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A piedi nudi nell’acqua.

La genesi di West Side Story

Il 6 gennaio 1949 Leonard Bernstein ricevette una telefonata


dal coreografo Jerome Robbins. Il compositore annotò il conte-
nuto della conversazione: «Oggi ha chiamato Jerry R con una
nobile idea: una versione moderna di Romeo e Giulietta, am-
bientata nei bassifondi durante le celebrazioni pasquali. Alta
tensione tra ebrei e cattolici. I primi: cattolici; i secondi: ebrei.
Giulietta è ebrea […]. La cosa più importante è la grande idea
di fare un musical che racconta una storia tragica in termini di
commedia musicale, usando solo tecniche da commedia musi-
cale, senza mai cadere nella ‘trappola’ operistica. Può funzio-
nare? Non ancora nel nostro paese. Sono eccitato. Se funziona
- è la prima volta. Jerry suggerisce Arthur Laurents per il libret-
to. Non lo conosco, ma conosco Home of the Brave, su cui ho
pianto come un bambino. Lui è quello giusto».
Quattro giorni dopo i tre si incontravano. Avevano molte cose
in comune: la stessa giovane età (Laurents 32 anni, Robbins e
Bernstein 31 anni), tutti ebrei (il vero cognome di Laurents era
Levine), tutti e tre omosessuali. Robbins e Bernstein avevano
lavorato già insieme per il musical On the Town. Laurents era
assurto a celebrità nazionale con il libro Home of the Brave.
Quanto alla questione sessuale, sarebbe irrilevante se non fos-
se che negli Stati Uniti del dopoguerra era difficile vivere libe-
ramente il proprio orientamento: di lì a un anno Robbins sarà
convocato dalla Commissione per le attività antiamericane e
costretto a fare nomi di amici comunisti sotto il ricatto di rivelare
la sua omosessualità. E se Laurents ebbe meno problemi, la
vita privata di Bernstein fu attraversata da una drammatica
oscillazione tra la vicinanza alla propria famiglia, con tre figli, e
l’attrazione costante verso l’universo maschile. Ovviamente
quello che funzionò tra questi uomini fu la straordinaria sintonia
artistica, ma sapere di dover nascondere lo stesso orientamen-
to sessuale dovette cementare ulteriormente la loro collabora-
zione.
Torniamo alla reazione di Bernstein. Non era del tutto vero
che non ci fossero precedenti: temi drammatici erano stati alla
base dei musical Carousel di Rodgers e Hammerstein (1945) e
Street Scene di Kurt Weill (1947). Neanche l’idea di attingere a
Shakespeare era inedita: proprio nei giorni in cui i tre si incon-
travano, Cole Porter portava in scena Kiss Me, Kate, basato su
La bisbetica domata.
Nonostante una proficua riunione, alla fine non se ne fece
niente: erano tutti impegnatissimi con altri progetti. Passarono
ben sei anni di stallo fino a quando, nel 1955, Robbins ricordò
che l’idea era buona ed era un peccato non andare avanti. C’e-
ra anche un titolo di lavorazione, East Side Story. Ma il progetto
si sbloccò solo quando saltarono fuori due circostanze. La pri-
ma: sui giornali non si parlava altro che delle gang violente del-
le metropoli americane, un serio problema di ordine pubblico.
Un giorno, con i piedi a mollo in una piscina, Laurents e Bern-
stein hanno l’illuminazione: non ebrei, ma portoricani. E i Mon-
tecchi sono immigrati dall’est, forse polacchi. Il musical parla di
guerra tra gang di immigrati. Su questa prima idea si innesta la
seconda circostanza: il paroliere. Bernstein vorrebbe i fidati
Betty Comden e Arthur Green, ma non sono disponibili. Sicco-
me intanto si era sparsa la voce, Oscar Hammerstein II suggerì
al giovane Stephen Sondheim di farsi avanti. Ventisei anni,
ebreo, omosessuale, paroliere e compositore di eccezionale ta-
lento, Sondheim si trovò immediatamente in sintonia con il trio
di autori. Il suo arrivo e la soluzione portoricana fecero decolla-
re il progetto.
Il lavoro di abbozzi del libretto, dei testi delle canzoni e della
musica fu fittissimo. Tutti avevano diritto a mettere bocca su tut-
to, in un clima di spietata franchezza, che però aiutò a elimina-
re le parti inutili, a mettere a fuoco i personaggi, a precisare
psicologie, logiche, soluzioni drammaturgiche e musicali. Bern-
stein però procedeva a rilento: all’inizio del 1956 era preso da
mille impegni, inclusa la direzione d’orchestra. Ma soprattuto
doveva ultimare l’opera Candide, la cui prima era prevista a di-
cembre.
Dal gennaio 1957, superato lo scoglio di Candide, il compo-
sitore si mise finalmente al lavoro a tempo pieno; in parallelo si
tenne anche il difficile casting alla ricerca di artisti giovani, sco-
nosciuti, che sapessero danzare e cantare. Per il finanziamento
cui incontrarono diversi problemi, ma alla fine si trovò chi copri-
va il budget (cifre minori furono raccolte anche tra chi participa-
va al lavoro, ad esempio la famiglia Bernstein).
Mentre si succedevano riscritture, correzioni, perplessità,
pezzi cancellati, altri spostati, tutti dubitavano del titolo: prima
East Side Story, poi Gangaway! o Gang Way!, infine West Side
Story, che a Bernstein non piaceva troppo. Fu scelto il direttore
d’orchestra, l’esperto Max Goberman, ben noto a Broadway,
che di Bernstein aveva già diretto On the Town. Un musicista
eclettico, il primo a registrare l’integrale delle sinfonie di Haydn
e promotore, mentre guidava le repliche di West Side Story, di
un vasto progetto su Vivaldi. Per contratto Bernstein non potè
mettere bocca nella sua interpretazione.
Intanto si tenevano le prove. Robbins si rivelò un regista e
coreografo duro e tirannico, mentre i cantanti amavano Bern-
stein, sempre comprensivo, prodigo di aiuti anche per i pas-
saggi più difficili.
Infine, fu la volta dell’orchestrazione. Le regole del musical
teatrale sono molto diverse da quelle del concertismo classico
e del teatro d’opera. Di norma il compositore di musical non
realizza l’orchestrazione (a Broadway facevano eccezione Vic-
tor Herbert e Kurt Weill). Non perché non ne sia capace -
un’accusa che ha perseguitato George Gershwin - ma perché
in queste produzioni il compositore deve stare dietro alle conti-
nue richieste di riscritture, modifiche, aggiustamenti, anche
dopo le anteprime. L’orchestrazione è quindi affidata a degli
specialisti che lavorano in autonomia o, come nel caso di West
Side Story, seguendo le indicazioni del compositore. Bernstein
volle con sé l’amico Sid Ramin, che a sua volta si fece aiutare
da Irving Kostal: c’era pochissimo tempo.
Per capire la velocità a cui si lavorava, si consideri che l’an-
teprima a Washington era stata fissata per il 19 agosto 1957.
La prima riunione di Bernstein con Ramin sull’orchestrazione si
tenne due mesi prima, il 20 giugno. Sei giorni dopo viene chia-
mato Kostal. Tra una riunione e l’altra Ramin e Kostal comple-
tarono il lavoro in un mese. Ma una riunione si tenne ancora il
23 agosto, quattro giorni dopo l’anteprima, per mettere a punto
alcuni dettagli che non andavano.
Ramin e Kostal seguirono fedelmente le indicazioni del com-
positore, ma proposero anche migliorie e cambiamenti. I tre
dovettero tenere conto anche dei problemi dell’orchestra del
Winter Garden Theatre di New York, dove si sarebbe tenuto lo
spettacolo. Ad esempio cercarono di limitare il ruolo di due
pessimi violoncellisti di fila, mentre approfittarono della presen-
za del fagottista Sandor Sharoff, vecchio compagno di studi
Bernstein: questo spiega perché in West Side Story ci sono
complessi passaggi per fagotto, del tutto anomali nel musical.
Dopo Washington, tocco a Filadelfia: le recensioni erano
sempre ottime. La prima a Broadway si tenne il 26 settembre
1957, con recensioni quasi tutte eccellenti. Lo spettacolo rima-
se al Winter Garden Theatre per 732 repliche. Poi fu portato in
giro negli Stati Uniti per otto mesi, per tornare nell’aprile 1960 a
New York, dove rimase in cartellone per altre 249 repliche. No-
nostante questi numeri e il plauso della critica, lo spettacolo
ebbe un buon successo, ma non esaltante. Non fece mai sold
out, non vinse nessun Tony Award. Alla fine i finanziatori riusci-
rono giusto a recuperare l’investimento. Tra il 1958 e il 1961 il
musical andò in scena anche a Londra.
Ma il vero successo internazionale, e gli incassi da capogiro,
arrivarono nel 1961 grazie al film di Robert Wise e Jerome
Robbins. Un film in cui, a parte Robbins, gli autori originali non
furono coinvolti. Laurents e Bernstein non amarono il film, che
annacquava non poco la forza originaria dello spettacolo teatra-
le, con cambiamenti nell’ordine dei numeri, nei contenuti musi-
cali, nell’aspro linguaggio dei testi.
Il successo di West Side Story parte da lì, da quel film. Ma
per recuperare la forza di questa straordinaria partitura, biso-
gna rivolgersi alla sua originaria destinazione teatrale.
Lo stile di West Side Story: alla ricerca di un Mozart
americano

Bernstein era entusiasta all’idea di West Side Story perché


finalmente poteva affrontare una serie di questioni sulle quali
andava ragionando da anni. Da tempo il compositore sognava
un lavoro di teatro musicale autenticamente americano. Però
bisognava intendersi su quel’“americano”. Il problema assillava
musicisti e critici da decenni. Lo aveva sollevato in modo incisi-
vo Antonín Dvořák intorno al 1892 quando, in qualità di diretto-
re del Conservatorio di New York, scrisse una serie di articoli
nei quali metteva i compositori americani davanti alla respon-
sabilità di scrivere una musica nazionale, la cui fonte più auten-
tica, per lui, era racchiusa nel folklore degli ex schiavi afroame-
ricani e dei nativi (musiche che peraltro Dvořák non conosceva
a fondo). Il dibattito che ne seguì, sulle due sponde dell’Atlanti-
co, fu vivace ma di corto respiro, e non sortì significativi effetti
artistici.
Tuttavia nel 1911 Scott Joplin, uno dei grandi compositori
afroamericani, aveva terminato di comporre la sua opera
Treemonisha nel più completo isolamento e senza riuscire a
metterla in scena. Quel capolavoro finì in un buco nero della
storia, per riemergere solo nel 1974. L’opera americana esiste-
va, era stata fondata da Scott Joplin, ma nessuno se ne accor-
se. Quanto a Porgy and Bess di George Gershwin (1935), an-
ch’essa un capolavoro che incarnava l’ideale di Dvořák, non
raccolse il consenso unanime per entrare subito nel canone.
Anche perché i protagonisti erano, come pure in Treemonisha,
degli afroamericani, e non si poteva ammettere uno status
“alto” a individui che, nella società, erano considerati esseri in-
feriori e segregati per legge.
Nel 1939 Bernstein stilò la sua tesi di laurea ad Harvard: The
Absorption of Race Elements into American Music, nella quale
individuava nell’innodia protestante americana e nel jazz le fon-
ti a cui un compositore americano può e deve attingere. In par-
ticolare del jazz lo interessava più il ritmo che la scala blues, e
Aaron Copland più di George Gershwin. In seguito il suo oriz-
zonte si ampliò a molti artisti afroamericani, così che il jazz arri-
verà a permeare molti aspetti della sua opera: dalla prima sin-
fonia Jeremiah (1942) alla canzone Big Stuff concepita per Bil-
lie Holiday in apertura del balletto Fancy Free (1944), ai tanti
ammiccamenti nella partitura del musical On the Town (1944).
Ma c’è dell’altro. Bernstein ambiva ad essere lui stesso il
compositore che avrebbe fondato il teatro musicale americano.
Nel 1956, quando cominciò a sviluppare compiutamente West
Side Story, ignorava l’esistenza di Treemonisha e non attribui-
va grande credito a Porgy and Bess. Di Gershwin invece ammi-
rava quell’altro capolavoro che è Of Thee I Sing (1931), un’ope-
retta di tagliente satira politica, ancora oggi poco apprezzata,
che, notava Bernstein, a una storia e un eloquio americani uni-
sce la tecnica del contrappunto e la drammaturgia dell’operetta,
ma con uno spirito da commedia musicale.
Mancava comunque un esempio che potesse davvero fare
da modello. Nel marzo 1956, ragionando in televisione su que-
sti argomenti, Bernstein a un certo punto azzarda un parallelo
con la nascita del teatro musicale tedesco alla fine del XVIII se-
colo: «siamo nella stessa posizione; abbiamo bisogno che arrivi
il nostro Mozart. E quando accadrà, non avremo certo Il flauto
magico; avremo qualcosa di nuovo, e forse “opera” sarà la pa-
rola sbagliata […] Può accadere in qualsiasi momento. E’ come
se fosse il nostro momento storico, come se ci fosse la neces-
sità storica di offrirci tanto talento creativo in questo preciso
istante». C’è da giurarci: Bernstein pensava a sé stesso. Non
certo per paragonarsi a Mozart, ma perché aveva colto il mo-
mento storico: un gruppo di persone talentuose al posto giusto
e nel momento giusto.
Si poneva il problema di non cadere nella “trappola operisti-
ca”. Su questo Bernstein dimostra una consapevolezza lucidis-
sima. Nel marzo di quel cruciale 1956 annota nel diario: «Pro-
blema principale: procedere sulla linea sottile tra opera e
Broadway, tra realismo e poesia, balletto e “semplice ballo”,
astrazione e rappresentazione».
La soluzione è un eclettismo stilistico che Bernstein sa tene-
re sotto controllo, in cui convergono il jazz, la musica colta eu-
ropea, le amate danze latino americane e i sottili riferimenti alla
tradizione ebraica.
Il jazz è presente a vari livelli: nel fraseggio di tanti temi, nel-
la combinazione di sax alto e chitarra elettrica, chiaramente
mutuata dai dischi di Lee Konitz, un sassofonista che Bernstein
seguiva con grande attenzione. O si pensi a certi esplosivi pas-
saggi per ottoni, ricalcati sulla scrittura per big band. Soprattut-
to, dal jazz viene l’intervallo unificatore dell’intero musical: la
quinta diminuita, o trìtono. Si tratta dell’intervallo dissonante per
definizione, difficile da cantare (nella musica vocale del Me-
dioevo era temuto come “diabolus in musica”). Nel dopoguerra
quell’intervallo era diventato il marchio stilistico del bebop, il ri-
voluzionario jazz di Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell,
che aveva fatto piazza pulita dei balli swing per big band per
trasformare il jazz in musica d’arte, d’ascolto consapevole.
Le frasi di questi audaci musicisti spesso cadevano su quel-
l’intervallo dissonante, buttato lì, in evidenza: un gesto audace,
provocatorio, di spigolosa modernità. In West Side Story il trito-
no bebop è ubiquo: nella frase d’apertura dei Jets, nell’aria Ma-
ria, in Cool. All’inizio lo stesso Bernstein non se ne era reso
conto. La genesi di un musical è troppo caotica perché ci si
possa permettere di lavorare su idee unificanti. Solo in una fase
avanzata si accorse che quei due suoni del tritono erano ovun-
que; e da quel momento ne aggiunse altri ancora, fino alle ulti-
me, drammatiche battute dello spettacolo.
Quanto alla tradizione europea, la si coglie bene nei continui
riferimenti a Stravinskij, con quei ritmi asimmetrici, reiterati in
disposizioni sghembe. E poi c’è Beethoven, citato esplicitamen-
te in Cool, come vedremo. E ancora la fuga, praticamente una
prima assoluta nel musical; e poi certi procedimenti di sovrap-
posizione di tonalità, ormai parte della tradizione neoclassica.
La tradizione ebraica, per quanto meno presente che in altre
opere di Bernstein, affiora in certe oscillazioni tra maggiore e
minore, ma soprattutto da un segnale, quell’alto richiamo che
apre lo spettacolo e permea tutta la prima scena. Si tratta del
cosiddetto motivo dello shofar, il corno della musica ebraica,
utilizzato in varie funzioni rituali ma anche sul campo di batta-
glia.
Il colore latino americano si impone, insieme al jazz, come
l’altra grande impronta stilistica, ovviamente associata ai porto-
ricani Sharks. Bernstein nutriva una passione speciale per la
musica del Centro e Sud America, a cui si era avvicinato stu-
diando i lavori di Aaron Copland. In West Side Story la scrittura
non è sempre filologica (lo huapango di America è messicano,
il mambo era di origine cubana, anche se ormai diffuso in tuto il
mondo), ma la soccorre quell’alternanza tra ritmi ternari e bina-
ri, di origine africana bantu, che in fondo permea tutti le danze
del continente sudamericano.
Questo eclettismo stilistico sta insieme grazie a un collante:
il jazz. Ma non tanto e non solo come stile a cui attenersi filolo-
gicamente, quanto come « una volontà estetica d’ibridazione
nella quale il jazz fornisce una “pronuncia”, una cadenza ver-
nacolare e inconfondibilmente americana a un idioma che at-
tinge contemporaneamente alla tradizione europea come a
quella personale (la tradizione ebraica) dell’autore» (Gianni M.
Gualberto).
Infine la danza, che riveste un ruolo cruciale nella concezio-
ne di West Side Story. Fin dall’inizio Robbins, Laurents e Bern-
stein puntavano a creare uno spettacolo in cui i numeri di ballo
non fossero - come tradizionalmente nel musical - un momento
spettacolare, magari travolgente ma estraneo alla trama. Il loro
obbiettivo era trasformare la danza in drammaturgia. In questo
senso West Side Story non è solo un musical e non è del tutto
un balletto. Gli autori avevano ben presente l’esempio di On
Your Toes, di Richard Rodgers e Lorenz Hart (1936), il cui nu-
mero Slaughter on Tenth Avenue, con la coreografia di George
Balanchine, aveva segnato il pionieristico inserimento di un bal-
letto drammatizzato all’interno della storia (se ne può apprezza-
re una bella ricostruzione cinematografica nel film On Your
Toes, di Ray Enright, 1939).
In West Side Story si va oltre. Tutta la scena iniziale, con l’ar-
rivo dei Jets che schioccano delle dita; la sequenza del ballo in
cui si incontrano Tony e Maria; o ancora lo straordinario Cool,
la scena dello scherno, sono solo alcuni dei momenti in cui l’in-
tegrazione tra personaggi, trama e danza raggiunge una perfe-
zione senza precedenti.
Nasce davvero una nuova forma di teatro musicale. Per dirla
ancora con le parole di Gianni Gualberto, «West Side Story è il
Fidelio americano, è Shakespeare riletto attraverso Tocqueville,
è l’America alla spasmodica ricerca del sublime, è il dramma
giocoso nel Nuovo Mondo, incrocio vertiginoso tra dramma e
balletto, tra opera e teatro musicale, tra accademia e cultura
popolare, fra tragedia shakespeariana e commedia musicale,
tra Broadway e le periferie di New York».
Breve guida all’ascolto
Atto I
Il prologo
L’inizio del musical rimase a lungo uno punti più controversi
della composizione. Bernstein scrisse tre pezzi, due li buttò via
e riscrivendo il terzo giunse alla versione definitiva. Ma le pri-
missime battute rimangono ancora incerte: la partitura per or-
chestra inizia con gli accordi “saltellanti”; ma sull’autografo, sul-
lo spartito per canto e pianoforte e nella registrazione del cast
originale gli accordi sono preceduti da un richiamo di tre note,
che appare anche in seguito. E’ un segnale ispirato allo shofar,
il corno rituale ebraico, utilizzato soprattutto in contesti bellici,
come nel famoso episodio delle mura di Gerico. Insomma, il
musical inizia sotto il segno della guerra.
Gli accordi “saltellanti” sono aggregati sulla scala blues; la
frase successiva, per sax alto e vibrafono, esce dritta dal cool
jazz e finisce su un tritono: puro jazz modernista. Ma il ritmo
dello sviluppo deriva chiaramente da Stravinskij. Lo schiocco
delle dita dei Jets, l’accumularsi in crescendo dei motivi e, a
teatro, la coreografia di Jerome Robbins, rendono tutto l’episo-
dio indimenticabile.
Nella versione cinematografica questa scena è preceduta da
una lunga ouverture di tipo operistico che riassume i temi prin-
cipali del musical, sulla grafica di Manhattan creata da Saul
Bass.

La canzone dei Jets


Il materiale del Prologo è alla base di questa sezione, che
funziona come una prosecuzione vocale dell’apertura strumen-
tale. Una parte del materiale tornerà nella sezione Blues della
scena del ballo.

Something’s Coming
Questa fu l’ultima canzone ad essere stata composta, circa
due settimane prima del debutto a Washington, in mezzo a
molti problemi di orchestrazione. Mancava qualcosa che intro-
ducesse Tony in modo adeguato: la soluzione fu questo inno di
gioia e speranza, una canzone spedita, in tempo 2/4, secondo
le convenzioni del musical nella presentazione dei personaggi.
Il paroliere Stephen Sondheim, che è anche compositore, buttò
lì l’idea melodica del ritornello. Essendo l’ultimo pezzo ad esse-
re composto, Bernstein lo ha volutamente infarcito di intervalli
di tritono, e l’ha anche cosparso di chiari riferimenti a Maria.

Scena del ballo


Si inizia con un Blues, in puro stile big band swing, sui due
accordi dei Jets; segue da una classica Promenade che con-
duce al formidabile Mambo, lanciato da una selva di percussio-
ni, su cui entrano finalmente gli Sharks. Il Mambo è attraversa-
to da un gesto melodico bebop, imparentato con il successivo A
Boy Like That. Nel successivo, delicato Cha-Cha oggi sentiamo
subito il riferimento a Maria, ma i primi ascoltatori dovettero go-
dersi la graziosa melodia senza cogliere l’anticipazione. Isolati
nella bolgia silenziata del ballo, Tony e Maria si incontrano, nel-
l’aria satura del motivo di Maria. Un altro accenno alla Prome-
nade finisce sull’ultimo episodio, Jump. Più che una danza,
sembra un pezzo del sestetto bebop diretto da Benny Good-
man nel dopoguerra.

Maria
Dopo tante allusioni e anticipazioni ecco finalmente il tema di
Maria, caratterizzato da due gesti potenti: il tritono iniziale, e
l’alternanza di maggiore e minore sui versi di Sondheim, “and
suddenly that name/Will never be the same” (maggiore su
“suddenly”, minore su “never”). Dio solito l’effetto è blues, ma
qui l’oscillazione discende dalla musica ebraica. Lo studioso
Jack Gottlieb ha anche rilevato che quando più avanti Tony
chiama continuamente il nome “Maria”, il profilo melodico coin-
cide con la benedizione della Torah. Forse Bernstein si è ricor-
dato di allusioni simili presenti in Porgy and Bess.

Scena del balcone


Questo duetto subì svariate revisioni e ripensamenti, nel
corso dei quali furono scartate ben due canzoni: una di queste
era Somewhere, che verrà spostata nel secondo atto. Dopo
tanti ripensamenti, Tonight fu ideata piuttosto tardi: una melodia
complicata, piena di saliscendi, continuamente modulante, ma
che in questa ambientazione notturna irradia una esaltata, in-
cantevole innocenza. Vista la genesi del pezzo, non è una caso
che qui e lì si colga qualche anticipazione di Somewhere.

America
Una delle pagine più celebri del musical è in realtà un felice
ripescaggio. Nel 1941 Bernstein aveva lasciato incompiuto un
balletto, Couch Town, mai andato in scena. Tra gli abbozzi
c’era un brano in tempo di huapango, una danza messicana,
che finì in un cassetto. Il compositore lo recuperò per West
Side Story: per introdurlo scrisse un breve seis, una danza por-
toricana, a cui poi incollò lo huapango stilato sedici anni prima.
Nel musical il battibecco sui pro e contro dell’essere immi-
grati avviene tra le ragazze, nel film di Robbins e Wise invece
oppone uomini e donne.

Cool
E’ forse la pagina più complessa e sperimentale dell’intero
musical, con un’ampia parte centrale tutta danzata. Il motivo
iniziale si basa su un’idea squisitamente jazz, tutta di tritoni,
che sarebbe potuta uscire dalla penna di Duke Ellington.
Quando attacca la sezione danzata, ecco qualcosa senza pre-
cedenti nel musical: una fuga. Il soggetto prende spunto dalla
Grosse Fuge di Beethoven, a cui risponde un controsoggetto
bebop, dalla strumentazione affine ai dischi di Lee Konitz o
George Russell (chitarra elettrica, sax alto, vibrafono, pianofor-
te). Come se questa audace accostamento non fosse abba-
stanza, lo sviluppo prevede il ricorso a tutti e dodici i suoni della
scala cromatica: non è dodecafonia, ma atonalità si. Gli ottoni
da big band jazz conducono al climax (nell’autografo Bernstein
usa proprio il termine idiomatico “tutti sock”).
La fuga era una novità assoluta a Broadway. Ma la fusione di
contrappunto e linguaggio jazz era all’ordine del giorno nel-
l’ambiente musicale, e Bernstein era di sicuro al corrente degli
eccellenti lavori di Pete Rugolo, John Lewis e Jimmy Giuffre.
Cool porta sul palcoscenico quella tensione sperimentale inne-
standola sul fondamento beethoveniano.

One Hand, One Heart (Scena del matrimonio)


Come abbiamo visto, West Side Story fu concepito mentre
Bernstein stava lavorando all’opera Candide. Non sorprende
allora che ci fu più di un travaso. Questo duetto fu rescisso dal-
l’opera e trapiantato nel musical, prima nella scena del balcone,
dove non funzionava, infine nella scena del matrimonio. Per
giunta Sondheim dovette insistere con Bermstein perché modi-
ficasse il ritmo originale per farci entrare il nuovo testo.
Questa pagina non conquistò mai lo staff del teatro. Durante
le repliche divenne l’aria della sigaretta: non appena iniziava,
due o tre persone della produzione uscivano a fumare.

Tonight (Assieme)
Una delle pagine più articolate e complesse, e sicuramente
la più operistica della partitura. Nata come un Quintetto, dopo
le anteprime abbracciò un ensemble vocale più ampio, con ar-
monie ardite, sviluppo di motivi, sovrapposizione di ruoli, con-
trappunto delle voci. La rapidità di cambiamenti emotivi evoca il
montaggio cinematografico, ma la scrittura musicale sembra
piuttosto guardare a Giuseppe Verdi, ad esempio quello che in
Rigoletto sperimenta in simultanea diversi piani sonori e dram-
maturgici. Però, come scrive Nigel Simeone, «non si ha mai la
sensazione che Bernstein cada nella “trappola operistica”: egli
invece ha creato la reinterpretazione alla Broadway di un mo-
dello che calzava alla perfezione in questo momento critico del
dramma».

La rissa
Un episodio strumentale di straordinaria potenza che raccon-
ta lo scontro tra Jets e Sharks, con echi del Prologo e fitta di
continui richiami dello shofar: il materiale più adatto per questa
vera e propria scena di guerriglia tribale, che chiude l’atto sim-
metricamente all’apertura.

Atto II

I Feel Pretty
Cosa c’entra in questa storia una portoricana che canta un
valzer? Niente, in effetti. Però l’obiezione dei collaboratori si è
dovuta arrendere davanti al gradimento del pubblico. In effetti
quest’aria, in puro stile Oscar Hammerstein, funziona come una
sorta di intermezzo che alleggerisce la tensione con un tocco di
umorismo. In seguito Stephen Sondheim ha fatto ammenda del
testo: a suo dire versi come “It’s alarming how charming I feel”
suonano ben poco credibili in bocca a una popolana immigrata.

Scena del balletto


Nei musical di Broadway era consuetudine presentare una
seconda scena di ballo nel secondo atto. Come in Carousel di
Rodgers e Hammerstein, si tratta di una sequenza sognata, in
cui si susseguono emozioni diverse: la fuga, l’utopia di un
mondo senza violenza, il ritorno alla realtà, la paura. Ma ci
sono due novità: in mezzo al ballo è incastonata una canzone,
Somewhere, e la voce angelica che la canta giunge dal nulla:
incarna la speranza dei due giovani protagonisti.

Gee, Officer Krupke


E’ la scena di sberleffi giovanili verso il poliziotto Krupke,
l’autorità che pretende di tenere sotto controllo le gang. Sond-
heim, scherzosamente, non risparmia neanche un cliché della
sociologia e della psicoanalisi per giustificare perché i ragazzi
delinquono. Bernstein ci ricama una tipica scena da vaudeville,
un robusto pezzo di teatro comico e scanzonato basato su del
materiale “avanzato” dal Candide.
Sondheim pensava che questo numero fosse nel posto sba-
gliato: per lui doveva andare nel primo atto al posto di Cool.
Laurents invece era convinto che il secondo atto avesse biso-
gno di una scena che alleviasse la tensione e riuscì a imporsi.
Ma nella versione cinematografica l’ordine è inverso, quello de-
siderato da Sondheim.

A Boy Like That/I Have a Love


Anita mette in guardia Maria dallo stare dietro a “a boy like
that”, un ragazzo che gli ha ucciso il fratello. E’ una pagina
cupa (sono richiesti tre clarinetti bassi), violenta, in cui si con-
frontano i ritmi spezzati di Anita e il registro più lirico di Maria.
Ma mano a mano che il sentimento di Maria si impone, gli in-
tervalli della nuova I Have a Love si ampliano, finché l’amica
capitola e canta con lei.

Scena dello scherno


Uno dei momenti più traumatici dello spettacolo, con al cen-
tro il tentativo di violenza di gruppo su Anita. Bernstein attinge
ancora al materiale proveniente dal balletto incompiuto Couch
Town. All’inizio il Mambo risuona attraverso un jukebox; l’orche-
stra quindi lo sviluppa con inaudita asprezza. Dalle prime battu-
te della parte orchestrale emerge un omaggio esplicito a com-
positori cubani come Alejandro Garcia Caturla e Amedeo Rol-
dán.

Finale
Anche se tra mille discussioni, nessuno volle mai retrocede-
re dall’inevitabile finale tragico. Diversamente da Shakespeare,
qui muore solo Romeo, così che la sopravvissuta Giulietta te-
stimoni per tutti. Tony è agonizzante per terra, Maria è vicino a
lui: il coro canta Somewhere, nell’aria si odono frammenti di I
Have a Love. Infine Somewhere si trasforma in una corteo fu-
nebre: e mentre si afferma la luminosa tonalità di Do maggiore,
il tritono dissonante fa diesis risuona nel basso, quietamente
minaccioso. Il monito finale contro la violenza.

Stefano Zenni

Per saperne di più

Da ascoltare:
Esistono due importanti versioni discografiche di West Side
Story: quella del cast originale diretta da Max Goberman (Co-
lumbia) il il 29 settembre 1957 (tre giorni dopo la prima a
Broadway) e quella diretta dallo stesso Leonard Bernstein nel
1984 con un blasonato cast vocale (Deutsche Gramophon).
Non c’è partita: la prima è largamente superiore alla seconda,
che è purtroppo priva dell’energia tagliente dell’originale. E’ sta-
to messo in commercio anche il dvd con il dietro le quinte delle
sedute del 1984.
Da leggere:
La migliore guida è Nigel Simeone, Leonard Bernstein: West
Side Story, Ashgate, London 2009
Su Bernstein e il jazz si veda l’eccellente saggio di Gianni
Morelenbaum Gualberto, «Dossier Bernstein», Musica Jazz,
marzo 2016 (disponibile anche su http://www.musicajazz.it/
leonard-bernstein-west-side-story/)
La tesi di dottorato di Bernstein si trova (purtroppo mal
tradotta), in Leonard Bernstein, Scoperte, il Saggiatore, Mila-
no 2018.

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