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Elena Canadelli

I musei scientifici

Luoghi di ricerca intorno ai quali si raccolgono comunità di scienziati,


di memoria e conservazione di tradizioni storico-scientifiche sublimate
in collezioni, di divulgazione per un pubblico sempre piú ampio, i mu-
sei scientifici italiani, tra loro molto diversi per collocazione temporale,
tipologia e appartenenza istituzionale, raccontano una delle tante facce
del complesso atteggiamento dell’Italia postunitaria nei confronti della
cultura scientifica e della politica della scienza. La loro storia restituisce
l’immagine di uno Stato caratterizzato da un radicato policentrismo col-
lezionistico, con alle spalle un’eredità gloriosa e ingombrante allo stesso
tempo, e da un ritardo, anche legislativo, del riconoscimento del valo-
re culturale del patrimonio scientifico. Negli anni cambiano le priorità,
gli scopi, le strategie espositive e comunicative, le richieste della società
italiana e il modo di guardare, organizzare e valorizzare, in un determi-
nato spazio architettonico, le vestigia dei regni della natura, i resti et-
nografici di civiltà «altre», le tracce materiche lasciate dietro di sé dalla
scienza, dalla tecnica e dall’industria, i concetti e le teorie scientifiche.
Ogni museo racconta qualcosa dell’epoca e della comunità che lo ha
voluto, del contenuto disciplinare che è espresso dall’ordinamento delle
sue sale, del pubblico cui tutto questo è destinato, dei differenti sguardi
sulle collezioni, di volta in volta oggetti di studio, cimeli da salvare, stru-
menti per la didattica o la divulgazione. Non è possibile in questa sede
addentrarsi nei dettagli delle singole realtà, ognuna frutto di contesti e
motivazioni specifiche. Lo scopo del saggio, infatti, è tracciare un qua-
dro complessivo della situazione italiana attraverso le fonti dell’epoca,
soffermandosi sui casi e i dibattiti che fanno emergere problematiche
d’insieme e la dialettica tra i vari centri culturali della penisola.
Durante i primi centocinquant’anni dell’Italia unita, dall’età libe-
rale al ventennio fascista, dal dopoguerra a oggi, emergono alcuni fili
rossi che s’intrecciano nel corso di queste pagine. C’è il filo della me-
moria, della lenta identificazione e del tardivo riconoscimento del ma-
teriale scientifico come bene culturale, «identitario» del nuovo Stato;

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un patrimonio storico che una volta riconosciuto come tale richiede di


essere recuperato, studiato, tutelato, conservato e valorizzato in appo-
site istituzioni, come il Museo Galileo di Firenze, già Istituto e Museo
di storia della scienza (1930). A questo si aggiunge il filo della funzione
pubblica dei musei scientifici, chiamati a mediare conoscenze storiche,
scientifiche e tecnologiche tra la comunità degli specialisti e quella in
crescita dei non addetti ai lavori. Questo aspetto ha un ruolo rilevante,
nel tempo sempre piú centrale, nella diffusione di contenuti scientifici
e nella stessa progettazione e ideazione dei musei, dal Museo nazionale
della scienza e della tecnica – oggi sostituita con tecnologia – Leonardo
da Vinci di Milano (1953) a quelli di recente fondazione. Infine, c’è il
filo della ricerca. Nel panorama italiano, segnato dall’egemonia cultu-
rale delle università, dove tra l’altro si trova gran parte delle raccolte,
i grandi musei civici di storia naturale e i musei fondati ex novo dopo
l’Unità, che aspirano al titolo di «nazionale», cercano di proporsi come
istituti di ricerca, istruzione e formazione alternativi, dotati di labora-
tori, biblioteche, riviste, e come luoghi di aggregazione dell’associazio-
nismo scientifico. Mentre i musei civici si rivolgono soprattutto al pro-
prio territorio, i nuovi musei statali postunitari sorgono per rispondere
a comunità disciplinari emergenti, come nel caso del Museo nazionale
di antropologia ed etnologia di Firenze (1869) e del Museo nazionale
preistorico ed etnografico Luigi Pigorini di Roma (1876), oppure per
incrementare scienze dagli importanti risvolti applicativi ed economi-
camente strategici, legati all’industria, alle scienze agrarie e geologiche,
come il Museo industriale italiano di Torino (1862) e il Museo agrario
geologico di Roma (1885).
Nonostante le difficoltà economiche e organizzative che caratterizza-
no in maniera costante la storia dei musei scientifici italiani, mostrando
un fragile equilibrio tra i vari centri museali e uno scarto tra la fase rea-
lizzativa e l’ambizione dei progetti iniziali, spesso ispirati a importanti
istituzioni estere, la realtà italiana restituisce uno scenario museologi-
co stratificato e complesso – a cominciare dai decenni che seguono alla
proclamazione del Regno d’Italia.

1.  Eredità preunitaria e nuovi progetti: l’età liberale.

Con il concretizzarsi del progetto unitario, il giovane Stato italiano


eredita un patrimonio scientifico consistente ed eterogeneo. Strumenti,
oggetti, collezioni naturalistiche sono disseminati su tutto il territorio:
nelle università, nei musei civici, negli ospedali, nei licei, negli istitu-

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ti tecnici e in quelli religiosi, nelle accademie, nei gabinetti anatomici


o di storia naturale, negli osservatori astronomici, presso collezionisti
privati. Ogni raccolta racchiude una storia diversa, che spesso ha radici
lontane. In alcuni casi le raccolte risalgono al collezionismo privato di
epoca rinascimentale, come il museo naturalistico di Ulisse Aldrovrandi
a Bologna; in altri si tratta di raccolte incrementate nel corso del Sette-
cento nell’ambito delle cattedre universitarie affidate a personalità come
il fisico Alessandro Volta o il naturalista Lazzaro Spallanzani, entram-
bi attivi nell’asburgica Università di Pavia; a volte sono le città, spesso
grazie a lasciti di privati, ad avviare istituzioni di questo tipo, come il
Museo civico di storia naturale di Milano fondato nel 1838; in altri casi
ancora sono i sovrani degli Stati preunitari a investire con lungimiranza
nella scienza, per esempio a Firenze, dove i Lorena inaugurano nel 1775
l’Imperial Regio Museo di fisica e storia naturale e nel 1841 la Tribuna
di Galileo con il Museo degli antichi strumenti, o a Napoli, dove i Bor-
bone avviano nel 1801 il Reale Gabinetto di mineralogia e nel 1813 il
Museo zoologico. Questo ingente patrimonio collezionistico sedimen-
tato nel corso del tempo rappresenta per lo Stato italiano una comples-
sa eredità, espressione di tradizioni di ricerca ben radicate nelle realtà
preunitarie; un insieme eterogeneo che deve essere integrato, coordina-
to e armonizzato nelle strutture della neonata nazione.
Divisa tra la gestione di un lascito consistente e la promozione di nuo-
vi musei a carattere nazionale, l’iniziale politica italiana nei confronti dei
musei scientifici deve fare i conti, oltre che con poche risorse a disposi-
zione, anche con l’assenza, almeno fino ai primi del Novecento, di una
cornice legislativa generale per la tutela del patrimonio culturale e con
una scienza che sta cambiando e specializzandosi velocemente. A fron-
te del ramificato microcosmo di musei privati, civici o annessi a istituti
d’istruzione e di cura, diversamente distribuiti sul territorio, molte col-
lezioni scientifiche statali del Regno d’Italia sono gestite dalle univer-
sità. Al momento dell’unificazione qui si trova gran parte del materiale
e qui confluiscono raccolte di grande pregio, come quelle dell’Imperial
Regio Museo di fisica e storia naturale di Firenze, che da proprietà dei
Lorena passa sotto il controllo del ministero della Pubblica Istruzione
per diventare la sede della sezione di scienze fisiche e naturali dell’Isti-
tuto di studi superiori pratici e di perfezionamento, una sorta di univer-
sità inaugurata nel 1860.
La scelta di lasciare alle università questo patrimonio segna a lungo
e negativamente il destino delle collezioni, subordinate a esigenze che
mal si addicono a un’efficace gestione museale, che ruota invece pro-
prio intorno alle raccolte. In questa fase iniziale, i musei universitari

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non sono considerati né come testimonianze storiche da salvaguardare


né come strumenti di ricerca, servendo piú che altro alla didattica. Per
questo, con la progressiva specializzazione delle discipline si verifica uno
smembramento tra i diversi istituti di raccolte originariamente unitarie.
Ridotte ad appendici dell’attività didattica, le collezioni, di cui sono re-
sponsabili i docenti delle relative cattedre, passano in secondo piano, tra-
sformandosi in oggetti da utilizzare a lezione o alla peggio in strumenti
impolverati da riporre in casse e magazzini. Difficilmente accessibili ai
ricercatori esterni, rappresentano un patrimonio costoso da mantenere
e incrementare per università prive di personale conservatore specializ-
zato, dotate di pochi mezzi e alla costante ricerca di spazi. Impegnate a
far fronte alle nuove esigenze sperimentali con l’allestimento di aule e
laboratori, le università non riescono ad adempiere il ruolo di enti con-
servatori né a valorizzare adeguatamente dal punto di vista scientifico
il patrimonio museale.
Soprattutto sul versante naturalistico, numerose sono le voci che si
levano contro lo stato di degrado in cui versano questi materiali, inac-
cessibili al pubblico e alla mercé di una didattica e di una ricerca che
negli anni hanno sempre meno bisogno di loro. Prima dell’emergere di
uno sguardo storico, in particolare negli anni successivi alla prima guer-
ra mondiale, nella seconda metà dell’Ottocento è sull’utilizzo scientifi-
co che, dentro e fuori le università, si dividono i vari protagonisti: piú
interessati a studi di embriologia, istologia e fisiologia, gli uni, a quelli
di tassonomia e sistematica, gli altri.
Verso la fine del secolo esemplare è la protesta del botanico e viag-
giatore fiorentino Odoardo Beccari rispetto alle sorti del Museo bota-
nico dell’Istituto di studi superiori di Firenze, che solo qualche decen-
nio prima, grazie all’opera di Filippo Parlatore, era diventato uno dei
piú importanti nel panorama italiano ed europeo. Beccari attribuisce la
decadenza delle raccolte universitarie al mancato riconoscimento della
«necessità di separare dall’insegnamento le collezioni destinate alle ri-
cerche degli scienziati». Il Museo botanico, come altri a lui simili, è di
proprietà dello Stato e come tale dovrebbe essere accessibile a tutti gli
interessati, in particolare a studiosi di tassonomia e di sistematica. Al
contrario, denuncia sempre Beccari, «tenere aperto uno Stabilimento
nazionale scientifico si considera da noi come un favore accordato dai
Direttori agli studiosi, non come un diritto del pubblico»1.
Il botanico fiorentino non è l’unico a lamentarsi. Il direttore dell’Isti-

1
  o. beccari, L’Istituto di Studi Superiori di Firenze. La chiusura del Museo botanico e le sue
peripezie, Stab. Licinio Cappelli, Rocca S. Casciano 1903, pp. 14, 6.

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tuto di zoologia e anatomia comparata dell’Università di Modena, An-


tonio Carruccio, critica quei naturalisti che mirano a stare al passo coi
tempi «o spregiando i Musei, o dichiarando che non vogliono, o non in-
tendono, aumentarne le collezioni, né migliorarle se malandate; anzi –
strano coraggio invero! – osano manifestare la somma loro indifferenza
se tali esse sono già!»2. Nel 1904 l’entomologo siciliano Teodosio De
Stefani Perez ritorna sulla necessità di separare le competenze dei do-
centi universitari da quelle del personale conservatore. Pena lo stato di
degrado cui sono inesorabilmente condannati i musei delle università:
È un fatto, che se in Italia abbiamo i Musei universitari, i Direttori che vi sono
preposti oggi non tengono a farla da conservatori, essi mirano piuttosto a crearsi un
nome nella Scienza e delle collezioni non si danno cura, queste quindi vanno in ma-
lora e quelle dei privati, dopo la loro morte, non avranno sorte migliore3.

Su questo punto insiste anche Giacomo Doria, naturalista, esplora-


tore, personalità di spicco della Società geografica italiana e munifico
fondatore nel 1867 del Museo civico di storia naturale di Genova, uno
dei maggiori in Italia. Qualche anno dopo l’annessione di Roma, Doria
propone d’istituire, sull’esempio delle principali capitali europee, un
Museo nazionale di storia naturale. Sebbene nel 1888 l’allora ministro
dell’Istruzione Paolo Boselli affidi a Doria e al suo collaboratore Decio
Vinciguerra l’incarico di stilare il progetto, l’iniziativa non ha un segui-
to concreto. Concepito in maniera simbolica come il «gran Santuario
della Nazione», tempio di un’Italia unificata che inizia ad affacciarsi sul
fronte coloniale, il museo nazionale appare come un antidoto al feno-
meno, tutto italiano, della frammentazione delle raccolte in «Musei e
museini»4. Doria lo descrive come un archivio zoologico, centro di rife-
rimento per la ricerca tassonomica italiana, in cui far confluire non solo
i «bottini» delle varie spedizioni, ma anche le raccolte fino a quel mo-
mento depositate nelle università e negli altri istituti d’istruzione, cui
sarebbero dovute rimanere solo le collezioni didattiche.
Al di là degli accenti patriottici, il museo nazionale risponde a precise
necessità scientifiche, rappresentando un’alternativa alla ricerca natura-
listica condotta nelle università; un’alternativa fino a quel momento for-
nita dai musei civici. «Nessuna ora di lavoro – sostiene Doria – dev’es-
sere distolta dall’ordinamento delle collezioni; nessuno dei naturalisti

2
  a. carruccio, Cenni sull’importanza ed utilità delle collezioni faunistiche locali e contribuzioni
alla fauna dell’Emilia, Tipi di G. T. Vincenzi e Nipoti, Modena 1883, p. 2.
3
  Lettera di De Stefani a Enrico Ragusa, in «Il naturalista siciliano», XVII (1904), p. 60.
4
  G. DORIA, I Chirotteri trovati finora in Liguria, in «Annali del Museo civico di storia naturale
di Genova», IV (1886), pp. 410, 407.

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addetti a un Museo nel vero senso della parola deve pensare a farsi tito-
li per arrivare alla sospirata cattedra»5. Per questo il museo deve essere
completamente indipendente dall’insegnamento universitario professionale, le cui
esigenze sono ben diverse da quelle degli studii puramente scientifici. Per tal modo
tutti i mezzi di cui esso potesse disporre verrebbero ad essere destinati allo studio,
all’aumento ed alla conservazione delle collezioni, mentre i nostri musei universita-
rii, dipendenti dalle cattedre di Zoologia e di Anatomia comparata, devono neces-
sariamente impiegare le loro tenui dotazioni nelle spese richieste per l’insegnamento
e per le esercitazioni di laboratorio6.

Se il progetto museografico di Doria non decolla, maggiore fortuna


ha Enrico Hillyer Giglioli, dal 1869 professore di zoologia e anatomia
comparata dei vertebrati all’Istituto di studi superiori di Firenze. Uomo
delle istituzioni, impegnato in importanti inchieste naturalistiche come
quella ornitologica, studioso di zoogeografia, viaggiatore, instancabile
collezionista di etnografia e antropologia e autore d’importanti volumi
come l’Avifauna italica (1886), grazie a un’intensa campagna di acqui-
sizioni, scambi e donazioni, il 6 marzo 1877 Giglioli inaugura al museo
fiorentino la Collezione centrale dei vertebrati italiani, completata nel
1908. Diversamente da Doria, piú interessato alle raccolte esotiche, Gi-
glioli insiste sull’importanza di sostanziare la raggiunta unità politica con
una conoscenza della fauna italiana e della sua distribuzione attraverso
l’allestimento di una specifica collezione, secondo la tendenza ben col-
laudata all’estero ma ancora poco usata nel Bel Paese, di affiancare le
collezioni generali con quelle speciali dedicate a determinate aree geo-
grafiche. Per Giglioli, attento al ruolo strategico che le scienze naturali
rivestono per il governo del territorio e la gestione delle risorse, il pano-
rama museologico italiano è frammentario e per certi versi incompleto:
In Italia abbiamo molti Musei Zoologici, piú forse che alcun altro paese, ma
nessuno ha ancora la supremazia sugli altri, e tutti cercano, con mezzi insufficien-
ti, di completarsi nel senso generale. In uno voi vedrete predominare la collezione
degli uccelli, in un altro quella dei rettili, mentre nessuno può ancora pretendere a
chiamarsi un vero Museo zoologico generale, come per l’Inghilterra, la Francia e la
Germania sono indubitatamente i Musei di Londra, di Parigi e di Berlino. In nes-
suno dei nostri musei pubblici, regi o civici, si era sinora pensato a fare, come cosa
a parte, una collezione illustrante specialmente e soltanto la Fauna italiana; e men-
tre ci riusciva non difficile il compilare liste abbastanza complete degli animali di
regioni lontane, eravamo e siamo tuttora nella quasi impossibilità di dire quali sono
le specie che costituiscono la nostra Fauna!7.

5
  Ibid., p. 408.
6
  g. doria e d. vinciguerra, Introduzione, in w. h. flower, L’indirizzo e lo scopo di un museo
di storia naturale, Tipografia R. Istituto sordo-muti, Genova 1890, p. 4.
7
  e. h. giglioli, Discorso inaugurale in occasione dell’apertura della nuova sala per la Collezione
centrale degli animali vertebrati italiani, Le Monnier, Firenze 1877, pp. 5-6.

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Firenze sembra la sede piú adatta per un’impresa di respiro naziona-


le che colmi questo vuoto nel campo della museologia naturalistica. Fin
dall’epoca preunitaria, il polo fiorentino, ora raccolto intorno all’Isti-
tuto di studi superiori, rappresenta infatti un unicum con il Museo de-
gli antichi strumenti e la Tribuna di Galileo, l’Erbario centrale italiano
istituito da Parlatore, la Collezione centrale italiana di paleontologia di
Igino Cocchi, il Museo nazionale di antropologia ed etnologia fondato
nel 1869 da Paolo Mantegazza, la Collezione degli insetti italiani curata
da Adolfo Targioni Tozzetti, docente di zoologia e anatomia degli in-
vertebrati, fondatore della Società entomologica italiana.
Sul fronte opposto a quello dei naturalisti sistematici à la Doria, mili-
tano zoologi come Giuseppe Mazzarelli, convinto che i tradizionali mu-
sei di storia naturale siano oramai dei meri ricettacoli per le «pazienti
per quanto infruttuose raccolte dei vecchi sistematici». Il tempo delle
gallerie colme di scheletri e animali impagliati, delle vetrine con minerali
e fossili, sembra finito. Sul modello della Stazione zoologica internazio-
nale Anton Dohrn di Napoli (1872), per Mazzarelli i musei dovrebbero
trasformarsi in istituti biologici dove «accanto alla scimmia impagliata,
o al colubro in alcool, presso lo splendido uccello di paradiso, o il goffo
rospo, trovino posto e microscopi e microtomi, e termostati e incubatri-
ci, con tutto il loro corredo di reagenti, di apparecchi sussidiari, di ferri
anatomici»8. Il caso italiano restituisce cosí gli echi di un ampio dibat-
tito sulle finalità e gli scopi dei musei naturalistici, che in quegli anni
investe la museologia internazionale.
Accanto alla gestione dell’eredità preunitaria e al dibattito intorno
alle collezioni universitarie, destinato a continuare lungo tutto il Nove-
cento fino a oggi, è interessante soffermarsi sulla politica seguita in età
liberale per la promozione di nuovi musei scientifici a valenza nazionale.
È da questi pochi casi, infatti, che emerge una strategia d’investimento
nella scienza, che rivela aspettative e difficili equilibri tra i diversi cen-
tri italiani, in particolare fra le tre città che sono o sono state capitali:
Torino, Firenze e Roma. Dipendenti dai ministeri della Pubblica Istru-
zione e di Agricoltura, Industria e Commercio (Maic), da questi musei
emerge un dato significativo: nonostante siano previsti spazi espositivi
aperti al pubblico, inizialmente ridotti anche per problemi di ordine pra-
tico, siamo soprattutto di fronte a centri di ricerca, istruzione e forma-
zione diversi dalle università, incentrati sulle collezioni e destinati agli

8
  g. mazzarelli, I musei di storia naturale e il moderno indirizzo della zoologia, Tipografia G.
Fraioli, Arpino 1902, pp. 13 e 16.

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studiosi del settore cui il museo, di tipo monodisciplinare, è dedicato. Il


pubblico generico per il momento sembra stare sullo sfondo.
Come durante tutto il Novecento, gli anni di fondazione si concen-
trano in occasione di esposizioni universali e nazionali, manifestazioni
che consentono di raccogliere ingenti quantità di oggetti, oppure di con-
gressi e anniversari, rivelando in molti casi una lunga e travagliata fase di
gestazione. Esemplare in questo senso è la sorte toccata all’ultimo gran-
de progetto dell’età liberale, il Museo di etnografia italiana promosso
dall’etnologo Lamberto Loria in collaborazione con Aldobrandino Mo-
chi. Allestite nel 1906 a Firenze e poi esposte a Roma nel 1911, in occa-
sione della Mostra di etnografia italiana per il cinquantenario dell’Unità
d’Italia, con la chiusura della manifestazione le collezioni vengono ri-
poste nelle casse. Nonostante il museo sia istituito sulla carta nel 1923,
per l’apertura al pubblico si deve aspettare il 1956, con la fondazione
del Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari di Roma9.
Solo pochi di questi musei riescono appieno. A volte rimangono so-
lo dei progetti, come per il Museo nazionale di storia naturale di Doria,
altre volte sono costretti a ridimensionare gli ambiziosi obiettivi inizia-
li, fino alla chiusura, come per il primo nuovo museo scientifico del Re-
gno d’Italia, il Museo industriale italiano di Torino, che punta in ma-
niera significativa a incrementare il settore economicamente strategico
dell’industria. Fondato nell’allora capitale grazie all’iniziativa del sena-
tore Giuseppe Devincenzi sul modello del South Kensington Museum
di Londra, «allo scopo di promuovere l’economia nazionale, sia col fare
conoscere le materie prime usate dalle singole industrie, sia col concor-
rere alla istruzione tecnico-industriale»10, delude presto le aspettative.
Nel 1875 il segretario generale del Maic, Emilio Morpurgo, constata che
il Museo industriale, sorto intorno a un consistente nucleo di collezioni
di macchine agrarie e industriali, manufatti e modelli didattici raccolti
in occasione dell’Esposizione universale di Londra del 1862, non cor-
risponde «al disegno di una istituzione nazionale ed al concetto per cui
avrebbe dovuto essere un focolare di continui progressi industriali».
Inutilmente si cerca «d’infondere vita alla morta suppellettile», facendo
del museo torinese «il centro delle informazioni, degli studii e delle ricer-
che relative alle industrie per tutta l’Italia»11. Grazie a «una esposizione

9
  Cfr. g. ceccarelli, Per il Museo etnografico nazionale, in «Nuova Antologia», n. 368 (1933),
pp. 596-603; per una storia complessiva della collezione Loria cfr. s. puccini, L’itala gente dalle
molte vite, Meltemi, Roma 2005.
10
  l. belloc, Notizie storiche sul R. Museo industriale italiano in Torino, Stamperia dell’Unione
tipografico-editrice, Torino 1898, p. 3.
11
  e. morpurgo, L’istruzione tecnica in Italia, Tipografia Barbera, Roma 1875, p. 196.

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permanente, storica e progressiva di oggetti scientificamente ordinati,


attinenti all’industria»12, il Museo torinese, dotato di biblioteca, archi-
vio dei brevetti e marchi di fabbrica, laboratori, gabinetti sperimentali,
aule e una propria rivista, dovrebbe funzionare come un centro di docu-
mentazione, di raccolta e conservazione, ma anche di servizi per conto
di governo e privati, e d’istruzione a vari livelli, da quella universitaria
per ingegneri a quella professionale per direttori d’industria. In realtà,
chiuso nel 1906 per confluire nell’appena fondato Politecnico di Tori-
no, nel corso dei suoi quasi cinquant’anni di vita costellati da continue
riforme, il Museo funziona principalmente come appendice della Scuola
di applicazione per ingegneri, legando la sua fama alla prestigiosa Scuola
di elettrotecnica diretta da Galileo Ferraris.
Una sorte simile tocca al Museo agrario geologico, inaugurato nel
1885 a Roma alla presenza del re Umberto I. Anche questo museo, co-
me quello industriale, è dedicato a due scienze applicative strategiche
per lo sviluppo della nazione: l’agricoltura e la geologia. Come nota il
ministro Enrico Berti, dopo l’unificazione l’Italia si trova infatti ancora
sprovvista di «quei grandi edifizi scientifici che, quasi in tutta Europa,
si veggono destinati a raccogliere insieme una quantità d’istituti diretti
all’applicazione delle scienze»13. Il nuovo museo romano dovrebbe col-
mare questo ritardo rispetto a paesi come la Gran Bretagna e la Germa-
nia. Anche la sua azione, però, come quella del Museo industriale, fi-
nisce per essere impegnata su troppi fronti, senza venire supportata da
spazi e risorse finanziarie adeguati.
Nella nuova sede dell’Ufficio geologico sono collocate due tipologie
di raccolte: da una parte quelle agrarie, allestite dal Maic per rappresen-
tare l’Italia all’Esposizione universale di Parigi del 1878, dall’altra quelle
geologiche e paleontologiche formate dal Comitato geologico e dal regio
Corpo delle miniere durante i rilevamenti per la Carta geologica del Regno
d’Italia, insieme a campioni di rocce e minerali utili all’industria o per uso
edilizio e decorativo. Tra i promotori, c’è chi, come Berti, si preoccupa
maggiormente del Museo agrario, che, oltre a diffondere conoscenze in
questo campo, deve fornire al suo ministero uno strumento per ricerche di
servizio pubblico, dotandosi a tale scopo di alcune stazioni sperimentali,
tra cui quella agraria e quelle di patologia vegetale nel 1887 e di piscicol-
tura nel 1895. Nel quadro di un generale sostegno all’istruzione agraria,
il museo promuove l’agricoltura attraverso le sue collezioni, presentando

  l. belloc, Notizie storiche cit., p. 11.


12

  e. berti, in Atti parlamentari, Senato del Regno, XIV legislatura, sess. 1880-81-82,
13

Discussioni, tornata 15 maggio 1882, p. 2897.

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all’agricoltore pratico i piú convenienti istrumenti adoperati nell’agricoltura e special-


mente quelli che egli adopera sul campo; al tecnico l’occasione di studiare le costru-
zioni degli attrezzi e delle macchine, procurandogliene i disegni, modelli, e ponen-
dogli sott’occhio i prodotti; allo scienziato e al professore di agricoltura il materiale per
le dimostrazioni; allo studioso, l’opportunità di studiare da sé stesso; all’investigatore
i mezzi di agevolare le sue ricerche; al pubblico l’opportunità di conoscere quanto
interessa l’agricoltura mediante numerose e svariate collezioni14.

Sull’altro fronte, invece, c’è chi, come il chimico Stanislao Cannizzaro,


si concentra piú sul Museo geologico e i suoi laboratori. Egli, infatti, ve-
de in queste collezioni di minerali, rocce e fossili italiani uno strumento
indispensabile per la compilazione della Carta geologica15. Se il Museo
agrario chiude dopo vita stentata intorno al 1911, disperdendo le pro-
prie raccolte, il Museo geologico è oggi conservato dall’Istituto superio-
re per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), in attesa di una sede
che renda fruibile questo patrimonio.
Rispetto ai musei universitari, distribuiti in maniera omogenea sul
territorio nazionale, e i musei civici, concentrati soprattutto al Centro-
nord, nel caso di questi musei nazionali la scelta della sede è significa-
tiva. Essa infatti fa emergere il radicato policentrismo di un paese dalle
diverse tradizioni di ricerca, dove parlare di accentramento di collezioni
non significa necessariamente accentrare nella capitale.
Dopo l’annessione di Roma, il confronto tra centro e periferia acce-
lera, rivelando una storia di collezioni contese e di corsa alla leadership
tra comunità di studiosi spesso divise e incapaci di un’azione unitaria.
Da una parte, c’è chi, come il geologo Quintino Sella, punta in manie-
ra simbolica a fare di Roma la capitale scientifica del nuovo regno, do-
tandola di una grande università e di un’accademia delle scienze, con
laboratori e musei. Dall’altra, invece, c’è chi, come l’antropologo Paolo
Mantegazza, è convinto che «il concentrare a Roma il materiale scienti-
fico del nostro paese è cosa assurda, direi quasi brutale». Mentre Sella
utilizza la metafora fisiologica di un organismo ben organizzato con Ro-
ma come cervello, Mantegazza predilige la metafora botanica. I musei
scientifici sono come le piante, «che vanno coltivate nel clima che loro
conviene, e che fatte adulte, è sempre pericoloso rimuoverle dal suolo,
dove hanno distese e approfondite le loro radici»16. Meglio dunque insi-

14
  g. patanè, Per la ricostituzione del Museo agrario a Roma, Tipografia Unione editrice, Roma
1915, p. 5.
15
  Si veda la relazione sul progetto di legge per il Museo geologico e agrario, in «Atti parla-
mentari. Senato del Regno», XIV legislatura, sess. 1880-81-82, Documenti - Progetti di legge
e Relazioni, n. 198-A, 12 maggio 1882, pp. 1-6; corpo reale delle miniere, Guida all’Ufficio
geologico, Tipografia nazionale Bertero, Roma 1904.
16
  P. MANTEGAZZA, L’accentramento della scienza, in «La Nazione», 15 marzo 1877.

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stere sui punti di forza delle diverse realtà italiane, piuttosto che su una
artificiosa concentrazione di risorse già scarse nella capitale.
La polemica di Mantegazza, alla guida del Museo fiorentino di an-
tropologia ed etnologia da lui fondato pochi anni prima, ha un bersaglio
ben preciso: il Museo nazionale preistorico ed etnografico di Roma inau-
gurato nel 1876 dall’amico paletnologo Luigi Pigorini. Con l’appoggio
del ministro dell’Istruzione Ruggiero Bonghi, Pigorini punta a riunire
nel suo museo oggetti preistorici ed etnografici sparsi in tutta Italia, o
quantomeno ad avere dei duplicati, allo scopo d’incrementare la cultu-
ra generale e di avviare un «laboratorio, ove si mettano in comune le
fatiche degli studiosi per far progredire la scienza in servizio della quale
è nato»17. La risposta alle richieste di accentramento è tiepida, quando
non apertamente polemica come nel caso di Mantegazza.
Al di là della questione scientifico-disciplinare se le collezioni etno-
grafiche siano piú utili al lavoro dell’antropologo o piuttosto a quello
del paletnologo, Mantegazza contesta la scelta di dotare la capitale di un
museo simile al suo, che sottrae collezioni e risorse, attaccando il collega
sempre sulle colonne della «Nazione»:
Qui non è questione di uomini né di cose; qui non si tratta di meschine rivalità
personali, che rimangono meschine anche quando diventano emulazioni di città vi-
cine. Qui si tratta di ben altro; si tratta dei sacri diritti delle scienze, del modo mi-
gliore di concentrare nei loro centri naturali le disperse e scarse energie del nostro
paese; si tratta di non renderci ridicoli in faccia all’Europa scientifica, costruendo
due Musei di antropologia e di etnologia a otto ore di distanza l’uno dall’altro. Qui
abbiamo cattedre, laboratorio, società, una raccolta di antropologia, e qui deve esi-
stere l’unico e grande Museo nazionale che raccolga il materiale necessario a questa
scienza. Fondare un centro nuovo, artificiale, di studi antropologici in Roma, solo
perché Roma è la capitale, è cosa piú che assurda, ridicola.

Solo pochi anni prima, del resto, anche Mantegazza aveva provato a
radunare nel Museo nazionale di Firenze materiale di diversa provenien-
za con l’appoggio del ministro dell’Istruzione Angelo Bargoni. In una
circolare del 1869 il ministro invitava gli stabilimenti scientifici italiani
a mandare le raccolte nell’allora capitale, osservando che
in molti Musei, in molti Gabinetti, fin presso talune Biblioteche del regno, trovansi
sparsi cranii, armi e strumenti delle epoche preistoriche, oggetti dell’industria pri-
mitiva di popoli selvaggi, ed altre preziose cose del dominio dell’antropologia, ma
che confuse cogli altri elementi non possono sperare di acquistar mai quella impor-
tanza che avrebbero se fossero riunite in un centro solo18.

17
  l. pigorini, Museo preistorico ed etnografico di Roma, in «Archivio per l’Antropologia e
l’Etnologia», XXXI (1901), p. 317. Cfr. e. bassani, Origini del Museo preistorico etnografico «Luigi
Pigorini» di Roma, in «Belfagor», XXXII (1977), pp. 445-58.
18
  a. bargoni, Circolare del 29 novembre 1869, citata in e. regalia, Il Museo nazionale

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A quanto commenta nel 1901 Ettore Regalia, uno dei collaboratori di


Mantegazza, «l’effetto che ebbe questa circolare per l’aumento delle
collezioni del Museo, deve essere stata una quantità molto prossima al-
lo zero»19.
In età liberale i problemi per i musei scientifici italiani non vengono
solo dalla scarsità di finanziamenti o dall’insufficiente coordinamento
tra diversi attori istituzionali, ma anche dalla mancanza di personale
specializzato, dai conservatori agli architetti che dovrebbero progettare
questi spazi. Spesso si privilegiano edifici preesistenti, che nonostante il
valore storico-artistico sono inadatti a soddisfare le complesse esigenze,
non solo espositive, di musei scientifici impegnati nell’istruzione e nel-
la ricerca. Come testimonia Pigorini, infatti, «nel nostro paese la scelta
dei locali per le collezioni scientifiche par cosa di sí poco momento che,
ove sia possibile, non si esita a cercare e preferire edifici i quali meri-
tino di essere conservati per la loro importanza storica o artistica, sen-
za punto preoccuparsi di ciò che in essi si colloca»20. La comparazione
con il mondo dell’arte peserà a lungo sulla vita di queste istituzioni, in
un’Italia che si identifica soprattutto col proprio passato artistico e ar-
cheologico. Paradossalmente, dopo l’unificazione la scienza sembra aver
perso quel ruolo aggregante e «identitario» che l’aveva caratterizzata
invece durante il Risorgimento, periodo nel quale la comunità scienti-
fica costituiva una koiné nazionale di non poco conto. Basti pensare ai
congressi prequarantotteschi degli scienziati italiani.
Nonostante l’impegno profuso dai collezionisti privati e da impor-
tanti personalità della scienza italiana, lo stato di abbandono in cui
versano le ingenti raccolte scientifiche raggiunge l’apice alle soglie del-
la prima guerra mondiale, proprio quando sono state da poco varate le
prime leggi per la tutela del patrimonio storico-artistico. Risale infatti
al 17 luglio 1904 la promulgazione del regolamento applicativo 431 Sul-
la conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e d’arte e sulla
esportazione degli oggetti stessi, e al 1909 l’importante legge 364 Per le
antichità e le belle arti, legata ai nomi del suo relatore, il deputato tosca-
no Giovanni Filippo Rosadi, e dell’allora ministro dell’Istruzione Luigi
Rava. Il provvedimento si concentra sulle «cose immobili e mobili che
abbiano interesse storico, archeologico, paletnologico o artistico», non
menzionando invece le cose d’interesse scientifico.

d’antropologia in Firenze, in «Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia», XXXI (1901), p. 11.


19
  e. regalia, Il Museo nazionale cit., p. 12.
20
  l. pigorini, Il Museo nazionale preistorico ed etnografico di Roma, in «Nuova Antologia»,
XXXIV (1891), p. 600. Sull’architettura dei musei scientifici cfr. L. BASSO PERESSUT, Architetture
della scienza esposta, in id. (a cura di), Stanze della meraviglia, Clueb, Bologna 1997, pp. 145-99.

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I musei scientifici 879

Un indizio per comprendere le ragioni di questa esclusione e il mo-


do in cui all’epoca si guarda ai musei scientifici lo fornisce l’articolo del
giurista Umberto Borsi, I Musei nella legislazione amministrativa italia-
na, apparso sul Digesto italiano. Dopo aver definito i musei «tutti quei
luoghi nei quali si trovano raccolti oggetti d’arte o di scienza a scopo di
cultura generale, di istruzione professionale o di godimento estetico»,
Borsi opera una distinzione tra i musei veri e propri, autonomi e aper-
ti al pubblico, e quelli che lo sono solo in senso lato perché collegati a
scuole, università o istituti di vario tipo, dalle camere di commercio agli
osservatori astronomici. La maggior parte dei musei scientifici rientra
proprio in questa seconda categoria, rivelando uno stato giuridico ibrido
che non facilita il riconoscimento formale di questo patrimonio: le colle-
zioni scientifiche sono utilizzate perlopiú come sussidi alla didattica, e
come tali sottostanno alle norme dei singoli istituti, rimanendo, se non
in rari casi, chiuse al pubblico. Per queste ragioni, «in Italia sono i mu-
sei d’arte che hanno la maggiore importanza», mentre quelli scientifici
aperti al pubblico, meno numerosi, «hanno in gran parte acquistato una
sufficiente importanza da non molti anni e, per quanto vadano gradual-
mente accrescendosi e perfezionandosi, pochi fra essi posson sostenere
un vantaggioso confronto coi maggiori musei esteri d’ugual natura»21.
«Il nostro Paese per ora ai Musei non pensa: o meglio sembra che sia
sulla via di disfarsene»22. Il malinconico commento del medico e zoolo-
go Giovanni Battista Grassi restituisce il clima che si respira alle soglie
della prima guerra mondiale. Molte raccolte sono disperse o smembrate,
altre continuano a giacere nei magazzini delle università, mentre alcuni
musei scientifici, voluti per stare al passo con il resto d’Europa, si sono
rivelati un fallimento o sopravvivono tra le difficoltà.

2.  Tra storia della scienza, propaganda e autarchia: il ventennio fascista.

Durante il fascismo si verifica una convergenza di fattori che con-


tribuiscono, al di là della retorica di regime, a incrementare il dibattito
riguardante la tutela del patrimonio scientifico italiano, alimentando
al contempo la discussione sull’istituzione di nuovi musei viventi della
scienza e della tecnica. I musei scientifici sono da un lato concepiti come

21
  U. BORSI, I musei nella legislazione amministrativa italiana, in Il Digesto Italiano, XV, parte
II, Utet, Torino 1904-11, pp. 1136-37.
22
  G. B. GRASSI, Commemorazione di Giacomo Doria, in «Atti della R. Accademia dei Lincei.
Rendiconti classe scienze fisiche, matematiche e naturali», XXIII (1914), p. 755.

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luoghi di conservazione, di studio e di celebrazione di un patrimonio cui


è riconosciuto un preciso valore storico e «identitario», che era andato
perduto; dall’altro, invece, si accentua la loro funzione di popolarizza-
zione di conoscenze tecnico-scientifiche, considerate indispensabili, in
clima di autarchia, per il primato industriale e produttivo dell’Italia.
In uno scenario di rinnovato interesse nei confronti della tradizio-
ne scientifica italiana, non privo di accenti celebrativi, la riscoperta di
raccolte fino a quel momento dimenticate è accompagnata dall’ascesa
di una giovane disciplina, la storia della scienza. È l’interesse storico,
infatti, a indurre alcuni studiosi a «mettere nel piú alto valore possibile
il prezioso materiale scientifico che ora giace dimenticato e sconosciu-
to in collezioni pubbliche e private, nelle case di lontani eredi di illu-
stri scienziati, in magazzini e non di rado in oscure ed umili cantine»23.
A partire dalla fine della prima guerra mondiale si assiste a una proli-
ferazione di iniziative, finalizzate ad approfondire la storia della scienza,
e in specifico della tradizione italiana, non solo attraverso libri e docu-
menti, ma anche attraverso i suoi «resti», la sua memoria di oggetti. Si
organizzano congressi, si pubblicano volumi, si riuniscono studiosi, co-
me il Gruppo per la tutela del patrimonio scientifico nazionale (1923),
si fondano riviste, come nel 1919 l’«Archivio di storia della scienza»
diretto da Aldo Mieli, il quale dedica rubriche di approfondimento ai
musei scientifici italiani ed esteri. In una manciata di anni sorgono cen-
tri per lo studio della storia della scienza e di alcune branche specifiche,
dall’Istituto storico dell’arte sanitaria di Roma (1920) all’Istituto nazio-
nale per la storia delle scienze fisiche e matematiche di Roma (1923),
all’Istituto di storia della scienza di Firenze (1925). Queste nuove isti-
tuzioni cercano di dotarsi, oltre che di biblioteche, iconoteche e archi-
vi, anche di musei.
Le varie iniziative, invece che convergere, rivelano la presenza di co-
munità che agiscono in parallelo, come emerge dall’appello lanciato da
Mieli nel 1921 sulle pagine della sua rivista. Al termine del reportage
sulla sua visita al Deutsches Museum di Monaco di Baviera, egli conclu-
de con un pensiero al caso italiano, ricco di collezioni scientifiche, ma
diviso sul fronte delle iniziative: «Perché – si chiede – non unifichiamo
gli sforzi e cerchiamo di costituire un organismo grandioso, capace, se
non di superare, almeno di stare alla pari con i nuovi musei di München,
di Paris, di London e di Washington?», consapevole che per raggiun-

23
  Gruppo per la tutela del patrimonio scientifico nazionale, in «Archivio di storia della scienza»,
V (1924), p. 86. Cfr. g. baroncelli e m. bucciantini, Per una storia delle istituzioni storico-scientifiche
in Italia. L’Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze, in «Nuncius», V (1990), n. 2, pp. 5-52.

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I musei scientifici 881

gere questo obiettivo è necessario «intendersi, organizzarsi, ed agire, e


lasciare le piccole borie per le quali ciascuno vuol avere per sé qualche
misero organismo incompleto e tisicuzzo»24. Come i precedenti, anche
questo appello alla condivisione cade nel vuoto.
Il fronte è diviso. C’è chi punta su Roma, come Mieli, che fin dal
1923 propone senza successo, e con l’appoggio di Giovanni Gentile,
di allestire nella capitale un museo di storia della scienza da affiancare
all’Istituto nazionale per la storia delle scienze fisiche e matematiche di
Federigo Enriques. Nucleo principale di questa nuova istituzione a ca-
rattere nazionale sarebbero state le prestigiose raccolte del Museo astro-
nomico e copernicano di Roma inaugurato nel 1886, cui si sarebbero ag-
giunte altre collezioni, come la raccolta Carbonelli gestita dall’Istituto
storico dell’arte sanitaria. Quest’ultimo, invece, nel 1933 si dota di un
museo che aspira a diventare «nazionale in senso totalitario»25, invitan-
do medici, ospedali, centri di cura a mandare a Roma cimeli, oggetti, o
al piú duplicati, d’interesse storico per illustrare ai medici la storia del-
la loro disciplina. Solo cinque anni piú tardi la capitale si arricchisce di
un’altra istituzione simile, il Museo di storia della medicina, di tipo di-
dattico e documentario, sorto a corredo dell’omonimo istituto fondato
presso l’Università di Roma.
In alternativa ai tentativi della capitale, negli stessi anni c’è chi pun-
ta su Firenze, città dalle ingenti e prestigiose collezioni storiche, che
versano in stato di abbandono. Sede dell’Istituto universitario di storia
della scienza, grazie al Gruppo per la tutela del patrimonio scientifico
nazionale, cui collaborano personalità come il fisico Antonio Garbasso,
direttore del Museo degli antichi strumenti, il medico Andrea Corsini
e il senatore Piero Ginori Conti, nel 1929 Firenze ospita l’Esposizione
nazionale di storia della scienza. Sotto la bandiera di Galileo e dell’Ac-
cademia del Cimento, l’iniziativa, oltre a celebrare il ruolo dell’Italia
in campo scientifico, consente di raccogliere numerose informazioni
sul materiale sparso nel paese, rappresentando uno dei primi tentativi
di catalogazione intrapresi a livello nazionale. Un anno dopo, tra mol-
te difficoltà, a fianco dell’Istituto sorge il Museo di storia della scienza,
dove confluiscono importanti collezioni fiorentine, come quelle del Mu-
seo degli antichi strumenti. In linea con una nuova sensibilità storica,
non esente da retorica, il museo di Firenze recupera e conserva ogget-

  A. MIELI, Il Deutsches Museum, in «Archivio di storia della scienza», III (1921), p. 189.
24

  g. bilancioni, Il valore spirituale di un Museo Storico della Medicina, Istituto nazionale medico
25

farmacologico Serono, Roma 1933, p. 6. Cfr. A. MIELI, Per una biblioteca ed un museo di storia della
scienza, in «Archivio di storia della scienza», V (1924), pp. 82-84.

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ti e cimeli che raccontano la tradizione scientifica italiana e toscana in


particolare. Luogo della memoria e della conservazione, è al contempo
un centro di documentazione destinato agli studiosi.
Se l’approccio dell’Istituto di Enriques è teorico, il Gruppo fioren-
tino punta a censire e catalogare quella che inizia a essere considerata
una ricchezza nazionale, fino a quel momento trascurata e di cui in mol-
ti casi si ignora perfino l’esistenza. Per studiosi come Corsini «il fatto
che la scienza progredisce e che occorre far sempre nuovi studj non im-
plica di dover trascurare e far ridurre in ciarpame ciò che ha servito al
progresso scientifico e che forma la storia della scienza»26. In vista di
un’attività di tutela e di futuri approfondimenti, è quindi in primo luo-
go necessario fare luce sulla reale consistenza del patrimonio attraverso
censimenti. Il Gruppo fiorentino non è l’unico ad avviarne; negli stessi
anni, anche il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) promuove reper-
tori degli enti culturali italiani, in cui rientrano a pieno titolo anche i
maggiori musei scientifici27.
Mentre intellettuali come Benedetto Croce si battono per la tutela
del paesaggio italiano, la riforma dell’istruzione superiore promossa nel
1923 da Gentile contribuisce a portare l’attenzione sul materiale sto-
rico-scientifico, in particolare sulle trascurate collezioni universitarie,
di cui nessuno si vuole occupare. Il 6 dicembre 1923 il senatore Silvio
Pellerano, vicino al Gruppo fiorentino, presenta al Senato un’interroga-
zione al ministro Gentile. Pellerano fa sue le rivendicazioni di Corsini e
chiede che i funzionari di antichità e belle arti, aiutati da speciali inca-
ricati, garantiscano l’incolumità del patrimonio storico-scientifico28. La
risposta del ministro è significativa: anche se la legge Rosadi del 1909
non menziona esplicitamente questo materiale, esso, una volta segnala-
to agli uffici regionali competenti, è tutelato, esattamente come il ma-
teriale artistico o bibliografico.
Gentile dimostra un certo interesse per queste problematiche. Da
una parte inserisce nel nuovo regolamento generale universitario del 6
aprile 1924 un articolo riservato alla conservazione di «strumenti, appa-
recchi ed in genere tutti gli oggetti aventi interesse storico, scientifico
o rari e di pregio esistenti presso le Università e gli Istituti superiori».
Dall’altra, emana la circolare del 1° febbraio 1924, con la quale sollecita
rettori e direttori a segnalare al ministero il materiale di cui sono a co-

26
  A. CORSINI, Per il patrimonio storico-scientifico italiano, in «Archivio di storia della scien-
za», V (1924), p. 352.
27
  Cfr. g. magrini (a cura di), Enti culturali italiani, vol. II, Zanichelli, Bologna 1929, pp. 407-59.
28
  Cfr. «Archivio di storia della scienza», V (1924), pp. 87-88 e Atti parlamentari, Senato
del Regno, XXVI legislatura, 1a sess. 1921-23, Discussioni, tornata 6 dicembre 1923, p. 5716.

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I musei scientifici 883

noscenza, riferendosi in specifico a «tutti gli oggetti mobili ed immobili


che presentino carattere storico-scientifico», alle «località del territorio
nazionale, la cui conservazione risponda ad un pubblico interesse per la
natura paleontologica che esse presentano in rapporto alle finalità scien-
tifiche e culturali», a «tutte le collezioni aventi una speciale importanza
per gli studi della zoologia, della botanica, della geologia, della minera-
logia, ecc., degli strumenti, degli apparecchi ed oggetti particolarmente
interessanti nel campo storico-scientifico, che siano presso Università,
comunque ad esse pervenute per lasciti, donazioni, ecc., presso Enti
pubblici ed ecclesiastici e presso privati»29.
Dopo i primi passi di Gentile, il nuovo ministro dell’Istruzione Pie-
tro Fedele emana il regio decreto 1917 del 26 agosto 1927 per il Rego-
lamento per la custodia, conservazione e contabilità del materiale artistico,
archeologico, bibliografico e scientifico. Ai musei, agli osservatori e agli
altri istituti scientifici viene chiesto di descrivere e numerare in apposi-
ti cataloghi le raccolte in loro possesso, indicandone, oltre che nomina-
tivo, provenienza, ubicazione e stato di conservazione, anche la stima
economica, con l’obbligo di inviare ogni anno una relazione al ministero.
Queste disposizioni, preoccupate di tracciare e conservare le collezioni,
pur rivelando una nuova sensibilità, non hanno un’effettiva ricaduta
sulla gestione delle raccolte.
Il dibattito intorno al materiale storico-scientifico italiano non sfocia
in legge. Il 1° giugno 1939, infatti, l’importante norma 1089 per la Tu-
tela delle cose d’interesse artistico o storico, nota anche come legge Bottai
dal nome del ministro per l’Educazione nazionale, suo promotore, con-
tinua a escludere questo materiale. Essa si concentra sulle «cose immo-
bili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o
etnografico», compresa «la paleontologia, la preistoria e le primitive ci-
viltà», ma non sulle collezioni scientifiche in generale, rappresentando
sotto questo punto di vista un passo indietro rispetto al dibattito degli
anni venti.
Mentre Roma e Firenze si confrontano sul terreno di un museo di
storia della scienza, si moltiplicano le proposte per un museo nazionale
che a seconda dei casi è definito della scienza, della tecnica o dell’in-
dustria. Se i musei proposti da Corsini o Enriques sono pensati soprat-
tutto come centri di studio per storici o professionisti interessati alla
storia della propria disciplina, letta in chiave di sviluppo progressivo,
i musei viventi si rivolgono all’educazione di un pubblico generico, in

29
  g. gentile, Circolare per la tutela del materiale storico-scientifico, in «Bollettino ufficiale
Ministero della Pubblica Istruzione», LI (1924), pp. 442-43.

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maggioranza giovani, che, sebbene in ritardo, inizia ad affacciarsi sulla


scena italiana. Anche in questo caso lo scenario è segnato da divisioni e
antagonismi, con i progetti museali di Roma, Milano, Firenze, Napoli
e Torino che si contendono le tante raccolte e le poche risorse a dispo-
sizione, aspirando al titolo di «nazionale».
Il via lo dà il noto messaggio che il 1° gennaio 1928 Mussolini indi-
rizza a Guglielmo Marconi, presidente dell’appena riformato Cnr. In
Italia, egli afferma, è necessario allestire, oltre a laboratori di ricerca,
anche «musei viventi, dove i progressi della scienza, della tecnica e del-
la industria siano resi evidenti. Un Paese non spende invano in queste
opere di progresso»30. La propaganda sui giornali insiste subito sull’ag-
gettivo «viventi»: «I modelli e le macchine dei musei non dovranno sol-
tanto far bella mostra di sé nelle vetrine o limitarsi a rievocare il ricordo
di un grande passato»31, ma agire, influenzare, propagandare la scienza
e le sue applicazioni tecnico-industriali attraverso nuovi modi di valo-
rizzare gli oggetti esposti.
Pochi mesi dopo, i desiderata del capo del governo entrano nel nuo-
vo regolamento del Cnr, figurando tra i suoi obiettivi. Nel giugno 1928
il segretario Giovanni Magrini ha già preso contatto con alcune istitu-
zioni europee, tra cui il Science Museum di Londra, per raccogliere in-
formazioni destinate alla fondazione di un Museo delle scienze a Ro-
ma32. Questi primi tentativi s’incrociano ben presto con la candidatura
di Milano, importante centro industriale che già all’epoca dell’Esposi-
zione internazionale del 1906 ha cercato di dotarsi di un museo scien-
tifico. La proposta, finita nel nulla, veniva dall’ingegnere Giuseppe
Belluzzo, all’epoca docente del Politecnico, che era rimasto colpito da
turbine, motori, telegrafi, cannoni e macchine in funzione osservati nel
1905 durante un tour dei musei scientifici europei. Nel 1926, tornando
a quell’esperienza, Belluzzo, ora ministro dell’Economia nazionale, si
sofferma sulla funzione educativa di quei centri, i cui allestimenti de-
vono emozionare i giovani visitatori:
Pensavo quale forza educatrice quei musei potevano rappresentare nelle nazioni
che ne erano largamente dotate, quale base vasta, tecnicamente larga, si preparava
con essi alla gioventú, quanta parte essi avevano nella preparazione della coscienza

30
  Il Consiglio nazionale delle ricerche. Compiti e organizzazione, Officine grafiche Carlo
Ferrari, Venezia 1929, p. 5. Nel messaggio di Mussolini sul «Popolo d’Italia» del 7 gennaio 1928,
ripubblicato in b. mussolini, Messaggi e proclami, Libreria d’Italia, Milano 1929, pp. 202-4, si
parla solo dei laboratori. Il riferimento ai musei viventi compare invece nelle versioni piú note e
di poco successive del messaggio.
31
  Notiziario, in «La scuola superiore», III (1928), p. 32.
32
  Cfr. Archivio centrale dello Stato, Fondo Cnr, Presidenza Marconi, b. 11, fasc. «Musei
tecnici e scientifici stranieri».

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I musei scientifici 885

industriale di quei paesi, assieme alla coltura spirituale vi vedevo la sana coltura tec-
nica e pensavo che se esiste la cura del ferro per i corpi anemici, quei musei, tenuti
al corrente del buono e del meglio, rappresentavano la cura del ferro e dell’acciaio
per la mente di migliaia di bambini di tutte le condizioni, di tutte le età33.

La candidatura di Milano si riaffaccia periodicamente, fino a concre-


tizzarsi nel 1930 con l’iniziativa del comune d’istituire una commissio-
ne per un Museo delle arti e delle industrie, cui partecipano personali-
tà del Politecnico e del mondo dell’industria e della finanza lombarda.
Il presidente della commissione è l’ingegnere Guido Ucelli, industriale
ben noto al governo per l’impresa del recupero delle navi romane del
lago di Nemi. È lui la mente e l’anima del progetto di quello che oggi è
il Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo Da Vinci,
inaugurato nel 1953, dopo una fase progettuale durata oltre vent’anni.
Ucelli conduce un efficace battage pubblicitario: pubblica articoli,
studia gli ordinamenti dei maggiori musei della scienza europei e sta-
tunitensi, presenta il suo progetto ai principali congressi del tempo, in-
contra personalmente Mussolini e ministri come Bottai, incassa consensi
e appoggi, soprattutto da parte di Marconi e Magrini, che vedono nel
progetto milanese una valida risposta alla sfida lanciata al Cnr dal duce.
Il tacito accordo tra Ucelli e la dirigenza del Cnr per portare a Milano il
museo nazionale si realizza nel 1931 con l’iniziativa promossa da Marco-
ni di censire il materiale scientifico e tecnico italiano. Tacendo sulle reali
intenzioni, in una circolare ai direttori degli istituti interessati, Marco-
ni tenta l’ennesima, fallimentare operazione di accentramento nella na-
scente istituzione. Nonostante la rassicurazione che «il Direttorio non
ha alcuna idea di privare le città o gli Istituti dei cimeli che da essi sono
religiosamente conservati e ne costituiscono motivo d’orgoglio»34, anche
questo appello rimane inascoltato. Il canale privilegiato che lega Mila-
no e il Cnr continua per la partecipazione italiana alla mostra Un secolo
di progresso in occasione dell’Esposizione internazionale di Chicago del
1933. Realizzata in quattro serie identiche con riproduzioni di cimeli,
macchine, fotografie, documenti e brevetti, si prevede di consegnare
un esemplare della mostra al museo di Milano, suscitando inutilmente
le proteste del già operativo Museo di storia della scienza di Firenze.
Se nel 1933 il fronte è ancora diviso tra chi appoggia l’ipotesi di un

  G. BELLUZZO, in «Rassegna italiana», novembre 1926, p. 723.


33

  Archivio storico del Museo nazionale della scienza e della tecnica, Milano (d’ora in poi
34

Asmnst), Museo industriale, Ministeri, Educazione Nazionale, Bottai, circolare di Marconi, marzo
1931 e lettera di Marconi al Podestà di Milano, Roma 17 marzo 1931. Cfr. anche ivi, Podesteria,
Commissione, riunioni del 12 e 21 febbraio 1931 della Commissione per il Museo delle Arti e delle
Scienze e del direttorio Cnr.

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886 Elena Canadelli

unico Museo delle scienze e delle industrie a Roma, chi ne vuole due –
uno delle scienze, da fondare nella capitale o a Firenze, e uno dell’in-
dustria a Milano – o ancora chi preferirebbe avere musei industriali re-
gionali35, negli anni quaranta lo scenario è destinato a cambiare ulterior-
mente. Si affacciano nuovi aspiranti musei, dal padiglione della tecnica
della Mostra d’Oltremare di Napoli del 1940 al mai realizzato Museo
nazionale dell’industria di Torino, intitolato a Galileo Ferraris e desti-
nato a illustrare ai «giovani ingegneri del domani, il cammino percorso
dalle nostre industrie in sessant’anni di ricerche scientifiche, di lavo-
ro e di scelta produzione, rifacendo, documentariamente, la storia del-
la nascita e dello sviluppo di questa o quella industria»36. Nel frattem-
po Marconi, favorevole a Ucelli, era morto, lasciando le trattative nelle
mani del ministro Bottai, il quale negli stessi anni si stava occupando
dell’Esposizione internazionale prevista a Roma nel 1942, poi annullata
a causa della guerra. La celebrazione dei progressi della scienza e della
tecnica della tradizione italiana ha un ruolo centrale nella progettazione
dell’esposizione. Tra gli edifici del nuovo quartiere dell’Eur, alla chiusu-
ra dell’E42, il Palazzo della scienza è destinato a trasformarsi nel tanto
sospirato museo della capitale, insidiando i progetti di Ucelli, che, com-
plice il fallimento dell’E42, ottiene l’appoggio del governo.
Nonostante si facciano concorrenza, i progetti di Roma e Milano
poggiano su motivazioni diverse. Se il primo vuole mostrare il continuo
e fecondo cammino della scienza attraverso i secoli, facendone risaltare
l’aspetto speculativo e insieme utilitario, il secondo insiste sulla scien-
za come principio alla base della produzione, del lavoro, dell’industria.
Se il primo è il museo dello scienziato, il secondo è il museo dell’inge-
gnere e dell’operaio. In entrambi i casi emerge una crescente attenzio-
ne nei confronti del visitatore, della «massa» che di questi temi sa poco
o niente. Il museo diventa cosí un importante medium culturale al ser-
vizio dell’autarchia. Esso deve istruire e allo stesso tempo invogliare a
coltivare studi scientifici. Per Ucelli, infatti, questi musei
non devono interessare solo gli studiosi, ma rendere comprensibili e chiari anche alle
grandi masse, alla collettività, le idealità della scienza, i problemi generali della di-
sponibilità e della trasformazione delle materie prime, i problemi specifici dell’agri-
coltura e dell’industria, i problemi realistici della produzione e dell’organizzazione,
celebrare la nobiltà del lavoro, facilitare gli orientamenti professionali; dare la mas-
sima possibilità di cultura tecnica al popolo per assecondarne le aspirazioni di ordi-
nato progresso, e per favorire gli sviluppi autonomi individuali37.

35
  Cfr. Asmnst, Museo Industriale, Podesteria, Nicodemi, lettere di Ucelli a Giorgio Nicodemi,
8 giugno 1933 e 29 marzo 1934.
36
  Per un Museo nazionale dell’industria, in «L’Ambrosiano», 19 agosto 1942.
37
  g. ucelli, Il Museo industriale di Milano, 10 dicembre 1941, dattiloscritto conservato presso

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I musei scientifici 887

Per competere con le altre nazioni, all’Italia servono nuove istitu-


zioni che documentino, ma soprattutto diffondano la cultura tecnica e
scientifica, non solo tramite le collezioni in mostra, ma anche attraverso
conferenze, una biblioteca specializzata, un centro di raccolta dei bre-
vetti italiani e di documentazione attinente alla storia della scienza e
della tecnica. Ed è proprio questo il museo che Ucelli cerca di realizzare,
guardando ai piú solidi modelli esteri, in primis il Deutsches Museum.
La necessità di una comunicazione efficace è ribadita nel 1939 anche
da Sabato Visco, presidente della sezione di storia della scienza della
Società italiana per il progresso delle scienze (Sips), nella sua relazione
sulla mostra della scienza universale dell’E42. Per lo stile espositivo,
ispirato all’innovativo Palais de la Découverte di Parigi, Visco propone
un allestimento suggestivo e chiaro, in cui «il visitatore non si annoi,
poiché la noia genera stanchezza, distoglie l’attenzione e induce, alla fi-
ne, il visitatore a scorrere di sfuggita i vari reparti, senza aver tratto da
quella affrettata visita altro che un caotico ricordo di incomprensibili
strumenti, di macchinari complicati, di applicazioni inesplicabili»38. No,
dunque, al «vecchio sistema, ormai sorpassato della mostra che offre,
in scaffali, una congerie di macchine, strumenti, documenti, fotografie,
disegni che, anche se illustrati con appositi cartellini, non parlano alla
mente del pubblico un linguaggio facilmente comprensibile». Sí, invece,
a una «mostra viva, dinamica, il cui materiale si mostri da sé» grazie a
«giuochi di luce, modelli funzionanti, schemi luminosi, proiezioni anima-
te, apparecchi in funzione, riproduzioni viventi di organismi animali»39.
La museologia di questi anni non si occupa solo di tecnica e scienze
esatte. Rilanciato dal messaggio di Mussolini sui musei viventi continua
anche il dibattito sui musei naturalistici, impegnati a difendere il ruolo
di enti di ricerca diversi dalle università. Essi si concentrano soprattutto
su problematiche ambientali ed ecologiche in riferimento a un’Italia dai
confini allargati alle colonie africane, non trascurando la propaganda al
pubblico. Fin dall’età liberale, del resto, il colonialismo ha incrementa-
to un proprio filone museografico incentrato sui prodotti commerciali
o sulle collezioni naturalistiche ed etnografiche delle colonie. Ne sono

la Biblioteca Mnst, p. 3. Sulla storia del Museo cfr. g. ucelli, Il Museo nazionale della scienza e della
tecnica sede della Mostra ordinata nel V centenario della nascita di Leonardo da Vinci, in Leonardo.
Saggi e ricerche, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1954, pp. 87-111 e 5 anni del Museo, Alfieri
e Lacroix, Milano 1958.
38
  Asmnst, Cnr, Esposizione Universale 1942, relazione dattiloscritta di Visco La mostra della
scienza universale, 22 marzo 1939, p. 10.
39
  Ibid., p. 11. Cfr. P. GALLUZZI, La storia della scienza nell’E42, in T. GREGORY e A. TARTARO
(a cura di), E42. Utopia e scenario del regime, vol. I. Ideologia e programma per l’«Olimpiade della
civiltà», Marsilio, Venezia 1987, pp. 53-69.

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un esempio l’Erbario e Museo coloniale fondato a Roma nel 1904 (poi


trasferito a Firenze nel 1915) e il Museo coloniale di Roma istituito dal
ministero delle Colonie nel 1923.
Nel 1928, in occasione del I Congresso nazionale di studi romani, il
rettore dell’Università di Roma, il mineralogista Federico Millosevich,
ispirandosi al messaggio di Mussolini rilancia la vecchia idea di Giacomo
Doria di fondare nella capitale un museo nazionale di storia naturale dal-
la «doppia funzione scientifica e di propaganda culturale»40. Concepito
come un grande centro per la sistematica, dotato di laboratori e biblio-
teca, esso è immaginato autonomo dalle università, che anzi dovrebbe-
ro affidargli le loro collezioni. Punto di raccolta dei «bottini» coloniali,
il progetto di marca fascista si concentra in chiave applicativa anche sui
vantaggi di uno sfruttamento economico delle risorse naturali.
L’idea del museo nazionale è ripresa due anni dopo dallo zoologo
trentino Giovanni Battista Trener. L’occasione viene dal Congresso del-
la Sips organizzato nel 1930 a Trento, dove si riunisce l’élite scientifica
italiana. Tra le numerose iniziative, insieme a una piccola esposizione sui
contributi tridentini alla scienza italiana, viene inaugurato il nuovo Mu-
seo di storia naturale della Venezia tridentina. Frutto dell’unione dalla
forte connotazione politica delle province di Trento e Bolzano, da poco
annesse all’Italia, in un unico museo regionale, il suo scopo è sostanzia-
re sul terreno della ricerca naturalistica una regione creata a tavolino.
Artefice principale di questo nuovo museo, durante il congresso, Trener
ribadisce la necessità per un’Italia che si candida a guida scientifica del
Mediterraneo orientale, di dotarsi di un museo nazionale di storia natu-
rale, descritto come un centro di ricerche, studi e istruzione popolare,
ma soprattutto come un istituto vivo memore del messaggio di Mussoli-
ni, finalizzato a spezzare il binomio «polvere e museo»41 che pregiudica
irrimediabilmente il termine «museo» agli occhi dell’opinione pubblica.
Per riportare l’attenzione sulla difficile condizione in cui versano
i musei naturalistici italiani, Trener organizza un Congresso dei mu-
sei di storia naturale in contemporanea a quello della Sips. Presieduto
da Millosevich, vi partecipano importanti personalità e istituzioni del
settore, con qualche assenza eccellente, come nel caso dei musei civici
di Milano e Trieste. Si discute di collezioni universitarie, «la maggior

40
  F. MILLOSEVICH, Il Museo nazionale di storia naturale, in Atti del I Congresso nazionale di stu-
di romani, Istituto di Studi romani, Roma 1929, p. 504.
41
  G. B. TRENER, L’organizzazione scientifica dello Stato moderno, in «Atti della Sips», 19a Riunio-
ne, settembre 1930, I, p. 844. Cfr. Guida del Museo di storia naturale della Venezia tridentina, Stab.
Scotoni, Trento 1930. Come emerge dagli Atti delle riunioni Sips, nel corso degli anni trenta questi
congressi rappresentano un importante terreno di confronto per il dibattito sui musei scientifici.

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I musei scientifici 889

parte, oggi, malcurate, non utilizzate, né per gli studi, né per la coltura
del pubblico e soggette a un progressivo e rapido deterioramento»42, del
museo nazionale da creare ex novo, di musei civici in difficoltà come a
Venezia e della necessità di riunire i piccoli musei civici in musei regio-
nali, sull’esempio di Trento e di quanto si vorrebbe fare in Sardegna o
a Udine con il Museo friulano di storia naturale. Quest’ultima proposta
riscuote il consenso della Sips e del Comitato per la biologia del Cnr, ma
divide la comunità dei naturalisti. Contrari sono in particolare i gran-
di musei civici di Milano, Genova e Trieste, che si sentono minacciati
dai tentativi di accentramento su scala regionale, a danno «dell’autono-
mia dei singoli musei cittadini, ognuno dei quali ha bisogni e tradizioni
proprie»43. Durante il congresso riemergono le antiche diffidenze tra i
naturalisti delle università e quelli dei musei degli enti locali, impeden-
do ancora una volta una strategia comune.
Le proposte per la fondazione di un museo nazionale di storia naturale
si riaffacciano in corrispondenza dell’E42, ma non sfociano in iniziative
concrete. La guerra e i bombardamenti dissolvono anche le ultime speran-
ze di poter intervenire sulla difficile realtà dei musei scientifici italiani.

3.  Valorizzare un panorama stratificato: dal dopoguerra a oggi.

Nonostante le buone intenzioni e il consistente corpus legislativo di


Bottai, il ventennio lascia in eredità all’Italia repubblicana pochi centri
museali realmente riusciti e scarsi interventi sul patrimonio scientifico,
che rimane in stato di grave degrado. Abbandonata la retorica di regime,
sulla scorta dell’articolo 9 della Costituzione, che promuove la cultura e
la ricerca scientifica e tecnica e tutela il paesaggio e il patrimonio storico
e artistico della nazione, in sede istituzionale si avvia un dibattito sulla
definizione, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale ita-
liano, che nel 1975 porterà alla fondazione dell’apposito ministero per i
Beni culturali e ambientali. Il materiale tecnico, scientifico e naturalistico
rimane a lungo ai margini di queste iniziative. Il taglio storico-artistico
della definizione di «bene culturale» continua infatti a rappresentare
un modello dominante. Solo di recente, il Testo unico delle disposizioni
legislative in materia di beni culturali e ambientali del 1999 include in una
categoria speciale «i beni e gli strumenti di interesse per la storia della

42
  Archivio del Museo tridentino di scienze naturali, Trento, b. 139, fasc. «Congresso musei
storia naturale 1930», lettera di Millosevich a Trener, 1° agosto 1930.
43
  Ivi, lettera di Bruno Parisi a Trener, 10 settembre 1930.

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scienza e della tecnica aventi piú di cinquanta anni». Ciononostante,


come per i precedenti provvedimenti, il Testo unico continua a riferir-
si in primo luogo alle «cose immobili e mobili che presentano interesse
artistico, storico, archeologico, o demo-etno-antropologico», tra cui gli
oggetti che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive ci-
viltà, e alle «cose immobili che, a causa del loro riferimento con la sto-
ria politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in gene-
re, rivestono un interesse particolarmente importante», escludendo il
riferimento con la scienza.
Il riconoscimento dello status di bene culturale al materiale scientifi-
co avviene lentamente. L’ultimo atto è rappresentato dal Codice dei beni
culturali e del paesaggio del 2004, noto anche come Codice Urbani. Seb-
bene nella definizione di «bene culturale» non vengano esplicitamente
menzionate le raccolte scientifiche, queste rientrano nel provvedimento
in virtú della loro appartenenza a istituzioni pubbliche, siano esse stata-
li, regionali o di altri enti locali. Come nel Testo unico, anche nel Codi-
ce Urbani torna il riferimento ai beni e agli strumenti della storia della
scienza e della tecnica, mentre nell’allegato A sono per la prima volta
menzionati, accanto a quadri, siti archeologici, fotografie, collezioni sto-
riche, paleontologiche, etnografiche o numismatiche, anche «esemplari
provenienti da collezioni di zoologia, botanica, mineralogia, anatomia»44.
A partire dagli anni settanta si regolamentano le competenze per la
gestione dei musei tra Stato e regioni, tentando sinergie, piú o meno
di successo, tra vari attori istituzionali, come nel caso del Museo regio-
nale di scienze naturali di Torino, istituito nel 1978. Al contempo, fin
dagli anni cinquanta, cresce il dibattito tra gli addetti del settore sulle
funzioni dei musei scientifici nella società contemporanea tra didattica
e ricerca, tradizione e rinnovamento45. Dopo anni di discussioni, pro-
poste, convegni, che spesso coinvolgono enti come il Cnr e l’Accademia
dei Lincei, nel 1972 nasce l’Associazione nazionale dei musei scientifici
(Anms), che sotto la guida di Sandro Ruffo si avvia a diventare un im-
portante punto di riferimento nel panorama italiano, offrendo ancora
oggi un terreno comune di confronto tra i diversi centri museali italiani
grazie alla promozione di convegni e a una propria rivista. Particolare
attenzione viene riservata ai musei di storia naturale. I problemi cui far
fronte sono gli stessi denunciati nei primi anni del dopoguerra da per-

44
  m. cammelli (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, il Mulino, Bologna 2004,
p. 731. Cfr. f. barbagli, Le collezioni di interesse naturalistico alla luce del nuovo Codice dei Beni
Culturali e del Paesaggio, in «Museologia scientifica. Memorie», II (2008), pp. 15-17.
45
  Per le tracce di questo dibattito cfr. la bibliografia in e. reale, I musei scientifici in Italia,
Franco Angeli, Milano 2002.

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sonalità come lo zoologo Alessandro Ghigi46: decadenza delle collezioni


universitarie, disinteresse da parte dello Stato nei confronti del patrimo-
nio naturalistico, mancato riconoscimento dell’importanza della ricerca
tassonomica, assenza di coordinamento tra le diverse situazioni locali.
Rispetto a prima, cresce l’attenzione per la valorizzazione della som-
mersa realtà delle collezioni scientifiche italiane, che vanno conserva-
te ma anche rese fruibili, come riconosciuto dal Codice Urbani. Come
all’estero, oggi in Italia i musei scientifici sono in primo luogo chiamati
a contrastare il diffuso analfabetismo in materia di scienza e a sensibi-
lizzare il grande pubblico, i giovani in particolare, ai temi dell’attuali-
tà, dalla questione ambientale all’innovazione tecnologica47. In questa
direzione il dibattito accelera a partire dagli anni novanta. Nel 1990
Antonio Ruberti, alla guida del ministero dell’Università e della Ricer-
ca, istituisce la «Settimana della cultura scientifica e tecnologica», che
contribuisce a far riscoprire un patrimonio che fatica ad attirare l’at-
tenzione dell’opinione pubblica. L’anno seguente viene varata la legge
113 per la diffusione della cultura scientifica, poi reiterata con alcune
modifiche nel 2000. Nel 1999 la Conferenza dei rettori delle università
italiane (Crui) istituisce la Commissione musei, archivi e centri per le
collezioni universitarie di interesse storico-scientifico, che si concentra
sull’ingente patrimonio delle università, con l’intenzione di creare una
rete nazionale dei sistemi museali d’ateneo. Dopo un lungo oblio, oggi
i musei universitari non sono piú considerati sussidi della didattica, ma
beni culturali da conservare e valorizzare, «tesori nascosti»48 al centro di
un nuovo turismo scientifico. In alcuni casi le università hanno concesso
loro un’autonomia amministrativa, come a Firenze, rappresentando in
alcune aree, specialmente al Sud e nelle isole, le uniche realtà in grado
di diffondere il sapere scientifico presso il grande pubblico49. Negli ul-
timi anni molti musei universitari sono stati ristrutturati e riaperti con
nuovi allestimenti. Significativi sono i casi delle università di Bologna

46
  Cfr. a. ghigi, I musei di storia naturale e specialmente quelli universitari di zoologia, in «La
ricerca scientifica», XXIII (1953), pp. 1335-63.
47
  Cfr. m. merzagora e p. rodari, La scienza in mostra, Bruno Mondadori, Milano 2007.
48
  Cfr. la rubrica Hidden Treasures di Alison Abbott pubblicata nel corso del 2008 su «Nature»
e dedicata alla riscoperta dei musei storico-scientifici. Tra le numerose guide pubblicate di recente
cfr. m. bozzo, I luoghi della scienza, Di Renzo, Roma 2005; f. barbagli e f. monza, La scienza nei
musei, Orme, Milano 2006. I volumi di approfondimento storico promossi dalle università sono ormai
ingenti. Basti pensare a quelli dedicati alle collezioni scientifiche di Bologna e, piú recentemente, di
Torino e Firenze. Per avere un quadro del dibattito contemporaneo sui musei scientifici e dei suoi
attuali protagonisti è fondamentale uno spoglio delle annate piú recenti della rivista dell’Associazione
nazionale dei musei scientifici, «Museologia scientifica», e delle sue «Memorie».
49
  Cfr. I musei naturalistici nell’Italia centrale e meridionale, Accademia nazionale dei Lincei,
Roma 2004.

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con i musei di Palazzo Poggi, di Napoli con il Centro Musei delle scien-
ze naturali, di Torino con il museo dell’Istituto di anatomia umana e
quello recente dedicato alla controversa figura dell’antropologo crimi-
nale Cesare Lombroso, di Pavia con il Gabinetto di Alessandro Volta,
o di Firenze con la riapertura del Torrino della Specola.
Nel dopoguerra continuano le indagini quantitative di catalogazione e
consistenza, sulla cui base vengono compilati repertori e statistiche. Tra
le diffidenze degli interessati, il primo a tentare uno sguardo d’insieme
è nel 1960 il Comitato italiano dell’Icom in collaborazione con l’Asso-
ciazione nazionale dei musei italiani con il Repertorio dei musei e delle
raccolte scientifiche italiane, poi aggiornato nel 1967. Negli anni novanta
intraprendono questa strada anche il Museo della scienza e dell’informa-
zione scientifica (Musis), con l’Elenco musei scientifici italiani, e il Cnr
con il Progetto finalizzato beni culturali50. La stessa Crui avvia un lavoro,
ancora in corso, di schedatura del materiale scientifico universitario per
la creazione di un database comune.
Da queste indagini emerge una varietà di situazioni locali, disomo-
genee tra Nord, Centro e Sud, e di tipologie museali, dai musei natu-
ralistici a quelli demoetnoantropologici, da quelli tecnici e industriali a
quelli di storia della medicina, di fondazione piú o meno recente, dalle
diverse appartenenze istituzionali: una situazione ricca e complessa che
conferma pregi e difetti del policentrismo italiano, allergico agli accen-
tramenti. Significativo a questo riguardo è che ancora oggi, dopo decen-
ni, si stia discutendo della fondazione nella capitale di un nuovo museo
scientifico, la Città della scienza.
Nel corso di centocinquant’anni si sono stratificati materiali e finalità.
A essere cambiata non è solo la società italiana, ma anche la museologia
e le aspettative nei confronti della scienza. Molto è andato perduto, al-
tro è stato recuperato, restaurato o riconvertito. Costante è la penuria
di mezzi. Accanto ai musei di taglio storico, legati ai grandi nomi della
scienza italiana, da Galileo a Leonardo, la rete dei musei civici e regionali
si mantiene vivace e legata al territorio, mentre alcune università hanno
iniziato a rivalutare il proprio patrimonio. Seppur in ritardo, anche in
Italia, sulla scorta di quanto avviene all’estero, sono sorti science centres
di nuova generazione, che illustrano concetti scientifici in maniera in-
terattiva. A una filosofia hands-on s’ispirano per esempio la Città della
scienza di Napoli o il Laboratorio dell’immaginario scientifico di Trieste.
Divisi tra conservazione, ricerca e divulgazione, i musei scientifici
italiani rivelano radicate tradizioni e, dopo l’Unità, la forza politica che

50
  Cfr. e. reale, I musei scientifici cit.

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alcune comunità hanno rispetto ad altre di coinvolgere gli organi deci-


sionali, siano essi i ministeri o il Cnr. Naufragati i tentativi progressisti
di età liberale e abbandonati i toni di propaganda del ventennio, nono-
stante alcuni isolati casi d’eccellenza che possono contare anche sull’aiu-
to dei privati, oggi permangono nodi problematici di lunga data, piú in
generale legati a una scarsa pianificazione nel campo dei beni culturali
e a investimenti inadeguati nel settore della scienza.

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