Sei sulla pagina 1di 74

DIRITTO DEL LAVORO DISPENSA DA 64 PAGINE AGGIUSTATA IN MODO DISCORSIVO

Sezione prima: TEMI GENERALI E FONTI

DIRITTO DEL LAVORO E DINTORNI


DIRITTO DEL LAVORO: DEFINIZIONE E PARTIZIONI
La definizione del diritto del lavoro è più complessa di quanto possa sembrare, perché il genitivo “del lavoro”
potrebbe indurre a pensare che concerne l’insieme di regole giuridiche che presiedono allo svolgimento dell’attività
fondamentale umana che appunto è il lavoro. In realtà non è così perché le forme giuridiche nelle quali l’attività
lavorativa può essere prestata sono molteplici e il diritto del lavoro si occupa soltanto di alcune di esse.
Possiamo dire che il diritto del lavoro si occupa principalmente di disciplinare il lavoro subordinato, ma con il tempo
si è occupato anche di alcune classi di lavoratori autonomi seppur in maniera incerta ed oscillante, perché anch’essi
meritevoli di protezione. In sostanza, il diritto del lavoro, interviene dove c’è bisogno di proteggere, tramite regole
di ordine pubblico esterne alla negoziazione individuale, un lavoratore altrimenti non in grado di determinare da sé,
con la controparte, le condizioni di lavoro (disciplinari, retributive, ambientali, di orario).
Interviene quindi per bilanciare la disparità di potere esistente tra datore di lavoro e dipendente.

Il diritto del lavoro si divide in diritto sindacale (cioè il diritto dei rapporti collettivi) e in diritto del lavoro in senso
stretto (il diritto del rapporto individuale di lavoro subordinato).

LA FUNZIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO


Oltre al riequilibrio della disparità di potere, altre principali funzioni del diritto del lavoro sono:
-demercificazione del lavoro: volto a difendere la dignità del lavoratore in quanto persona.
-redistribuzione del reddito: a vantaggio della classe storicamente penalizzata rispetto ai detentori del capitale.

IL DIRITTO AMMINISTRATIVO DEL LAVORO


Esiste un corpus di discipline definibile diritto amministrativo del lavoro poiché è volto a regolare la struttura e le
funzioni dei numerosi organismi pubblici competenti di diritto del lavoro:
-Ministero del lavoro e delle politiche sociali: con il Governo Conte 2018 è stato unificato il Ministero del lavoro con
quello dello Sviluppo del Lavoro.
-Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL): ha funzioni ispettive finalizzate alla vigilanza sull’osservazione delle tante
disposizioni, a pena sanzionatoria.
-Aziende Sanitarie Locali: svolgono attività di vigilanza sulla prevenzione e sicurezza sul lavoro.
-Centri d’impiego: introdotti dal d.lgs. 23 dicembre 1997, sotto la gestione delle Regioni, anche se sul livello logistico
restano provinciali.
-Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL): istituito nel 1906.
-Istituto Nazionale Previdenza Sociale (INPS): a causa del rapporto previdenziale esistente tra datore e dipendente, è
obbligatoria l’iscrizione e l’accantonamento dei contributi per accedere al pensionamento.
-Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro (INAIL): assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e malattie
professionali.

ORIGINI ED EVOLUZIONE STORICA DEL DIRITTO DEL LAVORO


IL LIBRO BIANCO SUL MERCATO DEL LAVORO E IL DECRETO BIAGI (2001-2006)
Il Governo Berlusconi ai fini della questione lavoro, presenta nell’ottobre 2001 il c.d. Libro bianco sul mercato del
lavoro, il quale aveva una priorità e cioè quello di incrementare il tasso di occupazione in Italia, mediante l’uso di
politiche che rendessero il mercato del lavoro più dinamico e flessibile.
In altre parole, bisognava tutelare il lavoratore tutelando non il rapporto di lavoro, ma il mercato del lavoro e quindi
proteggere di meno i già occupati, per consentire ai non occupati grazie alla flessibilità di trovare nel breve termine
un posto di lavoro.
Una parte del Libro bianco è stata tradotta in provvedimenti legislativi, si è infatti avuta:
• Una nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato;
• La Riforma dell’orario di lavoro e dei riposi;
• La Riforma del mercato del lavoro, adottata con il d.lgs. n. 276/2003, il c.d. Decreto Biagi.
Quest’ultimo ha infatti modificato, rendendo più flessibile, la disciplina di alcuni contratti atipici come: Il lavoro a
tempo parziale o il lavoro somministrato; introdotto nuove forme più flessibili di lavoro, si pensi a quelli che sono:
lavoro intermittente, contratto di inserimento, lavoro ripartito, lavoro accessorio; riformato il contratto di
apprendistato; introduzione del contratto di collaborazione a progetto.
Quindi in sostanza il decreto Biagi si tratta di provvedimenti che hanno introdotto nuovi tipi di contratti di lavoro e
che hanno innovato (modificato o riformato) la disciplina di alcuni contratti già esistenti.

LA RIFORMA FORNERO
Il nome deriva da quello dell’allora Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Elsa Fornero, che ha modificato il
funzionamento del sistema pensionistico italiano emanando le cosiddette “Disposizioni in materia di trattamenti
pensionistici”.
Con la legge Fornero, emessa nel 2011, il sistema pensionistico italiano è passato dall’essere retributivo all’essere
contributivo. Il primo, più conveniente per il lavoratore, pesava infatti eccessivamente sulle casse dello Stato in
quanto calcolava la pensione basandosi sull’ultima retribuzione (in genere, la più elevata dell’intera carriera
lavorativa) e senza tener conto dei versamenti contributivi fatti negli anni. A partire dal 2011, tutti i lavoratori italiani
vanno in pensione col metodo contributivo, il principio cardine della legge Fornero è che la pensione cresce al
crescere dei contributi versati.
I lavoratori che raggiungono il requisito per la pensione di vecchiaia (il quale è basato sull’innalzamento dell’età
pensionabile a 66 anni per gli uomini e 62 per le donne) possono dunque smettere di lavorare, e percepire una
pensione la cui somma viene determinata sulla base di contributi accumulati durante la vita lavorativa.

IL GOVERNO RENZI E IL JOBS ACT


Governo Renzi/ d.lgs. 4 Marzo 2015: il Jobs Act è una legge attraverso la quale il Governo Renzi è chiamato ad
apportare delle riforme legate al mondo del lavoro.
Il contratto a tutele crescenti è una delle costole del Jobs Act nel tentativo di dare uno slancio all’occupazione.
Esso è stato introdotto per i lavoratori subordinati assunti dal 7 Marzo 2015 che prevede un più flessibile regime
sanzionatorio per il licenziamento illegittimo. Con il Jobs Act, adesso, con il nuovo contratto a tutele crescenti, il
lavoratore di qualsiasi azienda non ha diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, ma solo a un indennizzo
di natura economica che cresce con l’anzianità di servizio (da qui il termine “a tutele crescenti”).
Con il Jobs Act si è registrato un lento calo del tasso di disoccupazione, soprattutto nei giovani.

LA COSTITUZIONE
FONDAMENTO COSTITUZIONALE DEL DIRITTO DEL LAVORO
Se immaginiamo le varie fonti del diritto come una piramide, la Costituzione (entrata in vigore il 1° gennaio 1948) si
troverebbe al vertice di questa piramide. Aprire la Costituzione con una frase contenuta appunto nel primo articolo,
il quale recita: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, significa allora affermare che il lavoro è il fondamento
dell’intero stato italiano. La Costituzione, infatti, non si limita ad affermare dei principi generali, accanto alle norme
di principio, infatti, ci sono delle norme costituzionali che introducono dei diritti a favore dei lavoratori che sono
direttamente efficaci ed applicabili come, ad esempio, il diritto ad una giusta retribuzione.

VEDIAMO ORA QUALI SONO I DIRITTI SUL LAVORO PREVISTI DALLA COSTITUZIONE

-Art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”: se la Repubblica è fondata sul lavoro essa non
può non annoverare tra le sue prime preoccupazioni la tutela di coloro che vengono consacrati come i principali
agenti del progresso sociale, vale a dire i lavoratori. Il lavoro non è solo quello subordinato, bensì qualsiasi attività
umana socialmente utile ed il lavoro viene apprezzato non solo come mezzo per procurarsi di che vivere, ma anche
come fine, ossia come dimensione essenziale per l’autorealizzazione umana.
-Art. 2: Sancisce il riconoscimento e la garanzia di diritti inviolabili dell’uomo (i quali esistono a prescindere dagli
ordimenti giuridici: appartengono all’uomo in quanto tale, inteso cioè come essere libero), sia come singolo, sia nelle
“formazioni sociali” in cui svolge la sua personalità.
-Art. 3: Eguaglianza formale: principio secondo il quale tutti i cittadini “hanno pari dignità sociali e sono uguali
dinanzi alla legge, senza distinzioni di sesso, razza, religione, opinioni pubbliche, condizioni personali e sociali”, c’è
però una concezione “valutativa”: trattamenti uguali a situazioni uguali, trattamenti diversi a situazioni diverse.
Eguaglianza sostanziale: invece, come dice la parola stessa, fa un passo in avanti andando dritto alla sostanza delle
cose: non basta che la legge sia uguale per tutti solo sulla carta ma deve anche attuare e promuovere norme speciali
a favore delle categorie più deboli in modo che realmente tutti siano nelle stesse condizioni di agire e vivere
dignitosamente. A descrivere nel dettaglio questo principio è il comma 2 dello stesso articolo 3 che dichiara che la
Repubblica si impegna a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale intervenendo attivamente per fornire ai
soggetti più deboli i mezzi per esercitare effettivamente i propri diritti. Si deve avere quindi un’eguaglianza delle
opportunità spettando poi agli individui e ai gruppi di coglierle ed eventualmente svilupparle.
-Art. 4: sancisce il diritto al lavoro e stabilisce l’obbligo per lo Stato di promuovere le condizioni che rendano
effettivo questo diritto. È implicita la libertà di scelta del lavoro, ed il 2° comma stabilisce il “dovere di svolgere
un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
-Art. 35: “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni” la Costituzione fa riferimento alla tutela
del lavoro e non alla tutela del solo lavoro subordinato.
-Art. 37: “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla
madre e al bambino una speciale e adeguata protezione”.
-Art. 38: “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso
di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto
all'educazione e all'avviamento professionale.”
-Art. 39: “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro
registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti
dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità
giuridica.
-Art. 41: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
-Art. 46: “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla
gestione delle aziende.”
-Art. 97: Principio di buona amministrazione “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo
che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.”
-Art. 99: Istituzione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) composto da esperti e rappresentanti
delle categorie produttive e del mondo sindacale. È un organo di consulenza del Parlamento e del Governo nelle
materie dell’economia e del lavoro con potere di iniziativa legislativa.

Codice Civile 1942: il diritto del lavoro viene inserito nel Libro V relativo all’impresa e non nel Libro IV dei contratti.

Il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro, abbreviato con la sigla CCNL, costituisce un tipo di contratto di lavoro,
stipulato a livello nazionale, con cui le organizzazioni rappresentative dei lavoratori dipendenti e dei datori di lavoro
si accordano sulle regole generali che disciplinano il rapporto.
I contratti e le loro successive modifiche, sono raccolti e conservati nell'archivio nazionale del Consiglio Nazionale
dell'Economia e del Lavoro (CNEL).

FONTI SOVRANAZIONALI (O ESTERNE): Il sistema delle fonti del diritto può essere distinto in fonti interne e fonti
esterne. Le fonti interne dette anche nazionali che comprende le normative dello Stato, quelle esterne sono
chiamate anche sovranazionali e che derivano dal potere normativo dell'UE (unione europea).
Per esercitare le competenze dell'Unione, le istituzioni adottano:
-Regolamenti: hanno portata generale e sono direttamente applicabili.
-Direttive: vincolano lo stato membro per quanto riguarda il risultato da raggiungere ma è a discrezione dello stato
come raggiungerlo, non hanno efficacia immediata, ma richiedono provvedimenti legislativi di ciascun stato membro
per essere applicate.
- Decisioni: non sono delle varie e proprie norme, ma sono ordini e precetti (comandi o divieti).

FONTI REGIONALI: con la Riforma del Titolo V della costituzione nel 2001 sono state individuate materie di
competenza esclusiva dello stato (come rapporti dello Stato con l’Unione europea), materie di competenza
concorrente tra stato e regioni (tutela e sicurezza del lavoro) e materie di competenza esclusiva delle regioni (tutte
quelle non di competenza esclusiva dello stato, una fra tante: la promozione del diritto allo studio anche
universitario). Le fonti regionali sono leggi emanate dalle regioni, attraverso il Consiglio regionale.
Tali leggi hanno validità limitata al territorio della relativa regione.
Sezione seconda: DIRITTO SINDACALE

ORGANIZZAZIONE E AZIONE SINDACALE


IL DIRITTO SINDACALE: DEFINIZIONE
Il diritto sindacale è quella branca del diritto che studia la figura del lavoratore da un punto di vista collettivo.
Oggetto dello studio della disciplina sono tre argomenti principali: i sindacati (organizzazioni sindacali), lo sciopero e
il contratto collettivo di lavoro.
L’art. 39 della Costituzione descrive quali sono i diritti e gli obblighi attribuiti ai sindacati in Italia (vedere pag.
Precedenti).
Il ruolo di queste organizzazioni sindacali è stato in molti casi decisivo per salvaguardare i diritti dei lavoratori.
Le due caratteristiche principali dei sindacati sono:
-rappresentanza: sono associazioni non riconosciute (non hanno operato per ottenere il riconoscimento della
personalità giuridica) e ciò crea dei problemi sull’efficacia dei contratti collettivi da loro stipulati.
Ai sindacati si applicano le regole del mandato senza rappresentanza. Infatti, il sindacato agisce in nome proprio,
perseguendo (per conto) l’interesse collettivo di cui è titolare. Di conseguenza, gli effetti degli atti giuridici compiuti
dal sindacato ricadono su lui stesso e non sui lavoratori.
-rappresentatività: capacità di rappresentare e difendere i diritti e gli interessi dei lavoratori iscritti a quel sindacato.
È definibile come la capacità dell’organizzazione di unificare i comportamenti dei lavoratori in modo che gli stessi
operino non ciascuno secondo scelte proprie, ma appunto come gruppo.

I SINDACATI
Il sindacalismo è il complesso delle dottrine e dei movimenti che hanno come fondamento e come fine
l'organizzazione dei lavoratori e la tutela dei loro diritti e dei loro interessi economici.
Durante il tempo, diversi modelli organizzativi di sindacalismo si sono susseguiti: la forma più antica è il
sindacalismo di mestiere, frutto dell’aggregazione di lavoratori accomunati dal fatto di svolgere lo stesso mestiere;
c’erano poi i sindacati dei dirigenti, che essendo i diretti collaboratori dell’imprenditore non potevano prendere parte
agli stessi sindacati dei dipendenti; si è passati poi ad un modello, prevalente ancora tutt’oggi, di sindacati di
categoria, che si fonda sull’aggregazione di lavoratori operanti nel medesimo settore economico a prescindere dal
loro mestiere.
Si è sviluppato poi anche il sindacato di azienda, identità sindacali che si formano all’interno di una singola azienda.
In Italia abbiamo una triade di sindacati più importanti: CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), CISL
(Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori), UIL (Unione Italiana del Lavoro), i quali rivestono la forma di
confederazioni sindacali, ossia associazioni di secondo grado che aggregano non i lavoratori, ma le associazioni
sindacali di categoria presenti nel nostro Paese.

L’AZIONE SINDACALE
L’obiettivo fondamentale dell’azione sindacale è la regolazione accorpata delle condizioni di lavoro, che si realizza
soprattutto tramite la stipulazione dei contratti collettivi. Se il contratto collettivo è il fine, lo sciopero è stato
tradizionalmente il mezzo di pressione più impiegato dal sindacato.

LA CONCERTAZIONE
La concertazione è un termine utilizzato in Italia che si riferisce ad una pratica di governo che tende a operare scelte
economiche attraverso una consultazione preventiva delle parti sociali, principalmente sindacati ma anche
associazioni di categoria o appartenenti al terzo settore.
SINDACATO E ORDINAMENTO GIURIDICO
TRA LIBERTÀ E REGOLAZIONE
Gli istituti del diritto sindacale possono essere tanto regolati, quanto ignorati, dalla legge.
Nella prima ipotesi, il problema che si pone è quello di come conciliare le regole con la libertà sindacale; nella
seconda, di come evitare assenza del sistema, giacché la libertà non può essere la sola regola di condotta.
La legislazione italiana ha mantenuto un basso profilo regolatorio, limitandosi a prevedere dispositivi di promozione
dell’attività sindacale e della contrattazione collettiva.

LA LIBERTÀ SINDACALE NELLA COSTITUZIONE


Il principio di libertà sindacale è espresso dall’art. 39, Cost., il quale contiene un’affermazione solenne e
fondamentale: “L’organizzazione sindacale è libera”. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la
loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli
statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità
giuridica. Possono essere rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di
lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.

Il principio di libertà sindacale è espresso nell’art. 39 della Costituzione, questa libertà è definibile come “libertà di
essere parte di un’organizzazione caratterizzata dal perseguimento di un fine di natura sindacale”, che
implicitamente indica anche una libertà sindacale negativa ossia di non iscrizione ad alcun sindacato.
Per “sindacale” si intende un’attività diretta dall’autotutela di interessi connessi a relazioni giuridiche, nelle quali sia
dedotta un’attività lavorativa.
Per “organizzazione” si intende una collettività anche minima e occasionale di persone, nello specifico di lavoratori,
unificata dal perseguimento di uno scopo comune.
La libertà sindacale ha anche la possibilità di “pluralismo sindacale”, che comporta, che in ciascun ambito di
riferimento, possono coesistere più sindacati.
Poiché la più importante e tipica azione sindacale è la contrattazione collettiva, la libertà di organizzazione implica
la necessità di libertà di negoziazione collettiva: è riconosciuta l’autonomia collettiva, ossia la capacità dei soggetti
collettivi di regolare autonomamente i propri interessi e rapporti.
La norma prevede che, una volta registrati, i sindacati acquisiscano lo status di persone giuridiche di diritto pubblico,
e con essa la facoltà di stipulare contratti collettivi, aventi efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla
categoria di riferimento dei contratti medesimi.
La registrazione non è obbligatoria e la mancata registrazione comporta che il sindacato non è riconosciuto.

LA TUTELA DELLA LIBERTÀ SINDACALE


Ulteriori garanzie della libertà sindacale sono rinvenibili nello Statuto dei diritti dei lavoratori che ha l’obiettivo
principale di istituire le condizioni normative affinché la libertà sindacale possa essere esercitata appieno.
La più importante disposizione del Titolo è l’art. 15, sul divieto di atti discriminatori, che ha ormai un raggio di
azione più esteso della materia sindacale, ma che, in origine, era focalizzata proprio sulle discriminazioni sindacali: è
vietato qualsiasi atto, o patto, rivolto a prevedere trattamenti diversi nei confronti di un lavoratore, a paragone di
quelli praticati agli altri lavoratori, o normalmente praticati allo stesso dipendente interessato, a causa
dell’affiliazione/non affiliazione sindacale del medesimo, o dell’attività sindacale o di sciopero svolta da questi.
L’onere della prova del carattere discriminatorio dell’atto ricade sulla parte che afferma di essere stata
discriminata, cioè il lavoratore. La sanzione prevista, una volta che la discriminazione sia stata accertata, è la
radicale nullità dell’atto o patto discriminatorio.
È riconosciuto, inoltre, il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, causati dalla discriminazione.
L’art. 16 disciplina i trattamenti oggetto del divieto, prevedendo che il datore di lavoro non può concedere
trattamenti economici collettivi a carattere discriminatorio a uno o più lavoratori in ragione del loro
comportamento sindacale (per es., premi a lavoratori che non aderiscono allo sciopero).
L’art. 17, infine, bandisce i sindacati di comodo, nel senso che è fatto divieto ai datori di lavoro di costituire o
sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori. Qualora venga acclarata la violazione
della disposizione, il sindacato di comodo e le attività da esso svolte debbono essere ritenute giuridicamente
inesistenti.
IL SINDACATO COME ASSOCIAZIONE PRIVATA NON RICONOSCIUTA
Data la natura fondamentalmente associativa del sindacato è stato naturale configurarlo come associazione non
riconosciuta. I sindacati italiani non sono mai stati interessati a conseguire lo status di associazioni riconosciute.
Le disposizioni in tema di associazione non riconosciuta sono molto scarne (non abbastanza esauriente),
prevedendo:
-l’ordinamento dell’associazione non riconosciuta è regolato dagli accordi degli associati, di solito formalizzati in un
atto costitutivo o in uno statuto.
-l’associazione può stare in giudizio in persona di chi ne è il rappresentante legale, ovvero di colui al quale, secondo
gli accordi, è conferita la presidenza o la direzione.
-i contributi degli associati e i beni acquistati con essi costituiscono il fondo comune dell’associazione.
-per le obbligazioni dell’associazione, i terzi possono rivalersi sul fondo comune oltre che, personalmente e
solidalmente, sulle persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione.

GLI ENTI BILATERALI


Gli enti bilaterali sono “organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro
comparativamente più rappresentative. Un ente bilaterale ha il compito di favorire i rapporti tra sindacati e datori di
lavoro, e creare condizioni di lavoro migliori per i lavoratori. In effetti, per loro stessa natura gli enti bilaterali si
fondano sul principio della collaborazione. Nello specifico, un ente bilaterale si pone a metà tra gli interessi dei
sindacati e quelli dei datori di lavoro, al fine di migliorare le relazioni e la collaborazione su alcuni temi molto
importanti: retribuzione; ferie; sicurezza sul lavoro; contrattazione.

CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
L’AUTONOMIA COLLETTIVA TRA LIBERTÀ E REGOLAZIONE
L’autonomia collettiva è il potere attribuito ai soggetti collettivi, di regolare i propri interessi mediante la produzione
di norme collettive, in particolare tramite la conclusione di contratti collettivi. Il contratto collettivo è un contratto
stipulato tra le contrapposte associazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori, le quali entrano nel contratto
solo per tutelare gli interessi dei soggetti che rappresentano. Un contratto collettivo può essere stipulato anche solo
con un imprenditore, condizione necessaria è solo che vi partecipino collettivamente i lavoratori.
Il contratto collettivo è oramai un contratto nominato (o tipico), per cui non può essere considerato atipico.

LE FUNZIONI DEL CONTRATTO COLLETTIVO


La funzione generale di tutela degli interessi dei lavoratori rappresentati, propria del contratto collettivo, si articola
in funzioni più specifiche:

Funzione normativa: con la quale si fa riferimento al fatto che il contratto collettivo ha l’obiettivo di dettare le
“norme” che dovranno valere per una serie indeterminata di contratti individuali di lavoro subordinato.
Riesce a rendere uniformi le condizioni di lavoro relative ad un medesimo settore produttivo.
All’interno della parte normativa dei contratti collettivi, vi è una parte economica (riguardante la retribuzione).
È la più rilevante e consiste nel determinare il contenuto dei contratti individuali di lavoro al fine di evitare che i
singoli lavoratori, a motivo della loro posizione di inferiorità economico e sociale, siano indotti ad accettare
condizioni contrattuali imposte dalla controparte.

Funzione obbligatoria: il contratto collettivo non fissa solo il contenuto dei rapporti individuali di lavoro, ma
stabilisce anche diritti e doveri in capo ai soggetti stipulanti il contratto collettivo stesso.
Le clausole obbligatorie sono varie e vengono raggruppate con diversi criteri; si possono ricordare, tra le tante: le
clausole di tregua/pace sindacale, si mettono d’accordo a non promuovere scioperi in cambio di quello che hanno
ottenuto, reciproche concessioni. In caso di inadempimento di una clausola obbligatoria, la parte lesa potrebbe
promuovere un’azione di responsabilità contrattuale volta a ottenere l’adempimento o anche il risarcimento dei
danni.

LE REGOLE DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA


Le principali tappe evolutive del sistema italiano di contrattazione collettiva; dal punto di vista delle sue regole
interne, cioè prodotte dal sistema stesso
L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA CONTRATTUALE SINO ALL’ACCORDO QUADRO DEL 2009
Le tendenze di fondo del sistema contrattuale italiano dagli anni 50 agli anni 90 del secolo scorso possono essere
riassunte nei termini seguenti:
• Negli anni 50 esistevano, in pratica, soltanto i CCNL, ed alcuni accordi interconfederali;
• Negli anni 60, pur dominando il CCNL, sono stati avviate le prime contrattazioni aziendali, subordinate al primo
tramite clausole di rinvio.
• Negli anni 70, si è assistito ad una forte crescita del potere sindacale, con una esplosione incontrollata della
conflittualità sociale e della contrattazione aziendale.
• Negli anni 80, il baricentro del sistema contrattuale era tornato ad essere il CCNL, dato il relativo declino della
contrattazione aziendale.
• Negli anni 90, il protocollo Ciampi del 23 luglio 1993, stipulato dal Governo e le confederazioni dei lavoratori e
degli imprenditori, ha dato per la prima volta un assetto relativamente stabile al sistema contrattuale.

Il Protocollo Ciampi prevedeva una contrattazione a due livelli: nazionale, fissandone la durata in 2 anni per la parte
economica e in 4 per quella normativa; decentrata, ovvero territoriale o aziendale, rilasciando la tecnica delle
clausole di rinvio, cosicché il contratto di secondo livello si svolgesse entro i limiti fissati dal CCNL.
Per una decina di anni il Protocollo Ciampi ha ben funzionato, grazie alla stabilità del contesto politico, ma col tempo
ciò è cambiato e c’era l’esigenza di una nuova normativa.

L’esigenza di una riforma del sistema contrattuale ha successivamente portato alla stipulazione dell’ACCORDO
QUADRO 22 GENNAIO 2009, stipulato dal Governo Berlusconi.
I principali punti dell’Accordo del 2009 sono: la conferma dell’assetto contrattuale a 2 livelli; la durata dei CCNL
riportata a 3 anni, sia per la parte normativa che economica.

IL TESTO UNICO SULLA RAPPRESENTANZA DEL 10 GENNAIO 2014


In seguito si è avuta, una ricomposizione dello scenario sindacale, attraverso una serie di accordi che si sono
susseguiti nel periodo dal 2011-2014, peraltro limitatamente al settore industriale: l’Accordo interconfederale del 28
giugno 2011, il protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 e infine il Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio
2014, sottoscritto da Confindustria e CCIL-CISL-UIL, che hanno riassunto in quest’ultimo i due accordi precedenti.
Il TU di rappresentanza (che consta di 4 pari) contiene regole di amplissimo raggio, che toccano tutti gli istituti
cruciali del diritto sindacale: contrattazione collettiva, efficacia soggettiva del contratto collettivo, rappresentanza
sindacale in azienda, sciopero.

LIVELLI, SOGGETTI E MATERIE DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA


Prendiamo in considerazione la struttura del sistema di contrattazione collettiva, dalla prospettiva dei livelli
fondamentali del sistema stesso (nazionale, territoriale e aziendale).
Per ciascuno livello vengono individuati i soggetti sindacali competenti.
Per contratti collettivi, ai sensi dell’articolo 51 del D.lgs. n. 81/2015, si intendono i contratti collettivi nazionali,
territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i
contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali (RSA) ovvero dalla rappresentanza
sindacale unitaria (RSU).

IL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI CATEGORIA


Il livello dominante del sistema contrattuale è tuttora quello di categoria, cui corrisponde il contrato collettivo
nazionale di categoria, detto anche contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL), stipulato dalle associazioni
sindacali di categoria dei lavoratori e delle imprese.

IL CONTRATTO COLLETTIVO TERRITORIALE


Il contratto collettivo di categoria può essere stipulato anche a livello territoriale (vale a dire regionale, provinciale o
di distretto). Può trattarsi, fermo il riferimento del territorio, di accordi di vario ambito: Accordi interconfederali
(conclusi dalle istanze confederali territoriali) o contratti territoriali di categoria (sottoscritti di solito, dalle istanze
territoriali dei sindacati di categoria che hanno sottoscritto il CCNL), ad integrazione o istituzione del CCNL.
Secondo l’accordo quadro del 2009, questa contrattazione può esercitarsi soltanto sulle materie delegate dal CCNL;
ma il principio di libertà sindacale le consentono, di fatto, di occuparsi di qualunque materia.
IL CONTRATTO COLLETTIVO AZIENDALE
L’ambito di applicazione di tale contratto viene delimitato dall’impresa stessa (che può essere anche un’azienda di
dimensione nazionale, come quelle del gruppo Ferrovie dello Stato, Enel, Fiat: il contratto è qui una figura a metà tra
un contratto aziendale e uno nazionale) e dai lavoratori che ne dipendono. Le RSU/RSA sono considerate dal TU
l’agente contrattuale principale a questo livello. Circa le materie, in virtù dell’Accordo quadro del 2009 e del TU
Rappresentanza, esse dovrebbero essere stabilite dal CCNL o dalla legge, non comportare duplicazione rispetto a
materie già negoziate, e prevedere forme di retribuzione variabile. Nei fatti, la contrattazione aziendale si sviluppa
su diverse materie, tra cui: retribuzione, orario di lavoro, inquadramento dei lavoratori ad integrazione del CCNL,
organizzazione del lavoro, formazione e tutela della salute e sicurezza.

L’EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI CATEGORIA/DI LAVORO


DOMANDA D’ESAME: qual è l’efficacia del contratto collettivo nazionale? A chi si applica? Alla luce del 4° comma
dell’Art.39 il contratto collettivo nazionale ha un’efficacia soggettiva limitata agli iscritti ai sindacati che hanno
stipulato il contratto collettivo.
RAGIONIAMO: considerata l’importanza dei contratti collettivi verrebbe da pensare, in modo abbastanza logico,
che i contratti collettivi si applicano a tutti i dipendenti che operano nel comparto o settore a cui il contratto si
riferisce. Non è affatto così. La nostra Costituzione prevedeva un meccanismo attraverso il quale i sindacati,
registrandosi in appositi uffici pubblici, avrebbero potuto stipulare contratti collettivi applicabili a tutti i dipendenti,
indipendentemente dall’iscrizione del singolo dipendente o della singola azienda all’associazione sindacale.
Questo meccanismo, però, non è mai stato attuato. I contratti collettivi restano dunque contratti di diritto privato
che, in base alle regole generali, non potrebbero applicarsi al di fuori dei soggetti firmatari.
Il principio di libertà sindacale, infatti, non potrebbe consentire che ad un lavoratore non iscritto ad alcun sindacato
venga automaticamente applicato un contratto collettivo stipulato da una organizzazione alla quale egli non ha
inteso aderire. Occorre fare, invece, un ragionamento diverso per i contratti aziendali.

L’EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO AZIENDALE (E TERRITORIALE)


L’EFFICACIA TENDENZIALMENTE GENERALE DEL CONTRATTO AZIENDALE
Sin quando i contratti collettivi di livello aziendale sono stati portatori di vantaggi ai lavoratori, o hanno disciplinato
materie organizzative, la giurisprudenza, tramite svariati argomenti, ha trovato, il modo di ritenere tali contratti
efficaci nei riguardi di tutti i lavoratori dell’azienda.
Per evitare situazioni di stallo, è stato proposto, anche in giurisprudenza, il ricorso alla regola di maggioranza,
stando alla quale l’efficacia generale del contratto in esame è condizionata all’approvazione della maggioranza dei
lavoratori dell’azienda, espressa o indirettamente tramite i sindacati che rappresentano tale maggioranza, o
direttamente in sede di RSU.

L’EFFICACIA DEL CONTRATTO AZIENDALE NEL TU SULLA RAPPRESENTANZA


C’è una problematica che riguarda l’eventuale figura del lavoratore dissenziente, colui che è iscritto ad un altro
sindacato minoritario che è risultato perdente (alle elezioni dei soggetti sindacali) o che non è iscritto ad alcun
sindacato, egli potrebbe essere in disaccordo con l’applicazione di un contratto collettivo aziendale perché magari
gli è svantaggioso, la giurisprudenza per risolvere questo “problema” ha previsto la regola maggioritaria:
a) Il contratto aziendale è efficace per tutto il personale dell'azienda se è approvato dalla maggioranza semplice dei
componenti della RSU (rappresentanza sindacale unitaria) (metà+1).
b) Qualora i sindacati, in disaccordo tra loro, non abbiano costituito la RSU bensì la RSA (rappresentanza sindacale
aziendale), e il contratto aziendale sia stipulato da quella, esso è efficace per tutto il personale dell’azienda, se è
approvato dalla RSA costituita nell’ambito di sindacati maggioritari in azienda.

CONTRATTI COLLETTIVI DI PROSSIMITÀ, Art. 8 l. n. 148/2011 Governo Berlusconi


Nel 2011, è stata introdotta una disposizione legislativa molto discussa, in base alla quale le imprese, entro certi
limiti, possono DEROGARE anche in senso peggiorativo (in peius), (con riferimento alla gestione dei rapporti di
lavoro) alle leggi e alle disposizioni dei contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscrivendo degli appositi accordi
collettivi con il sindacato detti contratti di prossimità.
Per espressa disposizione di legge, i contratti di prossimità sono efficaci per tutti i lavoratori assunti presso l’azienda
o l’unità produttiva nella quale il contratto viene sottoscritto (cosiddetta efficacia erga omnes).
Ci sono una serie di LIMITI ALLA DEROGA:
-Per essere valide le intese devono essere sottoscritte dai sindacati individuati dalla legge, ossia associazioni
sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriali,
(“comparativamente” più significative significa che all’interno della categoria si fa una comparazione delle
associazioni sindacali per definire quella che è più rappresentativa rispetto alle altre, ha sostituito il vecchio
“maggiormente”) o dalle RSA.
-Devono essere rispettate delle finalità previste dalla legge: maggiore occupazione, qualità dei contratti di lavoro,
adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, incrementi di competitività e salario, gestioni delle crisi aziendali
e occupazionali.
-Interviene solo sulle materie indicate dalla legge, che però con il tempo sono state definite da altre leggi:
organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento agli impianti audiovisivi e alle nuove tecnologie,
successivamente modificati dal Jobs Act 2015 (controlli a distanza); classificazione e inquadramento del lavoratore
che è successivamente stato previsto dalla legislazione; contratti flessibili che successivamente sono stati modificati.

LA SUCCESSIONE TEMPORALE TRA CONTRATTI COLLETTIVI DI EGUALE LIVELLO


Che cosa accade quando un contrato collettivo è sostituito (perché scaduto o altro) da un altro contratto collettivo di
eguale livello? Avendo una durata di 3 anni, al termine del periodo dovrebbe essere introdotto un nuovo contratto
collettivo, di solito il contratto posteriore contiene miglioramenti dei trattamenti, il che evita l’insorgere di problemi.
Ma può anche accadere che sia portatore di qualche peggioramento.
In questo caso ci si pone il problema di capire se il lavoratore può invocare l’applicazione dei diritti previsti dal
precedente contratto collettivo in quanto più favorevoli, ma la giurisprudenza afferma che ciò non è possibile, salvi i
diritti individuali già maturati (es. diritti retributivi per prestazioni lavorative già svolte).
Nel caso in cui il contratto collettivo scade, ma non viene sostituito di fatto, non si può applicare il precedente
contratto collettivo (perché i contratti collettivi operano esclusivamente entro l’ambito temporale pattuito dalle
parti firmatarie) e i rapporti quindi restano scoperti dal punto di vista contrattuale, rimanendo comunque operante,
sotto il profilo retributivo, la tutela garantita dall’art. 36 comma 1: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un'esistenza libera e dignitosa”.

CONCORSO E CONFLITTO TRA CONTRATTI COLLETTIVI DI DIVERSO LIVELLO


Può verificarsi anche un concorso di norme collettive, di diverso livello (nazionale/aziendale) sullo stesso oggetto.
Se le norme riguardano la stessa materia, ma non lo stesso istituto, non vi è concorso o conflitto tra esse, ad
esempio: se il contratto aziendale prevede voci retributive aggiuntive a quelle del CCNL, entrambi trovato
applicazione. Si ha concorso di fonti quando le nome dei diversi contratti collettivi disciplinano lo stesso istituto, o lo
stresso elemento di esso, ad esempio: il compenso lavorativo straordinario.
Se le due regolamentazioni sono divergenti nel contenuto, si produce un conflitto tra norme, che dev’essere risolto
selezionando la norma prevalente. Il problema si pone anche per i rapporti conflittuali tra legge e contratto
collettivo, risolti solitamente tramite il principio dell’inderogabilità in peius.
La giurisprudenza ha ammesso più volte la derogabilità in peius del CCNL da parte del contratto collettivo aziendale.
Il contratto aziendale può dunque ben può derogare in peggio al contratto CCNL.

La DEROGABILITÀ dei contratti collettivi aziendali presenta dei LIMITI indicati dal TU rappresentanza 2014:
a) È prevista la possibilità di stipulare contratti aziendali modificativi (e quindi anche derogatori in peius) dei CCNL nei
limiti e con le procedure previste dagli stessi CCNL.
b) I CCNL prevedono che ai contratti collettivi aziendali modificativi competono “la prestazione lavorativa, gli orari, e
l’organizzazione del lavoro (esclusi gli istituti retributivi) al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di
investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa.
c) Il contratto aziendale non può essere stipulato dalla RSU o dalla RSA da sole, bensì da loro con l’intesa con le
relative organizzazioni sindacali territoriali di categoria.

L’INDEROGABILITÀ DEL CONTRATTO COLLETTIVO


Affinché il contratto collettivo possa fungere da effettivo supporto all’autonomia negoziale del lavoratore,
compensando il predominio della parte più forte, non è però sufficiente che le clausole collettive si inseriscano nella
disciplina del contratto individuale. Occorre che esse abbiano la forza di prevalere su eventuali clausole individuali
difformi. Occorre in altre parole che alle previsioni del contratto collettivo sia attribuita forza imperativa e che esse
siano ritenute inderogabili, in senso peggiorativo per il lavoratore, a livello di contrattazione individuale.
LO SCIOPERO
SCIOPERO E TEORIE SOCIALI
Lo sciopero è il principale strumento a disposizione dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali per sostenere le
proprie rivendicazioni. Lo sciopero rimane un istituto centrale del diritto del lavoro.
L'articolo 40 della costituzione rappresenta il mezzo per raggiungere il fine dell'articolo 3 (il principio di eguaglianza)
comma 2 (l'uguaglianza sostanziale). Il principio di uguaglianza sostanziale, come dice la parola stessa, fa un passo
in avanti andando dritto alla sostanza delle cose: non basta che la legge sia uguale per tutti solo sulla carta, ma deve
anche attuare e promuovere norme speciali a favore delle categorie più deboli in modo che realmente tutti siano
nelle stesse condizioni di agire e vivere dignitosamente. Il principio di uguaglianza sostanziale, comporta infatti,
l’impegno dello stato a creare le condizioni di eguaglianza sostanziale fra i cittadini, ovvero a rimuovere gli ostacoli di
natura economico-sociale che di fatto impediscono la partecipazione dell’individuo alla vita del paese.
L' articolo 40 della Costituzione italiana disciplina il diritto di sciopero, stabilendo che esso «si esercita nell'ambito
delle leggi che lo regolano». Allo sciopero è attribuito un ruolo di preminenza nel sistema giuridico poiché è uno
strumento fondamentale di azione sociale:
-Nato inizialmente all'interno della organizzazione industriale, il diritto al conflitto sociale è riconosciuto dalla
Costituzione (art.40) con lo scopo di concedere alle classi lavoratrici un mezzo per superare la loro condizione di
subalternità (condizione di chi dipende da altre persone gerarchicamente superiori per grado e per autorità).
-Lo sciopero si è, per così dire ridotto a strumento di difesa degli interessi, essendo accettato anche all'interno delle
teorie liberali della società.
-A partire dagli anni 80 il suo peso è fortemente diminuito nell’industria, mentre si è accresciuto nel settore dei
servizi, specificamente di quelli “essenziali”, a tal punto che si è dovuta emanare nel 1990 una legge per
salvaguardare i diritti degli utenti dei servizi: quindi lo sciopero trasferendosi anche nel settore terziario ha
acquistato valenza politica, poiché a pressione nei confronti dei poteri e non più solo nei confronti degli
imprenditori.
-Oggi si è di fronte a uno scenario complesso, nel quale lo sciopero, già in sé meno praticato, è stato ormai
pienamente integrato nel sistema costituzionale. Esso continua ad essere uno strumento importante a disposizione
dei lavoratori per riequilibrare i rapporti di forza nel mercato del lavoro.

LA DISCIPLINA GIURIDICA DELLO SCIOPERO


La disciplina giuridica dello sciopero ha assunto connotazioni molto diverse nel tempo, a seconda delle mutazioni
degli atteggiamenti dell’ordinamento:
- Nei primi anni dell’Unità, lo sciopero era considerato un reato, tranne che nell’ex Granducato di Toscana.
- L’eredità toscana fu raccolta, su scala nazionale, dal codice penale Zanardelli del 1889, ove lo sciopero era
penalmente tollerato, pur rimanendo illecito sotto il profilo civilistico cioè i singoli lavoratori (e i sindacati) erano
esposti comunque ad azioni di responsabilità contrattuale per inadempimento contrattuale dell’obbligo di lavorare,
e potevano dunque essere licenziati.
- L’era della tolleranza penale dello sciopero subì un brusco regresso nel periodo corporativo durante il quale lo
sciopero tornò ad essere represso penalmente, e si prevedeva il reato di sciopero (e di serrata) a fini contrattuali o di
protesta.
- Infine la Costituzione repubblicana proclama lo sciopero come diritto (art.40).

LO SCIOPERO COME DIRITTO


L'articolo 40 della costituzione recita: "il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano ".
Lo sciopero costituisce:
•un diritto soggettivo pubblico di libertà, che vieta alla legislazione di reprimere lo sciopero;
•un diritto soggettivo del lavoratore subordinato nei confronti del datore di lavoro, che consiste nel diritto di
astenersi dal lavoro per sciopero, e il cui esercizio, pur implicando la perdita della retribuzione, vale ad escludere che
l'astensione dia luogo ad un inadempimento contrattuale.
-Una tesi che ha avuto largo seguito, sostenuta negli anni 50, è quella secondo cui lo sciopero costituirebbe un
“diritto soggettivo potestativo”, cioè il diritto di sospendere la prestazione di lavoro per la tutela dell’interesse
collettivo; al suo esercizio corrisponde una posizione di “soggezione” del datore di lavoro.
-Negli anni 60 hanno preso piede teorie inclini a qualificare lo sciopero come diritto fondamentale della persona.
Centrale è l'idea che lo sciopero costituisce uno dei principali strumenti di emancipazione (liberazione), dei lavoratori
dallo Stato, di diseguaglianza sociale in cui versano, e, conseguentemente di sviluppo della loro personalità.
-La costituzione, però, non riconosce all'imprenditore un contrapposto diritto di serrata, che consiste nel diritto
dell'imprenditore, come reazione, di serrare l'azienda, di cioè di sospendere l'attività produttiva e impedire l'accesso
dei lavoratori all'azienda. Ma viene garantito come un diritto di libertà: l'imprenditore che ricorre alla serrata
comunque deve corrispondere alla retribuzione.

LA TITOLARITÀ DEL DIRITTO DI SCIOPERO


L’articolo 40 nulla dice in ordine alla titolarità del diritto di sciopero, e cioè nulla dice in ordine all’individuazione
dei soggetti ai quali quel diritto compete. Indeterminatezza non equivale a lacuna, per cui la formulazione
dell'articolo 40 rimette all'interprete l'onore di stabilire chi è il titolare di tale diritto.
Non vi è dubbio che di regola il diritto di scioperare spetti a tutti lavoratori subordinati.
La Cassazione ha però riconosciuto la titolarità del diritto di sciopero anche ai lavoratori parasubordinati (figura a
metà strada tra il subordinato e l'autonomo, non è sottoposto a vincolo gerarchico, bensì è gestito in forma
coordinata e, spesso, inserita nell'organizzazione dell'imprenditore).
Sulla tormentata questione della titolarità il diritto si sono disputate diverse tesi.
-Quando la Costituzione fu emanata, prevalse l’idea per cui il titolare del diritto di sciopero doveva essere ritenuto,
non il singolo lavoratore, ma l’associazione sindacale.
-Successivamente negli anni 70 invece si è affermata ed imposta definitivamente nella giurisprudenza e nella prassi,
l'ipotesi che titolare del diritto di sciopero deve invece ritenersi ciascun singolo lavoratore, ma tale diritto può essere
esercitato dal singolo soltanto assieme ad altri lavoratori, non essendo ammissibile lo sciopero individuale.
Lo sciopero dunque è stato configurato come diritto individuale, ma ad esercizio necessariamente collettivo.
Se il diritto appartiene a ciascun lavoratore, eventuali clausole contrattuali stabilite dai sindacati (per esempio c.d.
“di tregua sindacale” che stabilisce che per certi periodi il sindacato non ricorrere agli scioperi):
- non incidono sulla sfera giuridica dei singoli, e non rendono illegittimo lo sciopero da essi attuato;
- un’eventuale violazione di tali clausole può quindi dare luogo soltanto a conseguenze sul piano dell’ordinamento
intersindacale;
Ma almeno un'eccezione esiste: la legge n. 146/1990, limitatamente al settore dei servizi essenziali, ha conferito
alle organizzazioni sindacali il potere di stipulare accordi collettivi rivolti a individuare le “prestazioni indispensabili”
che devono essere garantite anche in caso di sciopero.

LO SCIOPERO COME FATTO


Per sciopero si intende: l’astensione concertata dal lavoro, finalizzata all’autotutela di un interesse collettivo. Sotto il
profilo materiale uno sciopero per essere considerato tale è sufficiente la partecipazione di almeno 2 lavoratori. Ci si
chiede inoltre se deve considerarsi sciopero soltanto un’astensione dal lavoro, cioè un fatto meramente omissivo
oppure anche in forme di non collaborazione del lavoratore (ad esempio il rifiuto di svolgere prestazioni accessorie o
la limitazione al minimo del rendimento). Nell’impostazione tradizionale si tendeva a considerare sciopero solo ciò
che è astensione dal lavoro. Sempre secondo l’impostazione tradizionale le forme di sciopero che non vengono
classificate “astensione dal lavoro” ma in una prestazione non regolare dello stesso, non sono coperte da garanzia
costituzionale e potrebbero essere ritenute inadempimenti contrattuali, tuttavia tende da tempo a prevalere nella
giurisprudenza la diversa idea che è considerato sciopero tutto ciò che la prassi sociale dimostra di considerare tale.

LO SCIOPERO SOTTO IL PROFILO DELLE FINALITÀ


È l’autotutela di un interesse collettivo; dunque non il soddisfacimento di esigenze meramente individuali:
• Sulla interpretazione di cosa sia l'interesse collettivo la concezione che ha a lungo dominato in dottrina è stata
quella dell'interesse professionale collettivo, per cui lo sciopero-diritto sarebbe solo lo sciopero economico-
professionale effettuato per avanzare pretese economiche o organizzative nei confronti della parte datoriale.
• Ma la Corte Costituzionale nel 1962 ammise anche la liceità (l'essere lecito, consentito dalla legge) dello sciopero di
solidarietà (proclamato per sostenere le rivendicazioni di un’altra categoria di lavoratori che hanno già intrapreso
uno sciopero).
Da questa prima pronuncia del 1962, ha preso avvio una lettura in termini ampi del concetto di interesse collettivo,
inteso come comprensivo di una gamma più vasta di pretese; nonché ulteriormente alimentata dall’idea che le forme
dello sciopero debbono essere lasciate alla libera determinazione dei soggetti collettivi: quindi è diventato legittimo,
tra gli altri, lo sciopero politico eccetto quello “sovversivo” (agisce per distruggere l'ordinamento dello Stato).

LO SCIOPERO SOTTO IL PROFILO DELLE MODALITÀ DI ESERCIZIO


Sciopero a singhiozzo o a scacchiera. Si è detto che lo sciopero consi-ste nell’astensione dal lavoro, che dovrebbe
essere continuativa, completa e concertata. Sulla base di questa definizione si riteneva che fossero illegittime le
astensioni discontinue, con alternanza di ore di lavoro ed ore di non lavoro nell’arco della giornata (sciopero a
singhiozzo) e le astensioni a reparti alterni, prima un reparto poi un altro tra di loro collegati ai fini della produzione
(sciopero a scacchiera).
Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, la giurisprudenza era sostanzialmente unanime nel ritenere illegittime queste
forme (le cd. “forme anomale” o abnormi) di sciopero, sulla base di una teoria (del danno ingiusto) ed eccessivo per
l'imprenditore. La pronuncia ha osservato che il diritto di sciopero deve essere esercitato in modo da “non
pregiudicare irreparabilmente la produttività dell’azienda, cioè la possibilità per l’imprenditore di svolgere la sua
attività economica”.

EFFETTI DELLO SCIOPERO SUL RAPPORTO DI LAVORO


Il lavoratore che si astiene dal lavoro esercita il diritto di sospendere l’esecuzione della prestazione lavorativa, per
cui non può essere considerato inadempiente, e non può quindi patire conseguenze negative di sorta, né disciplinari
né risarcitorie, sul piano di rapporto di lavoro:
• La partecipazione di un lavoratore allo sciopero comporta, in applicazione del principio di corrispettività fra le
prestazioni, la perdita della retribuzione (natura sinallagmatica del contratto di lavoro).
• Per quanto riguarda gli effetti dello sciopero articolato o parziale nei confronti dei lavoratori non scioperanti, la
giurisprudenza considera esonerato il datore di lavoro dall’erogazione retributiva non soltanto nei casi di
impossibilità assoluta della prestazione lavorativa (es.: se l’attività di un reparto sia impossibile per lo sciopero di un
altro reparto situato “a monte della catena produttiva”, dunque che precede cronologicamente), ma anche in quelli
di mera “inutilizzabilità”, o persino “non proficuità”, della prestazione medesima (es.: quando l'imprenditore per
compensare l'assenza dal lavoro e la mancata produzione (dello scioperante in questo caso), dovrebbe assumere un
onere eccessivo e allora preferisce chiudere per il tempo dello sciopero).

EFFETTIVITÀ DEL DIRITTO DI SCIOPERO E REAZIONI DEL DATORE DI LAVORO


L’esistenza del diritto di sciopero preclude (impedisce) allo stato e al datore di impedirne od ostacolarne l’esercizio.
- lo Statuto dei lavoratori ha delineato un insieme di protezioni che mirano a garantire il lavoratore contro ogni
forma di discriminazione causata dalla partecipazione ad uno sciopero;
- possibilità delle associazioni sindacali di reagire in prima persona contro comportamenti del datore di lavoro “diretti
ad impedire o limitare l’esercizio del diritto di sciopero”.
Per la questione delle possibili reazioni datoriali rivolte a contrastare gli effetti concreti dello sciopero:
La giurisprudenza è solita ritenere illecito il crumiraggio esterno (assunzione ad hoc (appositamente) di altri
lavoratori per lo svolgimento delle mansioni già affidate agli scioperanti). È invece ritenuto lecito il crumiraggio
interno (affidamento delle mansioni degli scioperanti a lavoratori in servizio, e non prendenti parte allo sciopero) a
patto che questi lavoratori non siano utilizzati in modo eccessivamente anomalo, ad esempio impiegandoli a tempo
pieno se sono a tempo parziale.

LO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI


Con la legge n. 146/1990, successivamente modificata dalla legge n. 83/2000, il legislatore ha introdotto una
regolamentazione specifica delle modalità di esercizio del diritto di sciopero dei lavoratori impiegati nel settore dei
servizi pubblici essenziali. La ratio di questa normativa va individuata nella necessità di contemperare l’esercizio del
diritto di sciopero con la tutela dei beni costituzionalmente garantiti alla cui soddisfazione sono diretti i servizi
pubblici essenziali, espressamente e tassativamente elencati all’art. 1 della legge n. 146/1990, ossia: il diritto alla
vita, alla salute, alla sicurezza, la libertà di circolazione, il diritto all’assistenza e alla previdenza sociale, il diritto
all’istruzione, la libertà di comunicazione, e i servizi volti all’approvvigionamento di beni di prima necessità.
Il controllo della corretta attuazione della normativa è affidato a un organo apposito e indipendente, la
Commissione di garanzia.

I LIMITI ALL’ESERCIZIO DELLO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI


Il diritto allo sciopero, per quanto si tratti di una libertà fondamentale che deve essere sempre garantita ed il cui
esercizio deve esser sempre permesso al lavoratore, vi sono taluni ambiti in cui il diritto di sciopero entra in
conflitto con altri diritti, i quali, per la loro inerenza alla tutela della persona, comportano il sorgere di una
limitazione del diritto di sciopero. Tale situazione si presenta rispetto ai cosiddetti servizi pubblici essenziali.
Il principio che guida la legge 146/90 è che il diritto di sciopero deve esercitarsi nel rispetto di determinati diritti della
persona nel loro “contenuto essenziale”, elencati nell'art.1: diritto alla vita, alla sicurezza, all'informazione,
all'istruzione ecc:
• Il diritto di sciopero deve essere esercitato in modo da consentire l’erogazione delle “prestazioni indispensabili” a
garantire l’effettiva tutela del “contenuto essenziale” dei diritti in discorso. Lo sciopero può essere regolato infatti,
soltanto “limitatamente” a tali prestazioni.
• contenuto “essenziale” significa che tali diritti non devono essere rispettati integralmente, ciò equivarrebbe a
negare lo sciopero, ma solo in un nucleo ristretto considerato come essenziale, insomma un minimo indispensabile.

Fondamentale, prima di tutto, è quindi l’identificazione dei servizi rivolti a garantire il soddisfacimento dei diritti.
• Per quanto concerne la tutela della vita, della salute, della libertà e della sicurezza della persona, dell’ambiente e
del patrimonio storico-artistico, sono menzionati: la sanità, l’igiene pubblica, la protezione civile; la raccolta e lo
smaltimento dei rifiuti urbani e di quelli speciali; le dogane.
• Per la libertà di circolazione: i trasporti.
• Per l’assistenza e la previdenza sociale: i servizi di erogazione dei relativi importi, anche effettuati a mezzo del
servizio bancario.
• Per l’istruzione: l’istruzione pubblica.
• Per la libertà di comunicazione: poste, telecomunicazioni e informazione radiotelevisiva pubblica.
La direttiva della legge è DUNQUE quella del bilanciamento fra il diritto di sciopero e altri diritti della persona.

Le procedure da seguire e le regole da rispettare sono:


1. La legge 146/1990 stabilisce che le parti, prima di proclamare uno sciopero, devono attivare le c.d. procedure di
raffreddamento e di conciliazione, ricorrendosi effettivamente allo sciopero soltanto come ultima ratio.
2. Se questa fase non ha successo, allora i soggetti sindacali sono abilitati a proclamare formalmente lo sciopero.
Ma all’atto della proclamazione debbono comunicare per iscritto, rispettando un termine minimo di preavviso di 10
giorni, la durata, le modalità di attuazione, nonché le motivazioni (questo per permettere alle amministrazioni di
predisporre interventi opportuni). Un'eventuale revoca spontanea dello sciopero, dopo che v’è già stata
l’informazione all’utenza (c.d. effetto-annuncio) costituisce “forma sleale di azione sindacale” e viene valutata dalla
Commissione di garanzia a fini sanzionatori.
3. La legge inoltre stabilisce che le parti debbano altresì indicare intervalli minimi da osservare fra l’effettuazione di
uno sciopero e la proclamazione del successivo per evitare che sia oggettivamente compromessa la continuità dei
servizi pubblici di cui all’art.1. Ne derivano due regole:
• rarefazione soggettiva, in base alla quale un sindacato che proclama uno sciopero in un determinato servizio non
può, in quel medesimo servizio, proclamare un secondo sciopero, se non dopo che sia trascorso un certo lasso di
tempo dalla effettuazione del precedente sciopero.
• rarefazione oggettiva, in base alla quale gli scioperi proclamati all’interno di un determinato servizio debbono
essere distanziati tra loro da un certo lasso di tempo, indipendentemente dal soggetto proclamante.

All’interno di questo quadro delineato dalla legge, deve poi svolgersi l’attività dei contratti collettivi, rivolta a
individuare i caratteri delle “prestazioni indispensabili”:
- i contratti collettivi possono disporre l'astensione dallo sciopero di un numero strettamente necessario di lavoratori
e di indicare le modalità per l'individuazione di tali lavoratori;
- di fatto gli accordi vengono stipulati, in genere, dai sindacati più rappresentativi e, una volta valutati idonei dalla
Commissione di garanzia, hanno valenza nei confronti di tutti.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA
Essa è un'Autorità amministrativa indipendente, istituita dall'art. 12 della L. 12 giugno 1990, n. 146, e successive
modificazioni, con il compito di vigilare sul corretto contemperamento dell'esercizio del diritto di sciopero nei
cosiddetti servizi pubblici essenziali, con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati.
Essa è stata investita di una serie di importanti funzioni, di cui le principali:
• favorire in ogni modo l’accordo fra le parti in conflitto, convocandole in apposite audizioni o sollecitando le
medesime ad incontrarsi per confrontarsi sul problema oggetto della vertenza;
• valutare l’idoneità dei contratti collettivi a proteggere i diritti dell’utenza;
• riempire il vuoto lasciato dalle parti;
• segnalare in via preventiva le eventuali violazioni delle regole legali o contrattuali sullo sciopero.

LE SANZIONI DELLO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI


La legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali prevede un apparato sanzionatorio applicabile ove la
Commissione di garanzia accerti che i sindacati e i lavoratori non hanno rispettato la normativa vigente.
Le sanzioni individuali, per i lavoratori che, richiesti di prestare lavoro per garantire l’effettuazione delle prestazioni
indispensabili, non svolgono la propria attività, sono di carattere disciplinare; debbono essere proporzionate alla
gravità dell’infrazione. Quindi, deve trattarsi di sanzioni cd. conservative, tali da non comportare mutamenti
definitivi del rapporto. Le sanzioni disciplinari conservative del rapporto di lavoro sono quelle diverse dal
licenziamento e consistono nel rimprovero verbale, il rimprovero scritto, la multa per un importo non superiore a 4
ore della retribuzione di base o la sospensione dalla prestazione lavorativa e dalla retribuzione sino ad un massimo di
10 giorni.
L’art. 4, c.2, detta sanzioni collettive le cui sono irrogate nei confronti delle organizzazioni di lavoratori che
proclamano uno sciopero o ad esso aderiscono in violazione delle disposizioni di cui all'articolo 2 (dunque in
violazione degli accordi collettivi, dei codici di autoregolamentazione o della provvisoria regolamentazione disposta
dalla Commissione di garanzia).
Sono previste inoltre sanzioni amministrative di carattere pecuniario (minimo di 2500$ ad un massimo di 50.000$)
per i rappresentanti legali delle pubbliche amministrazioni e delle imprese che non abbiano fatto il possibile per
garantire l’osservanza della legge. Se questo apparato di sanzioni non funziona, esiste un rimedio estremo, la cd.
precettazione: si tratta di un provvedimento amministrativo, che ha la forma di ordinanza, e la cui adozione
presuppone l’esistenza di un fondato pericolo di “un pregiudizio grave ed imminente ai diritti della persona
costituzionalmente tutelati”: in questi casi è possibile “precettare”, cioè comandare a lavoro, quote di lavoratori.
Qualora neppure la precettazione sia osservata sono previste sanzioni amministrative pecuniarie pesanti.

LO SCIOPERO DEI LAVORATORI AUTONOMI


Con la legge n.83/2000, si è cercato di estendere ai lavoratori “autonomi”, sin dove possibile, le regole pensate per lo
sciopero dei lavoratori dipendenti. Non v’è dubbio, infatti, che se il servizio è costituzionalmente essenziale esso non
deve essere messo in pericolo comunque, a prescindere dal fatto che l’astensione collettiva delle prestazioni (quindi
anche se) provenga da lavoratori autonomi.
L’art. 2-bis, stabilisce che l’astensione collettiva che incide sulla funzionalità dei servizi pubblici deve essere
esercitata nel rispetto di misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili.
Per l’individuazione di tali misure, la Commissione di garanzia, promuove l’adozione di codici di
autoregolamentazione, sottoposti poi al giudizio di idoneità della stessa Commissione.
Tali codici di autoregolamentazione devono:
• contenere un termine di preavviso non inferiore a dieci giorni.
• contenere l’indicazione della durata e delle motivazioni dell’astensione.
• assicurare in ogni caso un livello di prestazioni compatibile con il soddisfacimento del contenuto essenziale dei
diritti della persona messi in pericolo dall’astensione.
Dunque, lo sciopero deve essere esercitato nei casi di lavoratori autonomi, dai codici di autoregolamentazione di
categoria, in modo tale da garantire sempre un servizio minimo.

LE RELAZIONI SINDACALI IN AZIENDA

LA RAPPRESENTANZA DEI LAVORATORI IN AZIENDA


La dinamica sindacale non si esaurisce nelle relazioni extraziendali fra sindacati, ma tende a penetrare all’interno
delle aziende. Negli anni 50 e 60 non esisteva un organismo che poetesse rappresentare in modo organico i
lavoratori in azienda. In compenso nelle imprese di maggiori dimensioni esisteva un organismo rappresentativo, la
commissione interna: aveva poteri circoscritti non disponendo della competenza di stipulare contratti collettivi a
livello aziendale.

LA RAPPRESENTANZA SINDACALE AZIENDALE


RSA è l’acronimo per “Rappresentanza Sindacale Aziendale” ed è un organismo di rappresentanza sindacale eletto
dagli iscritti di un particolare sindacato. Dal momento che l’RSA è eletta solamente dagli iscritti ad un sindacato,
questa si occupa di tutelare unicamente gli iscritti a tale sindacato e non è titolare della contrattazione aziendale.
L’ RSA è stata introdotta come forma di rappresentanza sindacale dallo statuto dei lavoratori (legge 300/1970), il
quale prevede il diritto per i lavoratori di costituire delle rappresentanze sindacali aziendali in ogni unità produttiva, a
patto che in essa siano presenti almeno 15 dipendenti (art 35 dello Statuto dei lavoratori).

LA RAPPRESENTANZA SINDACALE UNITARIA


RSU è l’acronimo per “Rappresentanza Sindacale Unitaria” ed è un organo di rappresentanza sindacale all’interno
dei luoghi di lavoro, siano essi pubblici o privati. L’RSU viene eletta da tutti i lavoratori presenti in azienda,
indipendentemente dal fatto che essi siano o meno iscritti ad una sigla sindacale. Dal momento che l’RSU viene
eletta da tutti i lavoratori, ha la rappresentanza generale di questi e partecipa alla contrattazione aziendale.
La carica è triennale e, in seguito alla scadenza dell’incarico, si tengono nuove elezioni per eleggere dei nuovi
rappresentanti.
Sezione terza: IL CONTRATTO DI LAVORO

LEGGE E CONTRATTO COLLETTIVO

Il contratto di lavoro, è un tipo di contratto a prestazioni corrispettive, stipulato tra un datore di lavoro (persona
fisica, giuridica o ente dotato di soggettività) e un lavoratore (necessariamente persona fisica) per la costituzione di
un rapporto di lavoro subordinato, in cui il primo è tenuto a corrispondere al secondo una retribuzione, e il secondo
è tenuto a rendere una prestazione lavorativa subordinata in favore del primo.

CONCORSO E CONFLITTO TRA FONTI


La legge e il contratto collettivo sono le principali fonti del diritto del lavoro.
Le due fonti sono condannate a convivere:
- la legge è garantita dall’essere l’espressione della sovranità popolare incarnata nel Parlamento;
- la contrattazione collettiva è protetta dall’art. 39 c. 1, Cost.
N.B. Dall’esistenza di una riserva costituzionale in favore della contrattazione collettiva non si deve dedurre che
esistono aree precluse (Impedite) alla legge, in quanto questa mantiene la facoltà di intervenire a protezione del
ritenuto interesse generale; ma il suo interesse deve essere proporzionato, cioè limitato a quel che si rende
necessario per proteggere detto interesse. Tra le due fonti intercorrono, inoltre, numerosi rapporti, i quali danno
frequentemente luogo ad un CONCORSO di fonti nella disciplina di un medesimo istituto. Il concorso può essere
spontaneo, oppure promosso e mediato dall’esistenza di norme legali di rinvio. Si produce un CONFLITTO, invece,
quando le due fonti si sovrappongono dettando discipline diverse sul medesimo oggetto, o la previsione del contratto
collettivo esce dai binari precostituiti dalla legge. In entrambe le situazioni ipotizzate, è necessario reperire un
principio/criterio che consenta di sciogliere il concorso/ conflitto, selezionando, fra le due disposizioni
potenzialmente applicabili, quella dominante.

IL CONFLITTO TRA LEGGE E CONTRATTO COLLETTIVO: IL MODELLO RIGIDO


Un primo criterio di risoluzione del conflitto fra legge e contratto collettivo è:
-Modello rigido: Il criterio classicamente utilizzato dal diritto del lavoro, e che si basa appunto su una visione rigida
della relazione che esiste fra le due fonti (fonte legale e collettiva) è quello dell’inderogabilità in peius della norma
di legge. La regola generale è nel senso che la fonte inferiore (il contratto individuale rispetto al CCNL, il CCNL
rispetto alla legge) possa derogare a quella superiore solo in senso più favorevole ai lavoratori (cosiddetta
derogabilità in melius) e mai in senso ad essi sfavorevole (inderogabilità in peius).
Il senso è che si deve tenere conto che la contrattazione collettiva è l’istituzione sociale di autotutela collettiva dei
lavoratori, quindi lavora per migliorare le condizioni dei lavoratori e non peggiorarle. La clausola collettiva in
contrasto con una norma imperativa di legge è colpita dalla sanzione della nullità, che non si estende all’intero
contratto collettivo, ma solo sulla clausola contrattuale in contrasto e comporta la sostituzione di diritto della stessa
con la norma legale con la quale è entrata in conflitto.

SEGUE: IL MODELLO FLESSIBILE


-Modello flessibile: il modello rigido ha l’inconveniente di non lasciare spazio alle ponderazioni e alle selezioni di
interessi ragionevolmente effettuabili a livello collettivo per stabilire di cosa è meglio o peggio per l’interesse dei
lavoratori. Dunque, visto che il modello rigido presentava l'inconveniente di un possibile eccesso di rigidità,
incompatibile con le esigenze di flessibilità richieste oggi dal mercato, la legge è stata costretta ad ammettere
eccezioni, consentendo ai contratti collettivi di prevedere norme derogatorie anche in peius.
Quindi ha acquisito peso crescente la possibilità, per la fonte delegata (inferiore), di prevedere una disciplina
diversa e quindi non necessariamente più favorevole, da quella stabilita dalla legge. La previsione di trattamenti
derogatori di quelli standard è permessa, ma subordinata al controllo e all’approvazione dai sindacati più
rappresentativi.
CONTRATTO DI LAVORO E AUTONOMIA INDIVIDUALE
Il CONTRATTO INDIVIDUALE DI LAVORO SUBORDINATO è l'accordo tra un prestatore d'opera e un datore di lavoro,
in forza del quale il lavoratore si obbliga a prestare la propria attività, manuale o intellettuale, in cambio di un
corrispettivo. Normalmente il contenuto del contratto individuale è costituito da un semplice rinvio alla normativa
prevista dal contratto collettivo di lavoro. Il contratto individuale non necessita di una forma particolare; può essere
stipulato verbalmente o anche per fatti concludenti. Solo in alcuni casi il legislatore ha previsto l'obbligo della forma
scritta, come nel patto di prova, nel contratto a termine e nel contratto di formazione e lavoro.

L’INTEGRAZIONE ETERONOMA DEL CONTRATTO INDIVIDUALE DI LAVORO


Le condizioni in cui il lavoratore presta la propria opera e gli obblighi reciproci delle parti sono definiti all’interno
del contratto individuale di lavoro, il cui contenuto è vincolato al rispetto delle fonti eteronome: prima di tutto la
legge e, in secondo luogo, il contratto collettivo di lavoro.
Affinché la contrattazione collettiva incida sui contratti individuali, è necessario che le parti interessate vi aderiscano
volontariamente: così i contratti individuali vengono integrati da quelli collettivi.
L'incidenza della legge, invece, può essere ricavata dalla lettura dell'articolo 1374 c.c., il quale stabilisce che «il
contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte quelle conseguenze che ne
derivano secondo la legge».
In sostanza, il contratto è un mix di effetti voluti dalle parti e imputati dalla legge: si tratta di una fonte autonoma
ed eteronoma insieme. Il contratto di lavoro subordinato è uno degli esempi più tipici a tal proposito: dopo l’iniziale
e libera manifestazione del consenso dei contraenti, il contenuto della disciplina è in pratica sequestrato dalle fonti
eteronome (legge e contrattazione collettiva) che attuano, in tal modo, la propria connaturata missione protettiva,
riducendo al minimo il ruolo dell’autonomia individuale; l’autonomia individuale può limitarsi a prevedere clausole
di miglior favore, qualora il lavoratore riesca ad ottenerle.

L’INDEROGABILITÀ DELLA DISCIPLINA E IL RUOLO DELL’AUTONOMIA INDIVIDUALE


Il diritto del lavoro, in quanto mirante a superare la “dittatura contrattuale” del datore di lavoro, ha la necessità di
attribuire ai prodotti delle fonti eteronome la proprietà dell’imperatività e dell’inderogabilità in peius da parte della
contrattazione di livello individuale.

INDEROGABILITÀ DELLA LEGGE DA PARTE DEL CONTRATTO INDIVIDUALE


“Il contratto è nullo se è contrario a norme imperative di legge”, da cui consegue che l’eventuale clausola di
contratto individuale che comporta il peggioramento di un trattamento di fonte legale, è affetta da nullità parziale
(cioè riferita alle sole clausole difformi) ed è sostituita di diritto dalla norma legale che è stata violata.
Sono validi, di contro, patti individuali aventi un contenuto migliorativo.

INDEROGABILITÀ DEL CONTRATTO COLLETTIVO DA PARTE DEL CONTRATTO INDIVIDUALE


Nel Codice civile è contenuta una disposizione nella quale la regola dell’inderogabilità in peius del contratto
collettivo a livello di contratto individuale è chiaramente scolpita. Art. 2077 comma 2 cc: “Le clausole difformi dei
contratti individuali preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto
collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro”. Infatti, l’inderogabilità in
pejus dice: il singolo contratto individuale non può disporre trattamenti economici o normativi peggiori rispetto al
Ccnl. Inoltre, anche su tale piano, è tacitamente ritenuto operante lo stesso meccanismo (nullità parziale con
subentro della norma violata) che vale per la legge. Sono invece validi, anche in questo caso, patti individuali aventi
un contenuto migliorativo.

LE RINUNCE E LE TRANSAZIONI AVENTI AD OGGETTO DIRITTI DEL LAVORATORE SUBORDINATO


Nel contratto di lavoro subordinato, diversamente da quanto previsto per la maggior parte dei contratti in cui
prevale il principio dell’autonomia contrattuale, il lavoratore viene considerato strutturalmente come contraente
debole. Da qui la necessità del legislatore di tutelare in primis questa parte contraente attraverso una serie di norme
imperative, non derogabili, che di fatto vincolano il datore di lavoro al rispetto dei diritti del lavoratore.

Il lavoratore può rinunciare liberamente ai diritti attribuitogli da norme derogabili di legge o di CCNL, oppure a
diritti pattuiti con il datore di lavoro nel proprio contratto individuale, purché tali diritti non derivino da disposizioni
inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi.
Tuttavia non sempre il lavoratore è a conoscenza di queste disposizioni inderogabili; in questo senso la legge
interviene a sua tutela. L’art. 2113 del codice civile, infatti, prevede una disciplina speciale per rinunce e transazioni
del dipendente aventi ad oggetto diritti previsti da norme inderogabili di legge o di contratti collettivi.

Non vi è dubbio che in linea di principio se sono nulle le pattuizioni individuali derogatorie in peius, cioè aventi ad
oggetto condizioni peggiorative con riguardo a diritti futuri, ossia non ancora maturati, per coerenza dovrebbero
essere ritenute nulle anche pattuizioni relative a diritti già maturati anch’essi garantiti da una normativa imperativa
e inderogabile. Il frutto del tentativo di conciliare queste esigenze è la disciplina dell’art. 2113, c.c., il quale si
applica alla rinuncia e alla transazione, che hanno ad oggetto diritti del lavoratore subordinato (maturati), derivati
da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo. L’articolo menzionato dispone che eventuali rinunce o
transazioni, aventi ad oggetto diritti come quelli menzionati, non sono valide.
L’avere ad oggetto diritti deve intendersi nel senso che questi debbono essere stati concretamente maturati (ad
esempio il diritto alla retribuzione per le prestazioni di lavoro effettuate fino ad un dato giorno).
Eventuali pattuizioni individuali su diritti definibili come futuri, sono da considerarsi radicalmente nulle.

La rinunzia è un negozio unilaterale recettizio con il quale il lavoratore rinuncia ad un suo diritto, mentre la
transazione è un contratto tra le parti mediante il quale lavoratore e il datore di lavoro facendosi reciproche
concessioni, pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che potrebbe insorgere.

Sezione quarta: IL LAVORATORE E IL DATORE DI LAVORO

IL LAVORO SUBORDINATO

LE COORDINATE STORICO-NORMATIVE DELLA SUBORDINAZIONE


Il diritto del lavoro non è stato storicamente il diritto di tutti i lavoratori, bensì il diritto dei lavoratori subordinati.
Al lavoratore subordinato, o dipendente, la normativa appresta una serie di protezioni tendenzialmente
immancabili, mentre il lavoratore autonomo gode di poche tutele.
L’invenzione della figura del lavoratore subordinato serviva ai lavoratori, potendo ragionevolmente favorire lo
sviluppo della legislazione protettiva che ha poi assunto il nome di diritto del lavoro. Ma la subordinazione serviva
anche agli imprenditori, che necessitavano di una solida forma giuridica, che consentisse un procuramento stabile di
forza lavoro senza dover ricorrere a continue contrattazioni con lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, fornitori di
servizi, ecc; che insomma garantisse risparmi in termini i costi di transazione, giacché il contratto con un lavoratore
subordinato è stipulato una volta per tutte, e può durare (se è a tempo indeterminato) per un periodo
potenzialmente indefinito, senza bisogno di rinegoziarlo ogni giorno, bensì limitandosi ad esercitare il potere
gerarchico che di detto contratto è un effetto giuridico.

LA NOZIONE DI LAVORO SUBORDINATO (ART. 2094, C.C.)


L’Art. 2094 cc definisce il lavoratore (o prestatore di lavoro) subordinato come chi “si obbliga mediante retribuzione
a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione
dell’imprenditore”.
Definisce direttamente il lavoratore subordinato, quindi la definizione di contratto di lavoro subordinato viene
dedotta da questo articolo, che di fatti è collocato nel libro V sull’impresa e non nel libro IV sui contratti.

Procediamo con un’analisi della fattispecie:


a) Il lavoratore subordinato “si obbliga...a collaborare nell’impresa”: collaborare significa lavorare con altri, la
collaborazione non è con l’imprenditore, bensì, impersonalmente nell’impresa. Prestando un’attività nell’impresa, il
lavoratore subordinato collabora in vista della realizzazione degli scopi della medesima. L’elemento della
collaborazione non può essere ritenuto esclusivo, e perciò caratterizzante, della subordinazione, dal momento che
esso figura anche nella fattispecie della collaborazione coordinata e continuativa (nella quale il collaboratore non è
subordinato, ma si limita, in modo autonomo, a coordinarsi con l’organizzazione del committente).
b) “mediante retribuzione” analizzando questa frase emerge uno dei principali obblighi del datore, ovvero quella
della retribuzione, infatti non si può avere lavoro subordinato senza retribuzione. Il lavoro gratuito si può avere
sottoforma di volontariato e cioè attraverso un'attività svolta senza fini di lucro e per fini di solidarietà sociale.
Non bisogna arrivare però alla conclusione che il lavoro autonomo non sia retribuito, la differenza tra le due
categorie sta nel fatto che il lavoro subordinato è retribuito in proporzione al tempo del suo lavoro, quello autonomo
in proporzione al risultato.
c) “prestando il proprio lavoro manuale o intellettuale”: l’oggetto dell’obbligazione è l’attività di lavoro, che non
necessariamente deve essere “proprio”, ossia prestato personalmente, e la natura può essere sia manuale che
intellettuale.
d) “alle dipendenze...dell’imprenditore”: la dipendenza può essere considerata espressiva del fatto che il lavoratore
subordinato si obbliga a prestare un’attività rivolta al perseguimento di un interesse altrui, e quindi non assume il
rischio di impresa.
e) “sotto la direzione dell’imprenditore”: con tale locuzione si intende che il lavoratore è subordinato quando si
obbliga a prestare un’attività lavorativa eterodiretta, cioè diretta dall’imprenditore mediante l’esercizio del potere
direttivo, che gli spetta poiché egli è titolare dell’impresa. Questo è il punto principale che differenzia il lavoro
subordinato da quello autonomo, in quanto è lavoratore subordinato solo colui che si obbliga a prestare un'attività
sotto la direzione di un datore di lavoro, invece a differenza di quello subordinato, il lavoratore autonomo conserva
una certa libertà su come, dove e quando eseguire il lavoro.
f) “dell’imprenditore”: in realtà ciò non deve portare alla immediata conclusione che il rapporto di lavoro può aversi
solo con l’imprenditore, in quanto esiste una disposizione generale che stabilisce che la disciplina dell’art. 2094 si
estende anche a datori di lavoro non imprenditori ma compatibili con quello stesso tipo di rapporto.

Subordinazione tecnico funzionale: essa fa riferimento alla sottoposizione del prestatore alle direttive del datore
nell’esecuzione della prestazione concordata nel contratto di lavoro.
Subordinazione socio economica: essa è basata sulla dipendenza economica del lavoratore rispetto al datore di
lavoro.

LA SUBORDINAZIONE NEL DIRITTO GIURISPRUDENZIALE


Identificare un lavoro subordinato non è semplice, solitamente il primo elemento utile per qualificare un contratto è
andare ad osservare la dichiarazione formali di volontà. Solitamente nei contratti di lavoro autonomo è proprio
specificato che “il contratto non deve intendersi come subordinato” ... tuttavia il valore di tali dichiarazioni è
praticamente nullo e si guarda come si sono comportati effettivamente le parti durante il rapporto di lavoro
(principio di effettività). I comportamenti delle parti servono al giudice perché permettono di ricostruire la vera
intenzione delle parti sull’assetto giuridico del rapporto.

COME CAPIRE SE UN RAPPORTO DI LAVORO È SUBORDINATO O AUTONOMO?


Immaginiamo di lavorare per un’azienda da collaboratori “esterni”. Ad esempio, ipotizziamo di essere dei
commercialisti e di lavorare per una ditta occupandoci di elaborare le buste paga dei dipendenti di quest’ultima.
Come capire se siamo dei lavoratori autonomi o se, invece, avremmo dovuto essere inquadrati come dipendenti a
tutti gli effetti?
La giurisprudenza è solita servirsi di CRITERI SUSSIDIARI, O INDICI SINTOMATICI di subordinazione, che consentono
di capire se si tratta di lavoro subordinato o meno.
Partiamo dal presupposto che il contratto, e cioè quello che scrive il datore di lavoro sulla carta, non conta nulla.
A fare la differenza sono le modalità in concreto in cui il rapporto si svolge.
Il rapporto di lavoro subordinato si differenzia da quello autonomo o parasubordinato, per prima cosa, per un
elemento fondamentale: è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del
datore di lavoro. In sostanza, il lavoratore non è autonomo in tutto e per tutto ma deve sempre rispettare le direttive
e le decisioni organizzative e sottostare a eventuali sanzioni di un altro soggetto, il datore di lavoro, che può essere
una persona fisica o una società.
Posto questo elemento principale, ad esso si affiancano i cosiddetti INDICI/REQUISITI SUSSIDIARI:
1) L’inserimento stabile del lavoratore nell’organizzazione (es. inclusione nell’organigramma o nelle mailing list).
2) La continuità della prestazione.
3) La predeterminazione dell’orario di lavoro.
4) L’utilizzazione di strumenti di lavoro di proprietà dell’azienda.
5) Compenso modulato in base al tempo e non in base al risultato finale.
6) Assenza di rischio in capo al lavoratore.
7) Esclusività dell’impegno lavorativo.
Se questi indici di cui abbiamo detto vengono solo enunciati ma non sostenuti da prove concrete, non si potrà
pretendere nulla, non essendo stata dimostrata la subordinazione.
I LAVORATORI SUBORDINATI: UNITARIETÀ DELLA FATTISPECIE E DIFFERENZIAZIONE DELLE DISCIPLINE
Per lungo tempo la disciplina del rapporto di lavoro è stata fondamentalmente unitaria, rapportata com’era ad un
prototipo di lavoratore che neppure ci si preoccupava di definire standard, tanto era considerato, semplicemente,
l’unico esistente e possibile in natura: di massimo maschio, adulto, e legato all’impresa da un rapporto di durata
indeterminata e comportante un impegno a tempo pieno. Successivamente, all’incirca dagli anni ’80 del secolo
scorso, sono intervenute trasformazioni dell’economia e dei mercati del lavoro, che hanno fatto apparire non più
adeguato un assetto così monolitico (rigido). Per una fase, il diritto del lavoro italiano è venuto incontro a queste
nuove esigenze mediante una doppia operazione: da un lato si è aperto a forme contrattuali più flessibili e dall’altro
lato ha tentato di mantenere intatto il nucleo essenziale della protezione. Ne è derivata una crescente diffusione di
tipologie contrattuali spesso denominate atipiche, proprio perché, pur restando nei confini del lavoro subordinato,
esse si distaccano per vari aspetti dal modello di disciplina che ha cominciato ad essere definito standard. Rispetto a
questa linea di tendenza, il Jobs Act, e in specie il d.lgs. n. 81/2015, ha rilanciato il ruolo del contratto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato come forma comune.
Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (Modello Standard) segue il principio di libertà di forma,
non è necessaria la forma scritta (es. prestazioni di fatto, prestazioni continuative).
La legge afferma che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è la forma normale di assunzione del
dipendente ed è la tipologia contrattuale che garantisce al meglio la stabilità del rapporto di lavoro ed evita dunque
al dipendente un’esistenza dominata dalla paura di perdere il lavoro e la relativa sicurezza economica.
Dire che il contratto di lavoro subordinato è a tempo indeterminato significa che le parti non stabiliscono una data
finale al rapporto. Quindi, il rapporto di lavoro dura finché una delle parti non decide di porre termine al rapporto
contrattuale.

LAVORO AUTONOMO, COORDINATO, ETERORGANIZZATO


LAVORO AUTONOMO E DIRITTO DEL LAVORO
Il diritto del lavoro si è storicamente focalizzato sul solo lavoro subordinato, e si è disinteressato, in corrispondenza,
del lavoro autonomo. Peraltro, tale secca restrizione di ambito non è da tempo più attuale, essendo stata
riconosciuta, e recepita a livello normativo, la rilevanza delle istanze di tutela di lavoratori che, pur senza essere
tecnicamente subordinati, sono caratterizzati da un’identica, se non superiore, debolezza economico-sociale.

IL CONTRATTO DI LAVORO AUTONOMO

LA NOZIONE
Il contratto di lavoro autonomo (o “contratto d’opera”) è definito dall’Art. 2222 cc come quel contratto con cui “una
persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e
senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”.
La differenza con la subordinazione consiste nel fatto che l’obbligo è assunto dal prestatore, nei confronti non di un
datore di lavoro bensì di quello che la legge definisce un committente “senza vincolo di subordinazione”, nel senso
che l’obbligo ha ad oggetto il compimento di un’opera o di un servizio e non la messa a disposizione di energie in
vista di un’eterodirezione o anche soltanto di un’ eterorganizzazione delle stesse.
La principale differenza, quindi, sta nel fatto che il lavoratore autonomo non è alle dipendenze e sotto la direzione
di alcun datore di lavoro, quindi conserva una certa libertà su come, dove e quando eseguire il lavoro.
Vi è un obbligo di risultato in seguito alla richiesta di un committente (es artigiano); ma anche che il pagamento
avviene non a cadenza fissa ma dipenderà dallo svolgimento della propria attività.
La differenza dall’imprenditore sta nel fatto che il lavoratore autonomo presta il lavoro prevalentemente con la
propria persona, senza un’organizzazione di mezzi (cose e/o persone) finalizzata alla produzione o allo scambio di
beni o servizi (che è invece, a norma dell’art. 2082, ciò che caratterizza l’imprenditore).

LA DISCIPLINA
Una specie particolare di contratto di lavoro autonomo è quello con oggetto l’esercizio di una professione
intellettuale per l’esercizio della quale è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi (notaio, avvocato,
commercialista...) cui si applicano gli articoli dal 2229 al 2238 del cc. Queste norme hanno carattere dispositivo, e
non imperativo, il che significa che esse sono liberamente derogabili dalle parti, ovvero la disciplina dei singoli
contratti di lavoro autonomo è consegnata all’autonomia negoziale individuale, a differenza del lavoro subordinato.
Questa situazione è mutata con l’istituzione dello statuto del lavoratore autonomo.
Perché è stato necessario lo statuto?
Indubbiamente finora sono esistite diverse differenze tra l’universo dei lavoratori subordinati e quello dei lavoratori
autonomi. Responsabile della tutela dei diritti dei primi era l’imprenditore, o lo Stato. Mentre per i secondi, erano
loro stessi a doversi preoccupare di ogni tipo di TUTELA. Dati i cambiamenti del mercato del lavoro e il passare del
tempo, queste differenze andavano inevitabilmente sanate.
Lo scopo dello statuto del lavoratore autonomo è stato proprio questo: mettere nero su bianco tutti i diritti della
categoria di cui lo Stato doveva farsi carico.
Esso è contenuto nel Capo I della legge 22 maggio 2017, n.81, che ha previsto dunque per tutti i lavoratori
autonomi (tranne per gli agenti di commercio soggetti a una disciplina particolare e i professionisti) delle misure di
tutela:
-Applicazione delle misure in tema di velocizzazione dei pagamenti, poiché l’esigenza principale dei lavoratori
autonomi è quella di riuscire a farsi pagare tempestivamente dai loro committenti: è fissato un termine massimo di
60 gg.
-Inefficacia di alcuni tipi di clausole contrattuali (come quelle che attribuiscono al committente la facoltà di
modificare unilateralmente le condizioni di contratto o di recedere da esso senza congruo preavviso; o anche il
rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma scritta). Il prestatore avrà diritto al risarcimento dei danni
patiti.
-Accesso dei lavoratori autonomi, presso i Centri per l’Impiego, a servizi personalizzati di orientamento,
riqualificazione e ricollocazione.
-Norme di tutela in caso di maternità, malattia o infortunio sul lavoro.
-Misure di agevolazione fiscale (come la sottrazione fiscale, entro un limite massimo, delle spese sostenute per la
propria formazione professionale).
-Tutela previdenziale (tutela del lavoratore in ordine ai rischi inerenti ad eventuale perdita parziale o totale della
capacità lavorativa per determinati eventi) obbligatoria.

LA COLLABORAZIONE COORDINATA E CONTINUATIVA (IL CO. CO. CO.) /PARASUBORDINATO

LA NOZIONE
La collaborazione coordinata e continuativa (cd. lavoro parasubordinato) è una categoria intermedia fra il lavoro
autonomo ed il lavoro dipendente, si concretizza in una prestazione d’opera eseguita in piena autonomia ed è
inserita in un rapporto di lavoro unitario e continuativo con il committente, ma si pone al di fuori da ogni vincolo di
subordinazione.
La fattispecie del collaboratore coordinato e continuativo è connotata dai seguenti elementi:
a) Il carattere coordinato, ma non eterodiretto (sottoposizione del lavoratore al potere direttivo del datore di
lavoro) come nel lavoro subordinato, della collaborazione.
b) Il carattere continuativo, come nel lavoro subordinato, della collaborazione.
c) Il fatto che la prestazione di lavoro si eseguita mediante l’opera prevalentemente personale del collaboratore,
come nel lavoro subordinato, ma diversamente dal lavoro imprenditoriale in cui è prevalente l’organizzazione dei
mezzi.
Per poter restare nel campo dell’autonomia, la collaborazione in discorso deve essere caratterizzata, pertanto, dal
fatto che il coordinamento tra il collaboratore e l’organizzazione del committente concerna, prevalentemente, il
momento dell’individuazione del risultato atteso dalla collaborazione. Per quanto riguarda, invece, IL MOMENTO
ESECUTIVO DELLA COLLABORAZIONE, ESSO DEVE ESSERE GESTITO DAL COLLABORATORE in autonomia organizzativa.

LA DISCIPLINA
Non esiste un articolo che interviene sulla definizione della categoria ma ci sono stati una serie di momenti
riformatori in questo ambito:
-riconoscimento di natura processuale: con la legge 11 agosto 1973, n.533, istituì uno speciale rito processuale per le
controversie di lavoro, al fine di favorire l’accesso dei lavoratori alla giustizia, non solo quelli subordinati ma anche
ai collaboratori operanti nell’ambito di “rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera
continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
-riconoscimento previdenziale con la legge 335 del 1995 viene imposta l’assicurazione pensionistica obbligatoria
presso la Gestione separata INPS, che comporta l'obbligo di versare contributi previdenziali di ammontare pari al
34% del corrispettivo lordo del collaboratore, posto per 2/3 a carico del committente e per 1/3 del collaboratore.
Alla maturazione del previsto requisito di età, i contributi accumulati daranno luogo al trattamento pensionistico,
calcolato secondo il metodo contributivo, ossia rapportando la pensione al valore capitalizzato dai contributi versati.
-riconoscimento fiscale: le medesime modalità di corresponsione della retribuzione (emissione di busta paga) e di
prelievo imposta, previste per i lavoratori dipendenti.
-riconoscimento assicurativo: d.lgs. 38 del 2000 istituisce l'obbligo di assicurazione contro le malattie e gli infortuni
sul lavoro, gestita dall’INAIL.
-indennità maternità e di disoccupazione: a carico dell’INPS.

COLLABORAZIONE ETERORGANIZZATA
Il legislatore del Jobs Act (Governo Renzi/ d.lgs. 4 Marzo 2015) ha cercato di riempire la zona grigia tra autonomia e
subordinazione mediante la creazione e la disciplina di forme contrattuali che rimangono autonome ma in qualche
modo beneficiarie di speciali trattamenti assimilabili a quelli del lavoro subordinato.
Il Decreto legislativo n.81/2015 ha previsto, dal 1° gennaio 2016, l'applicazione della disciplina del rapporto di
lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione nel caso in cui si concretizzassero in prestazioni di lavoro
esclusivamente personali, continuative ed organizzate dal committente rispetto al luogo e all'orario di lavoro: è
entrata così nel nostro ordinamento la nuova figura della collaborazione Eterorganizzata.
Quindi, per semplificare, quando una prestazione di lavoro personale, coordinata e continuativa È ANCHE
ETEROROGANIZZATA DAL COMMITTENTE, le si applicherà la stessa disciplina del lavoro subordinato.
Il successivo Decreto-legge n.101/2019, ha esteso il campo di applicazione della disposizione contenuta nel d.lgs. n.
81/2015: è ora previsto che la disciplina del rapporto di lavoro subordinato si applichi anche ai rapporti che si
concretano in prestazioni di lavoro "prevalentemente" personali (e non più, quindi, "esclusivamente" personali); è,
inoltre, venuto meno il riferimento "ai tempi e ai luoghi di lavoro", relativo al modo in cui il committente può
organizzare le modalità di esecuzione della prestazione.

Essendosi messa in mezzo tra lavoro subordinato e collaborazione coordinata e continuativa, la collaborazione
eterorganizzata deve essere distinta dall’uno e dall’altra.

-differenza dal lavoro subordinato: l’eterodirezione ("comandato da altri") è uno dei presupposti, insieme ad altri
indici che deve sempre esserci in un rapporto subordinato. Possono esistere collaborazioni che sono eterorganizzate
pur non arrivando ad essere eterodirette (quelle collaborazioni nelle quali il committente non esercita un potere
direttivo in senso proprio, ma di fatto al collaboratore non è lasciato alcun apprezzabile margine di autonomia
organizzativa su come, dove e quando svolgere la propria attività). Questo genere di collaborazioni molto rischiano
di essere riqualificate, nei giudizi, come subordinate. Semplicemente accade, che nelle collaborazioni
eterorganizzate, il committente decide modalità e tempi dell’esecuzione della prestazione, senza che il lavoratore
possa apportare alcun elemento di autonomia.

-differenza dalla collaborazione coordinata e continuativa: la collaborazione coordinata e continuativa deve essere
caratterizzata dal fatto che, ferma restando l’individuazione da parte del committente del risultato atteso della
prestazione, le modalità della collaborazione siano determinate e gestite autonomamente, in prevalenza, dal
collaboratore o al massimo con un coordinamento concordato con il committente; invece, come già accennato, in
caso di collaborazione etero-organizzata, il rapporto di collaborazione si concreta in una prestazione
prevalentemente personale e continuativa dove le modalità di esecuzione siano, però, organizzate dal committente
(e dunque non autonomamente).

Si ha etero-organizzazione quando il collaboratore opera all’interno di un’organizzazione datoriale rispetto alla quale
sia tenuto ad osservare determinati orari di lavoro e sia tenuto a prestare la propria attività presso luoghi di lavoro
individuati dallo stesso committente, sempre che le prestazioni risultino continuative ed esclusivamente personali.
Per “prestazioni di lavoro esclusivamente personali” si intendono le prestazioni svolte personalmente dal titolare del
rapporto, senza l’ausilio di altri soggetti; le stesse devono essere inoltre “continuative”, ossia ripetersi in un
determinato arco temporale al fine di conseguire una reale utilità e organizzate dal committente quantomeno con
riferimento “ai tempi e al luogo di lavoro”. Quindi si ha etero-organizzazione quando il collaboratore sia soggetto al
potere organizzativo del committente il quale può essere esercitato sia con riferimento ai tempi e luoghi di lavoro sia
con riferimento ad altro (che cosa nello specifico ce lo chiarirà la dottrina e la giurisprudenza).
In caso di collaborazione etero-organizzata si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

-per le amministrazioni pubbliche nel 2019 è stato introdotto il divieto di attivare collaborazioni eterorganizzate,
nel caso di violazione del divieto, la conseguenza non è l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, bensì
la nullità del contratto e la responsabilità erariale (dinanzi alla Corte dei Conti) del dirigente che l’ha stipulato.
Il danno erariale è il danno sofferto dallo Stato o da un altro ente pubblico a causa dell'azione o dell'omissione di un
soggetto che agisce per conto della pubblica amministrazione in quanto funzionario, dipendente o, comunque,
inserito in un suo apparato organizzativo.

CASO DEI RIDERS


Con il termine "rider" si intende il fattorino addetto alla consegna a domicilio di cibo (ad esempio pizza o sushi) in
bicicletta o motorino. C’è una zona grigia tra subordinazione e autonomia, che riguarda i rider, detti anche lavoratori
su piattaforma, cioè dei lavoratori impegnati in attività come i conducenti di Uber o i rider di Foodora (che
consegnano cibo a domicilio), i quali si coordinano direttamente col cliente mediante un’applicazione informatica
(che gli danno istruzioni sui luoghi in cui effettuare le consegne) collegata a una piattaforma digitale gestita
dall’impresa. Si tratta di lavoratori principalmente giovani, di solito inquadrati come collaboratori autonomi, poco
pagati e carenti, se non privi di garanzie. Le prime sentenze italiane in argomento hanno escluso che i rider possano
essere qualificati come subordinati, fondamentalmente in ragione della circostanza che essi sono liberi di accettare o
no la richiesta di intervento, ma ciò non è avvenuto poiché sono qualificati come lavoratori extraorganizzati, ma
sottoposti alla disciplina del lavoro subordinato.

IL LAVORO AUTONOMO TRAMITE PIATTAFORME DIGITALI


Si considerano piattaforma digitale: “i programmi e le procedure informatiche delle imprese (utilizzate dal
committente) che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, organizzano (e cioè sono strumentali alle) le
attività di consegna di beni, fissandone il prezzo e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”.
Il decreto legge 3 Settembre 2019 n.101, introduce una disciplina MINIMA DI TUTELA per alcune categorie di
lavoratori autonomi che operano tramite piattaforme digitali. Destinatari sono “i lavoratori autonomi che svolgono
attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore”.
Le tutele minime in questione prevedono: diritto dei lavoratori a ricevere “ogni informazione utile per la tutela dei
loro interessi, dei loro diritti e della loro sicurezza”; applicazione dei divieti di discriminazione previsti per i lavoratori
subordinati; diritto alla protezione dei dati personali; copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul
lavoro e le malattie professionali e, infine tutele minime che riguardano il compenso.

Il decreto n. 101/2019 ha anche introdotto nel c.d. Codice dei contratti di lavoro (d.lgs. 81/2015) una SPECIFICA
DISCIPLINA per la tutela del lavoro tramite piattaforme digitali.
-Art. 1: la forma contrattuale comune è quella di contratto di lavoro a tempo indeterminato.
-Art. 2: collaborazioni organizzate dal committente: queste disposizioni (per cui, si applica la disciplina del rapporto
di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretizzano in prestazioni di lavoro
prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente) si
applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione sono organizzate mediante piattaforme digitali.
-Art. 47 bis: scopo, oggetto e ambito di applicazione: la finalità del legislatore è quella di assicurare livelli minimi di
tutela ai soggetti che lavorano tramite piattaforme digitali. Ambito applicativo: potranno usufruire delle tutele i
lavoratori autonomi che svolgano attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di
biciclette, moto, motorini o simili (con due o più ruote), attraverso piattaforme anche digitali.
-Art. 47 ter: forma contrattuale e informazioni: i contratti dei lavoratori che operano per le piattaforme di consegna
devono avere forma scritta e gli operatori devono ricevere ogni informazione utile per la tutela dei propri interessi;
in caso di violazione il lavoratore ha diritto a una indennità risarcitoria di entità non superiore ai compensi percepiti
nell’ultimo anno.

Tutele previste dai Contratti collettivi nazionali per i riders: Compenso minimo di 10 euro l’ora.
Indennità integrativa (istituita al fine di adeguare le retribuzioni al costo della vita, dal 10 al 20%) per lavoro
notturno, festività e maltempo. Incentivo orario di 7 euro per i primi quattro mesi dall’apertura del servizio in una
nuova città. Premi di 600 ogni duemila consegne.

SMART WORKING/LAVORO AGILE


Tra le tante opportunità che ha fatto scoprire la pandemia da Covid 19, lo smart working è quella che
maggiormente ha rivoluzionato il mondo del lavoro.
Il fenomeno già esisteva, ma era poco conosciuto ma l’esigenza di continuare a lavorare impedendo la diffusione del
contagio, ha fatto sì che le aziende sfruttassero le tante possibilità offerte dal lavoro agile.
Per smart working, o lavoro agile, si intende una modalità lavorativa di rapporto di lavoro subordinato in cui c’è
un’assenza di vincoli a livello di orario e di spazio (luogo di lavoro). L’organizzazione avviene per fasi, cicli e obiettivi
ed è stabilita con un accordo tra dipendente e datore di lavoro.
Il termine inglese “smart” si riferisce all’obiettivo: migliorare produttività del lavoratore grazie alla conciliazione dei
tempi di vita e lavoro».
Quindi, possiamo affermare che lo smart working prevede di poter lavorare senza necessariamente recarsi in ufficio,
da qualsiasi luogo e senza vincoli orari, concordando modalità e obiettivi con il datore di lavoro.

LA DIFFERENZA PRINCIPALE TRA LAVORO AGILE E TELELAVORO risiede nel concetto di fondo su cui è basata la
pratica. Nel caso del telelavoro, il lavoratore ha una postazione fissa che però si trova in un luogo diverso da quello
dell’azienda. La seconda pratica è caratterizzata, quindi, da una maggiore rigidità che si traduce non solo sul piano
spaziale, ma anche su quello temporale. Gli orari sono più rigidi e, di norma, rispecchiano quelli stabiliti per il
personale che svolge le stesse mansioni all’interno dell’azienda. Anche in questo caso è necessario un accordo scritto
delle parti, lavoratore e datore di lavoro. Tra i punti di contatto tra smart working e telelavoro c’è sicuramente
l’utilizzo delle tecnologie che rendono possibile il lavoro da remoto e l’utilizzo della connessione ad Internet.

Nell’ordinamento italiano la legge che regola il lavoro agile è la numero 81 del 2017:
I due punti cardine di tale pratica sono:
-la flessibilità organizzativa;
-la volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale.
Ovviamente è necessario avere a disposizione i mezzi che permettano di svolgere l’attività lavorativa in luoghi diversi
dalla sede ordinaria. Tale requisito è comune anche alla pratica del telelavoro, anch’essa possibile solamente con
strumenti che permettono di lavorare da remoto quali pc, tablet, smartphone ecc.
Altri specifici aspetti che regolano la pratica dello smart working sono contenuti negli articoli dal 18 al 24 della già
richiamata legge numero 81 del 22 maggio 2017, tra questi ci sono, ad esempio, i seguenti:
-la responsabilità del datore di lavoro sulla sicurezza del lavoratore;
-la parità di trattamento economico e normativo tra chi lavora in modalità agile e chi svolge le sue mansioni
esclusivamente all’interno dell’azienda;
-il potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore;
-l’obbligo per il datore di lavoro di presentazione dell’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e
i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro;
-le regole sulla copertura assicurativa del lavoratore.

L’ACCORDO SUL LAVORO AGILE DISCIPLINA: le concrete modalità di esercizio del lavoro svolto all’esterno dei locali
aziendali, le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, i tempi di riposo del lavoratore e le misure per
garantirgli la disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche; l’eventuale diritto del lavoratore agile
all’apprendimento permanente e alla periodica certificazione delle competenze; le forme di esercizio del potere di
controllo del datore di lavoro (controllo a distanza).

LAVORO AGILE: RECESSO: Dal lavoro agile è possibile recedere. Il recesso dall’accordo è consentito ad entrambe le
parti: sia al lavoratore che al datore di lavoro. Se il lavoro agile è a tempo indeterminato, le parti possono recedere
dando un preavviso non inferiore a 30 giorni (a meno che non sussista un giustificato motivo di recesso). Se, invece, è
a termine, dunque a tempo determinato, il recesso è ammesso solo in presenza di un giustificato motivo.
In entrambi i casi, una volta esercitato il recesso dall’accordo, l’attività lavorativa riprende a svolgersi secondo le
modalità ordinarie. Nel caso di lavoratori disabili il termine di preavviso non può essere inferiore a 90 giorni, per
consentire al lavoratore di riorganizzare il proprio impegno di lavoro compatibilmente con le proprie esigenze di vita
e di cura.

NEL CONTESTO DELLA PANDEMIA, il lavoro agile è emerso come una grande risorsa a disposizione delle aziende che
potessero e volessero continuare l’attività anche durante il lockdown, per cui in tantissimi, vi hanno fatto ricorso e vi
sono stati anche diversi dpcm a riguardo. Il Dpcm, acronimo di Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è un
provvedimento amministrativo di rapida emanazione che entra in vigore immediatamente e dipende esclusivamente
dalla volontà del presidente del consiglio.
La normativa d’emergenza ha stabilito: il diritto dei datori di lavoro di collocare in lavoro agile i lavoratori a
prescindere dalla stipulazione di accordo individuale con loro ed il diritto dei lavoratori ad ottenere il passaggio al
lavoro agile, ove compatibile con le caratteristiche della prestazione, nel caso essi siano prestatori fragili (disabili,
immunodepressi, a speciale rischio di contagio o con un figlio minore di 14 anni da assistere).
Ci sono delle differenze però dal lavoro agile previsto dalla legge del 2017 e quello che è avvenuto durante la
quarantena: manca l’accordo individuale perché lo smart working è previsto per “cause di forza maggiore”; i controlli
sono a distanza; l’attività non è svolta in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno ma completamente
all’esterno presso la propria abitazione, e, soprattutto, le finalità non sono quelle di incrementare la competitività e
agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro ma è quella di evitare la diffusione del contagio e quindi la
tutela della salute.

CERTIFICAZIONE DEI CONTRATTI DI LAVORO


La qualificazione dei contratti di lavoro illustrati precedentemente è da sempre rischio di essere smentita in
conseguenza di azioni giudiziali promosse dal lavoratore o da terzi interessati.
Le conseguenze che ne derivano in termini di incertezza, e di possibile rovesciamento successivo degli assetti
negoziali inizialmente pattuiti, hanno stimolato la ricerca di dispositivi correttivi, il principale dei quali consiste
nell’istituto della certificazione dei contratti di lavoro.
La procedura di certificazione ha la finalità di produzione di certezza giuridica per l’operatore impresa.
La certezza, cioè, che un contratto non subordinato, non possa essere travolta successivamente da una sentenza che
lo riqualifichi come subordinato.
La certificazione dei contratti di lavoro è stata introdotta con la così detta Legge Biagi del 2003 (D. Lgs. 276 del
2003); le ultime modifiche sono state tuttavia apportate dai decreti legislativi n. 81 e 151 del 2015 (c.d. Jobs Act).
Essa CONSISTE in una speciale procedura a carattere volontario (per cui richiede l’assenso di entrambe le parti di
regola, ma vi sono anche casi di obbligatorietà), che prende avvio a seguito di un'istanza rivolta congiuntamente
dalle parti contrattuali verso commissioni di certificazione, affinché “certifichino” che il contratto (di lavoro) che le
parti intendono sottoscrivere (o già tra esse sottoscritto) presenta i requisiti di forma e contenuto richiesti dalla
legge. In altre parole, si chiede di certificare che il contratto, come si suol dire, è "genuino" e che rispecchia quindi le
VERE VOLONTÀ delle parti.

Ambito applicativo della certificazione: la certificazione può avere per oggetto qualsiasi tipologia di contratto di
lavoro: contratti di lavoro subordinato ma anche contratti di lavoro autonomo, parasubordinato (rapporti che si
concretano in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a
carattere subordinato). Può intervenire, inoltre, non solo al momento della stipulazione del contratto ma anche
successivamente e, dunque, nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro.

A quali organi rivolgersi per la certificazione? la procedura di certificazione è eseguita da apposite COMMISSIONI DI
CERTIFICAZIONE che possono essere costituite ad iniziativa di diversi organi:
-degli Enti bilaterali, costituiti a livello provinciale o nazionale.
-delle sedi territoriali dell’Ispettorato del lavoro e delle province;
-delle Università pubbliche e private;
-dei consigli provinciali dei consulenti del lavoro. In tal caso, la loro competenza è limitata, esclusivamente, ai
contratti di lavoro instaurati nell’ambito territoriale di riferimento.

Come avviene la certificazione del contratto di lavoro? la procedura di certificazione inizia con un’istanza, la quale
che deve essere presentata alla commissione di certificazione competente e redatta per iscritto nonché sottoscritta
da entrambe le parti del contratto di lavoro (datore di lavoro e lavoratore), è rivolta a ottenere un ATTO DI
CERTIFICAZIONE, che è un atto amministrativo tramite il quale l’organo abilitato certifica che la qualificazione del
contratto è corretta e che quello sottoposto ad esame è realmente, ad esempio, un contratto di collaborazione
coordinata e continuativa (non subordinato) e non un contratto di lavoro subordinato finto.

L’atto di certificazione dev’essere motivato. Gli effetti della certificazione sul contratto di lavoro si producono in
modalità diverse a seconda che la certificazione intervenga a rapporto di lavoro in corso di esecuzione o in fase di
stipulazione del contratto. Gli effetti dell’accertamento dell’organo preposto alla certificazione del contratto di
lavoro, nel caso di contratti in corso di esecuzione, si producono dal momento di inizio del contratto.
In caso di contratti non ancora sottoscritti dalle parti, gli effetti si producono soltanto ove e nel momento in cui
queste ultime (le parti appunto) provvedano a sottoscriverli, con le eventuali integrazioni e modifiche suggerite dalla
commissione di certificazione.

Si può agire in giudizio dopo la certificazione?


L’impugnazione giudiziale di una certificazione può prendere due strade:
-un ricorso al giudice amministrativo per violazione delle regole del procedimento di certificazione o per eccesso di
potere.
-un ricorso al giudice ordinario del lavoro rivolto a sostenere: erronea qualificazione del contratto, difformità tra il
programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione, vizi del consenso (errore, violenza, dolo) di una delle
due parti.

È importante ricordare che, nella qualificazione del contratto di lavoro il giudice NON può discostarsi dalle
valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione, salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi
del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione”.
Il denominatore comune (causa principale) di quasi tutte le controversie è rappresentato dalla difformità fra
contratto e l’esecuzione effettiva del rapporto di lavoro, il lavoratore può continuare a promuovere una tale
controversia anche qualora il contratto sia stato certificato. Chiunque presenti ricorso giurisdizionale contro la
certificazione deve previamente rivolgersi alla commissione che ha adottato l’atto certificato per svolgervi un
tentativo obbligatorio di conciliazione.

IL DATORE DI LAVORO

NOTE INTRODUTTIVE
Il datore di lavoro, nell'ambito di un rapporto di lavoro, è una delle parti del contratto di lavoro subordinato.
Requisito caratterizzante è quello di avere alle proprie dipendenze un lavoratore subordinato.
I requisiti del datore di lavoro sono:
1. Persona fisica o giuridica, sia pubblica che privata.
2. Non necessariamente imprenditore.
Il datore di lavoro dunque può essere tanto una persona fisica (imprenditore individuale) quanto una persona
giuridica (ad es. una società per azioni).
Il datore di lavoro viene definito come il grande assente del diritto del lavoro non tanto perché la disciplina si
sofferma su quello che è il lavoratore e sull’obbligazione da quest’ultimo assunta, ma perché le caratteristiche del
datore di lavoro non qualificano ai fini del rapporto. Inoltre nell’art 2094 avviene la spersonalizzazione del datore, e
cioè, parlandosi di collaborazione con l’impresa, né il decesso, né il trasferimento d’azienda, né il fallimento del
datore o la liquidazione coatta amministrativa determinano l’estinzione del rapporto di lavoro. Tale soggetto infatti
può venir meno per morte (nel caso di persona fisica) o per estinzione (nel caso di persona giuridica). Nel caso di
decesso del datore, questa non costituisce causa di estinzione dei rapporti di lavoro che proseguono infatti con i suoi
eredi. Nel caso di trasferimento d’azienda sarà subordinato ad un nuovo datore di lavoro, in caso di fallimento o
liquidazione coatta amministrativa, l’art 2119 del codice civile stabiliscono che non costituiscono giusta causa di
cessazione del rapporto. Ciò non significa che non possano avvenire licenziamenti in coincidenza con tali vicende, ma
solo che queste ultime, di per sé sole, non costituiscono titolo autonomo di recesso del datore di lavoro.
Il complesso dei poteri del datore di lavoro viene sintetizzato nell'espressione potere direttivo, che consiste in un
insieme di facoltà nei confronti dei lavoratori subordinati:
-nel potere strettamente direttivo;
-nel potere di vigilanza e controllo sui lavoratori;
-nel potere disciplinare.

DIMENSIONE DELL’IMPRESA E DIRITTI DEL LAVORO


Esistono norme di diritto del lavoro che comportano l’applicazione di determinate discipline, caratterizzate
dall’imposizione di vincoli e oneri per l’impresa, in relazione alla dimensione della medesima, la quale è misurata in
termini di consistenza occupazionale, ossia di numero di dipendenti in organico.

La più nota di tali norme è quella dell’art. 18, legge n. 300/1970: questo articolo, dello statuto dei lavoratori,
modificato dalla legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, disciplina il regime sanzionatorio da applicare nei
casi di licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015.
La si applica ai datori con più di 15 dipendenti in ambito comunale, o di 60 in ambito nazionale.

Disciplina del contratto a tutele crescenti: Nel 2015 è stato introdotto il nuovo contratto a tutele crescenti con il
Jobs Act che ha cambiato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello sul licenziamento. Prima del Jobs Act, il
licenziamento era disciplinato dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Esso prevedeva che, in un’azienda con
almeno 15 dipendenti, un dipendente licenziato in maniera illegittima avesse diritto al reintegro del suo posto di
lavoro. Dopo il Jobs Act: adesso, con il nuovo contratto a tutele crescenti, il lavoratore di qualsiasi azienda non ha
diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, ma solo a un indennizzo di natura economica che cresce con
l’anzianità di servizio (da qui il termine “a tutele crescenti”). Entrata in vigore: il decreto legislativo n. 23 del 4 marzo
2015 è entrato in vigore a partire dal 07 marzo 2015 ed è valido per i lavoratori assunti a partire da tale data.
I lavoratori assunti con il vecchio contratto a tempo indeterminato continuano a godere degli stessi diritti di prima,
senza alcuna modifica (per loro continua a vale l’articolo 18 e quindi il reintegro).

Le imprese con più di 50 dipendenti sono private della possibilità di mantenere presso l’azienda il trattamento di
fine rapporto (TFR) maturato dai lavoratori. Il T.F.R. è una somma di denaro che il datore di lavoro consegna al suo
dipendente nel momento in cui cessa il rapporto di lavoro, qualunque sia la causa (licenziamento, dimissioni,
pensionamento). Il TFR spetta a tutti i lavoratori subordinati (contratto a tempo determinato, indeterminato e
apprendistato). Affinché possa riconoscere questa somma al dipendente, l’impresa mette da parte ogni mese una
parte di TFR, detta appunto “quota” e indicata nella busta paga. La maturazione e l’accantonamento del TFR è
quindi su base mensile: ogni mese il datore di lavoro accantona una quota, che confluisce nell’apposito fondo
aziendale. A partire dal 1° gennaio 2001 le imprese che hanno un numero di dipendenti superiore a 50, non
effettuano più accantonamenti al fondo di trattamento di fine rapporto.

Il trattamento di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS) viene concesso alle imprese che occupano più di
15 dipendenti. La cassa integrazione guadagni straordinaria (CIGS) è un sostegno INPS a favore delle imprese in
situazioni critiche (crisi, ristrutturazione, ecc.) che sono costrette a diminuire le ore di lavoro dei propri dipendenti:
grazie a questa misura, i lavoratori a cui le ore sono state ridotte percepiscono una indennità sostitutiva dello
stipendio.

Problema del computo dei dipendenti: come si contano i dipendenti di un determinato datore di lavoro? È un
calcolo difficile da fare, perché dipende da diversi fattori ma potrebbe essere utile farlo per avere accesso a delle
protezioni come: incentivi normativi per alcune tipologie di lavoro (dei lavoratori flessibili verranno esclusi dal
computo dei dipendenti) ma anche incentivi contributivi che riducono il versamento ridotto di retribuzione o
contribuzione. Il computo dei lavoratori nell’organizzazione aziendale si riferisce solo a determinati collaboratori, i
lavoratori subordinati.

Esiste una soglia limite di numero di dipendenti che è indice di solvibilità/buona salute del datore di lavoro, viene
conteggiata guardando alla singola unità produttiva (unità, reparto o filiale autonoma) generalmente è di 15
dipendenti per unità produttiva o 5 per attività agricola.

DATORE DI LAVORO NON IMPRENDITORE ART. 2239 C.C.


Innanzitutto è bene ricordare che l’art. 2094, non prende in considerazione un datore di lavoro qualsiasi, bensì,
specificamente, un datore di lavoro avente i requisiti dell’imprenditore, posti dall’art. 2082.
È opportuno, infatti, precisare che spesso nella pratica, e talvolta anche nel lessico normativo, il termine "datore di
lavoro" viene utilizzato come sinonimo di imprenditore. Tuttavia non tutti i datori di lavoro sono necessariamente
anche imprenditori, si pensi ad esempio al caso dei datori di lavoro domestico.
L’effetto della disposizione dell’art. 2239 è che tutte le norme del diritto del lavoro sono applicabili anche al
rapporto di lavoro subordinato con un datore di lavoro non imprenditore. Ce stata una progressiva eliminazione dei
regimi differenziati per i datori di lavoro non imprenditori, soprattutto dopo la legge n.108/1990, che ha esteso la
disciplina limitativa del licenziamento individuale (senza giusta causa) (si parla di licenziamento individuale quando
l’atto di recesso è rivolto ad un singolo lavoratore. Quando invece l’atto di licenziamento è rivolto a più lavoratori si
applica la procedura del licenziamento collettivo) anche ai datori di lavoro non imprenditori. Come è noto, nessun
lavoratore può essere licenziato senza un valido motivo (giusta causa o giustificato motivo). In caso di licenziamento
ingiustificato, e quindi illegittimo, il lavoratore avrà diritto, in base al numero di dipendenti della società e in base al
tipo di vizio che caratterizza tale licenziamento, al risarcimento del danno e/o alla reintegrazione in servizio.
Vi sono però alcune eccezioni a tale principio di portata generale. Una di queste riguarda le cosiddette
ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA, ovvero particolare categoria di datori di lavoro non imprenditori, caratterizzata
dallo svolgimento, senza fini di lucro, di un’attività qualificata dal perseguimento di una “tendenza”, di natura
politica/sindacale/culturale/di istruzione/di religione/di culto. Con riferimento ai dipendenti di tali soggetti, la legge
prevede che non possa essere applicata la tutela prevista dall’art. 18 S.L, modificata dalla legge 92/2012 di riforma
del mercato del lavoro (cd. riforma Fornero); questo significa che il dipendente ingiustamente licenziato da
un’organizzazione di tendenza potrà rivendicare solo il risarcimento del danno, ma non il diritto a riprendere l’attività
lavorativa.

I DATORI DI LAVORO SPECIALI


Il nostro ordinamento prevede disposizioni speciali per alcune determinate categorie datoriali. Oltre all’esempio
più classico, quello relativo al rapporto di lavoro in agricoltura, ne esistono molti altri: si pensi alla normativa sugli
autoferrotranvieri, concernente il rapporto di lavoro con le imprese esercenti servizi pubblici di trasporto.
Un’altra situazione peculiare riguarda le cooperative di produzione e lavoro: dove, il socio apporta il proprio
conferimento prestando un lavoro. In passato i soci prestavano la propria opera assoggettati al potere direttivo,
senza tuttavia essere considerati lavoratori subordinati. Per superare questo «bug normativo», nel 2001 è stato
istituito il meccanismo del doppio rapporto (societario e di lavoro), in virtù del quale il socio lavoratore deve
intrattenere con la società un rapporto di lavoro che, in base al regolamento interno della cooperativa, può essere
autonomo o subordinato.

LA SUCCESSIONE TRA DATORI DI LAVORO


Dal lato del datore di lavoro, la successione tra un datore di lavoro e un altro nell’esercizio di un’attività non ha
effetti interruttivi del rapporto di lavoro, che si trasferisce automaticamente in capo al nuovo datore di lavoro.
Ciò non esclude che la regolamentazione del rapporto subisca modifiche nel transito da un datore di lavoro all’altro.

Sezione quinta IL RAPPORTO DI LAVORO:

L’ACCESSO AL LAVORO

I SERVIZI PER IL LAVORO


IL LAVORATORE NEL MERCATO DEL LAVORO
Per sua definizione, il mercato del lavoro è il mercato in cui i lavoratori sono in grado di trovare lavoro dietro
retribuzione, e i datori di lavoro cercano lavoratori disposti a lavorare in cambio di un determinato salario.
Per quanto concerne la determinazione degli stessi (salari), il “prezzo” è determinato dall’INCONTRO TRA LA
DOMANDA E L’OFFERTA, anche se non mancano elementi che rendono più complesso lo scenario: in alcuni Stati
esistono ad esempio dei salari minimi al di sotto del quale gli stipendi a tempo pieno non possono scendere, mentre
altri si sono astenuti dall’introduzione di un simile strumento.
Per lungo tempo, nel collocare il lavoratore nel mercato del lavoro, e quindi trovare un punto di incontro tra
domanda e offerta di lavoro, è stata dominante nell’ordinamento la diffidenza nei confronti degli intermediari privati,
perché ancora tutt’oggi sono stati causa di mercificazione del lavoro e di sfruttamento di persone.

IL COLLOCAMENTO ORDINARIO: DAL MONOPOLIO PUBBLICO ALLA COESISTENZA PUBBLICO-PRIVATO


Sino agli anni novanta del secolo scorso, il perno centrale dell’intervento pubblico sul mercato del lavoro è stato il
collocamento, inteso quale impianto istituzionale-normativo predisposto per lo svolgimento dell’attività d’INCONTRO
TRA DOMANDA ED OFFERTA DI LAVORO ai fini della collocazione della manodopera.
La legge 264 del 1949 ha creato il regime di monopolio pubblico del collocamento, che vietava quindi,
l’intermediazione privata, ovvero che datori di lavoro e prestatori venissero messi in contatto da soggetti privati.
Esistevano però diversi uffici di collocamento sul territorio regionale e comunale, per porre in essere un contratto di
lavoro: i datori dovevano indicare le mansioni e la qualifica professionale di cui avevano bisogno e si trovava il
prestatore accingendo da una lista di disoccupati in cerca di lavoro (cd. richiesta numerica), in base a criteri
cronologici e di equità sociale, non era possibile quindi indicare il lavoratore per nome e cognome. Solo per alcune
figure il datore di lavoro poteva procedere a una richiesta nominativa del lavoratore che intendeva assumere, o in
casi eccezionali, a un’assunzione diretta dello stesso.

In seguito con la legge numero 608 del 1996 fu abolito il meccanismo della richiesta preventiva (sia numerica che
nominativa) e venne introdotta la regola dell'assunzione diretta (che funzionava attraverso una mera
comunicazione agli uffici di collocamento). Un ulteriore passaggio di questa vicenda si è avuto nel 1997, perché ci fu
una riforma con il d.lgs. 23 dicembre 1997 n.469 che decretò l’illegittimità del monopolio pubblico del
collocamento. Questo decreto legislativo: ha trasferito le funzioni relative al collocamento dallo Stato alle regioni,
ed ha legalizzato l’intermediazione privata purché autorizzata amministrativamente.
Tuttavia per una serie di ragioni il sistema descritto ha continuato a funzionare in modo mediamente
insoddisfacente, maturando così le premesse per una NUOVA riforma.

LA RIFORMA DEI SERVIZI PER IL LAVORO


È entrato in vigore alla fine di settembre il d.lgs. 150/2015, uno degli ultimi decreti applicativi che fanno parte del
cosiddetto “Jobs Act”. In particolare, il NUOVO decreto riordina la normativa in materia di servizi per il lavoro e di
“politiche attive”, cioè politiche finalizzate al sostegno dell’occupazione. L’obiettivo principale delle politiche attive è
finalizzato al reinserimento del disoccupato nel mondo del lavoro.

Vi fu una proposta di revisione, avvenuta nel referendum popolare 4 dicembre 2016, in cui si richiedeva la
competenza esclusiva allo Stato della materia del mercato del lavoro, l’esito del referendum fu però negativo e la
funzione rimase alle regioni.

LA RETE DEI SERVIZI PER IL LAVORO


Il ruolo di indirizzo politico in materia di politiche attive è esercitato, per le parti di rispettiva competenza, dal
Ministero del lavoro e dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano.
La rete dei servizi del lavoro è costituita dai seguenti soggetti:
-Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL), istituito nel 2016 e che ha anche il ruolo di
coordinamento dei soggetti operanti nella rete dei servizi per il lavoro. ANPAL, attraverso le politiche attive del
lavoro, favorisce la ricollocazione nel mercato del lavoro delle persone in cerca di un’occupazione, mediante servizi e
misure adeguati alle diverse esigenze dei cittadini.
-Strutture regionali per le politiche attive del lavoro
-L’INPS, INAIL
-Agenzie private per il lavoro
-Sistema delle Camere di Commercio, le Università e gli istituti di scuola secondaria di secondo grado.

Il ruolo di coordinamento dei soggetti operanti è svolto dall’ANPAL.

I PRINCIPI DI POLITICA ATTIVA DEL LAVORO E IL PERCORSO DEL DISOCCUPATO


IL D.LGS. N.150/2015 prevede principi generali e comuni in materia di politiche attive del lavoro, in applicazione dei
quali esso delinea il percorso che il disoccupato dovrebbe intraprendere per trovare un lavoro.
1) Art. 18 c.1: allo scopo di costruire i percorsi più adeguati all'inserimento e il reinserimento nel mercato del lavoro,
le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano costituiscono propri uffici territoriali, denominati centri per
l'impiego, per svolgere, nei confronti dei disoccupati e a rischio di disoccupazione, varie attività, tra cui:
orientamento di base, aiuto alla ricerca di un’occupazione, avviamento ad attività di formazione.
2) Art. 19: la condizione base per avere titolo a fruire dei servizi in discorso è lo “stato di disoccupazione”.
Sono considerati disoccupati i lavoratori privi di impiego che dichiarano in forma telematica, tramite il SIUPOL
(portale nazionale delle politiche del lavoro) la propria immediata disponibilità allo svolgimento di un’attività
lavorativa (d.i.d.: dichiarazione di immediata disponibilità); la d.i.d. può essere effettuata già dal momento della
comunicazione di licenziamento, anche se si è a rischio di disoccupazione.
Contestualmente alla registrazione (dichiarazione), il lavoratore disoccupato può, se ne ha i requisiti, rivolgere
all’INPS domanda dei trattamenti di disoccupazione previsti. Tale domanda equivale alla dichiarazione di immediata
disponibilità lavorativa, è trasmessa dall’INPS all’ANPAL ai fini dell’inserimento nel sistema informativo unitario delle
politiche attive. Sulla base delle informazioni fornite in sede di registrazione, i lavoratori disoccupati vengono
assegnati, secondo una procedura automatizzata in linea con gli standard internazionali, a una classe di profilazione
(profilazione: “la raccolta di informazioni su un individuo, o un gruppo di individui, per analizzare le caratteristiche al
fine di inserirli in categorie, gruppi o poterne fare delle valutazioni o delle previsioni”), allo scopo di valutarne il
livello di occupabilità (occupabilità: la capacità della persona di trovare lavoro e/o di mantenerlo il più a lungo
possibile).
3) Art.20: allo scopo di confermare lo stato di disoccupazione, i disoccupati devono contattare il centro per l'impiego,
con le modalità definite da questi, entro 30 giorni dalla data della dichiarazione (art. 19, comma 1), e, in mancanza,
sono convocati dai centri per l'impiego, entro il termine stabilito, per la profilazione e la stipula di un patto di
servizio personalizzato.
4) Art. 21: a seguito della stipulazione, oltre che per gli appuntamenti previsti nel patto di servizio personalizzato, il
soggetto beneficiario può essere convocato nei giorni feriali dai competenti servizi per il lavoro con preavviso di
almeno 24 ore e non più di 72 ore, secondo modalità concordate nel medesimo patto di servizio personalizzato.
Sono previste una serie di penalizzazione, sino alla misura estrema della decadenza della prestazione e dallo stato di
disoccupazione, per i soggetti che non collaborano con i servizi non presentandosi o non accettando un’offerta di
lavoro congrua (coerenza tra l’offerta di lavoro e le esperienze e competenze maturate).
Ai soggetti disoccupati con NASpl (Nuova Assicurazione Sociale per l'Impiego) da più di 4 mesi è riconosciuta
(qualora ne facciano domanda iscrivendosi al portale ANPAL: Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro)
una somma denominata “assegno individuale di ricollocazione”, la quale è graduata in funzione del profilo personale
di occupabilità e del tipo di contratto di lavoro, ed è spendibile, a scelta dell’interessato, presso il Centro per
l’Impiego o presso le agenzie private o i soggetti accreditati al fine di ottenere un “servizio di assistenza intensiva” per
supportare la ricerca di una nuova occupazione. Tutti questi meccanismi sono stati previsti anche per i soggetti
beneficiari del reddito di cittadinanza.

GLI INCENTIVI ALL’OCCUPAZIONE


L’ordinamento cerca di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro anche tramite la predisposizione di
un’articolata gamma di incentivi all’assunzione, a favore dei datori di lavoro che effettuano assunzioni.
Si tratta di contributi economici e sgravi fiscali concessi ai datori di lavoro per incentivarli a stipulare contratti di
lavoro preferibilmente a tempo indeterminato, con particolari categorie di soggetti in difficoltà occupazionale, quali
giovani offrendo un contratto di apprendistato, lavoratori over-50, disoccupati da oltre 12 mesi ecc.

LA COMUNICAZIONE DI ASSUNZIONE
Una volta che domanda e offerta di lavoro si sono positivamente incontrati, vige la regola dell’assunzione diretta, la
quale comporta che il contratto individuale di lavoro subordinato può essere stipulato liberamente tra le parti senza
dover passare per il Centro per l’Impiego o un’agenzia per il lavoro.
La mediazione (mediazione: pratica per la gestione dei conflitti, il cui obiettivo è quello di condurre le parti in
disaccordo a ricercare e trovare una soluzione attraverso l’ausilio del mediatore, il quale è un soggetto terzo e
imparziale) di questi soggetti è, dunque, meramente facoltativa: l’impresa in cerca di personale può segnalare al
Centro o all’agenzia la figura professionale di cui ha bisogno, e gli stessi, (una volta espletata la profilazione),
mettono a disposizione del richiedente il maggior numero possibile di curriculum, per consentirgli di procedere
liberamente e privatamente ai colloqui, finalizzati a un’eventuale assunzione.
Ma il contratto può realizzarsi anche in via diretta, eventualmente favorito da canali informali di informazione e
intermediazione, quali le offerte di lavoro sui giornali e negli altri mezzi di comunicazione, e ovviamente le
conoscenze personali e familiari, i passaparola ecc.
Il datore di lavoro deve comunicare l’assunzione, per via telematica, non più al Centro per l’Impiego
territorialmente competente bensì all’ANPAL, entro il giorno antecedente la stipula del relativo contratto, (fatti salvi
casi di urgenza, nei quali la comunicazione può essere trasmessa entro 5 giorni dall’assunzione, purché non oltre il
giorno antecedente la data di inizio della prestazione). Tale regola vale anche per le collaborazioni coordinate e
continuative. In caso di omessa o ritardata comunicazione, il datore di lavoro riceve ad una sanzione amministrativa
irrogata (inflitta) dalla competente sede dell’Ispettorato del lavoro.

IL COLLOCAMENTO OBBLIGATORIO DELLE PERSONE CON DISABILITÀ


Oltre al sistema di collocamento ordinario, esistono anche altri sistemi di collocamento, i quali tuttavia valgono solo
per alcune categorie di lavoratori. Tra tali categorie la principale è quella dei disabili, in favore dei quali, la legge ha
previsto tecniche di collocamento privilegiato che consistono nel collocamento obbligatorio, volte ad imporre al
datore di lavoro l'assunzione di soggetti meritevoli di particolare tutela. Nonostante in tal modo, si eserciti un forte
condizionamento sulla libertà di iniziativa economica, il collocamento obbligatorio dei disabili è giustificato da tre
previsioni costituzionali, e cioè: l’art. 3 comma 2 Cost. (principio di eguaglianza sostanziale) l’art. 4 comma 1 Cost.
(diritto al lavoro) e l’art. 38 comma 3 (diritto dei disabili e dei minorati all’educazione e all’avviamento
professionale).

Ma se la giustificazione costituzionale del sistema di collocamento obbligatorio risulta indubbia, tuttavia,


nell’attuazione concreta di esso occorre contemperare due diverse esigenze:
1) da una parte le imprese tendono a limitare queste assunzioni supponendo che i soggetti siano meno produttivi dei
lavoratori normali;
2) di contro, viene in risalto l’interesse pubblico ad avviare al lavoro tali soggetti, in quanto per loro, il lavoro può
essere un fattore fondamentale di inclusione sociale.
Tra l’altro, una volta procurato il lavoro al disabile, resta il problema, di aiutarlo ad inserirsi davvero e
proficuamente nell’ambiente di lavoro. Ciò presuppone, almeno, che sia preventivamente conosciuta e valutata la
sua capacità professionale, in rapporto al contesto di potenziale inserimento, cosi da favorire un incontro
reciprocamente fruttuoso ed evitare i frequenti fenomeni di rigetto.
LA LEGGE 68 DEL 1999, ha provato a dare una scossa in tale direzione, ispirandosi al principio del cd. “collocamento
mirato” definito nell’art.2 di tale legge, come quella “serie di strumenti tecnici e di supporto, che permettono di
valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto di lavoro
adatto”.

Gli organismi pubblici competenti a gestire il collocamento obbligatorio sono, come per il collocamento ordinario,
le Regioni e le Province, tramite i Centri per l’impiego.
La legge elenca varie categorie di soggetti beneficiari, le più importanti delle quali sono:
-invalidi civili in età lavorativa, affetti da minorazioni fisiche o psichiche che comportino una riduzione della capacità
lavorativa sopra il 45%.
-invalidi del lavoro, (cioè che sono diventati tali per un infortunio sul lavoro), con una riduzione della capacità
lavorativa sopra il 33%.

L’accertamento medico della condizione di disabilità è affidato ad un’apposita commissione costituita presso
l’Azienda USL, che deve rilasciare una diagnosi funzionale del disabile, al fine di accertarne il grado di capacità
lavorativa residua e di suggerirne, nello spirito del collocamento mirato, un’utilizzazione professionale confacente
(appropriata). Se l’accertamento risulta positivo, i disabili devono iscriversi in appositi elenchi, tenuti dai Centri per
l'impiego. Per ogni persona, il Comitato tecnico istituito presso il servizio, annota in una apposita scheda le capacità
lavorative, le abilità, le competenze e le inclinazioni, nonché la natura e il grado della minorazione e analizza le
caratteristiche di posti da assegnare ai lavoratori disabili. In questo settore è stata a lungo operante, la regola della
richiesta numerica da rivolgere al Centro (che poi procedeva all’avviamento tenendo conto di una graduatoria
redatta in base a vari criteri), ma essa è stata superata dal Jobs Act che ha generalizzato la possibilità di una
richiesta nominativa della persona. Non è prevista un’assunzione diretta senza passare per il Centro per l’Impiego.
La quota di disabili assunti obbligatoriamente ammonta: al 7% dell’organico stabile, se l’impresa ha più di 50
dipendenti; 2 disabili per quelle che occupano da 15 a 35 dipendenti, mentre le imprese con meno di 15 dipendenti
sono esenti da obblighi.
Per effetto della modifica apportata alla LEGGE 68/99 l’azienda potrà, inoltre, computare nella quota di riserva
(numero di lavoratori appartenenti alle categorie protette che l’azienda è tenuta ad assumere) anche i lavoratori
che, sebbe­ne già disabili al momento dell’assunzione, non siano stati avviati attraverso il collocamento obbligatorio,
purché però abbiano una riduzione della capacità lavorativa superiore al 60% (45% se disabile psichico).

Al fine di permettere un periodico monitoraggio della situazione, ciascuna impresa deve presentare una denuncia
annuale al Centro per l’Impiego, contenente informazioni sul numero dei dipendenti e sui disabili occupati.
A seguito di tale denuncia, se il Centro per l’Impiego rileva la presenza di eventuali scoperture, sorge l’automatico
obbligo dell’impresa di rivolgere al Centro una richiesta di assunzione per il numero di disabili mancante, e quindi per
essere in regola con la legge.
Qualora l’impresa non inoltri la richiesta obbligatoria a tempo debito, il Centro per l’impiego non può avviare
d’ufficio il disabile, ma l’impresa è soggetta a sanzioni amministrative, disposte dalla competente sede
dell’Ispettorato del lavoro. Una volta trasmessa la richiesta, il Centro emette il provvedimento di avviamento
obbligatorio, che impone all’impresa di stipulare il relativo contratto con il lavoratore disabile.
L’impresa non ha la facoltà di rifiutare lecitamente l’assunzione del disabile, salvo dimostrazione dell’impossibilità
di avviamento nel contesto aziendale. Nel caso di un illecito rifiuto di assunzione, l’impresa può essere condannata
dal giudice a costituire coattivamente il contratto di lavoro (qualora la richiesta di assunzione già contenga gli
elementi essenziali del contratto non concluso), oppure il risarcimento dei danni patiti dal disabile in ragione della
mancata assunzione.
Una volta costituito, il rapporto di lavoro del disabile è disciplinato in maniera identica a quello degli altri
lavoratori, con il privilegio del disabile, che il datore di lavoro deve tenere conto della sua condizione di salute,
assegnandogli mansioni compatibili con esse e cioè compatibili con la sua condizione fisica e psichica.
Sono anche vietate, discriminazioni a danno del disabile, come si evince dal divieto di discriminazione per handicap
sancito dal d.lgs. 216/2003.
Qualora, nello svolgimento del rapporto, insorgano problemi a tale riguardo, sia da parte del disabile che
dall’impresa possono essere richieste nuove visite mediche, da effettuarsi presso l’apposita commissione dell’azienda
USL, per appunto verificare se la mansione assegnata al disabile può essere effettivamente svolta da questi, oppure
se egli ha patito (sofferto di) un peggioramento fisico o psichico che ne impedisce la permanenza in quella realtà
lavorativa. Qualora sia riscontrata una condizione di aggravamento, incompatibile con la prosecuzione dell’attività
lavorativa, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita della prestazione di lavoro sino a quando tale
incompatibilità persiste. Dopo di che il rapporto di lavoro può essere risolto, tramite un licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la
commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda.
LA LEGGE N. 68/1999 (collocamento mirato) si applica anche alle pubbliche amministrazioni (insieme degli enti
pubblici che concorrono all'esercizio e alle funzioni dell'amministrazione di uno Stato nelle materie di sua
competenza) con la differenza che, fatti salvi casi specifici, le assunzioni avvengano per chiamata numerica (e non
nominativa) degli iscritti nelle apposite liste, previa verifica della compatibilità della disabilità con le mansioni da
svolgere. I disabili inoltre possono partecipare a tutti i concorsi di tutte le amministrazioni, escluse quelle di polizia o
mansioni che non consentano appunto l’occupazione dei disabili. Nei concorsi, i disabili hanno diritto ad una riserva
di posti pari, nei limiti della complessiva quota d’obbligo incombente sull’amministrazione, fino al 50% dei posti
messi a concorso, e se hanno conseguito l’idoneità possono essere assunti anche oltre questo limite.

LA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI NELL’UNIONE EUROPEA


L’art. 45 c.1 del TFUE prevede la libertà di circolazione a livello europeo, che comporta il diritto dei lavoratori di
rispondere a “offerte di lavoro effettive” e di spostarsi liberamente, nel territorio degli Stati Membri, prendendovi
dimora (luogo nel quale una persona abita e svolge in maniera continuativa la propria vita personale. Quindi, non
viene considerato dimora il luogo in un cui una persona si ferma solo per un breve periodo di tempo, come in una
camera d'albergo) o rimanendovi anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Ciò potrebbe indurci a credere
che, in assenza di occasioni di lavoro effettive, al lavoratore non spetti tale libertà. Tuttavia, la Corte di Giustizia UE
ha interpretato la norma con larghezza, includendovi il diritto di ciascun cittadino a spostarsi liberamente in
qualsiasi Stato membro anche solo in funzione della ricerca di un posto di lavoro, dovendo lo Stato ospitante
consentire lo spostamento almeno durante il tempo ragionevolmente necessario a tale ricerca.
C’è il divieto di qualsiasi “discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto
riguarda l’impiego, la retribuzione e altre condizioni di lavoro”.

L’ACCESSO AL LAVORO DEI CITTADINI EXTRAEUROPEI


Un soggetto extracomunitario (o extraeuropeo) è colui che non possiede la cittadinanza di uno degli Stati membri
dell’Unione europea, a differenza di coloro che sono invece cittadini dell’Unione Europea, a tutti gli effetti.
Riguardo la condizione giuridica degli stranieri (colui che non appartiene al luogo in cui si trova) in Italia: la
Costituzione italiana afferma che la presenza dello straniero in Italia è regolata dalla legge, nel rispetto delle norme e
dei trattati internazionali.
Art. 2 d.lgs. n.268/1998: “allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello stato sono riconosciuti
i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in
vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”; Inoltre ai sensi sempre di questo art. 2, lo
straniero che soggiorni regolarmente nel territorio dello Stato gode dei diritti civili attribuiti al cittadino italiano.
A tale proposito le fonti internazionali di riferimento sono:
•la Convenzione OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) n.143 del 1975 sui lavoratori migranti, che, pur
consentendo agli Stati di prendere provvedimenti contro l’immigrazione irregolare, prevede come principio
fondamentale quello della parità di trattamento con il lavoratore interno.
•la Carta di Nizza, la quale sancisce inoltre che i cittadini dei paesi terzi autorizzati a lavorare nel territorio degli stati
membri dell’UE, hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell'Unione.

Se la disciplina del rapporto con lavoratori extracomunitari non presenta, come appena detto, significativi
problemi di specialità, oggetto di una specifica regolamentazione è sempre stato l’accesso del lavoratore
extracomunitario al mercato del lavoro nazionale. Gli stati europei sottopongono tale accesso a restrizioni per
tenere sotto controllo il flusso dei migranti, quale flusso portatore di vantaggi economici ma carico di implicazioni
sociali e culturali potenzialmente destabilizzanti.
La disciplina italiana riguardo all’Accesso dei cittadini extraeuropei si è sviluppata a tappe:
-inizialmente il fenomeno migratorio fu considerato solo una questione di polizia, in quanto l’immigrato era
considerato soggetto pericoloso per l’ordine pubblico, fu dunque privilegiata un’ottica meramente statica.
-successivamente (con la Legge Martelli) è stata adottata una più ampia e dinamica prospettiva di programmazione
annuale dei flussi migratori.
Nel complesso, la normativa che ne è derivata, pur raccolta nel “Testo unico sull'immigrazione e la condizione dello
straniero” (emanato con d.lgs. 286 del 1998) non si è mai definitivamente assestata (regolata), risentendo parecchio
della difficoltà di governare il fenomeno.
Una tappa decisiva di tale evoluzione, è rappresentata dalla legge n.189/2002 (legge Bossi-Fini), la quale è tuttora la
fonte di riferimento. Il messaggio di questa legge è stato quello secondo cui: l’ingresso e la permanenza sul territorio
nazionale dello straniero per soggiorni duraturi, si giustificano soltanto in relazione all’effettivo svolgimento di
un'attività lavorativa sicura e lecita, di carattere temporaneo o anche di elevata durata.
Tra le altre leggi importanti: vi fu la legge n. 94/2009: introduzione del reato di immigrazione clandestina che
prevede un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro per lo straniero che entra illegalmente nel territorio dello Stato.

L’ingresso in Italia per motivi di lavoro è subordinato infatti al compimento di una procedura amministrativa tipica
che rispecchia la duplice condizione, giuridica e sociale dell’immigrato:
-come cittadino straniero, l’immigrato deve munirsi di un visto di ingresso nel paese e poi tramite la Questura di un
permesso di soggiorno;
- come aspirante al lavoro, l’immigrato deve essere “autorizzato al lavoro” da parte di un organismo competente.
Il datore di lavoro che intende instaurare un rapporto subordinato, a tempo determinato o indeterminato, con uno
straniero residente all’estero, deve farne richiesta allo Sportello unico per l’immigrazione (presso la Prefettura)
previa verifica, presso il Centro per l’impiego competente, dell’indisponibilità, adeguatamente documentata, di un
lavoratore già presente sul territorio nazionale.
Entro 60 giorni dalla presentazione della richiesta, lo Sportello procede al rilascio del nulla osta al lavoro (permesso
il quale autorizza un datore di lavoro ad assumere un lavoratore straniero con residenza all’estero).
Il nulla osta vale per un periodo non superiore a 6 mesi dalla data del rilascio (ma ne è possibile il rinnovo).
In seguito alla concessione del nulla osta, il Consolato del paese di residenza o di origine dello straniero rilascia il
visto di ingresso. Entro 8 giorni dall’ingresso nel paese il lavoratore ha l’onere di recarsi presso lo sportello per la
stipula del contratto di soggiorno per lavoro subordinato. Soltanto a seguito di tale stipulazione, al lavoratore è
rilasciato dalla questura, il permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Il contratto di lavoro con soggiorno, non può superare la durata massima del permesso di soggiorno, quindi la
durata è: 9 mesi per uno o più lavori stagionali, 1 anno per contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, 2
anni per contratti di lavoro a tempo indeterminato. Il lavoratore qualora perda, per qualsiasi motivo, il posto di
lavoro, può registrarsi come disoccupato, presso il Centro per l’Impiego, per il periodo di residua validità del
permesso di soggiorno.

LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO


CONTRATTO DI LAVORO E CAPACITÀ
La stipulazione del contratto di lavoro subordinato avviene, come per tutti i contratti, con il normale incontro della
volontà delle parti. Per essere parte di un contratto di lavoro, tuttavia, il lavoratore deve possedere oltre della
capacità di agire, anche di una capacità giuridica speciale che si acquista quando si è concluso il periodo di istruzione
obbligatoria, quindi all’età di 16 anni. L’Ispettorato del lavoro può autorizzare, previo assenso scritto dei titolari
della potestà genitoriale (ovvero i titolari del dovere legale dei genitori di prendersi cura del proprio figlio non
emancipato fino alla maggiore età), l’impiego dei minori in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo
o pubblicitario e nel settore dello spettacolo, purché si tratti di attività che non pregiudicano la sicurezza, l’integrità
psicofisica e lo sviluppo del minore, la sua frequenza scolastica o la partecipazione a programmi di orientamento o di
formazione professionale.
In generale, a protezione della particolare condizione dei “bambini” (minori fino a 15 anni) e gli adolescenti (minori
tra 15-18 anni) impiegati in attività lavorative, esiste un'apposita normativa, la quale contiene, tra gli altri, divieti di
adibire i bambini e gli adolescenti a determinati lavori; speciali regimi di orario e di riposo, un divieto di lavoro
notturno ed un particolare regime di sorveglianza medica.

FORMA E CONTENUTO DEL CONTRATTO DI LAVORO


Come per ogni contratto, la conclusione di un contratto di lavoro, richiede una mutua e libera espressione di
consenso, che può concretizzarsi, nella pratica, in vari modi.
Anzitutto, la maggior parte dei contratti di lavoro subordinato, sono stipulati per iscritto, nonostante, per
quanto riguarda la tipologia “standard” di tale contratto, non siano richiesti requisiti di forma scritta (né ad
Substanziam: per la validità dell'atto, ne ad probationem: ai fini di prova).
La forma scritta è invece, obbligatoria e quasi sempre ad substantiam, nei contratti di lavoro subordinato non
standard o atipici, ai fini di garanzia per il lavoratore.
Ciò che deve risultare per iscritto, è proprio la clausola, o la parte del contratto, che realizza la deviazione della
disciplina tipica: come la clausola di prova (per subordinare l’assunzione definitiva all’esito positivo di un periodo di
prova). Nel caso di contratti di lavoro intermittente (il titolare chiede la prestazione del dipendente solo nei
momenti in cui ha bisogno), la forma scritta è richiesta solo ai fini di prova di determinati elementi del contratto.
Il testo del contratto, di solito è predisposto dal datore di lavoro, e successivamente viene sottoscritto dal lavoratore.
La sottoscrizione del contratto comporta l’istaurazione regolare del rapporto, che da quel momento (o dalla diversa
data indicata dal contratto) può essere eseguito.
Il documento contrattale contiene, spesso, solo gli elementi essenziali per poter dar vita ad un rapporto
obbligatorio, ovvero: nominativi delle parti, luogo della futura prestazione, inquadramento professionale e mansioni
del lavoratore, misura della retribuzione. Possono essere incluse ulteriori clausole liberamente negoziate tra le
parti, purché di miglior favore per il lavoratore rispetto ai trattamenti legali e contrattuali collettivi.

Il d.lgs. 26 maggio 1997 n.152 ha stabilito che il datore di lavoro, entro 30 giorni dalla data di assunzione, è tenuto a
fornire al lavoratore informazioni sui seguenti oggetti: data di inizio del rapporto di lavoro, durata del rapporto di
lavoro (con la precisazione se si tratta di rapporto a tempo determinato o indeterminato).
Queste informazioni possono essere contenute nel contratto individuale o in un documento scritto da consegnare al
lavoratore entro 30 giorni dalla data di assunzione. In caso di modifica degli elementi del contratto dopo
l’assunzione, il lavoratore deve essere informato entro un mese dall’adozione.
Qualora il datore di lavoro non adempia o adempia in modo ritardato, inesatto o incompleto agli obblighi, il
lavoratore può rivolgersi all’Ispettorato del lavoro per intimare il datore ad adempiere, sotto minaccia di sanzioni
amministrative.
Merita sottolineare che; a volte può accadere che il contratto sia stipulato dopo l’inizio effettivo della prestazione
(altre volte addirittura non viene stipulato affatto, istaurandosi rapporti di lavoro in nero) ma non si tratta di una
prassi regolare. Anche il periodo di prova deve svolgersi nell’ambito di un contratto regolarmente stipulato.

IL CARATTERE PERSONALE DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO


Il fatto che nel contratto di lavoro subordinato, dal lato del lavoratore, sia dedotta una prestazione di “fare” che
richiede l’erogazione di energie psico-fisiche, implica che la prestazione deve essere effettuata e adempiuta
personalmente dal lavoratore.
Ciò implica che il lavoratore, non si può avvalere di sostituti nell’adempimento dell’obbligazione, salvo se vi sia il
consenso del datore di lavoro. Di conseguenza, mentre per il datore di lavoro può aversi una successione con un
terzo nella titolarità del contratto (per atto tra vivi o mortis causa cd. trasferimento di azienda), per il lavoratore tale
successione non è mai possibile; non è possibile la successione nel rapporto di lavoro né per atto tra vivi né causa
mortis. Ciò comporta che, il “decesso del lavoratore”, costituisce un “mezzo (evento) estintivo del rapporto di
lavoro”, e ci sarà l’attribuzione agli eredi del trattamento di fine rapporto.

PERIODO DI PROVA
Ai sensi dell’art.2096 cc.; la fase iniziale del rapporto di lavoro può essere contrassegnata dalla volontaria
apposizione al contratto, nel momento della stipulazione, di una clausola accessoria recante la previsione di un patto
di prova. Tale patto deve risultare, ad substanziam, da atto scritto. Il periodo di prova, la cui durata è normalmente
prevista di contratti collettivi nazionali di categoria (massimo di 6 mesi), ha la funzione di consentire ad entrambe le
parti, di “valutare la convenienza dell’affare”: al datore permette di valutare l’attitudine professionale del lavoratore;
e a quest’ultimo permette di sperimentare le proprie capacità e di valutare il tipo e l’ambiente di lavoro. L’art. 2096,
c.2, dispone che “l’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare
l’esperimento che forma oggetto del patto di prova”, il datore di lavoro, in particolare, ha il dovere di mettere il
lavoratore in condizione di mostrare le sue attitudini professionali, in relazione alle mansioni per le quali è stato
assunto. Ciò richiede, secondo la giurisprudenza, che tali mansioni siano specificate in modo esaustivo nel patto di
prova, a pena di nullità e inefficacia del medesimo.
Il maggiore tratto di specialità della disciplina del lavoro in prova è costituito dal regime del licenziamento, che è
un’eccezione alla regola del giustificato motivo, contemplando la facoltà di recesso ad nutum, senza obblighi di
preavviso, per entrambe le parti; ma ciò purché il periodo di prova non si sia protratto per più di 6 mesi.
Compiuto il periodo di prova si ha la conferma del lavoratore, la cui assunzione diviene definitiva.
Il periodo prestato a titolo di prova deve essere computato nell’anzianità di servizio del dipendente.

NULLITÀ E ANNULLABILITÀ DEL CONTRATTO DI LAVORO


Si possono avere singole clausole del contratto di lavoro nulle per contrasto con disposizioni imperative di legge o di
contratto collettivo, ma anche la nullità dell’intero contratto ove stipulato in violazione di norme imperative di legge,
o annullabilità per incapacità naturale o per vizi della volontà (errore, violenza, dolo) di uno dei contraenti.
Gli effetti di tale nullità e annullabilità sono disciplinati per ragioni di protezione del lavoratore.
Art.2126 cc:
-1 comma: qualora un contratto di lavoro sia dichiarato nullo o annullato, la nullità o l’annullamento non producono
effetti per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione (effetto non retroattivo della nullità/annullabilità), ciò
legittima il lavoratore a rivendicare, anche in giudizio, la tutela dei diritti derivanti dallo svolgimento della
prestazione, a cominciare da quelli retributivi; salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa del
contratto (in tal caso, si ha un'eccezione, per cui il lavoratore non può vantare alcun tipo di diritto, e dunque
nemmeno quello alla retribuzione).
2 comma: contiene un'eccezione all’eccezione del comma 1; dicendo che: se l’illiceità dell’oggetto o della causa
discende dalla violazione di norme poste a tutela del lavoratore, questi ha, in ogni caso, diritto alla retribuzione.

STRUTTURA DEL RAPPORTO DI LAVORO


LIBERTÀ E POTERE DEL DATORE DI LAVORO
L’art.41.1 cost. sancendo che “l’iniziativa economica privata è libera”, comporta che l’imprenditore sia libero, in linea
di principio, di intraprendere, cessare o modificare un'attività d’impresa.
Una libertà che, se può essere limitata da leggi in modo tale da garantire che l’esercizio di essa “non si svolga in
contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla libertà, sicurezza e dignità umana”, non è però
funzionalizzata al perseguimento di finalità sociali o di finalità non determinate dallo stesso titolare della libertà, cioè
l’imprenditore. Tale libertà decisionale dell’imprenditore, in ordine a tutti gli aspetti dell’attività d’impresa, tuttavia,
non si estende automaticamente e in via generale, agli atti ed ai comportamenti adottati nei riguardi dei lavoratori,
nei confronti dei quali le decisioni dell’imprenditore producono ripercussioni solo secondarie.
L’acquisizione delle energie dei lavoratori non avviene, in altre parole, come mera proiezione della libertà
imprenditoriale, ma come conseguenza della stipulazione di uno specifico contratto.
Il contratto concluso tra imprenditore e lavoratore ha una STRUTTURA peculiare rispetto a quella prevista per i
contratti tipici: esso, infatti, deve tener conto, oltre del rapporto di corrispettività fra le parti, anche delle prerogative
(privilegi riconosciuti) imprenditoriali relative alla libertà d’impresa. Infatti, ciò che, nel generico esercizio dell’attività
d’impresa, è mero esercizio di libertà, deve trasformarsi, per quel che riguarda la proiezione della stessa nei confronti
dei lavoratori, in un “potere direttivo” e conseguentemente dall'altra parte si mette il lavoratore in uno stato di
soggezione.
La struttura comprende diversi aspetti del rapporto di lavoro: obblighi del lavoratore (prestazione di lavoro,
diligenza, obbedienza e collaborazione, fedeltà); diritti del lavoratore (retribuzione, diritto alle mansioni, diritto ad
eseguire la prestazione lavorativa, diritto alla salubrità e sicurezza delle condizioni di lavoro); poteri del datore di
lavoro (potere direttivo e potere disciplinare).

L’OBBLIGO DI DILIGENZA
Sulla base di quanto stabilito dall’articolo 2094 c.c., in primo luogo il contratto di lavoro subordinato risponde allo
schema diritto-obbligo: mediante la sua stipulazione, un soggetto (il lavoratore) si obbliga a fornire una prestazione
lavorativa nell’interesse di un altro soggetto (imprenditore), il quale vanta pertanto il diritto di pretendere
l’esecuzione di tale prestazione.
Il primo degli obblighi del lavoratore è ai sensi dell’art. 2104.1 c.c., quello che è sì solito conosciuto come obbligo di
diligenza, il quale è obbligo di fornire, secondo diligenza, la prestazione dovuta. La diligenza è la misura della
prestazione minima dovuta al creditore ai fini del corretto adempimento all’obbligazione. Il grado di diligenza non è
più misurato in base al principio della diligenza del buon padre di famiglia, ma secondo tre specifici parametri:
-la natura della prestazione dovuta: il lavoratore deve usare la diligenza richiesta dal tipo di attività che è chiamato
a svolgere, ossia con canone di diligenza professionale;
-l’interesse dell’impresa: ovvero tale parametro implica che la prestazione del lavoratore-debitore, debba di
fatto corrispondere all’interesse soggettivo dell’imprenditore-creditore.
-l’interesse superiore della produzione nazionale: secondo cui ciascun lavoratore contribuisce alla crescita della
ricchezza nazionale.

POTERE DIRETTIVO E DOVERE DI OBBEDIENZA


“Il lavoratore deve osservare le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e
dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”. In questa affermazione normativa v’è il formale
riconoscimento della spettanza all’imprenditore, in quanto parte di un contratto di lavoro subordinato, di un potere
denominato direttivo, cui corrisponde, dal lato del lavoratore, un dovere di obbedienza. Un lavoratore è
subordinato, in quanto si obbliga, col contratto, a sottostare, o ad obbedire, al potere direttivo di un imprenditore.
Ciò che rileva a tale fine è la componente essenziale del potere direttivo, che consiste nel potere di dettare le
disposizioni per l’esecuzione del lavoro, ovvero di specificare la prestazione dovuta dal lavoratore (potere di
specificazione). L’obbligo del lavoratore di eseguire la prestazione non può essere materialmente attuato, sin
quando il datore di lavoro non ne abbia determinato il concreto contenuto: sin quando, insomma, non abbia
assegnato al lavoratore le mansioni da svolgere. Ma il potere direttivo ha pure un’ulteriore finalizzazione: quella di
dettare le disposizioni che sono necessarie per disciplinare il lavoro, vale a dire per conformare la condotta del
lavoratore alle regole prescritte al fine di garantire il regolare ed efficiente funzionamento dell’organizzazione del
lavoro. La regola prioritaria non può che essere, al riguardo, quella del rispetto del carattere gerarchico
dell’organizzazione, da cui consegue che un lavoratore che rifiuti di ottemperare alle disposizioni impartite per
l’esecuzione del lavoro si rende responsabile, sia di inadempimento dell’obbligo principale di lavorare, che di
violazione del dovere di obbedienza, ed è passibile, tanto per l’uno quanto per l’altro comportamento, di sanzioni
disciplinari.

GLI OBBLIGHI DI NON CONCORRENZA E DI RISERVATEZZA


OBBLIGO DI FEDELTÀ: l'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato va collegato ai principi generali di
correttezza e buona fede e, pertanto, impone al lavoratore di tenere un comportamento leale nei confronti del
proprio datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli anche potenzialmente.
A stabilire cos’è l’obbligo di fedeltà del lavoratore e in cosa consiste è, innanzitutto, ma in forma molto generale e
limitata, il Codice civile. Esso impone al dipendente due divieti:
-trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore nel medesimo settore di attività
dell’impresa (divieto di concorrenza).
-obbligo di riservatezza: il lavoratore ha il divieto di divulgare notizie riservate, che sono attinenti all’organizzazione e
ai metodi di produzione dell’impresa, e in ogni caso di non farne uso in modo da poter recare pregiudizio all’impresa.
Nelle ipotesi più gravi, il comportamento in questione ha anche rilievo penale.

PATTO DI NON CONCORRENZA


Un divieto di concorrenza può essere previsto, non solo nella fase di esecuzione del rapporto di lavoro, ma anche
per la “fase successiva alla cessazione del rapporto di lavoro”.
Tale ulteriore previsione, tuttavia, richiede la stipulazione consensuale di un apposito PATTO.
Dal momento che il patto di non concorrenza comporta il sacrificio di un diritto costituzionalmente garantito e
tutelato (diritto al lavoro) la legge esige che tale patto sia sottoposto a prescrizioni ed a limiti.
Infatti la violazione di tali prescrizioni e limiti comporta la nullità del patto, il quale deve quindi:
-risultare da atto scritto (forma scritta quindi richiesta ad substanziam, quindi per la validità dell’atto, non a fini di
prova).
-previsto a favore del lavoratore un corrispettivo, che può consistere o in una indennità mensile oppure
nell’erogazione di una tantum (una volta solo) alla cessazione del rapporto; deve trattarsi, inoltre, sempre a pena di
nullità, di un corrispettivo adeguato all’entità del vincolo pattuito.
-il vincolo obbligatorio a non lavorare in concorrenza dev’essere contenuto entro limiti di oggetto, di tempo e di
luogo. Questa locuzione è molto generica, tuttavia, relativamente ai limiti di tempo, si chiarisce che la durata del
patto, dev’essere: non superiore a 5 anni se si tratta di dirigenti; non superiore a 3 anni se si tratta di altri lavoratori.
Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata, secondo la tecnica della nullità parziale.

OGGETTO E LUOGO DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO


INQUADRAMENTO DEI LAVORATORI: MANSIONE; QUALIFICA; E CATEGORIA
L’oggetto (o meglio il contenuto) della prestazione di lavoro tende a stabilizzarsi in una serie di “compiti concreti”, i
quali costituiscono le “mansioni” assegnate ai lavoratori. Tali mansioni/compiti, in particolare, si identificano nel
loro insieme tramite il ricorso ad espressioni sintetiche, che si sostanziano, in prima battuta, nella qualifica
professionale attribuita al lavoratore, che rappresenta appunto una sintesi riassuntiva delle mansioni a questi
assegnate in misura prevalente (es. operaio, elettricista, informatico ecc.).
Dopo di che, alla luce della qualifica professionale attribuite (ai lavoratori), si procede all’operazione di
“inquadramento del lavoratore”, che si sviluppa su due diversi livelli:
-il primo, è quello delle categorie professionali previste dalla legge (dirigenti, quadri, impiegati e operai),
-il secondo, è quello dell’inquadramento professionale previsto dai contratti collettivi nazionali di categoria.
LE CATEGORIE LEGALI
Il primo livello del sistema di inquadramento è di fonte legale, l’art. 2095 individua 4 categorie di prestatori di lavoro
(dirigenti, quadri, impiegati, operai) ma la determinazione dei requisiti di identità di tali categorie è rimandata ai
contratti collettivi.

IL DIRIGENTE
La definizione del dirigente privato non risiede nella legge, ma nella contrattazione collettiva, che definisce i
dirigenti come colui che, in stretta prossimità (cioè in stretta collaborazione) con l'imprenditore, è investito di
competenze e responsabilità decisionali, con riferimento all’azienda o ad un ramo autonomo di essa.
Nonostante le competenze e le responsabilità decisionali tendano ad attenuare l’intensità della subordinazione, il
concetto di sottoposizione è proprio anche del dirigente. Inoltre, dato il dirigente collabora direttamente con
l’imprenditore, il rapporto dirigenziale è caratterizzato da un alto grado di fiducia.
Tale posizione al punto più alto di una gerarchia è all’origine, o meglio rappresenta l’elemento responsabile, di una
disciplina assai particolare cioè con tratti di specialità:
- i dirigenti sono organizzati sindacalmente in modo autonomo (cioè in sindacati autonomi), e quindi la
contrattazione collettiva avviene separatamente;
- godono di un trattamento economico di norma più elevato.

IL QUADRO
È la categoria più recente, ed è una figura di lavoratore situata in posizione intermedia tra i dirigenti da un lato, e gli
impiegati-operai dall’altro. Esso corrisponde a quelle figure investite di significative responsabilità gestionali che, pur
essendo preposte a importanti unità d’impresa, non acquisiscono una responsabilità decisionale nello stretto senso
del termine (come invece avviene nel caso del dirigente).
L’aspirazione dei sindacati dei quadri, era infatti quella di seguire la strada dei dirigenti, per essere riconosciuti come
categoria autonoma e svincolarsi dal sindacalismo generale. La loro azione ebbe però successo solo in parte:
-i sindacati dei quadri, pur tuttora esistenti, non sono mai riusciti a realizzare il sogno di un contratto collettivo
separato.
-è stato invece ottenuto, da parte della categoria dei quadri, il riconoscimento legale: infatti la legge n.190 del 1985,
ha aggiunto all’art.2095 comma 1 la categoria dei quadri, definendo questi ultimi come i prestatori di lavoro
subordinato che, pur non essendo dirigenti, svolgono, con carattere continuativo, funzioni di rilevante importanza ai
fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa.

L’IMPIEGATO
Sono la categoria più antica, fra le categorie previste dalla legge. Infatti tale categoria è stata la
prima a beneficiare di un'apposita disciplina legislativa di tutela, tramite lo storico regio decreto 1825 del
1924, nel quale è tutt’ora contenuta, per quel che vale, la definizione di contratto di impiegato privato è, il
contratto per il quale: una società o un privato, gestori di un’azienda, assumono al servizio dell’azienda stessa,
normalmente a tempo indeterminato, l’attività professionale dell’altro contraente, con funzioni di collaborazione sia
di concetto che di ordine, esclusa, ogni prestazione che sia semplicemente di mano d’opera.
Da questa definizione si ricava che i requisiti principali di questa categoria di lavoratori (non è più una tipologia
contrattuale), sono 3:
-la collaborazione, requisito tipico di tutti i lavoratori subordinati,
-la professionalità, requisito estendibile anche agli operai,
-la non manualità, unico requisito capace di distinguere l’impiegato dall’operaio.
Tuttavia, con l’evoluzione dei lavori e della tecnologia (il lavoro manuale ha sempre più un contenuto intellettuale)
la separazione tra la categoria degli impiegati e quella degli operai, si è a poco a poco riassorbita, venendo ad
eliminare quasi tutte le differenze di trattamento ancora esistenti. Questo non significa però, che il rilievo sociale
della distinzione impiegati e operai sia venuta meno completamente. E ciò è confermato dal fato che, ancora oggi, è
normale che un operaio viva come una promozione il passaggio ad un lavoro impiegatizio, anche se ugualmente
remunerato, mentre non è quasi mai vero l’inverso.

L’OPERAIO
La definizione di operaio è rinvenibile non nella legge ma nei contratti collettivi. L’operaio è la categoria esattamente
speculare e opposta a quella dell’impiegato. Infatti come l’impiegato è connotato dalla “non manualità”; la figura
dell’operaio è al contrario incentrata sulla manualità della sua prestazione.
CLASSIFICAZIONE PROFESSIONALE DEI CONTRATTI COLLETTIVI
I CCNL propongono un sistema di inquadramento diverso da quello previsto dall’articolo 2095 del Codice civile.
A seconda dei ruoli professionali svolti, essi classificano i lavoratori in un numero variabile di livelli (tra sette e otto),
denominati parametri, CATEGORIE o aree professionali.
I requisiti di differenziazione delle CATEGORIE sono molteplici: tra questi i più importanti sono il grado di
autonomia e discrezionalità esercitati nell’attività svolta, la difficoltà tecnica e gestionale per eseguirla, la titolarità di
poteri di direzione e l’eventuale coordinamento di altri lavoratori. Facendo uso di questi livelli si è in grado di
attribuire a ciascun lavoratore il livello e il trattamento che gli competono.

LO IUS VARIANDI DEL DATORE DI LAVORO


La classificazione professionale contenuta nei contratti collettivi, rappresenta una limitazione alla libertà gestionale
del datore di lavoro, in quanto implica che a determinate mansioni corrisponda l’assegnazione di un certo livello di
inquadramento, e viceversa, ad un determinato livello di inquadramento, corrispondano quelle mansioni previste dal
contratto collettivo riguardo a quel livello.
Con il termine Jus variandi in diritto del lavoro si intende il potere di modificazione unilaterale delle mansioni del
lavoratore da parte del datore di lavoro (in virtù del potere direttivo). L'esercizio di tale potere è disciplinato dall'art.
2103 c.c. che è stato rivoluzionariamente modificato dal Jobs Act nel 2015.
Tuttavia, l’ambito di possibile esercizio dello ius variandi è sottoposto a limiti di natura imperativa, che sono posti a
presidio (a protezione, tutela) della posizione, anzitutto professionale, e poi anche economica, del lavoratore.
Per posizione professionale si intende l’insieme di conoscenze, capacità ed esperienze, che si acquisiscono
attraverso il lavoro e il ruolo professionale.

I LIMITI ALLO IUS VARIANDI


Prima del 1970 questo potere (ius variandi) non aveva limiti, per cui il datore era libero di determinare un
arretramento professionale del lavoratore. L’art 13 dello Statuto dei Lavoratori, tuttavia, ha modificato questo
regime, novellando l'art 2103 e istituendo una rigida disciplina a protezione della:
-la posizione professionale(professionalità) acquisita dal lavoratore, intesa come quell’insieme di conoscenze,
capacità ed esperienze che ha acquisito attraverso il lavoro.
-la posizione economica (trattamento retributivo) acquisito dal lavoratore, in corrispondenza a tale professionalità.
L’esigenza tenuta presente dal legislatore dell’art.2103 è stata quella di contemperare l’esercizio del potere
direttivo del datore, senza pregiudicare la posizione professionale del dipendente. Ciò è stato realizzato
ponendo un limite esterno all’esercizio dello IUS VARIANDI, in virtù del quale lo ius variandi può essere validamente
esercitato solo adibendo il lavoratore a mansioni EQUIVALENTI, (ma mai inferiori), a quelle originariamente svolte,
avendosi quindi un mutamento “orizzontale”.
La questione interpretativa che si pone a questo punto riguarda, cosa si deve intendere per EQUIVALENZA.
Sono 2 i criteri a tal fine adoperati:
1)criterio oggettivo (in quanto fa riferimento alla classificazione contrattuale): primo criterio impiegato dalla
giurisprudenza, in base al quale: se la mansione di nuova assegnazione è inserita (dal contratto collettivo) in un
livello inferiore a quello della mansione di provenienza, quella mansione non può dirsi equivalente alla precedente; e
quindi il principio di equivalenza è violato e si determina quello che nel linguaggio pratico e noto come
“DEMANSIONAMENTO”.
2)criterio soggettivo (in quanto fa riferimento alla valutazione, molto delicata, del giudice): in base a tale criterio, se
la mansione di nuova assegnazione è inserita dal contratto collettivo nello stesso livello contrattuale dell’ultima
effettivamente svolta, essa può essere reputata professionalmente non equivalente (inferiore) qualora per svolgerla
debba impiegarsi una professionalità del tutto diversa da quella accumulata dal lavoratore nel corso della sua
carriera. Ciò salvo che il datore di lavoro dimostri il passaggio a mansioni nuove sia stato disposto, proprio in vista di
una crescita del grado professionale del lavoratore.
Nel caso di adibizione a mansioni superiori si parla di mutamento verticale, con diritto a retribuzione equivalente
alla mansione svolta, a meno che non si tratti di sostituzione di un dipendente assente, dopo 3 mesi il mutamento
verticale diviene definitivo e quindi ci dev’essere l’inquadramento.
Art. 2223 del 91, in alcuni casi il demansionamento era lecito: per le donne in gravidanza, lavoratori licenziati in
procedura di mobilità, lavoratore infortunato.

Il d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, all'art. 3 ha modificato la disciplina del mutamento delle mansioni.
Jobs Act, Art. 3 d.lgs. 81 del 2015:
C. 1: “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti
all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e
categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.” È una novità perché non c'è più il concetto di
equivalenza alle ultime mansioni svolte. Sono i contratti collettivi a dover definire se le nuove mansioni riguardano lo
stesso livello di inquadramento, si deve trattare sempre della stessa categoria legale.
C. 2: “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può
essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore (mutamento in peius:
demansionamento) purché rientranti nella medesima categoria legale.” Demansionamento lecito con questo nuovo
articolo, se il datore di lavoro adotta una riorganizzazione che incide in modo diretto sulla posizione del lavoratore.
C. 3: “Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo, il cui
mancato adempimento non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni.”
C. 4: “Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché
rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.”
C. 5: “Il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità”. Richiesta la forma scritta ad
substantiam. “Il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in
godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della
precedente prestazione lavorativa”. Elementi che non ricorrono più nelle nuove mansioni non devono essere
corrisposti (trasferta, lavoratore all’estero...).

DEMANSIONAMENTO E DANNO ALLA PROFESSIONALITÀ


Se il giudice accerta che il lavoratore è stato vittima di demansionamento, illecito perché non rientrante nelle
condizioni dell’art. 2103, dichiara la nullità dell’atto che lo ha determinato e il lavoratore avrà diritto ad essere
reintegrato nelle mansioni precedenti o altre mansioni equivalenti. Il demansionamento configura un
inadempimento contrattuale del datore di lavoro che può essere produttivo di danni risarcibili sia patrimoniali (es.
perdita di chance professionali), che non patrimoniali (es. danno biologico).
Per poter essere risarcito, il danno professionale deve essere provato in modo specifico dal lavoratore e il
risarcimento viene commisurato a una percentuale (tra il 30% e il 100%) della retribuzione percepita dal lavoratore,
moltiplicata per i mesi nei quali si è protratto l’illecito.

ACCORDI INDIVIDUALI DI MODIFICA DELLE MANSIONI E DELL’INQUADRAMENTO


È prevista la possibilità di stipulare patti individuali comportanti il demansionamento del lavoratore, sono quindi
validi gli accordi individuali per la modifica sia delle mansioni che della categoria legale e del livello contrattuale di
inquadramento, purché nel rispetto di due condizioni:
-I patti devono essere conclusi nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione (ad esempio come
unica alternativa ad un licenziamento per giustificato motivo), all’ acquisizione di una diversa professionalità o al
miglioramento delle condizioni di vita.
-L’accordo deve essere stipulato in sede assistita o dinanzi alle commissioni di certificazione.

Accordi sindacali: sul piano collettivo, per evitare in tutto o in parte un licenziamento collettivo, possono essere
conclusi accordi sindacali prevedenti l’assegnazione, ai lavoratori minacciati della riduzione di personale, di nuove
mansioni. Il declassamento proviene direttamente dall’accordo sindacale, senza necessità di patti individuali con i
lavoratori interessati.

ESERCIZIO DI MANSIONI SUPERIORI E PROMOZIONI DEL LAVORATORE


Il lavoratore può vedersi assegnare, sempre tramite l’esercizio dello ius variandi, mansioni superiori.
Tale assegnazione può essere formalizzata come vera e propria promozione, alla quale deve accompagnarsi
l’attribuzione del superiore livello professionale e retributivo.
Art. 2103, C. 7: Egli avrà diritto alla corrispondente retribuzione e all’acquisizione definitiva del livello superiore di
inquadramento, quando si protrae per un periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo 6 mesi
continuativi. Trascorso il periodo, il lavoratore acquisisce in via definitiva il livello superiore e non può essere
retrocesso, salva l’ipotesi in cui il lavoratore esprima una diversa volontà (es. tornare ad una mansione meno
impegnativa) e quindi sarà riassegnato alle mansioni precedentemente svolte o dello stesso livello.
L’unica eccezione alla regola (l’acquisizione definitiva del superiore livello di inquadramento) si ha nel caso in cui
l’assegnazione alla mansione superiore avviene per sostituire un lavoratore assente (con diritto alla conservazione
del posto: ad es. in malattia, maternità, o in ferie): il superamento della soglia temporale non fa scattare il diritto del
sostituto all’inquadramento nel livello superiore.
MODIFICAZIONE DEL LUOGO DELLA PRESTAZIONE: TRASFERTA E TRASFERIMENTO
Il luogo della prestazione lavorativa è precisato nel contratto, all’atto dell’assunzione, ma può essere soggetto a
successive modifiche, anche unilaterali, entro determinati limiti.
Trasferta: implica un mutamento del luogo in cui il lavoratore è tenuto a prestare l’attività dedotta nel contratto di
lavoro. Per parlare di trasferta, occorre che essa sia temporanea e dunque non deve venir meno il legame con la
sede di appartenenza.
Trasferimento: quando si ha una modifica tendenzialmente definitiva del luogo di lavoro del dipendente.
Il potere di trasferire unilateralmente è compreso nel potere direttivo datoriale, non è necessario il consenso del
lavoratore ma egli potrà rifiutarsi per giusta causa impugnando il trasferimento illegittimo, ci sono quindi dei limiti a
questo potere.
Dopo il Jobs Act è previsto che il lavoratore può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra solo quando
sono dimostrate dal datore di lavoro le ragioni tecniche, organizzative e produttive che lo giustificano. Il giudice
investito dell’impugnazione di un trasferimento è chiamato in primis a controllare la veridicità e l’attendibilità delle
ragioni dell’imprenditore e in secondo luogo la sussistenza di un nesso di causalità fra esse e il trasferimento.

TEMPO DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO

PROFILI GENERALI E FONTI


Il contratto di lavoro subordinato è un contratto di durata, dal quale pertanto derivano obbligazioni che sono
destinate ad essere adempiute nel tempo.
L’estensione temporale della prestazione lavorativa è uno degli elementi caratterizzanti del rapporto di lavoro
subordinato. La previsione di limiti a tale estensione, deriva dall’esigenza di tutelare l’integrità fisica del lavoratore e
la sua partecipazione alla vita familiare e/o sociale.
È importante, altresì, la collocazione oraria della prestazione nel corso della giornata.
La disciplina dell’orario di lavoro si è susseguita in diversi punti:
• L’Art. 36 c. 2 Costituzione indica la necessità di stabilire, per legge, un limite alla durata massima della giornata
lavorativa.
• All’epoca esisteva già un sistema legale di limiti all’orario, ma non nel Codice Civile perché l’Art. 2107 dispone
semplicemente che “la durata giornaliera e settimanale della prestazione lavorativa non può superare i limiti stabiliti
dalle leggi speciali o norme corporative”, invece, nella legislazione speciale n.692/1923 che prescriveva a che la
durata massima dell’orario di lavoro degli operai e impiegati non eccedesse le 8 ore giornaliere (per 6 giorni) e quindi
le 48 ore settimanali di lavoro effettivo. Al di sotto di questo limite si era quindi liberi di praticare orari anche ridotti.
• I contratti collettivi abbassarono poi l’orario settimanale medio a 40 ore, adottando la settimana corta di 8 ore al
giorno (per 5 giorni).
• Art. 13 legge Treu n.196/1997 ha reso effettivo quello che era stato previsto dai contratti collettivi, prevedeva un
orario normale settimanale di 40 ore, ed ha reso possibile una modulazione (variazione) flessibile dell’orario su base
plurisettimanale.
• Dlgs n.66/2003 ha accorpato in un unico testo, per la prima volta, la disciplina dell’orario di lavoro e quella dei
riposi, con abrogazione di quasi tutte le discipline precedenti. È l’unico riferimento normativo per l’orario di lavoro
(anche per le amministrazioni pubbliche), fissa dei paletti e rinvia i dettagli alla contrattazione collettiva.

L’ORARIO NORMALE SETTIMANALE


L’orario normale di lavoro, rappresenta il limite temporale ordinario oltre il quale le prestazioni cessano di essere
ordinarie e diventano straordinarie.
La prima disposizione che ha introdotto il concetto di “orario normale” è stata l’art.13 della legge 196/1997
che lo ha fissato in 40 ore.
L’art. 3 del decr.lgs.66/2003, dopo aver ribadito che l’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali, ha
aggiunto che i contratti collettivi di lavoro (purché stipulati da organizzazioni sindacali dei lavoratori,
comparativamente più rappresentative) possono stabilire, a fini contrattuali, una durata minore (non una durata
maggiore, in virtù del principio dell’inderogabilità in peius) e possono prevedere orari cd. multiperiodali, ciò
significa che l’orario normale si considera osservato se viene rispettata la media delle 40 ore nell’arco temporale
dato: per cui si viene a consentire che in alcuni periodi (settimane) venga superata la soglia delle 40 ore (attraverso
prestazioni non qualificabili come lavoro straordinario) purché essa sia compensata da altri periodi con orari inferiori
alle 40 ore. È una misura di flessibilità organizzativa, che permette di prevedere l’orario in base alla richiesta
produttiva.
L’ORARIO MASSIMO SETTIMANALE
Al di sopra “dell’orario normale settimanale” (40 ore), è stabilito, sempre su base settimanale, “un orario massimo
settimanale”, comprensivo delle ore di lavoro straordinario. Ciò essenzialmente a tutela dell’integrità psico-fisica del
lavoratore.
La fissazione dell’orario massimo settimanale, è affidata in linea di massima ai contratti collettivi di lavoro.
Ma tali contratti sono a loro volta assoggettati ad un limite legale “in ogni caso” non superabile, (in quanto dettato
da una disposizione non derogabile in peius), che ammonta a 48 ore per ogni periodo di 7 giorni.

LA GIORNATA LAVORATIVA: ORARIO E RIPOSO


Dato che l’orario legale di lavoro, sia normale che massimo, viene previsto unicamente su base settimanale, rimane
aperta la questione dell’orario di lavoro giornaliero. Il problema si pone, non tanto per l’orario normale quanto
piuttosto per l’orario massimo, già oggetto del vecchio limite di 8 ore (più 2 di straordinario). Nonostante allo stato
attuale non vi siano dubbi che il limite precedente delle 8 ore non esista più (ferma restando la facoltà dei contratti
collettivi di reintrodurlo) alla luce del d.lgs.66/2003 un limite alla durata massima giornaliera della prestazione di
lavoro, deriva indirettamente dalla previsione (art.7) di un diritto a 11 ore di riposo consecutivo, ogni 24 ore.
Ne deriva quindi che la prestazione giornaliera non può svolgersi per più di 13 ore al giorno (24-11= 13 appunto).
Inoltre il lavoratore ha diritto ad un riposo settimanale di 24 ore consecutive ogni 7 giorni, che solitamente coincide
con la domenica.

LAVORO STRAORDINARIO
Il lavoro straordinario, è quello che eccede l’orario normale settimanale di lavoro (eccede quindi le 40 ore).
Il lavoro straordinario è pagato perciò, in misura maggiore rispetto al lavoro normale.
Attualmente la legge, si limita a dettare il principio secondo cui: “il lavoro straordinario deve essere computato a
parte e compensato con le maggiorazioni retributive previste dai contratti collettivi di lavoro”.
In sostanza la legge rinvia totalmente ai contratti collettivi per la determinazione della misura delle maggiorazioni,
che nei fatti sono di importo variabile (dal 10% al 50-60% circa) a seconda delle condizioni nelle quali il lavoro
straordinario si svolge (di notte, nelle feste ecc.). I contratti collettivi possono inoltre consentire che, “in alternativa
o in aggiunta alle maggiorazioni retributive, i lavoratori usufruiscano di riposi compensativi”, il compenso non è in
denaro ma in quota aggiuntiva di riposti. Sono previste delle limitazioni per il ricorso al lavoro straordinario: il
ricorso a prestazioni di lavoro straordinario deve essere “contenuto”; ed è ammesso soltanto previo accordo tra
datore di lavoro e lavoratore per un periodo che non superi le 250 ore annuali. Questi limiti sono relativi perché
possono essere derogati, anche in peius dai contratti collettivi.

Lavoro supplementare: è “quell’orario che va oltre l’orario contrattuale ma che rientra all’interno dell’orario
normale e non lo supera”. Più semplicemente: se il mio contratto è di 6h giornaliere e l’orario normale è di 8h
giornaliere; 6h<8h quindi è quell’orario che supera la sesta ma non va oltre l’ottava. Un esempio è il contratto di
lavoro part-time.

IL LAVORO NOTTURNO
Il periodo notturno va dalle 24 alle 5 del mattino, l’orario notturno è l’orario normale di lavoro di almeno 7 ore
consecutive di cui almeno 3 sono svolte nel periodo notturno, il lavoratore notturno è qualsiasi lavoratore che svolge
per almeno 80 giorni lavorativi all’anno le prestazioni di lavoro nell’orario di lavoro notturno.
I contratti collettivi prevedono dei casi in cui il lavoro notturno è vietato:
-per le donne in stato di gravidanza e fino al compimento di un anno di vita del bambino, dalle ore 24 alle 6.
-per i minorenni.
Non sono obbligati a prestare lavoro notturno: la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o in
alternativa il lavoratore padre; la lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario di un figlio di età
inferiore a 12 anni; il lavoratore o la lavoratrice che abbia a proprio carico un soggetto disabile.
L’introduzione del lavoro notturno deve essere preceduta da una consultazione con le RSA/RSU (rappresentanza
sindacale aziendale/unitaria) o, in mancanza, con le organizzazioni sindacali territoriali dei lavoratori, che però deve
concludersi entro un massimo di 7 giorni e che non impedisce al datore di lavoro, anche nel caso di dissenso
sindacale, di adottare tale modalità di lavoro.
L’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore in media nelle 24 ore.
È rimessa alla contrattazione collettiva la previsione di riduzioni dell’orario di lavoro o di trattamenti economici
indennitari a favore dei lavoratori notturni: di norma i contratti collettivi prevedono cospicue maggiorazioni per chi
lavora di notte. Qualora ci siano condizioni di salute che comportino l’inidoneità al lavoro notturno, accertate da un
medico, il lavoratore deve essere assegnato al lavoro diurno, in altre mansioni equivalenti, se esistenti e disponibili.
IL RIPOSO SETTIMANALE O DOMENICALE
Il lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo settimanale di 24 ore consecutive ogni 7 giorni (da cumulare con le
ore di riposo giornaliero; ciò per un totale di 24+11 ore, cioè 35 ore consecutive di riposo ogni settimana), di regola
coincide con la domenica (soprattutto in passato), ma oggi è sempre più diffuso il lavoro domenicale e anche nelle
festività. Se viene leso il diritto del riposo, il lavoratore può chiedere il risarcimento dei danni. Una distinta questione
è quella della coincidenza o meno del riposo settimanale con la domenica: se fino al d.lgs. n. 66/2003 è stata
ribadita tale regola, sono previste numerose eccezioni nelle quali il lavoro domenicale è consentito, in particolare nel
settore dei servizi. Tale lavoro (svolto di domenica) è da considerarsi più gravoso e di maggiore qualità, per cui
merita di essere compensato in modo specifico, a prescindere (cioè in aggiunta) dalla fruizione del riposo in altro
giorno della settimana.

LE FERIE
Sono disciplinate dal d.lgs. n.66/2003 e dall’Art. 2109 cc: “il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di
ferie retribuite non inferiore a quattro settimane” inclusi i giorni non lavorativi.
I contratti collettivi possono estendere tale periodo, ma non ridurlo (divieto deroga in peius).
La Corte Costituzionale nel 1987 ha previsto che “la malattia sopravvenuta durante le ferie ne sospende il decorso”,
per cui il lavoratore è abilitato a recuperare i giorni di ferie persi. Affinché si produca l’effetto sospensivo, occorre
che il lavoratore sia affetto da una malattia tale da impedire in modo rilevante la fruizione delle ferie, con prognosi
(previsione) di almeno 3 giorni.
La collocazione temporale del periodo di ferie spetta, al datore di lavoro, tenuto conto degli interessi del lavoratore.
Durante le ferie, spetta la normale retribuzione, ciò non implica che debba contenere tutte le voci retributive (come i
compensi per lavoro straordinario). Esiste un divieto di monetizzazione che implica che ci dev’essere una fruizione
reale del periodo di 4 settimane di ferie totali e non può essere sostituito dall’indennità risarcitoria per ferie non
godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto.

POTERE DI CONTROLLO E TUTELA DELLA PRIVACY


IL POTERE DI CONTROLLO
Il potere di controllo sui lavoratori, pur non esplicitamente menzionato nel codice civile, viene da sempre ritenuto
una componente naturale del potere direttivo dell’imprenditore, il quale, ricoprendo la funzione di capo
dell’impresa, deve garantire la corretta e tempestiva esecuzione degli obblighi lavorativi, nonché, più
ampiamente, l’osservanza delle regole che disciplinano la condotta del lavoratore dentro l’impresa.
La disciplina del potere di controllo è inclusa nel Jobs Act d.lgs. n.151/2015 e la tutela della privacy nella disciplina
della protezione dei dati personali prevista dal regolamento UE n.679/2016.

LE GUARDIE GIURATE
L’art.2 dello St. Lav., limita l’uso delle guardie giurate, prevedendo che: esse possano essere utilizzate solo per scopi
di tutela del patrimonio aziendale (comma 1) e che non possano contestare ai lavoratori azioni o fatti diversi da
quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale (comma 2). Il comma 3 dell’art.2,
chiarisce che: è fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull'attività lavorativa le guardie giurate, le
quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della stessa, se non
eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti alla tutela del patrimonio aziendale.
Da tali divieti, in sostanza, si desume che le guardie giurate non possono essere impiegate per controllare i
lavoratori, ma soltanto per tutelare il patrimonio aziendale. In caso di inosservanza delle disposizioni, la guardia
giurata è punita con la sospensione dal servizio e, nei casi più gravi, con la revoca della licenza, ed insieme al datore
di lavoro saranno sanzionabili penalmente.

IL PERSONALE DI VIGILANZA
L’art.3 St. Lav., dedicato al “personale di vigilanza” è finalizzato a prevenire controlli occulti (nascosti), sul
presupposto che essi siano sleali e lesivi. A fronte di tale esigenza, vi è pero quella dell’azienda, di prevenire e/o
verificare la commissione di illeciti in azienda, specialmente in quelle attività che registrano con frequenza furti ed
irregolarità di vario genere da parte dei dipendenti. Per bilanciare queste due richieste opposte la norma dispone
che: i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell'attività lavorativa debbono essere
comunicati ai lavoratori interessati. La giurisprudenza ha interpretato questa norma nel senso di ritenere legittimo il
controllo occulto “qualora esso sia difensivo”, e cioè qualora esso sia rivolto, non già a controllore il corretto
svolgimento del lavoro, ma a prevenire e/o verificare la commissione di illeciti, in specie penali.

I CONTROLLI A DISTANZA SUL LAVORO


Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei
lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del
lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla
rappresentanza sindacale unitaria (RSU) o dalle rappresentanze sindacali aziendali (RSA).
L’installazione è consentita quand’anche ne derivi la possibilità di un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Al contrario, l’installazione è vietata se mossa dall’esclusiva finalità del controllo a distanza dell’attività dei
lavoratori. La funzione dell’accordo o dell’autorizzazione amministrativa è quella di verificare e di validare la
sussistenza delle esigenze aziendali che giustificano, secondo la norma, l’installazione.
Gli strumenti che l’impresa mette a disposizione del lavoratore per rendere la prestazione lavorativa (quali
computer, tablet e smartphone) così come i badge che registrano accessi e uscite dei dipendenti, possono essere
utilizzati, anche se da essi deriva la possibilità di un controllo a distanza sull’attività dei lavoratori, senza dover
passare per un accordo sindacale o un’autorizzazione amministrativa.
L’individuazione degli strumenti è problematica, perché nel caso dei computer, tablet e smartphone non deve
essere valutato tanto il dispositivo in sé, quanto il programma installato. Occorre che lo strumento sia
immediatamente ed esclusivamente finalizzato all’esecuzione del lavoro.
Si prevede nel c.3 che le informazioni raccolte tramite gli strumenti di controllo autorizzati e non, sono utilizzabili
dal datore di lavoro a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro ad una duplice condizione:
-che sia stata data al lavoratore da parte del datore di lavoro, preventiva e adeguata informazione delle modalità
d’uso degli strumenti e delle modalità di effettuazione dei controlli.
-che siano state rispettati i principi regolatori del trattamento dei dati previsti dal Codice privacy del 2003.

LE VISITE PERSONALI DI CONTROLLO


In merito all’art. 6 (che riguarda appunto, le visite personali di controllo), è da dire che esso è strutturato in maniera
analoga all’art. 4, pur ponendo meno problemi applicativi. Esso proibisce le visite personali di controllo (cioè le
perquisizioni) sul lavoratore, salvo nei casi in cui esse siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale,
in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti (comma 1). Tuttavia, in tali casi
in cui si verifica questa condizione, tali visite personali possono essere effettuate soltanto a condizione che siano:
eseguite all'uscita dei luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore.
Nei casi in cui le visite possono essere disposte, dovranno essere concordate dal datore di lavoro con le RSA
(rappresentanze sindacali aziendali) o con la RSU (rappresentanze sindacali unitarie); o in difetto di accordo debbono
essere oggetto di un provvedimento autorizzativo dell’Ispettorato del lavoro.

IL DIVIETO DI INDAGINI SULLE OPINIONI DEL LAVORATORE


Lo statuto dei lavoratori si è anche preoccupato di garantire la libertà e la dignità del lavoratore sotto il profilo della
inaccessibilità della sfera privata del lavoratore.
La disposizione centrale, al riguardo è l’art. 8 dello Statuto in base al quale: è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini
dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di
terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione
dell'attitudine professionale del lavoratore. La valenza del divieto dev’essere però commisurata al tipo di attività
svolta: per alcuni lavori comportanti il maneggio di denaro o di materiale prezioso, può essere legittima anche la
richiesta, di solito non consentita, del certificato penale.
La giurisprudenza, al contrario, considera invece lecite, alla luce dell’art.8 le indagini sul comportamento del
lavoratore malato o in permesso, al fine di verificare la commissione di eventuali abusi.

L’inosservanza dell’art.8, come quella dell’art.4 e 6, è sanzionata penalmente dall’art.38 dello statuto.

LA TUTELA DELLA PRIVACY NEL RAPPORTO DI LAVORO


Il Codice Privacy (d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196) si preoccupa di tutelare ciascun cittadino relativamente al
trattamento di informazioni che lo riguardano, e che sono detenute da altri. La gestione amministrativa dei rapporti
di lavoro comporta fisiologicamente l’acquisizione, e il conseguente trattamento, di numerosi dati personali inerenti
ai lavoratori. Il Codice Privacy prevede una serie di principi generali di condotta, in base ai quali i dati personali
debbono essere trattati in modo lecito, raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, essere
pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o successivamente trattati, e
conservati per un tempo non superiore a quello necessario a dette finalità.
Il Codice prevede alcune regole da seguire nel trattamento dei dati, tra le quali le più importanti sono quelle per
cui il valido trattamento dei dati personali è condizionato alla previa informativa e all’espressione del consenso della
persona cui essi si riferiscono. Si deve considerare, tuttavia, che la maggior parte dei dati raccolti e trattati dal
datore di lavoro nella gestione quotidiana del rapporto è finalizzata all’esecuzione di obblighi legali o contrattuali
posti a carico del datore medesimo, a cominciare dall’obbligo retributivo. In questi casi non sono richiesti né
l’informativa né il consenso.

POTERI DEL DATORE DI LAVORO, IL POTERE DISCIPLINARE


-POTERE DI CONTROLLO: Già fatto
-POTERE DIRETTIVO: rientra nella categoria dei diritti potestativi, cui corrisponde, dal dato del lavoratore un dovere
di obbedienza alle direttive del datore di lavoro. Il potere direttivo ha anche un’ulteriore finalità di disciplinare il
lavoro, vale a dire conformare la condotta del lavoratore alle regole prescritte, al fine di garantire il regolare ed
efficiente funzionamento dell’organizzazione del lavoro.

-POTERE DISCIPLINARE
Il lavoro è un diritto, in base alla nostra Costituzione, ma anche un dovere. Quando si viene assunti in una impresa,
infatti, sorgono in capo al dipendente tutta una serie di obblighi e di doveri che derivano dalla legge, dal contratto
collettivo applicato al rapporto di lavoro e dal contratto individuale di lavoro sottoscritto con il datore di lavoro.
Il lavoratore subordinato, infatti, a differenza del lavoratore autonomo, non deve limitarsi a raggiungere un
obiettivo fissato dall’azienda ma deve mettere sé stesso alle dipendenze del datore di lavoro, eseguendo ciò che gli
viene chiesto di fare. Per dare a questo principio una reale applicazione, la legge prevede che il datore di lavoro
abbia il potere disciplinare il quale, per essere esercitato, occorre seguire un apposito procedimento regolato dalla
legge. Non avrebbe senso dire che il datore di lavoro ha il potere di indicare al dipendente cosa deve fare se non
avesse anche il potere di riprendere il dipendente che non fa ciò che deve.
Per questo è previsto il potere disciplinare ossia il potere di infliggere delle sanzioni disciplinari al lavoratore che non
rispetta i propri doveri. La legge afferma infatti che l’inosservanza delle disposizioni impartite dal datore di lavoro e
dei doveri di fedeltà e diligenza imposti dalla legge può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la
gravità dell’infrazione. Il principio di questa norma (art. 2106 c.c.) è la proporzionalità della sanzione rispetto
all’infrazione commessa, sarà necessario quindi che il codice disciplinare espliciti il rapporto di corrispondenza tra
infrazioni (ciò che il lavoratore non deve fare) e sanzioni (ciò che rischia se commette l’infrazione).

I PRESUPPOSTI SOSTANZIALI DEL POTERE DISCIPLINARE


L’art. 7 l. n. 300/1970 ha introdotto una disciplina che ha modificato il potere disciplinare sotto il profilo sostanziale
e (per la prima volta) procedurale.
Dal punto di vista sostanziale, la fonte principale di determinazione dei presupposti del potere disciplinare, è
divenuto il contratto collettivo. Questo in forza dell’art.7 comma 1 dello St. Lav., in base al quale:“le norme
disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata e alle
procedure di contestazione delle stesse… devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti
collettivi di lavoro, ove esistano”. Ne deriva che il datore di lavoro non può più prevedere infrazioni e sanzioni a
proprio piacimento, ma deve applicare obbligatoriamente le norme dei contratti collettivi che prevedono il codice
disciplinare.
Quanto alle sanzioni, quelle di natura conservativa (che non comportano la risoluzione del contratto) previste dai
contratti collettivi sono di solito: il rimprovero verbale, il rimprovero scritto (o censura), la multa e la sospensione
dal lavoro e dalla retribuzione. Tuttavia l’art.7 (sopra menzionato), prescrive, con effetto imperativo anche sui
contratti collettivi, che la multa non può essere disposta per un importo superiore a 4 ore della retribuzione base e
che la sospensione non può protrarsi per più di 10 giorni. Inoltre sempre ai sensi dell’art. 7, non possono essere
disposte (eccezione fatta per il licenziamento) sanzioni che comportano mutamenti definitivi del rapporto (es.
trasferimento, mutamento di mansioni) se determinati da ragioni disciplinari.
Quasi tutti i CCNL prevedono inoltre la recidiva, che opera come fattore di aggravamento della responsabilità
disciplinare, nel senso che ad una certa infrazione, può conseguire una sanzione più grave di quella ordinariamente
prevista, quando il lavoratore sia già incorso in una precedente sanzione per una condotta simile (in tal caso si parla
di recidiva specificata) oppure sia incorso in altre sanzioni per fatti diversi (cd. recidiva generica). L’art. 7 però
dispone che, ai fini della recidiva, non possono rilevare sanzioni applicate più di 2 anni prima dell’ultima.
Cos’è la recidiva sul lavoro? in generale, quando la legge usa l’espressione «recidiva» intende un comportamento,
generalmente illecito, che viene ripetuto più volte nell’arco di un tempo determinato. Lo stesso vale nell’ambito del
diritto del lavoro: vi è recidiva quando un lavoratore ripete la stessa infrazione nel corso di due anni.
In presenza di recidiva, la pena inflitta al dipendente, aumenta in quanto la colpa è maggiore e più grave visto che il
dipendente è “solito” comportarsi in un determinato modo. Insomma, viene meno la possibilità di parlare di un
“episodio occasionale” ma subentra la personalità del colpevole a renderlo meno affidabile. È, del resto, nelle
massime di saggezza popolare che «sbagliare è umano, perseverare è diabolico».

Nel caso in cui ad esempio faccio tardi 10 minuti o vado spesso in pausa, si tratta di inadempienze che prese
singolarmente non comportano il licenziamento ma solo una CONTESTAZIONE. Il lavoratore ha 5 giorni per
contestare a sua volta la contestazione ed in ogni caso (che si giustifichi o non si giustifichi) la contestazione scritta
viene archiviata. Se quell’inadempienza continua a verificarsi ripetutamente e ravvicinatamente, l’insieme delle
contestazioni possono comportare il licenziamento, che in questo caso si ha per RECIDIVA, si tratta del
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE, il quale si ha ESCLUSIVAMENTE per recidiva.

IL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE
Consiste in una procedura, composta da varie fasi, attraverso la quale il datore di lavoro può tutelarsi nei confronti di
una o più inadempienze del lavoratore dipendente. L’art. 7 prevede quindi una procedura di irrogazione
(imposizione di una pena) della sanzione disciplinare, finalizzata a consentire al lavoratore di difendersi di fronte alla
minaccia di un provvedimento disciplinare (diritto alla difesa).
Tale procedura si applica, anzitutto, alle sanzioni di tipo conservativo.
I passaggi sono 4:
1) LA CONTESTAZIONE DI ADDEBITO
Il datore di lavoro, una volta accertato un comportamento disciplinare rilevante, deve contestare tale fatto al
lavoratore, mediante una comunicazione scritta (in quanto devono essere formulate per iscritto le contestazioni che
sfocino in provvedimenti più gravi del rimprovero verbale), indicandone, con la maggior precisione possibile, le
circostanze materiali, di luogo e di tempo.
2) DIFESA DEL LAVORATORE
Tra la ricezione (il ricevimento) della contestazione da parte del lavoratore e l’eventuale adozione della sanzione,
deve intercorrere un termine di almeno 5 giorni, che il lavoratore può utilizzare per presentare le proprie difese, per
iscritto o oralmente. Il datore di lavoro è tenuto, a propria volta, a consentire il pieno esercizio di tale diritto di
difesa.
3) L’IRROGAZIONE DELLA SANZIONE
Se il datore ritiene inattendibili o non sufficienti le giustificazioni difensive presentate dal lavoratore oppure sia
trascorso il termine a difesa (5 giorni dalla ricezione della contestazione) senza che siano state presentate
giustificazioni, il datore può procedere, qualora rimanga convinto della responsabilità del dipendente,
all’applicazione della sanzione, tramite una comunicazione scritta inviata al dipendente.
4) IMPUGNAZIONE DELLA SANZIONE
Una volta ricevuta la sanzione, il lavoratore può impugnarla per ragioni sostanziali (esempio: insussistenza del fatto)
che procedurali (genericità o omessa affissione del codice disciplinare, mancato rispetto del termine di 5 giorni e
impedimento all’esercizio del diritto di difesa del lavoratore). L’impugnazione, che è rivolta a far valere la nullità
della sanzione, può essere proposta al giudice del lavoro, oppure presso l’Ispettorato del lavoro. In quest’ultimo caso
la sanzione disciplinare resta sospesa sino all’emissione del giudizio del collegio arbitrale (appunto, istituito presso
l’Ispettorato del lavoro).

Il procedimento disciplinare deve concludersi entro 120 giorni dalla data della contestazione dell’addebito.
Qualora non sia stato portato a termine entro tale data, il procedimento si estingue.

I requisiti fondamentali della contestazione, quale atto di impulso del potere disciplinare del datore, sono la
specificità, l’immediatezza e l’immutabilità, detti requisiti sono volti a tutelare il diritto di difesa del lavoratore.
La sanzione disciplinare deve essere immediata, deve cioè giungere al dipendente dopo non troppi giorni rispetto ai
fatti oggetto di contestazione; Secondo il principio di immutabilità della contestazione, il datore di lavoro non può
sanzionare il dipendente per fatti diversi da quelli contestati, infatti, il datore di lavoro non può licenziare per motivi
diversi da quelli contestati. Secondo il principio di specificità della contestazione disciplinare, essa deve fornire le
indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro
abbia ravvisato infrazioni disciplinari, in modo che non ci sia incertezza circa l’ambito delle questioni sulle quali il
lavoratore è chiamato a difendersi.

LA RETRIBUZIONE
RETRIBUZIONE E CORRISPETTIVITÀ NEL CONTRATTO DI LAVORO
Il contratto di lavoro subordinato ha natura corrispettiva in quanto a una determinata prestazione lavorativa
corrisponde una equivalente retribuzione, cioè si ha diritto alla retribuzione solo se si è effettivamente lavorato.
Sebbene questa sia la regola, si hanno numerose ipotesi nelle quali il lavoratore ha diritto alla retribuzione a
prescindere dall’effettuazione della prestazione di lavoro (es. malattia, maternità). In tali ipotesi, la retribuzione
assume funzione sociale, di sostegno al reddito nei momenti di particolare bisogno. La retribuzione quindi
costituisce: il principale diritto del lavoratore subordinato e il principale obbligo del datore di lavoro.

LA RETRIBUZIONE SUFFICIENTE
L’art. 36 Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo
lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
La fonte che si è assunta il compito di dare concretezza a tale proporzione è il contratto collettivo, il quale,
mediante la fissazione della retribuzione oraria o mensile (quantità) e tramite i sistemi di inquadramento
professionale (qualità), provvede ad articolare la struttura della retribuzione.

LE FONTI DELLA RETRIBUZIONE

L’ACCORDO INTERCONFEDERALE
Dettano le regole comuni, valevoli per tutti i settori produttivi, in ordine alle dinamiche produttive.

IL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI CATEGORIA (1° LIVELLO)


Ai CCNL spetta, teoricamente ogni 3 anni, la determinazione dei trattamenti minimi comuni a tutti i lavoratori di
ciascun settore produttivo, ovunque impiegati sul territorio nazionale. I CCNL del settore privato possono anche
prevedere meccanismi di progressione automatica del trattamento retributivo come scatti di anzianità o selezioni di
merito.

I CONTRATTI COLLETTIVI DI SECONDO LIVELLO


I contratti collettivi di secondo livello, cioè territoriale (regionale, provinciale, di distretto, ecc...) o aziendale, hanno
un ruolo importante, anche se non generalizzato, spesso prevedendo varie tipologie di integrazioni retributive.
La contrattazione di secondo livello non è presente in tutte le aree e realtà imprenditoriali, ed è rara in quelle medie
e piccole imprese che rappresentano la maggioranza delle imprese italiane.

IL CONTRATTO INDIVIDUALE
Viene in risalto la differenza tra lavoro pubblico e privato. Nel lavoro privato il contratto individuale è libero di
introdurre trattamenti retributivi integrativi, purché (in obbedienza al canone dell’inderogabilità in peius)
migliorativi dei minimi tabellari previsti dalla fonte collettiva (e detti per questo “superminimi”). Nel lavoro pubblico
non è prevista alcuna inderogabilità della normativa ed è imposta la parità di trattamento dei lavoratori, quindi
eventuali clausole di contratti individuali che attribuiscano trattamenti economici aggiuntivi sono nulle.

LA STRUTTURA DELLA RETRIBUZIONE


La struttura della retribuzione non è un’entità unitaria, ma contempla, accanto al nucleo centrale della retribuzione
base, una pluralità di trattamenti accessori. Questi sono previsti da norme di legge o dei contratti collettivi.
Generalmente la retribuzione si compone di due parti:
-parte diretta: è costituita principalmente dalla retribuzione base, da alcune indennità (quelle erogate
periodicamente, ogni mese/ogni 15 gg, nel momento in cui sono maturate).
-parte differita: comprende tutti quegli elementi che pur se maturati oggi, verranno erogati in futuro (ad esempio il
TFR, che matura anno per anno ma viene erogato al termine del rapporto). La tredicesima e la quattordicesima sono
mensilità aggiuntive della retribuzione del lavoratore, uno stipendio in più che arriva in occasione delle festività
natalizie (tredicesima) e nel mese di giugno/luglio (quattordicesima). La differenza sostanziale tra le due si ha nel
fatto che la tredicesima è prevista in tutti i settori, la quattordicesima solo in alcuni.
FORME DI RETRIBUZIONE
L’art.2099 contiene un'enunciazione generale delle possibili forme di retribuzione, che vale però, come mera regola
di cornice, essendo questo (forme di retribuzione), un campo in cui l’autonomia collettiva e individuale può
liberamente esplicarsi.

RETRIBUZIONE A TEMPO E A COTTIMO


Retribuzione a tempo: quella classica, viene percepita con cadenza periodica, ed è fissa perché è proporzionale alla
qualità e alla quantità di lavoro svolto. Prima era associata al concetto di salario (operai) e stipendio (impiegati).
Forma retributiva che più di tutte si adatta alla natura continuativa dell’impegno temporale del lavoratore
subordinato.
Retribuzione a cottimo: molto meno diffusa, la retribuzione è commisurata alla quantità prodotta e al rendimento
della singola prestazione, anche se non è più un cottimo “puro” bensì combinato con un minimo retributivo
garantito. È la forma principale di retribuzione variabile. Il lavoro a cottimo è quindi una forma di retribuzione per la
quale il lavoratore è remunerato in base al risultato ottenuto, anziché in base alla durata del lavoro. In pratica:
quanto produci, tanto verrai pagato.
L’art. 2100 dispone che il prestatore di lavoro deve essere retribuito secondo il sistema del cottimo quando, in
conseguenza dell’organizzazione del lavoro, è vincolato all’osservanza di un determinato ritmo produttivo, o quando
la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle misurazioni dei tempi di lavorazione.

LA RETRIBUZIONE VARIABILE
Se la retribuzione a cottimo è la forma più risalente (discendente) di retribuzione variabile, l’art.2099 comma 3,
contiene di tale tipologia (retribuzione variabile), altre specificazioni prevedendo che: il prestatore di lavoro può
anche essere retribuito in tutto o in parte, con partecipazione agli utili o ai prodotti (es. distribuzione di azione ai
lavoratori), o con provvigioni (es. percentuale sugli affari conclusi, come avviene nel rapporto di agenzia) o con
prestazioni in natura. Il tema della retribuzione variabile si sostanzia nella previsione, da parte della contrattazione
collettiva od eventualmente individuale, di compensi commisurati alla produttività del lavoratore e/o dell’impresa,
oppure alla redditività di questa.
La l. n. 208/2015 prevede che per i titolari di reddito di lavoro dipendente di importo non superiore a 80.000 euro
lordi annui, una tassazione agevolata al 10% dei premi di risultato la cui corresponsione è legata ad incrementi di
produttività, redditività, qualità, efficienze ed innovazione. Con un decreto del 2016 sono stati previsti indicatori per
misurare tali incrementi.

LA PARTECIPAZIONE AZIONARIA DEI LAVORATORI


Come ulteriore sviluppo del concetto di retribuzione variabile nelle società per azioni, è possibile che una parte
della retribuzione venga erogata tramite la distribuzione ai dipendenti della società di titoli azionari della stessa.
Il fenomeno è diffuso per i dirigenti, ai quali, oltre che azioni, sono spesso assegnati diritti di opzione per l’acquisto
di azioni, il beneficio assicurato consiste nel fatto che l’acquisto è garantito al prezzo che l’azione ha nel momento
della concessione dell’opzione, così se il prezzo sale egli potrà fruire, esercitando l’opzione, di una plusvalenza.

I TRATTAMENTI RETRIBUTIVI IN NATURA E I PROGRAMMI DI WELFARE AZIENDALE


La retribuzione può essere erogata anche sotto forma di trattamenti in natura, nella prassi detti benefit.
La retribuzione in natura consiste in prestazioni di beni o servizi di una determinata utilità erogati in favore del
lavoratore o dei suoi familiari.
È sempre più diffuso un importante fenomeno che, se non contempla necessariamente l’erogazione ai dipendenti di
trattamenti in natura in senso stretto, ne riprende però la logica ispiratrice: molte imprese, prevalentemente medio -
grandi, attuano piani di welfare aziendale, prevedenti l’erogazione ai lavoratori, direttamente o indirettamente di
varie tipologie di benefici, tra i quali: concessione in uso di un’autovettura o di un’ abitazione, contributi per spese di
istruzione a favore dei dipendenti e dei loro figli, borse di studio, ecc.

SUPER MINIMO
È la quota di retribuzione attribuita al dipendente in aggiunta al minimo contrattuale (il loro ammontare è la base al
di sotto della quale le retribuzioni dei lavoratori non devono scendere).
Per intendersi, se il contratto collettivo nazionale delle imprese metalmeccaniche prevede, per un operaio di III
livello, una paga mensile di 2.000 euro lordi e l’azienda concede all’operaio di III livello una paga mensile di 2.400
euro lordi, il superminimo sarà pari a 400 euro. Il super minimo è dunque, una forma particolare di retribuzione che
non spetta a tutti (ma ad esempio ai dirigenti, i quadri e in alcuni casi operai e impiegati specializzati), attraverso cui
il datore nel momento in cui assume il lavoratore fa un contratto individuale con il quale gli dice che anche se a lui di
norma spetterebbero 1800€ al mese, pur di averlo nella sua azienda lo pagherà 2500€ al mese. Questo pero vuol
dire che non avrà diritto ad eventuali indennità / extra, e che quando viene aggiornata la contrattazione collettiva
(ogni 3 anni) ed i livelli retributivi, probabilmente la retribuzione aumenterà per tutti, mentre la sua retribuzione non
cambierà fino a quando i rinnovi della contrattazione collettiva non arriveranno alla soglia dei 2500€.

IL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO


Una voce retributiva a sé stante è il trattamento di fine rapporto (TFR, o cd. liquidazione) previsto e disciplinato
dalla legge (art.2120 cc novellato dalla legge 297/1982) che consiste in una “forma di retribuzione differita”, che si
forma durante tutto il corso del rapporto di lavoro, ma la cui maturazione avviene nel momento della cessazione del
rapporto.

PRIMA: Era previsto l’istituto dell’indennità di anzianità, che era calcolata moltiplicando l’ultima retribuzione per gli
anni di servizio presso l’azienda, e vi era il rischio che le liquidazioni venissero gonfiate tramite incrementi artificiosi
della retribuzione negli ultimi periodi del rapporto, l’indennità di anzianità inoltre non era assicurata sempre, poiché
in alcuni casi (come licenziamento per colpa grave) non veniva corrisposta. Per il lavoro pubblico era previsto un
istituto simile chiamato indennità di buonuscita.

ORA: con il passaggio al TFR (Trattamento di Fine Rapporto), gli inconvenienti nascenti da istituti (indennità di
anzianità e di buonuscita) che non rispecchiavano fedelmente la carriera retributiva del lavoratore, sono stati
eliminati, grazie ad un nuovo meccanismo di calcolo: a favore di ciascun lavoratore, infatti, viene accantonata dal
datore di lavoro, ogni anno, una somma calcolata dividendo la retribuzione annuale per 13,5 in modo da dar luogo,
più o meno, all’accantonamento annuale di una mensilità di retribuzione. Il TFR matura, quindi, progressivamente,
man mano che il rapporto di lavoro procede. Un esempio pratico: Il dipendente Rossi ha una retribuzione annua utile
pari ad € 20mila nel 2010. Il suo TFR lordo per l’anno 2010 sarà pari a 20.000/13,5= € 1.481,48.

È importante rilevare che, per determinare la base di computo dell’accantonamento annuale, la norma detta
un’apposita nozione di retribuzione: si considera tale ogni somma percepita a titolo non occasionale dal lavoratore,
salvo diversa previsione dei contratti collettivi. Gli accantonamenti sono rivalutati ogni anno, secondo una
percentuale ancorata al costo della vita. Il TFR finale quindi, risulta essere il risultato della somma di tutti gli
accantonamenti annuali, debitamente rivalutati.
Del TFR, il dipendente non può fruire prima della cessazione del rapporto di lavoro. Egli tuttavia, ha titolo a
richiedere un'anticipazione, entro un massimo del 70% del trattamento accantonato sino a quel momento.
Sono soddisfatte annualmente le richieste di un massimo del 4% dei dipendenti, evitandosi così che il trattamento
sia richiesto simultaneamente da un numero troppo elevato di lavoratori, il che sarebbe insostenibile per il datore di
lavoro. Le causali di richiesta dell’anticipazione sono:
a) Sostenimento di spese sanitarie per terapie e interventi straordinari;
b) Acquisto della prima casa per sé e per i figli (è prevista un’anzianità pregressa di 8 anni);
c) Sostegno economico durante il periodo di fruizione del congedo parentale (periodo di astensione dal lavoro di un
genitore) o congedi formativi (i lavoratori hanno diritto ad assentarsi dal lavoro per seguire percorsi di formazione,
con la finalità di accrescere le proprie conoscenze e competenze professionali).

L’anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto di lavoro ed è detratta dal TFR.
Possono essere previste deroghe solo migliorative sull’anticipazione rispetto ai contratti collettivi.

TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO E PREVIDENZA COMPLEMENTARE (O INTEGRATIVA)


La previdenza complementare, disciplinata dal D.lgs. 5 dicembre 2005 n. 252, rappresenta il secondo pilastro del
sistema pensionistico il cui scopo è quello di integrare la previdenza di base obbligatoria o di primo pilastro.
Essa ha come obiettivo quello di concorrere ad assicurare al lavoratore, per il futuro, un livello adeguato di tutela
pensionistica.
Scegliere di fare previdenza complementare significa investire il proprio TFR.
Con il d.lgs. n.252/2005 è stata prevista la tendenziale destinazione degli accantonamenti per TFR ai fondi pensione
con il consenso del dipendente. Opera il silenzio-assenso: entro 6 mesi dall’assunzione il dipendente che vuole
mantenere il TFR presso l’azienda deve comunicarlo formalmente sottoscrivendo un apposito modulo, in difetto il
TFR maturando è devoluto ad un fondo pensione previsto dalla legge. Ma nel 2006 è stato stabilito che le imprese
con almeno 50 dipendenti devono versare ad un apposito fondo di tesoreria presso l’Inps le quote di TFR maturate e
mantenute nell’impresa per volontà dei dipendenti.
• La previdenza obbligatoria corrisponde al sistema pubblico di previdenza, ovvero al modo in cui lo Stato italiano
garantisce il mantenimento del benessere dei cittadini una volta che questi ultimi hanno raggiunto l'età del
pensionamento. Attraverso la previdenza obbligatoria, quindi, lo Stato intende garantire a tutti i cittadini che hanno
raggiunto l'età pensionabile un tenore di vita minimo a prescindere da quale sia stato il lavoro svolto nella vita.
• La previdenza complementare, conosciuta anche come previdenza integrativa, non va a sostituire la previdenza
obbligatoria ma si integra ad essa. L'obiettivo di questa tipologia di previdenza è quello di integrare con una ulteriore
somma di denaro le prestazioni pensionistiche obbligatorie al momento dell'età pensionabile di un lavoratore.

LA TUTELA DEL CREDITO DI LAVORO

IL PAGAMENTO DELLA RETRIBUZIONE E LA BUSTA PAGA


Il pagamento della retribuzione al lavoratore è effettuato, quasi ovunque, tramite bonifico bancario e con cadenza
mensile, cioè o a fine mese o all’inizio del mese successivo a quello di paga.
Nella busta paga che viene consegnata al lavoratore è dato conto in maniera analitica delle varie voci di cui si
compone la retribuzione (ivi compreso nell’ultima busta paga, il TFR).
La busta paga è quindi un prospetto che il lavoratore riceve, contestualmente al pagamento della retribuzione, nel
quale sono indicate le competenze (le somme spettanti al lavoratore) e le trattenute (gli importi che devono essere
sottratti al lavoratore, come le tasse e i contributi a suo carico) relative a un determinato periodo (solitamente pari a
un mese), in base alle disposizioni del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato.

LA PRESCRIZIONE DEL CREDITO RETRIBUTIVO


Il credito retributivo, o credito da lavoro, è la somma delle retribuzioni maturate dal lavoratore in mesi o anni di
lavoro che il datore di lavoro non gli ha corrisposto.
La prescrizione è quel meccanismo legale per cui il titolare di un diritto (in questo caso il lavoratore che ha diritto a
ricevere il credito retributivo) deve farlo valere entro un certo arco temporale altrimenti il suo diritto si estingue.
Prima l’Art. 18 l. n. 300/1970 prevedeva per i diritti retributivi dei lavoratori subordinati, un particolare regime di
prescrizione estintiva (la cui durata è di 5 anni, a partire dal giorno della loro maturazione).
Ora la legge Fornero ha modificato l’art. 18, affermando che il decorso della prescrizione di tutti i diritti retributivi
dei lavoratori subordinati si deve ritenere bloccato fino al momento di cessazione del rapporto di lavoro.

LE GARANZIE DEL CREDITO RETRIBUTIVO


Infine sono da prendere in esame, gli ulteriori aspetti della tutela “privilegiata” del credito di lavoro:
-in caso di ritardo nel pagamento, le somme dovute ai lavoratori subordinati debbono essere automaticamente
rivalutate in relazione alle perdite di valore della moneta come misurato dall’indice ISTAT e sulla somma rivalutata
debbono essere riconosciuti gli interessi nella misura legale.
-i crediti di lavoro dei lavoratori subordinati, sono assistiti da un “privilegio generale sui beni mobili del datore di
lavoro” che li fa preferire, in caso di insolvenza dell’impresa (insufficienza della garanzia offerta dal suo patrimonio)
ad altre categorie di creditori.
-i crediti retributivi relativi agli ultimi 3 mesi del rapporto di lavoro, qualora tali mesi siano compresi nei 12 mesi
precedenti l’insorgere dello stato di insolvenza dell’impresa, e relativi al TFR dovuto dall’impresa insolvente, possono
essere pagati al lavoratore da un Fondo di Garanzia costituito presso l’INPS, il quale ha poi titolo a rivalersi verso
l’impresa insolvente. Grazie alla creazione del fondo di garanzia quindi, il lavoratore, accertati i requisiti necessari,
può far valere il suo diritto a ricevere le retribuzioni maturate, ma non pagate. Il Fondo di garanzia istituito presso
l’INPS, quindi, si sostituisce al datore di lavoro inadempiente.
-il credito di lavoro è “limitatamente” pignorabile a istanza di terzi creditori: esso può essere pignorato per crediti
alimentari solo nella misura stabilita dal giudice dell’esecuzione, mentre per gli altri crediti nella misura di 1/5.
LA TUTELA DELLA PERSONA SUL LAVORO
L’OBBLIGO DI SICUREZZA
Al di là della protezione spettante ai lavoratori che si ammalano e si infortunano per fattori esterni, i numerosi
fattori di rischio presenti sul posto di lavoro, rendono altamente possibile che una malattia o un infortunio, trovino
causa (o concausa) nell’ambiente di lavoro. Ancor prima della tutela successiva al verificarsi dell’evento lesivo,
quindi, l'esigenza primaria è quella di prevenire tali eventi. A tale finalità è rivolto l'art 2087 secondo il quale: “il
datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica,
sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”.
Tale articolo dunque stabilisce, a carico del datore, un “obbligo di sicurezza”, inserito nel contesto obbligatorio del
contratto di lavoro subordinato ed al quale non può che corrispondere, un diritto soggettivo da parte del lavoratore.
Ne discende che l’omessa o incompleta adozione delle misure di sicurezza dovute, ingenera, in capo al datore, una
responsabilità di natura contrattuale.
L'obbligo di sicurezza a sua volta necessità di una forte “specificazione tecnica”, al fine di far emergere le concrete
misure di prevenzione che, nei diversi lavori e contesti, l’imprenditore deve considerarsi tenuto ad adottare, in
quanto necessarie a proteggere l’integrità fisica del lavoratore.

Tale specificazione è stata operata da una serie di normative che hanno dato vita, col tempo, ad un ricco corpus di
regole tecniche, che sono oggi contenute, in prevalenza, nel Testo unico della sicurezza. Ma l’obbligo di sicurezza è
stato capace di proiettarsi al di là del rispetto delle regole positivamente previste.
La giurisprudenza ha interpretato il contenuto dell’Art. 2087 traendone il canone della massima sicurezza
tecnologicamente fattibile, in virtù del quale l’imprenditore non può ritenersi adempiente se non adotta anche misure
ulteriori rispetto a quelle prescritte, qualora esse risultino necessarie, secondo gli standard tecnici più aggiornati, a
garantire ai lavoratori condizioni di piena sicurezza.

La giurisprudenza addossa all’imprenditore la responsabilità di un infortunio sul lavoro per culpa in vigilando (non
aver vigilato a sufficienza affinché non si producesse l’infortunio) e per culpa in eligendo (non aver scelto
collaboratori capaci di impedire l’evento).
L’unico limite alla responsabilità del datore di lavoro finisce con l’essere ravvisato nell’ipotesi in cui l’infortunio si
sia verificato come conseguenza di un rischio elettivo, ossia una causa imprevedibile o imprudenza del lavoratore, e
quindi completamente fuori dal controllo del datore di lavoro.

Durante la pandemia da Covid 19 ci si è chiesti in quali casi il datore di lavoro può essere considerato responsabile
della contrazione del virus da parte di un lavoratore, sul posto di lavoro (ammesso e concesso che ciò è difficilmente
provabile). I principali partner sociali (Confindustria e CGIL-CISL-UIL) hanno elaborato e stipulato, il 24 Marzo 2020
il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus
Covid-19 negli ambienti di lavoro” che indica tutte le più avanzate misure di sicurezza previste in materia: controllo
della temperatura, sanificazione periodica, distanziamento sociale, divieto di assembramento, utilizzo delle
mascherine...I datori di lavoro pubblici e privati che siano in regola con le prescrizioni del Protocollo debbono
ritenersi adempienti all’obbligo di sicurezza dunque non perseguibili nel caso di un contagio verificatosi sul lavoro.

IL SISTEMA DELLA SICUREZZA SUL LAVORO


La normativa sull’obbligo di sicurezza ex art.2087 denunciava lacune assai vistose: essa, infatti rimaneva affidata
all’efficacia dissuasiva della sanzione penale (resp. penale), ma era vistosamente carente dal punto di vista
dell’organizzazione concreta della prevenzione in azienda.
L’esigenza di modernizzazione della disciplina, giunse a condensarsi nella Direttiva Quadro Comunitaria del 1989,
attuata in Italia con l’emanazione del d.lgs. n.626/1994, basato su una logica di prevenzione.
Tutela della salute nel D.lgs. 626/1994: In tema di sicurezza del lavoro la normativa più importante emanata
all’interno del nostro ordinamento è sicuramente rappresentata dal D.lgs. 626/1994 emanato in attuazione della
direttiva-quadro europea 391/1989. Il decreto introduce importanti novità in materia: i rischi devono essere valutati
e ridotti al minimo dal datore di lavoro e deve essere attuata una prevenzione continua, la quale miri ad informare i
lavoratori dei rischi della propria attività (diritto all’informazione), obbligando il datore alla nomina di uno o più
rappresentanti per la sicurezza che conoscano l’ambiente di lavoro e contribuiscano alla riduzione degli stessi.
La ricerca di ulteriori miglioramenti, ha in seguito portato all’emanazione del decreto lgs. n.81 del 2008 (corretto in
varie occasioni) noto come Testo Unico sulla Sicurezza.
L’AMBITO DI APPLICAZIONE DEL TU SICUREZZA
Il TU sulla sicurezza, ha innanzitutto un ambito soggettivo di applicazione molto ampio.
-Dal lato del lavoratore: il TU sicurezza si applica non soltanto al lavoratore subordinato in senso proprio, ma a
“qualunque persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito
dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di
apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari”. E si applica
anche al collaboratore coordinato e continuativo, ove la prestazione si svolga nei luoghi di lavoro del committente; il
socio lavoratore di cooperativa di produzione e lavoro o di società; il lavoratore in tirocinio formativo e di
orientamento. Non si applica al lavoratore domestico.
-Dal lato del datore di lavoro: ai fini della normativa in esame esso, non è soltanto il titolare del rapporto di lavoro
con il lavoratore, ma, più ampiamente, “il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito
il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva, in
quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”; ed ha quindi il potere di incidere sull’assetto della sicurezza.

È previsto che il datore di lavoro possa delegare ad altro dipendente le proprie funzioni in materia di sicurezza del
lavoro. I requisiti della delega per essere valida:
a) Il delegato deve possedere tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla natura delle funzioni
delegate e gli siano attribuiti i poteri di organizzazione, gestione e controllo necessari e autonomia di spesa.
b) La delega dev’essere accettata per iscritto dal delegato che da quel momento risulterà responsabile penalmente
in caso di inadempimento.
c) Al delegato non gli possono essere delegate: la valutazione dei rischi e l’elaborazione del relativo documento; la
designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi.

GLI OBBLIGHI DI SICUREZZA


Sono dettate misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, tra le quali:
- l’eliminazione dei rischi o in subordine la loro riduzione al minimo;
- la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso;
- la limitazione al minimo del numero dei lavoratori esposti al rischio;
- il controllo sanitario dei lavoratori;
L’obbligo più importante del datore di lavoro, non delegabile a terzi, ha ad oggetto l’effettuazione della
valutazione dei rischi, che si concretizza nell’elaborazione del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR).
Il DVR deve contenere:
- una relazione analitica sulla valutazione di tutti i rischi esistenti nell’ambiente di lavoro;
- l’indicazione delle misure di prevenzione e protezione adottate e dei dispositivi di protezione individuali adottati;
- il programma delle misure di miglioramento;
- la designazione del RESPONSABILE DEL SERVIZIO DI PREVENZIONE E PROTEZIONE DAI RISCHI PROFESSIONALI;
- l’individuazione delle mansioni che comportano rischi specifici.
La valutazione dei rischi deve essere effettuata periodicamente (in caso di nuova impresa, entro 90 giorni dall’inizio
dell’attività) e deve essere rielaborata ogni volta che si verificano modifiche al processo produttivo o
all’organizzazione del lavoro, che possano ritenersi significative ai fini della salute o della sicurezza dei lavoratori, o
quando la sorveglianza sanitaria dei lavoratori ne evidenzi la necessità.

IL SERVIZIO DI PREVENZIONE E PROTEZIONE DAI RISCHI


Ai fini dell’organizzazione concreta della prevenzione il datore di lavoro si avvale di un servizio di prevenzione e
protezione dai rischi professionali, istituito obbligatoriamente all’interno dell’azienda con dipendenti forniti delle
necessarie competenze professionali, oppure all’esterno con ricorso all’opera di professionisti specializzati.
Al servizio è preposto un responsabile, che però ha prevalentemente un ruolo organizzativo.

IL MEDICO COMPETENTE E LA GESTIONE DELLE EMERGENZE


È molto importante inoltre, “l’attività di sorveglianza sanitaria”, incentrata sulla figura del medico competente (che
può essere o un dipendente o un professionista esterno) il quale:
-costituisce il referente e collaboratore medico specialistico del datore di lavoro, per tutto quello che attiene alla
tutela della salute e sicurezza dei lavoratori;
-effettua le varie tipologie di visita medica ai lavoratori: visite preventive in fase pre-assuntiva; visite mediche
periodiche per controllare lo stato di idoneità dei lavoratori; visite mediche su richiesta dei lavoratori.
Un'apposita procedura di sicurezza dev’essere predisposta, per la “gestione delle emergenze”, inclusi i
provvedimenti di primo soccorso e la prevenzione degli incendi. l lavoratore che, in caso di pericolo grave,
immediato e che non può essere evitato, si allontana dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, deve essere
protetto da qualsiasi conseguenza dannosa.

IL RAPPRESENTANTE DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA (RLS)


L’ R.L.S. è una persona (ovvero delle persone), che viene eletta o designata per rappresentare i lavoratori sugli
aspetti della salute e della sicurezza sul lavoro (artt. 37, 47, 50 Dlgs. 81/2008).
Il sistema contempla anche la “consultazione e partecipazione dei lavoratori tramite loro rappresentanti”.
A tal fine è istituito, in ciascuna azienda o unità produttiva, il “rappresentate dei lavorati per la sicurezza (RSL).
-Nelle aziende o unità produttive che occupano fino a 15 lavoratori il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è
eletto direttamente dai lavoratori al loro interno.
-Nelle aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è eletto o
designato dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda. In assenza di tali rappresentanze, il
rappresentante è eletto dai lavoratori della azienda al loro interno.
Il numero e le modalità di designazione/elezione del RSL, sono previsti in sede di contrattazione collettiva, ma
entro, però, una soglia minima stabilita dalla legge: 1 RSL nelle aziende/unità sino a 200 lavoratori; 3 RSL nelle
aziende/unità con dipendenti tra 201 e 1000; 6 RSL nelle aziende/unità che hanno più di 1000 lavoratori.
Fatto salvo quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, l’art.50 del TU sulla sicurezza (decr.lgs.81 /2008)
prevede una serie di attribuzioni del RSL: accede ai luoghi di lavoro, è consultato preventivamente per la valutazione
dei rischi, riceve tutte le informazioni dai servizi di vigilanza, promuove, individua e attua misure di prevenzione e può
rivolgersi alle autorità qualora ritenga che le misure di prevenzione adottate dal datore di lavoro non siano idonee.

IL DOVERE DI SICUREZZA E I DIRITTI DEL LAVORATORE ALL’INFORMAZIONE E ALLA FORMAZIONE


Il sistema prevede infine, il coinvolgimento diretto dei lavoratori, al fine della diffusione capillare di una “cultura di
sicurezza”. Gli obblighi dei lavoratori in materia di sicurezza, sono scanditi dall’art. 20 del TU, a partire dal “dovere
generale” posto in capo a ciascun lavoratore, di “prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre
persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni...”.
Nel particolare, i lavoratori devono: contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti,
all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro; osservare le disposizioni e
le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed
individuale; utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, i mezzi di trasporto, ed i dispositivi di sicurezza delle
macchine; utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione; segnalare
immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto la presenza di eventuali rischi; sottoporsi alle visite
sanitarie. Da qui la previsione, a favore dei lavoratori, del “diritto a ricevere un'informazione (sui rischi dell’attività
d’impresa e sulle misure di prevenzione adottate) e una formazione (sui concetti di base del sistema di sicurezza e sui
rischi e le misure di prevenzione) adeguate”. Il sistema è suggellato dalla previsione di sanzioni penali per
l’inosservanza dei vari obblighi.

LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO E L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO E LE
MALATTIE PROFESSIONALI
Nonostante le varie misure predisposte dal “TU sulla Sicurezza”, accade fin troppo di frequente che si
verifichino eventi lesivi della salute e della sicurezza del lavoratore. In questi casi, il lavoratore, può proporre
azione giudiziale per far valere la responsabilità contrattuale o al limite extracontrattuale del datore di lavoro,
e domandare cosi il risarcimento dei danni patiti, come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento
del datore. L’omessa o incompleta adozione delle misure di sicurezza dovute comporta, in capo al datore di lavoro,
una responsabilità di natura contrattuale. La lesione al diritto alla salute (Art. 32 cost.) comporta una responsabilità
extracontrattuale.
Il lavoratore dovrà allegare e provare l’inadempimento posto in essere dal datore di lavoro, il quale per liberarsi
dalla responsabilità dovrà provare che l’inadempimento sia stato determinato da causa a lui non imputabile.
Questa azione di responsabilità promossa dal lavoratore è diretta a rivendicare il risarcimento al danno biologico
patito quale conseguenza dell’inadempimento.
L’azione giudiziale risarcitoria del lavoratore, si inserisce, però, in un sistema che prevede che ciascun lavoratore “a
rischio” sia obbligatoriamente assicurato, con premio a carico del datore di lavoro, presso l’INAIL, ente gestore
“dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”. L’INAIL, corrisponde al lavoratore
infortunato o colpito da malattia professionale, anzitutto, un'indennità per “inabilità temporanea”, tale da
compensare in buona parte la retribuzione perduta nel periodo in cui egli è impossibilitato a lavorare.
Se poi l’infortunio o la malattia professionale abbia provocato un “inabilità permanente”, che può essere parziale o
totale, il lavoratore ha titolo ad una rendita, non sottoposta a limiti temporali, ed anche essa commisurata al
trattamento retributivo goduto.
Sarà l’Inail ad erogare le indennità sino al momento in cui non viene accertata dal giudice civile la responsabilità
penale e civile del datore del lavoro. Dall’accertamento potranno aversi:
a) Da parte del lavoratore, un’azione di responsabilità rivolta a richiedere il risarcimento dei danni non coperti dal
meccanismo assicurativo dell’Inail e cioè dei danni complementari (morale/esistenziale) e differenziali.
b) Da parte dell’INAIL, un’azione di regresso finalizzata a richiedere al datore di lavoro il rimborso delle somme
corrisposte già al lavoratore durante il periodo di inabilità lavorativa.

IL MOBBING
L’art. 2087 impone al datore di lavoro di proteggere, oltre all’integrità fisica, la personalità morale del lavoratore.
La parola mobbing deriva dal verbo inglese to mob (che significa “aggredire, attaccare”), un’espressione della
scienza etologica (o biologia comportamentale, che è la branca della biologia e della zoologia che studia il
comportamento animale) che allude (sottintende) al comportamento di quei branchi di animali che emarginano un
componente, mettendolo in una situazione di disagio o sofferenza. Il termine mobbing nel diritto del lavoro è usato
per designare “quegli atti o quelle vere e proprie strategie di vessazione o persecuzione psicologica che, o il datore di
lavoro direttamente, o i colleghi di lavoro, pongano in essere nei confronti di un lavoratore”.
Con il termine vessazione si indica un comportamento caratterizzato da costanti maltrattamenti fisici, psicologici e
costrittivi esercitati su persone più deboli, indifese, incapaci di reagire efficacemente alle vessazioni (maltrattamenti)
subite. Si ha mobbing quando sono commessi a danno di un lavoratore, in modo sistematico o comunque prolungati
per un certo periodo di tempo (orientativamente 6 mesi) atti o comportamenti vessatori o persecutori, tali da far
corpo ad una strategia di emarginazione, che comportano mortificazione morale o emarginazione del dipendente,
con effetto lesivo del suo equilibrio psico-fisico.
Quindi per avere mobbing sono necessari:
a) La molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio.
b) Evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente.
c) Il nesso tra condotta del datore e pregiudizio dell’integrità psico-fisica del lavoratore.
d) Prova dell’intento persecutorio.
La giurisprudenza ha previsto una forma più lieve di mobbing, il cd. Straining nella quale non si riscontra il carattere
della continuità delle azioni vessatorie, ma esse sono comunque lesive dell’integrità psico-fisica del lavoratore.
Il mobbing può essere posto in essere dai superiori gerarchici del lavoratore o dal datore di lavoro stesso (mobbing
verticale) o dai colleghi di lavoro (mobbing orizzontale).
Nel caso che l’illecito in oggetto sia accertato dal giudice, il lavoratore ha titolo al risarcimento dei danni per
violazione dell’art. 2087 cc e quindi per responsabilità contrattuale: diretta nel mobbing verticale, indiretta (per
omessa vigilanza) nel mobbing orizzontale.

LE MOLESTIE SESSUALI SUL LAVORO


L’art.26 comma 2 del decreto lgs. 198 del 2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) ha cosi definito il
concetto di molestia sessuale: sono inoltre considerate discriminazioni, le molestie sessuali, ovvero quei
comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo
o l'effetto di violare la dignità del lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o
offensivo. Tale nozione si incentra sul carattere “indesiderato” dell’atto a sfondo sessuale. È quindi sovrana, almeno
sulla carta, la “rappresentazione soggettiva della vittima”.
Il lavoratore vittima può richiedere al giudice il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, collegato alla
lesione della dignità e della libertà sessuale. Se dalla condotta molesta sono derivate ripercussioni sullo stato di
salute, è inoltre risarcibile il danno biologico.
Il datore di lavoro può essere chiamato, come nel mobbing, a rispondere indirettamente (per omessa vigilanza) delle
molestie subite dalla vittima ad opera dei colleghi, qualora non abbia fatto ciò che era ragionevolmente necessario e
possibile per prevenirle. Dopo la denunzia di molestie sessuali, la vittima non potrà essere trasferita, licenziata o
demansionata.
Uno strumento utile è l’istituzione di un consigliere di fiducia, cui le persone vittime di molestie possono rivolgersi
per avere sostegni e consigli su come affrontare al meglio la sgradevole situazione.
EGUAGLIANZA E DISCRIMINAZIONI
L’EGUAGLIANZA NEL DIRITTO DEL LAVORO
L’uguaglianza tra datori di lavoro e lavoratori è un principio fondamentale del diritto del lavoro. Domanda esame:
esiste nel nostro ordinamento un diritto dei lavoratori ad essere trattati egualmente? No, non esiste perché il datore
di lavoro può trattare i lavoratori in modo diverso, (ad esempio può concedere un aumento ad un lavoratore senza
concederlo per forza anche agli altri) ma con il limite del divieto di discriminazione.

DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE E PARITÀ DI TRATTAMENTO


Quindi, un datore di lavoro è libero di attribuire aumenti ad personam ad alcuni dipendenti e non ad altri, senza
essere tenuto a motivare le ragioni di tale trattamento, purché non giunga a violare i doveri generali di correttezza e
di buona fede. La regola positiva di non discriminazione ha una portata più ristretta e mirata della regola di parità,
giacché si limita a proibire quelle diversità di trattamento, fra lavoratori e gruppi di lavoratori, che sono determinate
da certi fattori, sui quali l’ordinamento non consente differenziazioni, come le libertà fondamentali (manifestazione
del pensiero, religiosa, politica, sindacale...). La sanzione applicabile, in caso di violazione dei divieti di
discriminazione, non può che consistere in un’irrimediabile illiceità.

LA DISCRIMINAZIONE DI GENERE
La più nota e importante delle discriminazioni illecite è quella per sesso o genere.
Già nella Costituzione è stato posto un primo divieto di discriminazione a tal riguardo, laddove l'art 37 cost.
stabilisce che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al
lavoratore. Inizialmente vi fu chi sostenne che la locazione “a parità di lavoro” giustificasse la possibilità di pagare
le donne in modo inferiore, e questo supponendosi che le donne rendessero meno degli uomini.
Attualmente, queste interpretazioni regressive del disposto sono state superate. Ma successivamente altre riforme
come il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna hanno confermato il divieto di discriminazione per genere.
Art. 25 c.1: La discriminazione diretta di genere è definita come “qualsiasi atto, patto o comportamento che produca
un effetto pregiudizievole, discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso rispetto a un’altra
lavoratrice o un altro lavoratore in situazione analoga”. Un esempio classico di discriminazione diretta è la mancata
assunzione di una lavoratrice perché incinta.
c. 2: La discriminazione indiretta si ha “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un
comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una
posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo
svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano
appropriati e necessari”. Per esempio, stabilire che uomini e donne devono avere un’altezza minima di 170 cm per
entrare nelle forze armate è un parametro apparentemente neutro (si applica indistintamente a entrambi i sessi);
mette però le donne in una situazione di svantaggio di fatto perché l’altezza media per le donne è inferiore ai 170
cm, mentre per gli uomini è superiore. Si tratta quindi di un esempio di discriminazione indiretta che è stato rilevato
nell’ordinamento italiano e sostituito con la previsione di altezze minime diverse per uomini e donne.

Costituisce discriminazione anche ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, maternità
o paternità; in ragione dello stato matrimoniale o di famiglia e ciò vale anche per l’accesso agli impieghi pubblici.
Detto ciò, il problema fondamentale che affligge la normativa è la difficoltà di provare la discriminazione, il
cui onere è a carico di chi afferma di averla subita (la vittima). Tale onere è alleggerito però dalla regola, posta
dall’art. 40 del Codice, in base al quale: quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di
carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai
trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e
concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso,
spetta al convenuto (il soggetto contro il quale l'attore (soggetto attivo) esercita un'azione legale), in questo caso al
datore di lavoro, l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione.
Sono previsti infine, oltre a quelli ordinari, particolari strumenti di tutela giurisdizionale, per tutelare il lavoratore, e
soprattutto la lavoratrice, vittime di discriminazioni di genere. Tra di essi è inclusa la proponibilità di un'azione
giudiziale da parte di una figura istituzionale molto importante per la lotta alle discriminazioni e la promozione delle
pari opportunità sul territorio, la cd. Consigliera (o Consigliere) di Parità, ramificata a livello nazionale, regionale e
provinciale. Tale figura può agire sia su delega della persona interessata (offesa) per contrastare le discriminazioni
individuali e sia in via diretta contro le discriminazioni collettive.
Per quanto riguarda i rimedi sanzionatori, a quelli ordinari, si aggiunga che una volta accertata la discriminazione,
ed adottati i provvedimenti volti a rimuovere gli effetti per il passato, il giudice può ordinare all’autore delle
discriminazioni, di definire un “piano di rimozione” delle stesse per il futuro. In varie ipotesi di violazione della
normativa, infine, sono previste sanzioni amministrative e penali.

DISCRIMINAZIONI PER RAGIONI POLITICHE, RAZZA, ETNIA, LINGUA, CITTADINANZA/NAZIONALITÀ, RELIGIONE,


CONVINZIONI PERSONALI, HANDICAP, ETÀ, ORIENTAMENTO SESSUALE
Oltre al divieto di discriminazione sulla base del “genere”, l’ordinamento prevede inoltre, numerosi altri divieti di
discriminazione.
Tra i più risalenti, il divieto di discriminazione per “ragioni politiche”. In una stagione successiva, sono state prese in
considerazione, sempre in chiave di divieto, anche le discriminazioni “per razza o per origine etnica” (decreto lgs.
215/2003 e il cd. TU sull’immigrazione cioè il decreto lgs. 286/1998 ove si fa riferimento, come fattori di
discriminazione, all’appartenenza ad un gruppo linguistico ed alla cittadinanza o nazionalità) e le discriminazioni “per
religione, convinzioni personali, handicap, età, e orientamento sessuale”.
Per tutti questi altri tipi di discriminazione esistono normative di riferimento, eccezioni del caso (ad esempio non è
discriminazione vietare l’uso del velo) ed azioni impugnabili dalla vittima delle discriminazioni.
Non costituiscono atti di discriminazione quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla
razza o all’origine etnica, alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di
una persona, qualora, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di
caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante, ai fini dello svolgimento dell’attività
medesima. Nel quadro della tutela è prevista, nella logica di agevolazione del lavoratore che si assume vittima di
discriminazione (già incontrata a proposito della discriminazione di genere) una parziale inversione dell’onere della
prova: quando il lavoratore fornisce, con il ricorso in giudizio, dati di carattere statistico, idonei a fondare la
presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al datore di lavoro convenuto l’onere
di provare di non aver commesso la discriminazione lamentata.

AZIONI POSITIVE
Le politiche di pari opportunità sono completate da quelle normative che introducono misure di diritto diseguale: si
tratta di norme a protezione di gruppi o categorie caratterizzati da una diseguaglianza di partenza, che quelle misure
sono rivolte a compensare. Simili normative hanno come destinatarie soprattutto due categorie di lavoratori: le
persone con disabilità e le donne.
Le azioni positive, nei confronti delle lavoratrici consistono in misure volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto
impediscono la realizzazione di pari opportunità, nell'ambito della competenza statale, e che sono dirette a favorire
l'occupazione femminile e realizzare l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro (art.42 comma 1 del
Codice delle pari opportunità).
Tali azioni si propongono, tra gli altri, gli scopi di: eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale,
nell'accesso al lavoro e nella progressione di carriera.
Le azioni positive potrebbero spingersi a prevedere “quote obbligatorie” riservate alle donne, sia nelle assunzioni
(anche pubbliche) che nelle promozioni; specie in settori ove esse siano sottorappresentate.

LE SOSPENSIONI DEL LAVORO

LA SOSPENSIONE DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO


In passato, i giuristi facevano coincidere la sospensione del lavoro con l’inattività del rapporto di lavoro.
Successivamente, però, gli studiosi si sono resi conto che, anche in caso di sospensione, il rapporto di lavoro continua
a produrre effetti giuridici, incluso quello economico.
La sospensione, quindi, non attiene al rapporto di lavoro, bensì alla prestazione che ne è oggetto.
Gli istituti che ammettono la sospensione del lavoro sono numerosi. In generale, essa sussiste quando viene
modificato il normale andamento del rapporto di lavoro al fine di favorire lo svolgimento di interessi o iniziative del
beneficiario (lavoratore). Alcuni di questi interessi scaturiscono dalla necessità, ad esempio la malattia e il servizio
militare; altri, come la maternità, derivano da una libera scelta del lavoratore.
Gli interessi legati a scelte o a condizioni personale del lavoratore, prevalgono sull’interesse dell’imprenditore, sino
al punto di addossare a quest’ultimo l’obbligo di finanziare lo svolgimento di alcune delle attività in questione.

MALATTIA E INFORTUNIO
Nella disciplina della malattia (comune o professionale) e dell’infortunio (lavorativo o extra-lavorativo) il bene del
lavoratore che viene protetto, come diritto fondamentale ex art. 32 Cost., è ovviamente la salute.
La disciplina attuale è incentrata sull’art.2110cc., il quale però, si affida ampiamente, attraverso clausole di rinvio,
alla contrattazione collettiva.

NOZIONE DI MALATTIA E INFORTUNIO


L’art. 2110 cc. non definisce tuttavia, né la malattia e né l’infortunio. Secondo il linguaggio clinico, è malattia
qualsiasi alterazione, anche minima (es. raffreddore), dello stato di salute. Ora, se tale concetto fosse integralmente
applicabile al rapporto di lavoro, sarebbe troppo facile sottrarsi all’obbligo lavorativo. Da qui l’opportunità di
disporre di una nozione di malattia più circoscritta, cioè quella per cui, si intende malattia, ai fini del rapporto di
lavoro, uno stato patologico tale da determinare, nel lavoratore, una condizione di incapacità al lavoro normalmente
espletato (svolto). È affetto da malattia quindi, il lavoratore che è in assoluto impedito a lavorare o che, cmq, non è
ragionevolmente in grado di farlo senza apprezzabili disagi o sofferenze fisiche/psichiche, o aggravamenti del proprio
stato di salute. Tale definizione vale anche per l’infortunio, con l’unica differenza, che la causa di tale evento è
“violenta”, cioè traumatica.
La malattia può essere professionale (di competenza dell’Inail) o comune (di competenza Inps); l’infortunio può
essere extra lavorativo (Inps) o sul lavoro (Inail).
Sia per la malattia che per l’infortunio, deve trattarsi di una condizione inabilitante temporanea, poiché se fosse
definitiva si ricade nell’ipotesi dell’inidoneità fisica o psichica, alla quale non si applica la disciplina della malattia, ma
che giustifica il licenziamento per motivo oggettivo, a condizione che sia stata esclusa la possibilità di recuperarlo (il
lavoratore) in altre mansioni (obbligo di ripescaggio).
Il datore di lavoro è spesso costretto a prendere per buona la certificazione proveniente dal medico del lavoratore.
Egli può contestarne l’attendibilità qualora abbia a disposizione informazioni e riscontri in merito allo svolgimento,
da parte del lavoratore assente per malattia o infortunio, di attività lavorative, sportive, ricreative, ecc., che siano
incompatibili sotto il profilo della salute, con lo stato di inabilità denunciato.
Il lavoratore malato o infortunato è tenuto, infatti, a non svolgere attività che dimostrino che egli non è realmente
inabile al lavoro o che comportino un aggravamento del suo stato di salute. Se non osserva tali doveri di condotta, il
lavoratore è passibile di sanzioni disciplinari per assenza ingiustificata dal lavoro (nel caso di malattia risultata
insussistente), o per la violazione dei doveri di correttezza e buona fede (nel caso di aggravamento della malattia).

COMUNICAZIONE E CERTIFICAZIONE
L’accertamento sanitario della malattia/infortunio avviene in due fasi:
1) quella della comunicazione e certificazione della malattia da parte del lavoratore;
2) e quella del controllo vero e proprio dello stesso attraverso gli strumenti riconosciuti dall’ordinamento.

1) Il lavoratore ha l’obbligo comunicazione immediata dell’assenza per malattia o infortunio (per permettere al
datore di organizzare diversamente il lavoro); successivamente ci dev’essere l'invio della certificazione medica di
malattia per via telematica all’INPS. L’INPS trattiene il certificato ad esso indirizzato (con diagnosi e prognosi), e
rende disponibile al datore di lavoro quello a lui destinato (contenente la sola prognosi per ragioni di riservatezza).
In caso di violazione di questi obblighi, l’assenza dal lavoro può essere considerata ingiustificata ai fini retributivi
(non viene retribuito) e ai fini disciplinari (sanzione disciplinare conservativa o estintiva a seconda del periodo di
assenza).

NB: la diagnosi permette al medico di capire che patologia ha il paziente, mentre la prognosi permette al medico di
fare una previsione sulla possibilità o meno di guarire del paziente e sui possibili tempi di guarigione.

2) IL CONTROLLO SANITARIO
Una volta ricevuta la certificazione, il datore di lavoro può accettarla o verificarla tramite una visita medica di
controllo. L’art. 5 l. n. 300/1970 prevede che la visita può essere effettuata solo avvalendosi, non di medici di fiducia
del datore, ma di medici “pubblici”, cioè tendenzialmente imparziali.
Per rendere i controlli tempestivi ed efficaci, è previsto che essi avvengano nelle fasce orarie di reperibilità
giornaliera (dalle 10 alle 12, dalle 17 alle 19, giorni festivi e non lavorativi inclusi) durante la quale il lavoratore è
contrattualmente obbligato a essere reperibile e disponibile al controllo, presso il proprio domicilio, fatto salvo
giustificato motivo di assenza (ad. es. la necessità di uscire di casa per sottoporsi ad una visita medica).
Il lavoratore non reperito al domicilio durante le fasce, senza giustificato motivo, subisce una riduzione del
trattamento retributivo di malattia, nella misura del 100% per i primi 10 giorni, e del 50% per i giorni successivi al
10°. Oltre il 10° giorno la sanzione è irrogabile solo in caso di seconda assenza domiciliare non giustificata.
A seguito della visita, il medico di controllo può confermare la prognosi del medico privato, oppure negarla o
ridurla. Un diverso regime vale, a proposito del controllo, per le ipotesi di malattia professionale e di infortunio sul
lavoro, nelle quali il lavoratore, non tenuto a rispettare le fasce orarie di reperibilità, è convocato dall’INAIL per
sottoporsi alla visita di controllo, che è la condizione affinché sia riconosciuto dall’ente.

IL REGIME DI CONSERVAZIONE DEL POSTO E IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE MALATO


Oltre alle tutele che abbiamo già esaminato, il lavoratore in malattia gode di un’altra forma di protezione. Egli,
infatti, non può essere licenziato durante la malattia per un periodo massimo di tempo detto periodo di comporto.
La legge cerca, in questo modo, di evitare che le aziende possano disfarsi di dipendenti con uno stato di salute
maggiormente vulnerabile (che può essere attaccato senza grandi difficoltà). La legge prevede che la durata del
periodo di comporto, ossia del periodo nel quale il dipendente in malattia ha diritto alla conservazione del posto di
lavoro, sia determinata dalla legge, dai contratti collettivi di lavoro oppure, in mancanza, dagli usi.
Ogni dipendente deve, dunque, conoscere a perfezione quali sono le regole a lui applicabili in materia di periodo di
comporto. Protrarre l’assenza per malattia oltre la fine del periodo di comporto può determinare, infatti, il
licenziamento per superamento del periodo di comporto e, dunque, la perdita definitiva del posto di lavoro.
Esistono due tipi di periodo di comporto, che possono essere previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro
(C.C.N.L.):
- Il comporto secco o comporto unitario, laddove l’assenza del lavoratore si protragga per un unico periodo
continuativo, ad esempio nel caso in cui si tratti di una malattia che sia unica ed ininterrotta;
- Il comporto per sommatoria o frazionato, nel caso in cui si tratti di più assenze frazionate nel corso del tempo.
In questo caso il contratto di lavoro può stabilire un arco di tempo – ad esempio l’anno solare, quindi 365 giorni
calcolati a partire da qualsiasi giorno dell’anno – entro il quale la somma dei giorni di malattia non può superare un
determinato limite.
Il lavoratore che prolunga l’assenza oltre la soglia del comporto, dunque, può essere licenziato, con preavviso, per
superamento del comporto che rappresenta un’ipotesi di giustificazione del licenziamento.

Qualora, invece, il licenziamento intervenga a comporto ancora pendente, due sono le possibili ipotesi:
a) se esso è irrogato proprio in relazione alla malattia, esso deve ritenersi illegittimo;
b) se il licenziamento è irrogato per motivi diversi dalla malattia, esso è temporaneamente inefficace sino a quando
perdura la malattia, per poi riprendere effetto al termine della stessa o del periodo massimo di comporto.
Fa eccezione a tale regola, peraltro, il licenziamento assistito da giusta causa, che ha efficacia immediata, prevalente
sulla malattia.

IL TRATTAMENTO RETRIBUTIVO IN CASO DI MALATTIA


L’art.2110 comma 1 detta il regime retributivo, prevedendo il diritto del lavoratore in malattia alla retribuzione o ad
un'indennità nella misura prevista dai contratti collettivi.
Tale misura non è necessariamente pari al 100% della retribuzione per tutto il periodo di durata del comporto; può
essere inoltre prevista una scopertura retributiva (cd. carenza) nei primi giorni di malattia.
Per alcune categorie di lavoratori (es. operai di industria) una parte del trattamento economico è coperto dall’INPS
(con corrispondente esonero del datore dall’obbligo retributivo). Lo stesso accade, anche se con un livello di
prestazioni economiche più elevato, nel caso di malattia professionale o infortunio sul lavoro, per i quali provvede,
però, l’INAIL. Non ha diritto ad alcun corrispettivo il lavoratore autonomo, cui esecuzione del rapporto si sospenda
per malattia o infortunio, non sarà tenuto però a versare i contributi previdenziali all’Inps.

MATERNITÀ E PATERNITÀ
La seconda importante situazione sospensiva è la maternità. Essa è tutelata sin dalla Costituzione (art.31 comma 2 e
soprattutto art.37 comma 1) anche se in un'ottica tesa a garantire il diritto alla maternità, ma non anche a favorire
una conciliazione tra maternità e lavoro.
Normativa di riferimento è quella raccolta nel Testo Unico emanato con il d.lgs. n.151/2001 e il Jobs Act che ha
indicato strumenti per conciliare lavoro e famiglia.

LA TUTELA DELLA LAVORATRICE IN GRAVIDANZA E IL CONGEDO DI MATERNITÀ


Il TU prevede il divieto di adibire la lavoratrice durante la gravidanza, al trasporto e al sollevamento di pesi e a lavori
pericolosi, faticosi e insalubri, divieto che può essere imposto anche dall’Ispettorato del lavoro qualora accerti che le
condizioni di lavoro sono pregiudizievoli alla sua salute. In entrambi i casi la lavoratrice dev’essere spostata ad altre
mansioni compatibili con le sue condizioni; se queste mansioni sono inferiori a quelle abituali, la regola
dell’equivalenza professionale non si considera violata (non è demansionamento), ma la lavoratrice conserva la
retribuzione precedentemente goduta.

Dev’essere disposta l’interdizione (lo stato di abituale infermità mentale sia idoneo a determinare in capo al
soggetto l’assoluta incapacità di provvedere ai propri interessi) anticipata dal lavoro della lavoratrice in stato di
gravidanza, nel caso di gravi complicanze della gravidanza, di condizioni di lavoro ritenute pregiudizievoli alla salute
della donna e del bambino, e nel caso in cui non può essere spostata a mansioni compatibili.

Il congedo di maternità, chiamato anche aspettativa per maternità, è il periodo di astensione obbligatoria dal
lavoro riconosciuto alle lavoratrici durante la gravidanza e dopo il parto.
Il congedo di maternità comporta l’obbligo della lavoratrice di astenersi, e per il datore di lavoro, quello di farla
astenere dal lavoro, incorrendo, altrimenti, in sanzioni penali. Dev’essere inviato all’Inps in forma telematica, da
parte di un medico pubblico, del certificato di gravidanza indicante la data presunta del parto, successivamente
inoltrato al datore di lavoro. Qualora non sia stata precedentemente disposta un’interdizione anticipata della
lavoratrice, il congedo ha inizio 2 mesi prima della data presunta del parto, ed ha termine 3 mesi dopo il parto (5
mesi totali). Nel caso sia concesso dal medico, la lavoratrice può scegliere di protrarre il lavoro fino ad un mese
prima della data presunta del parto, per poi fruire del mese non consumato dopo il parto. Durante il congedo spetta
alla lavoratrice il diritto alla retribuzione o a un’indennità a carico dell’Inps pari all’80% della retribuzione, integrata
dal datore di lavoro fino al 100%. Questo diritto spetta anche in caso di adozione o affidamento.

CONGEDO DI PATERNITÀ
Il padre ovviamente non gode di questo congedo di maternità, eccezione fatta per il caso di decesso o grave
infermità della madre; abbandono del bambino da parte della madre; oppure per il caso di affidamento esclusivo del
bambino a lui. Il congedo di paternità è però facoltativo e non obbligatorio.
Per l’ipotesi, normale, in cui la madre fruisca del congedo di maternità, la legge ha inoltre Introdotto un congedo (o
permesso) obbligatorio di 5 giorni, di cui il padre lavoratore (dipendente) deve fruire entro i primi 5 mesi dalla
nascita del figlio, con riconoscimento di un'indennità a carico dell’INPS, pari al 100% della retribuzione.
Sempre entro i primi 5 mesi dalla nascita del figlio, il padre lavoratore dipendente, può astenersi per un ulteriore
giorno dal lavoro; questa volta però in sostituzione della madre lavoratrice dipendente e d’accordo con questa.
Il padre è tenuto a comunicare (per iscritto) al datore di lavoro i giorni prescelti per astenersi dal lavoro, almeno 15
giorni prima dei medesimi.

IL CONGEDO PARENTALE
(O maternità facoltativa) è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro, dedicato alle madri e ai padri.
Si tratta dunque di un periodo che si aggiunge a quelli di maternità e paternità obbligatoria.
La coppia genitoriale può fruire del congedo parentale (art. 32), finalizzato a consentire ai genitori di non lavorare
per assistere al figlio nei primi mesi o anni di vita. Nei primi 12 anni di vita del bambino, ciascun genitore può fruire
di un periodo di congedo parentale non superiore a 6 mesi, ma entro un massimo complessivo (sommando i congedi
dei due genitori) di 10 mesi. Se però v’è un solo genitore rimasto, poiché l’altro è deceduto o ha abbandonato o non
assiste il bambino, lo stesso può fruire di 10 mesi di congedo.
Se il padre utilizza almeno 3 mesi di congedo, è premiato con un bonus di un mese in più, per cui il suo massimo
individuale diviene di 7 mesi, ed il massimale di coppia di 11 (norma promozionale finalizzata ad indurre il lavoratore
padre ad assumersi maggiori responsabilità familiari).
La richiesta del congedo dev’essere effettuata con un preavviso di 5 giorni e indicandone la data d’inizio e fine.
La fruizione del congedo parentale comporta però un’indennità dall’Inps del 30% della normale retribuzione entro il
6° anno di vita del bambino.

I RIPOSI GIORNALIERI E IL CONGEDO PER MALATTIA DEL FIGLIO


La lavoratrice madre ha inoltre diritto a “riposi giornalieri”, per un ammontare complessivo di due ore giornaliere,
anche cumulabili, durante il primo anno di vita del bambino (riposi per allattamento). Qualora la madre decidesse di
non usufruirne, può sempre usufruirne il padre, cosi come può usufruire qualora la madre sia deceduta, sia
gravemente inferma, o non sia una lavoratrice dipendente (e dunque autonoma), oppure i figli siano stati affidati al
solo padre. In occasione di questi riposi, è prevista un'indennità pari alla retribuzione piena, corrisposta dall’INPS
(non dal datore).
Sono previsti, infine, congedi per la malattia del figlio: entrambi i genitori hanno diritto di astenersi
alternativamente dal lavoro per tutte le malattie del figlio di età non superiore a 3 anni. Fra i 3 e gli 8 anni di età, i
congedi spettano per non più di 5 giorni lavorativi all’anno. Per avvalersi del congedo, il genitore necessita di un
certificato di malattia trasmesso per via telematica, da un medico all’INPS, e inoltrato da quest’ultimo al datore di
lavoro. Il congedo non è retribuito.

DIVIETO DI LICENZIAMENTO E REGIME DELLE DIMISSIONI


Nel caso della lavoratrice madre il divieto di licenziamento, a differenza di quello che opera nella malattia, copre un
arco di tempo più ampio, cosi da proteggere la lavoratrice madre (e il lavoratore padre nel caso di fruizione del
congedo di paternità) come è doveroso, sin dall’inizio del periodo a “rischio”. Il divieto decorre dall’inizio del periodo
di gravidanza, certificato dal medico, fino al compimento di un anno di età del bambino.
La violazione di tale divieto determina la radicale nullità del licenziamento, da cui consegue il diritto della lavoratrice
madre, una volta dichiarata la nullità dal giudice, alle retribuzioni arretrate (quindi applicazione dell’art.18 comma 1
dello St. Lav. riguardante la tutela ripristinatoria piena).
Esistono però alcune eccezioni al divieto di licenziamento, in quanto esso non si applica:
-Nel caso in cui la lavoratrice abbia commesso con colpa grave un comportamento costituente giusta causa di
licenziamento;
-Nel caso di cessazione di attività dell’azienda;
-Nel caso di risoluzione, per scadenza naturale, del contratto di lavoro a termine;
-Nel caso di licenziamento per esito negativo della prova.

La lavoratrice madre è tutelata anche nelle ipotesi di dimissioni e di risoluzione consensuale del rapporto, le
quali, entro un periodo di tempo più lungo rispetto a quello in cui vige il divieto di licenziamento (cioè
durante la gravidanza e i primi 3 anni di vita del bambino) possono avere efficacia solo dopo che esse siano
state convalidate (per verificarne la spontaneità) presso la competente DTL (sede dell’Ispettorato del lavoro).
Tale garanzia vale anche per il padre, per quanto riguarda i primi 3 anni di vita del bambino.

PERMESSI E CONGEDI PER RAGIONI PERSONALI

PERMESSI E CONGEDI PER RAGIONI FAMILIARI/PERMESSI E CONGEDI PER RAGIONI DI CURA


1) il lavoratore ha diritto, a un permesso retribuito di 3 giorni lavorativi all’anno, in caso di decesso o documentata
grave infermità del coniuge o di un parente entro il 2° grado o del convivente. Per fruire del permesso l’interessato
deve comunicare preventivamente al datore di lavoro l’evento che dà titolo a esso e i giorni nei quali il permesso sarà
utilizzato, con idonea documentazione. I giorni di permesso devono essere utilizzati entro 7 giorni dal decesso o
dall’accertamento della grave infermità.
2) Il dipendente può richiedere un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a 2 anni, per “gravi
e documentati motivi familiari” (per i quali si intendono: decesso di un familiare, cura o assistenza delle persone
della propria famiglia, situazioni di grave disagio personale (esclusa la malattia), situazioni derivanti da gravi
patologie). Durante il congedo di dipendente ha diritto a conservare il posto di lavoro, ma non alla retribuzione né al
decorso dell’anzianità di servizio, e non può svolgere altre attività lavorative.

3) PERMESSI E CONGEDI PER DISABILI E PER ASSISTENZA A FAMILIARI DISABILI


Spettano ai lavoratori affetti da una grave disabilità e a quelli che assistono un familiare con grave disabilità.
Sono 3 giorni di permesso retribuiti al mese. L’impiego del permesso per finalità diverse da quelle previste
rappresenta giusta causa per il licenziamento.

4) PERMESSI PER MOTIVI DI STUDIO


L’art.10 St. Lav. prevede norme rivolte a favorire la conciliazione tra studio e lavoro. I lavoratori studenti, hanno
diritto a turni di lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami e non sono obbligati a
prestazioni di lavoro straordinario durante i riposi settimanali. Sono agevolazioni previste per gli studenti di corsi di
formazione indetti dalla Regione, sono esclusi quindi gli studenti universitari. Inoltre i lavoratori studenti (inclusi gli
universitari) hanno diritto a fruire di permessi giornalieri retribuiti per sostenere le prove d’esame.

5) CONGEDI FORMATIVI
Finalizzati a consentire al lavoratore, purché con almeno 5 anni di anzianità di servizio presso la medesima impresa o
amministrazione, di fruire di un periodo di congedo dal lavoro, continuativo o frazionato, non superiore a 11 mesi,
per soddisfare esigenze formative (completamento scuola dell’obbligo, conseguimento diploma/laurea), durante il
congedo il dipendente ha diritto alla conservazione del posto senza spettanza di retribuzione né decorso
dell’anzianità di servizio.
L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO

INTRODUZIONE
Anche il rapporto di lavoro ha una fine come è chiaro. Un contratto può essere sia a tempo indeterminato (cioè che
non fissa una data di estinzione) sia a tempo determinato (cioè che prevede un data in cui si estinguerà).
Se per il contratto a tempo determinato possiamo prevedere che la sua cessazione è corrispondente alla data
stabilita da esso per l'estinzione, medesima cosa non è possibile per il contratto a tempo indeterminato che, come
detto, per sua stessa natura non fissa un data di fine rapporto.
Di qui la previsione di varie cause di estinzione che si possono distinguere in due gruppi:
• Naturali: si pensi alla morte del lavoratore che fa cessare, chiaramente, il contratto (non vale lo stesso per il datore
di lavoro, dove il rapporto continua se l'azienda sopravvive e non ci sia una stretta correlazione tra lavoro e datore, si
pensi ad una badante). Essendo infatti una prestazione personale, determina la fine del rapporto di lavoro.
-impossibilità sopravvenuta della prestazione, la quale, costituisce un modo di estinzione dell’obbligazione diverso
dall’adempimento;
-superamento del periodo di comporto per malattia (ossia il periodo di tempo entro il quale, se sei malato, il datore
di lavoro non può licenziarti. Chiaramente è necessario che tu abbia un certificato medico) rappresenta una causa di
licenziamento per motivo oggettivo. Infatti, se il dipendente supera il periodo di comporto, può procedere al
licenziamento.
• Prodotte dalla volontà delle parti, e in questo caso possiamo avere:
-Risoluzione consensuale: cioè la volontà di entrambe le parti di far cessare il rapporto, si dice in questo caso: per
mutuo consenso, un tipo di risoluzione consensuale, in cui le parti di comune accordo, decidono di porre fine al
rapporto di lavoro.
-Recesso unilaterale: nel caso in cui il lavoratore o il datore esercitano il potere di recesso, da un lato dimissioni se è
la volontà del lavoratore ad essere manifestata, dall’altro il licenziamento se invece è la volontà del datore di lavoro.

Nel nostro ordinamento vige il principio liberale della simmetrica libertà di recesso, per entrambe le parti, dal
contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Tale principio discende dall’idea della necessaria
temporaneità delle relazioni obbligatorie di durata, tanto più se comportanti, come accade nel contratto di lavoro,
un’implicazione personale. Quello del licenziamento è tema di estrema delicatezza sociale.
L’esposizione del lavoratore alla possibilità di un licenziamento libero, e potenzialmente arbitrario, proietta
un’ombra anche sugli altri diritti del lavoratore, poiché lascia quest’ultimo in una condizione di soggezione dal datore
di lavoro, dal quale dipende il suo destino lavorativo e di reddito.

L’Art. 2118 cc (recesso dal contratto a tempo indeterminato): la disciplina che regola l'estinzione del rapporto di
lavoro, ha avuto nel tempo un'evoluzione che l'ha portata via via ad allontanarsi dal regime stabilito dal (art 2118)
codice civile, incentrato questo, sul principio della libertà, per entrambe le parti, di recesso dal contratto di lavoro a
tempo indeterminato. Tale regime, prevedeva che venissero trattati allo stesso modo il recesso del datore
(licenziamento) e il recesso del lavoratore (dimissioni) disconoscendo, cosi, che si trattava di realtà profondamente
diverse. Il diritto del lavoratore a non essere licenziato senza un giustificato motivo non è previsto espressamente
dalla Costituzione, ma è previsto dall’art 30 della Carta di Nizza.
Questo ha determinato una separazione tra la disciplina che regola le dimissioni, e che rimane legata al codice civile,
e quella dei licenziamenti del datore che è sfociata nei decreti del Jobs Act, con i quali si è avuta maggiore flessibilità
nel licenziamento. Quindi, con il susseguirsi di diverse normative tra cui la Carta di Nizza e il Jobs Act, si è assistito ad
una significativa riforma dei licenziamenti.

LE DIMISSIONI DEL LAVORATORE


Il recesso del lavoratore, è tuttora regolato dall’art. 2118 cc, secondo il quale ciascuna delle parti ha diritto
potestativo di recedere liberamente (ad nutum, a cenno) da un contratto a tempo indeterminato, con il solo obbligo
di concedere all’altra parte, destinataria del recesso, un preavviso, la cui durata è prevista dai contratti collettivi.
In mancanza di preavviso, il lavoratore recedente è tenuto a corrispondere all’altra parte l’importo della retribuzione
che le sarebbe spettata nel periodo di preavviso (indennità sostitutiva del preavviso) a meno che il datore di lavoro
non rinunci alla fruizione del preavviso. L’Art. 2119 cc prevede un'eccezione, perché consente il recesso immediato,
senza obbligo di preavviso, qualora ci sia giusta causa ossia “causa che non consenta la prosecuzione, anche
provvisoria, del rapporto (reiterato non pagamento della retribuzione, molestie...). Il lavoratore che si dimette per
giusta causa, oltre a non dover dare il preavviso cui sarebbe altrimenti tenuto, ha diritto a percepire dal datore di
lavoro, l’indennità sostitutiva del preavviso, viene cioè trattato come se fosse stato ingiustamente licenziato.

Le dimissioni (come anche la risoluzione consensuale del rapporto, in quanto anche essa contiene l’espressione di
una volontà di dimissioni) debbono essere fatte, per avere efficacia estintiva, esclusivamente per via telematica su
appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro sul sito, che una volta riempiti debbono essere trasmessi al
datore di lavoro e alla competente sede dell’Ispettorato del lavoro.
Entro 7 giorni dalla trasmissione del modulo, il lavoratore ha la facoltà di revocare le dimissioni e la risoluzione
consensuale, con le medesime modalità.
Queste regole non sono applicabili al lavoro domestico, per la lavoratrice madre è necessaria la convalida delle
dimissioni dall’Ispettorato del lavoro. L’obiettivo, in questo caso, è accertare che sia realmente la donna a volersi
dimettere e che non ci sia, al contrario, un condizionamento a fare questa scelta da parte del datore di lavoro.
Inoltre, la neo-mamma che si dimette dal posto di lavoro può ottenere alcuni diritti che, generalmente, non spettano
al lavoratore che rassegna le dimissioni volontarie.
L’annullamento delle dimissioni è quindi un diritto che spetta ad ogni dipendente. In alcuni casi, l’annullamento
delle dimissioni è collegato a un vizio della volontà del dipendente. Il caso più noto è quello in cui il lavoratore
lamenti una violenza morale esercitata nei suoi confronti dal datore o dai suoi collaboratori, per indurlo a dimettersi
come unica alternativa ad un licenziamento motivato dalla scoperta di gravi inadempienze commesse (es. furto).
In questo tipo di controversie, la giurisprudenza tende a ritenere le dimissioni “non viziate” nel caso in cui, se il
licenziamento per quelle cause sarebbe stato legittimo, ovvero, se quel lavoratore fosse stato licenziato per gli stessi
fatti che lo hanno portato alle dimissioni.

IL SISTEMA DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE


Sistema previgente
L’art. 2118 sul recesso vale anche per il licenziamento, e in virtù di quella norma il licenziamento è irrogabile ad
nutum (indica una decisione presa in modo assolutamente libero da parte della persona che l'ha adottata), cioè
senza la necessità di una motivazione formale né di una giustificazione sostanziale. L’art. 2118, tuttavia, pone un
limite all’esercizio da parte del datore di lavoro, di tale licenziamento ad nutum, e cioè la necessità di un preavviso, la
cui funzione è quella di evitare che il lavoratore si trovi dall’oggi al domani, privo di un posto di lavoro.
In mancanza di preavviso, come abbiamo detto, la parte che recede (in tal caso il datore di lavoro) è tenuta a
corrispondere all’altra (lavoratore) un'indennità sostitutiva del preavviso, pari alla retribuzione che gli sarebbe
spettata a quest’ultima nel periodo di preavviso. Quando il preavviso viene pagato (con la corrispondente indennità
sostitutiva), l’estinzione del rapporto di lavoro si produce immediatamente per mutuo consenso.
Sistema riformato
La l. n. 604/1966 ha stabilito l’innovativo principio per cui, il licenziamento individuale del lavoratore subordinato a
tempo indeterminato deve essere, oltre che preceduto da un preavviso, disposto nel rispetto di regole di forma e
determinato da un giustificato motivo, la cui eventuale insussistenza può essere fatta valere dal lavoratore in giudizio
tramite l’impugnazione del licenziamento. In altre parole il requisito minimo di legittimità del licenziamento è la
presenza di un giustificato motivo, se ricorre una giusta causa (che rappresenta un’ipotesi aggravata di giustificato
motivo) il licenziamento è a maggior ragione legittimo, con la conseguenza dell’efficacia immediata dello stesso.
Il “giustificato motivo” e la “giusta causa” rappresentano semplicemente dei “fatti”, alla cui sussistenza
l’ordinamento condiziona:
- nel caso del giustificato motivo, la legittimità del licenziamento;
- e, nel caso della giusta causa, la spettanza al lavoratore del diritto al preavviso.
Dopo di che, il maggiore problema del regime del licenziamento è quello del “regime sanzionatorio” da applicare
nel caso in cui il giudice ne accerti il carattere ingiustificato o viziato del licenziamento. L’emblema di tale regime
sanzionatorio, è sempre stato la regola della “reintegrazione nel posto di lavoro” (o tutela reale) posta dall’art. 18 St.
Lav. come modificato dalla legge 108/1990. Tuttavia, sin dagli anni 90, la tutela reale è stata al centro di critiche,
sostenendo che essa disincentiverebbe le assunzioni a tempo indeterminato (per il timore di non riuscire più a
liberarsi, una volta assunto, del lavoratore) e renderebbe troppo elevati i costi del licenziamento.
La Riforma Fornero ha quindi sensibilmente modificato la “tutela del lavoratore in caso di licenziamento
illegittimo”, che oltre a prevedere l’indicazione dei motivi nella lettera di licenziamento, ha circoscritto la regola della
reintegrazione a situazioni specifiche e sostituita in alcuni casi da un regime di tutela economica.
3 anni dopo, il Governo Renzi ha ritenuto necessario, nell’ambito del Jobs Act, instaurare un nuovo regime
sanzionatorio del licenziamento illegittimo, teso a incrementare la flessibilità in uscita e a rilanciare il contratto a
tempo determinato come forma contrattuale dominante. È stato definito il contratto a tutele crescenti, che non è
un nuovo contratto di lavoro, ma una conseguenza dell’illegittimità accertata del licenziamento del lavoratore a
tempo indeterminato. In questo assetto, ha maggiore importanza la tutela economica, essendo la tutela
reintegratoria circoscritta a ipotesi eccezionali, la cui determinazione è basata tra un minimo e un massimo previsti
dalla legge, con un calcolo automatico crescente con l’anzianità di servizio del lavoratore. Questo regime è stato
dichiarato applicabile solo ai lavoratori assunti a tempo determinato a partire dal 7 Marzo 2015.

PROCEDURA E FORMA DEL LICENZIAMENTO


A volte è imposto al datore di lavoro, a vai fini (es. consentire al lavoratore di difendersi), di esperire una procedura
preventiva all’adozione del licenziamento.
Le procedure da seguire sono differenziate, a seconda della tipologia del licenziamento:
• Nell’ipotesi del LICENZIAMENTO DISCIPLINARE, cioè per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, la procedura
si apre con la contestazione al lavoratore di determinati fatti, rispetto ai quali egli deve fornire giustificazioni.
• Nell’ipotesi del licenziamento economico, per giustificato motivo oggettivo dei lavoratori a tempo indeterminato
assunti sino al 6 marzo 2015 (dopo è stata abolita), dev’essere preceduto da una comunicazione effettuata dal
datore alla DTL (direzione territoriale del lavoro) del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e trasmessa per
conoscenza al lavoratore. In tale comunicazione il datore deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento
per motivo oggettivo ed indicare i motivi del licenziamento medesimo. L’ispettorato del lavoro convoca datore e
lavoratore entro 7 giorni dalla ricezione della richiesta, nel quale il lavoratore può farsi assistere da un
sindacalista/avvocato/consulente del lavoro. Durante la procedura, che deve concludersi entro 20 giorni, le parti
esaminano soluzioni alternative al licenziamento (es. risoluzione consensuale del rapporto).
Se fallisce il tentativo di conciliazione o decorrono i 20 giorni, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al
lavoratore. Il licenziamento deve essere comunicato per iscritto e la comunicazione deve contenere la specificazione
dei motivi, cioè dei fatti, che lo hanno determinato. Il licenziamento è efficace dal momento in cui è ricevuto dal
lavoratore.

IL LICENZIAMENTO PER RAGIONI SOGGETTIVE


La nozione di giustificato motivo, di cui all’art 3 della legge 604/1966, comprende due classi di fatti: licenziamenti
per ragioni soggettive e per ragioni oggettive.
1) i primi, relativi ad atti o comportamenti del lavoratore: tale classe integra l’ipotesi del licenziamento per
giustificato motivo soggettivo, che consiste in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali. Tra gli esempi
classici di inadempimenti: l’assenza ingiustificata dal lavoro oppure danneggiamento del materiale aziendale;
violazione delle misure di sicurezza ecc. L’inadempimento dev’essere “notevole sotto il profilo della gravità oggettiva
del fatto commesso”, essendovi altrimenti spazio, (tenuto conto del principio di proporzionalità tra infrazione e
sanzione) solo per l’irrogazione di una sanzione disciplinare conservativa (es. multa/sospensione) e non estintiva.
Non è facile stabilire quando un comportamento oltre passi la soglia del giustificato motivo soggettivo di
licenziamento. Vengono in soccorso al giudice, a tal riguardo, i CCNL, che contengono esemplificazioni dei principali
fatti costituenti giustificato motivo.
Infatti secondo l’art. 3 della legge 183/2010, nel valutare le motivazioni del licenziamento, il giudice tiene conto
delle tipizzazioni di giustificato motivo, presenti nei CCNL stipulati dai sindacati comparativamente più
rappresentativi. Tuttavia, tali tipizzazioni non sono vincolanti per il giudice, in un duplice senso:
- nel senso che il giudice può ritenere, in virtù del principio dell’inderogabilità in peius della legge da parte del
Contratto Collettivo, che un determinato fatto, oggettivamente considerato, sia meritevole di una sanzione meno
grave di quella contemplata dal CCNL;
-nel senso che il giudice può ravvisare il giustificato motivo anche in fatti non previsti dal CCNL.

In secondo luogo il giudice deve considerare (e di solito lo suggeriscono gli stessi CCNL) “l’elemento soggettivo”,
cioè lo stato soggettivo, doloso o colposo, con il quale l’atto o il comportamento contestati, sono stati posti in essere.
La categoria dei “licenziamenti per ragioni soggettive” è completata dal licenziamento per giusta causa ex art.2119
cc, che a differenza del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, è senza preavviso.
La giusta causa è “causa che non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto”.
La caratteristica è che il fatto pregiudica in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro e ciò giustifica
l’estromissione immediata dall’azienda. Per tale aspetto, la giusta causa è sulla stessa scala del “giustificato motivo
soggettivo”, ma ad un livello di maggiore gravità.
Sempre i CCNL qualificano tali atti e suggeriscono che debba essere valutata anche la colpevolezza soggettiva del
lavoratore, cioè l’intensità del dolo o della colpa.

IL LICENZIAMENTO PER RAGIONI OGGETTIVE


Il licenziamento, oltre che essere giustificato da ragioni soggettive, può anche essere giustificato da ragioni
oggettive, o economiche, e cioè ragioni inerenti a decisioni dell’imprenditore in ordine alle dimensioni ed
all’organizzazione della produzione e del lavoro.
La tipologia di base è quella del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il quale è integrato da ragioni
inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
Fra le ragioni inerenti all’attività produttiva si può annoverare la chiusura di un reparto o di un ufficio dell’azienda,
con il relativo licenziamento degli addetti; l’organizzazione del lavoro, con una ridistribuzione del carico di lavoro tra
un minor numero di addetti; Tra le ragioni inerenti la regolazione del funzionamento dell’organizzazione del lavoro vi
è l’inidoneità professionale di un lavoratore a svolgere le mansioni affidate.

La giurisprudenza è solita ritenere che, il giudice possa e debba verificare:


a) la veridicità della ragione adottata, ad esempio la veridicità della chiusura dell’unità cui apparteneva il lavoratore.
b) se dalla ragione adottata è effettivamente disceso, come conseguenza necessaria o cmq plausibile, il
licenziamento di quel lavoratore. In pratica deve verificare se sussiste un “rilevabile” nesso di causalità tra la scelta
imprenditoriale a monte e la conseguenza che se ne è tratta. Esempio un nesso non ravvisabile si ha nel caso in cui
sia stato licenziato un dipendente non addetto all’unità produttiva soppressa.
c) che il datore di lavoro non abbia potuto utilizzare il lavoratore in un'altra mansione, anzi tutto equivalente; ma
anche inferiore qualora il lavoratore ne acconsenta.

Infine la giurisprudenza è solita riportare alla nozione di “giustificato motivo oggettivo”, anche i licenziamenti
derivanti da situazioni di “oggettiva impossibilità, per il lavoratore, di prestare l’attività lavorativa” (es. ritiro di
licenze o patenti necessarie a svolgere il lavoro; l’inidoneità fisica o psichica del lavoratore).

IL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO E NULLO


A parte viene contemplato un tipo di licenziamento ritenuto offensivo di beni importanti e protetti in modo
particolare in quanto espressione del principio di eguaglianza; cioè il licenziamento discriminatorio.
Il licenziamento discriminatorio (come ogni atto discriminatorio) è nullo, a prescindere dalla motivazione
formalmente adottata, e comporta sempre, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro,
l’applicazione della tutela reintegratoria. Cause di nullità del licenziamento quindi sono tutte caratterizzate da un
atto datoriale in contrasto con un divieto legale.

L’IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO E L’AZIONE IN GIUDIZIO


Chi ha ricevuto una lettera di licenziamento e intende contestare la decisione adottata dal proprio datore di lavoro
ha l’onere di impugnarla. Impugnare un licenziamento significa contestarlo. Naturalmente, la contestazione deve
partire dal dipendente che ha subito tale provvedimento.
L’impugnazione del licenziamento si compone di due fasi:
• una prima di tipo “stragiudiziale”, che si risolve cioè (fuori dal tribunale); essa consiste nell’invio di una semplice
lettera di contestazione al datore di lavoro;
• e una seconda invece “giudiziale” che scatta in caso di mancato accordo tra le parti dopo l’invio della lettera di
contestazione; essa consiste nell’avvio di una vera e propria causa dinanzi al tribunale del luogo ove si è svolto il
rapporto di lavoro, causa che inizia tramite il deposito di un ricorso a firma del proprio avvocato.

L’impugnazione stragiudiziale deve essere effettuata entro 60 giorni dalla ricezione da parte del lavoratore della
comunicazione contenente il licenziamento, ove osservi questo primo termine, ha a disposizione altri 180 giorni per
proporre l’impugnazione giudiziale quindi ha in totale 240 giorni.

Per facilitare il lavoratore, è stabilito che l’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo o della giusta
causa incombe sul datore di lavoro, nonostante quest’ultimo sia la parte convenuta in giudizio e l’onere in questione,
di base, spetti all’attore (lavoratore in tal caso). Di contro, nel caso di licenziamento discriminatorio, l’onere di
provare la natura discriminatoria del licenziamento è a carico del lavoratore.
Il licenziamento discriminatorio è determinato da motivi di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un
sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali nonché da ragioni connesse all’etnia, alla lingua, al genere e
all’orientamento sessuale.

Dopo di che, supponendo che il giudice accerti che il licenziamento è stato disposto in violazione delle regole di
forma o procedura e/o senza un giustificato motivo o una giusta causa e/o è discriminatorio o comunque nullo, lo
stesso emette una statuizione (introduzione di un ordine) tramite la quale stabilisce determinate conseguenze
sanzionatorie. A seguito del d.lgs. n. 23/2015 tali conseguenze sono articolate in due regimi diversi: l’applicazione
dell’uno o dell’altro dipende dalla data di assunzione a tempo indeterminato del lavoratore.

REGIME SANZIONATORIO DEL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO PER I LAVORATORI ASSUNTI PRIMA AL 6 MARZO
2015:
Sino alla modifica dell’art. 18, recata dalla legge n. 92/2012, l’assetto della disciplina era incentrato sulla distinzione
fra tutela reale e obbligatoria:
- la prima era quella prevista dall’art. 18, ed era detta REALE perché comportava necessariamente, nel caso in cui il
licenziamento fosse trovato illegittimo dal giudice, il ripristino del rapporto e la conseguente reintegrazione del
dipendente;
- l’altra tutela, prevista dall’art. 8, era ed è definita OBBLIGATORIA, perché la relativa sentenza non dichiara invalido
e inefficace il licenziamento, ma si limita a porre a carico del datore di lavoro due obblighi alternativi (riassunzione
del lavoratore o pagamento di una penale di ridotto importo), la scelta tra i quali spetta al datore stesso.
Nel testo dell’art. 18 scaturito dalla Riforma Fornero, la tutela reale c’è ancora ma non è più l’unica prevista, per cui
conviene rettificare le denominazioni delle due tutele, definendo FORTE quella data dall’art. 18, e DEBOLE quella
obbligatoria. La tutela forte comporta un elevato tasso di protezione del lavoratore, e si applica alle imprese o ai
datori di lavoro non imprenditori che occupano più di 15 dipendenti, o più di 5 nel settore agricolo, nelle unità
produttive insistenti nell’ambito del territorio comunale, o comunque alle imprese o ai datori di lavoro non
imprenditori che occupano più di 60 dipendenti a livello nazionale. Di contro, la tutela debole è residuale, giacché si
applica in tutti gli altri casi.
L’esistenza di questa differenziazione di regimi sulla base della diversa consistenza occupazione dell’impresa poggia
sulla duplice premessa che le imprese medio-grandi sono le uniche a poter sopportare un regime oneroso come
quello dell’art. 18, e che nelle piccole imprese i rapporti di lavoro sono maggiormente personalizzati, sì da rendere
impraticabile un regime comportante la reintegrazione del lavoratore licenziato nel posto dal quale era stato
estromesso.
N.B. A prescindere dalla dimensione occupazionale, la tutela forte è espressamente esclusa, per cui il lavoratore ha
titolo ad invocare soltanto quella debole, per le cosiddette organizzazioni di tendenza, ossia per i datori di lavoro
non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione oppure
di religione o di culto. L’esclusione dell’art. 18 è motivata dalla particolare natura di queste organizzazioni, che, in
quanto portatrici di una tendenza, non possono essere costrette a reinserire un lavoratore entrato in contrasto con la
ragion d’essere dell’organizzazione, e per questo motivo licenziato; e ciò malgrado che tale licenziamento sia stato
ritenuto ingiustificato, o persino discriminatorio, dal giudice. Peraltro, l’esonero dall’art. 18 è da ritenersi
circoscritto ai lavoratori le cui mansioni sono collegate alla tendenza, e non meramente neutre, poiché nel secondo
caso non v’è ragione di escludere, ove il licenziamento sia trovato illegittimo, il ripristino giudiziale del rapporto di
lavoro.

LA TUTELA FORTE (ART. 18, L. N. 300/1970)


L’art. 18 è una norma rivolta al giudice che venga ad accertare, in accoglimento della domanda proposta in tal senso
dal lavoratore, l’illegittimità del licenziamento a questi irrogato, ed è finalizzata a stabilire le conseguenze
sanzionatorie di tale illegittimità.
Nel previgente art. 18 qualunque fosse il vizio del licenziamento, la tutela che veniva ad applicarsi era quella reale,
comportante il ripristino giuridico del rapporto malamente interrotto dal licenziamento, la reintegrazione del
lavoratore licenziato e il ristoro pieno dei danni patrimoniali patiti. La legge n. 92/2012 ha riscritto l’art. 18 non
eliminando la tutela reale, ma circoscrivendola a situazioni determinate, e prevedendo, negli altri casi, una tutela di
tipo esclusivamente economico, che lascia in essere l’efficacia estintiva del licenziamento pur dichiarato illegittimo
dal giudice.

LA TUTELA RIPRISTINATORIA PIENA


Questo regime si applica alle ipotesi più gravi di licenziamento viziato: tutti i casi di licenziamento dichiarati nulli
dalla legge (licenziamento discriminatorio, licenziamento della lavoratrice in concomitanza col matrimonio...) o
dichiarati inefficaci perché intimati in forma orale.
In tali ipotesi, il giudice:
1) accerta l’invalidità e l’inefficacia del licenziamento, da cui discende il ripristino giuridico del rapporto di lavoro.
2) condanna il datore anche a reintegrare “materialmente” il lavoratore nel posto di lavoro, reinserendo
effettivamente all’interno dell’azienda e dell’organizzazione del lavoro.
3) condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia
stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto
maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione. In sostanza, è riconosciuta al
lavoratore illegittimamente licenziato una misura di carattere risarcitorio commisurata al danno patrimoniale
sofferto, cioè alle retribuzioni non percepite nel periodo che va tra licenziamento ed effettiva reintegrazione.
Il lavoratore inoltre può:
-Richiedere il risarcimento degli ulteriori danni patiti (es. alla salute) che egli dimostra di aver patito come
conseguenza immediata e diretta del licenziamento.
-Richiedere, entro 30 giorni dalla sentenza, al posto della reintegra nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15
mensilità.

LA TUTELA RIPRISTINATORIA ATTENUATA E LA TUTELA ECONOMICA


Nelle ipotesi di licenziamento ingiustificato, nelle quali il giudice accerta che non vi è giustificato motivo
soggettivo/oggettivo o giusta causa, sono previsti due regimi sanzionatori alternativi:
• 1) il primo (tutela ripristinatoria attenuata) incentrato sul ripristino del rapporto di lavoro e sulla reintegrazione nel
posto di lavoro, ma con una tutela risarcitoria più attenuta rispetto a quella prevista nella tutela ripristinatoria piena,
vista la previsione di un tetto massimo di risarcimento.
• 2) il secondo (tutela economica o indennitaria) incentrato su una compensazione meramente economica del
lavoratore. L’indennità risarcitoria è compresa tra un minimo di 12 mesi e un massimo di 24 mesi, modulazione
stabilita in base all’anzianità di servizio e altri criteri riguardanti l’impresa.

LA TUTELA ECONOMICA RIDOTTA


Nelle ipotesi di licenziamento dichiarato illegittimo unicamente per vizi di forma o di procedura, cioè per
violazione dell’obbligo di motivazione del licenziamento, della procedura disciplinare, o della procedura di
irrogazione del licenziamento per motivo oggettivo, è stabilita una tutela economica ridotta, che lascia estinto il
rapporto di lavoro, e che attribuisce al lavoratore un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata in una
misura compresa, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa, tra un minimo di 6 e un
massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore.

REVOCA DEL LICENZIAMENTO


Entro 15 giorni dalla ricezione dell’impugnazione del lavoratore, il datore può revocare il licenziamento; il rapporto
si intende ripristinato con diritto del lavoratore alla retribuzione del periodo precedente alla revoca, senza che vi sia
applicazione dei regimi sanzionatori.

LA TUTELA DEBOLE (ART. 8, L. N. 604/1966)


Dove si applica la tutela debole, o obbligatoria, il lavoratore licenziato senza un giustificato motivo ha diritto,
anzitutto, ad essere riassunto dal datore di lavoro. La riassunzione implica la costituzione di un nuovo rapporto di
lavoro, per cui il lavoratore che ne beneficia non ha titolo alle spettanze retributive che avrebbe maturato dal
momento in cui è stato licenziato sino a quello della sentenza che ha statuito l’obbligo di riassunzione. Peraltro
l’obbligo di riassunzione è previsto meramente in alternativa al pagamento, da parte del datore di lavoro, di un
risarcimento del danno, commisurato ad una penale predeterminata dalla legge, tra un minimo di 2,5 e un massimo
di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore. La scelta tra i due obblighi alternativi
spetta al datore di lavoro.

REGIME SANZIONATORIO DEL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO PER I LAVORATORI ASSUNTI DOPO IL 7 MARZO 2015:
(CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI)

Il regime sanzionatorio introdotto, dal d. lgs. n. 23/2015, per i lavoratori assunti a tempo indeterminato a far data
dal 7 marzo 2015 è caratterizzato da flessibilità in uscita. Ciò si desume da due principali elementi:
- la previsione, come regola dominante di questo sistema sanzionatorio, della tutela economica in caso di
licenziamento illegittimo, mentre la tutela ripristinatoria e reintegratoria è ormai confinata ad ipotesi specifiche e
tendenzialmente eccezionali;
- il più ridotto importo, rispetto all’art. 18, della predetta tutela economica. Nel disegno del legislatore delegato,
inoltre, l’importo dell’indennità risarcitoria cui ha titolo il lavoratore illegittimamente licenziato viene reso più certo
tramite l’applicazione di un criterio automatico di risarcimento, crescente con l’anzianità di servizio del lavoratore (in
questo consistono le “tutele crescenti”).
Con la riforma del Jobs Act, il legislatore ha introdotto un nuovo istituto di conciliazione stragiudiziale (offerta di
conciliazione), in base al quale il datore di lavoro, su propria iniziativa, offre al lavoratore che impugna il
licenziamento una somma predeterminata, al fine di risolvere la controversia al di fuori delle sedi giudiziali.
L’importo non rientra tra i redditi imponibili del lavoratore. Il datore di lavoro offre al lavoratore una somma pari a 1
mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 3 e non superiore a 27
mensilità. Per essere efficace, l’offerta deve essere fatta dal datore di lavoro mediante la consegna al lavoratore di
un assegno circolare e accettata dallo stesso entro 60 giorni, nelle sedi indicate dalla legge presso l’Ispettorato del
lavoro.

TUTELA ECONOMICA
Nel caso in cui il giudice, pur rilevando il carattere ingiustificato del licenziamento, dichiara l’estinzione del rapporto
di lavoro e il lavoratore avrà diritto ad un'indennità risarcitoria pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio, in misura
compresa tra 6 e 36 mensilità. Per i datori di lavoro di piccole dimensioni l’indennità è stabilita dal giudice tra un
minimo di 3 e un massimo di 6 mensilità. Nel caso di licenziamento affetto da vizi formali o procedurali l’indennità è
determinata dal giudice tra un minimo di 2 e un massimo di 12 mensilità, ridotte a 1-6 mensilità per i datori di
piccole dimensioni.

LA TUTELA RIPRISTINATORIA: PRESUPPOSTI E CONTENUTI


• Tutela ripristinatoria attenuata: opera nel caso in cui il licenziamento disciplinare, cioè per giustificato motivo
soggettivo o per giusta causa, è ritenuto ingiustificato per l’insussistenza del fatto. Quindi la tutela ripristinatoria è
applicabile quando il fatto non si è materialmente verificato e quando non si sono realizzati gli altri elementi della
condotta (dolo, colpa, antigiuridicità...). L’indennità risarcitoria non può superare le 12 mensilità della retribuzione
globale di fatto, dedotto quanto il lavoratore avrebbe percepito accettando una congrua offerta di lavoro.
• Tutela ripristinatoria piena: si applica nei casi di licenziamento discriminatorio, nullo, o inefficace perché intimato
in forma orale.

LE RESIDUE IPOTESI DI LICENZIAMENTO AD NUTUM


Il licenziamento ad nutum è una ipotesi di licenziamento che non prevede alcuna motivazione né, tantomeno alcuna
formalità procedurale; letteralmente infatti, il termine licenziamento a nutum significa “con un cenno”.
Il recesso ad nutum non può essere applicato a tutte le tipologie di lavoratori ma solo ad alcune, proprio a causa del
suo carattere del tutto eccezionale. Tendenzialmente questa regola vale per:
-dirigenti: in questo caso il licenziamento ad nutum è possibile, ma con obbligo di preavviso minimo;
-lavoratori che ricoprono posizioni come collaboratori domestici (es. badanti) o apprendisti;
-lavoratori che hanno raggiunto l’età pensionabile, ossia quei lavoratori che abbiano raggiunto il requisito dell’età
per la pensione. Queste persone diventano automaticamente licenziabili senza giusta causa appena maturano il
requisito dell’età da pensione. A maggior ragione quando il contratto prevede espressamente una clausola di
licenziamento automatica al raggiungimento dell’età pensionabile.
-i lavoratori in prova, quindi coloro che potenzialmente potrebbero essere assunti; durante il periodo di prova, a
meno che nel contratto non sia stato fissato un limite minimo di tempo prima del quale non si può lasciare a casa il
dipendente, le parti (datore e lavoratore) possono recedere senza obbligo alcuno di preavviso o motivazione scritta.
Il lavoratore può impugnare comunque il licenziamento, qualora asserisca di non essere stato posto dal datore nella
condizione di effettuare la prova nelle mansioni per le quali era stato assunto, o comunque per un tempo sufficiente a
dimostrare le proprie capacità. In ogni caso, anche qualora una tale impugnazione abbia successo, essa dà titolo non
a richiedere l’applicazione dell’ordinario regime sanzionatorio, bensì soltanto a conseguire un risarcimento dei danni,
per un importo di massima basso.

LA CRISI DELL’IMPRESA E LO STATO DI DISOCCUPAZIONE


ECCEDENZE DI PERSONALE E AMMORTIZZATORI SOCIALI
Le crisi di impresa, hanno innumerevoli origini e caratteri, ma quasi sempre, da esse emerge, un problema di
eccedenza di personale, da cui segue che, per uscire dalla condizione di difficoltà e di crisi, l’impresa reputi di aver
bisogno di un ridimensionamento, finalizzato ad abbattere i costi del lavoro, reputati non più sostenibili in tempi
difficili. Alcune soluzioni sono quelle di redistribuire il lavoro esistente fra un numero minore di dipendenti o
liberarsi di collaboratori con uno stipendio elevato o che comunque l’impresa giudica di non poter più sostenere.
Nel sistema italiano i licenziamenti collettivi sono di solito tollerati come “ultima ratio”, soprattutto quando c’è da
garantire la sopravvivenza dell’organismo aziendale.
In questi complessi contesti, l’ordinamento si è preoccupato di predisporre strumenti rivolti:
- Da un lato, a consentire all’impresa di liberarsi del personale che non è più in grado di sostenere;
- Dall’altro lato, a garantire la massima tutela possibile degli interessi dei lavoratori il cui posto di lavoro è a rischio o
sia venuto meno.
A tal riguardo, si tratta di strumenti giuridici diversi, finalizzati a:
- consentire un riassorbimento delle eccedenze di personale, senza risoluzione dei rapporti di lavoro (ES. CASSA
INTEGRAZIONE GUADAGNI oppure i contratti di solidarietà difensivi);
- realizzare una risoluzione “indolore” dei rapporti di lavoro in esubero (dimissioni dei lavoratori o risoluzioni
consensuali, accompagnate da incentivi all’esodo);
- determinare una risoluzione unilaterale dei rapporti di lavoro (licenziamento collettivo) con eventuali e correlate
misure di accompagnamento sociale.
Attorno a questi strumenti si giocano complesse partite, soprattutto tra l’imprenditore e le organizzazioni sindacali
legittimante a vario titolo ad intervenire nella crisi, per impedire le riduzioni di personale o cmq per attenuarne
l’impatto. Tuttavia, la partita non è comprensibile senza tenere conto del ruolo del terzo giocatore, cioè lo Stato,
che interviene a finanziare, unitamente alle imprese, gli “AMMORTIZZATORI SOCIALI” (cassa integrazione guadagni,
contratti di solidarietà, mobilità, tutela contro la disoccupazione), garantendo così le risorse necessarie a contenere
l’impatto sociale delle ristrutturazioni.
A tali strumenti (ammortizzatori sociali) si ricorre inoltre quando la crisi dell’impresa è tanto grave e profonda, da
determinare lo stato di “insolvenza” (incapacità di far fronte alle normali obbligazioni) e provocare il ricorso
dell’impresa stessa alle “procedure concorsuali” previste dall’ordinamento: concordato preventivo, accordo di
ristrutturazione del debito, fallimento, amministrazione straordinaria delle grandi imprese. A seguito di varie
riforme, infatti, tali procedure concorsuali sono sempre più finalizzate, in prima battuta, al “salvataggio
dell’impresa” piuttosto che alla sua liquidazione.

CASSA INTEGRAZIONE GUADAGNI (CIG)


In tempi di crisi, spesso le aziende ricorrono ad una soluzione intermedia tra il drastico taglio del personale ed il
proseguimento dell’attività al 100%. Questa soluzione si chiama cassa integrazione guadagni. Si tratta di un
intervento che l’Inps concede solo in determinati casi e solo ad aziende che operano in alcuni settori. Significa che
non tutte possono accedere a quest’agevolazione. Ma che cos’è esattamente la cassa integrazione e come funziona?
Volendo utilizzare una metafora, possiamo dire che la cassa integrazione è una sorta di salvagente che l’Inps lancia
ad un’azienda in serie difficoltà economiche per evitare che la barca affondi portandosi a picco tutti i marinai.
La cassa integrazione guadagni (nota anche come Cig) è un istituto che consiste in una prestazione economica a
carico dell’Inps a favore dei dipendenti che lavorano ad orario ridotto o che sono stati sospesi dall’obbligo di svolgere
la loro prestazione.
Lo scopo della cassa integrazione è quello di aiutare le aziende che attraversano un momento di difficoltà: è l’Inps a
farsi carico economicamente dei lavoratori che per un periodo di tempo non possono esercitare la loro attività,
attraverso:
• un’integrazione salariale ordinaria per riduzione o sospensione dell’attività produttiva dovute a situazioni
temporanee non imputabili al datore di lavoro o ai dipendenti;
• un’integrazione straordinaria a causa di una crisi economica del settore o del territorio in cui si opera oppure per
ristrutturazioni o riconversioni aziendali.
Nel primo caso si parla di cassa integrazione ordinaria (Cigo) e nel secondo di cassa integrazione straordinaria (Cigs).

Il più classico degli strumenti di riassorbimento delle eccedenze, alternativi al licenziamento, è la cassa
integrazione guadagni (CIG), la quale si distingue: in una cassa “ordinaria” ed in una cassa “straordinaria”.
È un complesso istituto giuridico in forza del quale, in presenza di certe causali, collegate ad eventi aziendali critici,
l’imprenditore può: - o sospendere dal lavoro - oppure ridurre l’orario di lavoro, di una quota di dipendenti o
dell’intero personale, senza erogare ad essi, in tutto (nel caso della sospensione) o in parte (nel caso della riduzione
dell’orario) le corrispondenti retribuzioni. Si tratta quindi di sospensioni delle prestazioni lavorative, ma determinate
da motivi inerenti all’impresa e non alla sfera personale del lavoratore (come nel caso della maternità, malattia,
infortunio ecc.).
L’imprenditore, tuttavia, non può disporre tali sospensioni (sospensione dal lavoro o riduzione dell’orario di lavoro)
solo sulla base di una propria decisione unilaterale. Chi proceda a sospensioni del genere versa in una mora del
creditore che lascia persistere l‘obbligo retributivo.
Una sospensione dei lavoratori è legittima solo nel caso di contestuale accesso alla cassa integrazione guadagni.
Ma affinché tale istituto possa essere attivato è necessario che:
a) l’impresa rientri nel capo oggettivo di applicazione della CIG;
b) ricorrano le causali oggettive di intervento della CIG (cd. cause integrabili);
c) sia proposta dall’impresa, all’organismo pubblico competente, domanda di ammissione alla CIG;
d) la domanda di ammissione alla CIG, sia stata accolta dall’organismo competente;
È indispensabile insomma che la decisione datoriale, sia accompagnata dall’emanazione, a domanda dell’impresa, di
un provvedimento amministrativo di autorizzazione, avente ad oggetto l’ammissione dell’impresa, per quel dato
numero di dipendenti, alle prestazioni della Cassa integrazione.

L’AMBITO DI APPLICAZIONE
La cassa integrazione ordinaria (CIGO) si applica essenzialmente alle imprese industriali, senza limiti di dipendenti;
mentre quella straordinaria (CIGS) si applica alle imprese industriali che abbiano occupato più di 15 dipendenti nel
semestre precedente, alle imprese commerciali e alle agenzie di viaggio e turismo con più di 50 dipendenti, alle
imprese di vigilanza con più di 15 dipendenti, alle imprese di trasporto aereo e aereoportuali a prescindere dal
numero dei dipendenti.
Per i settori non coperti dall’istituto, la legge 92/2012 perseguendo l’obiettivo della generalizzazione del “sistema
CIG” ha reso obbligatoria l’adozione, entro il 2013, di “Fondi di Solidarietà Bilaterali” alimentati dai datori di lavoro
del settore e rivolti a garantire ai lavoratori, nel caso di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, prestazioni
analoghe a quelle della CIG. Quindi, l’istituto della cassa integrazione è riservato ad alcuni settori produttivi ed
interviene solo di fronte a certi requisiti. Nei comparti per i quali non è prevista, intervengono i rispettivi fondi di
solidarietà.

LE CAUSALI DI INTERVENTO
La Cassa Integrazione Guadagni nasce nel nostro ordinamento già negli anni 80 e ha il suo apice con la legge n.
223/1991, è un ammortizzatore sociale in costanza di rapporto, quindi quando ancora il rapporto di lavoro esiste.
La CGI del 91 era composta di due tipi: ordinaria (CIGO) e straordinaria (CIGS), che intervenivano in momenti di
difficoltà dell’impresa completamente diversi.
• La CIGO interveniva quando l’impresa aveva determinati tipi di situazioni di difficoltà definite temporanee, ha
quindi una durata breve che normalmente è di 3 mesi prorogabili sino ad un massimo di 12 mesi.
La cassa integrazione guadagni ordinaria, o Cigo, può dunque essere richiesta dall’azienda in un momento di crisi
temporanea. In pratica, i lavoratori (tutti o una parte) vengono sospesi dall’attività del tutto o per un certo numero
di ore. Una volta superata la crisi, il personale riprende normalmente il lavoro.
• La GIGS interveniva quando l’impresa era in una crisi più forte e profonda, di durata maggiore, riferita a diverse
causali come le tre R (riorganizzazione, ristrutturazione, riconversione), la crisi d’impresa generalizzata, le cd.
procedure concorsuali ed il fallimento.
A seconda della causale si prevedeva una CIG di durata diversa: minimo di 6 mesi fino ad un massimo di 24 mesi in
un quinquennio. In entrambi i casi l’idea della cassa integrazione era quella che un’impresa che entrava in uno stato
di difficoltà richiedeva allo stato l’intervento della cassa integrazione guadagni, con un progetto di ripresa
dell’attività, cioè pensando che agendo su determinati punti per un periodo temporaneo o più ampio, sarebbe
riuscita a riprendere l’attività ordinaria come se nulla fosse al termine dell’intervento.

LA PROCEDURA DI INFORMAZIONE E CONSULTAZIONE SINDACALE


Tanto per la CIGO che per la CIGS, prima di presentare relativa domanda di ammissione all’organo competente,
l’impresa è tenuta ad esperire una procedura in base alla quale deve comunicare alle RSA/RSU, ove esistenti, ed alle
“organizzazioni sindacali di categoria più rappresentative operanti nella provincia”, le cause di sospensione o di
riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile e il numero dei lavoratori interessati.

IL PROCEDIMENTO DI CIG
• la domanda di concessione della CIGO è presentata in via telematica all’INPS entro il termine di 15 giorni dall’inizio
della sospensione o riduzione dell’attività lavorativa. Per gli eventi oggettivamente non evitabili (ad es. quelli meteo),
l’istanza può essere presentata entro il termine della fine del mese successivo a quello in cui si è verificato l’evento
medesimo. Il trattamento è concesso, qualora le ragioni per cui è stato richiesto siano ritenute conformi a legge
nonché effettive, dalla sede dell’INPS territorialmente competente.
• La domanda di concessione della CIGS è presentata al Ministero del lavoro e all’Ispettorato del lavoro competente
entro 7 giorni dalla data di conclusione della procedura di consultazione sindacale, e deve essere corredata
dall’elenco nominativo dei lavoratori interessati dalle sospensioni o riduzioni di orario.
La sospensione o la riduzione dell’orario così come concordate tra le parti nelle procedure hanno inizio entro 30
giorni dalla data di presentazione della domanda di concessione. L’impresa deve allegare alla domanda un
programma di riorganizzazione aziendale, prevedente gli interventi volti a fronteggiare le inefficienze della struttura
gestionale o produttiva, e indicazioni sugli investimenti e sull’eventuale attività di formazione dei lavoratori, o un
programma di risanamento della crisi aziendale, volto a fronteggiare gli squilibri di natura produttiva, finanziaria,
gestionale o da fattori esterni, che affliggono l’azienda. Il trattamento è concesso con decreto del Ministro del
lavoro, entro 90 giorni dalla presentazione della domanda. Sia per la CIGO che per la CIGS qualora dall’omessa o
tardiva presentazione della domanda derivi a danno dei lavoratori la perdita parziale o totale del diritto
all’integrazione salariale, l’impresa è tenuta a corrispondere ad essi una somma di importo equivalente
all’integrazione salariale non percepita.

IL REGIME ECONOMICO DELLA CIG


Una volta emanato il provvedimento di ammissione alla CIG, l’impresa è sollevata dall’obbligo di retribuire il
lavoratore. Nel contempo, il predetto lavoratore ha diritto a un’indennità a carico dell’INPS, che ammonta all’80%
della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate, entro un massimale che è
adeguato periodicamente all’inflazione.
I periodi di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro per i quali è ammessa la CIG sono riconosciuti utili ai fini
pensionistici, tramite l’accredito di contribuzione figurativa.
Venendo in gioco l’impiego di risorse pubbliche, da sempre è previsto che il lavoratore che beneficia della CIG non
può svolgere altre attività retribuite, a pena di decadenza dal trattamento. Il lavoratore sospeso per più del 50%
dell’orario, in un arco di tempo di 12 mesi, deve collaborare attivamente con i servizi per il lavoro ai fini della ricerca
di una nuova occupazione, venendo trattato alla stregua di un disoccupato. Il lavoratore, pertanto, è convocato dal
Centro per l’impiego per la stipulazione del patto di servizio personalizzato.
In caso di mancata presentazione alla collaborazione o di mancata partecipazione alle iniziative di orientamento
prese nell’ambito del patto, il lavoratore subisce varie decurtazioni del trattamento di CIG, sino alla decadenza dello
stesso. Lo scenario è diverso qualora la domanda di CIG sia rigettata, giacché l’impresa rimane tenuta al pagamento
integrale della retribuzione ai dipendenti che ha sospeso dal lavoro.

LA DURATA MASSIMA DELLA CIG


La CIGO ha una durata massima di 13 settimane continuative, prorogabili trimestralmente fino a un massimo
complessivo di 52 settimane. La CIGO relativa a più periodi non consecutivi non può superare complessivamente la
durata di 52 settimane in un biennio mobile.
Per la CIGS, valgono i seguenti limiti di durata:
- in caso di riorganizzazione aziendale, 24 mesi, anche continuativi, in un quinquennio mobile;
- in caso di crisi aziendale, 12 mesi, anche continuativi;
- in caso di CDS difensivo, 24 mesi, anche continuativi, estendibili a 36, in un quinquennio mobile, per ciascuna unità
produttiva.
Vi è poi un limite di durata massima che copre entrambe le forme di CIG: per ciascuna unità produttiva, il
trattamento di CIG non può superare la durata massima complessiva di 24 mesi in un quinquennio mobile.

I FONDI DI SOLIDARIETÀ
Nei settori non rientranti nel campo di applicazione della CIG la legge rende obbligatoria, per i datori di lavoro che
occupano mediamente più di 5 dipendenti, l’adozione di Fondi di solidarietà bilaterali, alimentati dai datori di lavoro
del settore e rivolti a garantire ai lavoratori, nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, prestazioni
equivalenti a quelle della CIG.

LA RIDUZIONE DEL PERSONALE


Il licenziamento collettivo è il provvedimento cui un’impresa può ricorrere allorché è gravata da un’eccedenza di
personale ormai strutturale, e necessita di ridurre stabilmente il livello dell’organico.
La legge 23 luglio 1991, n. 223 rispetta la libertà economica (art. 41, Cost.), che implica la libertà dell’imprenditore
di determinare e modificare le dimensioni dell’impresa e il livello dell’organico. Da ciò discende, tra l’altro, che il
datore di lavoro non è giuridicamente obbligato a ricorrere a strumenti alternativi come la CIGS, prima di procedere
ad un licenziamento collettivo; anzi, a rigore, qualora ritenga inevitabile e irreversibile l’eccedenza di personale, egli
non dovrebbe ricorrere alla CIGS, bensì immediatamente ai licenziamenti.
Una volta che la procedura si sia conclusa (il datore deve sottomettere la propria intenzione alle organizzazioni
sindacali ed ai rappresentanti dei lavoratori in azienda), con o senza un accordo con i soggetti sindacali, si procede
all’adozione dei licenziamenti, tenuto conto di dati criteri di scelta. Contestualmente ai licenziamenti, la legge n.
223/1991 aveva previsto, altresì, l’attivazione della rete di sicurezza consistente nella collocazione dei lavoratori
licenziati in mobilità. Si trattava di un’originale forma previdenziale che comportava l’erogazione di un’indennità
economica (per un periodo fino a 3-4 anni) e l’attivazione di incentivi contributivi volti a favorire la riassunzione dei
lavoratori in mobilità da parte di terzi. La legge n. 92/2012 ha avviato il progressivo superamento della mobilità, che
è uscita di scena il 01/01/2017, rifluendo nella tutela generale contro la disoccupazione, rappresentata dalla NASpI.

NOZIONE DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO


A riguardo l’art. 24 comma 1 della legge 223 /1991 prevede che si ha un licenziamento collettivo, quando
un'impresa o un datore non imprenditore, occupino più di 15 dipendenti e, in conseguenza di una riduzione o
trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno 5 licenziamenti, nell'arco di 120 giorni, in ciascuna
unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia.
Per licenziare collettivamente, non si può fare un licenziamento “ad personam”, ma la motivazione alla base del
licenziamento deve essere la stessa per tutti. La causale del licenziamento è uguale per tutti.
Tuttavia secondo la giurisprudenza questa nozione, vale solo quando l’imprenditore procede ad un licenziamento
collettivo senza essere passato, preventivamente, da un periodo di CIGS. Qualora, invece, l’imprenditore sia passato,
preventivamente, da un periodo di CIGS, cioè licenzi e collochi in mobilità lavoratori già in CIGS, si applica l’art. 4
comma 1 della legge 223/1991, che non prevede il requisito numerico di almeno 5 dipendenti, quindi, anche un solo
licenziamento, motivato dalle causali in discorso (riduzione o trasformazione di attività o di lavoro) è da ritenersi ai
fini della legge come “collettivo”.

LA PROCEDURA DEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO


La procedura del licenziamento collettivo ha inizio con una “comunicazione” che l’imprenditore o il datore di lavoro
che sia intenzionato a procedere ad un licenziamento collettivo (preceduto o meno da un periodo di CIGS) deve
trasmettere “per iscritto” alle RSA/RSU ed alle rispettive associazioni sindacali di categoria.
La comunicazione deve contenere, una serie di informazioni sul progettato licenziamento collettivo, finalizzate a
porre le parti sindacali in grado di gestire la difficile situazione.
In particolare deve contenere:
a) i motivi che determinano la situazione di eccedenza di personale;
b) i motivi tecnici, organizzativi o produttivi per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio
alla situazione ed evitare, in tutto o in parte, i licenziamenti;
c) il numero e la collocazione aziendale e i profili professionali del personale eccedente e del personale abitualmente
impiegato;
d) i tempi di attuazione del programma di mobilità;
e) le eventuali misure per fronteggiare le conseguenze sociali del licenziamento (es. misure di “outplacement” rivolte
a ricercare, altre occupazioni per i licenziati).
All’informazione segue una fase di consultazione: entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione (scritta), a
richiesta delle RSA/RSU e delle rispettive associazioni sindacali di categoria, si procede ad un esame congiunto tra le
parti, allo scopo di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l’eccedenza di personale e la possibilità di
utilizzazione diversa di questo personale, nell’ambito della stessa impresa, anche mediante forme flessibili di
gestione del tempo di lavoro, accordi comportanti il declassamento professionale e/o retributivo dei lavoratori.
L’esame “congiunto” deve concludersi entro 45 giorni (25 nel caso della CIGO o della CIGS) dalla data di ricevimento
della comunicazione, ridotti a 30 nel caso che l’impresa sia soggetta a procedura concorsuale.
Qualora venga concluso un accordo entro questo termine, la procedura si esaurisce.
In caso di mancato accordo, deve darsi luogo ad un “supplemento di procedura”, innanzi ad organismi pubblici
chiamati a svolgere un ruolo di mediazione, che sono: la DTL, la Regione in caso di eccedenze riguardanti più
province di una Regione, oppure il Ministero del Lavoro nel caso di eccedenze riguardanti più Regioni.
Tale fase “amministrativa” deve concludersi, entro 30 giorni. Se neanche in questa fase maturi un accordo (quindi
neanche dopo un massimo di 75 giorni=45+30) la procedura è definitivamente conclusa, e le parti (imprenditore ed
associazioni sindacali) riacquistano piena libertà di azione, cioè, rispettivamente di licenziare e di ricorrere ad azioni
di sciopero.

I CRITERI DI SCELTA DEI LAVORATORI DA LICENZIARE


La scelta dei lavoratori da includere nel licenziamento collettivo, deve avvenire nel rispetto di determinati criteri.
Per la determinazione dei criteri l’art. 5 predispone un meccanismo normativo originale, che si fonda
sull’applicazione prioritaria dei CRITERI SINDACALI, eventualmente pattuiti, e su quella, eventuale e suppletiva, di
CRITERI LEGALI. Però, prima dell’applicazione dei criteri (sindacali o legali) vi dev’essere la delimitazione
“dell’ambito” entro il quale essi debbono essere applicati. Tale operazione è lasciata dalla legge alla determinazione
unilaterale del datore di lavoro, di solito imprenditore, che deve però compierla tenendo conto delle “esigenze
tecnico produttive e delle esigenze organizzative, del complesso aziendale”.
La giurisprudenza ha ormai sviluppato a tal riguardo, un orientamento, secondo il quale il datore di lavoro “non è
obbligato” a rapportare la scelta, all’intero “complesso aziendale” (che comporterebbe il salvataggio di lavoratori
appartenenti alle unità dismesse e cioè, non più usate, trasferendoli in altre unità con nuove mansioni, e
simmetricamente il licenziamento di altri, anche se addetti ad unità non coinvolte dalla ristrutturazione aziendale).
Il datore di lavoro, di conseguenza, ha la possibilità di “restringere l’ambito di scelta alle unità interessate dal
progetto di chiusura o di chiusura o ristrutturazione”, a maggior ragione nel caso in cui l’attività delle stesse sia già
sospesa e i rispettivi addetti siano collocati in CIGS, e il licenziamento collettivo vada riguardare, come di solito
accade, proprio questi addetti. Tuttavia, la condizione posta dalla giurisprudenza per circoscrivere la scelta dei
lavoratori da licenziare alle unità chiuse o ristrutturate, è che l’attività lavorativa svolta in quelle unità (chiuse o
ristrutturate) non sia facilmente sostituibile con quella espletata in altre unità dell’azienda, e che non vi sia, quindi
sostituibilità tra il personale delle une o il personale delle altre. Qualora invece, tale sostituibilità esista, torna in
gioco il riferimento al “complesso aziendale”, e quindi la scelta dev’essere rapportata all’intera azienda, con gli
spostamenti interni che possono nascerne.
Detto ciò, la previsione dei criteri di scelta è affidata in prima battuta, alla contrattazione collettiva, e in particolare
all’ACCORDO SINDACALE. L’unico vincolo a tal riguardo, è che i criteri pattuiti siano in sé legittimi, cioè siano in
primis non discriminatori e inoltre dotati di una pur minima ragionevolezza in rapporto alla funzione che devono
svolgere. Un criterio molto utilizzato, e in sé ragionevole, è quello della titolarità già acquisita (o molto prossima) da
parte del lavoratore, di un trattamento pensionistico.
In “difetto di accordo sindacale” a tal riguardo, debbono essere applicati i CRITERI LEGALI, cioè previsti dalla legge,
in concorso tra loro: a) carichi di famiglia ; b) anzianità di servizio; c) esigenze tecnico produttive ed organizzative
Infine, va detto, che l’imprenditore deve, entro 7 giorni dalla comunicazione scritta (ai lavoratori) dei singoli
recessi, inviare alle associazioni sindacali e alla DRL competente, una comunicazione riassuntiva e dettagliata delle
modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta.

IL REGIME SANZIONATORIO DEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO


L’inosservanza di uno o più degli obblighi procedurali previsti dalla legge n. 223/1991 [1) omesso invio o
incompletezza della comunicazione; 2) mancata partecipazione dell’imprenditore all’esame congiunto richiesto dai
sindacati; 3) omessa o inadeguata comunicazione circa le modalità di applicazione dei criteri di scelta], del requisito
di forma scritta e/o dei criteri di scelta, può essere fatta valere dal lavoratore tramite un’azione giudiziale di
impugnazione del licenziamento collettivo.
Il regime sanzionatorio dei vizi del licenziamento collettivo è differente per i lavoratori assunti sino al 6 marzo 2015
e per quelli assunti dopo tale data:
• Per i lavoratori assunti prima del 6 marzo 2015 le sanzioni sono rinvenibili nell’art. 18, l. n. 300/1970:
a) in caso di violazione della normativa procedurale si applica la tutela economica, la quale comporta l’attribuzione di
un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
b) in caso di difetto della forma scritta, si applica la tutela ripristinatoria piena;
c) in caso di violazione dei criteri di scelta, si applica la tutela ripristinatoria attenuata.
• Invece, per i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, in virtù del d. lgs. n. 23/2015 tanto la violazione degli
obblighi procedurali quanto quella dei criteri di scelta comporta l’applicazione della tutela economica crescente.
Soltanto all’ipotesi del licenziamento collettivo intimato in forma orale continua ad applicarsi la tutela
ripristinatoria piena.

LA NUOVA ASSICURAZIONE SOCIALE PER L’IMPIEGO (NASPI)


La Riforma Fornero ha puntato a riorganizzare il sistema di tutela contro la disoccupazione involontaria attorno ad
un unico schema assicurativo, quello dell’Assicurazione Sociale per l’Impiego. L’istituto è stato sottoposto a una
ulteriore riforma tramite il d. lgs. 4 marzo 2015, n. 22, emanato nel quadro del Jobs Act, che ha sostituito l’ASpI con
la NASpI.
La NASpI è riconosciuta ai lavoratori che hanno perduto involontariamente la propria occupazione e che presentano
congiuntamente i seguenti requisiti:
a) sono in stato di disoccupazione ai sensi della normativa in tema di servizi per il lavoro;
b) possono far valere, nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno 13 settimane di
contribuzione;
c) possono far valere 30 giorni di lavoro effettivo nei 12 mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione.
Per quanto concerne la misura del trattamento, l’indennità del NASpI è pari al 75% della retribuzione imponibile ai
fini previdenziali percepita dal lavoratore negli ultimi 4 anni, qualora essa sia pari o inferiore a €1.195 (per il 2017;
l’importo è annualmente rivalutato). Nei casi in cui la retribuzione è superiore al predetto importo, l’indennità è pari
al 75% della retribuzione, incrementata di una somma pari al 25% della differenza tra la retribuzione mensile e il
predetto importo. In ogni caso non può essere superato, per il 2016, l’importo mensile massimo di €1.300.
Peraltro, l’indennità NASpI si riduce del 3% ogni mese a decorrere dal 4° mese di fruizione.
La durata massima della NASpI è pari alla metà delle settimane di contribuzione avute dal lavoratore negli ultimi 4
anni, per un massimo di 78 settimane.
La domanda di NASpI deve essere presentata, in via telematica, entro il termine di decadenza di 68 giorni dalla
cessazione del rapporto di lavoro. La NASpI spetta a decorrere dall’8° giorno successivo alla cessazione del rapporto
di lavoro o, qualora la domanda sia presentata successivamente a tale data, dal 1° giorno successivo alla data di
presentazione della domanda. È ribadito il principio di condizionalità: l’erogazione della NASpI è condizionata alla
regolare partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa nonché ai percorsi di riqualificazione professionale
proposti dai servizi per il lavoro. Il beneficiario decade dalla NASpI se:
- non ottempera alle azioni di politica attiva di cui sopra;
- perde lo stato di disoccupazione;
- inizia un’attività lavorativa subordinata o autonoma senza debitamente comunicarlo;
- raggiunge i requisiti della pensione di vecchiaia o anticipata;
- acquisisce l’assegno ordinario di invalidità.

Il d.lgs. 22/2015 ha previsto un’indennità di disoccupazione (DIS-COLL) per i lavoratori con rapporto di collaborazione
coordinata e continuativa.
COS’È LA DIS-COLL? è una indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e
continuativa che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione.

IL REDDITO DI CITTADINANZA
Al sistema contro la disoccupazione si è aggiunto il reddito di cittadinanza, introdotto dal decreto l. 4/2019, si
qualifica quale misura di sostegno alla povertà, nonché di politica attiva, volto al reinserimento nel mondo del lavoro,
formazione e inclusione. Il sostegno economico, condizionato alla presenza di specifici requisiti soggettivi di accesso,
di natura anagrafico-patrimoniale, è determinato in una somma di danaro formata da due quote (una integra il
reddito familiare, l’altra quale contributo di affitto/mutuo) determinata sulla base dell’ISEE e dal modello di
domanda.

IL LAVORO ESTERNO
LE ESTERNALIZZAZIONI
Oltre al lavoro subordinato e a quello autonomo, esiste un terzo tipo di lavoro allorché un’impresa si procura il
lavoro all’esterno tramite contratti di servizio con imprese terze.
In sostanza un'impresa ha 2 possibilità:
1) MAKE: produrre all’interno tutti i beni e i servizi che servono per produrre il bene finale, ricorrendo ad acquisti
esterni solo per approvvigionarsi di materie prime (tipica dell'impresa fordista, cioè della catena di montaggio
automobilistica Ford);
2) BUY: acquistare all’esterno beni o servizi per completare il ciclo produttivo (tipica dell'impresa postfordista).
Tra i due modelli esistono soluzioni intermedie, quale la “rete di imprese” (che rappresentano un'evoluzione
sofisticata del modello “buy”) dove ciascuna impresa svolge la propria attività, affidando ad altri la produzione di
parti specializzate che operano in maniera autonoma rispetto ad essa. Al decentramento di una parte del ciclo
produttivo può non corrispondere l’estromissione (esclusione) materiale dello stesso. Accade spesso che attività
esternalizzate continuino ad essere svolte all’interno del perimetro aziendale, ma da parte di imprese terze e con i
dipendenti di queste. Di solito l’azienda cede un ramo dell’azienda ad un’altra, tramite la stipula di contratti
commerciali di appalto. L’impresa appaltatrice opera con propri mezzi e propri capitali e si impegna a fornire
all’azienda concessionaria, che li acquista, i prodotti di tale attività.

IL TRASFERIMENTO DELL’AZIENDA E DEL RAMO D’AZIENDA


Sin dall’emanazione del codice civile, il diritto del lavoro si è fatto carico dell’ipotesi in cui un imprenditore trasferisca
a terzi la proprietà o il godimento di un'azienda. E lo ha fatto guardando alle conseguenze che tale vicenda
successoria ha per i lavoratori, che ha reputato meritevoli di una tutela “speciale”. Tale disciplina, dettata dall’art.
2112 cc mira a tenere indenni (illesi) i lavoratori dalle conseguenze del trasferimento:
- prevedendo che i relativi rapporti di lavoro vengano “trasferiti”, con l’azienda stessa, alle dipendenze del nuovo
titolare della medesima,
- e apprestando garanzie per i crediti pregressi e non soddisfatti.

LA NOZIONE DI AZIENDA
Il primo interrogativo da sciogliere è che cosa si intenda nel contesto lavoristico per trasferimento d’azienda; la
risposta è nell’art. 2112, c.5: “si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione
contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza
scopo di lucro, al fine dello scambio di beni e servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la
propria identità”. La condizione necessaria è che l’azienda deve essere esistente prima del trasferimento.
Con la locuzione attività economica organizzata, il legislatore comprende nella fattispecie tanto il trasferimento
dell’azienda, come complesso di beni organizzati, quanto la cessione di qualunque attività, purché organizzata in
vista della produzione di beni e servizi. È lecito affermare che l’oggetto del trasferimento non è tanto l’azienda
intesa come insieme di beni materiali ma l’impresa in quanto attività organizzata al fine della produzione e dello
scambio di beni/servizi (art. 2082cc).

LA NOZIONE DI RAMO D’AZIENDA


Anche la definizione di ramo di azienda è contenuta nell’art. 2112 comma 5 (come modificato dall’art. 32 comma 1
decr.lgs.276/2003), in base al quale: le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte
dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata
come tale dal cedente e dal cessionario AL MOMENTO DEL SUO TRASFERIMENTO.
Quindi, affinché un complesso di beni aziendali costituisca un ramo di azienda, occorre che essi diano luogo ad
un'articolazione dell’azienda (intesa quest’ultima come attività economica organizzata) dotata di autonomia
funzionale nel quadro del processo produttivo aziendale. Tuttavia, mentre prima del decreto 276/2003 tale
autonomia funzionale doveva essere “preesistente al trasferimento”, cioè doveva avere un riscontro reale
nell’organizzazione aziendale anteriore al trasferimento, la novella ha soppresso il requisito della preesistenza,
ritenendo sufficiente che il ramo di azienda sia identificato come funzionalmente autonomo, dal cedente e dal
cessionario “AL MOMENTO DEL TRASFERIMENTO”.
Si è trattato di una novità mirante a rendere ancora più facili le esternalizzazioni, ma che la giurisprudenza ha per lo
più riassorbito, essendo difficile ipotizzare un ramo autonomo, la cui autonomia non si sia manifestata, in qualche
misura, già nell’organizzazione aziendale esistente prima del trasferimento.

LA NOZIONE DI TRASFERIMENTO
Il trasferimento di azienda, si concretizza, di massima, in una cessione del diritto di proprietà sull’azienda, e dunque
in una vendita. Ad essa sono equiparate, in modo esplicito, le ipotesi di usufrutto e dell’affitto dell’azienda, nonché
della fusione societaria.

LA CONTINUAZIONE DEL RAPPORTO ALLE DIPENDENZE DEL CESSIONARIO


In caso di trasferimento d’azienda il rapporto di lavoro continua con l’acquirente e il lavoratore conserva tutti i diritti
che ne derivano. In questo modo si realizza una cessione ex lege dei contratti di lavoro, attivati con i dipendenti
appartenenti all’azienda o al ramo di essa che è stato ceduto, la quale comporta il subentro dell’acquirente nella
titolarità di detti contratti, ed esclude qualsiasi interruzione della continuità dei rapporti in questione.
Questa cessione NON richiede il consenso del contraente ceduto, cioè del lavoratore. Questi, peraltro, può
contestare in giudizio il passaggio, in particolare assumendo di non fare parte del ramo d’azienda che è stato
ceduto, o di esservi stato inserito in modo strumentale o discriminatorio (una contestazione del genere non ha senso
in caso di cessione totale dell’azienda). L’azione del lavoratore è soggetta al termine di decadenza di 60+180 giorni.

IL DIVIETO DI LICENZIAMENTO
La regola di cui all’art. 2112 comma 1, implica, che il lavoratore appartenente ad un'azienda o ad un ramo di essa,
prossimi alla cessione, non possa essere licenziato a causa di tale trasferimento/cessione. L’art. 2112 comma 4 infatti
dispone che: ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il
trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Non è dunque consentito al cedente (salve
nelle situazioni qualificate di crisi) di “alleggerire” l’organico, con licenziamenti disposti nell’imminenza del
trasferimento, anche se al fine di rendere l’azienda più appetibile per il cessionario. Eventuali licenziamenti
potranno essere adottati solo dal cessionario, dopo l’acquisizione dell’azienda. Però il lavoratore può essere non
contento del trasferimento, per cui (a parte il caso di impugnazione della cessione) la legge gli consente di
“dimettersi per giusta causa” dal rapporto di lavoro entro 3 mesi dal trasferimento, qualora le sue condizioni di
lavoro abbiano subito una sostanziale modifica.
LA CONSERVAZIONE DEI DIRITTI ACQUISITI
Alla continuazione del rapporto di lavoro con l’acquirente, si aggiunge, la conservazione dei diritti maturati nella
pregressa fase del rapporto: per l’essenziale, condizioni previste dal contratto individuale e anzianità di servizio
maturata. La conservazione dei diritti non implica però l’immutabilità del regime futuro del rapporto di lavoro.
In particolare, per ciò che attiene ai diritti che derivano al singolo dal contratto collettivo, l’art. 2112 comma 3
prevede che: il lavoratore che passa alle dipendenze del nuovo datore di lavoro (cessionario-acquirente) ha diritto a
vedersi applicati, fino alla loro scadenza, i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali,
territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento. Ma questo non nel caso in cui vi siano altri contratti
collettivi (territoriali o aziendali) applicabili all’impresa cessionaria.
In quest’ultimo caso subentrano i nuovi contratti collettivi, nonostante quelli pregressi non siano ancora scaduti.
Questo significa che qualora il contratto collettivo applicabile all’impresa cessionaria preveda un trattamento
inferiore rispetto a quello del precedente contratto collettivo, i lavoratori ceduti possono trovarsi a sopportare, per il
futuro, una riduzione della retribuzione. Di solito però tal conseguenza è scongiurata con la stipulazione di accordi
aziendali ad hoc (a questo scopo), rivolti ad armonizzare gradualmente il trattamento dei nuovi dipendenti con
quelli già in essere nell’azienda.

LA RESPONSABILITÀ DEL CESSIONARIO PER DEBITI PREGRESSI


Può capire che il lavoratore, all’atto del trasferimento, possa vantare dei crediti rimasti insoddisfatti, dal
precedente datore di lavoro. Per favorire il soddisfacimento di essi l’art. 2112 comma 2 prevede che: il cedente ed il
cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva (maturato) al tempo del trasferimento. Il
cessionario, in sostanza, deve accollarsi, per legge, anche i debiti della precedente gestione nei confronti dei
lavoratori, salvo poi potersi rivalere, internamente, sul cedente.
Di contro, con la sottoscrizione di un accordo transattivo (contratto con il quale due parti pongono fine a una lite o
prevengono una lite) in sede sindacale o presso la DTL, come davanti ad un giudice, il lavoratore può consentire la
liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
Fra i diritti di credito in considerazione non era fatto rientrare il TFR, dal 2011, la giurisprudenza della Cassazione ha
mutato il punto di vista, il datore cedente rimane obbligato, in solido col cessionario (persona a cui viene trasferito un
diritto), a pagare al lavoratore la quota di TFR maturata da questi prima del trasferimento, fermo restando che il
relativo credito sia esigibile soltanto alla cessazione finale del rapporto di lavoro.

LA PROCEDURA DI INFORMAZIONE E CONSULTAZIONE SINDACALE


Vi è, infine, una garanzia procedurale, di tipo partecipativo, in virtù della quale sia il cedente che il cessionario, se
occupano più di 15 dipendente, sono tenuti ad attivare, preventivamente al trasferimento, una procedura di
informazione e consultazione, onde consentire alla parte sindacale un controllo sulla vicenda sotto il profilo delle
conseguenze per i lavoratori.
La procedura ha inizio con una comunicazione informativa, da inviare almeno 25 giorni prima del trasferimento alle
RSU, o RSA, nonché alle associazioni sindacali di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato nelle
imprese interessate al trasferimento. L’informazione deve riguardare:
a) la data o la data proposta del trasferimento d’azienda;
b) i motivi di esso e le sue conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori;
c) le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi.
Una volta ricevuta la comunicazione, i soggetti sindacali possono richiedere alle due imprese un esame congiunto
della situazione, che può protrarsi al massimo per 10 giorni, dopo di che il trasferimento può procedere.
La violazione degli illustrati obblighi procedurali non può disporre, in ogni caso, l’invalidazione del contratto di
cessione dell’azienda.

IL TRASFERIMENTO DELL’IMPRESA IN CRISI


La fase di negoziazione aperta dalla procedura può essere particolarmente importante nelle ipotesi “d’impresa in
crisi” (cioè o in CIGS per crisi aziendale, o in fallimento, o in concordato preventivo, amministrazione straordinaria, o
con accordo omologato di ristrutturazione dei debiti) nelle quali la legge variamente consente, al fine di favorire le
operazioni di “salvataggio” delle aziende alleggerendone i costi fissi, di disapplicare le garanzie dell’art. 2112.
Tale disapplicazione è assoggettata, però, al controllo del sindacato.

L’APPALTO DI OPERA O SERVIZIO


Il processo di esternalizzazione si realizza di solito tramite la stipulazione di contratti di appalto fra l’impresa titolare
dell’attività e quella che ha acquisito la gestione della stessa. In virtù del contratto, l’appaltatore si obbliga a fornire
“con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio” l’opera o il servizio.
L’ appalto è il contratto mediante il quale una parte (appaltatore) assume, nei confronti di un’altra parte
(committente detto anche appaltante), l’obbligo di compiere un’opera (appalto d’opera) o un servizio (appalto di
servizi) verso un corrispettivo in denaro, organizzando i mezzi necessari a tale scopo e gestendo l’impresa a proprio
rischio. L’oggetto del contratto è, dunque, un obbligo di fare che si concretizza nell’opera compiuta (es. costruzione
di un edificio) o nel servizio reso (es. pulizie di un edificio).
In particolare, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in
solido con l'appaltatore, entro il limite di 2 anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i
trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto (TFR), nonché i contributi previdenziali.

IL DIVIETO DI INTERPOSIZIONE NELLE PRESTAZIONI DI LAVORO


Se, al contrario di quanto detto, l’impresa appaltatrice non è un’impresa autentica, essendo priva di una reale
autonomia produttiva e organizzativa, in tal caso i lavoratori addetti allo svolgimento dell’appalto risultano utilizzati
come dipendenti, di fatto, dell’impresa appaltante. Non si è quindi di fronte all’apparto ex art. 1655, bensì ad una
mera fornitura o somministrazione di manodopera (appalto di manodopera), ovvero ad un’interposizione di un
datore di lavoro puramente fittizio (appaltatore) in un rapporto che, di fatto, intercorre fra i lavoratori e il datore di
lavoro (appaltante). Questa interposizione è illecita.
Vediamo infatti che, la Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 27 gennaio 2021, n. 1754, ha stabilito che il
divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta
a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli
compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della
continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa,
finalizzata a un risultato produttivo autonomo, né un’assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento
dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo.

IL DISTACCO DEL LAVORATORE


Il d.lgs. 276/2003 disciplina il distacco del lavoratore, che si ha quando “un datore di lavoro, per soddisfare un
proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l'esecuzione di una
determinata attività lavorativa”. AI fine di evitare che il distacco configuri un’interposizione vietata, soccorre il
requisito dell'interesse dell’imprenditore distaccante: deve trattarsi di un interesse di natura imprenditoriale a
distaccare per un certo periodo un lavoratore presso un altro imprenditore. Unitariamente all'interesse, requisito
costitutivo del distacco è la temporaneità del medesimo, che peraltro è interpretata in modo elastico dalla
giurisprudenza, la quale tollera distacchi anche molto lunghi.
Qualora venga accertata la carenza di tali requisiti si cade nell’ipotesi di distacco irregolare, che produce le
medesime conseguenze della violazione del divieto di interposizione, con facoltà per il lavoratore distaccato di agire
in giudizio. Una volta che il distacco è stato disposto, il potere direttivo è esercitato dal datore di lavoro presso cui il
lavoratore, pur senza esserne dipendente, rende la prestazione, ma il datore di lavoro originario rimane responsabile
del trattamento economico e normativo spettante al lavoratore.
Il distacco che dà luogo a un “mutamento sostanziale” delle mansioni svolte dal lavoratore (sempre entro i limiti
dettati dall’art. 2103) deve avvenire col consenso di questi.
Quando comporta il trasferimento ad un’unità produttiva sita a più di 50 km da quella cui il lavoratore è
normalmente assegnato, il distacco può avvenire soltanto per “comprovate ragioni tecniche, organizzative,
produttive o sostitutive”.
Il Decreto Dignità del 2018 ha previsto dei termini entro cui è possibile l’impugnazione del distacco:
-termine di 60 giorni per impugnazione stragiudiziale.
-termine di 180 giorni per impugnazione giudiziale.

Potrebbero piacerti anche