“Italiano popolare” pare oggi a molti una categoria obsoleta, o comunque fossi-
lizzata, che continua ad essere rappresentata nelle ricerche di sociolinguistica
italiana più per forza d’inerzia che per reale importanza, ma non ha certamente
più il ruolo di uno dei cardini del dibattito negli studi di linguistica italiana che
aveva negli anni ’70 e ’80. Ci si può domandare se tale ridimensionamento, od
obsolescenza, siano dovuti a una normale questione di avvicendamento delle
tematiche che vengono preferenzialmente focalizzate in periodi successivi nello
sviluppo di discipline come la linguistica, seguendo anche i dettami del tempo, la
temperie socioculturale generale e, perché no, le mode;1 ovvero corrispondano ad
una reale sopravvalutazione della nozione al momento del suo ingresso sulla
scena, corretta ora, col passare del tempo e il diminuire dell’attenzione epidermi-
ca, e col cumularsi degli studi, da una più oggettiva collocazione piuttosto ai
margini del panorama delle varietà dell’italiano.
È comunque pacifico che l’italiano popolare sia stato uno degli oggetti di in-
dagine più praticati e dibattuti nella linguistica italiana fra l’inizio degli anni ’70
e la prima metà degli anni ’90; mentre il tema ha poi perso molto della sua attua-
lità, rimanendo per lo più confinato a studi sulle scritture di illetterati o sugli usi
linguistici in ambiente di emigrazione. Le ragioni del successo della categoria
“italiano popolare” negli anni Settanta sono certamente da ricondurre alle pro-
spettive portate in primo piano negli studi linguistici dalla sociolinguistica, che
proprio in quegli anni faceva il suo pieno ingresso nella ricerca italiana: l’italiano
popolare è un’entità tipicamente e macroscopicamente sociolinguistica, che può
essere identificata e compresa come tale solo ponendosi nell’ottica delle strette
correlazioni e interazioni fra lingua e fattori sociali.
Il depotenziamento, per così dire, della nozione di italiano popolare negli ul-
timi due decenni si è appoggiato su due trafile argomentative diverse. Da un lato,
si è sostenuto che non esistono (quasi) più italofoni, parlanti italiani, che siano
utenti tipici dell’italiano popolare; dall’altro, che i tratti linguistici attribuiti
1 La rilevanza di fatti di moda e ‘di mercato culturale’ (e non meramente di ragioni di sviluppo
interno della disciplina) quanto all’alternarsi di correnti, modelli, idee, categorie e spiegazioni in
linguistica meriterebbe di essere fatta oggetto di studi specifici, che per ora mancano.
278 Gaetano Berruto
Va notato, peraltro, che la categoria di italiano popolare era tutt’altro che esente
da problemi già proprio nel momento del suo massimo successo, come ben era
emerso dalle discussioni presto avviatesi sulla sua portata e sulla sua definizione:
dalla stessa denominazione (con la polisemia e i potenziali equivoci connessi alla
qualificazione “popolare”), alla collocazione della varietà nell’architettura
dell’italiano, ai tratti linguistici che la caratterizzerebbero. Fra le molte definizio-
ni che ne sono state date dai vari autori che se ne sono occupati, un minimo co-
mun denominatore può essere individuato nel configurarsi come varietà
dell’italiano propria di parlanti con scarso grado di istruzione3 e prevalentemente
dialettofoni: quindi, si tratterebbe della (gamma di) varietà bassa sull’asse della
dimensione sociale.
La questione del parlare dialetto è molto rilevante per comprendere il ridi-
mensionamento dell’italiano popolare. È ampiamente nota la diminuzione della
dialettofonia avvenuta negli ultimi decenni (per considerazioni riassuntive sul
2 Questo punto non fa che riprendere una discussione già ben viva negli anni Settanta circa la
peculiarità dei tratti linguistici identificativi dell’italiano popolare, e la loro collocazione
nell’architettura della lingua: chi la riteneva una varietà diastratica; chi una varietà diafasica, un
registro; chi una generica varietà bassa, informale, non curata, dell’italiano (cf. discussione in
Berruto 2012, 127-133).
3 Cf. la sintesi in D’Achille (2003, 205; significativamente, nel capitolo dal titolo “Le varietà
scritte”): l’italiano popolare è “una varietà di italiano utilizzato sia nel parlato sia anche nello
scritto da una categoria particolare di parlanti, diastraticamente caratterizzati dal loro basso gra-
do di istruzione”; D’Agostino (2007, 125) intitola “L’italiano popolare (o dei semicolti)” il pa-
ragrafo dedicato alla nozione.
Esiste ancora l’italiano popolare? 279
fenomeno, cf. fra gli altri D’Agostino 2007, 175-186), con forti differenze gene-
razionali e relegazione della prevalente dialettofonia alle classi d’età anziane; e
questo non può non aver determinato una netta riduzione della fascia di parlanti
di italiano popolare. Lo stesso effetto, di ‘sommersione’ dell’italiano popolare,
ha naturalmente l’aumento progressivo del grado medio d’istruzione.
Una correlazione importante, connessa con quanto appena detto, è che oggi
dunque più di ieri l’italiano popolare appare tipico, se non esclusivo, di parlanti
anziani. Mocciaro (2011, 322-323), in uno dei pochissimi contributi dedicati
specificamente al tema della persistenza dell’italiano popolare parlato nel pano-
rama sociolinguistico attuale, si basa sui dati raccolti in un’indagine di sociolin-
guistica urbana a Catania (Mocciaro 2009) per constatare che “la presenza di
questa varietà si rivela ancora massiccia soprattutto nelle produzioni di soggetti
anziani di basso livello di istruzione”; “i suoi utenti, oltre ad avere un basso livel-
lo di istruzione ed avere il dialetto come L1, appartengono anche alle classi di età
più anziane”. Questa è la chiara fisionomia del parlante italiano popolare, oggi.
Si tratta dunque di una varietà diastratica destinata presumibilmente a scomparire
gradatamente venendo via via meno i suoi parlanti, in una specie di processo di
morte linguistica di una varietà di lingua, fenomeno certamente di per sé molto
interessante e dai connotati sinora non studiati. Ma che è ancora significativa-
mente presente nella realtà odierna.
La netta connotazione generazionale che risulta avere l’italiano popolare non
esclude del tutto, peraltro, che sia ancora possibile trovare presenza di italiano
popolare, come presumibile varietà di transizione (cf. Berruto 2012, 134-135),
presso bambini. Ancora in una parte dei materiali riportati in Ruffino (2006, 137-
265), che ha raccolto opinioni sul concetto di dialetto scritte da allievi della scuo-
la elementare di tutta Italia, emerge infatti sporadicamente l’italiano popolare – e
in particolare presso il campione meridionale, il che potrebbe introdurre un’altra
tematica rilevante che non vogliamo toccare qui. Un paio di esempi (Ruffino
2006, 214-215 e 249):
(1) Caro dirrettore eugenio scalfari, noi abbiamo ricevuto la vostra letera cioè
la vostra sincerità. Io sono un bambino di 10 anni parlo in Italiano. Sono un
bambino della 4D. Io nella mia famiglia parliamo in Italiano solo che in ca-
sa certe volte vengono i miei nonni usiamo avvolte la lingua indialetto. An-
che io miei genitori avvolte parliamo lingua indialetta [...]
(2) la differenza voglio italiano e bello indialetto brutto mipiace andare in chie-
sa cantare italiano per chè bello indialetto e brutto.
D’altra parte, è anche giusto caratterizzare l’italiano popolare come “italiano dei
semicolti” (D’Achille 1994, 2010): la veste in cui la lingua italiana è comune-
mente adoperata da parlanti dotati di un basso grado di istruzione, poco più che
280 Gaetano Berruto
analfabeti. In quanto tale, è ovvio che sia particolarmente visibile negli usi scritti,
vale a dire gli usi in cui vengono specialmente in primo piano tratti che in una
corrispondente formulazione orale sarebbero del tutto inosservati, anzi invisibili
(cf. sotto), ma emergono alla luce appunto quando si tratti della realizzazione
scritta della lingua. Questa non è, ovviamente, spontanea ed è frutto di appren-
dimento della varietà standardizzata, che richiede la conoscenza di norme sociali
quali in primis la correttezza grafica. In un modello pluridimensionale dell’ar-
chitettura dell’italiano quale quello proposto in Berruto (2012, 24 [1987, 21]) il
cosiddetto ‘italiano popolare’ rappresenta quindi la tipica varietà all’estremità
inferiore dell’asse verticale della dimensione diastratica, la varietà diastratica
bassa par excellence.
Tale caratterizzazione fondamentale non sembra essere sempre colta con il
giusto rilievo dai linguisti che lavorano sull’italiano contemporaneo. Renzi
(2012, 168) criticando la nozione sostiene per esempio che “l’aggettivo «popolare»
ha lo svantaggio di suggerire una caratterizzazione sociale che non è sempre
pertinente”. In realtà, come abbiamo visto, è proprio questa caratterizzazione che
si vuole indicare, e che è necessaria per identificare la varietà e comprenderne la
natura. Ed è invece quella che viene mancata se si imposta il problema senza
tener debito conto della duplice faccia di ogni varietà di una lingua (che è per
definizione costituita da una serie di caratteri linguistici in concomitanza con una
serie di caratteri sociali), e si definisce una varietà basandosi solo sui tratti lin-
guistici. Violando un postulato preliminare della sociolinguistica, si perde la
valutazione complessiva del tipo di varietà di lingua.
C’è però da dire a questo punto che la categoria di “popolare” come qualifi-
cazione associata al nome di una lingua specifica per indicarne una particolare
varietà (sociale) non pare godere oggi di buona nomea nemmeno al di fuori
dell’italianistica. La nozione di français populaire, per es., è stata sottoposta a
critiche convergenti. Gadet (2003, 109 e 113) dopo aver constatato che già un
primo approccio sociolinguistico porta a “douter de la possibilité d’existence
d’un objet «français populaire»”, conclude la sua disamina della nozione soste-
nendo che “«français populaire» apparaît comme un terme classant, un classifi-
cateur, qui ne peut se débarrasser de sa fonction déclassante; ce n’est pas une
catégorie en usage chez les locuteurs, et, pour les linguistes ce n’est ni un object
ni un concept”.4 Abecassis (2003, 127-128), dopo aver delineato lo spostamento
4 Mi pare evidente, in questo giudizio così drastico, la presenza di una certa pregiudiziale ideolo-
gica che imputa alla nozione (e all’aggettivo ‘popolare’) una sorta di discriminazione sociale
frutto di un approccio prescrittivo, e vuole denunciare la stigmatizzazione che con essa si attri-
buirebbe agli strati sociali inferiori, subalterni. Sotto l’entità français populaire peraltro Gadet
intende anche cose un po’ eterogenee, comprendendovi per es. le varietà vernacolari sub-
standard e la lingua dei giovani.
Esiste ancora l’italiano popolare? 281
del concetto (nato per designare la varietà di francese del basso ceto urbano pari-
gino) da una “social distinction” (diastratia) a una “stylistic distinction” (diafasia),
conclude che “the notion of français populaire no longer corresponds to a parti-
cular socio-economic group but still survives as relic forms in everybody’s lin-
guistic repertoire”.5
D’altro lato, non si può nemmeno negare una certa specificità italiana
nell’equazione “popolare” = diastratico basso. Nei lavori di F. Gadet, e negli altri
lavori in tema della linguistica francese, français populaire si presenta piuttosto
come termine generico, inteso a qualificare le varietà sub-standard (basse, de-
vianti dallo standard in diastratia e/o diafasia).6 La netta caratterizzazione dia-
stratica che il concetto ha solitamente in Italia sarà da ascrivere soprattutto
all’influenza della prospettiva introdotta da De Mauro (1963; 1970).7
Occorre inoltre aggiungere che la qualificazione popolare riferita a una lin-
gua, o meglio a una varietà di lingua, sembra una particolarità della linguistica
romanza (cf. Gadet 2003, 106). Il termine è comune per l’italiano e per il france-
se (langage populaire, Bauche 1920; français populaire, Guiraud 1965, Gadet
1992) ed è acclimatato anche in spagnolo, sia pure preferibilmente sotto la forma
vulgar: Giovannini (2010), dopo aver documentato l’uso presso diversi autori di
habla vulgar, habla popular, español vulgar, castellano vulgar ecc. (ibid., 31-32),
utilizza decisamente español popular per designare la varietà di lingua presente
nelle scritture di semicolti (nel caso esaminato dall’autrice, le agende di mano di
un contadino della Mancia fra il 1969 e il 1979).8
Volkstümlich, ‘popolaresco’, è sì usato come categoria abbastanza corrente
nei dizionari tedeschi per indicare forme sub-standard, e Coseriu (1988 [1981],
5 Non è affatto chiaro che cosa si intenda con l’ultima asserzione, che il francese popolare so-
pravvivrebbe in termini di relic forms nei repertori individuali.
6 Il dizionario Dubois et al. (1979, 223), rappresentante della prospettiva francofona in linguistica,
sotto la voce popolare non lasciava a suo tempo però dubbi sulla caratterizzazione diastratica:
“nella dialettologia sociale, l’aggettivo popolare [...] caratterizza ogni tratto o sistema linguisti-
co escluso dall’uso degli strati sociali colti e aristocratici e che [...] si riferisce alle particolarità
della parlata utilizzata dagli strati meno elevati della popolazione”.
7 Il valore italiano del termine sembra quindi una specializzazione. È da notare tuttavia che
Alisova (1965), anch’essa agli albori della problematica, caratterizzava italiano popolare in
termini diafasici, come “lingua (moderna) parlata”, “linguaggio colloquiale” (cf. Berruto 2012,
127). È dunque costante l’ambiguità serpeggiante, nella nostra nozione, fra una caratterizzazione
come socioletto e una come registro o come generica varietà sub-standard.
8 Giovannini (2010) trova nel suo materiale lo stesso genere di fenomeni studiati per l’italiano
popolare. La dimensione interlinguistica romanza della fenomenologia trova esemplificazione
in Ferrier (2002), che rintraccia gli stessi tratti “popolari” tipici così nel francese (influenzato dal
patois provenzale) delle lettere scritte nel periodo della Grande Guerra dai genitori di un giovane
pragelatese come nell’italiano (influenzato dal francese) delle lettere scrittegli dai coetanei.
282 Gaetano Berruto
25) parla en passant di volkstümliche Sprache per designare (accanto alla geho-
bene Sprache e alla Sprache der Mittelschicht) una delle “synstratische Einheiten
oder Sprachniveaus”, cioè delle varietà marcate in diastratia; ma non mi risulta
che sia usuale parlare di un volkstümliches Deutsch (né ho mai sentito né letto
italiano popolare tradotto presso autori tedeschi come volkstümliches Italie-
nisch).9 E mi sembrerebbe del tutto improbabile per l’inglese folk English o po-
pular English. Per vari aspetti, in conclusione, il termine e la nozione di popola-
re riferiti a una varietà di lingua o a un tratto linguistico sembrano oggi poco
popolari fra i linguisti.
Ora, si tratta di una categoria davvero obsoleta, di una creatura dalla breve stagione
nella storia della ricerca linguistica sull’italiano? Partiamo da un’osservazione di
D’Achille (2010, 725), che nota giustamente che “sarebbe difficile individuare
oggi testi che presentano [...] deviazioni dalla norma come quelle sopra descritte”
[sc. tipiche dell’italiano popolare], ma aggiunge che “l’assenza di testi contem-
poranei in italiano popolare potrebbe però essere solo apparente”. Infatti, anche
solo a un’osservazione casuale e sporadica, produzioni linguistiche in italiano
popolare si possono incontrare in molti angoli della vita quotidiana.
Se prendiamo per esempio un prodotto testuale autentico come il seguente
(un appunto su un foglietto, scritto in grafia incerta da una collaboratrice familia-
re italofona illetterata nel marzo 2012),
(3) a telefonato litrauligo della minitratore telefona stasera per prendere una
putamento,
9 Glück (1993, 684) riporta a lemma Volkssprache, “lingua del popolo”, definita però in un modo
che rende poco chiaro che cosa si intenda: rispetto ai dialetti, che “beschränken sich nicht selten
auf die unteren sozialen Schichten”, le Volkssprachen “erstrecken sich oft über alle gesell-
schaftl.[ichen] Schichten”.
10 “La mancata percezione dei confini delle parole [...]; la difficoltà nella resa delle doppie [...],
spesso scempiate [...] e la semplificazione dei nessi consonantici [...]; la presenza di errori di or-
tografia, soprattutto in alcuni punti critici del sistema, come la <h>, omessa [...]; la scarsa e im-
propria utilizzazione dei segni paragrafematici [...].” (D’Achille 2010, 725)
Esiste ancora l’italiano popolare? 283
11 Giustamente Sanga (2011, 99) sostiene che “l’italiano popolare è una lingua parlata, e mantiene
questa sua natura anche quando viene scritto, perché lo si scrive come si parla; […] non è una
lingua scritta, ma una lingua «trascritta»”.
12 Potremmo citare fra gli altri: Felici (2000), Bussi (2002), Amenta (2004), Assenza (2004),
Hans-Bianchi (2005), Cantoni (2007), Sala / Massariello Merzagora (2008), Vanelli (2009),
Cordin (2010), Ruffino (in stampa) (bilancio storico più ampio in D’Achille 2008). Sandro
Bianconi, che ha già portato molti contributi di rilievo agli studi nel settore, ha recentemente
pubblicato un lavoro complessivo sulla scrittura popolare nella Svizzera italiana (Bianconi
2013).
284 Gaetano Berruto
(4) [...] e che avessi preferito che i soldi passassero dalle mie mani, mà mentre
gli amici mi dicevano di farci un condatto in modo che fossivo stati voi ha
provvedere ha tutto: nel mentre abbiam questi trattativi e con il presente
mezzo si perde tempo, ha questa Ditta ci si presenta un certo C. A. di S. al
titolare della Ditta di nome Carlino dicendocci che lui era la persona giusta
al cui si devono rivolgere di tutto, sensa bisogno di da nessuna parte, e che
aveva bisogno di fare lavorare mezzi meccanici: ha questo punto quello si è
preoccupato di questo A., e subito cercò accui lui si era rivolto [...].
(5) E poi ci dici che i catanesi non hanno rispettato i patti, ragion per cui i lavo-
ri ci sono andati mali, e lui non può mantenere l’impegni, mà vuole essere
riconoscende per una ricompenza del passato, e per l’avvenire vuole ha una
14 La consapevolezza di tale uso è confermata dai giudizi dei parlanti. Dei 25 giovani (17-27 anni),
con grado di istruzione elevato, di cui Sogni (2004) analizza le conversazioni intergenerazionali
con 15 anziani (70-90 anni), 20 rispondono “sì” alla domanda “Usi un linguaggio speciale con
loro [gli anziani di famiglia]?”. Fra le motivazioni della scelta: 11 “perché mi viene spontaneo”,
4 “per farlo sentire a suo agio”, 4 “perché altrimenti non capisce”.
286 Gaetano Berruto
Non c’è più spazio, se non per un vago accenno finale, per discutere il secondo
problema relativo all’italiano popolare. Si tratta di un problema veramente aperto,
fintantoché non esisteranno analisi dettagliate di ampi corpora anche di parlato
di italofoni non istruiti: i tratti diagnostici. Quali tratti sociolinguisticamente
marcati della struttura linguistica si ritrovano solo, o con soverchiante prevalen-
za, presso parlanti non colti aventi come lingua materna il dialetto? È innegabile
che con il progredire della ricerca e delle conoscenze e l’infittirsi di indagini
specifiche su corpora il catalogo di tratti morfosintattici da ritenere diagnostico
per l’italiano popolare si è andato assottigliando. Di alcuni tratti considerati esclusi-
vi dell’italiano popolare, e quindi tali da caratterizzare senza ambiguità la varietà,
le indagini dell’ultimo ventennio hanno infatti mostrato la presenza anche in
varietà diafasiche non sorvegliate di parlanti colti: è il caso per es. delle sovrae-
stensioni dei pronomi clitici ci al valore dativale di terza persona (cf. Alfonzetti
2002, 131, almeno per l’italiano di Sicilia) e le dativale a forma anche per il
maschile (cf. Berruto 2012, 114), o della costruzione della proposizione relativa
introdotta dal solo che generalizzato anche per funzioni sintattiche diverse dal
soggetto e dall’oggetto (l’unica cosa che ho paura sono gli specchietti retrovisori,
Alfonzetti 2002, 110).
Esiste ancora l’italiano popolare? 287
Tuttavia non mi sembra che siano state portate evidenze empiriche effettive,
contro il carattere diagnostico per le varietà diastratiche basse, per almeno quat-
tro dei sei tratti morfosintattici, sui sedici provvisoriamente elencati in Berruto
(2012, 140-141 [1987, 119-121]) come tipici dell’italiano popolare (in maniera
forte, per presumibile assenza in altre varietà, o in maniera più debole, per mag-
giore presenza nelle varietà diastratiche basse), che consideravo esclusivi. Si
tratta della costruzione del periodo ipotetico con condizionale (o congiuntivo) sia
nella protasi che nell’apodosi, degli scambi di ausiliari (essere al posto di avere o
avere al posto di essere),15 della sovraestensione e regolarizzazione semplificante
di desinenze nominali (per nomi di uso comune), della sovraestensione e regola-
rizzazione semplificante delle forme dell’articolo determinativo.
Circa i due tratti rimanenti, sembra possano essere attestati casi di realizza-
zione di tema sospeso senza ripresa pronominale (anacoluti) prodotti da parlanti
colti, anche se non ho esempi sottomano;16 mentre la questione delle sovraesten-
sioni e scambi di preposizioni è resa complicata dalla contemporanea diversa
marcatezza diatopica: nel complesso, mi pare ora rappresentare un fenomeno
presumibilmente più sensibilmente marcato per diatopia che non per diastratia
(cf. Cerruti 2009, 96-102).
Aggiungerei ora al pacchetto di tratti diagnostici in diastratia almeno anche il
cosiddetto doppio complementatore, in casi come quando che, siccome che, dove
che (Berruto 2009).17
Ora, è significativo che nessuno di questi tratti sia considerato in Lepschy
(2002) e in Renzi (2012), che sostengono, grosso modo, che i tratti attribuiti
all’italiano popolare in realtà sono tratti generalmente del parlato colloquiale
odierno. C’è in effetti qua un potenziale equivoco di fondo: che i tratti dell’italiano
popolare siano fondamentalmente i tratti genericamente sub-standard, presenti
come tali in tutte le varietà parlate spontanee e non sorvegliate di lingua (cf. Renzi
2012, 167, molto chiaro in proposito). I sostenitori e i detrattori dell’esistenza
dell’italiano popolare si riferiscono però, in realtà, a cose diverse, in termini di
tratti linguistici presi in considerazione. Ma nell’italiano popolare ci sono sì,
15 Che non siano i pochi casi, naturalmente, in cui l’incertezza dell’ausiliazione, o la possibilità di
doppia ausiliazione, è presente nello standard (per es. in verbi come rimbalzare, o nei verbi meteo-
rologici).
16 Un caso come per es. in Alfonzetti (2002, 110) io quello che ho paura è che mio figlio muore
d’infarto non è un controesempio effettivo a tale generalizzazione, in quanto si tratta di un pro-
nome soggetto estraposto dalla frase sintatticamente coesa quello che io ho paura.
17 Sanga (2011, 101-102) indica l’“accumulo di congiunzioni” fra i numerosi casi della sua lista
riassuntiva di tratti dell’italiano popolare che “sono ormai entrati stabilmente nell’italiano col-
loquiale”, ma mette insieme nell’esemplificazione fatti nettamente distinti come quando che,
mentre che, come che da un lato e ma però dall’altro.
288 Gaetano Berruto
ovviamente, i più tipici tratti sub-standard, ma ci sono anche tratti specifici18 che
certo non si trovano – al contrario di quanto sostiene Renzi (2012, 168) – presso
“tutti i parlanti, indipendentemente dallo stato sociale”.
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18 La lista aumenterebbe di molto qualora si tenesse conto dei regionalismi e dialettismi molto
marcati, che qui abbiamo escluso dal novero, e che si riscontrano per lo più solo, appunto,
nell’italiano regionale popolare, dei parlanti incolti o semicolti.
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290 Gaetano Berruto