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2.1.

ISSUES E OPPORTUNIT
DELLA DISINTERMEDIAZIONE CULTURALE

Il 30 settembre 2018, nel silenzio assoluto dei media genera-


listi, ma con l’aperta ostilità della stampa specializzata, riaprì
a Roma il Museo Comunale d’Arte Contemporanea, il MA-
CRO.
Nei mesi precedenti, la struttura di Via Nizza era stata
colpita da una grave crisi di identità, che l’aveva portata a
ridursi a poco più di uno spazio che il Comune affittava ad
agenzie private per l’organizzazione di grandi mostre. Da or-
mai parecchi anni le grandi esposizioni circolano per l’Eu-
ropa e per il mondo come in vere e proprie tournée, proprio
come le rockstar. Si affitta uno spazio sufficientemente ampio
e funzionale (come fosse un palazzetto o uno stadio), si “suo-
na” la mostra per un certo periodo, si riscuotono determinati
incassi, con cui si coprono le spese, tra cui l’affitto, e si otten-
gono i meritati profitti. Al termine del periodo, con l’aiuto
di un’organizzazione logistica efficiente, si levano le tende e
pochi giorni dopo la mostra è nuovamente allestita in un’al-
tra città.
Ormai è la regola. Può infatti capitare a chiunque di
chiedere a un amico: “Vieni alla mostra di Frida Kahlo al
PalaExpo?”, e di ottenere in risposta: “Grazie, l’ho già vista
alla Triennale di Milano. Vacci, vale la pena”. Più o meno
come con Bruce Springsteen.
In netta controtendenza rispetto al suo recente passato, e ai
principali spazi istituzionali della città, il MACRO, in quello
strano autunno, decise di imboccare una strada completa-
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mente diversa. Anzitutto, fino alla fine del 2019 si sarebbe


chiamato “Macro Asilo”, e avrebbe offerto l’ingresso gratu-
ito. Ma soprattutto non ci sarebbero più state le mostre: al
loro posto una miriade di eventi, performance, workshop,
incontri, residenze di artisti (aperte al pubblico), che avreb-
bero animato un calendario popolato senza una vera e pro-
pria intermediazione curatoriale. Il nuovo direttore Giorgio
de Finis decise di farne uno spazio pubblico a disposizione
degli artisti e dei cittadini, in cui questi ultimi avrebbero de-
ciso da soli i propri percorsi attraverso un programma molto
eterogeneo e in continua evoluzione. Un raro esperimento
su larga scala di unframing dell’offerta artistica e culturale.
“Il compito principale del sistema dell’arte è quello di far
sparire l’arte”, dice lo stesso de Finis1 senza troppi giri di pa-
role. Non so se dirmi completamente d’accordo. Di sicuro
il suo Macro Asilo, partito in sordina e poi cresciuto fino a
rappresentare un’esperienza senza precedenti per accessibili-
tà, innovazione e diversità di contenuti2, è stata la reazione
più sorprendente della città all’idea di fare dell’arte un bu-
siness quasi immobiliare. Il tutto senza un preciso modello
economico: gli artisti e gli intellettuali che lo hanno animato
in quei 15 mesi hanno partecipato a titolo volontaristico, o
comunque per promuovere le loro opere. Del resto, il risicato
budget a disposizione dello staff era appena sufficiente per
rispettare i requisiti del progetto, e cioè gli stipendi del per-
sonale e le spese di manutenzione della struttura. Ma quello
che ha avuto luogo a Roma in quei giorni è stata comunque

1 Intervento di Giorgio de Finis all’incontro pubblico “Il futuro dei Musei”,


Macro Asilo 21.12.2019
2 L’archivio del progetto Macro Asilo, dove è possibile accedere a una ricca
documentazione multimediale degli eventi in programma, è liberamente ac-
cessibile dal sito www.macroasilo.it
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un’esperienza straordinaria. Un po’ come negli anni d’oro


dell’Estate Romana di Renato Nicolini, ci è stato ricordato
cosa è possibile restituire alla città avvicinando i cittadini alla
cultura, se torniamo a considerarla un bene comune da pro-
muovere attraverso spazi pubblici.
È lecito domandarsi, a questo punto, che cosa abbia a che
vedere questa vicenda museale con tutti i discorsi relativi
all’ecosistema mediatico che abbiamo affrontato fino ad ora.
Il nodo centrale è, ancora una volta, il ruolo dell’intermedia-
tore.
Abbiamo già chiarito come nel mondo dell’informazione,
di questa figura (il giornalista o il direttore del quotidiano
che decide l’apertura e ci guida attraverso i fatti realmente
rilevanti della giornata) ci sia un grande bisogno. Purtroppo
però, per quanto nominalmente esista ancora, non è più que-
sto tipo di funzione a garantire la sostenibilità economica
dell’industria dei media.
Con l’arte e la cultura non è molto diverso. Nessuno nega
l’importanza dei curatori d’arte o più in generale degli in-
termediatori culturali, figure in grado di orientarci verso ciò
che ha realmente un valore universale o comunque un senso
per ciascuno di noi. Il punto è che i vincoli economici che
tengono in piedi il “sistema dell’arte”, per usare le parole
di de Finis, introducono fattori di distorsione che hanno
completamente snaturato questo mestiere.
Oggi un mediatore culturale di successo è troppo spesso
un omologatore, e cioè chi riesce a convincere grandi masse
di persone ad affollarsi intorno a pochi, grandi “eventi”, che
devono dominare la scena. La metafora dell’interminabile
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coda per andare a vedere la mostra di Raffaello3 alle Scuderie


del Quirinale è, in questo senso, potentissima. È il disagio
stesso della coda a indicare il successo del grande evento, e
quindi la sua stessa sostenibilità economica. Poco importa
la sua insostenibilità ambientale o sanitaria (se pensiamo al
Covid-19, ma non solo). Poco importa la sua insostenibilità
sociale e culturale, e cioè se avremo centinaia di migliaia di
cittadini che hanno fatto, sostanzialmente, “la stessa cosa”
con il principale scopo di poter condividere un argomento
da salotto. Quello che conta è che si sia riusciti a ripagare gli
ingenti investimenti necessari per la promozione del grande
evento attraverso folle di persone disposte a pagare il bigliet-
to d’ingresso.
Se proviamo a immaginare l’intermediatore culturale an-
che come chi facilita percorsi individuali in una offerta ete-
rogenea o – se non chiedo troppo – un soggetto in grado di
incentivare la scoperta e la diversità all’interno di un oceano
di offerte e di esperienze, scopriamo una dura realtà: nessuna
di queste soft skill è oggi al centro delle fonti di ricavi dell’in-
dustria culturale. Queste competenze, che pure abbondano
specie tra i giovani curatori, sono scientificamente relegate ai
margini. E la ragione è sempre più evidente: l’esplorazione di
un “sistema dell’arte” alternativo, in grado di mettere a valore
la scoperta e la diversità, potrebbe mettere in crisi uno sta-

3 Occorre a questo proposito ricordare che tutti i giorni, a Roma, è possibi-


le ammirare gratuitamente alcune straordinarie opere di Raffaello, e anche
visitare la sua tomba al Pantheon. Questo vale naturalmente per molti altri
grandi artisti. Può sembrare superfluo, ma molto spesso il successo di opera-
zioni curatoriali estremamente costose come la grande mostra alle Scuderie
del Quirinale si fondano sulla mancata conoscenza dei percorsi che struttu-
ralmente le nostre grandi città d’arte sarebbero in grado di proporre. http://
www.artfiller.it/artisti/raffaello/roma/
ISSUES E OPPORTUNIT DELLA DISINTERMEDIAZIONE CULTURALE 103

tus quo di pratiche e professionalità immutabili, protetto da


decenni in una specie di Fort Apache. Un fortino impegnato
tutto il tempo a proclamare la sua insostituibilità, e a respin-
gere gli assalti e le istanze dei giovani artisti e operatori della
cultura che avrebbero tutti i mezzi e tutte le capacità (non
sempre, però, la volontà necessaria) per percorrere strade al-
ternative.
Tutto questo per dire, a scanso di equivoci, che dall’espe-
rimento del Macro Asilo non dobbiamo trarre la conclu-
sione che l’arte e la cultura non debbano produrre profitti.
L’”invenzione” di de Finis era più il frutto della frattura aper-
tasi in città che il possibile approdo a un modello praticabile
in una prospettiva futura4. Ma proprio quell’esperimento ha
permesso di renderci conto, nella ricerca di nuovi criteri re-
munerativi, di tutto il valore che, in un sistema prigioniero
dell’omologazione, stiamo letteralmente buttando alle or-
tiche. Ci siamo anche resi conto di tutto quello che stiamo
sprecando: la scoperta, l’esplorazione, la diversità, il senso
individuale che un contenuto può avere per ciascuno di noi.
Secondo Jeffrey Schnapp, fondatore del Metalab dell’Uni-
versità di Harvard e pioniere delle Digital Humanities5, la
metafora dell’evoluzione museale – dal percorso fisso im-
posto dall’alto ai percorsi multipli frutto di una esperienza
partecipativa – mostra tutta l’obsolescenza della persisten-
te pretesa generalizzata di imporre una grand narrative
intrisa di significati universali6. Ma ancora più superata è

4 Per spiegare la relazione tra l’operazione Macro Asilo e la crisi di Roma nei
primi anni duemila, provai a scrivere un post su Medium. https://medium.
com/@antoniopavolini/la-questione-macroasilo-non-riguarda-solo-lar-
te-%C3%A8-un-po-pi%C3%B9-complicata-di-cos%C3%AC-f88c5d42440e
5 https://it.wikipedia.org/wiki/Informatica_umanistica
6 http://jeffreyschnapp.com/2019/11/25/logics-of-exhibition/
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l’idea di poter ricomprendere l’esperienza museale all’inter-


no di una “visita” i cui termini sono dettati da un soggetto
astratto, indiscutibile, che ne sancisce i vincoli spazio-tem-
porali, l’inizio e la fine. Un museo, e persino l’idea stessa del-
la mostra, genera infatti nel nostro intimo una infinita serie
di by-products, di prodotti di risulta. E potremo considerarlo
un successo se per giorni, settimane, saremo portati ad ap-
profondirli, percorrendo strade, offline e online, che nessun
curatore può pensare di immaginare. Del resto, se il maggio-
re investimento razionale (ma anche economico) che erava-
mo soliti compiere all’uscita da una mostra era l’acquisto del
catalogo, oggi ben prima di allontanarci dalle opere abbiamo
già raccolto molte informazioni, a volte attraverso materiali
gratuiti disposti a corredo dell’opera – una pratica sempre
più comune – ma più spesso fotografando l’opera o la stessa
didascalia per ulteriori indagini future. Esiste persino una
applicazione, Google Lens, che, fotografando un qualsiasi
luogo o oggetto, ci restituisce subito tutte le informazioni
necessarie per scoprirne “la dimensione documentata”, ov-
viamente online.
Ebbene, tutte le volte che compiamo questo gesto, vale a
dire raccogliere dati dal mondo “degli atomi” per poi ap-
profondire in rete, stiamo facendo qualcosa di rivoluzio-
nario, che investe una prospettiva ben più ampia di quella
strettamente museale. Stiamo infatti invertendo il flusso su
cui è costruito l’intero modello industriale di fruizione
dei contenuti, la cui regola è che ci sia sempre una piatta-
forma mediatica (e mai l’esplorazione diretta della realtà) a
stabilire cosa è rilevante per noi.
Questa pratica, apparentemente innocua, è dirompen-
te non solo perché contempla una visione del futuro com-
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pletamente ignorata dai modelli attualmente in vigore, ma


anche e soprattutto perché, nell’immediato, ci permette di
riprendere il controllo della nostra dieta di contenuti. Non
si tratta in alcun modo di un ridimensionamento di internet
nella nostra vita, anzi, è l’esatto contrario: stiamo dando a in-
ternet l’opportunità di arricchire le nostre esperienze in uno
spazio libero, senza recinti, dove tornare a coltivare i nostri
reali interessi.
Sostenere, come ancora in molti osservatori fanno, che in
questo modo finiremo solo per assecondare i nostri bassi
istinti, le nostre convinzioni pregresse, precludendoci ogni
scoperta e ogni nuova prospettiva, significa negare allo spa-
zio fisico la capacità di incuriosirci e di sorprenderci. E que-
sto, per fortuna, non è mai accaduto. Attraverso l’esplorazio-
ne spaziale possiamo non solo scoprire qualcosa di nuovo,
ma è proprio ciò che scopriamo che può farci cambiare dire-
zione e modo di pensare. La presenza di un soggetto inter-
mediatore può essere utile per fornirci una contestualizza-
zione, una visione d’insieme, o anche favorire le condizioni
per una discussione informata. Ma non può costituire l’alibi
per occupare tutto il nostro spazio di manovra, fino ad abi-
tuarci a rinunciarvi del tutto, esattamente come accade nei
recinti chiusi delle piattaforme online.
Interpellato su questo tema durante un recente workshop7,
lo stesso Schnapp ha usato parole molto nette:
Il curatore deve diventare un coordinatore e un manager di risorse,
sia fisiche sia digitali. Per quota parte, questa skill sarà progressiva-
mente richiesta in tutti i ruoli degli operatori culturali, dalle funzio-
ni più operative fino allo stesso direttore del Museo. Tutti dovranno

7 Jeffrey Schnapp, “Il museo in movimento: tecnologia, innovazione e valo-


rizzazione dei beni culturali”, 17 aprile 2020
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ragionare in rete. Tutti dovranno capire dove i vincoli della nar-


razione, della conservazione (come quelli della sovrintendenza) o
autoriali (come i diritti d’autore) devono lasciare lo spazio alla fru-
ibilità dell’opera e delle sue stratificazioni. Inoltre, il pubblico deve
partecipare ai processi stessi di creazione e diffusione della cultura.
Occorre rompere i giardini murati, gli hortus conclusus, ma nel farlo
è necessario avere una strategia, avere chiaro dove vogliamo anda-
re. La tecnologia da sola non offre tutte le soluzioni. Sembra un
paradosso, ma la risposta è nel sollevare domande, problemi, nello
sviluppare lo spirito critico.

Osservando l’attuale dibattito sul tema della crisi degli in-


termediatori culturali, si ha però la sensazione che le paro-
le di Schnapp sulla capacità di “ripensare il proprio lavoro
in rete” siano destinate a rimanere lettera morta. Quando
partecipai nel 2018 al Festival del Giornalismo Culturale di
Fano, Pesaro e Urbino mi resi conto che vi fosse una gran
varietà di idee molto qualificate su come reagire alla crisi. Ma
puntualmente, anche i ragionamenti dei relatori più prepara-
ti sembravano partire dall’assunto che fosse proprio la rete la
causa stessa di questa crisi, e con questa premessa non si può
andare molto lontano.
Nel suo affascinante “The Game”8 Alessandro Baricco
sembra andare oltre questa visione. La sua tesi è che sia stata
la cultura ingegneristica di chi ha guidato lo sviluppo della
rete ad aver eliminato di fatto ogni prospettiva umanistica,
e persino la nostra stessa capacità di approfondire, ciò che
rende del tutto inutile la figura del mediatore culturale. Se
l’accesso alla conoscenza, pur democraticizzata all’estremo,
diventa una mera esperienza ludica, che ci appaga con una
rapida sequenza di soddisfazioni effimere, non siamo più in-

8 https://www.einaudi.it/catalogo-libri/problemi-contemporanei/the-ga-
me-alessandro-baricco-9788806235550/
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teressati ad alcun pensiero strutturato, e quindi, in definitiva,


alla cultura tradizionalmente intesa.
Verrebbe da chiedersi dove si trovasse Baricco quando la
televisione, trasfigurando la realtà, aveva già ampiamente
gamificato l’informazione, la cultura e purtroppo anche la
politica9. Rifiutando il tecnodeterminismo, Baricco compie
sicuramente un passo avanti nell’analisi del problema. Ma
prima di prendersela con l’assenza di cultura umanistica di
un manipolo di ingegneri californiani di razza bianca, e con
il loro leader indiscusso, e cioè Steve Jobs10, io mi sarei po-
sto un’altra domanda. Che cos’era la Rete prima dell’i-Phone,
prima di Facebook e di tutti i “giocattoloni” social che hanno
avviato questa colossale operazione di distrazione di massa?
Era esattamente l’opposto di ciò che è ora: non era un luo-
go dove si viene continuamente investiti di notifiche, infor-
mazioni non richieste, o comunque suggerite, dall’alto. Non
era il regno di quella relazione guidata tra utenti e contenu-
ti, che gli esperti chiamano discovery. Prima di tutto questo
Internet era il regno del search, e cioè di un luogo dove le
persone decidevano da sole i loro percorsi di navigazione,
attraverso strumenti che richiedevano l’attivazione di pro-
cessi neurologici propri degli utenti, a cominciare dal breve
momento, molto analogico, in cui decidiamo, a ogni bivio,
che strada prendere e perché. Guidati dalla nostra curiosità,

9 Del resto a Baricco va riconosciuto il merito di avere invitato un gruppo di


esperti a discutere i passaggi più controversi di “The Game” in un interessan-
te, ulteriore volume sempre edito da Einaudi: “The Game Unplugged”. https://
www.einaudi.it/catalogo-libri/problemi-contemporanei/the-game-unplug-
ged-9788806242534/
10 In un passaggio di “The Game” Baricco individua il punto di non ritorno
del processo di gamification con l’introduzione del primo iPhone da parte di
Apple, il 29 Giugno 2007.
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e non da un algoritmo. Tutto quello che è stato deciso dopo,


il business fondato sull’engagement e la conseguente ricon-
versione di internet verso il modello di una “televisione solo
un po’ più sofisticata”, non ha niente a che vedere con una
cultura ingegneristica. Un ingegnere bianco era infatti anche
Vinton Cerf, che con il protocollo TCP/IP inventò una inter-
net aperta e interoperabile, ponendo poi le premesse per il
World Wide Web di un altro ingegnere bianco, Tim Berners
Lee. Dopo di loro, peraltro, intervennero grandi esponenti
della cultura umanistica a provare a guidarne gli sviluppi. Fu
un giurista, Lawrence Lessig, a impegnarsi più di ogni altro
nel tentativo di finalizzarne l’uso, attraverso processi di go-
vernance pubblica, verso l’obiettivo della massima diffusione
della conoscenza, fino a offrire una alternativa, con i Creative
Commons11, alla nozione tradizionale di diritto d’autore. Fu
un filosofo, David Wineberger, insieme agli altri autori del
primo Cluetrain Manifesto12, a cercare di indirizzare il rap-
porto della rete con i mercati nella direzione di uno sviluppo
democratico della società umana.
So di trovarmi in netta minoranza con questa afferma-
zione, ma sotto questo aspetto Steve Jobs fu esattamente il
contrario di un leader del processo di sviluppo della Rete.
Semmai, fu il primo a capire come addomesticarla e trasfor-
marla in un gigantesco business per i suoi prodotti di elettro-
nica di consumo, che erano tra l’altro di gran lunga – all’epo-
ca – i migliori del mercato. Per riuscire nell’impresa, invece
di favorire una crescita della Open Internet, lanciò un’ancora
di salvezza ai tradizionalissimi fornitori di contenuti. Le sue

11 https://creativecommons.org/
12 Il ClueTrain Manifesto originale del 1999 può essere liberamente consulta-
to qui: https://www.cluetrain.com/
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piattaforme chiuse, come furono iTunes, iOS ed Apple TV,


offrirono all’industria dei contenuti, prima a quella discogra-
fica e del software, successivamente a quella delle major cine-
matografiche e televisive, l’opportunità di tornare a generare
profitti. Rileggendo tutta la sua storia a posteriori, non so se
Jobs avesse una chiara visione del futuro della rete. Di sicuro
aveva molto chiaro un business plan per i suoi prodotti, di
cui una certa evoluzione (o involuzione) della rete costituiva
una premessa necessaria.
Detto in poche parole, i padroni dell’industria come Jobs,
Zuckerberg e Bezos riscrissero i modelli economici, limi-
tandosi a rielaborare i circuiti chiusi delle catene edito-
riali preesistenti in una versione tecnologicamente più
efficiente. Un algoritmo avrebbe svolto gran parte del lavoro
di intermediazione, prendendo il posto delle brillantissime
e umanistiche teste pensanti impegnate per anni a stabili-
re come avremmo dovuto impiegare il nostro tempo libero.
Sarebbe stato tutto molto più veloce, economico e automa-
tico, ma le nostre menti avrebbero continuato a pascolare in
recinti fissati da altri. Altri soggetti, sempre però in grado di
stabilire cosa è rilevante per noi.
Se i decisori dell’industria appaiono completamente inerti
rispetto a questo apparentemente ineluttabile destino, dob-
biamo ancora una volta ringraziare il mondo dell’arte per of-
frirci suggestioni e prospettive diverse, che per il momento ci
arrivano soprattutto attraverso forti segnali di ribellione nei
confronti dell’attuale status quo.
La vicenda di Adam Szymczyk, che curò nel 2017 la con-
troversa quattordicesima edizione di Documenta, la più
importante manifestazione europea d’arte contemporanea,
è a questo proposito emblematica. Per la prima volta l’esibi-
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zione non si svolse solo nella sua città d’elezione, Kassel in


Germania, ma anche ad Atene, con l’eloquente titolo Learning
from Athens. Atene fu scelta come interlocutore della città te-
desca perché rappresenta plasticamente l’inadeguatezza de-
gli schemi economici e finanziari rispetto al valore culturale
inteso nella sua forma più pura. Ma anche, al contempo, una
città che costituisce un avamposto europeo nel cuore della
crisi dei rifugiati, frutto anch’essa di uno scollamento cultu-
rale: quello verificatosi in un mare, il mediterraneo, non più
culla della civiltà e degli scambi, ma ormai ridotto a costitu-
ire una nuova cortina di ferro, un muro naturale tra popoli
decisi a non parlarsi per ragioni essenzialmente economiche.
Con Documenta14, elevata da grande mostra a vera e pro-
pria piattaforma vivente di un doloroso confronto tra culture
e stili di vita, si realizzava un ambizioso e finalmente mo-
derno progetto curatoriale, che esponeva tutte le ferite del
presente. Un atto di fronte al quale il “sistema della cultura”
non poteva che reagire in modo scomposto, come di fatto av-
venne, fino a metterne in discussione lo stesso compimento.
Perché l’arte può provocare e anche lanciare messaggi molto
forti senza produrre alcuna reale incrinatura nei meccani-
smi economici che la sostengono. In quel caso tutti stanno al
gioco, anche i più onesti mecenati. Ma ciò che davvero scom-
bina le carte è quando l’arte riesce a cambiare la prospettiva
di una questione in termini tangibili, sui territori, fin dentro
di noi, ponendo le domande più scomode, come Szymczyk
provò a fare fornendo non percorsi, ma spazi per i nostri
percorsi. E proprio per questo, per aver fatto di Documenta
una macchina di produzione di conoscenza inedita, grazie
alla creazione di nuovi spazi pubblici e nuove chiavi di lettu-
ISSUES E OPPORTUNIT DELLA DISINTERMEDIAZIONE CULTURALE 111

ra nelle due città, finì per essere respinto con perdite.13


Ripensare l’idea di mostra e di museo, farne luoghi di pro-
duzione di conoscenza e di nuove prospettive, cogliendo le
opportunità della transizione digitale in corso e inserendosi
in tutte le fratture che questa transizione ha il potere di ri-
velare, è una delle chiavi essenziali per riprogettare l’offerta
culturale del nostro Paese. Nel farlo, il professionista della
curatela artistica o museale disposto ad aggiornarsi non può
prescindere dalla consapevolezza di agire in un contesto pro-
fondamente mutato, che richiede lo sviluppo non di proper-
ties digitali dedicate come sono i siti, i profili social, eccetera,
ma la realizzazione o il potenziamento di vere e proprie pro-
paggini digitali di ogni bene o istituzione culturale.
Come suggerisce Nicolette Mandarano nel suo “Musei e
media digitali”14, il miglior libro scritto in Italia sull’argomen-
to, “Dobbiamo superare in modo definitivo la paura che il
digitale possa allontanare dal reale. La trasformazione digi-
tale e tecnologica ci dota di strumenti. Dobbiamo compren-
derli e capire come utilizzarli per portare il museo nel mon-
do contemporaneo e creare quel fondamentale dialogo tra
museo e visitatori, siano essi reali, virtuali o potenziali”.
L’Italia figura invariabilmente nelle primissime posizioni
nelle varie graduatorie tra le nazioni che possono vantare più
POI (Points of Interest)15. Questo dato, assieme alle classifi-

13 Non credo sia casuale se le note descrittive e la missione del progetto di


Documenta14 al momento di scrivere questo volume sembrino essere ripu-
diate dallo stesso sito della manifestazione, tanto da non renderle consultabili.
Per fortuna il progetto archive.org le ha archiviate qui. https://web.archive.
org/web/20150625020936/http://www.documenta.de/en/news.html
14 Nicolette Mandarano, “Musei e Media Digitali”, Carocci, 2019 http://www.
carocci.it/index.php?option=com_carocci&task=schedalibro&Itemid=72&i-
sbn=9788843095988
15 Il dataset di Factual non pubblica più i dati ufficiali sui POI di ogni Paese,
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che che da anni pongono il nostro Paese in testa in materia


di influenza culturale16, è il più significativo per dare la reale
dimensione dell’opportunità nella fase “liquida” che stiamo
attraversando. L’Italia non è solo un Paese di straordinari siti
“statici”, archeologici, culturali e museali, né è solo la somma
della gigantesca quantità di significati universali che tali siti
esprimono. È anche una straordinaria macchina di produ-
zione di senso, individuale e collettivo, per il mondo intero.
Si tratta solo di metterli a valore, di trovare nuovi model-
li economici, di utilizzare al meglio il capitale umano e gli
strumenti tecnici a disposizione, analogici e digitali, per ri-
uscirci.
Sotto questo profilo la città di Roma è un esempio insupe-
rabile dell’enormità del divario tra il valore culturale fisica-
mente censito al suo interno e la mancata capacità non solo
di metterlo a valore, ma anche semplicemente di condivider-
lo. Se anche mettiamo per un attimo da parte il suo enorme
patrimonio archeologico e museale e ci concentriamo ora
su quello delle Università e degli Enti di Ricerca, rimaniamo
ogni volta senza parole. A Roma, oltre al più grande ateneo
pubblico del mondo in termini di iscritti, sono presenti al-
tre 40 sedi universitarie con oltre 200.000 studenti17. Inoltre,
Roma è sede di oltre cento tra Accademie straniere e istituti
culturali esteri. Del resto, non potrebbe essere diversamente
dato che la città ospita le sedi diplomatiche, e i loro uffici cul-

rivendendoli ai gestori di piattaforme. Peraltro, nell’ultima classifica pubblica,


risalente al 2015, l’Italia figurava al secondo posto dietro alla Francia. https://
www.factual.com/data-set/global-places/
16 https://www.usnews.com/news/best-countries/influence-rankings
17 Cfr. Roma 2030, Domenico De Masi, Einaudi, 2019 https://www.einau-
di.it/catalogo-libri/problemi-contemporanei/roma-2030-domenico-de-ma-
si-9788806242343/
ISSUES E OPPORTUNIT DELLA DISINTERMEDIAZIONE CULTURALE 113

turali, di oltre 200 Paesi non solo verso lo Stato Italiano, ma


anche verso la Santa Sede.
Ebbene, quello che colpisce di Roma è che, salvo rarissime
eccezioni, quasi nulla di questo incalcolabile valore è messo
in rete, sia da un punto di vista fisico che telematico. Se si
eccettua il lodevole tentativo delle realtà strettamente comu-
nali (con le properties digitali di “Musei in Comune” e delle
“Biblioteche di Roma”, che provano a offrire servizi coerenti
ai cittadini), quasi tutte queste istituzioni hanno il proprio
“sito”, inteso come un ambito rigidamente didascalico e re-
cintato.
Ho scritto “sito” tra virgolette non a caso, a sottolineare la
totale obsolescenza di questo tipo di contenitore in un conte-
sto come quello culturale, dove è certo che qualsiasi progetto
digitale ad opera di un Ente preposto alla condivisione della
conoscenza non possa limitarsi, come purtroppo ancora vie-
ne largamente fatto, a fornire informazioni o peggio a “pre-
sentare” le attività dell’Istituzione.
Da tempo, in tutte le occasioni che me lo consentono, so-
stengo la necessità di fare della presenza di tali istituzioni in
rete dei centri di documentazione interoperabili, in grado
non solo di parlare tra loro lo stesso linguaggio, ma di rende-
re il più possibile fruibili i beni nella loro forma digitale. Non
più “siti”, dunque, ma veri e propri archivi digitali accessi-
bili al pubblico fin dall’inizio della loro creazione o della loro
riprogettazione, e che si aggiornano in tempo reale con la
successione degli eventi, delle mostre, delle “cose” che acca-
dono fisicamente nell’ambito delle varie istituzioni culturali
di riferimento.
Da decenni si parla di “Musei Digitali”, ma gli sviluppi più
recenti ci dicono sempre più spesso che, se la prospettiva
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non è la mera presentazione del Museo ma la fruibilità, tec-


nologicamente abilitata, del bene o dell’evento culturale , la
scala del processo di digitalizzazione non può più riprodurre
il vincolo spaziale del museo o quello temporale della mo-
stra. La scala corretta, semmai, attiene alla digitalizzazione
del singolo bene e del singolo evento, ciascuno dei quali po-
trà poi essere riaggregabile all’interno di percorsi multipli,
studiati da soggetti terzi.
Anche senza aver nemmeno abbozzato la progettazione di
un ecosistema dei beni culturali digitali di questo tipo, c’è chi
già oggi mostra di aver perfettamente compreso la necessità
di una evoluzione “Open” dell’offerta culturale sia presso il
pubblico, sia nell’ambito della stessa riconversione professio-
nale degli operatori della cultura. I curatori di Artaway18, per
esempio, organizzano tour da remoto che permettono ai par-
tecipanti di seguire percorsi attraverso properties digitali del
tutto eterogenee: da una pagina di Wikipedia, a una visita vir-
tuale su Google Cultural Institute, all’archivio proprietario di
una qualsiasi istituzione culturale presente in rete. Attraverso
la navigazione narrata di luoghi digitali non pensati per far
parte dello stesso percorso, possiamo avere un abbozzo di
quello che è già possibile fare, pur in un contesto globale del
patrimonio culturale disponibile in rete del tutto destruttura-
to e ancora largamente inadeguato. Ma soprattutto, possiamo
anche renderci conto che l’enfasi degli ultimi anni verso la
cosiddetta “realtà virtuale”, puntualmente associata ai musei,
mostra il suo più grande limite nel tendere a ricostruire i vin-
coli e le dimensioni dell’esperienza fisica, proprio quando il
digitale ci permetterebbe di scavalcarli a pié pari.

18 https://www.artaway.com/it/
ISSUES E OPPORTUNIT DELLA DISINTERMEDIAZIONE CULTURALE 115

Progetti come Artaway hanno un altro importante pre-


gio: ci offrono una succosa anteprima di quello che sarebbe
possibile realizzare con uno sforzo complessivo di tutto il
sistema-cultura, teso a rendere gli “oggetti culturali”, indivi-
dualmente intesi, come degli “oggetti digitali interoperabili”.
Se ogni singola opera potesse essere identificata in rete con
dei metadati pubblici standard accessibili a tutti (il nome, la
datazione, l’autore, la descrizione sommaria, la riproduzione
a definizione standard ecc.), e con un altro set di metada-
ti, anche a pagamento, destinati agli operatori ed utili alla
costruzione di percorsi, applicazioni e altri usi professionali
(le collocazioni, i riferimenti bibliografici, le riproduzioni ad
alta definizione e in 3D, l’accesso ai sistemi di gestione dei
diritti digitali, e così via), si potrebbe già costruire su una
scala variabile (una grande città, un distretto artistico, una
regione o persino un intero Paese) una piattaforma aperta,
interoperabile e al contempo valida per la costruzione di
nuovi modelli economici.
Non è molto diverso da quello che ha fatto l’Istituto
Nazionale per l’Audiovisivo in Francia19, dove da molti anni
l’intero catalogo multimediale è consultabile gratuitamente
in bassa definizione, con tutti i dati essenziali. Senza con ciò
pregiudicare in alcun modo lo sfruttamento economico dei
materiali per uso professionale da parte degli operatori, cui
sono riservati servizi in abbonamento per lo svolgimento del
loro lavoro curatoriale.
In molti casi la raccolta del maggior numero possibile di
metadati connessi a ogni singolo “Point of interest” può dare
ottimi frutti attraverso uno sforzo non centralizzato, ma

19 https://www.ina.fr/
116 UNFRAMING

collaborativo. Il progetto OpenStreetMap è uno degli esem-


pi più brillanti di queste forme di crowdsourcing, grazie alla
capacità di estrarre il massimo valore da tutte queste infor-
mazioni attraverso la loro rappresentazione nello spazio, in
mappe di uso generale, ma anche una infinità di mappe per
usi particolari. Il database di OpenStreetMap è alimentato
ogni minuto da migliaia di volontari, che seguono regole
standardizzate per la compilazione dei metadati di ogni og-
getto mappato. Ciò ha per conseguenza non solo la totale
interoperabilità delle informazioni, ma anche uno straordi-
nario livello di precisione dei dati rispetto a servizi commer-
ciali paragonabili, come Google Maps. L’ipotesi di utilizzare
un modello collaborativo di questo tipo anche per la map-
patura dei beni culturali che abbiamo menzionato poc’anzi è
sicuramente degna di un approfondimento20.
Più in generale, la ricchezza e l’attivismo delle commu-
nity che lavorano a progetti di mappe collaborative come
OpenStreetMap o di analisi, rappresentazione e visualizza-
zione di dati spaziali, come il software Open Source QGIS,
indicano un crescente interesse delle persone verso un ap-
proccio partecipato alla documentazione dello spazio pub-
blico, che permette l’emersione di stratificazioni e percorsi di
utilità, non solo culturale, per ciascuno di noi.
Le mappe collaborative personalizzate che si possono co-
struire con questi strumenti in rete sono infatti in grado di
rivelare quei nostri interessi verticali, spesso interdiscipli-
nari, che nessun curatore “generalista” è in condizione di

20 Sarebbe possibile persino mutuare il sistema delle etichette composte da


chiavi e valori del database di Open Street Maps (tag: key=value) per la com-
pilazione dei metadati dei beni culturali, contando su regole testate e sull’aiuto
di una community già molto popolata ed attiva.
ISSUES E OPPORTUNIT DELLA DISINTERMEDIAZIONE CULTURALE 117

intercettare con altrettanta precisione. Se siamo interessati


alla vita di Pasolini, magari armati dal bel volume di Dario
Pontuale “La Roma di Pasolini”, potremmo creare una map-
pa della capitale con tutti i luoghi che hanno avuto un ruolo
nella sua vita e nella sua opera21. Nel farlo, se ogni luogo fosse
censito con i metadati completati, li troveremmo già pronti
sul database e la loro visualizzazione sarebbe pressoché auto-
matica. Se trovassimo delle lacune, provvederemmo noi, in
prima persona, a compilare la scheda. In questo modo, nel
perseguire un nostro interesse, avremmo aiutato chiunque
sia interessato alla vita e all’opera di Pasolini. E ancora: se
siamo appassionati di Storia e Architettura, potremmo di-
segnare un tracciato che unisce su una mappa i luoghi più
significativi del periodo fascista. Questo tracciato potrebbe
a sua volta essere riutilizzato in applicazioni di terze parti, e
così via.
Peraltro, un eventuale uso del tutto personale non deter-
mina certo una diminuzione di dignità dell’oggetto-mappa.
Lo spiega molto bene Stefano Simoncini, dottore di ricerca
di Urban Planning e attivista del progetto ReTer22.
La mappa non è il territorio: ognuno di noi costruisce mappe diver-
se dello stesso territorio e anche mappe diverse da momento a mo-
mento, in base al nostro grado di attenzione, ai nostri bisogni, alle
nostre motivazioni. Per questo, possiamo considerarla una esten-
sione della facoltà fondamentale di ogni vivente, che è quella di
rilevare e riorganizzare le differenze del contesto secondo pattern di
relazioni più o meno complessi. Potremmo perciò affermare che la
mappa, come la vista, è un medium tutt’altro che neutro, in quanto
regola e condiziona il nostro rapporto con lo spazio. Se vogliamo
comprendere il senso e la funzione delle mappe, non possiamo per-
ciò prescindere da un ragionamento più generale sullo spazio, su

21 Dario Pontuale, “La Roma di Pasolini” (Nova Delphia, 2019).


22 https://www.reter.info
118 UNFRAMING

quali siano le dimensioni della relazione dinamica reciprocamente


trasformativa, materiale e immateriale, tra uomo e spazio fisico. E
su come questa relazione sia cambiata nel tempo, mutando anche
strutturalmente il modo di percepire e vivere lo spazio.

L’utilizzo di mappe collaborative, che favorisce l’emersione


del valore di ogni singola informazione sui territori, è solo
la punta dell’iceberg di fenomeni comportamentali che in-
cidono fortemente sull’evoluzione dell’offerta culturale. La
stratificazione verticale dei nostri interessi, infatti, mostra
in modo inequivocabile quanto non sia certo necessario un
museo fisico per costruire un percorso di valore, per esem-
pio, storico. L’Italia è un Paese che pullula di veri e propri
musei a cielo aperto (si pensi al Foro Italico a Roma23): sa-
rebbe sufficiente dotarli di un centro di documentazione sul
posto, e delle necessarie propaggini digitali, per farli rientra-
re a pieno titolo nei circuiti turistici.
Tra l’altro, da sempre la rete permette alle persone di ag-
gregarsi in gruppi in relazione ai propri interessi verticali,
abbattendo i tradizionali fattori “orizzontali” di aggregazione
sociale (l’età, la fascia di reddito, gli “ambienti” di riferimen-
to)24. Sono sempre più popolari, a questo proposito, i proget-
ti di esplorazione partecipata del territorio, come gli ormai

23 In questo post su Medium del 2019 provai a raccontare come a Berlino da


tempo si stia lavorando alla creazione di una rete di “musei a cielo aperto”,
corredati da centri di documentazione, come quelli presenti presso il tratto
residuo del Muro a Bernauer Strasse, ma anche accanto al memoriale della
Shoah. Nulla impedirebbe di realizzare una struttura simile presso il Foro Ita-
lico a Roma, una realizzazione pressoché intatta del periodo fascista. https://
medium.com/@antoniopavolini/i-musei-la-cultura-e-il-coraggio-o-la-pau-
ra-di-raccontare-le-storie-5447e2449c90
24 Secondo Lorenzo Romito, attivista del laboratorio di arte urbana “Stalker”,
“sono i luoghi stessi a generare energia interclassista e interculturale, che si
oppone alle altre forme di aggregazione della città, tipicamente organizzate
per classe o per categoria di appartenenza”.
ISSUES E OPPORTUNIT DELLA DISINTERMEDIAZIONE CULTURALE 119

consolidati walkabout organizzati da Urban Experience25 in


tutta Italia. Secondo Carlo Infante, che ne è l’ideatore, il ge-
nius loci, la conoscenza liberata dal luogo oggetto di esplora-
zione, in tutte le sue stratificazioni, ha il potere di innescare
l’intelligenza connettiva – come venne definita da Derrick de
Kerkhove – delle persone26. Anche in questo caso, in effetti,
siamo di fronte a un raro uso della rete interamente “gover-
nato” dall’individuo: nell’aggregarsi nello spazio fisico, pri-
ma, nell’approfondire online l’esperienza fisica, dopo.
L’emergere delle pratiche collaborative in rete, di cui le
mappe partecipate sono una perfetta metafora, racconta me-
glio di ogni altra cosa la trasformazione del rapporto tra luo-
go fisico e contenuto. Di più, dimostra come – se valorizzata
– l’informazione, cioè la strutturazione e la contestualizza-
zione del dato grezzo, può essere competitiva rispetto alla
narrazione e al framing eterodiretto27, che non a caso sono
azioni che collochiamo nel campo della comunicazione.
La necessità di intermediatori culturali aggiornati, in gra-
do di lavorare all’interno della transizione digitale in corso,
discende anche da una rilettura storica del rapporto tra cul-
tura e media. Storicamente, infatti, le più precoci e sponta-
nee pratiche di riappropriazione del senso e della rilevanza
nascono dal nostro desiderio di cultura, prima che di infor-
mazione. Anche quando, durante il secolo scorso, la radio
prima, il cinema e la televisione poi, iniziarono a sottrarre

25 https://www.urbanexperience.it/walkabout/
26 L’esplorazione partecipata dello spazio pubblico contiene alcuni dei princi-
pi cardine della pratica della psicogeografia, descritta dal filosofo Guy Debord
in “Théorie de la dérive” nel 1956.
27 Anche per questo, come vedremo nei capitoli successivi, uno degli stru-
menti più gettonati per contrastare la degenerazione del giornalismo “comu-
nicativo” è proprio la pratica del Data Journalism.
120 UNFRAMING

tempo ed energie alla nostra capacità di definire percorsi in-


dividuali, la libreria e la biblioteca sono rimasti a lungo gli
unici luoghi dove continuavamo a decidere quale strada
prendere a ogni bivio. Il momento della scelta di un libro da
acquistare o prendere in prestito è sempre stato il regno del
search, anche quando il discovery aveva iniziato a dilagare,
pressoché incontrastato. Come le librerie, anche la Internet
dei primi anni sembrò riproporre la centralità del momen-
to della scelta di un qualsiasi contenuto, pur con modalità
molto più rapide e immediate. Rispetto a quella fase storica,
la Rete di oggi sembra una libreria affollata da centinaia di
commessi, impegnati tutto il tempo a impedirci di fermarci
anche un solo istante a riflettere, per decidere quale libro sfo-
gliare ed eventualmente comprare.
Eppure, proprio nel bel mezzo della crisi dell’industria libra-
ria, le librerie e le biblioteche sono tornate ad esercitare un
grande fascino proprio per il fatto di costituire l’ambiente fisico
naturalmente in grado di opporsi alle “fabbriche di discovery”
che ci assediano da qualsiasi schermo. Questi luoghi non sono
più, forse, quelli dove compriamo o prendiamo in prestito un
libro, ma di sicuro sono i posti dove più spesso dialoghiamo
con illustri sconosciuti degli argomenti che sentiamo più im-
portanti per noi. Le persone che incontriamo alle presentazio-
ni dei libri probabilmente sono le più affini a noi tra quelle che
potremmo incontrare in un qualsiasi spazio pubblico.
Il fenomeno non è certo passato inosservato presso i gran-
di gruppi editoriali. Il format dell’“autore” che parla diretta-
mente al pubblico, e a volte si trova persino a dover dialogare
con esso, è ormai qualcosa che trascende il momento della
presentazione di un libro, fino a costituire il fulcro delle cen-
tinaia di Festival dedicati alla letteratura, all’attualità e alla
ISSUES E OPPORTUNIT DELLA DISINTERMEDIAZIONE CULTURALE 121

scienza che ormai da decenni popolano i nostri calendari28. I


portatori riconosciuti di una competenza, siano essi giorna-
listi, scrittori o luminari delle più varie discipline, sono pro-
gressivamente diventati i nostri eroi. Ed è del tutto naturale
che le rispettive fanbase aspirino al momento dell’incontro
fisico, se non direttamente con loro, almeno con la commu-
nity di riferimento di cui l’evento diventa occasione convi-
viale. Forse occorrerebbe ricordare che fino a qualche decen-
nio fa, prima dell’imbarbarimento paventato dai detrattori
di internet, tutte queste persone avrebbero probabilmente
passato quelle ore davanti a uno schermo televisivo, senza
alcuna convivialità né opportunità di dialogo.
Per concludere: la ritrovata centralità della partecipazione
del pubblico, la crescente importanza del senso individuale,
le trasformazioni e i serrati confronti che animano il mon-
do dell’arte, ben sintetizzati dalle posizioni di personaggi
come Schnapp e Szymczyk, sono utili a chiarire l’analogia tra
i problemi del mondo della cultura e quelli del mondo dei
media. Non è possibile, infatti, considerare l’informazione,
l’intrattenimento e la cultura come categorie tecniche, che
definiscono tre diverse tipologie di contenuti. Piuttosto, po-
tremmo affermare che ciò che informa, ciò che intrattiene, o
magari ci scuote, e comunque ciò che ci arricchisce di cono-
scenze è comunque, in senso lato, “cultura”, perché cambia la
visione del mondo di gruppi e individui. Per questo, credo
sia opportuno definire anche gli operatori dell’industria dei
media e dell’intrattenimento come intermediatori culturali.

28 Il tema stesso della proliferazione dei Festival è oggetto di un serrato dibat-


tito da alcuni anni. Ho provato a dire la mia in questo post. https://medium.
com/@antoniopavolini/cosa-penso-di-quello-che-pensate-dei-festival-11ea-
493ca4c4
122 UNFRAMING

Del resto, le difficoltà che tali industrie incontrano sono


tutte accomunate da un fattore chiave: il momento dell’in-
termediazione. Questo fattore, come non ci stancheremo
mai di ripetere, non è affatto destinato a sparire, così come
non dovranno certo scomparire le filiere professionali che
lo interpretano. Ma l’intermediazione deve necessariamente
reinventarsi alla luce di una transizione che, abilitata dalla
tecnologia, investe nel profondo le scienze umane e le no-
stre individuali sensibilità. E il motivo è molto semplice: non
possiamo arrenderci all’idea di non ammettere alternative
alla dicotomia tra “antichi” palinsesti e “moderni” algoritmi.
Dobbiamo guardare oltre. Ciò richiederà l’acquisizione di
nuove pratiche e nuove competenze. Bisognerà avventurarsi
in terreni inesplorati, ma è esattamente a questo che non c’è
alternativa. Chi intraprenderà questo percorso non solo non
avrà nulla da temere, ma avrà definito il vantaggio competi-
tivo nel mercato dei contenuti.

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