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SONGWRITING

Brunori S.a.S. A casa tutto bene • Picicca/Believe• CD 12t- 48:02


La verità è che ti fa paura l'idea di scomparire/ l'idea che tutto quello a cui ti aggrappi
prima o poi dovrà morire/La verità è che non vuoi cambiare/che non sai rinunciare a quelle
quattro cinque cose a cui non credi neanche più. Comincia così il nuovo disco di Dario
Brunori,un musicista onesto e talentuoso, con la sua gavetta alle spalle, i numerosi
concerti macinati appassionatamente e salutati da un pubblico in continua crescita; con
una penna sempre più a fuoco, sempre più incline a mettere a nudo se stessa e la realtà
circostante e che ora, complice un rinnovato interesse per una autoralità di estrazione
indie, si prepara al grande salto. Lo dico immediatamente: penso un gran bene di questo
disco, così come di un certo numero di produzioni italiane che stanno dando nuova linfa
alla nostra realtà musicale e che hanno il carisma di arrivare alla gente, a volte anche
sputtanandosi il giusto, ma chi se ne frega. Finalmente non tutti i talenti rimangono
incompresi e alle radio italiane si comincia a sentire un'altra solfa, oltre ad Alessandra
Amoroso e i Modà. Con buona pace dei duri e puri che mi scomunicheranno, segnalo con
soddisfazione ai nostri lettori che questo è un album ricco di grandi canzoni, con testi
bellissimi, un bel tiro vocale, arrangiamenti indovinati e funzionali, una produzione, che
porta la firma squisita di Taketo Gohara, semplicemente smagliante, forte di un paesaggio
elettro-acustico molto ben ponderato e arricchito da un uso intelligente dell'orchestra.
Sono queste le ragioni per cui “A casa tutto bene” andrà in classifica, avrà la sua caterva
di like sui social network, le sue copiose visualizzazioni sul tubo e attirerà una cifra di
gente ai concerti. Bene così: è farina del suo sacco.
Entriamo adesso un po' nel merito dei pezzi. La Verità, brano di apertura e primo singolo,
dal quale è tratto il frammento sopra riportato, è un dialogo con un interlocutore che
potrebbe essere l'io narrante che si confronta con se stesso, oppure un tu ideale, una
sorta di categoria esistenziale, cui ci si rivolge per fare un amaro punto della situazione.
Non conquista al primo ascolto, ma dopo il secondo non lascia tregua. Segue L'uomo
nero, con un testo caustico ed emotivo, ma miracolosamente privo di retorica, sul tema del
razzismo: Hai notato che l'uomo nero spesso ha un debole per la casa/ a casa nostra, a
casa loro/tutta una vita casa e lavoro/ed è un maniaco della famiglia, soprattutto quella
cristiana/ per cui ama il prossimo tuo/ solo se è carne di razza italiana. Canzone contro la
paura è un manifesto poetico con cui l'autore definisce le proprie come Canzoni che
parlano d'amore, perché alla fine dai/di che altro vuoi parlare/che se ti guardi intorno non
c'è altro cantare. Solida e di buon impatto è anche Lamezia Milano, che insieme alle
registrazioni effettuate tra San Marco Argentano, un paese del cosentino, e Milano
ricostruisce le radici calabre e certi vissuti milanesi di Dario. Il De Gregori 2.0 di Colpo di
Pistola ha un passo romantico e disperato ed è una grande canzone d'amore. Poi arriva la
doppietta assassina che segna l'apice del disco: La Vita Liquida, con il suo splendido
arrangiamento di fiati e i suoi impasti corali, è una metafora avvincente della mancanza di
riferimenti che rende il nostro tempo sempre più difficile da vivere; Diego ed Io è un colpo
al cuore, un brano coraggiosissimo, melodia altissima e retrò, testo passionale ed
enigmatico, l'orchestra che tesse meraviglie in filigrana: classico all'istante.
Segue l'unica caduta di tono della scaletta, Sabato Bestiale, che probabilmente sarà
quella che la gente canterà di più ai concerti e magari farà pure da secondo singolo, è in
realtà un brano nato vecchio, che cede molto più gratuitamente che altrove alla moda
imperante (e per ciò stesso agonizzante) dell'affettazione di tamarraggine maudit e della
parolaccia liberatoria a tutti i costi, cose di cui, alla quarantesima fotocopia, è doveroso
essere stanchi. Ma si ritorna a volare altissimi con Don Abbondio, un fior di canzone di
denuncia sul degrado socio-politico del nostro meridione, intonato con mesto rigore su un
arrangiamento miracoloso, con tanto di orchestra morriconiana, cenni di elettronica ed uno
dei testi più riusciti di tutto l'album. Geniale è anche Il costume da Torero, col coro di
bambini che intona la vita è una merda (e qui si che la parolaccia ci sta da dio!) e il
theremin che impazza (se poi è un moog mi perdonerete); Secondo me è una
dichiarazione di intenti di una consapevolezza e di una autoironia disarmanti, mentre nel
bozzetto autobiografico La vita pensata c'è una delle frasi più belle del disco: la vita è una
catena che chiudi a chiave tu. Nonostante Sabato Bestiale, indubbiamente questa è nel
complesso una scaletta da (8). Piergiorgio Pardo

SONGWRITING
Umberto Maria Giardini Futuro Proximo • La Tempesta• CD 10t- 41:00
Prima come Moltheni, poi, dopo la parentesi con i Pineda, con il suo vero nome, Umberto
Maria Giardini ha inanellato una ormai considerevole teoria di dischi e una carriera solida
e costante, oltre che un'identità sonora e testuale personalissime. “La Dieta
dell'imperatrice” e “Splendore e Terrore” sono probabilmente i rispettivi apici delle due fasi,
ma Giardini è indubbiamente un grande artista e non si è mai espresso al di sotto di un
certo standard. Anche in questo nuovo album ci sono brani ottimi e in genere tutta la
seconda parte della scaletta, da Il Vento e il Cigno, passando per il magnetico strumentale
Ieri nel futuro Proximo, la visionaria Dimenticare il Tempo, le delicate melodie di Caro Dio
e Mea Culpa, il passo ieratico di Graziaplena e quello spedito di Onda, si abbevera alla
fonte di una buona ispirazione: non si grida al miracolo, ma si ascoltano bei pezzi. Nei
primi quindici minuti invece si assiste un po' ad una replica piuttosto stanca dell'Umberto
Maria Giardini che conosciamo bene da tempo: ci sono le progressioni armoniche
stranianti, le rime al mezzo, una certa aulica verbosità, i titoli lunghi ad effetto (qui è A volte
le cose vanno nella direzione opposta a quella che pensavi), le melodie oblique e in
genere tutti gli elementi che caratterizzano il personaggio e ne identificano la scrittura, ma
che nel tempo sono diventati di maniera. Da un autore di vaglia e da un musicista così
dotato ci si aspetterebbe invece la giustificata ambizione ad un significativo rinnovamento
dell'armamentario espressivo. (7) Piergiorgio Pardo

INDIE ROCK
Fast Animals and Slow Kids Forse non è la felicità• Woodworm/Audioglobe• CD 11t-
48:00
Con l'Alaska tour i Fast Animals and Slow Kids hanno veramente centrato l'obbiettivo,
allargando di concerto in concerto il proprio fan base e inanellando diverse date sold out.
Normale dunque che alla vigilia di quest'album ci fossero delle aspettative e
conseguentemente delle pressioni. Stando a quanto raccontano, i nostri, dopo qualche
attimo di disorientamento, hanno reagito nel modo più naturale, stappando una birra e
riprendendo a divertirsi nel suonare insieme. E' una gioia che si avverte, statene sicuri. Chi
li ha amati già da “Hybris”, chi si è appassionato a una favola di canzone come
A cosa ci serve, chi ha salutato in “Alaska” una gran bella conferma, ritroverà in questo
ottimo album tutta l'energia di sempre, quella grinta, quell'urgenza, le capacità
compositive, nonché l'intelligenza negli arrangiamenti che, pur nel più divampante accesso
di furore elettrico non fa perdere mai alla band il timone delle proprie performance, su
disco come dal vivo. Troverà anche qualcosa in più: i testi non sono mai stati così belli,
mai altrettanto forti e incisive le melodie e anche dal punto di vista delle progressioni
armoniche è stato fatto davvero un ottimo lavoro. Infine il disco suona divinamente: c'è
una pacca bombatissima sulle basse, chitarre corpose e ruggenti, timbri sporchi quando
servono e delle parti vocali che, oltre ad essere veramente da urlo, anche negli impasti
corali quando accadono, sono prodotte benissimo. Giovane, Annabelle e Giorni di Gloria
sono i momenti più alti della scaletta, che comunque non ha, e nemmeno dà, tregua di
sorta. Un retrogusto indie-rock italiano “alla vecchia” tra Marlene Kuntz e primi Verdena, si
sposa a un certo piglio Pixies, a diavolerie spedite stile Ramones, a cenni di post-rock e di
shoegaze, alle cavalcate gotiche dei Wire di Pink Flag e a quelle poppish degli XTC di
“Drums & Wires”, il tutto però filtrato da una sensibilità e da un approccio totalmente 2017.
It's only rock'nroll but we like it! (8) Piergiorgio Pardo

SONGWRITING
Diodato Cosa siamo diventati• Carosello• CD 12t- 46:00
L'esordio “E forse sono pazzo” risale oramai a tre anni fa, così come la partecipazione al
Festival di Sanremo nella categoria “nuove Proposte” con uno dei brani più convincenti
che si siano ascoltati in quella edizione della kermesse, Babilonia. Qualcuno dei lettori lo
ricorderà ospite fisso di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, impegnato nel proporre classici
della canzone d'autore italiana, anche se i primi passi del cantautore sono stati mossi in
ambito indipendente, anzi proprio al MEI. In questo disco convivono entrambe le anime:
una innamorata della canzone italiana anni sessanta/settanta, quella indimenticabile di
Bindi, Paoli e De Andrè e una indie-rock, che si accende di chitarre poderose, progressioni
armoniche improvvisamente più asciutte, oltre ad uno spiazzante sguardo “floydiano” che
ogni tanto fa capolino negli arrangiamenti. L'insieme è curioso e a tratti anche originale,
impreziosito dalla voce del titolare, che è veramente uno spettacolo. Ciò che ne scaturisce
nel complesso non è affatto disprezzabile, ma ci sono delle pecche che per il momento
impediscono al grande talento di Diodato di volare come potrebbe: i testi peccano sovente
di ingenuità, le melodie sono piacevoli ma già sentite, gli arrangiamenti scappano da tutte
le parti, le interpretazioni sono sopra le righe, o stereotipate e finiscono col mancare il
bersaglio, a dispetto della grande bellezza del timbro, della sensibilità di interprete e
dell'ottima estensione vocale,
Il difficile, e per certi versi inedito, equilibrio che si tenta qui, è però per ben tre volte
totalmente raggiunto, con altrettanti brani talmente riusciti da nobilitare l'intera scaletta:
Fiori Immaginari, Un po' più facile e la conclusiva La Luce di Questa Stanza. Qui il
songwriting è finalmente a fuoco: non obbedisce a nessun cliché indie, non ha la
prevedibilità della canzone italiana per interpreti, è ben bilanciato tra gusto melodico e
una certa attitudine rock. E anche la voce, che altrove sconfina nel manierismo e
smarrisce il senso della misura, in questi tre brani riesce a raccontare senza enfasi; è
proprio allora che l'indubbio carisma interpretativo del titolare riesce davvero a risaltare. La
strada da percorrere, perché venga fuori il grande potenziale di un possibile protagonista
di domani, è assolutamente questa. E noi tifiamo per la sua indubbia bravura. (6/7)
Piergiorgio Pardo

INDIE-POP
Pan del diavolo Supereroi • La Tempesta/Master Music • CD 11t- 40:00
Sembra accaduto ieri l'effetto sorpresa di un bell'esordio come “Sono all'Osso” e invece da allora
sono trascorsi sette lunghi anni, che i nostri hanno speso suonando ovunque in giro per la penisola,
nutrendosi di nuovi stimoli creativi e scrivendo canzoni sempre con la stessa freschezza e
sincerità dei primi momenti. “Folkrockaboom”, tre anni orsono, li aveva una volta di più
confermati come una delle più solide realtà dell'indie nostrano, per cui all'appuntamento
con il terzo album, il combo palermitano non ha voluto lasciare niente al caso. Con loro ci
sono in questa occasione i Tre Allegri Ragazzi Morti, Vincenzo Vasi e Umberto Maria
Giardini, ma soprattutto c'è sua diabolicità Piero Pelù, nel ruolo, che fa un po' “The Voice”
ma non importa, di mentore e coach motivante, ufficialmente di produttore.I brani dei quali
si occupa il Piero nazionale sono la title-track, Tornare da te, Aquila Solitaria e Qui e
adesso. Non si percepisce una apprezzabile differenza tra i brani fatti con Pelù e i
rimanenti: il disco risponde ad un'idea di suono, strutture e arrangiamenti precisa, definita
e compatta, che rende molto coerente la scaletta e rappresenta una sorta di svolta nella
discografia del Pan del Diavolo. Il duo sceglie la via di un rock elettro-acustico molto
affilato ed emotivo, che parzialmente ritratta l'attitudine folksy & roots mantenuta fino
all'album precedente e si accosta, passo dopo passo, a quella, ormai definibile pop- rock,
degli amici Zen Circus. In questo senso la presenza degli ospiti e del produttore può avere
fatto da volano al processo di trasformazione e può avere aiutato una realtà responsabile
di una vicenda artistica già importante a mantenere saldo il proposito di mutare
parzialmente pelle. C'è da apprezzarli: è sempre un segno di vitalità questa urgenza di
ridefinire le proprie coordinate sonore, soprattutto ove queste si reggevano su una formula
molto identificabile. Il Pan del Diavolo aveva bisogno di energie fresche e le ha trovate
reinventandosi. Il risultato? Comunque un buon album, con uno standard qualitativo
sempre alto. Quello che manca alla consueta eccellenza non è tanto la qualità della
scrittura, sempre ottima, quanto piuttosto una scelta di campo tanto interessante e
personale quanto lo era la precedente declinazione, che erano i soli ad avere inventato e a
portare avanti. Allora? Questo nuovo Pan del Diavolo sa di poco? Assolutamente no: è
gente che scrive e suona alla grande e anche in questa occasione manifesta talento e
personalità a vagonate, ma la sensazione è che nel frangente di un aggiornamento non
epocale, ma comunque consistente, servisse una produzione dalla mano più sicura ed
esterna al duo, tale da reperire durante il processo creativo una nuova forma di originalità
che facesse ancor più nitidamente risaltare la indubbia validità della scrittura. (7)
Piergiorgio Pardo

PSYCHE-POP
Giorgio Poi Fa niente • Bomba Dischi/Universal • CD 9t- 33:00
Nato a Novara, trasferito a Lucca, naturalizzato romano, in seguito appena ventenne a
Londra, dove si diploma in chitarra jazz alla “Guildhall School Of Music And Drama”.
Vivendo tra Londra e Berlino dà vita al progetto Vadoinmessico, il cui “Archaeology Of
The Future”, gustoso dischetto tra folk, rock e psichedelia, ottiene un ottimo riscontro di
critiche e guadagna al combo un tour europeo con appendice negli States. Ancora più
interessante la reincarnazione Cairobi, il cui EP “Distant Future”, pubblicato, a quanto mi
risulta, solo su itunes, è fantasmagorica e multicolore ipotesi di pop rock psichedelico, con
un occhio al caro, vecchio progressive e a certe pagine di Mercury Rev e Flaming Lips. Da
ascoltare. Intanto però la nostalgia dell'Italia si faceva strada nella mente di Giorgio,
insieme a una sorta di senso di appartenenza all'Italia e alla sua mitologia sospesa tra
classicità e provincialismo.Sulla scia di questo bisogno identitario sono nati i pezzi
racchiusi in questo bellissimo e minuto miracolo pop che si chiama “Fa niente”. Ad
ascoltarli si capisce immediatamente dove andasse a parare l'urgenza espressiva del
giovane autore e proviamo a dirla in breve: disinvoltura vs. stupore. La disinvoltura è
quella con cui Giorgio si muove su liriche semplici e al contempo sofisticate, che volano
appena un poco umbratili su una loro imprendibile leggerezza, fatta di pensieri in lingua
madre e di confidenziali sottintesi; lo stupore è quello del musicista Poi, che si diverte a
sperimentare come suoni una metrica italiana sulle sue nuances jazzate, sulle
progressioni armoniche appena sbilenche che lambiscono lievemente i fucsia campi della
psichedelia. E così mentre il nostro intona la straniante quotidianità di versi come “Ho
cambiato cuscino ma non mi trovo/trovami tu”, il paesaggio sonoro si muove sempre alla
ricerca di un suo meraviglioso stato liquido, o aeriforme. Sono canzoni d'amore e di
esistenza, che sposano il gusto pop-cantautorale nel vezzeggiare la parola ad uno
stordimento sonoro tutto visioni e lunari movenze. Pensate a un ideale incontro tra
Calcutta, “Deserter's Songs” e i Prefab Sprout dei primi due album; aggiungete un tocco
digitale da cameretta; spruzzate di nebbia londinese, guarnite di afrori marittimi in tempo
d'estate, infine, parlando ancora di tempi, metteteli dispari: ed ecco il mondo di Poi.
Il futuro del pop italiano si aggira infatti anche da queste parti. (8) Piergiorgio Pardo

PROGRESSIVE-POP
Blackfield V • Kscope • CD 13t- 45:00
Un sognante, classicissimo intro di archi che ha il suono pastoso della London Symphony
Orchestra e poi il quinto album dei Blackfield apre le ostilità con l'epica Family Man.Siamo
dalle parti dei Marillion di “Brave” e dei Pallas di “The Wedge”: new prog dei più classici,
con un bellissimo tiro. How Was You Ride? è una ballata floydiana, con echi di Alan
Parsons Project e Jakko Jakskyz, melodia agrodolce e penetranti progressioni d'archi: una
vera torch song. Poi arriva We'll never be Apart, molto chitarristica, parte vocale obliqua,
tempi dispari, fantasmi di archi che nutrono da sotto: nasce piano e monta maestosa, fino
a candidarsi fra i picchi dell'album. Sorrys è incantevole, conduce ai Genesis acustici di
Entangled e profuma altresì di “Voyage Of The Acolyte”. Molto genesisiana, ma con
liasons floydiane è Life Is An Ocean, mentre Lately ha passo aerodinamico, con parti
vocali vincenti e caldi fraseggi di chitarra. October è immensa, una ballad di cristallina
bellezza, come nel progressive non si sentivano da tempo, davvero un colpo di classe e di
genio; la segue The Jackal, rocciosa e bluesy nelle strofe, carezzevole e appassionata nel
refrain, anch'essa sul crinale fra Alan Parsons Project, Genesis e Pink Floyd, ma con un
tocco di stilosissima modernità e con un grande lavoro di Steven Wilson alla chitarra. Salt
Water sembra provenire dalle session dei Camel di “Dust”, mentre Undercover Heart
riporta ancora ai Genesis, ma quelli più ingiustamente sottovalutati di “Calling All Stations”;
Lonely Soul ha un fantastico coté british soul, a dimostrazione di come il progressive
possa agevolmente essere trasversale ai generi; From 44 to 48 è una ballad floydiana,
con sviluppi Landberk, davvero una degnaconclusione. Insomma, vuoi per il ritorno in
pianta stabile di Steven Wilson, vuoi per la presenza di Alan Parsons come produttore a
macchia di leopardo, ma davvero l'atmosfera è quella delle grandi occasioni. Secondo gli
autori è l'album più riuscito della loro discografia. Al secondo ascolto si finisce col dar loro
ragione. (8) Piergiorgio Pardo

BEAT
Dik Dik ... • Egea • CD 10t – 38:00 • CD 11t – 48:00
Nel biennio 2015/6 si sono festeggiati i 50 anni di carriera di diversi protagonisti della
straordinaria epopea del beat italiano, da Aldo Tagliapietra delle Orme a Patty Pravo ai Dik
Dik. Vale la pena di riportare, in tutta la tenerezza che suscitano, le parole degli stessi
protagonisti nel comunicato stampa che diffonde la notizia sulla pubblicazione di questo
doppio album celebrativo: “La via Stendhal a Milano è stata il crogiolo della nascita di
alcuni personaggi nel campo dell’arte partiti dal nulla come: Cochi Ponzoni, Moni Ovadia,
Aldo reggiani, Ricky Gianco e noi DIK DIK, attualmente in piena attività dopo 50 anni di
carriera.” Avremo presto occasione di ritornare sui Dik Dik nell'ambito di un ben più ampio
discorso sul beat italiano, ma per ora basti dire che furono praticamente l'unico gruppo
beat che, pur operando delle sortite episodiche nei terreni contigui di psichedelia
(nell'album “Volando”) e progressive (“Suite per una donna assolutamente relativa”),
mantenne almeno fino al 1976 un successo costante, seguitando a proporre un
linguaggio e un'immagine fedeli a quelli originari. A indirizzarne su tale binario la carriera
furono indubbiamente le cover di grande successo di brani stranieri, fra gli altri Sognando
California, “rubata” ai Mama's & Papa's, L’isola di Wight di Michel Delpech, il lentone
strappamutande Senza luce (A Whiter shade of pale dei Procol Harum). Con ancora
maggiore legittimità rispetto alla stessa Equipe '84, i Dik Dik dunque rappresentano il beat
italiano e in questa doppia compilation sono essi stessi a celebrare il proprio mito. Il primo
CD, oltre ai due, piuttosto mediocri, inediti Punto su di te (di Mario Lavezzi) e Sulla Nuvola
(Danilo Amerio), contiene i brani più rappresentativi del Dik-songbook in versioni nuove e
parzialmente riarrangiate, da ascoltare con affettuoso rispetto, se non altro per la
presenza di tutti e tre i membri fondatori della band: Pietro Montalbetti (Pietruccio), Erminio
"Pepe" Salvaderi, Giancarlo "Lallo" Sbrizzolo. Il secondo CD contiene undici riletture di
brani celeberrimi da parte di altrettanti artisti di estrazione eterogenea: si va dall'aerea
ripresa de L'Isola di Wight a opera di Johnson Righeira e del jazzista Giorgio Li calzi,
piuttosto interessante, anche se registrata a livello praticamente amatoriale, così come lo
sono Il mondo è con noi dei Lombroso (peccato, perché la versione in sé sarebbe molto
buona) e, stranamente considerati i mezzi probabilmente a disposizione, Help Me di Elio e
le Storie tese (inascoltabile anche dal punto di vista del contenuto). Dignitose sono invece
Il primo giorno di primavera delle Custodie Cautelari, Guardo te e vedo mio figlio dei The
Gift e Il Vento di Francesco Zampaglione. Il resto, compresa un'anonima versione di Storie
di periferia di Federica Camba, è sciatto e trascurabile. (9) alla carriera (5) all'album.
Piergiorgio Pardo

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