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Ente Olivieri - Biblioteca e Musei Oliveriani
il lavoro editoriale
Studia Oliveriana
Autorizzazione del Tribunale di Pesaro n. 588 del 3 maggio 2011
Quarta serie, vol. VII, anno MMXXI
ISBN edizione cartacea 9788876639586
ISBN edizione ebook 9788876639609
ISSN 0562-2964
Presidente
Fabrizio Battistelli
Consiglio di amministrazione
Enrico Capodaglio, Anna Cerboni Baiardi, Camilla Falcioni, Maria Chiara Mazzi, Costanza Cecilia
Raffaelli, Marco Rocchi, Marcello Smarrelli, Marcella Tinazzi
Direttore
Brunella Paolini
In copertina: Pesaro, Biblioteca e Musei Oliveriani, Cavaliere trace (CIL VI, 26615).
SOMMARIO
Fabrizio Battistelli, «La gente nova e i subiti guadagni» (Inf. XVI, 73).
Politica e società nella Divina Commedia 9
Giunto al centro della Terra, a conclusione del suo viaggio nell’Inferno, Dante
fa il suo incontro con Lucifero, trasformato in mostro trifauce conficcato nella
ghiaccia del Cocito, da cui emerge dal busto in su con proporzioni così enormi da
superare ogni gigante. In ciascuna delle tre bocche sono perpetuamente masticati
«a guisa di maciulla» (v. 56) coloro che in vita si sono resi responsabili dei tradi-
menti più abietti nella storia dell’umanità: in quella centrale, di color vermiglio,
Giuda Iscariota, da cui fuoriesce con le gambe e la parte posteriore del corpo,
mentre nelle due laterali, rispettivamente nera a sinistra e «tra bianca e gialla»
(v. 43) a destra, i cesaricidi Bruto e Cassio, che, al contrario di Giuda, spuntano
dalla bocca di Lucifero con le rispettive teste e il torace. Come noto, la scelta di
questi due ultimi personaggi è coerente col pensiero politico dantesco formulato
in altri scritti, in particolare nel Convivio, dove Cesare è definito «primo prencipe
sommo» (4, 5, 12), e, più diffusamente, nella Monarchia, in cui Dante sostiene
che l’autorità imperiale, rappresentata per antonomasia da Cesare, è direttamente
derivata da Dio senza nessun intermediario, come prova della bontà divina verso
il genere umano (3, 16, 15: sic ergo patet quod auctoritas temporalis Monarche sine
ullo medio in ipsum de Fonte universalis auctoritatis descendit: qui quidem Fons, in
arce sue simplicitatis unitus, in multiplices alveos influit ex habundantia bonitatis)1.
Tradendo Cesare, Bruto e Cassio hanno di fatto violato con il loro ‘atto criminale’
l’ordine naturale voluto proprio da Dio. Sono, pertanto, colpevoli allo stesso modo
1
Per una interpretazione di questo passo si rimanda al commento di D. Quaglioni in Dante, Monarchia, Milano,
Mondadori 2015, pp. 512s., che, sulla scia di R. Kay, Roman Law in Dante’s Monarchia, in E.B. King-S.J. Ri-
dyard, Law in Mediaeval Life and Thought, Sewanee, Press of University of the South, 1990, indica come fonte
di questo pensiero la Novella VI di Giustiniano, considerata «la principale fonte romanistica di Dante» (p. 512).
L’influsso della storia e dell’impero di Roma nella costruzione del pensiero politico di Dante è stato di recente
ottimamente analizzato da F. Fontanella, L’impero e la storia di Roma in Dante, Bologna, Il Mulino, 2017.
39
Sergio Audano
di Giuda, che ha venduto Cristo per trenta denari e, non a caso, subisce una pena
che ricorda quella inflitta ai simoniaci nel canto XIX2.
Questa la potente raffigurazione dei due cesaricidi nelle fauci di Lucifero (Inf.
XXXIV, 64-67):
L’esegesi di questi versi non pare di per sé particolarmente problematica, tranne che
nella puntuale interpretazione della qualifica di membruto attribuita a Cassio al v. 67.
La quasi totalità dei commentatori mette, infatti, in luce la difformità della de-
scrizione dantesca, che parrebbe alludere alla robustezza della corporatura del ce-
saricida, con quanto tramandato dalle fonti antiche, a iniziare da Plutarco che ci
fornisce in merito il maggior numero di elementi. In particolare un noto aneddoto,
che l’autore delle Vite Parallele replica più volte nei suoi scritti3, conferma l’esilità
del fisico di Cassio, come peraltro anche di Bruto: quando a Cesare fu riferito che
Antonio e Dolabella stavano tramando rivolgimenti, egli avrebbe risposto «che non
lo preoccupavano gli uomini grassi e dai capelli lunghi, ma quelli pallidi e magri,
alludendo a Bruto e a Cassio» (Brut. 8, 2).
Dante ovviamente non conosceva Plutarco che, in ogni caso, è l’unica tra le fonti an-
tiche a fornirci espliciti riferimenti sulla corporatura di Cassio; ciò ha provocato un certo
imbarazzo nei commentatori moderni che si sono cimentati, con risultati nel complesso
poco convincenti, nel tentativo di individuare la possibile fonte utilizzata dal poeta.
Nel suo recente commento, Giorgio Inglese, ad esempio, suppone che Dante
volesse alludere alla «nota virtù militare» del cesaricida e propone, a supporto, un
passo di Orosio (6, 18, 13: Brutus et Cassius magnis exercitibus conparatis apud
Athenas convenerunt totamque Graeciam depopulati sunt. Rhodios Cassius terra ma-
rique oppugnatos ad deditionem coegit, quibus praeter vitam nihil reliquit)4, ma è
un’ipotesi debole, visto che in ogni caso non è dimostrabile il nesso tra la robustezza
fisica e il valore militare, peraltro espresso in un’unica vicenda bellica, come appun-
to l’assedio e l’espugnazione di Rodi, a cui farà seguito la sconfitta di Filippi, con
il suicidio dei cesaricidi, come subito dopo lo stesso Orosio precisa (6, 18, 15-16:
2
Un’articolata analisi della figura di Giuda in questo contesto, con analisi estesa ai commenti del poema,
è proposta da E. Draskóczy, Contrasti morali ed estetici nel canto XXXIV della Divina Commedia. La
rappresentazione di Giuda in Dante e nei commenti antichi, «Dante Füzetek» 4, 2008, pp. 81-114. Le
analogie con i simoniaci sono state evidenziate da N. Sapegno nel suo noto commento (Dante, Inferno,
Firenze, La Nuova Italia, 1985, pp. 381s.).
3
Oltre che nella Vita di Bruto, il medesimo aneddoto ritorna, in forma analoga, anche in Ant. 11, 6; Caes.
62, 10 e, tra i Moralia, anche in Reg. et imp. Apophth. Caes. 14, 206E.
4
Dante Alighieri, Commedia. Inferno, a c. di G. Inglese, Roma, Carocci, 20162, p. 394.
40
Dante e Cassio membruto (Inf. XXXIV, 67): una raffigurazione epicurea?
sed rursus Caesariani milites Cassi castra ceperunt. Quare ad desperationem adacti
Brutus et Cassius immaturam sibi mortem ante belli terminum consciverunt. Nam
invitatis percussoribus Cassius caput, Brutus latus praebuit).
In una linea non dissimile si è mosso anche Saverio Bellomo, il quale adduce, in-
vece, un passo delle Historiae di Velleio Patercolo, che, a suo dire, «risponde perfet-
tamente alla duplice caratterizzazione di ambedue i cesaricidi» (2, 72, 2: fuit autem
dux Cassius melior quanto vir Brutus…in altero maior vis, in altero virtus)5. A parte il
fatto che, pure in questo caso, non si comprende come la menzione della vis militare
di Cassio abbia potuto ingenerare l’immagine di corpulenza che Dante attribuisce
al personaggio, come se il tratto adiposo fosse un requisito imprescindibile per ogni
buon generale, resta il dato incontrovertibile della mancata circolazione di Velleio
Patercolo nel Medioevo, visto che la riscoperta della sua opera avvenne in pieno
Rinascimento, nel 1515, a opera di Beato Renano6.
Di fronte all’oggettiva impossibilità di identificare una fonte prosopografica at-
tendibile, non sono mancati tentativi più radicali, come quello di intervenire di-
rettamente sul testo. È quanto proposto da Paola Manni7, la quale suggerisce, al
posto del tràdito membruto, di leggere men bruto. La studiosa argomenta la sua
congettura sostenendo che l’errore sia stato, con ogni probabilità, generato da un
lapsus di trascrizione in una fase molto antica, dal momento che già alcuni com-
mentatori trecenteschi, come Iacomo (vulgo Jacopo) della Lana, leggevano con ogni
certezza membruto con la valenza semantica di ‘robusto’. Inoltre, Manni insiste nel
porre in relazione l’atteggiamento morale dei due cesaricidi, i quali, pur nella loro
diversa fisionomia, sono tuttavia accomunati dalla loro scellerata complicità, la cui
sottolineatura «è affidata alla coppia Bruto nome proprio e bruto aggettivo che, in
rima equivoca, si saldano in un gioco di ambiguità anche semantica. Bruto, nome del
primo congiurato, si contamina del suo significato etimologico, quanto mai appro-
priato a designare questi dannati estremi che, nel fondo dell’abisso infernale han-
no perso qualsiasi parvenza di razionalità e sono ridotti, appunto, ad automatismi
bruti»8. Per quanto indubbiamente ingegnosa e argomentata in maniera elegante, la
proposta della studiosa non pare, tuttavia, convincente e, di fatti, non trova men-
zione nei più recenti commenti. In primo luogo, membruto è lessema pienamente
dantesco, visto che ricorre una volta nel Convivio (3, 3, 9: «e però vedemo certo
cibo fare li uomini formosi e membruti e bene vivacemente colorati, e certi fare lo
contrario di questo») e un’altra ancora all’interno della Commedia (Purg. VII, 112),
con riferimento a Pietro III d’Aragona notoriamente dipinto dalle fonti coeve come
5
Dante Alighieri, Inferno, a c. di S. Bellomo, Torino, Einaudi, 2013, p. 548. La proposta di Bellomo è
stata recepita successivamente anche da L. Ferretti Cuomo in Dante Alighieri, Commedia (ed. critica a c.
di P. Trovato). Inferno XXXIV, vol. II, tomo II, Padova, libreria universitaria.it edizioni, 20162, p. 22, che
allude a una non meglio precisata «conoscenza indiretta» da parte di Dante del passo di Velleio Patercolo.
6
Un riesame della vicenda della scoperta di Velleio Patercolo e della sorte del suo unico testimone in L.
Calvelli, Novità sulla fortuna del codex unicus di Velleio Patercolo, «RCCM» 58/2, 2016, pp. 357-372.
7
P. Manni, Cassio membruto, «Studi linguistici italiani» 37, 2011, pp. 161-169.
8
Manni, Cassio membruto, cit., p. 167.
41
Sergio Audano
dotato di notevole prestanza fisica9. Inoltre, definendo Cassio men bruto di Bruto,
si corre il rischio di fraintendere la caratterizzazione morale di quest’ultimo a cui
Dante riconosce, anche nell’estrema gravità della sua condizione, il merito di non
lamentarsi mai, pur a fronte dei contorcimenti spasmodici del corpo dovuti al suo
eterno tormento. Il dolore è, pertanto, veicolato attraverso il linguaggio non verbale
della fisicità, ma l’assenza di qualsiasi motto è coerente con la determinazione stoica
di impassibilità che ha sempre caratterizzato la figura di Bruto e che Dante può aver
agevolmente raccolto da una pertinente suggestione di Lucano (Phars. 2, 234-235:
at non magnanimi percussit pectora Bruti / terror), di cui a mio giudizio, sulla linea di
molti commentatori, qui si conserva la medesima Stimmung, senza dover pensare,
come fa Manni, a una poco convincente «sorta di rovesciamento»10.
Non sono mancate posizioni, per così dire, più impressionistiche, dettate forse
dal tentativo di fornire in ogni caso una risposta all’impasse ermeneutica, come quel-
la di Anna Maria Chiavacci Leonardi che così scrive nel suo peraltro benemerito
commento: «il membruto può ben essere invenzione dantesca, a dire la grandezza
umana, espressa nell’aspetto fisico, di questo come di altri peccatori protervi e ri-
belli»11. E già in precedenza Francesco Torraca, preso atto della difficoltà, aveva
supposto che «probabilmente la rima gli suggerì di metter qui questa pennellata,
che usò anche nel Purg. VII 112»12, affidando così all’estro del poeta la scelta di un
aggettivo la cui preziosa rarità non pare, a ogni buon conto, il frutto di un’opzione
estemporanea e immaginifica, ma risponde a una precisa e mirata intenzione.
Un percorso alternativo, ma più centrato sul rispetto del testo, è quello dell’e-
quivoco, da parte del poeta, nell’individuazione del personaggio. Si deve ad Angelo
Mai la formulazione, nella sua edizione del De re publica ciceroniano, della fortunata
ipotesi13, recepita da non pochi dei commentatori successivi talora con consenso14,
secondo cui Dante avrebbe confuso il cesaricida Gaio Cassio Longino con Lucio
Cassio Longino, il seguace di Catilina dipinto da Cicerone come grasso e inerte
nella Terza Catilinaria (Cat. 3, 7, 16: non mihi esse P. Lentuli somnum, nec L. Cassi
adipem, nec C. Cethegi furiosam temeritatem pertimescendam). Tuttavia, nonostante
il buon favore riscosso da questa proposta, non sono mancate le critiche: è vero che
9
Definito icasticamente «grosso, ma non grasso», sulla base dei ritratti coevi, da Ferretti Cuomo, Com-
media, cit., p. 22.
10
Manni, Cassio membruto, cit., p. 168. Giustamente, sempre Ferretti Cuomo, Commedia, cit., p. 22,
ricorda che la iunctura lucanea magnanimi... pectora sarà poi esplicitamente riusata da Dante nel «santo
petto» di Catone, a conferma del fatto che il nostro poeta «a livello puramente umano, era un ammiratore
delle qualità repubblicane romane, ma che l’Impero era per lui necessario nella prospettiva provvidenziale
della storia».
11
Dante Alighieri, Commedia. Inferno, a c. di A.M. Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1991, p.
1019.
12
Dante Alighieri, Commedia. Inferno, a c. di F. Torraca, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 1905, p. 300.
13
De republica quantum superest in palimpsesto Bibliothecae Vaticanae, ed. A. Mai, Roma, In Collegio
Urbano apud Burliaeum, 1822, p. 182: «videtur mihi Dantes deceptus fuisse Ciceronis verbis in Catil. III
7, ubi sermo non de hoc C. Cassio percussore Caesaris, sed de L. Cassio qui cum Catilina coniuravit».
14
Come nel caso del già citato commento di Sapegno, p. 381.
42
Dante e Cassio membruto (Inf. XXXIV, 67): una raffigurazione epicurea?
15
Sulle traduzioni ciceroniane di Brunetto Latini (per le Catilinarie limitate, in ogni caso, alla prima) e
la loro rilevanza per la costruzione del pensiero politico del maestro di Dante, si veda G. Briguglia, “Io,
Brunetto Latini”. Considerazioni su cultura e identità politica di Brunetto Latini e il Tesoretto, «Philo-
sophical Readings» 10/3, 2018, pp. 176-185.
16
La conoscenza della III Catilinaria, almeno in excerpta, è documentabile a partire da Petrarca: si veda
M. Berté, Petrarca, Salutati e le orazioni ciceroniane, in P. De Paolis (a cura di), Manoscritti e lettori di
Cicerone tra Medioevo e Umanesimo. Atti del III Simposio ciceroniano (Arpino, 7 maggio 2010), Cassi-
no, Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, 2012, pp. 21-52.
17
Si tratta della recensione a Studies in Dante, first series: Scripture and classical authors in Dante
(Oxford 1896) apparsa sul «Giornale Storico della Letteratura Italiana» 32, 1898, pp. 156-166.
18
Scherillo, rec. cit., p. 163, obiezione ripresa recentemente da Bellomo, Inferno, cit. p. 548, il quale
annota che «neppure l’adipe può essere stato confuso con i muscoli di chi viene definito membruto».
19
Scherillo, rec. cit., pp. 163s.
20
Sull’epicureismo di Cassio testimoniato da Plutarco si veda L. Alfinito, Sull’epicureismo di Cassio in
Plutarco, Vita di Bruto, 37, «Vichiana» 3, 1992, pp. 227-236.
21
Sulla figura politica e artistica di Cassio Parmense il riferimento migliore resta l’ottimo B. Zucchelli, Il
poeta Cassio Parmense e Parma Romana. Una strenua lotta per la libertà repubblicana, Parma, Battei, 2003.
43
Sergio Audano
loro omonimia, le due figure, ma tra le righe lascia intendere che non sia da esclu-
dere la possibilità di un equivoco da parte di Dante. Notoriamente Cassio Parmense,
stando alla narrazione di Velleio Patercolo, fu ucciso per ordine di Ottaviano subito
dopo la battaglia di Azio nel 31 a.C., dopo aver militato prima con Bruto e l’altro
Cassio e poi con Antonio. Inoltre, secondo Svetonio, che riporta l’estratto di una sua
lettera, Cassio Parmense, tra gli artefici della feroce propaganda filo-antoniana con-
traria a Ottaviano, avrebbe accusato quest’ultimo di essere figlio di un mugnaio e di
discendere da un piccolo cambiavalute (Aug. 4, 4: Cassius quidem Parmensis quadam
epistula non tantum ut pistoris, sed etiam ut nummulari nepotem sic taxat Augustum)22.
Di certo in questo modo attizzò il desiderio di vendetta del vincitore e anche Cas-
sio Parmense, ultimo sopravvissuto dei cesaricidi secondo la definizione di Velleio
Patercolo (Hist. 2, 87, 3: ultimus ex interfectoribus Caesaris), finì ucciso, non senza
aver avuto, come racconta Valerio Massimo (Mem. 1, 7, 7), un sogno premonitore
drammatico e nefasto, nella scia della ben nota visione di Bruto prima della decisiva
e fatale battaglia di Filippi.
Di certo la tradizione medievale offriva su Cassio Parmense elementi di informa-
zione maggiori rispetto al più noto omonimo Gaio Cassio Longino, in larga misura
derivanti dalla scoliastica che accompagnava un testo di Orazio ampiamente diffuso,
come l’Epistola 1, 4 indirizzata ad Albius (identificato di solito, ma non in maniera
unanime, con Tibullo)23, impegnato nella zona di Pedo, nelle vicinanze di Roma, a
scribere quod Cassi Parmensis opuscula vincat (v. 3). Non è questa la sede per entrare
nel dettaglio dei tanti problemi esegetici sollevati dall’epistola oraziana, a iniziare dal-
la natura degli opuscula qui menzionati e dall’esatta valenza della comparazione con
Albius (se realmente va identificato con Tibullo)24. È vero che Cassio Parmense è stato
anche un copioso autore di opere soprattutto teatrali (per quelle poetiche aleggia il
sospetto di autoschediasma con Tibullo), andate disperse dopo la sua morte cruenta,
forse a causa dell’inevitabile damnatio memoriae a cui fu sottoposto, non senza il so-
spetto di aver subito possibili plagi, come quello messo in atto da parte di Quintilio
Varo, che si sarebbe appropriato del suo Thyestes, come scrive lo pseudo-Acrone25.
22
Analizzando questa lettera, K. Scott, The Political Propagande of 44-30 B.C., «MAAR» 11, 1933, p.
14, ritiene di identificare al suo interno un senario giambico, metro attestato nella produzione superstite di
Cassio Parmense e, come tutti i giambi, associabile alla dimensione dell’invettiva e della polemica personale.
23
Per la relazione tra Tibullo e Orazio, attestata anche in altri passi oraziani, è ancora molto utile C.
Formicola, Orazio e Albio (Carm. I 33 e Ep. I 4), in S. Cerasuolo-M. Gigante (a cura di), Letture oraziane,
Napoli, Dipartimento di Filologia Classica dell’Università di Napoli «Federico II», 1993, pp. 233-265.
24
Per una densa lettura dell’epistola oraziana si rimanda a Orazio, Epistole I, a c. di A. Cucchiarelli,
Pisa, Edizioni della Normale, 2019, pp. 253-262; quanto alla valenza di opuscula, «qui potrebbe avere
connotazione riduttiva e comunque l’intenzione di Orazio, nei confronti di Albio, sembra essere quella di
un’affettuosa ironia: non sembra che valesse troppo la pena di ingaggiare un confronto con le opere let-
terarie, a quanto pare tutt’altro che memorabili, di un uomo già appartenuto alla parte politica essa stessa
sconfitta» (p. 256).
25
Sulla figura di Quintilio Varo e del suo stretto rapporto con Orazio (che alla morte dell’amico scrive il
carme 1, 24), si rimanda a M. Gigante, Lettura di Orazio, Carm. I 24. Requiem per Quintilio, in R. Uglione
(a cura di), Atti del convegno nazionale di studi su Orazio (Torino, aprile 1992), Torino, Associazione Italia-
na di Cultura Classica-Delegazione di Torino, s.d. [1993], pp. 149-177.
44
Dante e Cassio membruto (Inf. XXXIV, 67): una raffigurazione epicurea?
hic Epicureus fuit et poeta. Cassius Parmensis aliquot generibus stilum exercuit; inter
quae opera elegia et epigrammata eius laudantur. Aliter: hic est Cassius, qui in partibus
Cassi et Bruti [contra Augustum] cum Horatio tr. mil. militavit, quibus victis Athenas
se contulit. Quintus Varus ab Augusto missus, ut eum interficeret, studentem repperit,
et perempto eo scrinium cum libris tulit, [ubi multae trag<(o)>ediae inventae sunt,
inter quas Horestis et Tiestis]. Unde multi crediderunt Thiesten Cassi Parmensis fuisse;
scripserat enim multas alias tragoedias Cassius26.
45
Sergio Audano
Tutto ruota intorno al lessema chiave porcus, come si evince dal commento ad
locum dello scoliaste:
idest me quando vis videre, videbis bene pastum porcum, et hic satyrice vituperat eam
sectam, quam sequitur, quoniam Epicurei summum bonum in voluptatibus ponunt, deinde
quod omne animal colunt nullumque edunt. <porcum>. Idest corpori servientem, ut
([epist.] I 2, 27): Fruges consumere nati. Hara locus dicitur, ubi stant sues, idest suinae,
animal nimium pronum ac ventri deditum29.
Il porcus, in particolare quello che si distingue per essere stato ben nutrito e
allevato (bene pastum porcum, come precisa lo scoliaste, a commento del v. 15),
metaforizza, quindi, sul piano simbolico, il riflesso del ben noto pregiudizio che
attribuiva agli epicurei la ricerca del puro appagamento delle voluptates. Non a
caso, come ben notato da Neil Adkin, lo pseudo-Acrone costruisce l’immagine
del porcus quale animal nimium pronum ac ventri deditum tramite il riuso di una
ben nota sententia sallustiana all’inizio del De Catilinae coniuratione (1, 1: veluti
pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit)30. L’auctoritas di un
classico indiscusso come Sallustio conferisce, pertanto, ulteriore forza di signifi-
cato all’asserzione dello scoliaste, su cui si riverbera la vis polemica antiepicurea
di matrice ciceroniana, che troverà poi ulteriore alimento presso gli scrittori
cristiani, tutti accomunati dal rifiuto categorico nei confronti di una filosofia
materialista e ateizzante.
L’intarsio intertestuale con cui lo pseudo-Acrone costruisce il suo commento è
ulteriormente arricchito da una citazione ciceroniana assai critica verso l’epicurei-
smo: infatti, quoniam Epicurei summum bonum in voluptatibus ponunt è ricavato
con ogni evidenza dal I libro del De finibus, quando Triario, constatando che Cice-
rone aveva eliminato Epicuro e philosophorum choro, ricorda che il concetto di pia-
cere come sommo bene è molto miope ed è per di più ascrivibile ad Aristippo, che
l’avrebbe elaborato in maniera di certo migliore rispetto allo stesso Epicuro (Fin. 1,
8, 26: voluptatem cum summum bonum diceret, primum in eo ipso parum vidit, dein-
de hoc quoque alienum; nam ante Aristippus et ille melius). Si coglie di certo bene
l’operazione, artatamente manipolatoria e ideologica, di degradare il principio fi-
losofico della voluptas nel suo concreto espletamento in voluptatibus, quindi nell’e-
sercizio gaudente e smodato dei piaceri materiali, senza alcuna prospettiva di natura
29
«Ovvero, quando mi vuoi vedere, tu vedrai un porco ben nutrito. Qui il poeta satirico biasima quella
setta di cui è seguace, dal momento che gli epicurei pongono il sommo bene nei piaceri, e in aggiunta per il
fatto che onorano il porco e non ne mangiano. E cioè chi obbedisce al corpo, come scrive a epist. 1, 2, 27:
nati a consumare le messi. Il luogo è detto porcile, dove si trovano i maiali, e in generale i suini, animali
del tutto volti verso terra e concentrati solo a mangiare».
30
N. Adkin, Sallust and Ps.-Acro: the prologue of the «Catiline» and the commentary on Horace, «Epis-
tle» 1.4, «Prometheus» 35, 2009, pp. 229s. A quanto scrive lo studioso, possiamo aggiungere che l’in-
terscambiabilità tra pecora e maiale è attestata nella tradizione: si veda infra la documentazione offerta
dall’opuscolo plutarcheo Non posse suaviter vivi secundum Epicurum, non tenuto presente nella discus-
sione.
46
Dante e Cassio membruto (Inf. XXXIV, 67): una raffigurazione epicurea?
più ‘spirituale’; una declinazione tutta in negativo che è più volte riscontrabile nello
stesso Cicerone, ad esempio nelle Tusculanae, con la ben nota definizione di Epicuro
come homo voluptarius (Tusc. 2, 7, 18: ego a te non postulo, ut dolorem eisdem verbis
adficias quibus Epicurus voluptatem, homo, ut scis, voluptarius)31. L’operazione di
voluta degradazione dell’epicureismo risulta, inoltre, particolarmente rimarcata in
un’opera dagli accenti ancor più sarcasticamente violenti come l’orazione In Piso-
nem: qui ritroviamo formulato il nesso con il maiale, animale con ogni probabilità
percepito come «un simbolo positivo in contesto epicureo»32, con l’infamante asso-
ciazione della scuola epicurea a una porcilaia e di riflesso, nel non detto facilmente
percepibile tra le righe, dello stesso Calpurnio Pisone, suocero di Cesare e noto fer-
vente epicureo, a vero e proprio porcus (Pis. 16, 37: Epicure noster ex hara producte
non ex schola). Cicerone sfrutta in realtà un topos ampiamente diffuso nella polemi-
ca antiepicurea e che troviamo ben attestato in Plutarco, soprattutto nell’opuscolo
morale Non posse suaviter vivi secundum Epicurum, in cui il riferimento al maiale, ri-
flesso dell’animale che vive dei piaceri materiali e bassamente istintuali, è ricorrente
come termine di paragone per gli epicurei, in associazione anche a bestie analoghe
come pecore (1091C: ὥστε μήτε συῶν ἀπολείπεσθαι μήτε προβάτων εὐδαιμονίᾳ, τὸ
τῇ σαρκὶ καὶ τῇ ψυχῇ περὶ τῆς σαρκὸς ἱκανῶς ἔχειν μακάριον τιθεμένους)33 oppure
capri (1094A: ἐκεῖνα δὲ συῶν καὶ τράγων κνησμοῖς ἔοικε)34; oppure ancora col
ricorso a particolari forme espressive come l’hapax per indicare il nutrimento dell’a-
nima di soli piaceri (1096C-D: ἢ γὰρ οὐχ οὕτως ἀξιοῦσι τὴν ψυχὴν ταῖς τοῦ σώματος
ἡδοναῖς κατασυβωτεῖν)35, testimoniato dal verbo κατασυβωτεῖν, solo qui attestato36,
che indica propriamente il ‘mettere all’ingrasso come un porco’, in cui compare
formulata con chiarezza la trasposizione della natura animalesca degli epicurei nel
particolare fisiognomico della loro corpulenza fisica, analoga a quella del maiale.
Ma Dante, come detto, non conosceva Plutarco. Aveva però un’ampia frequentazione
dei Padri della Chiesa in cui la percezione simbolica del porcus era ulteriormente accen-
tuata in negativo dal fatto che su quest’animale si riversava, in aggiunta, l’atavica condan-
na di impurità rituale, testimoniata longe lateque nell’Antico Testamento, in particolare
nei libri del Levitico (11, 7-8) e del Deuteronomio (14, 8), con la proibizione di mangiarne
la carne e di toccarne i cadaveri. Una tradizione in seguito ripresa e discussa dagli autori
31
Come notato da A. Grilli in Marco Tullio Cicerone, Tuscolane Libro II, Brescia, Paideia, 1987, p. 234,
voluptarius «è un’ultima lieve ironia su Epicuro: un uomo che non vede altro bene che il piacere, non parla
del dolore a questo modo».
32
C. Longobardi, La formazione filosofica di Orazio nella lettura degli esegeti antichi, «Incontri di filolo-
gia classica» 16, 2016-2017, p. 34, che opportunamente ricorda la ben nota coppa del tesoro di Boscoreale,
sulla quale è rappresentato Epicuro con la mano su una torta e ai piedi un maialino.
33
«Sicché, quanto a felicità, non sono inferiori né ai maiali né alle pecore, loro che considerano come uno
stato di beatitudine la soddisfazione della carne e dell’anima» (trad. di C. Delle Donne, in Plutarco, Tutti
i Moralia, Milano, Bompiani, 2017, p. 2121).
34
«Mentre quegli altri assomigliano al prurito dei maiali e dei becchi» (trad. Delle Donne, cit., p. 2127).
35
«Infatti, non ritengono, forse, gli Epicurei che bisogna mettere all’ingrasso l’anima, quasi fosse un
porco, dandole da mangiare i piaceri corporei» (trad. Delle Donne, cit., p. 2131).
36
LSJ9, s.v., p. 915, con la resa fatten like a pig.
47
Sergio Audano
4, 17, 3: eodem spectat etiam carnis suillae interdictio; a qua cum eos abstinere Deus iussit,
id potissimum voluit intelligi, ut se a peccatis atque immunditiis abstinerent. Est enim
lutulentum hoc animal, et immundum; nec umquam coelum aspicit: sed in terra toto et
corpore et ore proiectum, ventri semper et pabulo servit; nec ullum alium dum vivit praestare
usum potest, sicut caeterae animantes, quae vel sedendi vehiculum praebent, vel in cultibus
agrorum iuvant, vel plaustra collo trahunt, vel onera tergo gestant, vel indumentum exuviis
suis exhibent, vel copia lactis exuberant, vel custodiendis domibus invigilant. Interdixit ergo
ne porcina carne uterentur, id est, ne vitam porcorum imitarentur, qui ad solam mortem
nutriuntur; ne ventri ac voluptatibus servientes, ad faciendam iustitiam inutiles essent, ac
morte afficerentur. Item ne se foedis libidinibus immergerent, sicut sus, quae se ingurgitat
coeno; vel ne terrenis serviant simulacris, ac se luto inquinent. Luto enim se oblinunt,
qui deos, id est, qui lutum terramque venerantur. Sic universa praecepta iudaicae legis ad
exhibendam iustitiam spectant, quoniam per ambagem data sunt; ut per carnalium figuram
spiritualia noscerentur38.
37
Ne offre un significativo esempio un testo proto-cristiano come l’Epistola di Barnaba, in cui viene evo-
cata l’autorità di Mosé, il legislatore degli Ebrei, per indicare con la metafora del porco l’uomo vizioso,
concentrato nei suoi piaceri e pronto a ricordarsi di Dio solo nel momento del bisogno, per poi facilmente
dimenticarsi, col suo silenzio e l’astensione dalla preghiera, dei benefici ricevuti, come si legge a 10,
2-3: Μωϋσῆς δὲ ἐν πνεύματι ἐλάλησεν. Τὸ οὖν χοιρίον πρὸς τοῦτο εἶπε οὐ κολληθήσῃ φησίν, ἀνθρώποις
τοιούτοις, οἵτινές εἰσιν ὅμοιοι χοίρω τουτέστιν ὅταν σπαταλῶσιν, ἐπιλανθάνονται τοῦ κυρίου, ὅταν δὲ
ὑστεροῦνται, ἐπιγινώσκουσιν τὸν κύριον, ὡς καὶ ὁ χοῖρος ὅταν τρώγει τὸν κύριον οὐκ οἶδεν, ὅταν δὲ
πεινᾷ κραυγάζει, καὶ λαβὼν πάλιν σιωπᾷ («Mosè parlava nello spirito. Quanto alla carne di maiale è da
intendere: non unirti agli uomini che sono tali da rassomigliare ai porci. Quando gozzovigliano si dimen-
ticano del Signore, quando, invece, hanno bisogno si ricordano di lui. Proprio come il maiale che quando
mangia non conosce il padrone, quando poi ha fame grugnisce, e smette se riceve il mangiare». Trad. di
A. Quacquarelli, I Padri Apostolici, Roma, Città Nuova, 19917, p. 200).
38
«Per questo si spiega la proibizione della carne di maiale; quando Dio diede loro (agli Ebrei) l’ordine di
astenersi da essa, volle che si comprendesse soprattutto che dovevano astenersi dai peccati e dalle impurità.
Questo animale, infatti, è amante del fango e impuro, e non alza mai lo sguardo al cielo, ma, proteso a terra con
tutto il corpo e con il muso, è sempre al servizio del ventre e del cibo; e nella sua vita non può offrire nessun
altro utilizzo pratico, a differenza di tutti gli altri animali, i quali o forniscono il trasporto di chi si siede su di
loro, o sono di aiuto nella coltivazione dei campi o tirano il carro col collo o trasportano i pesi sulla schiena o
forniscono indumenti dalle loro spoglie o producono latte in grande abbondanza o proteggono le dimore che
devono custodire. Pertanto Dio proibì di far uso di carne di maiale, affinché non si imitasse la vita dei porci che
si nutrono solo per la morte, per non essere inutili, facendo da servi al ventre e ai piaceri, alla realizzazione della
giustizia ed essere così presi dalla morte. Ugualmente per non finire immersi in immondi piaceri, come il maiale
48
Dante e Cassio membruto (Inf. XXXIV, 67): una raffigurazione epicurea?
Serm. 150, 4.5-5.6: quantum ad hominem pertinet, si ab illo sibi est vita beata, nihil restat
praeter corpus et animam. Aut corpus est causa beatae vitae, aut anima est causa beatae vitae;
si plus quaeris, ab homine recedis. Hi ergo qui beatam vitam hominis in homine posuerunt,
alibi ponere omnino non potuerunt, nisi aut in corpore, aut in anima. Horum qui in corpore
posuerunt, principatum Epicurei tenuerunt; horum qui in anima posuerunt, principatum Stoici
tenuerunt. […] Summum enim bonum est causa beatitudinis; immo vero doluit Apostolus,
quosdam e numero Christianorum elegisse sententiam Epicureorum, non hominum, sed
porcorum 39.
che si ingurgita di fango, e neppure per essere servo di simulacri terreni e imbrattarsi di fango. Infatti si imbrat-
tano di fango quanti adorano come divinità il fango e la terra. Così tutti i precetti della legge ebraica hanno come
fine la dimostrazione della giustizia, dal momento che furono dati tramite significazioni enigmatiche affinché si
conoscessero le cose dello spirito attraverso la rappresentazione di quelle carnali».
39
«Per quanto riguarda l’uomo, se egli è causa per sé di vita felice, non resta altro che il corpo e l’anima. O
è il corpo causa di vita felice, o l’anima di vita felice: se cerchi di più, ti allontani dall’uomo. In conseguen-
za, a quanti vollero connaturata nell’uomo la vita felice propria dell’uomo, non fu assolutamente possibile
stabilire altrove la causa, se non nel corpo o nell’anima. Gli Epicurei furono gli esponenti principali di quanti
posero nel corpo la vita felice; tra quelli che la posero nell’anima, ebbero il primo posto gli Stoici […]. Il
sommo bene è infatti causa di felicità; ma in realtà l’Apostolo si addolorò per il fatto che alcuni, nel novero
dei Cristiani, avessero scelto l’affermazione degli Epicurei, non uomini, ma porci».
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Sergio Audano
40
Si veda S. Marchesi, Epicuri de grege porcus: Ciacco, Epicurus and Isidore of Seville, «Dante Studies,
with the Annual Report of the Dante Society» 117, 1999, pp. 117-131.
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Dante e Cassio membruto (Inf. XXXIV, 67): una raffigurazione epicurea?
Sergio Audano
41
Si rimanda in particolare al documentatissimo G. Ledda, Il bestiario dell’aldilà. Gli animali nella
Commedia di Dante, Ravenna, Longo Editore, 2019.
42
Ledda, Il bestiario dell’aldilà, cit., p. 26.
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