm.

IL PRIMATO DEL DIRITTO UE SUL DIRITTO INTERNO


L’attitudine a produrre norme giuridiche direttamente efficaci negli ordinamenti degli Stati membri
differenzia il processo di integrazione europea da altre esperienze di cooperazione internazionale e
allontana l’UE dal modello delle classiche organizzazioni internazionali. La specificità del processo di
integrazione europea è data dalla sua rilevanza istituzionale, dall’aver dato luogo, cioè, ad un ordinamento
giuridico che, seppur derivato dagli Stati membri nel suo momento genetico, si è evoluto in via autonoma.
La previsione, da parte dei trattati istitutivi, di un sistema di fonti direttamente efficaci all’interno degli Stati
membri rappresenta la più importante manifestazione dell’autonoma rilevanza istituzionale
dell’ordinamento europeo, come sede di articolazione del processo di integrazione tra gli Stati membri.

La presenza, a livello europeo, di un autonomo sistema delle fonti incide sulle dinamiche di relazione tra
l’ordinamento dell’Unione e quello degli Stati membri e sulla tenuta dei classici modelli ricostruttivi delle
relazioni tra ordinamenti giuridici (monista e dualista). Essi, infatti, non possono essere applicati alla
disciplina di relazioni interordinamentali che presuppongono, come nel caso del rapporto tra fonti europee
e fonti nazionali, un processo di integrazione tra ordinamenti. Né il postulato dell’unità, intesa come
fusione in un’unità indistinta, tipico del monismo, né la premessa della separazione rigida tra ordinamenti,
propria del dualismo, sembrano infatti idonei a descrivere il complesso sistema di interazioni che
caratterizza la relazione tra fonti europee e fonti nazionali.

La capacità del diritto ue di disciplinare direttamente fattispecie interne agli stati non esclude tuttavia che
esista anche per l’ordinamento dell’unione un problema di rapporti con le legislazioni nazionali. Infatti i due
ordinamenti vivono in un rapporto di integrazione, che vede quello dell’unione avvalersi dell’ordinamento
degli sm per molti aspetti del suo funzionamento, con il risultato di un permanente potenziale conflitto tra
norme. Ciò è particolarmente evidente nel caso di rapporto tra norme europee e norme interne
contrastanti, risolto nella Dichiarazione n17 sul primato col principio della supremazia del diritto
dell’unione.

Accanto all’efficacia diretta infatti, l’altra fondamentale caratteristica delle fonti europee è la prevalenza, in
caso di contrasto, sulle norme di diritto interno. Il cd. primato del diritto europeo rappresenta in questo
senso, oltre che un criterio di risoluzione delle antinomie, un assai incisivo strumento di integrazione. La
Corte di giustizia ha riconosciuto tale nesso sin dalla sentenza Costa del 1964, affermando che se si fosse
ammessa la derogabilità del diritto comunitario da parte di norme interne successive, si sarebbe
determinata la sostanziale vanificazione degli obiettivi del processo di integrazione. La prevalenza
applicativa, peraltro, è ricostruita dalla Corte come corollario dell’efficacia diretta: come precisato dalla
Corte di giustizia nella successiva sentenza Simmenthal del 1978 infatti, «l’applicabilità diretta va intesa nel
senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme
in tutti gli Stati membri», dal momento che esse non si rivolgono solo allo Stato membro, ma pongono
direttamente diritti ed obblighi in capo ai singoli.

Il primato del diritto europeo non incide dunque sulla validità delle norme interne, ma riguarda la loro
applicazione: esso opera dunque anche come specifico strumento di tutela dei diritti riconosciuti ai singoli
dal diritto europeo. Tale principio non si fonda su di una prevalenza gerarchica, ma sulla considerazione
delle rispettive sfere di competenza e azione dell’unione e degli sm: pertanto gli atti legislativi nazionali che
invadono sfere di competenza ue sono privi di qualsiasi efficacia giuridica e qualsiasi giudice nazionale ha
l’obbligo di applicare il diritto ue disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge
interna, anche se successive (sentenza Simmenthal, 1978).

Analogamente al principio dell’efficacia diretta, pertanto questo principio non è contemplato nei trattati ma
è stato introdotto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. La CGUE ha sancito il principio del primato,
come visto, nella sentenza Costa contro Enel del 15 luglio 1964. In questa sentenza la Corte dichiara che il
diritto scaturito dalle istituzioni europee si integra negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, i quali
sono tenuti a rispettarlo. Il diritto europeo ha quindi il primato sui diritti nazionali. Ne consegue che se una
norma nazionale è contraria a una disposizione europea le autorità degli Stati membri sono tenute ad
applicare la disposizione europea e a disapplicare quella nazionale, senza necessità di sollevare questione di
legittimità costituzionale della norma interna. La via del sindacato di costituzionalità resta aperta in due
casi: qualora il contrasto sussista tra una norma interna e una norma comunitaria non direttamente
applicabile; qualora il contrasto investa i principi costituzionali supremi, tra cui rientra la tutela dei diritti
fondamentali.

Il primato del diritto europeo sui diritti nazionali è assoluto. Pertanto, ne beneficiano tutti gli atti europei di
carattere vincolante, di diritto sia primario che derivato. Tale principio vale inoltre nei confronti di qualsiasi
atto normativo nazionale di qualsiasi natura che sia stato emesso dal potere esecutivo o legislativo dello
Stato membro. Anche il potere giudiziario soggiace a questo: il diritto da esso prodotto, ossia la
giurisprudenza, deve pertanto rispettare il diritto comunitario. La Corte di giustizia ha inoltre stabilito che
anche le costituzioni nazionali vi sono soggette: il giudice nazionale è quindi tenuto a non applicare le
disposizioni costituzionali contrarie al diritto europeo.

Come per il principio dell'efficacia diretta, è la Corte di giustizia che controlla la corretta applicazione di tale
principio, condannando gli Stati membri che non lo rispettano con decisioni rese in base ai ricorsi previsti
dai trattati istitutivi, in particolare il ricorso per inadempimento. Anche il giudice nazionale è tenuto a far
rispettare il primato del diritto comunitario e in caso di dubbio può presentare un rinvio pregiudiziale. In
una sentenza del 19 giugno 1990 (Factortame), la Corte di giustizia ha stabilito infatti che il giudice
nazionale, nell'ambito di una questione pregiudiziale sulla validità di una norma nazionale, deve sospendere
immediatamente l'applicazione della norma in questione fino al momento in cui si pronuncia in esito alla
soluzione fornita dalla Corte.

In particolare, in Italia è l’art 11 della Costituzione (“l'Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati,
alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni;
promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”) che permette di accettare le
limitazioni di sovranità con legge ordinaria e che giustifica la supremazia delle norme europee sulle norme
nazionali contrastanti, anche successive.

Sono stati infine individuati alcuni «controlimiti» all’applicazione della regola del primato del diritto
dell’Unione, volti a bilanciare le esigenze di effettività del diritto comunitario con il rispetto dei diritti degli
individui e con il principio di certezza e stabilità delle situazioni giuridiche: il limite all’ingresso
nell’ordinamento nazionale di disposizioni comunitarie contrastanti con i diritti fondamentali ed i principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale, alla disapplicazione di provvedimenti amministrativi divenuti
definitivi, alla disapplicazione del giudicato e alla disapplicazione di norme penali contrastanti con il diritto
ue.

ADESIONE E RECESSO STATI MEMBRI

Fin dalle sue origini il processo di integrazione europea nasce con la vocazione di ampliarsi verso tutti gli
stati europei: è infatti passata da sei membri fondatori a 28. Tale vocazione si riflette nell’art 49 TUE, che
fissa la procedura per l’adesione di nuovi sm: ogni stato europeo che rispetti i valori di cui all’art 2 Tue e si
impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’unione. Le condizioni di adesione sono
dunque, oltre ad essere uno stato nel senso del diritto internazionale, l’appartenenza all’Europa e la
rispondenza ad una serie di requisiti politici collegati ai valori su cui essa è fondata. LA prima condizione è
geografica, elemento accompagnato (ad es nel caso della Turchia) da fattori storico-culturali. Invece i
requisiti politici possono riassumersi nella necessità che lo stato risponda ai criteri di democrazia e rispetto
dei diritti fondamentali della persona umana, ossia quando abbia raggiunto una stabilità istituzionale che
garantisca la democrazia, il principio di legalità, id diritti umani e la protezione delle minoranze. Il consiglio
europeo ha poi elaborato ulteriori criteri di ammissibilità, i criteri di Copenaghen del 1993, che aggiungono
la capacità di assumere e far fronte al complesso di obblighi connessi all’appartenenza all’Ue, al cosiddetto
acquis comunitario, e la presenza di un’economia di mercato funzionante e basata sulla libera concorrenza.

Il soddisfacimento di tutte le condizioni viene verificato durante la procedura di adesione, che si avvia con
la presentazione da parte dello stato della propria candidatura, sulla quale il consiglio chiede alla
commissione di esprimere un parere, per decidere sull’ammissibilità previa approvazione del parlamento.
In caso positivo si chiude la fase istituzionale della procedura e si apre quella del negoziato di adesione tra
gli sm e il paese candidato. Questa fase può essere preceduta da una preparazione alla candidatura per
quei paesi che ancora non possiedono tutti gli standard richiesti, ai quali l’ue offre il proprio sostegno
attraverso accordi bilaterali di stabilizzazione e associazione (es paesi dei Balcani). Tale processo continua
anche dopo la fase intergovernativa di negoziato, perché questa implica l’immediata destinetarietà in capo
allo sm di tutti gli obblighi derivanti dall’acquis comunitario, fatte salve eventuali eccezioni dovute a
deroghe transitorie previste dal trattato di adesione, e dunque non ha durata predeterminata. Il negoziato
con gli sm è diretto alla conclusione del trattato di adesione, che è poi posto alla firma di tutti gli sm ed
entra in vigore una volta ratificato da tutti secondo le norme nazionali. In un accordo ad esso allegato, l’atto
di adesione, sono definite le condizioni per l’ammissione e gli adattamenti dei trattati su cui è fondata l’ue,
il quale viene approvato dal parlamento.

L’adesione comporta, con l’acquisizione di status di membro dell’unione, la piena integrazione del nuovo
stato nel sistema istituzionale e giuridico di questa e l’applicazione del diritto ue sui suoi territori e su quelli
su cui esercita la propria giurisdizione. In assenza di una norma che lo consenta, i diritti discendenti dallo
status di sm non possono essere limitati o sospesi dagli altri sm o dalle istituzioni, con un’eccezione: l’art 7
TUE, in riferimento ai valori fondanti dell’ue, dà la possibilità all’unione di sospendere alcuni dei diritti di
uno sm che ponga in essere una violazione grave e persistente di tali valori. A tal proposito è prevista la
decisione del consiglio, presa a maggioranza dei 4/5 dei suoi membri su proposta motivata di un terzo degli
stessi o della commissione o del PE, previa sua approvazione, che constati l’esistenza di un evidente rischio
di violazione grave di quei valori. Prima di decidere il consiglio deve però inviare raccomandazioni allo stato:
se non le rispetta, la decisione spetta al consiglio europeo che vota all’unanimità. La gravità di tale
decisione spiega perché vi siano modalità decisionali assai gravose al riguardo. Ciò ha portato le istituzioni
coinvolte a introdurre dei meccanismi di dialogo con gli stati: in particolare la commissione, con una
comunicazione del 2014, ha istituito un procedimento preliminare all’esercizio del suo potere di proposta
ex art 7. Laddove una valutazione preliminare la porti a ritenere che vi sia una minaccia allo stato di diritto
in uno sm, perché sono minacciati l’ordinamento politico, istituzionale o giuridico, la struttura
costituzionale, la separazione dei poteri, l’indipendenza o l’imparzialità della magistratura o il sistema di
controllo giurisdizionale, può trasmettere un parere sullo stato di diritto, cui può far seguire una
raccomandazione formale, il cui mancato rispetto porta ad attivare i meccanismi dell’art 7.

Dopo Lisbona, è prevista anche la possibilità di recedere dall’ue. Prima infatti, sottolineando il carattere
permanente attribuito al processo di integrazione tramite la previsione della durata illimitata dei trattati,
questi non prevedevano l’ipotesi di uscita dall’unione di uno sm. Il silenzio però non comportava
l’impossibilità giuridica del recesso, consentito dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969
quando vi sia stato un mutamento fondamentale delle circostanze che hanno spinto lo sm ad aderire ad un
certo trattato o quando vi sia il consenso di tutte le parti di questo. Ad esempio era uscita la Groenlandia
dalle comunità europee, dopo aver acquisito nel 1979 un forte status di autonomia dalla Danimarca, anche
se in questo caso si trattava piuttosto di una modifica dell’ambito di applicazione territoriale del trattato.

Ora, con l’art 50 TUE, tale possibilità di recesso è diventata esplicita, nella forma di recesso unilaterale,
ossia a prescindere dal consenso degli altri sm. La prima fase si presenta come una procedura di recesso
negoziato: qualora uno sm notifichi al consiglio europeo l’intenzione di lasciare l’unione, si avvia un
negoziato con l’ue per la conclusione di un accordo volto a definire le modalità di recesso. Se questo ha
successo, il recesso diventa effettivo al momento dell’entrata in vigore dell’accordo; in mancanza di
accordo invece, lo stato perde comunque lo status di membro e i trattati cessano di applicarglisi dopo due
anni dalla notifica. Tale fase negoziale tiene conto delle inevitabili difficoltà che pone l’uscita da un sistema
giuridico e istituzionale così complesso ed integrato. Spetterà alla commissione condurre l’accordo da
negoziare, per via dei suoi contenuti generali, e questo sarà concluso dal consiglio previa approvazione del
PE. Il consiglio decide con una maggioranza rafforzata del 72% dei suoi membri, che rappresentino il 65%
della popolazione dell’unione, tra cui non è calcolato lo stato recedente. A parte l’esclusione dal voto, esso
rimane a pieno titolo membro dell’ue finché il recesso non diventa effettivo.

L’accodo di recesso è un accordo internazionale dell’unione, poiché è destinato ad avere effetto dal recesso
e quindi ad applicarsi a un paese terzo. Non può essere assimilato agli accordi di adesione in quanto deve
rimanere nei limiti di quanto previsto dai trattati e non può derogarvi, né deve essere confuso con un
eventuale accordo successivo tra unione ed ex sm. Mentre infatti il primo definisce solo le modalità di
recesso e le eventuali norme transitorie, gli altri accordi avranno la funzione più ampia di disciplinare il
nuovo rapporto. Se lo stato chiede di aderire nuovamente all’UE, tale richiesta è oggetto della procedura di
adesione. Nulla è detto sulla possibilità di revocare la notifica di recesso interrompendo così la procedura,
ma si ritiene possibile in quanto i trattati sono sempre orientati sull’idea di una permanenza del processo di
integrazione europea.

IL CONSIGLIO EUROPEO

Il consiglio europeo riunisce i capi di stato o di governo degli sm insieme al presidente della commissione.
Per composizione e funzioni, è l’istituzione a carattere più politico nel panorama istituzionale dell’unione.
L’art 15 par 1 Tue gli attribuisce una generale competenza a dare all’UE gli impulsi necessari al suo sviluppo
e a definirne gli orientamenti e le priorità politiche generali. Oltre a questo ruolo generale di indirizzo
politico, i trattati gli assegnano anche compiti più specifici, che riflettono anch’essi la sua natura politica. Gli
spettano infatti le decisioni istituzionali di maggiore sensibilità politica per la vita dell’unione: propone o
revoca le cariche più rilevanti (ad es la commissione e il suo presidente, l’alto rappresentante, il comitato
esecutivo della BCE), decide aspetti della composizione e del funzionamento di altre istituzioni, ha la
responsabilità in materia di revisione dei trattati, prende decisioni di rilievo per la membership dell’ue. In
due ipotesi il suo ruolo di indirizzo politico trova attuazione attraverso atti formali: all’art 22 Tue, che gli
affida il compito di individuare gli obiettivi strategici dell’unione nell’ambito della PESC, e all’art 68 Tfue, che
gli impone di definire gli orientamenti strategici della programmazione legislativa nello spazio di libertà,
sicurezza e giustizia.

L’art 15 esclude che svolga funzioni legislative, ma alcune sue attribuzioni comportano impatti sull’azione
legislativa delle istituzioni, come nella competenza prevista all’art 68 Tfue; svolge poi un ruolo di arbitraggio
politico sui dossier anche legislativi, se oggetto di contrasti che possono bloccare l’azione dell’ue. Alcune
espressioni di questo ruolo trovano una formalizzazione in disposizioni di trattati che gli affidano il col
compito di trovare tra gli sm l’accordo necessario a sbloccare una decisone o mediare tra la posizione della
maggioranza e quella di uno sm minorizzato. Ad esempio può essere investito del compito da 9 sm di
trovare un compromesso capace di ottenere il consenso di tutti i membri del consiglio, oppure da uno sm
che ritenga che una proposta di direttiva in materia di cooperazione giudiziaria penale o di diritto penale
incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento (cd freno di emergenza, che ricorre anche nel
settore della sicurezza sociale e nel quadro della Pesc). Inoltre esso spesso tende a svolgere il ruolo di
arbitraggio politico anche al di fuori di quanto previsto dai trattati e a discutere al suo livello dossier
legislativi indipendentemente dall’esistenza di un contrasto o meno in seno al consiglio, assumendo
direttamente l’iniziativa politica su questi.
Sul piano formale questi interventi hanno valore essenzialmente politico, non è quindi automatico che la
decisione del consiglio europeo trovi seguito a livello dell’ordinario processo decisionale, anche se nulla
esclude che la traduzione in regole tecniche del compromesso politico possa dar luogo ad ulteriori motivi di
contrasto tra sm, soprattutto quando il destinatario dell’intervento del consiglio europeo è il consiglio.
Quando invece l’intervento del consiglio europeo è fondato su una disposizione dei trattati, questa gli
ricollega talvolta conseguenze formali che si ripercuotono anche su altre istituzioni: ad es ai sensi dell’art 48
TFUE, il coinvolgimento del consiglio europeo da parte di uno stato che ritiene che una proposta nel quadro
della procedura legislativa ordinaria lede il suo sistema di sicurezza sociale, ha l’effetto di impedire il
proseguimento di una procedura decisionale di cui sono protagonisti anche il PE e la commissione.

Con l’inserimento tra le istituzioni elencate all’art 13 Tue, vede completare la sua parabola istituzionale
iniziata all’inizio degli anni ’60, quando i capi di governo degli allora sei sm iniziarono a riunirsi al di fuori dei
normali meccanismi della comunità. Divennero regolari con il vertice di Parigi del 1974 e furono riconosciuti
formalmente nell’AUE come istanza di cooperazione tra gli sm. Viene poi inquadrato nel contesto
dell’integrazione europea dal trattato di Maastricht, che ne fa l’organo che dà all’unione l’impulso
necessario al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici generali. L’acquisizione dello status di
istituzione o fa uscire dalla precedente ambiguità, ma resta distinto dal consiglio, il quale è composto dai
soli governi degli sm, mentre il consiglio europeo anche dal suo presidente e dal presidente della
commissione. Dunque la cerchia dei suoi membri è più ampia e, ferma restando la sua natura
intergovernativa, i capi di stato o di governo vi partecipano intuitu personae, o meglio officii. In passato
partecipavano alle sue riunioni anche i ministri degli affari esteri e un commissario, ora solo l’alto
rappresentante. La sua presidenza non è più assicurata dal capo di stato o di governo dello sm cui spetta
per rotazione la presidenza del consiglio, bensì da un presidente eletto dallo stesso consiglio europeo, a
maggioranza qualificata, per un mandato di 2 anni e mezzo rinnovabile una volta (coincide con la durata
quinquennale di parlamento e commissione). tale nomina è incompatibile con un mandato nazionale, ma
potrebbe astrattamente ricoprire tale carica il presidente della commissione. Al presidente spettano le
funzioni connesse alla preparazione e gestione dei lavori dell’istituzione: guida i dibattiti, facilita il
compromesso tra i membri, rappresenta l’istituzione dinanzi al PE e assicura la rappresentanza esterna
dell’unione per le materie relative alla Pesc, si sostituisce alla commissione nei compiti di preparazione di
iniziative legislative.

Si riunisce a Bruxelles due volte a semestre, ferma restando la possibilità di riunioni straordinarie. Prima di
Lisbona non erano previste le modalità di voto tramite le quali si formava la sua volontà, ma la regola era
che le deliberazioni fossero prese per consensus (senza obiezioni), poiché la loro efficacia non era affidata
ad un carattere formalmente vincolante delle stesse. Tale regola è rimasta anche dopo la qualificazione di
istituzione: si pronuncia per consenso, tranne nei casi in cui i trattati dispongono diversamente. Se adotta
atti formali, si applicano le modalità di votazione previste per il consiglio (a seconda dei casi unanimità,
maggioranza qualificata o semplice). In base all’art 235 Tfue, il suo presidente e il presidente della
commissione non partecipano al voto, pur essendo membri a pieno titolo, il che comporta in questi casi
l’assimilazione per composizione al consiglio. In passato non erano neppure previste le forme delle
deliberazioni di questo, ma ora gli è imposto lo strumento della decisione quando è chiamato a prendere
delibere formali in adempimento di una disposizione dei trattati, anche se le conclusioni della presidenza
appaiono ancora lo strumento ordinario di manifestazione della sua volontà. Infatti il consiglio europeo ha
perso il carattere di mera conferenza tra governi e il presidente esprime la volontà dell’istituzione. A
differenza degli atti formali, che possono avere effetti procedurali, esortativi o, nel caso di decisioni anche
vincolanti, le conclusioni sono prive di effetti giuridici formali.

GLI ATTI DI ESECUZIONE E LA COMITOLOGIA


L’art 291 Tfue disciplina l’attribuzione della competenza a prendere a livello dell’unione misure uniformi di
esecuzione di atti giuridicamente vincolanti, adottati o meno dalle istituzioni sulla base di una procedura
legislativa. La competenza di esecuzione spetta in linea generale alla commissione, con la sola eccezione del
settore della PESC, dove appartiene per espressa previsione al consiglio. Anche in altri settori però tale
compito può eccezionalmente essere affidato al consiglio, ma la decisione deve essere motivata in modo
circostanziato.

Quanto alla portata di tale competenza, la Corte ha affermato che l’istituzione delegata è autorizzata ad
adottare tutti i provvedimenti esecutivi necessari o utili per l’attuazione della disciplina di base, purché essi
non siano contrastanti con quest’ultima. Anche misure non espressamente previste dall’atto di base sono
legittime, quando il loro obiettivo concorda con l’obiettivo generale essenziale di tale atto. La competenza
di esecuzione della commissione è disposta dai trattati, ma il suo esercizio richiede di essere attivato da un
atto del consiglio o di questo e del PE: infatti l’attribuzione di una competenza di esecuzione è disposta
dallo stesso atto della cui esecuzione si tratta. Un regolamento da adottare secondo la procedura legislativa
ordinaria deve però fissare preventivamente le regole e i principi relativi alle modalità con cui gli sm
possono esercitare un controllo sull’operato della commissione: l’art 202 TCE affidava al consiglio il compito
di fissare in un apposito atto le norme su cui avrebbe dovuto basarsi la competenza di esecuzione della
commissione. Su questa base il consiglio aveva adottato con due successive decisioni (decisioni comitologia
dal francese comitè) la necessaria disciplina, la quale, nel prevedere che tale competenza potesse essere
subordinata alla consultazione di un comitato composto da rappresentanti degli sm, delineava anche i
differenti tipi e procedure di comitato che l’atto di base avrebbe potuto decidere di applicare a questo fine.
Alcune di queste riconoscevano un ruolo di ultima istanza, nel controllo sull’operato della commissione, al
consiglio e al parlamento.

Il regolamento 182/2011, con cui sono state adottate le regole sulle modalità di controllo da parte degli sm
dell’esercizio delle competenze di esecuzione da parte della commissione, disciplina ora la nuova
comitologia post-Lisbona. La maggiore novità è che esso riserva al PE e al consiglio unicamente la possibilità
di eccepire in qualsiasi momento l’eccesso di delega da parte di un progetto di atto di esecuzione. La
commissione in tal caso ha solo l’obbligo di riesaminare il progetto e informare le due istituzioni se intende
modificarlo, ritirarlo o mantenerlo (solo per atti adottati con la procedura legislativa ordinaria).

Il controllo degli sm invece rimane imperniato sul meccanismo delle procedure d’esame di comitato che
caratterizzavano la disciplina previgente. Un atto di base che preveda la necessità di condizioni uniformi di
esecuzione di alcune disposizioni può decidere che la commissione debba adottare i conseguenti atti di
esecuzione applicando una delle due procedure di comitato previste. La prima è la procedura consultiva, in
base alla quale la commissione deve sottoporre il progetto a un comitato e tenere in massima
considerazione le opinioni da questo espresse. L’altra, la procedura d’esame, si applica alle sole ipotesi
previste nel regolamento, e riconosce maggiore incisività all’intervento del comitato, chiamato a
pronunciare a maggioranza qualificata un parere che solo se positivo consente l’adozione dell’atto di
esecuzione. Se è negativo invece, l’atto non può essere adottato; se il comitato non riesce ad esprimere un
parere, la commissione può adottarlo solo a condizione che non riguardi alcune materie sensibili o se l’atto
di base non glielo vieta o non vi è la contrarietà di una maggioranza semplice del comitato. Nel caso di
parere negativo, la commissione può sottoporre un nuovo progetto al comitato entro due mesi, oppure
ripresentare quello bocciato ad un comitato di appello e se questo esprime a maggioranza qualificata un
parere positivo, l’atto può essere adottato. Questo è di analoga composizione degli altri e può essere
consultato anche in casi di urgenza, dopo l’adozione immediata dell’atto: se il parere è negativo l’atto verrà
abrogato.

RESPONSABILITA’ DEGLI SM IN VIOLAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO


Gli strumenti di tutela e i principi che informano l’azione della corte hanno trovato la massima espressione
nella affermazione del principio della responsabilità degli sm per omessa, incompleta o non corretta
esecuzione del diritto ue, richiamandosi al principio di leale cooperazione. Infatti sarebbe messa a
repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse
riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da
una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno sm. Ne consegue che il principio della
responsabilità dello sm per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario per danni a esso
imputabili è inerente al sistema del trattato e trova il suo fondamento anche nell’art 4 par 3 TUE. Tale
principio si è precisato con la successiva giurisprudenza sia quanto alla portata della responsabilità, sia alle
condizioni in presenza delle quali può sorgere e alle modalità della tutela.

In ordine al primo profilo, la corte ha dichiarato che il principio va applicato indipendentemente dalla
natura dell’organo che ha posto in essere l’azione o omissione, dunque la responsabilità può anche derivare
da fatti imputabili al legislatore nazionale e dalle prassi delle giurisdizioni nazionali che si pronuncino in via
definitiva. Pertanto è incompatibile con il diritto interno una normativa interna che limita la responsabilità
dei magistrati nei soli casi di dolo o colpa grave del giudice o addirittura la esclude, ove si tratti di un organo
giurisdizionale di ultimo grado, nel caso in cui la violazione derivi da un’interpretazione errata di norme
giuridiche dell’unione o da una valutazione dei fatti e delle prove operata da un organo giurisdizionale di
ultimo grado (sentenza traghetti del Mediterraneo, 2006).

Quanto invece alle condizioni per la sussistenza della responsabilità, la corte muove della premessa che la
tutela dei diritti attribuiti ai singoli non può variare in funzione della natura, nazionale o comunitaria,
dell’organo che ha causato il danno. Si deve tener conto anzitutto dei principi dell’ordinamento giuridico
dell’unione, e cioè l’obbligo di cooperazione e la piena efficacia delle norme ue e l’effettività della tutela dei
diritti. La corte richiede la sussistenza di tre condizioni: la norma dell’ue deve essere preordinata ad
attribuire diritti a favore dei singoli, deve trattarsi di una violazione grave e manifesta, deve esistere un
nesso di causalità tra violazione e danno. Tali condizioni sono necessarie e sufficienti, ma sono fatte salve le
eventuali condizioni meno restrittive previste dall’ordinamento nazionale in causa.

La verifica del nesso di causalità è interamente rimessa al giudice nazionale; quanto alla prima condizione si
ritiene che il diritto al risarcimento può nascere anche dalla violazione di norme direttamente applicabili;
per quanto riguarda la seconda la corte ha fornito alcuni elementi di valutazione, tra cui il grado di
chiarezza e precisione della norma ue violata, il carattere internazionale o meno della trasgressione, la
circostanza che la violazione possa essere indotta da comportamenti delle istituzioni, l’ampiezza del potere
discrezionale che la norma ue riserva alle autorità nazionali. Sotto questo ultimo profilo, la corte ha
precisato che la violazione può essere presunta quando lo sm era vincolato ad un preciso obbligo di
risultato, mentre deve essere accertata in concreto nei casi in cui godeva di un certo margine di
discrezionalità. In ogni caso la violazione è sicuramente grave e manifesta se continua dopo che una
sentenza della corte abbia già accertato che il contestato comportamento dello stato costituisce
inadempimento di obblighi comunitari oppure ove il giudice di ultima istanza non abbia osservato l’obbligo
di rinvio pregiudiziale.

Una volta accertata la violazione, dovrà poi farsi riferimento agli ordinamenti nazionali per individuare in
concreto le condizioni e le modalità delle azioni di danni, in base al principio dell’autonomia procedurale
degli ordinamenti degli sm. Tuttavia queste non devono essere meno favorevoli di quelle previste per gli
analoghi ricorsi riguardanti violazioni di norme interne e non deve essere reso eccessivamente difficile
ottenere il risarcimento dei danni subiti.

SENTENZA VAN GEND EN LOOS


Leading case della materia internazionale, il caso van Gend & Loos ha costituito il fondamento del principio
di efficacia diretta di alcune categorie di norme comunitarie, elevando l’allora Comunità Economica
Europea a un rango diverso da quello su cui si ponevano le comuni organizzazioni internazionali.

Occorre premettere infatti che le organizzazioni internazionali, nel rapporto con gli Stati aderenti, sono
caratterizzate dall’estraneità dei soggetti di diritto interno con riguardo alla vita di relazione internazionale
che si crea nell’organizzazione, fintanto che quella relazione internazionale non si traduce in un comando
giuridico di diritto interno, attraverso un fenomeno giuridico che prende il nome di adattamento.
Conseguentemente, le persone fisiche o giuridiche appartengono unicamente all’ordinamento interno, e
non costituiscono, per l’ordinamento internazionale, centri di imputazione di posizioni giuridiche soggettive
attive e passive, di cui invece sono titolari gli Stati membri e le stesse organizzazioni.

Il caso verteva sulla società Van Gend & Loos, la quale, in seguito all’importazione nei Paesi Bassi di una
partita di una vernice collante di pannelli in legno proveniente dalla Germania, ha contestato, innanzi
all’ufficio olandese per la materia fiscale ‘Tariefcommissie’, la maggiorazione, operata dall’amministrazione
olandese delle imposte, del dazio di importazione per quella categoria di prodotti. Tale aumento costituiva,
secondo la società, una violazione dell’art. 12 del Trattato CEE, il quale stabiliva che gli Stati membri si
dovessero astenere dall’aumentare i dazi doganali all’importazione ed esportazione applicati nei loro
reciproci rapporti commerciali. Ritenendo che si trattasse di una questione vertente sull’interpretazione dei
Trattati, la Tariefcommissie ha sospeso il giudizio e ha rivolto alla Corte di Giustizia una richiesta diretta ad
ottenere che fossero risolte in via pregiudiziale alcune questioni: se l’articolo 12 del Trattato CEE avesse
effetto interno, ovvero, se i cittadini degli Stati membri potessero trarre direttamente da detto articolo dei
diritti che il giudice era tenuto a tutelare; in caso affermativo, se l’applicazione del dazio costituisse un
aumento illecito ai sensi dell’articolo 12 del Trattato CEE.

Secondo la corte, come rilevato anche dalla Commissione, la circostanza che una norma comunitaria sia,
formalmente, diretta agli Stati, non costituisce motivo sufficiente per negare ai singoli che vi abbiano
interesse la facoltà di chiederne l’osservanza ai giudici nazionali. Il citato art. 12 costituirebbe infatti una
norma completa, autonoma, chiara e incondizionata; pertanto rispondente a quelle caratteristiche che
configurano la capacità di una norma di esplicare in concreto effetti diretti, nel senso di creare per i singoli
situazioni giuridiche soggettive che possano essere invocate davanti ad un giudice nazionale.

L’importanza del caso Van Gend & Loos risiede proprio nell’aver definito le cd. norme dotate di effetto
diretto verticale, atte a produrre direttamente degli effetti sui rapporti giuridici intercorrenti fra gli Stati
membri ed i loro soggetti interni, distinguibili invece dalle norme dotate di cd. effetto diretto orizzontale,
relative ai rapporti tra privati, generalmente non ammesse salvo alcune pronunce della Corte di Giustizia.

Punto focale della sentenza risiede nell’enunciazione della Corte per cui “Il Trattato CEE va al di là di un
accordo che si limiti a creare degli obblighi reciproci fra gli Stati contraenti. La Comunità costituisce un
ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati
hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come
soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini. Pertanto il diritto comunitario,
indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli
degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi”.

L’Unione Europea costituisce così un “tertium genus” nel campo del diritto internazionale, proprio per
caratteri di partecipazione e di interazione con i soggetti che la contraddistinguono con riguardo ad altre
organizzazioni internazionali. È proprio questa sentenza a delinearne i tratti di originalità: la presenza di
organi investiti istituzionalmente di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti sia degli Stati membri che dei
loro cittadini; la partecipazione dei cittadini al funzionamento della Comunità e alla formazione delle sue
norme attraverso il Parlamento Europeo; l’esistenza di una Corte di Giustizia volta ad assicurare l’uniforme
applicazione del diritto comunitario da parte dei giudici nazionali; il riconoscimento a questo diritto di
un’autorità tale da poter essere fatto valere dai cittadini davanti a detti giudici.

Sono in tal modo sconfessate le tendenze dei primi commentatori a vedere nel diritto comunitario poco più
che una branca di quel diritto internazionale che ne funge da fondamento.

RAPPORTI UE E CEDU

Le Comunità europee furono in origine create come organizzazione internazionale con un ambito di
intervento essenzialmente economico. Non si era quindi avvertita la necessità di norme esplicite in materia
di rispetto dei diritti fondamentali, che per molto tempo non erano menzionati nei trattati, sebbene fossero
comunque considerati garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU) del 1950, firmata e adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa. Nel 1977,
Parlamento, Consiglio e Commissione avevano sottoscritto un accordo interistituzionale attraverso il quale
si impegnavano a garantire i diritti tutelati dalla CEDU nello svolgimento delle proprie funzioni,
caratterizzato da un valore non vincolante, ma importante per l’auto-limitazione che rappresenta, nonché
primo segnale in questa direzione dalle istituzioni politiche della CE. Solamente però con il Trattato di
Maastricht, nel 1992, la CEDU è stata riconosciuta in un trattato, con l’affermazione che l'Unione rispetta i
diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo
e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni
costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario.

Il rispetto dei principi in essa sanciti è affidato ad un organo giurisdizionale ad hoc, la corte europea dei
diritti dell’uomo di Strasburgo. Il sindacato, che la Corte europea dei diritti dell'uomo esercita ai sensi
dell’articolo 35 della Convenzione, "si fonda sull’ipotesi, oggetto dell’articolo 13 della Convenzione, che
l’ordine giuridico interno offra un ricorso effettivo quanto alla violazione lamentata, in modo che il
meccanismo instaurato dalla Convenzione continui a rivestire un carattere sussidiario in rapporto ai sistemi
nazionali di garanzia dei diritti dell’uomo. Tuttavia, le disposizioni dell’articolo 35 della Convenzione
prescrivono che i ricorsi interni siano inerenti alle violazioni lamentate, che siano disponibili e che siano
adeguati: essi devono rivestire un grado sufficiente di certezza non soltanto in teoria ma anche in pratica,
perché in caso contrario mancherebbero dell’effettività e dell’accessibilità necessarie.

Il trattato di Lisbona ha previsto all’art 6 TUE l’adesione dell’ue alla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sottolineando che tale adesione non modifica
le competenze dell'Unione definite nei trattati. Essa era in principio tuttavia di non facile realizzazione, in
quanto la stessa corte, nel parere 2/94, sostenne che sulla base del principio di attribuzione, la UE non
avesse competenza a aderire alla CEDU. Ciò anche perché un simile sviluppo avrebbe comportato un
significativo mutamento di regime in materia di tutela dei diritti fondamentali. Vi sono dunque degli
ostacoli: manca una disposizione che autorizzi la CE a aderire; l’UE non ha personalità giuridica autonoma, il
sistema CEDU è precluso ad organizzazioni internazionali. Il Trattato di Lisbona risolve il problema: l’UE
acquista personalità giuridica (art. 47 TUE); l’art. 6.2 TUE prevede una disposizione che obbliga le istituzioni
UE a procedere all’adesione; l’entrata in vigore del Protocollo 14 CEDU segna la riforma dell’art. 59: è
inserito un paragrafo 2, che prevede la possibilità di adesione per l’UE. L’adesione verrà formalmente
deliberata con decisione del Consiglio europeo adottata all’unanimità. In ogni caso, il Trattato di adesione
dovrà essere ratificato da tutte le parti della CEDU (art. 47 CEDU) e da tutti gli Stati membri UE (art. 218
TFUE).

La CEDU fissa standard minimi, dai quali gli Stati e l’UE possono discostarsi per assicurare una tutela
maggiore. Secondo l’art. 52. della Carta dei diritti fondamentali dell’ue, adottata a Nizza nel 2000, qualora i
diritti tutelati dalla Carta coincidano con previsioni della CEDU, la portata delle disposizioni dell’atto UE ed il
loro significato sono gli stessi previsti dalla Convenzione (principio di equivalenza). L’art. 53 della Carta
invece stabilisce che nessuna disposizione di questa deve essere interpretata in maniera da comportare un
livello di tutela deteriore rispetto a quello riconosciuto in trattati internazionali, nella CEDU e nelle
costituzioni nazionali (clausola di compatibilità).

A livello nazionale il sistema delle fonti del diritto è dunque attualmente caratterizzato dalla compresenza di
tre sistemi di salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo (il sistema costituzionale nazionale, il sistema
CEDU, il sistema UE), ciascuno con un proprio organo giurisdizionale di vertice (Corte costituzionale, Corte
europea dei diritti dell’uomo, Corte di giustizia dell’Unione Europea) che garantisce un accesso effettivo alla
tutela.

LA DECISIONE

La decisione è il terzo degli atti normativi tipici elencati all’art 288 TFUE, il quale la definisce come
obbligatoria in tutti i suoi elementi. Fino al trattato di Lisbona essa era considerata obbligatoria solo per i
destinatari designati, mentre dopo solamente se designa i destinatari la decisione è obbligatoria solo nei
confronti di questi: è un atto ambivalente, suscettibile di avere a seconda dei casi portata individuale,
generale o indefinita. La decisione nasce nel sistema originario dei trattati come un atto a portata
individuale, perché chiamato a svolgere al suo interno una funzione precisa, in quanto espressione di
un’attività amministrativa dell’ue. Questa è ancora oggi la sua vocazione principale, dal momento che è lo
strumento per mezzo del quale le istituzioni comunemente provvedono ad applicare al caso concreto le
previsioni normative astratte contenute nei trattati o in altri atti dell’ue, sia se i destinatari sono i privati, sia
se sono gli sm. Si tratta di un atto a portata individuale come la direttiva, ma a differenza di questa non ha
destinatari predeterminati e può rivolgersi a tutte le categorie di soggetti del diritto ue, nonché è dotata
dell’efficacia necessaria a raggiungere i suoi destinatari: vincolandoli pur essendo soggetti interni agli sm,
risulta dotata di efficacia diretta al pari dei regolamenti, fino a costituire, nel caso in cui imponga obblighi
pecuniari, titolo esecutivo da far valere negli sm attraverso le procedure nazionali. Anche le decisioni
indirizzate agli sm possono esplicare effetti diretti nell’ordinamento nazionale, in quanto il loro carattere
obbligatorio si impone a tutti gli organi dello stato destinatario. Le disposizioni di una decisione del consiglio
hanno efficacia immediata nei rapporti tra sm e singoli, in quanto producono nei confronti di questi diritti
che i giudici nazionali hanno il dovere di tutelare, se l’obbligo imposto agli sm è assoluto e sufficientemente
preciso. La corte ha però escluso la possibilità di ricavarne effetti diretti orizzontali, dunque le loro norme
non possono essere fatte valere nei confronti di un singolo, imponendogli obblighi.

Ferma restando la loro vocazione ad essere usate come strumento di un’azione amministrativa, spesso
sono utilizzate in chiave più normativa, ad esempio con l’adozione di decisioni indirizzate a tutti gli sm, con
cui si specificava la disciplina di dettaglio di procedure previste in un regolamento o direttiva. Più
frequentemente si è fatto uso di direttive costruite come atti generali, quando si tentava di assumere
disposizioni non destinate ad esplicare efficacia negli ordinamenti degli sm, perché rivolte alle istituzioni o
agli sm in quanto attori della vita istituzionale dell’ue. Prima del trattato di Lisbona, decisioni di questo tipo
sono diventate la regola per l’adempimento di compiti strutturali o la regolazione di questioni istituzionali o
ancora per la disciplina di aspetti generali di funzionamento del sistema. Tanto che in questi casi i trattati
hanno previsto la loro adozione mediante procedure decisionali tipiche degli atti normativi generali quali la
procedura di codecisione. Gli attuali trattati considerano la decisione come strumento normativo generale,
anzi in alcuni casi è l’unico strumento a disposizione delle istituzioni: ad esempio la fissazione delle
formazioni del consiglio o gli atti formali del consiglio europeo.

LE COMPETENZE DELLA COMMISSIONE


La commissione gioca un ruolo essenziale nel sistema istituzionale dell’unione, in quanto svolge funzioni in
pressoché tutti i settori di attività dell’UE, ad eccezione della PESC. In primo luogo le spetta un ruolo
determinante nell’attività normativa dell’unione, che si esprime nella partecipazione alla formazione degli
atti di consiglio e PE e nell’adozione di atti normativi propri. La partecipazione alle decisioni altri è
conseguenza diretta del potere di iniziativa legislativa che i trattati riconoscono in via esclusiva alla
commissione. Infatti tale potere non solo condiziona l’avvio del procedimento di un atto, ma anche lo
svolgimento, visto che in base all’art 293 Tfue il consiglio non può discostarsi dalla proposta della
commissione se non votando all’unanimità. Inoltre la commissione può modificare in ogni momento la sua
proposta, svolgendo così un ruolo attivo nello stesso negoziato in seno al consiglio, dato che essa può
contribuire al formarsi di una maggioranza qualificata. Altrettanto importante è il suo potere normativo
diretto: anche se i trattati glielo attribuiscono in casi estremamente limitati, essa ne finisce per disporre in
maniera molto più ampia per via della delega da parte di consiglio e PE alla commissione di emanare misure
generali di attuazione o integrazione dei loro atti.

In secondo luogo i trattati le attribuiscono un potere generale di esecuzione del diritto, che è chiamata ad
esercitare sul piano dell’applicazione amministrativa degli atti ue, subordinata a una delega di PE e
consiglio, sia su quello della vigilanza rispetto alla corretta osservanza delle norme dell’unione da parte dei
destinatari. Tale secondo compito si concretizza nel potere di portare dinanzi alla corte uno sm
inadempiente e di sanzionare direttamente i comportamenti contrari al diritto ue di privati e sm.

In terzo luogo le spetta la rappresentanza dell’unione sulla scena internazionale nei settori diversi della
PESC, sia sotto il profilo della negoziazione degli accordi con stati terzi, che dell’azione dell’ue negli
organismi da questi creati. La somma di tali competenze finisce per darle una responsabilità determinante
nell’orientare l’azione legislativa dell’unione, in quanto svolge un ruolo di impulso e indirizzo dell’attività
normativa di questa. Tutto ciò ne fa un organismo senza precedenti né uguali: è un organo politico che si
pone come motore del processo di integrazione europea.

Il ruolo da questa svolto nel sistema istituzionale spiega perché venga definita dai trattati come garante e
espressione dell’interesse generale dell’ue (art 17 TUE), insieme al parlamento. Essa è un organo di
individui, visto che i suoi membri non sono formalmente rappresentanti dello sm di cui hanno la
cittadinanza, ma sono membri a titolo personale. Dal punto di vista formale esercitano le proprie funzioni in
piena indipendenza e dovrebbero essere scelti unicamente in base alla loro competenza generale e al loro
impegno europeo e alle garanzie di indipendenza che offrono, requisiti della valutazione politica delle
istituzioni che presiedono alla loro nomina. La procedura di nomina della commissione era in origine
identica per tutti i membri, tanto che il presidente era designato tra loro successivamente, e la nomina era
di spettanza esclusiva dei governi degli sm che vi procedevano con una decisione presa di comune accordo.
Ora la procedura è di carattere istituzionale, è stata separata la nomina del presidente e nella procedura ha
assunto un ruolo di rilievo il PE. Essa si articola in tre fasi: nella prima si designa il presidente, il cui nome
deve essere proposto a maggioranza qualificata dal consiglio europeo al parlamento, che deve eleggerlo a
maggioranza, altrimenti il consiglio europeo dovrà ripresentare una proposta entro un mese. LA seconda
fase è diretta all’individuazione degli altri membri: spetta al consiglio in accordo con il presidente adottarne
l’elenco sulla base delle proposte presentate dagli sm. Con la terza fase infine la intera commissione si
sottopone all’approvazione del PE, per poi essere nominata a maggioranza qualificata dal consiglio
europeo. Il parlamento ha mirato a caricare di significati politici l’investitura parlamentare della
commissione, formalizzando ad esempio la pratica di procedere ad audizioni pubbliche dei candidati e
imponendo la necessità di un collegamento diretto tra presidente della commissione e la maggioranza
politica affermatasi alle elezioni europee.

Essa è composta da 28 membri, inclusi presidente ed alto rappresentante, che rimangono in carica per 5
anni, in modo da stabilire un collegamento con la legislatura del parlamento; il loro numero corrisponde a
quello degli sm, anche se vi sono stati alcuni tentativi di giungere ad una composizione più ristretta. A parte
l’ipotesi di decesso, la cessazione anticipata del mandato può aversi per dimissioni volontarie o d’ufficio,
decide dalla corte su istanza del consiglio o della commissione, quando un membro non risponda più ai
requisiti richiesti o abbia commesso una colpa grave. Sono assimilabili alle dimissioni d’ufficio anche quelle
rassegnate su richiesta del presidente, che sono un atto dovuto. La cessazione anticipata del mandato può
riguardare anche l’intera commissione: ciò può derivare dall’approvazione di una mozione di censura da
pare del PE o da una decisone volontariamente assunta dal collegio dei commissari. In questo caso, a
differenza che nelle dimissioni individuali, la commissione rimane in carica fino alla sua sostituzione per
assicurare la gestione degli affari correnti. In caso di cessazione anticipata di un singolo membro, l’art 246
prevede una procedura diversa per la nomina del successore a seconda che si tratti di un qualsiasi
commissario o l’alto rappresentante o il presidente. Nel primo caso vi provvede il consiglio a maggioranza
qualificata, ma di comune accordo con il presidente e previa consultazione del parlamento. Nel secondo
caso si applica la procedura per la nomina del nuovo presidente o del nuovo alto rappresentante.

La commissione ha sede a Bruxelles; il presidente gode di una posizione autonoma e preminente rispetto
agli altri membri, in quanto decide la distribuzione dei portafogli, definisce gli orientamenti nel cui quadro
la commissione esercita i suoi compiti, ne decide l’organizzazione interna e ne nomina i vicepresidenti
(l’alto rappresentante lo è di diritto). Gli altri membri operano sulla base delle deleghe conferite loro dal
presidente ed esercitano le loro funzioni sotto la sua autorità; a ciascun commissario fanno capo direzioni
generali a competenza settoriale. Le decisioni devono comunque essere approvate dal collegio nella sua
interezza, il quale delibera a maggioranza dei suoi membri: il funzionamento della commissione è infatti
ispirato al principio di collegialità, che implica che tutti i membri abbiano lo stesso peso e siano
collettivamente responsabili delle decisioni prese.

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