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Vides ut alta stet nive candidum
Soracte nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto.
5 Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina
o Thaliarche, merum diota.
Permitte divis cetera, qui simul
10 stravere ventos aequore fervido
deproeliantes, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.
Quid sit futurum cras, fuge quaerere et,
quem Fors dierum cumque dabit, lucro
15 adpone nec dulces amores
sperne, puer, neque tu choreas,
donec virenti canities abest
morosa. Nunc et campus et areae
lenesque sub noctem susurri
20 composita repetantur hora,
nunc et latentis proditor intimo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.
Orazio, Ode 1, 9 TRADUZIONE
Vedi come s'innalza candido per la spessa neve
il Soratte né più sostengono il peso
i boschi affaticati e per il gelo
pungente i corsi d'acqua si sono fermati.
Sciogli il freddo legna sul focolare
mettendo con abbondanza e piuttosto generosamente
attingi vino di quattro anni,
o Taliarco, dall'anfora Sabina.
Nella seconda il nome è rivelato: si tratta del giovane Taliarco (v. 8), il cui nome
letteralmente significa “re del gioioso banchetto”. La presenza di questo appellativo
non è casuale, ma serve a sottolineare il tema del simposio. Il ragazzo viene invitato a
combattere il freddo, aggiungendo legno sul fuoco e versando il vino puro (merum, v.
8), cioè senza mescolarlo all’acqua, dall’anfora (definita con parola greca che
significa “a due manici”, diota, v. 8), la quale per enallage è detta Sabina, sebbene sia
la bevanda ad esserlo.
Segue un altro invito, il quale apre il discorso filosofico: quello di lasciare tutte le
altre preoccupazioni agli dei (v. 9), che hanno il potere di interrompere in un attimo le
tempeste (ventos aequore fervido/ deproeliantis, vv. 10-11), le quali sono un’evidente
metafora delle sofferenze dell’esistenza (com’è peraltro sottolineato della
personificazione deproeliantis, v. 11, e dal riferimento ai non più sconvolti dal vento
“vecchi frassini”, v. 12). Taliarco è esortato, cioè, al carpe diem: egli deve vivere
giorno per giorno, senza rimandare i propri progetti, poiché l’uomo non è padrone del
domani. La formulazione oraziana (quid sit futurum cras, fuge quaerere, v. 13)
ricorda l’incipit di Od. I 11, dove è l’amica Leuconoe invitata a non investigare a
proposito del destino sia suo sia del poeta. In questo caso, l’invito è ripetuto nei versi
successivi: quem fors dierum comque dabit, lucro/ adpone (vv. 14-15), dove centrale
è l’espressione finale, propria del linguaggio contabile, con la quale si allude al
registro commerciale in cui l’uomo d’affari segna gli utili e le spese. In particolare,
Orazio sottolinea che è bene che il giovane approfitti della sua età, perchè il futuro
sarà segnato dalla vecchiaia, menzionata con una marcata antitesi (virenti canities, v.
17). Il piacere nella vita sta nel cogliere la positività anche nei momenti negativi ed
anche nel ricercare i rari momenti in cui il dolore è assente (rappresentati, qui, ad
esempio dai rimedi per sopportare il gelo).
Orazio, Ode 1, 22
Interessante in questo contesto, è il fatto che tra i vv. 5-6 ci sia un’allitterazione del
suono /l/ tra le parole lupus e Lalagen, cioè i due estremi dell’aneddoto: il massimo
del male con tutto ciò che esso ha di minaccioso e il massimo del bene con tutto ciò
che essa ha di meraviglioso. L’animale, in particolare, è descritto come un mostro che
non è nato né dalla Daunia, né dalla terra d’Africa. Il poeta rimane, così, illeso in
virtù della passione per la fanciulla e per il canto che le dedica, cioè grazie alla
propria Musa e alla poesia, in ultima analisi. È questa scelta di vita che rende
possibile tollerare tutto, così come afferma nelle ultime due strofe. Tutto è infatti
possibile per via della sua donna che lo ama in modo sincero. Il suo affetto nei
confronti di quest’ultima si può capire dall’anafora ai vv. 23-24 (dulce…/ dulce), che
riecheggia una celebre ode (il fr. 31 Lobel-Page) di Saffo, già tradotto in latino da
Catullo nel carme 51. Di stampo catulliano è anche l’insistenza del poeta sui dati
geografici riguardanti regioni deserte e inospitali, ciò che ricorda il carme in cui il
Veronese se la prende con Furio e Aurelio, amici della sua ex amante Lesbia: ai vv.
5-8 sono evocate le Sirti con nessi allitteranti (per Syrtes iter aestuosas, v. 5), il
Caucaso (inhospitalem/ Caucasum, vv. 6-7) e l’Idaspe (fabulosus… Hydaspes, vv.
7-8), ciascuno accompagnato da un aggettivo che ora appare disposto chiasticamente,
ora in parallelismo; ai vv. 13-16 la Daunia e quella che è definita la terra di Giuba (o
la Numidia o la Mauritania): esse sono le “patrie” possibili e immediatamente negate
dalla bestia feroce che ha affrontato il poeta e della cui origine egli è insicuro (si veda
la variatio tra alit, v.14, generat, v. 15, e nutrix, v. 16). Anche in questa strofa è
comunque presente, tra i due toponimi, un nesso allitterante in /u/: Daunias (v. 14),
definita per metafora militaris (v. 13), Iubae tellus (v. 15), continuato poi
in aesculetis (v. 14) e nutrix (v. 16). A questi luoghi impervii e mitici il poeta oppone
la “sua” Sabina (silva… in Sabina, v. 9, altro nesso allitterante). Ma, in finale, egli
spiega chiaramente che la sua tranquillità non dipende dal contesto in cui si muove,
ma dall’amore che lo guida: il destino potrà pure farlo finire nei luoghi più torridi
come in quelli più glaciali, ma mai potrà cambiare il suo atteggiamento nei confronti
della vita. Le ultime due strofe, appunto, sono costruite su quest’antitesi, risolta più a
favore del deserto ai vv. 21-24, immagine con cui si chiude la poesia.
Orazio, Ode 3, 30
Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo impotens
possit diruere aut innumerabilis
5 annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar multaque pars mei
vitabit Libitinam: usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine Pontifex.
10 Dicar qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens,
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
15 quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge volens, Melpomene, comam.
Orazio, Ode 3, 30 TRADUZIONE
Commento. La poesia, che apre la raccolta delle Odi, è l’invito da parte di Orazio a
Mecenate, capo del circolo di cui il primo fa parte, affinché lo approvi come poeta
lirico. L’autore parte elencando in maniera piuttosto raffinata tutti i vari gradi
dell’ambizione umana: c’è chi aspira a una vittoria sportiva (vv. 3-4), chi a un
successo elettorale (vv. 7-8), chi desidera possedere tutto il grano della Libia (vv.
9-10), chi ama coltivare i propri campi (vv. 11-12). Vi sono poi coloro che invece
preferiscono passare le proprie giornate ad oziare (vv. 21-22), quelli che amano la
vita militare (vv. 23-24) e infine quelli che dedicano la loro esistenza alla caccia, al
punto di trascurare tutto il resto (vv. 25-28). Tutto ciò a cui invece Orazio aspira e del
quale si ritiene degno, è di essere riconosciuto come poeta lirico, tanto che afferma di
poter essere considerato l’erede di due famosi poeti di Lesbo, Saffo e Alceo (vv.
29-35). Da quest’ode traspare così il profondo desiderio di Orazio, cioè la sua volontà
di affermarsi come poeta.
Il testo si apre così col nome di Mecenate, al quale il poeta si rivolge elogiandolo (vv.
1-2). Il poeta esprime la propria profonda gratitudine verso colui che gli è stato e che
gli è ancora vicino dal punto di visto materiale così come morale. Successivamente il
componimento prende l’inatteso aspetto del Priamel, con cui sono elencati diversi
generi di vita. Tradizionalmente, protettrici di filosofia, cioè quei trattati che
esortavano appunto a intraprendere questo tipo di studi, distinguevano quattro
tendenze: l’uomo che si consacra alla ricerca della gloria, quello che invece aspira a
cariche pubbliche, quello che dedica se stesso al piacere e quello infine che desidera
semplicemente essere ricco. Questi quattro modi vivendi sono naturalmente presenti
anche qui, come s’è visto, ma mescolati a scelte alternative, che al poeta non
sembrano del tutto aliene, come l’atleta (vv. 3-6), il contadino (vv. 11-14) e il filosofo
epicureo (vv. 25-28), che per Orazio è un modello non proprio da scartare, vista
l’influenza che la dottrina del Kepos ha avuto nella sua vita e nella sua opera.
Dunque, Orazio non rifiuta con disprezzo le scelte alternative alla sua: semplicemente
le tratta con un tantino di ironia malcelata, che peraltro, non risparmia neppure una
vita dedicata alla sola poesia. Dell’atleta olimpico si dice che ama “raccogliere la
polvere” (vv. 3-4), immagine che di per se stessa svaluta lo sforzo durante la gara, il
quale peraltro, invece, “innalza agli dei” (v. 6), definiti ironicamente “padroni della
terra” (v. 6). Del politico si coglie l’importanza del suo pubblico, definito con il
termine turba (v. 7), in nesso allitterante con tergeminis e tollere (v. 8), altro verbo
che indica l’atto del “sollevare”. Del latifondista, si evidenzia il movimento,
certamente non così nobile, della “spazzatura” del suo cortile alla raccolta del grano,
poi sistemato nei granai (si veda qui il parallelismo tra proprio condit horreo, v. 9,
e de Lybicis verritur areis, v. 10).
Maggior spazio Orazio dà, invece, al piccolo proprietario terriero (vv. 11-14) e al
mercante (vv. 15-18), che pienamente soddisfatti della loro vita non ambiscono a
scambiarsi le condizioni, neppure se fossero incoraggiati da nuovi ed estremi
vantaggi. Dunque il contadino non aspirerebbe mai a solcare il mare (come è espresso
attraverso una finale ai vv. 13-14, dove la serie di aggettivi e sostantivi concordati
crea un gioco di parallelismi e chiasmi) e allo stesso modo il commerciante, anche
quando rovinato da un viaggio disastroso, non resterebbe mai nei suoi campi (reficit
rates, v. 17, un nesso allitterante).
I versi successivi ospitano un altro contrasto tra l’uomo “ozioso”, cui sono dedicati i
vv. 19-22, il soldato (vv. 23-25) e il cacciatore (vv. 25-28): il primo, naturalmente, fa
dell’inattività la propria attività, a differenza degli altri due, che si sottopongono a
fatica e sofferenza senza una reale necessità. L’uomo che si sa dedicare al proprio
riposo è rappresentato in termini che ricordano il Titiro protagonista della
prima Ecloga di Virgilio, mentre è disteso sotto un albero a godersi la frescura; dietro,
però, è anche la lezione di Lucrezio, che nel De rerum natura II 29-33 raffigura così
un gruppo di felici contadini “sdraiati in compagnia nell’erba tenera, presso un
ruscello sotto i rami di un albero alto, ristorano le loro membra con gioia, soprattutto
se il tempo è bello e la stagione cosparge di fiori l’erba verdeggiante”. Nel testo
oraziano, è particolarmente preziosa la iunctura ad aquae caput sacrae, dove sono da
notare due ipallagi.
Al contesto naturale in cui si muove questo personaggio, fa da contraltare
l’innaturalità del luogo in cui vivono il soldato e il cacciatore: non è più una natura
gioiosa e accogliente, ma il campo dove il suono predominante è quello della tromba
e il cielo è freddo e notturno (v. 25). In entrambi i casi è sottolineato, peraltro, un
altro tratto innaturale – quello della mancanza delle donne (le guerre, infatti, sono
“detestate dalle madri”, vv. 24-25, mentre il cacciatore dimentica la consorte, come si
dice al v. 26), il quale si va ad assommare alla violenza sottesa a queste due scelte
esistenziali, più evidenziata ai vv. 27-28 con la struttura seu/ seu.
Il finale è, come è stato già sottolineato, tutto del poeta, come dimostra il me con cui
si inaugura il v. 29: è la sua arte ad elevarlo al cielo (v. 30, la cui formulazione ricorda
il v. 5 e il v. 8) e a distinguerlo dal popolino. Egli si considera (o perlomeno chiede a
Mecenate di considerarlo) contemporaneamente poeta lirico (lyricis) e vate (vatibus,
v. 35): egli, infatti, è poeta romano, ma si sente allo stesso tempo erede della
tradizione greca dei poeti di Lesbo, Saffo e Alceo.
Orazio, Ode 1, 11
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
5quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias: vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.
Orazio, Ode 1, 11 TRADUZIONE
L’ultima parte del carme (vv. 6-8) è la più celebre in assoluto. Orazio invita Leuconoe
ad essere saggia (sapias, v. 6), cioè in particolare e considerare con saggezza il
proprio tempo vitale. Il poeta, che utilizza vina liques, v. 6, cioè “filtra il vino”, non a
caso inserisce questa espressione. Il vino è utilizzato durante i banchetti e in esso si
trova la dimenticanza. Questa bevanda possiede il potere di disinibire e rendere più
lucide le persone: infatti, si dice in vino veritas. Orazio invita quindi la giovane a ”
vivere ubriaca”, ovvero ad essere libera di esprimersi, ma allo stesso tempo a
“filtrare” con criterio ciò che potrebbe nuocerle.
Il vate conclude l’ode affermando che ogni giorno che viene è come se fosse l’ultimo
e, come tale, merita di essere vissuto appieno (si noti l’antitesi tra spatio brevi, v. 6,
e spem longam, v. 7, a sottolineare ancora il confronto tra il tempo esiguo attribuito
all’uomo e il suo desiderio di programmazione del futuro). Il destino è pertanto
incerto e si deve scegliere di godere di ciò che è bello in tutto ciò che ci circonda,
affinché la nostra permanenza sulla terra non sia stata vana. Bisogna “cogliere
l’attimo”, cioè battere il tempo in velocità perché quest’ultimo corre senza sosta
(fugerit invida/ aetas, vv. 7-8). Un’altra riflessione più malinconica si cela dietro a
questi versi: Orazio si accorge di non essere più padrone del mondo, come un tempo.
Egli deve solo rassegnarsi ad essere pienamente signore di se stesso, più che della sua
esistenza, e a reagire positivamente a quello che gli accade: solo in questo modo potrà
adattarsi alla sua nuova età esistenziale.