Il diritto del lavoro si divide in diritto sindacale (cioè il diritto dei rapporti collettivi) e in diritto del lavoro in senso
stretto (il diritto del rapporto individuale di lavoro subordinato).
LA RIFORMA FORNERO
Il nome deriva da quello dell’allora Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Elsa Fornero, che ha modificato il
funzionamento del sistema pensionistico italiano emanando le cosiddette “Disposizioni in materia di trattamenti
pensionistici”.
Con la legge Fornero, emessa nel 2011, il sistema pensionistico italiano è passato dall’essere retributivo all’essere
contributivo. Il primo, più conveniente per il lavoratore, pesava infatti eccessivamente sulle casse dello Stato in
quanto calcolava la pensione basandosi sull’ultima retribuzione (in genere, la più elevata dell’intera carriera
lavorativa) e senza tener conto dei versamenti contributivi fatti negli anni. A partire dal 2011, tutti i lavoratori italiani
vanno in pensione col metodo contributivo, il principio cardine della legge Fornero è che la pensione cresce al
crescere dei contributi versati.
I lavoratori che raggiungono il requisito per la pensione di vecchiaia (il quale è basato sull’innalzamento dell’età
pensionabile a 66 anni per gli uomini e 62 per le donne) possono dunque smettere di lavorare, e percepire una
pensione la cui somma viene determinata sulla base di contributi accumulati durante la vita lavorativa.
LA COSTITUZIONE
FONDAMENTO COSTITUZIONALE DEL DIRITTO DEL LAVORO
Se immaginiamo le varie fonti del diritto come una piramide, la Costituzione (entrata in vigore il 1° gennaio 1948) si
troverebbe al vertice di questa piramide. Aprire la Costituzione con una frase contenuta appunto nel primo articolo,
il quale recita: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, significa allora affermare che il lavoro è il fondamento
dell’intero stato italiano. La Costituzione, infatti, non si limita ad affermare dei principi generali, accanto alle norme
di principio, infatti, ci sono delle norme costituzionali che introducono dei diritti a favore dei lavoratori che sono
direttamente efficaci ed applicabili come, ad esempio, il diritto ad una giusta retribuzione.
VEDIAMO ORA QUALI SONO I DIRITTI SUL LAVORO PREVISTI DALLA COSTITUZIONE
-Art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”: se la Repubblica è fondata sul lavoro essa non
può non annoverare tra le sue prime preoccupazioni la tutela di coloro che vengono consacrati come i principali
agenti del progresso sociale, vale a dire i lavoratori. Il lavoro non è solo quello subordinato, bensì qualsiasi attività
umana socialmente utile ed il lavoro viene apprezzato non solo come mezzo per procurarsi di che vivere, ma anche
come fine, ossia come dimensione essenziale per l’autorealizzazione umana.
-Art. 2: Sancisce il riconoscimento e la garanzia di diritti inviolabili dell’uomo (i quali esistono a prescindere dagli
ordimenti giuridici: appartengono all’uomo in quanto tale, inteso cioè come essere libero), sia come singolo, sia nelle
“formazioni sociali” in cui svolge la sua personalità.
-Art. 3: Eguaglianza formale: principio secondo il quale tutti i cittadini “hanno pari dignità sociali e sono uguali
dinanzi alla legge, senza distinzioni di sesso, razza, religione, opinioni pubbliche, condizioni personali e sociali”, c’è
però una concezione “valutativa”: trattamenti uguali a situazioni uguali, trattamenti diversi a situazioni diverse.
Eguaglianza sostanziale: invece, come dice la parola stessa, fa un passo in avanti andando dritto alla sostanza delle
cose: non basta che la legge sia uguale per tutti solo sulla carta ma deve anche attuare e promuovere norme speciali
a favore delle categorie più deboli in modo che realmente tutti siano nelle stesse condizioni di agire e vivere
dignitosamente. A descrivere nel dettaglio questo principio è il comma 2 dello stesso articolo 3 che dichiara che la
Repubblica si impegna a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale intervenendo attivamente per fornire ai
soggetti più deboli i mezzi per esercitare effettivamente i propri diritti. Si deve avere quindi un’eguaglianza delle
opportunità spettando poi agli individui e ai gruppi di coglierle ed eventualmente svilupparle.
-Art. 4: sancisce il diritto al lavoro e stabilisce l’obbligo per lo Stato di promuovere le condizioni che rendano
effettivo questo diritto. È implicita la libertà di scelta del lavoro, ed il 2° comma stabilisce il “dovere di svolgere
un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
-Art. 35: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni” la Costituzione fa riferimento alla tutela
del lavoro e non alla tutela del solo lavoro subordinato.
-Art. 37: “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla
madre e al bambino una speciale e adeguata protezione”.
-Art. 38: “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso
di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto
all'educazione e all'avviamento professionale.”
-Art. 39: “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro
registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti
dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità
giuridica.
-Art. 41: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
-Art. 46: “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla
gestione delle aziende.”
-Art. 97: Principio di buona amministrazione “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo
che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.”
-Art. 99: Istituzione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) composto da esperti e rappresentanti
delle categorie produttive e del mondo sindacale. È un organo di consulenza del Parlamento e del Governo nelle
materie dell’economia e del lavoro con potere di iniziativa legislativa.
Codice Civile 1942: il diritto del lavoro viene inserito nel Libro V relativo all’impresa e non nel Libro IV dei contratti.
Il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro, abbreviato con la sigla CCNL, costituisce un tipo di contratto di lavoro,
stipulato a livello nazionale, con cui le organizzazioni rappresentative dei lavoratori dipendenti e dei datori di lavoro
si accordano sulle regole generali che disciplinano il rapporto.
I contratti e le loro successive modifiche, sono raccolti e conservati nell'archivio nazionale del Consiglio Nazionale
dell'Economia e del Lavoro (CNEL).
FONTI SOVRANAZIONALI (O ESTERNE): Il sistema delle fonti del diritto può essere distinto in fonti interne e fonti
esterne. Le fonti interne dette anche nazionali che comprende le normative dello Stato, quelle esterne sono
chiamate anche sovranazionali e che derivano dal potere normativo dell'UE (unione europea).
Per esercitare le competenze dell'Unione, le istituzioni adottano:
-Regolamenti: hanno portata generale e sono direttamente applicabili.
-Direttive: vincolano lo stato membro per quanto riguarda il risultato da raggiungere ma è a discrezione dello stato
come raggiungerlo, non hanno efficacia immediata, ma richiedono provvedimenti legislativi di ciascun stato membro
per essere applicate.
- Decisioni: non sono delle varie e proprie norme, ma sono ordini e precetti (comandi o divieti).
FONTI REGIONALI: con la Riforma del Titolo V della costituzione nel 2001 sono state individuate materie di
competenza esclusiva dello stato (come rapporti dello Stato con l’Unione europea), materie di competenza
concorrente tra stato e regioni (tutela e sicurezza del lavoro) e materie di competenza esclusiva delle regioni (tutte
quelle non di competenza esclusiva dello stato, una fra tante: la promozione del diritto allo studio anche
universitario). Le fonti regionali sono leggi emanate dalle regioni, attraverso il Consiglio regionale.
Tali leggi hanno validità limitata al territorio della relativa regione.
Sezione seconda: DIRITTO SINDACALE
I SINDACATI
Il sindacalismo è il complesso delle dottrine e dei movimenti che hanno come fondamento e come fine
l'organizzazione dei lavoratori e la tutela dei loro diritti e dei loro interessi economici.
Durante il tempo, diversi modelli organizzativi di sindacalismo si sono susseguiti: la forma più antica è il
sindacalismo di mestiere, frutto dell’aggregazione di lavoratori accomunati dal fatto di svolgere lo stesso mestiere;
c’erano poi i sindacati dei dirigenti, che essendo i diretti collaboratori dell’imprenditore non potevano prendere parte
agli stessi sindacati dei dipendenti; si è passati poi ad un modello, prevalente ancora tutt’oggi, di sindacati di
categoria, che si fonda sull’aggregazione di lavoratori operanti nel medesimo settore economico a prescindere dal
loro mestiere.
Si è sviluppato poi anche il sindacato di azienda, identità sindacali che si formano all’interno di una singola azienda.
In Italia abbiamo una triade di sindacati più importanti: CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), CISL
(Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori), UIL (Unione Italiana del Lavoro), i quali rivestono la forma di
confederazioni sindacali, ossia associazioni di secondo grado che aggregano non i lavoratori, ma le associazioni
sindacali di categoria presenti nel nostro Paese.
L’AZIONE SINDACALE
L’obiettivo fondamentale dell’azione sindacale è la regolazione accorpata delle condizioni di lavoro, che si realizza
soprattutto tramite la stipulazione dei contratti collettivi. Se il contratto collettivo è il fine, lo sciopero è stato
tradizionalmente il mezzo di pressione più impiegato dal sindacato.
LA CONCERTAZIONE
La concertazione è un termine utilizzato in Italia che si riferisce ad una pratica di governo che tende a operare scelte
economiche attraverso una consultazione preventiva delle parti sociali, principalmente sindacati ma anche
associazioni di categoria o appartenenti al terzo settore.
SINDACATO E ORDINAMENTO GIURIDICO
TRA LIBERTÀ E REGOLAZIONE
Gli istituti del diritto sindacale possono essere tanto regolati, quanto ignorati, dalla legge.
Nella prima ipotesi, il problema che si pone è quello di come conciliare le regole con la libertà sindacale; nella
seconda, di come evitare assenza del sistema, giacché la libertà non può essere la sola regola di condotta.
La legislazione italiana ha mantenuto un basso profilo regolatorio, limitandosi a prevedere dispositivi di promozione
dell’attività sindacale e della contrattazione collettiva.
Il principio di libertà sindacale è espresso nell’art. 39 della Costituzione, questa libertà è definibile come “libertà di
essere parte di un’organizzazione caratterizzata dal perseguimento di un fine di natura sindacale”, che
implicitamente indica anche una libertà sindacale negativa ossia di non iscrizione ad alcun sindacato.
Per “sindacale” si intende un’attività diretta dall’autotutela di interessi connessi a relazioni giuridiche, nelle quali sia
dedotta un’attività lavorativa.
Per “organizzazione” si intende una collettività anche minima e occasionale di persone, nello specifico di lavoratori,
unificata dal perseguimento di uno scopo comune.
La libertà sindacale ha anche la possibilità di “pluralismo sindacale”, che comporta, che in ciascun ambito di
riferimento, possono coesistere più sindacati.
Poiché la più importante e tipica azione sindacale è la contrattazione collettiva, la libertà di organizzazione implica
la necessità di libertà di negoziazione collettiva: è riconosciuta l’autonomia collettiva, ossia la capacità dei soggetti
collettivi di regolare autonomamente i propri interessi e rapporti.
La norma prevede che, una volta registrati, i sindacati acquisiscano lo status di persone giuridiche di diritto pubblico,
e con essa la facoltà di stipulare contratti collettivi, aventi efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla
categoria di riferimento dei contratti medesimi.
La registrazione non è obbligatoria e la mancata registrazione comporta che il sindacato non è riconosciuto.
CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
L’AUTONOMIA COLLETTIVA TRA LIBERTÀ E REGOLAZIONE
L’autonomia collettiva è il potere attribuito ai soggetti collettivi, di regolare i propri interessi mediante la produzione
di norme collettive, in particolare tramite la conclusione di contratti collettivi. Il contratto collettivo è un contratto
stipulato tra le contrapposte associazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori, le quali entrano nel contratto
solo per tutelare gli interessi dei soggetti che rappresentano. Un contratto collettivo può essere stipulato anche solo
con un imprenditore, condizione necessaria è solo che vi partecipino collettivamente i lavoratori.
Il contratto collettivo è oramai un contratto nominato (o tipico), per cui non può essere considerato atipico.
Funzione normativa: con la quale si fa riferimento al fatto che il contratto collettivo ha l’obiettivo di dettare le
“norme” che dovranno valere per una serie indeterminata di contratti individuali di lavoro subordinato.
Riesce a rendere uniformi le condizioni di lavoro relative ad un medesimo settore produttivo.
All’interno della parte normativa dei contratti collettivi, vi è una parte economica (riguardante la retribuzione).
È la più rilevante e consiste nel determinare il contenuto dei contratti individuali di lavoro al fine di evitare che i
singoli lavoratori, a motivo della loro posizione di inferiorità economico e sociale, siano indotti ad accettare
condizioni contrattuali imposte dalla controparte.
Funzione obbligatoria: il contratto collettivo non fissa solo il contenuto dei rapporti individuali di lavoro, ma
stabilisce anche diritti e doveri in capo ai soggetti stipulanti il contratto collettivo stesso.
Le clausole obbligatorie sono varie e vengono raggruppate con diversi criteri; si possono ricordare, tra le tante: le
clausole di tregua/pace sindacale, si mettono d’accordo a non promuovere scioperi in cambio di quello che hanno
ottenuto, reciproche concessioni. In caso di inadempimento di una clausola obbligatoria, la parte lesa potrebbe
promuovere un’azione di responsabilità contrattuale volta a ottenere l’adempimento o anche il risarcimento dei
danni.
Il Protocollo Ciampi prevedeva una contrattazione a due livelli: nazionale, fissandone la durata in 2 anni per la parte
economica e in 4 per quella normativa; decentrata, ovvero territoriale o aziendale, rilasciando la tecnica delle
clausole di rinvio, cosicché il contratto di secondo livello si svolgesse entro i limiti fissati dal CCNL.
Per una decina di anni il Protocollo Ciampi ha ben funzionato, grazie alla stabilità del contesto politico, ma col tempo
ciò è cambiato e c’era l’esigenza di una nuova normativa.
L’esigenza di una riforma del sistema contrattuale ha successivamente portato alla stipulazione dell’ACCORDO
QUADRO 22 GENNAIO 2009, stipulato dal Governo Berlusconi.
I principali punti dell’Accordo del 2009 sono: la conferma dell’assetto contrattuale a 2 livelli; la durata dei CCNL
riportata a 3 anni, sia per la parte normativa che economica.
La DEROGABILITÀ dei contratti collettivi aziendali presenta dei LIMITI indicati dal TU rappresentanza 2014:
a) È prevista la possibilità di stipulare contratti aziendali modificativi (e quindi anche derogatori in peius) dei CCNL nei
limiti e con le procedure previste dagli stessi CCNL.
b) I CCNL prevedono che ai contratti collettivi aziendali modificativi competono “la prestazione lavorativa, gli orari, e
l’organizzazione del lavoro (esclusi gli istituti retributivi) al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di
investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa.
c) Il contratto aziendale non può essere stipulato dalla RSU o dalla RSA da sole, bensì da loro con l’intesa con le
relative organizzazioni sindacali territoriali di categoria.
Fondamentale, prima di tutto, è quindi l’identificazione dei servizi rivolti a garantire il soddisfacimento dei diritti.
• Per quanto concerne la tutela della vita, della salute, della libertà e della sicurezza della persona, dell’ambiente e
del patrimonio storico-artistico, sono menzionati: la sanità, l’igiene pubblica, la protezione civile; la raccolta e lo
smaltimento dei rifiuti urbani e di quelli speciali; le dogane.
• Per la libertà di circolazione: i trasporti.
• Per l’assistenza e la previdenza sociale: i servizi di erogazione dei relativi importi, anche effettuati a mezzo del
servizio bancario.
• Per l’istruzione: l’istruzione pubblica.
• Per la libertà di comunicazione: poste, telecomunicazioni e informazione radiotelevisiva pubblica.
La direttiva della legge è DUNQUE quella del bilanciamento fra il diritto di sciopero e altri diritti della persona.
All’interno di questo quadro delineato dalla legge, deve poi svolgersi l’attività dei contratti collettivi, rivolta a
individuare i caratteri delle “prestazioni indispensabili”:
- i contratti collettivi possono disporre l'astensione dallo sciopero di un numero strettamente necessario di lavoratori
e di indicare le modalità per l'individuazione di tali lavoratori;
- di fatto gli accordi vengono stipulati, in genere, dai sindacati più rappresentativi e, una volta valutati idonei dalla
Commissione di garanzia, hanno valenza nei confronti di tutti.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA
Essa è un'Autorità amministrativa indipendente, istituita dall'art. 12 della L. 12 giugno 1990, n. 146, e successive
modificazioni, con il compito di vigilare sul corretto contemperamento dell'esercizio del diritto di sciopero nei
cosiddetti servizi pubblici essenziali, con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati.
Essa è stata investita di una serie di importanti funzioni, di cui le principali:
• favorire in ogni modo l’accordo fra le parti in conflitto, convocandole in apposite audizioni o sollecitando le
medesime ad incontrarsi per confrontarsi sul problema oggetto della vertenza;
• valutare l’idoneità dei contratti collettivi a proteggere i diritti dell’utenza;
• riempire il vuoto lasciato dalle parti;
• segnalare in via preventiva le eventuali violazioni delle regole legali o contrattuali sullo sciopero.
Il contratto di lavoro, è un tipo di contratto a prestazioni corrispettive, stipulato tra un datore di lavoro (persona
fisica, giuridica o ente dotato di soggettività) e un lavoratore (necessariamente persona fisica) per la costituzione di
un rapporto di lavoro subordinato, in cui il primo è tenuto a corrispondere al secondo una retribuzione, e il secondo
è tenuto a rendere una prestazione lavorativa subordinata in favore del primo.
Il lavoratore può rinunciare liberamente ai diritti attribuitogli da norme derogabili di legge o di CCNL, oppure a
diritti pattuiti con il datore di lavoro nel proprio contratto individuale, purché tali diritti non derivino da disposizioni
inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi.
Tuttavia non sempre il lavoratore è a conoscenza di queste disposizioni inderogabili; in questo senso la legge
interviene a sua tutela. L’art. 2113 del codice civile, infatti, prevede una disciplina speciale per rinunce e transazioni
del dipendente aventi ad oggetto diritti previsti da norme inderogabili di legge o di contratti collettivi.
Non vi è dubbio che in linea di principio se sono nulle le pattuizioni individuali derogatorie in peius, cioè aventi ad
oggetto condizioni peggiorative con riguardo a diritti futuri, ossia non ancora maturati, per coerenza dovrebbero
essere ritenute nulle anche pattuizioni relative a diritti già maturati anch’essi garantiti da una normativa imperativa
e inderogabile. Il frutto del tentativo di conciliare queste esigenze è la disciplina dell’art. 2113, c.c., il quale si
applica alla rinuncia e alla transazione, che hanno ad oggetto diritti del lavoratore subordinato (maturati), derivati
da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo. L’articolo menzionato dispone che eventuali rinunce o
transazioni, aventi ad oggetto diritti come quelli menzionati, non sono valide.
L’avere ad oggetto diritti deve intendersi nel senso che questi debbono essere stati concretamente maturati (ad
esempio il diritto alla retribuzione per le prestazioni di lavoro effettuate fino ad un dato giorno).
Eventuali pattuizioni individuali su diritti definibili come futuri, sono da considerarsi radicalmente nulle.
La rinunzia è un negozio unilaterale recettizio con il quale il lavoratore rinuncia ad un suo diritto, mentre la
transazione è un contratto tra le parti mediante il quale lavoratore e il datore di lavoro facendosi reciproche
concessioni, pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che potrebbe insorgere.
IL LAVORO SUBORDINATO
Subordinazione tecnico funzionale: essa fa riferimento alla sottoposizione del prestatore alle direttive del datore
nell’esecuzione della prestazione concordata nel contratto di lavoro.
Subordinazione socio economica: essa è basata sulla dipendenza economica del lavoratore rispetto al datore di
lavoro.
LA NOZIONE
Il contratto di lavoro autonomo (o “contratto d’opera”) è definito dall’Art. 2222 cc come quel contratto con cui “una
persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e
senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”.
La differenza con la subordinazione consiste nel fatto che l’obbligo è assunto dal prestatore, nei confronti non di un
datore di lavoro bensì di quello che la legge definisce un committente “senza vincolo di subordinazione”, nel senso
che l’obbligo ha ad oggetto il compimento di un’opera o di un servizio e non la messa a disposizione di energie in
vista di un’eterodirezione o anche soltanto di un’ eterorganizzazione delle stesse.
La principale differenza, quindi, sta nel fatto che il lavoratore autonomo non è alle dipendenze e sotto la direzione
di alcun datore di lavoro, quindi conserva una certa libertà su come, dove e quando eseguire il lavoro.
Vi è un obbligo di risultato in seguito alla richiesta di un committente (es artigiano); ma anche che il pagamento
avviene non a cadenza fissa ma dipenderà dallo svolgimento della propria attività.
La differenza dall’imprenditore sta nel fatto che il lavoratore autonomo presta il lavoro prevalentemente con la
propria persona, senza un’organizzazione di mezzi (cose e/o persone) finalizzata alla produzione o allo scambio di
beni o servizi (che è invece, a norma dell’art. 2082, ciò che caratterizza l’imprenditore).
LA DISCIPLINA
Una specie particolare di contratto di lavoro autonomo è quello con oggetto l’esercizio di una professione
intellettuale per l’esercizio della quale è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi (notaio, avvocato,
commercialista...) cui si applicano gli articoli dal 2229 al 2238 del cc. Queste norme hanno carattere dispositivo, e
non imperativo, il che significa che esse sono liberamente derogabili dalle parti, ovvero la disciplina dei singoli
contratti di lavoro autonomo è consegnata all’autonomia negoziale individuale, a differenza del lavoro subordinato.
Questa situazione è mutata con l’istituzione dello statuto del lavoratore autonomo.
Perché è stato necessario lo statuto?
Indubbiamente finora sono esistite diverse differenze tra l’universo dei lavoratori subordinati e quello dei lavoratori
autonomi. Responsabile della tutela dei diritti dei primi era l’imprenditore, o lo Stato. Mentre per i secondi, erano
loro stessi a doversi preoccupare di ogni tipo di TUTELA. Dati i cambiamenti del mercato del lavoro e il passare del
tempo, queste differenze andavano inevitabilmente sanate.
Lo scopo dello statuto del lavoratore autonomo è stato proprio questo: mettere nero su bianco tutti i diritti della
categoria di cui lo Stato doveva farsi carico.
Esso è contenuto nel Capo I della legge 22 maggio 2017, n.81, che ha previsto dunque per tutti i lavoratori
autonomi (tranne per gli agenti di commercio soggetti a una disciplina particolare e i professionisti) delle misure di
tutela:
-Applicazione delle misure in tema di velocizzazione dei pagamenti, poiché l’esigenza principale dei lavoratori
autonomi è quella di riuscire a farsi pagare tempestivamente dai loro committenti: è fissato un termine massimo di
60 gg.
-Inefficacia di alcuni tipi di clausole contrattuali (come quelle che attribuiscono al committente la facoltà di
modificare unilateralmente le condizioni di contratto o di recedere da esso senza congruo preavviso; o anche il
rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma scritta). Il prestatore avrà diritto al risarcimento dei danni
patiti.
-Accesso dei lavoratori autonomi, presso i Centri per l’Impiego, a servizi personalizzati di orientamento,
riqualificazione e ricollocazione.
-Norme di tutela in caso di maternità, malattia o infortunio sul lavoro.
-Misure di agevolazione fiscale (come la sottrazione fiscale, entro un limite massimo, delle spese sostenute per la
propria formazione professionale).
-Tutela previdenziale (tutela del lavoratore in ordine ai rischi inerenti ad eventuale perdita parziale o totale della
capacità lavorativa per determinati eventi) obbligatoria.
LA NOZIONE
La collaborazione coordinata e continuativa (cd. lavoro parasubordinato) è una categoria intermedia fra il lavoro
autonomo ed il lavoro dipendente, si concretizza in una prestazione d’opera eseguita in piena autonomia ed è
inserita in un rapporto di lavoro unitario e continuativo con il committente, ma si pone al di fuori da ogni vincolo di
subordinazione.
La fattispecie del collaboratore coordinato e continuativo è connotata dai seguenti elementi:
a) Il carattere coordinato, ma non eterodiretto (sottoposizione del lavoratore al potere direttivo del datore di
lavoro) come nel lavoro subordinato, della collaborazione.
b) Il carattere continuativo, come nel lavoro subordinato, della collaborazione.
c) Il fatto che la prestazione di lavoro si eseguita mediante l’opera prevalentemente personale del collaboratore,
come nel lavoro subordinato, ma diversamente dal lavoro imprenditoriale in cui è prevalente l’organizzazione dei
mezzi.
Per poter restare nel campo dell’autonomia, la collaborazione in discorso deve essere caratterizzata, pertanto, dal
fatto che il coordinamento tra il collaboratore e l’organizzazione del committente concerna, prevalentemente, il
momento dell’individuazione del risultato atteso dalla collaborazione. Per quanto riguarda, invece, IL MOMENTO
ESECUTIVO DELLA COLLABORAZIONE, ESSO DEVE ESSERE GESTITO DAL COLLABORATORE in autonomia organizzativa.
LA DISCIPLINA
Non esiste un articolo che interviene sulla definizione della categoria ma ci sono stati una serie di momenti
riformatori in questo ambito:
-riconoscimento di natura processuale: con la legge 11 agosto 1973, n.533, istituì uno speciale rito processuale per le
controversie di lavoro, al fine di favorire l’accesso dei lavoratori alla giustizia, non solo quelli subordinati ma anche
ai collaboratori operanti nell’ambito di “rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera
continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
-riconoscimento previdenziale con la legge 335 del 1995 viene imposta l’assicurazione pensionistica obbligatoria
presso la Gestione separata INPS, che comporta l'obbligo di versare contributi previdenziali di ammontare pari al
34% del corrispettivo lordo del collaboratore, posto per 2/3 a carico del committente e per 1/3 del collaboratore.
Alla maturazione del previsto requisito di età, i contributi accumulati daranno luogo al trattamento pensionistico,
calcolato secondo il metodo contributivo, ossia rapportando la pensione al valore capitalizzato dai contributi versati.
-riconoscimento fiscale: le medesime modalità di corresponsione della retribuzione (emissione di busta paga) e di
prelievo imposta, previste per i lavoratori dipendenti.
-riconoscimento assicurativo: d.lgs. 38 del 2000 istituisce l'obbligo di assicurazione contro le malattie e gli infortuni
sul lavoro, gestita dall’INAIL.
-indennità maternità e di disoccupazione: a carico dell’INPS.
COLLABORAZIONE ETERORGANIZZATA
Il legislatore del Jobs Act (Governo Renzi/ d.lgs. 4 Marzo 2015) ha cercato di riempire la zona grigia tra autonomia e
subordinazione mediante la creazione e la disciplina di forme contrattuali che rimangono autonome ma in qualche
modo beneficiarie di speciali trattamenti assimilabili a quelli del lavoro subordinato.
Il Decreto legislativo n.81/2015 ha previsto, dal 1° gennaio 2016, l'applicazione della disciplina del rapporto di
lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione nel caso in cui si concretizzassero in prestazioni di lavoro
esclusivamente personali, continuative ed organizzate dal committente rispetto al luogo e all'orario di lavoro: è
entrata così nel nostro ordinamento la nuova figura della collaborazione Eterorganizzata.
Quindi, per semplificare, quando una prestazione di lavoro personale, coordinata e continuativa È ANCHE
ETEROROGANIZZATA DAL COMMITTENTE, le si applicherà la stessa disciplina del lavoro subordinato.
Il successivo Decreto-legge n.101/2019, ha esteso il campo di applicazione della disposizione contenuta nel d.lgs. n.
81/2015: è ora previsto che la disciplina del rapporto di lavoro subordinato si applichi anche ai rapporti che si
concretano in prestazioni di lavoro "prevalentemente" personali (e non più, quindi, "esclusivamente" personali); è,
inoltre, venuto meno il riferimento "ai tempi e ai luoghi di lavoro", relativo al modo in cui il committente può
organizzare le modalità di esecuzione della prestazione.
Essendosi messa in mezzo tra lavoro subordinato e collaborazione coordinata e continuativa, la collaborazione
eterorganizzata deve essere distinta dall’uno e dall’altra.
-differenza dal lavoro subordinato: l’eterodirezione ("comandato da altri") è uno dei presupposti, insieme ad altri
indici che deve sempre esserci in un rapporto subordinato. Possono esistere collaborazioni che sono eterorganizzate
pur non arrivando ad essere eterodirette (quelle collaborazioni nelle quali il committente non esercita un potere
direttivo in senso proprio, ma di fatto al collaboratore non è lasciato alcun apprezzabile margine di autonomia
organizzativa su come, dove e quando svolgere la propria attività). Questo genere di collaborazioni molto rischiano
di essere riqualificate, nei giudizi, come subordinate. Semplicemente accade, che nelle collaborazioni
eterorganizzate, il committente decide modalità e tempi dell’esecuzione della prestazione, senza che il lavoratore
possa apportare alcun elemento di autonomia.
-differenza dalla collaborazione coordinata e continuativa: la collaborazione coordinata e continuativa deve essere
caratterizzata dal fatto che, ferma restando l’individuazione da parte del committente del risultato atteso della
prestazione, le modalità della collaborazione siano determinate e gestite autonomamente, in prevalenza, dal
collaboratore o al massimo con un coordinamento concordato con il committente; invece, come già accennato, in
caso di collaborazione etero-organizzata, il rapporto di collaborazione si concreta in una prestazione
prevalentemente personale e continuativa dove le modalità di esecuzione siano, però, organizzate dal committente
(e dunque non autonomamente).
Si ha etero-organizzazione quando il collaboratore opera all’interno di un’organizzazione datoriale rispetto alla quale
sia tenuto ad osservare determinati orari di lavoro e sia tenuto a prestare la propria attività presso luoghi di lavoro
individuati dallo stesso committente, sempre che le prestazioni risultino continuative ed esclusivamente personali.
Per “prestazioni di lavoro esclusivamente personali” si intendono le prestazioni svolte personalmente dal titolare del
rapporto, senza l’ausilio di altri soggetti; le stesse devono essere inoltre “continuative”, ossia ripetersi in un
determinato arco temporale al fine di conseguire una reale utilità e organizzate dal committente quantomeno con
riferimento “ai tempi e al luogo di lavoro”. Quindi si ha etero-organizzazione quando il collaboratore sia soggetto al
potere organizzativo del committente il quale può essere esercitato sia con riferimento ai tempi e luoghi di lavoro sia
con riferimento ad altro (che cosa nello specifico ce lo chiarirà la dottrina e la giurisprudenza).
In caso di collaborazione etero-organizzata si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
-per le amministrazioni pubbliche nel 2019 è stato introdotto il divieto di attivare collaborazioni eterorganizzate,
nel caso di violazione del divieto, la conseguenza non è l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, bensì
la nullità del contratto e la responsabilità erariale (dinanzi alla Corte dei Conti) del dirigente che l’ha stipulato.
Il danno erariale è il danno sofferto dallo Stato o da un altro ente pubblico a causa dell'azione o dell'omissione di un
soggetto che agisce per conto della pubblica amministrazione in quanto funzionario, dipendente o, comunque,
inserito in un suo apparato organizzativo.
Il decreto n. 101/2019 ha anche introdotto nel c.d. Codice dei contratti di lavoro (d.lgs. 81/2015) una SPECIFICA
DISCIPLINA per la tutela del lavoro tramite piattaforme digitali.
-Art. 1: la forma contrattuale comune è quella di contratto di lavoro a tempo indeterminato.
-Art. 2: collaborazioni organizzate dal committente: queste disposizioni (per cui, si applica la disciplina del rapporto
di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretizzano in prestazioni di lavoro
prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente) si
applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione sono organizzate mediante piattaforme digitali.
-Art. 47 bis: scopo, oggetto e ambito di applicazione: la finalità del legislatore è quella di assicurare livelli minimi di
tutela ai soggetti che lavorano tramite piattaforme digitali. Ambito applicativo: potranno usufruire delle tutele i
lavoratori autonomi che svolgano attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di
biciclette, moto, motorini o simili (con due o più ruote), attraverso piattaforme anche digitali.
-Art. 47 ter: forma contrattuale e informazioni: i contratti dei lavoratori che operano per le piattaforme di consegna
devono avere forma scritta e gli operatori devono ricevere ogni informazione utile per la tutela dei propri interessi;
in caso di violazione il lavoratore ha diritto a una indennità risarcitoria di entità non superiore ai compensi percepiti
nell’ultimo anno.
Tutele previste dai Contratti collettivi nazionali per i riders: Compenso minimo di 10 euro l’ora.
Indennità integrativa (istituita al fine di adeguare le retribuzioni al costo della vita, dal 10 al 20%) per lavoro
notturno, festività e maltempo. Incentivo orario di 7 euro per i primi quattro mesi dall’apertura del servizio in una
nuova città. Premi di 600 ogni duemila consegne.
LA DIFFERENZA PRINCIPALE TRA LAVORO AGILE E TELELAVORO risiede nel concetto di fondo su cui è basata la
pratica. Nel caso del telelavoro, il lavoratore ha una postazione fissa che però si trova in un luogo diverso da quello
dell’azienda. La seconda pratica è caratterizzata, quindi, da una maggiore rigidità che si traduce non solo sul piano
spaziale, ma anche su quello temporale. Gli orari sono più rigidi e, di norma, rispecchiano quelli stabiliti per il
personale che svolge le stesse mansioni all’interno dell’azienda. Anche in questo caso è necessario un accordo scritto
delle parti, lavoratore e datore di lavoro. Tra i punti di contatto tra smart working e telelavoro c’è sicuramente
l’utilizzo delle tecnologie che rendono possibile il lavoro da remoto e l’utilizzo della connessione ad Internet.
Nell’ordinamento italiano la legge che regola il lavoro agile è la numero 81 del 2017:
I due punti cardine di tale pratica sono:
-la flessibilità organizzativa;
-la volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale.
Ovviamente è necessario avere a disposizione i mezzi che permettano di svolgere l’attività lavorativa in luoghi diversi
dalla sede ordinaria. Tale requisito è comune anche alla pratica del telelavoro, anch’essa possibile solamente con
strumenti che permettono di lavorare da remoto quali pc, tablet, smartphone ecc.
Altri specifici aspetti che regolano la pratica dello smart working sono contenuti negli articoli dal 18 al 24 della già
richiamata legge numero 81 del 22 maggio 2017, tra questi ci sono, ad esempio, i seguenti:
-la responsabilità del datore di lavoro sulla sicurezza del lavoratore;
-la parità di trattamento economico e normativo tra chi lavora in modalità agile e chi svolge le sue mansioni
esclusivamente all’interno dell’azienda;
-il potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore;
-l’obbligo per il datore di lavoro di presentazione dell’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e
i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro;
-le regole sulla copertura assicurativa del lavoratore.
L’ACCORDO SUL LAVORO AGILE DISCIPLINA: le concrete modalità di esercizio del lavoro svolto all’esterno dei locali
aziendali, le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, i tempi di riposo del lavoratore e le misure per
garantirgli la disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche; l’eventuale diritto del lavoratore agile
all’apprendimento permanente e alla periodica certificazione delle competenze; le forme di esercizio del potere di
controllo del datore di lavoro (controllo a distanza).
LAVORO AGILE: RECESSO: Dal lavoro agile è possibile recedere. Il recesso dall’accordo è consentito ad entrambe le
parti: sia al lavoratore che al datore di lavoro. Se il lavoro agile è a tempo indeterminato, le parti possono recedere
dando un preavviso non inferiore a 30 giorni (a meno che non sussista un giustificato motivo di recesso). Se, invece, è
a termine, dunque a tempo determinato, il recesso è ammesso solo in presenza di un giustificato motivo.
In entrambi i casi, una volta esercitato il recesso dall’accordo, l’attività lavorativa riprende a svolgersi secondo le
modalità ordinarie. Nel caso di lavoratori disabili il termine di preavviso non può essere inferiore a 90 giorni, per
consentire al lavoratore di riorganizzare il proprio impegno di lavoro compatibilmente con le proprie esigenze di vita
e di cura.
NEL CONTESTO DELLA PANDEMIA, il lavoro agile è emerso come una grande risorsa a disposizione delle aziende che
potessero e volessero continuare l’attività anche durante il lockdown, per cui in tantissimi, vi hanno fatto ricorso e vi
sono stati anche diversi dpcm a riguardo. Il Dpcm, acronimo di Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è un
provvedimento amministrativo di rapida emanazione che entra in vigore immediatamente e dipende esclusivamente
dalla volontà del presidente del consiglio.
La normativa d’emergenza ha stabilito: il diritto dei datori di lavoro di collocare in lavoro agile i lavoratori a
prescindere dalla stipulazione di accordo individuale con loro ed il diritto dei lavoratori ad ottenere il passaggio al
lavoro agile, ove compatibile con le caratteristiche della prestazione, nel caso essi siano prestatori fragili (disabili,
immunodepressi, a speciale rischio di contagio o con un figlio minore di 14 anni da assistere).
Ci sono delle differenze però dal lavoro agile previsto dalla legge del 2017 e quello che è avvenuto durante la
quarantena: manca l’accordo individuale perché lo smart working è previsto per “cause di forza maggiore”; i controlli
sono a distanza; l’attività non è svolta in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno ma completamente
all’esterno presso la propria abitazione, e, soprattutto, le finalità non sono quelle di incrementare la competitività e
agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro ma è quella di evitare la diffusione del contagio e quindi la
tutela della salute.
Ambito applicativo della certificazione: la certificazione può avere per oggetto qualsiasi tipologia di contratto di
lavoro: contratti di lavoro subordinato ma anche contratti di lavoro autonomo, parasubordinato (rapporti che si
concretano in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a
carattere subordinato). Può intervenire, inoltre, non solo al momento della stipulazione del contratto ma anche
successivamente e, dunque, nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro.
A quali organi rivolgersi per la certificazione? la procedura di certificazione è eseguita da apposite COMMISSIONI DI
CERTIFICAZIONE che possono essere costituite ad iniziativa di diversi organi:
-degli Enti bilaterali, costituiti a livello provinciale o nazionale.
-delle sedi territoriali dell’Ispettorato del lavoro e delle province;
-delle Università pubbliche e private;
-dei consigli provinciali dei consulenti del lavoro. In tal caso, la loro competenza è limitata, esclusivamente, ai
contratti di lavoro instaurati nell’ambito territoriale di riferimento.
Come avviene la certificazione del contratto di lavoro? la procedura di certificazione inizia con un’istanza, la quale
che deve essere presentata alla commissione di certificazione competente e redatta per iscritto nonché sottoscritta
da entrambe le parti del contratto di lavoro (datore di lavoro e lavoratore), è rivolta a ottenere un ATTO DI
CERTIFICAZIONE, che è un atto amministrativo tramite il quale l’organo abilitato certifica che la qualificazione del
contratto è corretta e che quello sottoposto ad esame è realmente, ad esempio, un contratto di collaborazione
coordinata e continuativa (non subordinato) e non un contratto di lavoro subordinato finto.
L’atto di certificazione dev’essere motivato. Gli effetti della certificazione sul contratto di lavoro si producono in
modalità diverse a seconda che la certificazione intervenga a rapporto di lavoro in corso di esecuzione o in fase di
stipulazione del contratto. Gli effetti dell’accertamento dell’organo preposto alla certificazione del contratto di
lavoro, nel caso di contratti in corso di esecuzione, si producono dal momento di inizio del contratto.
In caso di contratti non ancora sottoscritti dalle parti, gli effetti si producono soltanto ove e nel momento in cui
queste ultime (le parti appunto) provvedano a sottoscriverli, con le eventuali integrazioni e modifiche suggerite dalla
commissione di certificazione.
È importante ricordare che, nella qualificazione del contratto di lavoro il giudice NON può discostarsi dalle
valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione, salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi
del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione”.
Il denominatore comune (causa principale) di quasi tutte le controversie è rappresentato dalla difformità fra
contratto e l’esecuzione effettiva del rapporto di lavoro, il lavoratore può continuare a promuovere una tale
controversia anche qualora il contratto sia stato certificato. Chiunque presenti ricorso giurisdizionale contro la
certificazione deve previamente rivolgersi alla commissione che ha adottato l’atto certificato per svolgervi un
tentativo obbligatorio di conciliazione.
IL DATORE DI LAVORO
NOTE INTRODUTTIVE
Il datore di lavoro, nell'ambito di un rapporto di lavoro, è una delle parti del contratto di lavoro subordinato.
Requisito caratterizzante è quello di avere alle proprie dipendenze un lavoratore subordinato.
I requisiti del datore di lavoro sono:
1. Persona fisica o giuridica, sia pubblica che privata.
2. Non necessariamente imprenditore.
Il datore di lavoro dunque può essere tanto una persona fisica (imprenditore individuale) quanto una persona
giuridica (ad es. una società per azioni).
Il datore di lavoro viene definito come il grande assente del diritto del lavoro non tanto perché la disciplina si
sofferma su quello che è il lavoratore e sull’obbligazione da quest’ultimo assunta, ma perché le caratteristiche del
datore di lavoro non qualificano ai fini del rapporto. Inoltre nell’art 2094 avviene la spersonalizzazione del datore, e
cioè, parlandosi di collaborazione con l’impresa, né il decesso, né il trasferimento d’azienda, né il fallimento del
datore o la liquidazione coatta amministrativa determinano l’estinzione del rapporto di lavoro. Tale soggetto infatti
può venir meno per morte (nel caso di persona fisica) o per estinzione (nel caso di persona giuridica). Nel caso di
decesso del datore, questa non costituisce causa di estinzione dei rapporti di lavoro che proseguono infatti con i suoi
eredi. Nel caso di trasferimento d’azienda sarà subordinato ad un nuovo datore di lavoro, in caso di fallimento o
liquidazione coatta amministrativa, l’art 2119 del codice civile stabiliscono che non costituiscono giusta causa di
cessazione del rapporto. Ciò non significa che non possano avvenire licenziamenti in coincidenza con tali vicende, ma
solo che queste ultime, di per sé sole, non costituiscono titolo autonomo di recesso del datore di lavoro.
Il complesso dei poteri del datore di lavoro viene sintetizzato nell'espressione potere direttivo, che consiste in un
insieme di facoltà nei confronti dei lavoratori subordinati:
-nel potere strettamente direttivo;
-nel potere di vigilanza e controllo sui lavoratori;
-nel potere disciplinare.
La più nota di tali norme è quella dell’art. 18, legge n. 300/1970: questo articolo, dello statuto dei lavoratori,
modificato dalla legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, disciplina il regime sanzionatorio da applicare nei
casi di licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015.
La si applica ai datori con più di 15 dipendenti in ambito comunale, o di 60 in ambito nazionale.
Disciplina del contratto a tutele crescenti: Nel 2015 è stato introdotto il nuovo contratto a tutele crescenti con il
Jobs Act che ha cambiato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello sul licenziamento. Prima del Jobs Act, il
licenziamento era disciplinato dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Esso prevedeva che, in un’azienda con
almeno 15 dipendenti, un dipendente licenziato in maniera illegittima avesse diritto al reintegro del suo posto di
lavoro. Dopo il Jobs Act: adesso, con il nuovo contratto a tutele crescenti, il lavoratore di qualsiasi azienda non ha
diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, ma solo a un indennizzo di natura economica che cresce con
l’anzianità di servizio (da qui il termine “a tutele crescenti”). Entrata in vigore: il decreto legislativo n. 23 del 4 marzo
2015 è entrato in vigore a partire dal 07 marzo 2015 ed è valido per i lavoratori assunti a partire da tale data.
I lavoratori assunti con il vecchio contratto a tempo indeterminato continuano a godere degli stessi diritti di prima,
senza alcuna modifica (per loro continua a vale l’articolo 18 e quindi il reintegro).
Le imprese con più di 50 dipendenti sono private della possibilità di mantenere presso l’azienda il trattamento di
fine rapporto (TFR) maturato dai lavoratori. Il T.F.R. è una somma di denaro che il datore di lavoro consegna al suo
dipendente nel momento in cui cessa il rapporto di lavoro, qualunque sia la causa (licenziamento, dimissioni,
pensionamento). Il TFR spetta a tutti i lavoratori subordinati (contratto a tempo determinato, indeterminato e
apprendistato). Affinché possa riconoscere questa somma al dipendente, l’impresa mette da parte ogni mese una
parte di TFR, detta appunto “quota” e indicata nella busta paga. La maturazione e l’accantonamento del TFR è
quindi su base mensile: ogni mese il datore di lavoro accantona una quota, che confluisce nell’apposito fondo
aziendale. A partire dal 1° gennaio 2001 le imprese che hanno un numero di dipendenti superiore a 50, non
effettuano più accantonamenti al fondo di trattamento di fine rapporto.
Il trattamento di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS) viene concesso alle imprese che occupano più di
15 dipendenti. La cassa integrazione guadagni straordinaria (CIGS) è un sostegno INPS a favore delle imprese in
situazioni critiche (crisi, ristrutturazione, ecc.) che sono costrette a diminuire le ore di lavoro dei propri dipendenti:
grazie a questa misura, i lavoratori a cui le ore sono state ridotte percepiscono una indennità sostitutiva dello
stipendio.
Problema del computo dei dipendenti: come si contano i dipendenti di un determinato datore di lavoro? È un
calcolo difficile da fare, perché dipende da diversi fattori ma potrebbe essere utile farlo per avere accesso a delle
protezioni come: incentivi normativi per alcune tipologie di lavoro (dei lavoratori flessibili verranno esclusi dal
computo dei dipendenti) ma anche incentivi contributivi che riducono il versamento ridotto di retribuzione o
contribuzione. Il computo dei lavoratori nell’organizzazione aziendale si riferisce solo a determinati collaboratori, i
lavoratori subordinati.
Esiste una soglia limite di numero di dipendenti che è indice di solvibilità/buona salute del datore di lavoro, viene
conteggiata guardando alla singola unità produttiva (unità, reparto o filiale autonoma) generalmente è di 15
dipendenti per unità produttiva o 5 per attività agricola.
L’ACCESSO AL LAVORO
In seguito con la legge numero 608 del 1996 fu abolito il meccanismo della richiesta preventiva (sia numerica che
nominativa) e venne introdotta la regola dell'assunzione diretta (che funzionava attraverso una mera
comunicazione agli uffici di collocamento). Un ulteriore passaggio di questa vicenda si è avuto nel 1997, perché ci fu
una riforma con il d.lgs. 23 dicembre 1997 n.469 che decretò l’illegittimità del monopolio pubblico del
collocamento. Questo decreto legislativo: ha trasferito le funzioni relative al collocamento dallo Stato alle regioni,
ed ha legalizzato l’intermediazione privata purché autorizzata amministrativamente.
Tuttavia per una serie di ragioni il sistema descritto ha continuato a funzionare in modo mediamente
insoddisfacente, maturando così le premesse per una NUOVA riforma.
Vi fu una proposta di revisione, avvenuta nel referendum popolare 4 dicembre 2016, in cui si richiedeva la
competenza esclusiva allo Stato della materia del mercato del lavoro, l’esito del referendum fu però negativo e la
funzione rimase alle regioni.
LA COMUNICAZIONE DI ASSUNZIONE
Una volta che domanda e offerta di lavoro si sono positivamente incontrati, vige la regola dell’assunzione diretta, la
quale comporta che il contratto individuale di lavoro subordinato può essere stipulato liberamente tra le parti senza
dover passare per il Centro per l’Impiego o un’agenzia per il lavoro.
La mediazione (mediazione: pratica per la gestione dei conflitti, il cui obiettivo è quello di condurre le parti in
disaccordo a ricercare e trovare una soluzione attraverso l’ausilio del mediatore, il quale è un soggetto terzo e
imparziale) di questi soggetti è, dunque, meramente facoltativa: l’impresa in cerca di personale può segnalare al
Centro o all’agenzia la figura professionale di cui ha bisogno, e gli stessi, (una volta espletata la profilazione),
mettono a disposizione del richiedente il maggior numero possibile di curriculum, per consentirgli di procedere
liberamente e privatamente ai colloqui, finalizzati a un’eventuale assunzione.
Ma il contratto può realizzarsi anche in via diretta, eventualmente favorito da canali informali di informazione e
intermediazione, quali le offerte di lavoro sui giornali e negli altri mezzi di comunicazione, e ovviamente le
conoscenze personali e familiari, i passaparola ecc.
Il datore di lavoro deve comunicare l’assunzione, per via telematica, non più al Centro per l’Impiego
territorialmente competente bensì all’ANPAL, entro il giorno antecedente la stipula del relativo contratto, (fatti salvi
casi di urgenza, nei quali la comunicazione può essere trasmessa entro 5 giorni dall’assunzione, purché non oltre il
giorno antecedente la data di inizio della prestazione). Tale regola vale anche per le collaborazioni coordinate e
continuative. In caso di omessa o ritardata comunicazione, il datore di lavoro riceve ad una sanzione amministrativa
irrogata (inflitta) dalla competente sede dell’Ispettorato del lavoro.
Gli organismi pubblici competenti a gestire il collocamento obbligatorio sono, come per il collocamento ordinario,
le Regioni e le Province, tramite i Centri per l’impiego.
La legge elenca varie categorie di soggetti beneficiari, le più importanti delle quali sono:
-invalidi civili in età lavorativa, affetti da minorazioni fisiche o psichiche che comportino una riduzione della capacità
lavorativa sopra il 45%.
-invalidi del lavoro, (cioè che sono diventati tali per un infortunio sul lavoro), con una riduzione della capacità
lavorativa sopra il 33%.
L’accertamento medico della condizione di disabilità è affidato ad un’apposita commissione costituita presso
l’Azienda USL, che deve rilasciare una diagnosi funzionale del disabile, al fine di accertarne il grado di capacità
lavorativa residua e di suggerirne, nello spirito del collocamento mirato, un’utilizzazione professionale confacente
(appropriata). Se l’accertamento risulta positivo, i disabili devono iscriversi in appositi elenchi, tenuti dai Centri per
l'impiego. Per ogni persona, il Comitato tecnico istituito presso il servizio, annota in una apposita scheda le capacità
lavorative, le abilità, le competenze e le inclinazioni, nonché la natura e il grado della minorazione e analizza le
caratteristiche di posti da assegnare ai lavoratori disabili. In questo settore è stata a lungo operante, la regola della
richiesta numerica da rivolgere al Centro (che poi procedeva all’avviamento tenendo conto di una graduatoria
redatta in base a vari criteri), ma essa è stata superata dal Jobs Act che ha generalizzato la possibilità di una
richiesta nominativa della persona. Non è prevista un’assunzione diretta senza passare per il Centro per l’Impiego.
La quota di disabili assunti obbligatoriamente ammonta: al 7% dell’organico stabile, se l’impresa ha più di 50
dipendenti; 2 disabili per quelle che occupano da 15 a 35 dipendenti, mentre le imprese con meno di 15 dipendenti
sono esenti da obblighi.
Per effetto della modifica apportata alla LEGGE 68/99 l’azienda potrà, inoltre, computare nella quota di riserva
(numero di lavoratori appartenenti alle categorie protette che l’azienda è tenuta ad assumere) anche i lavoratori
che, sebbene già disabili al momento dell’assunzione, non siano stati avviati attraverso il collocamento obbligatorio,
purché però abbiano una riduzione della capacità lavorativa superiore al 60% (45% se disabile psichico).
Al fine di permettere un periodico monitoraggio della situazione, ciascuna impresa deve presentare una denuncia
annuale al Centro per l’Impiego, contenente informazioni sul numero dei dipendenti e sui disabili occupati.
A seguito di tale denuncia, se il Centro per l’Impiego rileva la presenza di eventuali scoperture, sorge l’automatico
obbligo dell’impresa di rivolgere al Centro una richiesta di assunzione per il numero di disabili mancante, e quindi per
essere in regola con la legge.
Qualora l’impresa non inoltri la richiesta obbligatoria a tempo debito, il Centro per l’impiego non può avviare
d’ufficio il disabile, ma l’impresa è soggetta a sanzioni amministrative, disposte dalla competente sede
dell’Ispettorato del lavoro. Una volta trasmessa la richiesta, il Centro emette il provvedimento di avviamento
obbligatorio, che impone all’impresa di stipulare il relativo contratto con il lavoratore disabile.
L’impresa non ha la facoltà di rifiutare lecitamente l’assunzione del disabile, salvo dimostrazione dell’impossibilità
di avviamento nel contesto aziendale. Nel caso di un illecito rifiuto di assunzione, l’impresa può essere condannata
dal giudice a costituire coattivamente il contratto di lavoro (qualora la richiesta di assunzione già contenga gli
elementi essenziali del contratto non concluso), oppure il risarcimento dei danni patiti dal disabile in ragione della
mancata assunzione.
Una volta costituito, il rapporto di lavoro del disabile è disciplinato in maniera identica a quello degli altri
lavoratori, con il privilegio del disabile, che il datore di lavoro deve tenere conto della sua condizione di salute,
assegnandogli mansioni compatibili con esse e cioè compatibili con la sua condizione fisica e psichica.
Sono anche vietate, discriminazioni a danno del disabile, come si evince dal divieto di discriminazione per handicap
sancito dal d.lgs. 216/2003.
Qualora, nello svolgimento del rapporto, insorgano problemi a tale riguardo, sia da parte del disabile che
dall’impresa possono essere richieste nuove visite mediche, da effettuarsi presso l’apposita commissione dell’azienda
USL, per appunto verificare se la mansione assegnata al disabile può essere effettivamente svolta da questi, oppure
se egli ha patito (sofferto di) un peggioramento fisico o psichico che ne impedisce la permanenza in quella realtà
lavorativa. Qualora sia riscontrata una condizione di aggravamento, incompatibile con la prosecuzione dell’attività
lavorativa, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita della prestazione di lavoro sino a quando tale
incompatibilità persiste. Dopo di che il rapporto di lavoro può essere risolto, tramite un licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la
commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda.
LA LEGGE N. 68/1999 (collocamento mirato) si applica anche alle pubbliche amministrazioni (insieme degli enti
pubblici che concorrono all'esercizio e alle funzioni dell'amministrazione di uno Stato nelle materie di sua
competenza) con la differenza che, fatti salvi casi specifici, le assunzioni avvengano per chiamata numerica (e non
nominativa) degli iscritti nelle apposite liste, previa verifica della compatibilità della disabilità con le mansioni da
svolgere. I disabili inoltre possono partecipare a tutti i concorsi di tutte le amministrazioni, escluse quelle di polizia o
mansioni che non consentano appunto l’occupazione dei disabili. Nei concorsi, i disabili hanno diritto ad una riserva
di posti pari, nei limiti della complessiva quota d’obbligo incombente sull’amministrazione, fino al 50% dei posti
messi a concorso, e se hanno conseguito l’idoneità possono essere assunti anche oltre questo limite.
Se la disciplina del rapporto con lavoratori extracomunitari non presenta, come appena detto, significativi
problemi di specialità, oggetto di una specifica regolamentazione è sempre stato l’accesso del lavoratore
extracomunitario al mercato del lavoro nazionale. Gli stati europei sottopongono tale accesso a restrizioni per
tenere sotto controllo il flusso dei migranti, quale flusso portatore di vantaggi economici ma carico di implicazioni
sociali e culturali potenzialmente destabilizzanti.
La disciplina italiana riguardo all’Accesso dei cittadini extraeuropei si è sviluppata a tappe:
-inizialmente il fenomeno migratorio fu considerato solo una questione di polizia, in quanto l’immigrato era
considerato soggetto pericoloso per l’ordine pubblico, fu dunque privilegiata un’ottica meramente statica.
-successivamente (con la Legge Martelli) è stata adottata una più ampia e dinamica prospettiva di programmazione
annuale dei flussi migratori.
Nel complesso, la normativa che ne è derivata, pur raccolta nel “Testo unico sull'immigrazione e la condizione dello
straniero” (emanato con d.lgs. 286 del 1998) non si è mai definitivamente assestata (regolata), risentendo parecchio
della difficoltà di governare il fenomeno.
Una tappa decisiva di tale evoluzione, è rappresentata dalla legge n.189/2002 (legge Bossi-Fini), la quale è tuttora la
fonte di riferimento. Il messaggio di questa legge è stato quello secondo cui: l’ingresso e la permanenza sul territorio
nazionale dello straniero per soggiorni duraturi, si giustificano soltanto in relazione all’effettivo svolgimento di
un'attività lavorativa sicura e lecita, di carattere temporaneo o anche di elevata durata.
Tra le altre leggi importanti: vi fu la legge n. 94/2009: introduzione del reato di immigrazione clandestina che
prevede un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro per lo straniero che entra illegalmente nel territorio dello Stato.
L’ingresso in Italia per motivi di lavoro è subordinato infatti al compimento di una procedura amministrativa tipica
che rispecchia la duplice condizione, giuridica e sociale dell’immigrato:
-come cittadino straniero, l’immigrato deve munirsi di un visto di ingresso nel paese e poi tramite la Questura di un
permesso di soggiorno;
- come aspirante al lavoro, l’immigrato deve essere “autorizzato al lavoro” da parte di un organismo competente.
Il datore di lavoro che intende instaurare un rapporto subordinato, a tempo determinato o indeterminato, con uno
straniero residente all’estero, deve farne richiesta allo Sportello unico per l’immigrazione (presso la Prefettura)
previa verifica, presso il Centro per l’impiego competente, dell’indisponibilità, adeguatamente documentata, di un
lavoratore già presente sul territorio nazionale.
Entro 60 giorni dalla presentazione della richiesta, lo Sportello procede al rilascio del nulla osta al lavoro (permesso
il quale autorizza un datore di lavoro ad assumere un lavoratore straniero con residenza all’estero).
Il nulla osta vale per un periodo non superiore a 6 mesi dalla data del rilascio (ma ne è possibile il rinnovo).
In seguito alla concessione del nulla osta, il Consolato del paese di residenza o di origine dello straniero rilascia il
visto di ingresso. Entro 8 giorni dall’ingresso nel paese il lavoratore ha l’onere di recarsi presso lo sportello per la
stipula del contratto di soggiorno per lavoro subordinato. Soltanto a seguito di tale stipulazione, al lavoratore è
rilasciato dalla questura, il permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Il contratto di lavoro con soggiorno, non può superare la durata massima del permesso di soggiorno, quindi la
durata è: 9 mesi per uno o più lavori stagionali, 1 anno per contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, 2
anni per contratti di lavoro a tempo indeterminato. Il lavoratore qualora perda, per qualsiasi motivo, il posto di
lavoro, può registrarsi come disoccupato, presso il Centro per l’Impiego, per il periodo di residua validità del
permesso di soggiorno.
Il d.lgs. 26 maggio 1997 n.152 ha stabilito che il datore di lavoro, entro 30 giorni dalla data di assunzione, è tenuto a
fornire al lavoratore informazioni sui seguenti oggetti: data di inizio del rapporto di lavoro, durata del rapporto di
lavoro (con la precisazione se si tratta di rapporto a tempo determinato o indeterminato).
Queste informazioni possono essere contenute nel contratto individuale o in un documento scritto da consegnare al
lavoratore entro 30 giorni dalla data di assunzione. In caso di modifica degli elementi del contratto dopo
l’assunzione, il lavoratore deve essere informato entro un mese dall’adozione.
Qualora il datore di lavoro non adempia o adempia in modo ritardato, inesatto o incompleto agli obblighi, il
lavoratore può rivolgersi all’Ispettorato del lavoro per intimare il datore ad adempiere, sotto minaccia di sanzioni
amministrative.
Merita sottolineare che; a volte può accadere che il contratto sia stipulato dopo l’inizio effettivo della prestazione
(altre volte addirittura non viene stipulato affatto, istaurandosi rapporti di lavoro in nero) ma non si tratta di una
prassi regolare. Anche il periodo di prova deve svolgersi nell’ambito di un contratto regolarmente stipulato.
PERIODO DI PROVA
Ai sensi dell’art.2096 cc.; la fase iniziale del rapporto di lavoro può essere contrassegnata dalla volontaria
apposizione al contratto, nel momento della stipulazione, di una clausola accessoria recante la previsione di un patto
di prova. Tale patto deve risultare, ad substanziam, da atto scritto. Il periodo di prova, la cui durata è normalmente
prevista di contratti collettivi nazionali di categoria (massimo di 6 mesi), ha la funzione di consentire ad entrambe le
parti, di “valutare la convenienza dell’affare”: al datore permette di valutare l’attitudine professionale del lavoratore;
e a quest’ultimo permette di sperimentare le proprie capacità e di valutare il tipo e l’ambiente di lavoro. L’art. 2096,
c.2, dispone che “l’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare
l’esperimento che forma oggetto del patto di prova”, il datore di lavoro, in particolare, ha il dovere di mettere il
lavoratore in condizione di mostrare le sue attitudini professionali, in relazione alle mansioni per le quali è stato
assunto. Ciò richiede, secondo la giurisprudenza, che tali mansioni siano specificate in modo esaustivo nel patto di
prova, a pena di nullità e inefficacia del medesimo.
Il maggiore tratto di specialità della disciplina del lavoro in prova è costituito dal regime del licenziamento, che è
un’eccezione alla regola del giustificato motivo, contemplando la facoltà di recesso ad nutum, senza obblighi di
preavviso, per entrambe le parti; ma ciò purché il periodo di prova non si sia protratto per più di 6 mesi.
Compiuto il periodo di prova si ha la conferma del lavoratore, la cui assunzione diviene definitiva.
Il periodo prestato a titolo di prova deve essere computato nell’anzianità di servizio del dipendente.
L’OBBLIGO DI DILIGENZA
Sulla base di quanto stabilito dall’articolo 2094 c.c., in primo luogo il contratto di lavoro subordinato risponde allo
schema diritto-obbligo: mediante la sua stipulazione, un soggetto (il lavoratore) si obbliga a fornire una prestazione
lavorativa nell’interesse di un altro soggetto (imprenditore), il quale vanta pertanto il diritto di pretendere
l’esecuzione di tale prestazione.
Il primo degli obblighi del lavoratore è ai sensi dell’art. 2104.1 c.c., quello che è sì solito conosciuto come obbligo di
diligenza, il quale è obbligo di fornire, secondo diligenza, la prestazione dovuta. La diligenza è la misura della
prestazione minima dovuta al creditore ai fini del corretto adempimento all’obbligazione. Il grado di diligenza non è
più misurato in base al principio della diligenza del buon padre di famiglia, ma secondo tre specifici parametri:
-la natura della prestazione dovuta: il lavoratore deve usare la diligenza richiesta dal tipo di attività che è chiamato
a svolgere, ossia con canone di diligenza professionale;
-l’interesse dell’impresa: ovvero tale parametro implica che la prestazione del lavoratore-debitore, debba di
fatto corrispondere all’interesse soggettivo dell’imprenditore-creditore.
-l’interesse superiore della produzione nazionale: secondo cui ciascun lavoratore contribuisce alla crescita della
ricchezza nazionale.
IL DIRIGENTE
La definizione del dirigente privato non risiede nella legge, ma nella contrattazione collettiva, che definisce i
dirigenti come colui che, in stretta prossimità (cioè in stretta collaborazione) con l'imprenditore, è investito di
competenze e responsabilità decisionali, con riferimento all’azienda o ad un ramo autonomo di essa.
Nonostante le competenze e le responsabilità decisionali tendano ad attenuare l’intensità della subordinazione, il
concetto di sottoposizione è proprio anche del dirigente. Inoltre, dato il dirigente collabora direttamente con
l’imprenditore, il rapporto dirigenziale è caratterizzato da un alto grado di fiducia.
Tale posizione al punto più alto di una gerarchia è all’origine, o meglio rappresenta l’elemento responsabile, di una
disciplina assai particolare cioè con tratti di specialità:
- i dirigenti sono organizzati sindacalmente in modo autonomo (cioè in sindacati autonomi), e quindi la
contrattazione collettiva avviene separatamente;
- godono di un trattamento economico di norma più elevato.
IL QUADRO
È la categoria più recente, ed è una figura di lavoratore situata in posizione intermedia tra i dirigenti da un lato, e gli
impiegati-operai dall’altro. Esso corrisponde a quelle figure investite di significative responsabilità gestionali che, pur
essendo preposte a importanti unità d’impresa, non acquisiscono una responsabilità decisionale nello stretto senso
del termine (come invece avviene nel caso del dirigente).
L’aspirazione dei sindacati dei quadri, era infatti quella di seguire la strada dei dirigenti, per essere riconosciuti come
categoria autonoma e svincolarsi dal sindacalismo generale. La loro azione ebbe però successo solo in parte:
-i sindacati dei quadri, pur tuttora esistenti, non sono mai riusciti a realizzare il sogno di un contratto collettivo
separato.
-è stato invece ottenuto, da parte della categoria dei quadri, il riconoscimento legale: infatti la legge n.190 del 1985,
ha aggiunto all’art.2095 comma 1 la categoria dei quadri, definendo questi ultimi come i prestatori di lavoro
subordinato che, pur non essendo dirigenti, svolgono, con carattere continuativo, funzioni di rilevante importanza ai
fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa.
L’IMPIEGATO
Sono la categoria più antica, fra le categorie previste dalla legge. Infatti tale categoria è stata la
prima a beneficiare di un'apposita disciplina legislativa di tutela, tramite lo storico regio decreto 1825 del
1924, nel quale è tutt’ora contenuta, per quel che vale, la definizione di contratto di impiegato privato è, il
contratto per il quale: una società o un privato, gestori di un’azienda, assumono al servizio dell’azienda stessa,
normalmente a tempo indeterminato, l’attività professionale dell’altro contraente, con funzioni di collaborazione sia
di concetto che di ordine, esclusa, ogni prestazione che sia semplicemente di mano d’opera.
Da questa definizione si ricava che i requisiti principali di questa categoria di lavoratori (non è più una tipologia
contrattuale), sono 3:
-la collaborazione, requisito tipico di tutti i lavoratori subordinati,
-la professionalità, requisito estendibile anche agli operai,
-la non manualità, unico requisito capace di distinguere l’impiegato dall’operaio.
Tuttavia, con l’evoluzione dei lavori e della tecnologia (il lavoro manuale ha sempre più un contenuto intellettuale)
la separazione tra la categoria degli impiegati e quella degli operai, si è a poco a poco riassorbita, venendo ad
eliminare quasi tutte le differenze di trattamento ancora esistenti. Questo non significa però, che il rilievo sociale
della distinzione impiegati e operai sia venuta meno completamente. E ciò è confermato dal fato che, ancora oggi, è
normale che un operaio viva come una promozione il passaggio ad un lavoro impiegatizio, anche se ugualmente
remunerato, mentre non è quasi mai vero l’inverso.
L’OPERAIO
La definizione di operaio è rinvenibile non nella legge ma nei contratti collettivi. L’operaio è la categoria esattamente
speculare e opposta a quella dell’impiegato. Infatti come l’impiegato è connotato dalla “non manualità”; la figura
dell’operaio è al contrario incentrata sulla manualità della sua prestazione.
CLASSIFICAZIONE PROFESSIONALE DEI CONTRATTI COLLETTIVI
I CCNL propongono un sistema di inquadramento diverso da quello previsto dall’articolo 2095 del Codice civile.
A seconda dei ruoli professionali svolti, essi classificano i lavoratori in un numero variabile di livelli (tra sette e otto),
denominati parametri, CATEGORIE o aree professionali.
I requisiti di differenziazione delle CATEGORIE sono molteplici: tra questi i più importanti sono il grado di
autonomia e discrezionalità esercitati nell’attività svolta, la difficoltà tecnica e gestionale per eseguirla, la titolarità di
poteri di direzione e l’eventuale coordinamento di altri lavoratori. Facendo uso di questi livelli si è in grado di
attribuire a ciascun lavoratore il livello e il trattamento che gli competono.
Il d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, all'art. 3 ha modificato la disciplina del mutamento delle mansioni.
Jobs Act, Art. 3 d.lgs. 81 del 2015:
C. 1: “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti
all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e
categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.” È una novità perché non c'è più il concetto di
equivalenza alle ultime mansioni svolte. Sono i contratti collettivi a dover definire se le nuove mansioni riguardano lo
stesso livello di inquadramento, si deve trattare sempre della stessa categoria legale.
C. 2: “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può
essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore (mutamento in peius:
demansionamento) purché rientranti nella medesima categoria legale.” Demansionamento lecito con questo nuovo
articolo, se il datore di lavoro adotta una riorganizzazione che incide in modo diretto sulla posizione del lavoratore.
C. 3: “Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo, il cui
mancato adempimento non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni.”
C. 4: “Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché
rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.”
C. 5: “Il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità”. Richiesta la forma scritta ad
substantiam. “Il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in
godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della
precedente prestazione lavorativa”. Elementi che non ricorrono più nelle nuove mansioni non devono essere
corrisposti (trasferta, lavoratore all’estero...).
Accordi sindacali: sul piano collettivo, per evitare in tutto o in parte un licenziamento collettivo, possono essere
conclusi accordi sindacali prevedenti l’assegnazione, ai lavoratori minacciati della riduzione di personale, di nuove
mansioni. Il declassamento proviene direttamente dall’accordo sindacale, senza necessità di patti individuali con i
lavoratori interessati.
LAVORO STRAORDINARIO
Il lavoro straordinario, è quello che eccede l’orario normale settimanale di lavoro (eccede quindi le 40 ore).
Il lavoro straordinario è pagato perciò, in misura maggiore rispetto al lavoro normale.
Attualmente la legge, si limita a dettare il principio secondo cui: “il lavoro straordinario deve essere computato a
parte e compensato con le maggiorazioni retributive previste dai contratti collettivi di lavoro”.
In sostanza la legge rinvia totalmente ai contratti collettivi per la determinazione della misura delle maggiorazioni,
che nei fatti sono di importo variabile (dal 10% al 50-60% circa) a seconda delle condizioni nelle quali il lavoro
straordinario si svolge (di notte, nelle feste ecc.). I contratti collettivi possono inoltre consentire che, “in alternativa
o in aggiunta alle maggiorazioni retributive, i lavoratori usufruiscano di riposi compensativi”, il compenso non è in
denaro ma in quota aggiuntiva di riposti. Sono previste delle limitazioni per il ricorso al lavoro straordinario: il
ricorso a prestazioni di lavoro straordinario deve essere “contenuto”; ed è ammesso soltanto previo accordo tra
datore di lavoro e lavoratore per un periodo che non superi le 250 ore annuali. Questi limiti sono relativi perché
possono essere derogati, anche in peius dai contratti collettivi.
Lavoro supplementare: è “quell’orario che va oltre l’orario contrattuale ma che rientra all’interno dell’orario
normale e non lo supera”. Più semplicemente: se il mio contratto è di 6h giornaliere e l’orario normale è di 8h
giornaliere; 6h<8h quindi è quell’orario che supera la sesta ma non va oltre l’ottava. Un esempio è il contratto di
lavoro part-time.
IL LAVORO NOTTURNO
Il periodo notturno va dalle 24 alle 5 del mattino, l’orario notturno è l’orario normale di lavoro di almeno 7 ore
consecutive di cui almeno 3 sono svolte nel periodo notturno, il lavoratore notturno è qualsiasi lavoratore che svolge
per almeno 80 giorni lavorativi all’anno le prestazioni di lavoro nell’orario di lavoro notturno.
I contratti collettivi prevedono dei casi in cui il lavoro notturno è vietato:
-per le donne in stato di gravidanza e fino al compimento di un anno di vita del bambino, dalle ore 24 alle 6.
-per i minorenni.
Non sono obbligati a prestare lavoro notturno: la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o in
alternativa il lavoratore padre; la lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario di un figlio di età
inferiore a 12 anni; il lavoratore o la lavoratrice che abbia a proprio carico un soggetto disabile.
L’introduzione del lavoro notturno deve essere preceduta da una consultazione con le RSA/RSU (rappresentanza
sindacale aziendale/unitaria) o, in mancanza, con le organizzazioni sindacali territoriali dei lavoratori, che però deve
concludersi entro un massimo di 7 giorni e che non impedisce al datore di lavoro, anche nel caso di dissenso
sindacale, di adottare tale modalità di lavoro.
L’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore in media nelle 24 ore.
È rimessa alla contrattazione collettiva la previsione di riduzioni dell’orario di lavoro o di trattamenti economici
indennitari a favore dei lavoratori notturni: di norma i contratti collettivi prevedono cospicue maggiorazioni per chi
lavora di notte. Qualora ci siano condizioni di salute che comportino l’inidoneità al lavoro notturno, accertate da un
medico, il lavoratore deve essere assegnato al lavoro diurno, in altre mansioni equivalenti, se esistenti e disponibili.
IL RIPOSO SETTIMANALE O DOMENICALE
Il lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo settimanale di 24 ore consecutive ogni 7 giorni (da cumulare con le
ore di riposo giornaliero; ciò per un totale di 24+11 ore, cioè 35 ore consecutive di riposo ogni settimana), di regola
coincide con la domenica (soprattutto in passato), ma oggi è sempre più diffuso il lavoro domenicale e anche nelle
festività. Se viene leso il diritto del riposo, il lavoratore può chiedere il risarcimento dei danni. Una distinta questione
è quella della coincidenza o meno del riposo settimanale con la domenica: se fino al d.lgs. n. 66/2003 è stata
ribadita tale regola, sono previste numerose eccezioni nelle quali il lavoro domenicale è consentito, in particolare nel
settore dei servizi. Tale lavoro (svolto di domenica) è da considerarsi più gravoso e di maggiore qualità, per cui
merita di essere compensato in modo specifico, a prescindere (cioè in aggiunta) dalla fruizione del riposo in altro
giorno della settimana.
LE FERIE
Sono disciplinate dal d.lgs. n.66/2003 e dall’Art. 2109 cc: “il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di
ferie retribuite non inferiore a quattro settimane” inclusi i giorni non lavorativi.
I contratti collettivi possono estendere tale periodo, ma non ridurlo (divieto deroga in peius).
La Corte Costituzionale nel 1987 ha previsto che “la malattia sopravvenuta durante le ferie ne sospende il decorso”,
per cui il lavoratore è abilitato a recuperare i giorni di ferie persi. Affinché si produca l’effetto sospensivo, occorre
che il lavoratore sia affetto da una malattia tale da impedire in modo rilevante la fruizione delle ferie, con prognosi
(previsione) di almeno 3 giorni.
La collocazione temporale del periodo di ferie spetta, al datore di lavoro, tenuto conto degli interessi del lavoratore.
Durante le ferie, spetta la normale retribuzione, ciò non implica che debba contenere tutte le voci retributive (come i
compensi per lavoro straordinario). Esiste un divieto di monetizzazione che implica che ci dev’essere una fruizione
reale del periodo di 4 settimane di ferie totali e non può essere sostituito dall’indennità risarcitoria per ferie non
godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto.
LE GUARDIE GIURATE
L’art.2 dello St. Lav., limita l’uso delle guardie giurate, prevedendo che: esse possano essere utilizzate solo per scopi
di tutela del patrimonio aziendale (comma 1) e che non possano contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da
quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale (comma 2). Il comma 3 dell’art.2,
chiarisce che: è fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull'attività lavorativa le guardie giurate, le
quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della stessa, se non
eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti alla tutela del patrimonio aziendale.
Da tali divieti, in sostanza, si desume che le guardie giurate non possono essere impiegate per controllare i
lavoratori, ma soltanto per tutelare il patrimonio aziendale. In caso di inosservanza delle disposizioni, la guardia
giurata è punita con la sospensione dal servizio e, nei casi più gravi, con la revoca della licenza, ed insieme al datore
di lavoro saranno sanzionabili penalmente.
IL PERSONALE DI VIGILANZA
L’art.3 St. Lav., dedicato al “personale di vigilanza” è finalizzato a prevenire controlli occulti (nascosti), sul
presupposto che essi siano sleali e lesivi. A fronte di tale esigenza, vi è pero quella dell’azienda, di prevenire e/o
verificare la commissione di illeciti in azienda, specialmente in quelle attività che registrano con frequenza furti ed
irregolarità di vario genere da parte dei dipendenti. Per bilanciare queste due richieste opposte la norma dispone
che: i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell'attività lavorativa debbono essere
comunicati ai lavoratori interessati. La giurisprudenza ha interpretato questa norma nel senso di ritenere legittimo il
controllo occulto “qualora esso sia difensivo”, e cioè qualora esso sia rivolto, non già a controllore il corretto
svolgimento del lavoro, ma a prevenire e/o verificare la commissione di illeciti, in specie penali.
L’inosservanza dell’art.8, come quella dell’art.4 e 6, è sanzionata penalmente dall’art.38 dello statuto.
-POTERE DISCIPLINARE
Il lavoro è un diritto, in base alla nostra Costituzione, ma anche un dovere. Quando si viene assunti in una impresa,
infatti, sorgono in capo al dipendente tutta una serie di obblighi e di doveri che derivano dalla legge, dal contratto
collettivo applicato al rapporto di lavoro e dal contratto individuale di lavoro sottoscritto con il datore di lavoro.
Il lavoratore subordinato, infatti, a differenza del lavoratore autonomo, non deve limitarsi a raggiungere un
obiettivo fissato dall’azienda ma deve mettere sé stesso alle dipendenze del datore di lavoro, eseguendo ciò che gli
viene chiesto di fare. Per dare a questo principio una reale applicazione, la legge prevede che il datore di lavoro
abbia il potere disciplinare il quale, per essere esercitato, occorre seguire un apposito procedimento regolato dalla
legge. Non avrebbe senso dire che il datore di lavoro ha il potere di indicare al dipendente cosa deve fare se non
avesse anche il potere di riprendere il dipendente che non fa ciò che deve.
Per questo è previsto il potere disciplinare ossia il potere di infliggere delle sanzioni disciplinari al lavoratore che non
rispetta i propri doveri. La legge afferma infatti che l’inosservanza delle disposizioni impartite dal datore di lavoro e
dei doveri di fedeltà e diligenza imposti dalla legge può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la
gravità dell’infrazione. Il principio di questa norma (art. 2106 c.c.) è la proporzionalità della sanzione rispetto
all’infrazione commessa, sarà necessario quindi che il codice disciplinare espliciti il rapporto di corrispondenza tra
infrazioni (ciò che il lavoratore non deve fare) e sanzioni (ciò che rischia se commette l’infrazione).
Nel caso in cui ad esempio faccio tardi 10 minuti o vado spesso in pausa, si tratta di inadempienze che prese
singolarmente non comportano il licenziamento ma solo una CONTESTAZIONE. Il lavoratore ha 5 giorni per
contestare a sua volta la contestazione ed in ogni caso (che si giustifichi o non si giustifichi) la contestazione scritta
viene archiviata. Se quell’inadempienza continua a verificarsi ripetutamente e ravvicinatamente, l’insieme delle
contestazioni possono comportare il licenziamento, che in questo caso si ha per RECIDIVA, si tratta del
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE, il quale si ha ESCLUSIVAMENTE per recidiva.
IL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE
Consiste in una procedura, composta da varie fasi, attraverso la quale il datore di lavoro può tutelarsi nei confronti di
una o più inadempienze del lavoratore dipendente. L’art. 7 prevede quindi una procedura di irrogazione
(imposizione di una pena) della sanzione disciplinare, finalizzata a consentire al lavoratore di difendersi di fronte alla
minaccia di un provvedimento disciplinare (diritto alla difesa).
Tale procedura si applica, anzitutto, alle sanzioni di tipo conservativo.
I passaggi sono 4:
1) LA CONTESTAZIONE DI ADDEBITO
Il datore di lavoro, una volta accertato un comportamento disciplinare rilevante, deve contestare tale fatto al
lavoratore, mediante una comunicazione scritta (in quanto devono essere formulate per iscritto le contestazioni che
sfocino in provvedimenti più gravi del rimprovero verbale), indicandone, con la maggior precisione possibile, le
circostanze materiali, di luogo e di tempo.
2) DIFESA DEL LAVORATORE
Tra la ricezione (il ricevimento) della contestazione da parte del lavoratore e l’eventuale adozione della sanzione,
deve intercorrere un termine di almeno 5 giorni, che il lavoratore può utilizzare per presentare le proprie difese, per
iscritto o oralmente. Il datore di lavoro è tenuto, a propria volta, a consentire il pieno esercizio di tale diritto di
difesa.
3) L’IRROGAZIONE DELLA SANZIONE
Se il datore ritiene inattendibili o non sufficienti le giustificazioni difensive presentate dal lavoratore oppure sia
trascorso il termine a difesa (5 giorni dalla ricezione della contestazione) senza che siano state presentate
giustificazioni, il datore può procedere, qualora rimanga convinto della responsabilità del dipendente,
all’applicazione della sanzione, tramite una comunicazione scritta inviata al dipendente.
4) IMPUGNAZIONE DELLA SANZIONE
Una volta ricevuta la sanzione, il lavoratore può impugnarla per ragioni sostanziali (esempio: insussistenza del fatto)
che procedurali (genericità o omessa affissione del codice disciplinare, mancato rispetto del termine di 5 giorni e
impedimento all’esercizio del diritto di difesa del lavoratore). L’impugnazione, che è rivolta a far valere la nullità
della sanzione, può essere proposta al giudice del lavoro, oppure presso l’Ispettorato del lavoro. In quest’ultimo caso
la sanzione disciplinare resta sospesa sino all’emissione del giudizio del collegio arbitrale (appunto, istituito presso
l’Ispettorato del lavoro).
Il procedimento disciplinare deve concludersi entro 120 giorni dalla data della contestazione dell’addebito.
Qualora non sia stato portato a termine entro tale data, il procedimento si estingue.
I requisiti fondamentali della contestazione, quale atto di impulso del potere disciplinare del datore, sono la
specificità, l’immediatezza e l’immutabilità, detti requisiti sono volti a tutelare il diritto di difesa del lavoratore.
La sanzione disciplinare deve essere immediata, deve cioè giungere al dipendente dopo non troppi giorni rispetto ai
fatti oggetto di contestazione; Secondo il principio di immutabilità della contestazione, il datore di lavoro non può
sanzionare il dipendente per fatti diversi da quelli contestati, infatti, il datore di lavoro non può licenziare per motivi
diversi da quelli contestati. Secondo il principio di specificità della contestazione disciplinare, essa deve fornire le
indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro
abbia ravvisato infrazioni disciplinari, in modo che non ci sia incertezza circa l’ambito delle questioni sulle quali il
lavoratore è chiamato a difendersi.
LA RETRIBUZIONE
RETRIBUZIONE E CORRISPETTIVITÀ NEL CONTRATTO DI LAVORO
Il contratto di lavoro subordinato ha natura corrispettiva in quanto a una determinata prestazione lavorativa
corrisponde una equivalente retribuzione, cioè si ha diritto alla retribuzione solo se si è effettivamente lavorato.
Sebbene questa sia la regola, si hanno numerose ipotesi nelle quali il lavoratore ha diritto alla retribuzione a
prescindere dall’effettuazione della prestazione di lavoro (es. malattia, maternità). In tali ipotesi, la retribuzione
assume funzione sociale, di sostegno al reddito nei momenti di particolare bisogno. La retribuzione quindi
costituisce: il principale diritto del lavoratore subordinato e il principale obbligo del datore di lavoro.
LA RETRIBUZIONE SUFFICIENTE
L’art. 36 Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo
lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
La fonte che si è assunta il compito di dare concretezza a tale proporzione è il contratto collettivo, il quale,
mediante la fissazione della retribuzione oraria o mensile (quantità) e tramite i sistemi di inquadramento
professionale (qualità), provvede ad articolare la struttura della retribuzione.
L’ACCORDO INTERCONFEDERALE
Dettano le regole comuni, valevoli per tutti i settori produttivi, in ordine alle dinamiche produttive.
IL CONTRATTO INDIVIDUALE
Viene in risalto la differenza tra lavoro pubblico e privato. Nel lavoro privato il contratto individuale è libero di
introdurre trattamenti retributivi integrativi, purché (in obbedienza al canone dell’inderogabilità in peius)
migliorativi dei minimi tabellari previsti dalla fonte collettiva (e detti per questo “superminimi”). Nel lavoro pubblico
non è prevista alcuna inderogabilità della normativa ed è imposta la parità di trattamento dei lavoratori, quindi
eventuali clausole di contratti individuali che attribuiscano trattamenti economici aggiuntivi sono nulle.
LA RETRIBUZIONE VARIABILE
Se la retribuzione a cottimo è la forma più risalente (discendente) di retribuzione variabile, l’art.2099 comma 3,
contiene di tale tipologia (retribuzione variabile), altre specificazioni prevedendo che: il prestatore di lavoro può
anche essere retribuito in tutto o in parte, con partecipazione agli utili o ai prodotti (es. distribuzione di azione ai
lavoratori), o con provvigioni (es. percentuale sugli affari conclusi, come avviene nel rapporto di agenzia) o con
prestazioni in natura. Il tema della retribuzione variabile si sostanzia nella previsione, da parte della contrattazione
collettiva od eventualmente individuale, di compensi commisurati alla produttività del lavoratore e/o dell’impresa,
oppure alla redditività di questa.
La l. n. 208/2015 prevede che per i titolari di reddito di lavoro dipendente di importo non superiore a 80.000 euro
lordi annui, una tassazione agevolata al 10% dei premi di risultato la cui corresponsione è legata ad incrementi di
produttività, redditività, qualità, efficienze ed innovazione. Con un decreto del 2016 sono stati previsti indicatori per
misurare tali incrementi.
SUPER MINIMO
È la quota di retribuzione attribuita al dipendente in aggiunta al minimo contrattuale (il loro ammontare è la base al
di sotto della quale le retribuzioni dei lavoratori non devono scendere).
Per intendersi, se il contratto collettivo nazionale delle imprese metalmeccaniche prevede, per un operaio di III
livello, una paga mensile di 2.000 euro lordi e l’azienda concede all’operaio di III livello una paga mensile di 2.400
euro lordi, il superminimo sarà pari a 400 euro. Il super minimo è dunque, una forma particolare di retribuzione che
non spetta a tutti (ma ad esempio ai dirigenti, i quadri e in alcuni casi operai e impiegati specializzati), attraverso cui
il datore nel momento in cui assume il lavoratore fa un contratto individuale con il quale gli dice che anche se a lui di
norma spetterebbero 1800€ al mese, pur di averlo nella sua azienda lo pagherà 2500€ al mese. Questo pero vuol
dire che non avrà diritto ad eventuali indennità / extra, e che quando viene aggiornata la contrattazione collettiva
(ogni 3 anni) ed i livelli retributivi, probabilmente la retribuzione aumenterà per tutti, mentre la sua retribuzione non
cambierà fino a quando i rinnovi della contrattazione collettiva non arriveranno alla soglia dei 2500€.
PRIMA: Era previsto l’istituto dell’indennità di anzianità, che era calcolata moltiplicando l’ultima retribuzione per gli
anni di servizio presso l’azienda, e vi era il rischio che le liquidazioni venissero gonfiate tramite incrementi artificiosi
della retribuzione negli ultimi periodi del rapporto, l’indennità di anzianità inoltre non era assicurata sempre, poiché
in alcuni casi (come licenziamento per colpa grave) non veniva corrisposta. Per il lavoro pubblico era previsto un
istituto simile chiamato indennità di buonuscita.
ORA: con il passaggio al TFR (Trattamento di Fine Rapporto), gli inconvenienti nascenti da istituti (indennità di
anzianità e di buonuscita) che non rispecchiavano fedelmente la carriera retributiva del lavoratore, sono stati
eliminati, grazie ad un nuovo meccanismo di calcolo: a favore di ciascun lavoratore, infatti, viene accantonata dal
datore di lavoro, ogni anno, una somma calcolata dividendo la retribuzione annuale per 13,5 in modo da dar luogo,
più o meno, all’accantonamento annuale di una mensilità di retribuzione. Il TFR matura, quindi, progressivamente,
man mano che il rapporto di lavoro procede. Un esempio pratico: Il dipendente Rossi ha una retribuzione annua utile
pari ad € 20mila nel 2010. Il suo TFR lordo per l’anno 2010 sarà pari a 20.000/13,5= € 1.481,48.
È importante rilevare che, per determinare la base di computo dell’accantonamento annuale, la norma detta
un’apposita nozione di retribuzione: si considera tale ogni somma percepita a titolo non occasionale dal lavoratore,
salvo diversa previsione dei contratti collettivi. Gli accantonamenti sono rivalutati ogni anno, secondo una
percentuale ancorata al costo della vita. Il TFR finale quindi, risulta essere il risultato della somma di tutti gli
accantonamenti annuali, debitamente rivalutati.
Del TFR, il dipendente non può fruire prima della cessazione del rapporto di lavoro. Egli tuttavia, ha titolo a
richiedere un'anticipazione, entro un massimo del 70% del trattamento accantonato sino a quel momento.
Sono soddisfatte annualmente le richieste di un massimo del 4% dei dipendenti, evitandosi così che il trattamento
sia richiesto simultaneamente da un numero troppo elevato di lavoratori, il che sarebbe insostenibile per il datore di
lavoro. Le causali di richiesta dell’anticipazione sono:
a) Sostenimento di spese sanitarie per terapie e interventi straordinari;
b) Acquisto della prima casa per sé e per i figli (è prevista un’anzianità pregressa di 8 anni);
c) Sostegno economico durante il periodo di fruizione del congedo parentale (periodo di astensione dal lavoro di un
genitore) o congedi formativi (i lavoratori hanno diritto ad assentarsi dal lavoro per seguire percorsi di formazione,
con la finalità di accrescere le proprie conoscenze e competenze professionali).
L’anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto di lavoro ed è detratta dal TFR.
Possono essere previste deroghe solo migliorative sull’anticipazione rispetto ai contratti collettivi.
Tale specificazione è stata operata da una serie di normative che hanno dato vita, col tempo, ad un ricco corpus di
regole tecniche, che sono oggi contenute, in prevalenza, nel Testo unico della sicurezza. Ma l’obbligo di sicurezza è
stato capace di proiettarsi al di là del rispetto delle regole positivamente previste.
La giurisprudenza ha interpretato il contenuto dell’Art. 2087 traendone il canone della massima sicurezza
tecnologicamente fattibile, in virtù del quale l’imprenditore non può ritenersi adempiente se non adotta anche misure
ulteriori rispetto a quelle prescritte, qualora esse risultino necessarie, secondo gli standard tecnici più aggiornati, a
garantire ai lavoratori condizioni di piena sicurezza.
La giurisprudenza addossa all’imprenditore la responsabilità di un infortunio sul lavoro per culpa in vigilando (non
aver vigilato a sufficienza affinché non si producesse l’infortunio) e per culpa in eligendo (non aver scelto
collaboratori capaci di impedire l’evento).
L’unico limite alla responsabilità del datore di lavoro finisce con l’essere ravvisato nell’ipotesi in cui l’infortunio si
sia verificato come conseguenza di un rischio elettivo, ossia una causa imprevedibile o imprudenza del lavoratore, e
quindi completamente fuori dal controllo del datore di lavoro.
Durante la pandemia da Covid 19 ci si è chiesti in quali casi il datore di lavoro può essere considerato responsabile
della contrazione del virus da parte di un lavoratore, sul posto di lavoro (ammesso e concesso che ciò è difficilmente
provabile). I principali partner sociali (Confindustria e CGIL-CISL-UIL) hanno elaborato e stipulato, il 24 Marzo 2020
il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus
Covid-19 negli ambienti di lavoro” che indica tutte le più avanzate misure di sicurezza previste in materia: controllo
della temperatura, sanificazione periodica, distanziamento sociale, divieto di assembramento, utilizzo delle
mascherine...I datori di lavoro pubblici e privati che siano in regola con le prescrizioni del Protocollo debbono
ritenersi adempienti all’obbligo di sicurezza dunque non perseguibili nel caso di un contagio verificatosi sul lavoro.
È previsto che il datore di lavoro possa delegare ad altro dipendente le proprie funzioni in materia di sicurezza del
lavoro. I requisiti della delega per essere valida:
a) Il delegato deve possedere tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla natura delle funzioni
delegate e gli siano attribuiti i poteri di organizzazione, gestione e controllo necessari e autonomia di spesa.
b) La delega dev’essere accettata per iscritto dal delegato che da quel momento risulterà responsabile penalmente
in caso di inadempimento.
c) Al delegato non gli possono essere delegate: la valutazione dei rischi e l’elaborazione del relativo documento; la
designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.
LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO E L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO E LE
MALATTIE PROFESSIONALI
Nonostante le varie misure predisposte dal “TU sulla Sicurezza”, accade fin troppo di frequente che si
verifichino eventi lesivi della salute e della sicurezza del lavoratore. In questi casi, il lavoratore, può proporre
azione giudiziale per far valere la responsabilità contrattuale o al limite extracontrattuale del datore di lavoro,
e domandare cosi il risarcimento dei danni patiti, come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento
del datore. L’omessa o incompleta adozione delle misure di sicurezza dovute comporta, in capo al datore di lavoro,
una responsabilità di natura contrattuale. La lesione al diritto alla salute (Art. 32 cost.) comporta una responsabilità
extracontrattuale.
Il lavoratore dovrà allegare e provare l’inadempimento posto in essere dal datore di lavoro, il quale per liberarsi
dalla responsabilità dovrà provare che l’inadempimento sia stato determinato da causa a lui non imputabile.
Questa azione di responsabilità promossa dal lavoratore è diretta a rivendicare il risarcimento al danno biologico
patito quale conseguenza dell’inadempimento.
L’azione giudiziale risarcitoria del lavoratore, si inserisce, però, in un sistema che prevede che ciascun lavoratore “a
rischio” sia obbligatoriamente assicurato, con premio a carico del datore di lavoro, presso l’INAIL, ente gestore
“dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”. L’INAIL, corrisponde al lavoratore
infortunato o colpito da malattia professionale, anzitutto, un'indennità per “inabilità temporanea”, tale da
compensare in buona parte la retribuzione perduta nel periodo in cui egli è impossibilitato a lavorare.
Se poi l’infortunio o la malattia professionale abbia provocato un “inabilità permanente”, che può essere parziale o
totale, il lavoratore ha titolo ad una rendita, non sottoposta a limiti temporali, ed anche essa commisurata al
trattamento retributivo goduto.
Sarà l’Inail ad erogare le indennità sino al momento in cui non viene accertata dal giudice civile la responsabilità
penale e civile del datore del lavoro. Dall’accertamento potranno aversi:
a) Da parte del lavoratore, un’azione di responsabilità rivolta a richiedere il risarcimento dei danni non coperti dal
meccanismo assicurativo dell’Inail e cioè dei danni complementari (morale/esistenziale) e differenziali.
b) Da parte dell’INAIL, un’azione di regresso finalizzata a richiedere al datore di lavoro il rimborso delle somme
corrisposte già al lavoratore durante il periodo di inabilità lavorativa.
IL MOBBING
L’art. 2087 impone al datore di lavoro di proteggere, oltre all’integrità fisica, la personalità morale del lavoratore.
La parola mobbing deriva dal verbo inglese to mob (che significa “aggredire, attaccare”), un’espressione della
scienza etologica (o biologia comportamentale, che è la branca della biologia e della zoologia che studia il
comportamento animale) che allude (sottintende) al comportamento di quei branchi di animali che emarginano un
componente, mettendolo in una situazione di disagio o sofferenza. Il termine mobbing nel diritto del lavoro è usato
per designare “quegli atti o quelle vere e proprie strategie di vessazione o persecuzione psicologica che, o il datore di
lavoro direttamente, o i colleghi di lavoro, pongano in essere nei confronti di un lavoratore”.
Con il termine vessazione si indica un comportamento caratterizzato da costanti maltrattamenti fisici, psicologici e
costrittivi esercitati su persone più deboli, indifese, incapaci di reagire efficacemente alle vessazioni (maltrattamenti)
subite. Si ha mobbing quando sono commessi a danno di un lavoratore, in modo sistematico o comunque prolungati
per un certo periodo di tempo (orientativamente 6 mesi) atti o comportamenti vessatori o persecutori, tali da far
corpo ad una strategia di emarginazione, che comportano mortificazione morale o emarginazione del dipendente,
con effetto lesivo del suo equilibrio psico-fisico.
Quindi per avere mobbing sono necessari:
a) La molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio.
b) Evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente.
c) Il nesso tra condotta del datore e pregiudizio dell’integrità psico-fisica del lavoratore.
d) Prova dell’intento persecutorio.
La giurisprudenza ha previsto una forma più lieve di mobbing, il cd. Straining nella quale non si riscontra il carattere
della continuità delle azioni vessatorie, ma esse sono comunque lesive dell’integrità psico-fisica del lavoratore.
Il mobbing può essere posto in essere dai superiori gerarchici del lavoratore o dal datore di lavoro stesso (mobbing
verticale) o dai colleghi di lavoro (mobbing orizzontale).
Nel caso che l’illecito in oggetto sia accertato dal giudice, il lavoratore ha titolo al risarcimento dei danni per
violazione dell’art. 2087 cc e quindi per responsabilità contrattuale: diretta nel mobbing verticale, indiretta (per
omessa vigilanza) nel mobbing orizzontale.
LA DISCRIMINAZIONE DI GENERE
La più nota e importante delle discriminazioni illecite è quella per sesso o genere.
Già nella Costituzione è stato posto un primo divieto di discriminazione a tal riguardo, laddove l'art 37 cost.
stabilisce che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al
lavoratore. Inizialmente vi fu chi sostenne che la locazione “a parità di lavoro” giustificasse la possibilità di pagare
le donne in modo inferiore, e questo supponendosi che le donne rendessero meno degli uomini.
Attualmente, queste interpretazioni regressive del disposto sono state superate. Ma successivamente altre riforme
come il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna hanno confermato il divieto di discriminazione per genere.
Art. 25 c.1: La discriminazione diretta di genere è definita come “qualsiasi atto, patto o comportamento che produca
un effetto pregiudizievole, discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso rispetto a un’altra
lavoratrice o un altro lavoratore in situazione analoga”. Un esempio classico di discriminazione diretta è la mancata
assunzione di una lavoratrice perché incinta.
c. 2: La discriminazione indiretta si ha “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un
comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una
posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo
svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano
appropriati e necessari”. Per esempio, stabilire che uomini e donne devono avere un’altezza minima di 170 cm per
entrare nelle forze armate è un parametro apparentemente neutro (si applica indistintamente a entrambi i sessi);
mette però le donne in una situazione di svantaggio di fatto perché l’altezza media per le donne è inferiore ai 170
cm, mentre per gli uomini è superiore. Si tratta quindi di un esempio di discriminazione indiretta che è stato rilevato
nell’ordinamento italiano e sostituito con la previsione di altezze minime diverse per uomini e donne.
Costituisce discriminazione anche ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, maternità
o paternità; in ragione dello stato matrimoniale o di famiglia e ciò vale anche per l’accesso agli impieghi pubblici.
Detto ciò, il problema fondamentale che affligge la normativa è la difficoltà di provare la discriminazione, il
cui onere è a carico di chi afferma di averla subita (la vittima). Tale onere è alleggerito però dalla regola, posta
dall’art. 40 del Codice, in base al quale: quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di
carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai
trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e
concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso,
spetta al convenuto (il soggetto contro il quale l'attore (soggetto attivo) esercita un'azione legale), in questo caso al
datore di lavoro, l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione.
Sono previsti infine, oltre a quelli ordinari, particolari strumenti di tutela giurisdizionale, per tutelare il lavoratore, e
soprattutto la lavoratrice, vittime di discriminazioni di genere. Tra di essi è inclusa la proponibilità di un'azione
giudiziale da parte di una figura istituzionale molto importante per la lotta alle discriminazioni e la promozione delle
pari opportunità sul territorio, la cd. Consigliera (o Consigliere) di Parità, ramificata a livello nazionale, regionale e
provinciale. Tale figura può agire sia su delega della persona interessata (offesa) per contrastare le discriminazioni
individuali e sia in via diretta contro le discriminazioni collettive.
Per quanto riguarda i rimedi sanzionatori, a quelli ordinari, si aggiunga che una volta accertata la discriminazione,
ed adottati i provvedimenti volti a rimuovere gli effetti per il passato, il giudice può ordinare all’autore delle
discriminazioni, di definire un “piano di rimozione” delle stesse per il futuro. In varie ipotesi di violazione della
normativa, infine, sono previste sanzioni amministrative e penali.
AZIONI POSITIVE
Le politiche di pari opportunità sono completate da quelle normative che introducono misure di diritto diseguale: si
tratta di norme a protezione di gruppi o categorie caratterizzati da una diseguaglianza di partenza, che quelle misure
sono rivolte a compensare. Simili normative hanno come destinatarie soprattutto due categorie di lavoratori: le
persone con disabilità e le donne.
Le azioni positive, nei confronti delle lavoratrici consistono in misure volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto
impediscono la realizzazione di pari opportunità, nell'ambito della competenza statale, e che sono dirette a favorire
l'occupazione femminile e realizzare l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro (art.42 comma 1 del
Codice delle pari opportunità).
Tali azioni si propongono, tra gli altri, gli scopi di: eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale,
nell'accesso al lavoro e nella progressione di carriera.
Le azioni positive potrebbero spingersi a prevedere “quote obbligatorie” riservate alle donne, sia nelle assunzioni
(anche pubbliche) che nelle promozioni; specie in settori ove esse siano sottorappresentate.
MALATTIA E INFORTUNIO
Nella disciplina della malattia (comune o professionale) e dell’infortunio (lavorativo o extra-lavorativo) il bene del
lavoratore che viene protetto, come diritto fondamentale ex art. 32 Cost., è ovviamente la salute.
La disciplina attuale è incentrata sull’art.2110cc., il quale però, si affida ampiamente, attraverso clausole di rinvio,
alla contrattazione collettiva.
COMUNICAZIONE E CERTIFICAZIONE
L’accertamento sanitario della malattia/infortunio avviene in due fasi:
1) quella della comunicazione e certificazione della malattia da parte del lavoratore;
2) e quella del controllo vero e proprio dello stesso attraverso gli strumenti riconosciuti dall’ordinamento.
1) Il lavoratore ha l’obbligo comunicazione immediata dell’assenza per malattia o infortunio (per permettere al
datore di organizzare diversamente il lavoro); successivamente ci dev’essere l'invio della certificazione medica di
malattia per via telematica all’INPS. L’INPS trattiene il certificato ad esso indirizzato (con diagnosi e prognosi), e
rende disponibile al datore di lavoro quello a lui destinato (contenente la sola prognosi per ragioni di riservatezza).
In caso di violazione di questi obblighi, l’assenza dal lavoro può essere considerata ingiustificata ai fini retributivi
(non viene retribuito) e ai fini disciplinari (sanzione disciplinare conservativa o estintiva a seconda del periodo di
assenza).
NB: la diagnosi permette al medico di capire che patologia ha il paziente, mentre la prognosi permette al medico di
fare una previsione sulla possibilità o meno di guarire del paziente e sui possibili tempi di guarigione.
2) IL CONTROLLO SANITARIO
Una volta ricevuta la certificazione, il datore di lavoro può accettarla o verificarla tramite una visita medica di
controllo. L’art. 5 l. n. 300/1970 prevede che la visita può essere effettuata solo avvalendosi, non di medici di fiducia
del datore, ma di medici “pubblici”, cioè tendenzialmente imparziali.
Per rendere i controlli tempestivi ed efficaci, è previsto che essi avvengano nelle fasce orarie di reperibilità
giornaliera (dalle 10 alle 12, dalle 17 alle 19, giorni festivi e non lavorativi inclusi) durante la quale il lavoratore è
contrattualmente obbligato a essere reperibile e disponibile al controllo, presso il proprio domicilio, fatto salvo
giustificato motivo di assenza (ad. es. la necessità di uscire di casa per sottoporsi ad una visita medica).
Il lavoratore non reperito al domicilio durante le fasce, senza giustificato motivo, subisce una riduzione del
trattamento retributivo di malattia, nella misura del 100% per i primi 10 giorni, e del 50% per i giorni successivi al
10°. Oltre il 10° giorno la sanzione è irrogabile solo in caso di seconda assenza domiciliare non giustificata.
A seguito della visita, il medico di controllo può confermare la prognosi del medico privato, oppure negarla o
ridurla. Un diverso regime vale, a proposito del controllo, per le ipotesi di malattia professionale e di infortunio sul
lavoro, nelle quali il lavoratore, non tenuto a rispettare le fasce orarie di reperibilità, è convocato dall’INAIL per
sottoporsi alla visita di controllo, che è la condizione affinché sia riconosciuto dall’ente.
Qualora, invece, il licenziamento intervenga a comporto ancora pendente, due sono le possibili ipotesi:
a) se esso è irrogato proprio in relazione alla malattia, esso deve ritenersi illegittimo;
b) se il licenziamento è irrogato per motivi diversi dalla malattia, esso è temporaneamente inefficace sino a quando
perdura la malattia, per poi riprendere effetto al termine della stessa o del periodo massimo di comporto.
Fa eccezione a tale regola, peraltro, il licenziamento assistito da giusta causa, che ha efficacia immediata, prevalente
sulla malattia.
MATERNITÀ E PATERNITÀ
La seconda importante situazione sospensiva è la maternità. Essa è tutelata sin dalla Costituzione (art.31 comma 2 e
soprattutto art.37 comma 1) anche se in un'ottica tesa a garantire il diritto alla maternità, ma non anche a favorire
una conciliazione tra maternità e lavoro.
Normativa di riferimento è quella raccolta nel Testo Unico emanato con il d.lgs. n.151/2001 e il Jobs Act che ha
indicato strumenti per conciliare lavoro e famiglia.
Dev’essere disposta l’interdizione (lo stato di abituale infermità mentale sia idoneo a determinare in capo al
soggetto l’assoluta incapacità di provvedere ai propri interessi) anticipata dal lavoro della lavoratrice in stato di
gravidanza, nel caso di gravi complicanze della gravidanza, di condizioni di lavoro ritenute pregiudizievoli alla salute
della donna e del bambino, e nel caso in cui non può essere spostata a mansioni compatibili.
Il congedo di maternità, chiamato anche aspettativa per maternità, è il periodo di astensione obbligatoria dal
lavoro riconosciuto alle lavoratrici durante la gravidanza e dopo il parto.
Il congedo di maternità comporta l’obbligo della lavoratrice di astenersi, e per il datore di lavoro, quello di farla
astenere dal lavoro, incorrendo, altrimenti, in sanzioni penali. Dev’essere inviato all’Inps in forma telematica, da
parte di un medico pubblico, del certificato di gravidanza indicante la data presunta del parto, successivamente
inoltrato al datore di lavoro. Qualora non sia stata precedentemente disposta un’interdizione anticipata della
lavoratrice, il congedo ha inizio 2 mesi prima della data presunta del parto, ed ha termine 3 mesi dopo il parto (5
mesi totali). Nel caso sia concesso dal medico, la lavoratrice può scegliere di protrarre il lavoro fino ad un mese
prima della data presunta del parto, per poi fruire del mese non consumato dopo il parto. Durante il congedo spetta
alla lavoratrice il diritto alla retribuzione o a un’indennità a carico dell’Inps pari all’80% della retribuzione, integrata
dal datore di lavoro fino al 100%. Questo diritto spetta anche in caso di adozione o affidamento.
CONGEDO DI PATERNITÀ
Il padre ovviamente non gode di questo congedo di maternità, eccezione fatta per il caso di decesso o grave
infermità della madre; abbandono del bambino da parte della madre; oppure per il caso di affidamento esclusivo del
bambino a lui. Il congedo di paternità è però facoltativo e non obbligatorio.
Per l’ipotesi, normale, in cui la madre fruisca del congedo di maternità, la legge ha inoltre Introdotto un congedo (o
permesso) obbligatorio di 5 giorni, di cui il padre lavoratore (dipendente) deve fruire entro i primi 5 mesi dalla
nascita del figlio, con riconoscimento di un'indennità a carico dell’INPS, pari al 100% della retribuzione.
Sempre entro i primi 5 mesi dalla nascita del figlio, il padre lavoratore dipendente, può astenersi per un ulteriore
giorno dal lavoro; questa volta però in sostituzione della madre lavoratrice dipendente e d’accordo con questa.
Il padre è tenuto a comunicare (per iscritto) al datore di lavoro i giorni prescelti per astenersi dal lavoro, almeno 15
giorni prima dei medesimi.
IL CONGEDO PARENTALE
(O maternità facoltativa) è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro, dedicato alle madri e ai padri.
Si tratta dunque di un periodo che si aggiunge a quelli di maternità e paternità obbligatoria.
La coppia genitoriale può fruire del congedo parentale (art. 32), finalizzato a consentire ai genitori di non lavorare
per assistere al figlio nei primi mesi o anni di vita. Nei primi 12 anni di vita del bambino, ciascun genitore può fruire
di un periodo di congedo parentale non superiore a 6 mesi, ma entro un massimo complessivo (sommando i congedi
dei due genitori) di 10 mesi. Se però v’è un solo genitore rimasto, poiché l’altro è deceduto o ha abbandonato o non
assiste il bambino, lo stesso può fruire di 10 mesi di congedo.
Se il padre utilizza almeno 3 mesi di congedo, è premiato con un bonus di un mese in più, per cui il suo massimo
individuale diviene di 7 mesi, ed il massimale di coppia di 11 (norma promozionale finalizzata ad indurre il lavoratore
padre ad assumersi maggiori responsabilità familiari).
La richiesta del congedo dev’essere effettuata con un preavviso di 5 giorni e indicandone la data d’inizio e fine.
La fruizione del congedo parentale comporta però un’indennità dall’Inps del 30% della normale retribuzione entro il
6° anno di vita del bambino.
La lavoratrice madre è tutelata anche nelle ipotesi di dimissioni e di risoluzione consensuale del rapporto, le
quali, entro un periodo di tempo più lungo rispetto a quello in cui vige il divieto di licenziamento (cioè
durante la gravidanza e i primi 3 anni di vita del bambino) possono avere efficacia solo dopo che esse siano
state convalidate (per verificarne la spontaneità) presso la competente DTL (sede dell’Ispettorato del lavoro).
Tale garanzia vale anche per il padre, per quanto riguarda i primi 3 anni di vita del bambino.
5) CONGEDI FORMATIVI
Finalizzati a consentire al lavoratore, purché con almeno 5 anni di anzianità di servizio presso la medesima impresa o
amministrazione, di fruire di un periodo di congedo dal lavoro, continuativo o frazionato, non superiore a 11 mesi,
per soddisfare esigenze formative (completamento scuola dell’obbligo, conseguimento diploma/laurea), durante il
congedo il dipendente ha diritto alla conservazione del posto senza spettanza di retribuzione né decorso
dell’anzianità di servizio.
L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
INTRODUZIONE
Anche il rapporto di lavoro ha una fine come è chiaro. Un contratto può essere sia a tempo indeterminato (cioè che
non fissa una data di estinzione) sia a tempo determinato (cioè che prevede un data in cui si estinguerà).
Se per il contratto a tempo determinato possiamo prevedere che la sua cessazione è corrispondente alla data
stabilita da esso per l'estinzione, medesima cosa non è possibile per il contratto a tempo indeterminato che, come
detto, per sua stessa natura non fissa un data di fine rapporto.
Di qui la previsione di varie cause di estinzione che si possono distinguere in due gruppi:
• Naturali: si pensi alla morte del lavoratore che fa cessare, chiaramente, il contratto (non vale lo stesso per il datore
di lavoro, dove il rapporto continua se l'azienda sopravvive e non ci sia una stretta correlazione tra lavoro e datore, si
pensi ad una badante). Essendo infatti una prestazione personale, determina la fine del rapporto di lavoro.
-impossibilità sopravvenuta della prestazione, la quale, costituisce un modo di estinzione dell’obbligazione diverso
dall’adempimento;
-superamento del periodo di comporto per malattia (ossia il periodo di tempo entro il quale, se sei malato, il datore
di lavoro non può licenziarti. Chiaramente è necessario che tu abbia un certificato medico) rappresenta una causa di
licenziamento per motivo oggettivo. Infatti, se il dipendente supera il periodo di comporto, può procedere al
licenziamento.
• Prodotte dalla volontà delle parti, e in questo caso possiamo avere:
-Risoluzione consensuale: cioè la volontà di entrambe le parti di far cessare il rapporto, si dice in questo caso: per
mutuo consenso, un tipo di risoluzione consensuale, in cui le parti di comune accordo, decidono di porre fine al
rapporto di lavoro.
-Recesso unilaterale: nel caso in cui il lavoratore o il datore esercitano il potere di recesso, da un lato dimissioni se è
la volontà del lavoratore ad essere manifestata, dall’altro il licenziamento se invece è la volontà del datore di lavoro.
Nel nostro ordinamento vige il principio liberale della simmetrica libertà di recesso, per entrambe le parti, dal
contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Tale principio discende dall’idea della necessaria
temporaneità delle relazioni obbligatorie di durata, tanto più se comportanti, come accade nel contratto di lavoro,
un’implicazione personale. Quello del licenziamento è tema di estrema delicatezza sociale.
L’esposizione del lavoratore alla possibilità di un licenziamento libero, e potenzialmente arbitrario, proietta
un’ombra anche sugli altri diritti del lavoratore, poiché lascia quest’ultimo in una condizione di soggezione dal datore
di lavoro, dal quale dipende il suo destino lavorativo e di reddito.
L’Art. 2118 cc (recesso dal contratto a tempo indeterminato): la disciplina che regola l'estinzione del rapporto di
lavoro, ha avuto nel tempo un'evoluzione che l'ha portata via via ad allontanarsi dal regime stabilito dal (art 2118)
codice civile, incentrato questo, sul principio della libertà, per entrambe le parti, di recesso dal contratto di lavoro a
tempo indeterminato. Tale regime, prevedeva che venissero trattati allo stesso modo il recesso del datore
(licenziamento) e il recesso del lavoratore (dimissioni) disconoscendo, cosi, che si trattava di realtà profondamente
diverse. Il diritto del lavoratore a non essere licenziato senza un giustificato motivo non è previsto espressamente
dalla Costituzione, ma è previsto dall’art 30 della Carta di Nizza.
Questo ha determinato una separazione tra la disciplina che regola le dimissioni, e che rimane legata al codice civile,
e quella dei licenziamenti del datore che è sfociata nei decreti del Jobs Act, con i quali si è avuta maggiore flessibilità
nel licenziamento. Quindi, con il susseguirsi di diverse normative tra cui la Carta di Nizza e il Jobs Act, si è assistito ad
una significativa riforma dei licenziamenti.
Le dimissioni (come anche la risoluzione consensuale del rapporto, in quanto anche essa contiene l’espressione di
una volontà di dimissioni) debbono essere fatte, per avere efficacia estintiva, esclusivamente per via telematica su
appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro sul sito, che una volta riempiti debbono essere trasmessi al
datore di lavoro e alla competente sede dell’Ispettorato del lavoro.
Entro 7 giorni dalla trasmissione del modulo, il lavoratore ha la facoltà di revocare le dimissioni e la risoluzione
consensuale, con le medesime modalità.
Queste regole non sono applicabili al lavoro domestico, per la lavoratrice madre è necessaria la convalida delle
dimissioni dall’Ispettorato del lavoro. L’obiettivo, in questo caso, è accertare che sia realmente la donna a volersi
dimettere e che non ci sia, al contrario, un condizionamento a fare questa scelta da parte del datore di lavoro.
Inoltre, la neo-mamma che si dimette dal posto di lavoro può ottenere alcuni diritti che, generalmente, non spettano
al lavoratore che rassegna le dimissioni volontarie.
L’annullamento delle dimissioni è quindi un diritto che spetta ad ogni dipendente. In alcuni casi, l’annullamento
delle dimissioni è collegato a un vizio della volontà del dipendente. Il caso più noto è quello in cui il lavoratore
lamenti una violenza morale esercitata nei suoi confronti dal datore o dai suoi collaboratori, per indurlo a dimettersi
come unica alternativa ad un licenziamento motivato dalla scoperta di gravi inadempienze commesse (es. furto).
In questo tipo di controversie, la giurisprudenza tende a ritenere le dimissioni “non viziate” nel caso in cui, se il
licenziamento per quelle cause sarebbe stato legittimo, ovvero, se quel lavoratore fosse stato licenziato per gli stessi
fatti che lo hanno portato alle dimissioni.
In secondo luogo il giudice deve considerare (e di solito lo suggeriscono gli stessi CCNL) “l’elemento soggettivo”,
cioè lo stato soggettivo, doloso o colposo, con il quale l’atto o il comportamento contestati, sono stati posti in essere.
La categoria dei “licenziamenti per ragioni soggettive” è completata dal licenziamento per giusta causa ex art.2119
cc, che a differenza del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, è senza preavviso.
La giusta causa è “causa che non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto”.
La caratteristica è che il fatto pregiudica in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro e ciò giustifica
l’estromissione immediata dall’azienda. Per tale aspetto, la giusta causa è sulla stessa scala del “giustificato motivo
soggettivo”, ma ad un livello di maggiore gravità.
Sempre i CCNL qualificano tali atti e suggeriscono che debba essere valutata anche la colpevolezza soggettiva del
lavoratore, cioè l’intensità del dolo o della colpa.
Infine la giurisprudenza è solita riportare alla nozione di “giustificato motivo oggettivo”, anche i licenziamenti
derivanti da situazioni di “oggettiva impossibilità, per il lavoratore, di prestare l’attività lavorativa” (es. ritiro di
licenze o patenti necessarie a svolgere il lavoro; l’inidoneità fisica o psichica del lavoratore).
L’impugnazione stragiudiziale deve essere effettuata entro 60 giorni dalla ricezione da parte del lavoratore della
comunicazione contenente il licenziamento, ove osservi questo primo termine, ha a disposizione altri 180 giorni per
proporre l’impugnazione giudiziale quindi ha in totale 240 giorni.
Per facilitare il lavoratore, è stabilito che l’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo o della giusta
causa incombe sul datore di lavoro, nonostante quest’ultimo sia la parte convenuta in giudizio e l’onere in questione,
di base, spetti all’attore (lavoratore in tal caso). Di contro, nel caso di licenziamento discriminatorio, l’onere di
provare la natura discriminatoria del licenziamento è a carico del lavoratore.
Il licenziamento discriminatorio è determinato da motivi di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un
sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali nonché da ragioni connesse all’etnia, alla lingua, al genere e
all’orientamento sessuale.
Dopo di che, supponendo che il giudice accerti che il licenziamento è stato disposto in violazione delle regole di
forma o procedura e/o senza un giustificato motivo o una giusta causa e/o è discriminatorio o comunque nullo, lo
stesso emette una statuizione (introduzione di un ordine) tramite la quale stabilisce determinate conseguenze
sanzionatorie. A seguito del d.lgs. n. 23/2015 tali conseguenze sono articolate in due regimi diversi: l’applicazione
dell’uno o dell’altro dipende dalla data di assunzione a tempo indeterminato del lavoratore.
REGIME SANZIONATORIO DEL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO PER I LAVORATORI ASSUNTI PRIMA AL 6 MARZO
2015:
Sino alla modifica dell’art. 18, recata dalla legge n. 92/2012, l’assetto della disciplina era incentrato sulla distinzione
fra tutela reale e obbligatoria:
- la prima era quella prevista dall’art. 18, ed era detta REALE perché comportava necessariamente, nel caso in cui il
licenziamento fosse trovato illegittimo dal giudice, il ripristino del rapporto e la conseguente reintegrazione del
dipendente;
- l’altra tutela, prevista dall’art. 8, era ed è definita OBBLIGATORIA, perché la relativa sentenza non dichiara invalido
e inefficace il licenziamento, ma si limita a porre a carico del datore di lavoro due obblighi alternativi (riassunzione
del lavoratore o pagamento di una penale di ridotto importo), la scelta tra i quali spetta al datore stesso.
Nel testo dell’art. 18 scaturito dalla Riforma Fornero, la tutela reale c’è ancora ma non è più l’unica prevista, per cui
conviene rettificare le denominazioni delle due tutele, definendo FORTE quella data dall’art. 18, e DEBOLE quella
obbligatoria. La tutela forte comporta un elevato tasso di protezione del lavoratore, e si applica alle imprese o ai
datori di lavoro non imprenditori che occupano più di 15 dipendenti, o più di 5 nel settore agricolo, nelle unità
produttive insistenti nell’ambito del territorio comunale, o comunque alle imprese o ai datori di lavoro non
imprenditori che occupano più di 60 dipendenti a livello nazionale. Di contro, la tutela debole è residuale, giacché si
applica in tutti gli altri casi.
L’esistenza di questa differenziazione di regimi sulla base della diversa consistenza occupazione dell’impresa poggia
sulla duplice premessa che le imprese medio-grandi sono le uniche a poter sopportare un regime oneroso come
quello dell’art. 18, e che nelle piccole imprese i rapporti di lavoro sono maggiormente personalizzati, sì da rendere
impraticabile un regime comportante la reintegrazione del lavoratore licenziato nel posto dal quale era stato
estromesso.
N.B. A prescindere dalla dimensione occupazionale, la tutela forte è espressamente esclusa, per cui il lavoratore ha
titolo ad invocare soltanto quella debole, per le cosiddette organizzazioni di tendenza, ossia per i datori di lavoro
non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione oppure
di religione o di culto. L’esclusione dell’art. 18 è motivata dalla particolare natura di queste organizzazioni, che, in
quanto portatrici di una tendenza, non possono essere costrette a reinserire un lavoratore entrato in contrasto con la
ragion d’essere dell’organizzazione, e per questo motivo licenziato; e ciò malgrado che tale licenziamento sia stato
ritenuto ingiustificato, o persino discriminatorio, dal giudice. Peraltro, l’esonero dall’art. 18 è da ritenersi
circoscritto ai lavoratori le cui mansioni sono collegate alla tendenza, e non meramente neutre, poiché nel secondo
caso non v’è ragione di escludere, ove il licenziamento sia trovato illegittimo, il ripristino giudiziale del rapporto di
lavoro.
REGIME SANZIONATORIO DEL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO PER I LAVORATORI ASSUNTI DOPO IL 7 MARZO 2015:
(CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI)
Il regime sanzionatorio introdotto, dal d. lgs. n. 23/2015, per i lavoratori assunti a tempo indeterminato a far data
dal 7 marzo 2015 è caratterizzato da flessibilità in uscita. Ciò si desume da due principali elementi:
- la previsione, come regola dominante di questo sistema sanzionatorio, della tutela economica in caso di
licenziamento illegittimo, mentre la tutela ripristinatoria e reintegratoria è ormai confinata ad ipotesi specifiche e
tendenzialmente eccezionali;
- il più ridotto importo, rispetto all’art. 18, della predetta tutela economica. Nel disegno del legislatore delegato,
inoltre, l’importo dell’indennità risarcitoria cui ha titolo il lavoratore illegittimamente licenziato viene reso più certo
tramite l’applicazione di un criterio automatico di risarcimento, crescente con l’anzianità di servizio del lavoratore (in
questo consistono le “tutele crescenti”).
Con la riforma del Jobs Act, il legislatore ha introdotto un nuovo istituto di conciliazione stragiudiziale (offerta di
conciliazione), in base al quale il datore di lavoro, su propria iniziativa, offre al lavoratore che impugna il
licenziamento una somma predeterminata, al fine di risolvere la controversia al di fuori delle sedi giudiziali.
L’importo non rientra tra i redditi imponibili del lavoratore. Il datore di lavoro offre al lavoratore una somma pari a 1
mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 3 e non superiore a 27
mensilità. Per essere efficace, l’offerta deve essere fatta dal datore di lavoro mediante la consegna al lavoratore di
un assegno circolare e accettata dallo stesso entro 60 giorni, nelle sedi indicate dalla legge presso l’Ispettorato del
lavoro.
TUTELA ECONOMICA
Nel caso in cui il giudice, pur rilevando il carattere ingiustificato del licenziamento, dichiara l’estinzione del rapporto
di lavoro e il lavoratore avrà diritto ad un'indennità risarcitoria pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio, in misura
compresa tra 6 e 36 mensilità. Per i datori di lavoro di piccole dimensioni l’indennità è stabilita dal giudice tra un
minimo di 3 e un massimo di 6 mensilità. Nel caso di licenziamento affetto da vizi formali o procedurali l’indennità è
determinata dal giudice tra un minimo di 2 e un massimo di 12 mensilità, ridotte a 1-6 mensilità per i datori di
piccole dimensioni.
Il più classico degli strumenti di riassorbimento delle eccedenze, alternativi al licenziamento, è la cassa
integrazione guadagni (CIG), la quale si distingue: in una cassa “ordinaria” ed in una cassa “straordinaria”.
È un complesso istituto giuridico in forza del quale, in presenza di certe causali, collegate ad eventi aziendali critici,
l’imprenditore può: - o sospendere dal lavoro - oppure ridurre l’orario di lavoro, di una quota di dipendenti o
dell’intero personale, senza erogare ad essi, in tutto (nel caso della sospensione) o in parte (nel caso della riduzione
dell’orario) le corrispondenti retribuzioni. Si tratta quindi di sospensioni delle prestazioni lavorative, ma determinate
da motivi inerenti all’impresa e non alla sfera personale del lavoratore (come nel caso della maternità, malattia,
infortunio ecc.).
L’imprenditore, tuttavia, non può disporre tali sospensioni (sospensione dal lavoro o riduzione dell’orario di lavoro)
solo sulla base di una propria decisione unilaterale. Chi proceda a sospensioni del genere versa in una mora del
creditore che lascia persistere l‘obbligo retributivo.
Una sospensione dei lavoratori è legittima solo nel caso di contestuale accesso alla cassa integrazione guadagni.
Ma affinché tale istituto possa essere attivato è necessario che:
a) l’impresa rientri nel capo oggettivo di applicazione della CIG;
b) ricorrano le causali oggettive di intervento della CIG (cd. cause integrabili);
c) sia proposta dall’impresa, all’organismo pubblico competente, domanda di ammissione alla CIG;
d) la domanda di ammissione alla CIG, sia stata accolta dall’organismo competente;
È indispensabile insomma che la decisione datoriale, sia accompagnata dall’emanazione, a domanda dell’impresa, di
un provvedimento amministrativo di autorizzazione, avente ad oggetto l’ammissione dell’impresa, per quel dato
numero di dipendenti, alle prestazioni della Cassa integrazione.
L’AMBITO DI APPLICAZIONE
La cassa integrazione ordinaria (CIGO) si applica essenzialmente alle imprese industriali, senza limiti di dipendenti;
mentre quella straordinaria (CIGS) si applica alle imprese industriali che abbiano occupato più di 15 dipendenti nel
semestre precedente, alle imprese commerciali e alle agenzie di viaggio e turismo con più di 50 dipendenti, alle
imprese di vigilanza con più di 15 dipendenti, alle imprese di trasporto aereo e aereoportuali a prescindere dal
numero dei dipendenti.
Per i settori non coperti dall’istituto, la legge 92/2012 perseguendo l’obiettivo della generalizzazione del “sistema
CIG” ha reso obbligatoria l’adozione, entro il 2013, di “Fondi di Solidarietà Bilaterali” alimentati dai datori di lavoro
del settore e rivolti a garantire ai lavoratori, nel caso di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, prestazioni
analoghe a quelle della CIG. Quindi, l’istituto della cassa integrazione è riservato ad alcuni settori produttivi ed
interviene solo di fronte a certi requisiti. Nei comparti per i quali non è prevista, intervengono i rispettivi fondi di
solidarietà.
LE CAUSALI DI INTERVENTO
La Cassa Integrazione Guadagni nasce nel nostro ordinamento già negli anni 80 e ha il suo apice con la legge n.
223/1991, è un ammortizzatore sociale in costanza di rapporto, quindi quando ancora il rapporto di lavoro esiste.
La CGI del 91 era composta di due tipi: ordinaria (CIGO) e straordinaria (CIGS), che intervenivano in momenti di
difficoltà dell’impresa completamente diversi.
• La CIGO interveniva quando l’impresa aveva determinati tipi di situazioni di difficoltà definite temporanee, ha
quindi una durata breve che normalmente è di 3 mesi prorogabili sino ad un massimo di 12 mesi.
La cassa integrazione guadagni ordinaria, o Cigo, può dunque essere richiesta dall’azienda in un momento di crisi
temporanea. In pratica, i lavoratori (tutti o una parte) vengono sospesi dall’attività del tutto o per un certo numero
di ore. Una volta superata la crisi, il personale riprende normalmente il lavoro.
• La GIGS interveniva quando l’impresa era in una crisi più forte e profonda, di durata maggiore, riferita a diverse
causali come le tre R (riorganizzazione, ristrutturazione, riconversione), la crisi d’impresa generalizzata, le cd.
procedure concorsuali ed il fallimento.
A seconda della causale si prevedeva una CIG di durata diversa: minimo di 6 mesi fino ad un massimo di 24 mesi in
un quinquennio. In entrambi i casi l’idea della cassa integrazione era quella che un’impresa che entrava in uno stato
di difficoltà richiedeva allo stato l’intervento della cassa integrazione guadagni, con un progetto di ripresa
dell’attività, cioè pensando che agendo su determinati punti per un periodo temporaneo o più ampio, sarebbe
riuscita a riprendere l’attività ordinaria come se nulla fosse al termine dell’intervento.
IL PROCEDIMENTO DI CIG
• la domanda di concessione della CIGO è presentata in via telematica all’INPS entro il termine di 15 giorni dall’inizio
della sospensione o riduzione dell’attività lavorativa. Per gli eventi oggettivamente non evitabili (ad es. quelli meteo),
l’istanza può essere presentata entro il termine della fine del mese successivo a quello in cui si è verificato l’evento
medesimo. Il trattamento è concesso, qualora le ragioni per cui è stato richiesto siano ritenute conformi a legge
nonché effettive, dalla sede dell’INPS territorialmente competente.
• La domanda di concessione della CIGS è presentata al Ministero del lavoro e all’Ispettorato del lavoro competente
entro 7 giorni dalla data di conclusione della procedura di consultazione sindacale, e deve essere corredata
dall’elenco nominativo dei lavoratori interessati dalle sospensioni o riduzioni di orario.
La sospensione o la riduzione dell’orario così come concordate tra le parti nelle procedure hanno inizio entro 30
giorni dalla data di presentazione della domanda di concessione. L’impresa deve allegare alla domanda un
programma di riorganizzazione aziendale, prevedente gli interventi volti a fronteggiare le inefficienze della struttura
gestionale o produttiva, e indicazioni sugli investimenti e sull’eventuale attività di formazione dei lavoratori, o un
programma di risanamento della crisi aziendale, volto a fronteggiare gli squilibri di natura produttiva, finanziaria,
gestionale o da fattori esterni, che affliggono l’azienda. Il trattamento è concesso con decreto del Ministro del
lavoro, entro 90 giorni dalla presentazione della domanda. Sia per la CIGO che per la CIGS qualora dall’omessa o
tardiva presentazione della domanda derivi a danno dei lavoratori la perdita parziale o totale del diritto
all’integrazione salariale, l’impresa è tenuta a corrispondere ad essi una somma di importo equivalente
all’integrazione salariale non percepita.
I FONDI DI SOLIDARIETÀ
Nei settori non rientranti nel campo di applicazione della CIG la legge rende obbligatoria, per i datori di lavoro che
occupano mediamente più di 5 dipendenti, l’adozione di Fondi di solidarietà bilaterali, alimentati dai datori di lavoro
del settore e rivolti a garantire ai lavoratori, nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, prestazioni
equivalenti a quelle della CIG.
Il d.lgs. 22/2015 ha previsto un’indennità di disoccupazione (DIS-COLL) per i lavoratori con rapporto di collaborazione
coordinata e continuativa.
COS’È LA DIS-COLL? è una indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e
continuativa che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione.
IL REDDITO DI CITTADINANZA
Al sistema contro la disoccupazione si è aggiunto il reddito di cittadinanza, introdotto dal decreto l. 4/2019, si
qualifica quale misura di sostegno alla povertà, nonché di politica attiva, volto al reinserimento nel mondo del lavoro,
formazione e inclusione. Il sostegno economico, condizionato alla presenza di specifici requisiti soggettivi di accesso,
di natura anagrafico-patrimoniale, è determinato in una somma di danaro formata da due quote (una integra il
reddito familiare, l’altra quale contributo di affitto/mutuo) determinata sulla base dell’ISEE e dal modello di
domanda.
IL LAVORO ESTERNO
LE ESTERNALIZZAZIONI
Oltre al lavoro subordinato e a quello autonomo, esiste un terzo tipo di lavoro allorché un’impresa si procura il
lavoro all’esterno tramite contratti di servizio con imprese terze.
In sostanza un'impresa ha 2 possibilità:
1) MAKE: produrre all’interno tutti i beni e i servizi che servono per produrre il bene finale, ricorrendo ad acquisti
esterni solo per approvvigionarsi di materie prime (tipica dell'impresa fordista, cioè della catena di montaggio
automobilistica Ford);
2) BUY: acquistare all’esterno beni o servizi per completare il ciclo produttivo (tipica dell'impresa postfordista).
Tra i due modelli esistono soluzioni intermedie, quale la “rete di imprese” (che rappresentano un'evoluzione
sofisticata del modello “buy”) dove ciascuna impresa svolge la propria attività, affidando ad altri la produzione di
parti specializzate che operano in maniera autonoma rispetto ad essa. Al decentramento di una parte del ciclo
produttivo può non corrispondere l’estromissione (esclusione) materiale dello stesso. Accade spesso che attività
esternalizzate continuino ad essere svolte all’interno del perimetro aziendale, ma da parte di imprese terze e con i
dipendenti di queste. Di solito l’azienda cede un ramo dell’azienda ad un’altra, tramite la stipula di contratti
commerciali di appalto. L’impresa appaltatrice opera con propri mezzi e propri capitali e si impegna a fornire
all’azienda concessionaria, che li acquista, i prodotti di tale attività.
LA NOZIONE DI AZIENDA
Il primo interrogativo da sciogliere è che cosa si intenda nel contesto lavoristico per trasferimento d’azienda; la
risposta è nell’art. 2112, c.5: “si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione
contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza
scopo di lucro, al fine dello scambio di beni e servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la
propria identità”. La condizione necessaria è che l’azienda deve essere esistente prima del trasferimento.
Con la locuzione attività economica organizzata, il legislatore comprende nella fattispecie tanto il trasferimento
dell’azienda, come complesso di beni organizzati, quanto la cessione di qualunque attività, purché organizzata in
vista della produzione di beni e servizi. È lecito affermare che l’oggetto del trasferimento non è tanto l’azienda
intesa come insieme di beni materiali ma l’impresa in quanto attività organizzata al fine della produzione e dello
scambio di beni/servizi (art. 2082cc).
LA NOZIONE DI TRASFERIMENTO
Il trasferimento di azienda, si concretizza, di massima, in una cessione del diritto di proprietà sull’azienda, e dunque
in una vendita. Ad essa sono equiparate, in modo esplicito, le ipotesi di usufrutto e dell’affitto dell’azienda, nonché
della fusione societaria.
IL DIVIETO DI LICENZIAMENTO
La regola di cui all’art. 2112 comma 1, implica, che il lavoratore appartenente ad un'azienda o ad un ramo di essa,
prossimi alla cessione, non possa essere licenziato a causa di tale trasferimento/cessione. L’art. 2112 comma 4 infatti
dispone che: ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il
trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Non è dunque consentito al cedente (salve
nelle situazioni qualificate di crisi) di “alleggerire” l’organico, con licenziamenti disposti nell’imminenza del
trasferimento, anche se al fine di rendere l’azienda più appetibile per il cessionario. Eventuali licenziamenti
potranno essere adottati solo dal cessionario, dopo l’acquisizione dell’azienda. Però il lavoratore può essere non
contento del trasferimento, per cui (a parte il caso di impugnazione della cessione) la legge gli consente di
“dimettersi per giusta causa” dal rapporto di lavoro entro 3 mesi dal trasferimento, qualora le sue condizioni di
lavoro abbiano subito una sostanziale modifica.
LA CONSERVAZIONE DEI DIRITTI ACQUISITI
Alla continuazione del rapporto di lavoro con l’acquirente, si aggiunge, la conservazione dei diritti maturati nella
pregressa fase del rapporto: per l’essenziale, condizioni previste dal contratto individuale e anzianità di servizio
maturata. La conservazione dei diritti non implica però l’immutabilità del regime futuro del rapporto di lavoro.
In particolare, per ciò che attiene ai diritti che derivano al singolo dal contratto collettivo, l’art. 2112 comma 3
prevede che: il lavoratore che passa alle dipendenze del nuovo datore di lavoro (cessionario-acquirente) ha diritto a
vedersi applicati, fino alla loro scadenza, i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali,
territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento. Ma questo non nel caso in cui vi siano altri contratti
collettivi (territoriali o aziendali) applicabili all’impresa cessionaria.
In quest’ultimo caso subentrano i nuovi contratti collettivi, nonostante quelli pregressi non siano ancora scaduti.
Questo significa che qualora il contratto collettivo applicabile all’impresa cessionaria preveda un trattamento
inferiore rispetto a quello del precedente contratto collettivo, i lavoratori ceduti possono trovarsi a sopportare, per il
futuro, una riduzione della retribuzione. Di solito però tal conseguenza è scongiurata con la stipulazione di accordi
aziendali ad hoc (a questo scopo), rivolti ad armonizzare gradualmente il trattamento dei nuovi dipendenti con
quelli già in essere nell’azienda.