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Il Sessantotto della storia medievale

Titolo Rivista: HISTORIA MAGISTRA 


Autori/Curatori: Antonio Brusa 
Anno di pubblicazione:  2011 Fascicolo: 5 Lingua: Italiano 
Numero pagine:  12 P. 27-38 Dimensione file:  308 KB
DOI:  10.3280/HM2011-005004

Il Sessantotto nella storia medievale

di Antonio Brusa

1. La storia, al tempo delle riforme

“Abbiamo cancellato il Sessantotto”, esclamò il ministro Gelmini, guardando il tabellone della Camera, che
sanciva l’approvazione del suo progetto di riforma universitaria, più o meno alla vigilia del Natale del 2010.
Quella votazione era, per il governo, una tappa fondamentale di un itinerario frenetico, di direttive, leggi e
interventi sui media, miranti a trasformare radicalmente Scuola e Università, inaugurato da un articolo del
ministro, apparso sul “Corriere della Sera”, col titolo, appunto: Quarant’anni da cancellare. “Cancellare il
Sessantotto” sembra il leit motiv di questa stagione di cambiamenti. Quel momento storico è considerato
dall’Amministrazione corrente sia come l’origine del processo di disgregazione e svalorazione della scuola,
sia come un referente ideale negativo, un’”immagine del male”, con la quale confrontarsi per disegnare in
positivo il sistema formativo dell’Italia del XXI secolo. All’interno di questo contesto mi sembrano vadano
collocate le Indicazioni per l’insegnamento per le scuole secondarie di secondo grado, e – nel nostro caso
particolare – le riflessioni odierne sull’insegnamento della storia medievale.

L’immagine negativa è quella della disorganizzazione, della mancanza di metodo e di disciplina, dell’assenza
di serietà negli studi, prodotta da una scuola che punta alla socializzazione, più che all’apprendimento e da
una provvisorietà dei contenuti di studio, mai certi e il cui apprendimento non è certificabile. La realtà
negativa è costituita, in parallelo, da un insegnamento al quale non si accede per merito e per concorsi, da
una carriera egualitaria e priva di incentivi a migliorare, da un numero di docenti esagerato, da curricoli
troppo lunghi e ricchi. Di qui le due parole d’ordine: sfoltire i ranghi da una parte, essenzializzare i curricoli,
dall’altra. Se in meno di due anni l’amministrazione è riuscita a realizzare buona parte di questo progetto,
lo si deve non soltanto, com’è ovvio, alla maggioranza schiacciante della quale ha goduto; ma, occorre
riconoscerlo, anche ad un consenso diffuso (più o meno velato) che questo progetto ha riscosso, sia presso
le forze di opposizione, come si è visto in Parlamento, sia presso larghi strati della società,
indipendentemente dal loro credo politico. Forse qui c’è la chiave di un’opposizione sociale (e scolastico-
universitaria) inefficace: fatto questo sicuramente nuovo, se si pensa ai decenni passati, durante i quali
qualsiasi ipotesi di cambiamento ha dato luogo a vibranti – e per lungo tempo temute - proteste o degli
studenti, o del corpo docente.

Quale che sia il consenso sulle premesse politico-culturali della strategia governativa, la sua ricaduta sulla
storia è pesante. Per valutarla appieno, si calcoli che, prima della Moratti, al comparto storia+educazione
civica si potevano attribuire circa 780 ore, nel cosiddetto curricolo verticale, dalla terza elementare fino alla
classe terminale di un istituto tecnico. Ora, a queste vanno sottratte dalle 250 fino a un massimo di 500 ore.
In dettaglio: la materia è stata pressocché dimezzata nella scuola di base (ridotta di un terzo o di metà, a
seconda delle programmazioni di istituto); fusa con geografia nella secondaria superiore e, perciò, ridotta –
o riducibile - anche qui di un terzo. L’introduzione dell’educazione civile (con la denominazione
“Cittadinanza e Costituzione”) all’interno del comparto orario “storia-geografia”, provoca un ulteriore
restringimento. A quelle numeriche vanno sommate le calamità “qualitative”. La soppressione
dell’insegnamento modulare nelle elementari, infatti, ha causato la scomparsa dell’area storico-geografico-
sociale, che presidiava saldamente circa un terzo del curricolo e, soprattutto, ha impedito la formazione di
un docente specializzato. Ora l’insegnamento di Storia nelle elementari torna alla sua antica aleatorietà,
dipendendo dalle preferenze culturali e professionali del maestro o della maestra (notoriamente a favore di
italiano e matematica, materie per di più soggette a valutazione nazionale, e quindi “strategiche” per
l’istituto, e, forse in futuro, anche per la carriera del docente). La soppressione delle Scuole di
Specializzazione, per quanto la loro esperienza sia del tutto discutibile, ha interrotto il processo di
costruzione di un profilo lavorativo meglio bilanciato nelle sue competenze disciplinari e tecnico-
professionali. I manuali, questo strumento antichissimo di studio, cambiano pelle e sostanza. Diventano più
leggeri. Per la geografia ormai sono la metà. Si trasformano in un prodotto ibrido, in parte cartaceo, in
parte elettronico. Cambia il meccanismo delle adozioni, con la conseguenza immediata di bloccare qualsiasi
nuova produzione per i prossimi sei anni, congelando di fatto i rapporti fra ricerca e didattica. Una parte del
curricolo (il 20%) viene appaltato alle realtà locali, fondamentalmente le Regioni, il resto viene definito dal
centro.

Di fronte a questa trasformazione profonda della disciplina di insegnamento , le corporazioni storiche si


sono segnalate per il loro silenzio. Intervenute , con toni a volte da crociata – e con un’imparzialità
rigorosamente bipartisan - in occasione della difesa della libertà di scrittura del manuali, a metà degli anni
’90 (primo governo Berlusconi), e contro il progetto di riforma De Mauro, al principio di questo secolo
(governo Amato), hanno assistito quasi con apatia a questi cambiamenti. Se a bloccare le obiezioni è stata
una certa insoddisfazione per lo stato della disciplina nelle scuole italiane, questo tracollo orario avverte
tutti che il futuro difficilmente sarà migliore del passato.

2. Lo stato della disciplina

La storia, che nel passato era insegnata in tre cicli diversi (elementari, medie e superiori), ora viene
insegnata in due cicli: elementari e medie, da una parte; superiori, dall’altra. Il medioevo, dunque, che era
studiato tre volte, ora viene esaminato solo due volte, e in forme per giunta sbilanciate in modo
paradossale. Nella media, infatti, esso gode di una situazione privilegiata, avendo diritto ad un anno intero
di studi (cosa che non accadeva dai programmi del ’79, elaborati, per quanto riguarda la storia, da Girolamo
Arnaldi, il medievista che per primo ne separò lo studio in due tronconi). Nella secondaria superiore,
invece, lo studio del Medioevo ha uno statuto più risicato, perché continua ad essere diviso fra biennio e
triennio. In realtà, queste periodizzazioni non trovano molti riscontri nella pratica. I docenti delle medie,
nella loro maggioranza, sembrano riluttanti a seguire le prescrizioni governative. Iniziano, di solito, con un
recupero accelerato di preistoria e storia antica e solo dopo, prendono a insegnare il Medioevo. Ne è una
testimonianza il fatto che le case editrici accompagnano il corso del triennio della media con un volumetto
di “recupero” di storia antica. La conseguenza di questa pratica è quella di vanificare, più o meno
totalmente, il proposito del legislatore di consentire uno studio più disteso del Medioevo. Analoga sorte si
ha nella secondaria superiore. Qui, infatti, la prassi dei colleghi del biennio tende a privilegiare il mondo
antico. Al medioevo viene dunque riservata una parte residuale, del secondo anno. Le Indicazioni della
Gelmini hanno, in questo caso, preso atto di una situazione di fatto, testimoniata anche questa dalle case
editrici, i cui corsi di triennio non iniziano con il 1350 (come vorrebbe la vecchia direttiva ministeriale), ma
prendono le mosse dall’XI secolo. La nuova periodizzazione legalizza, per così dire, la scelta dei colleghi del
triennio. All’interno del biennio, poi, il testo ministeriale attuale lascia liberi i docenti di scegliere la cesura
fra primo e secondo anno. Stranamente (come testimoniano la maggior parte delle edizioni correnti), i
docenti hanno continuato a seguire la vecchia scansione, come se nulla fosse accaduto. Quindi –
esattamente come accadeva in passato - il primo anno termina con Augusto; e il secondo comprende lo
studio dell’Impero, del Tardo Antico e dell’Alto Medioevo. Restano del tutto aperte due questioni, delle
quali, al momento, non possiamo dire nulla, ma che incideranno, in futuro, nella determinazione effettiva
dei tempi di studio. La prima è quella dell’integrazione fra lo studio di questi momenti storici con quello
della geografia e dell’educazione civile (anche dalla sua soluzione dipende la quantità di tempo che viene
assegnata alla storia). La seconda è quella dell’incidenza delle politiche regionali nella definizione di quel
20% di storia medievale “locale”.

3. Il senso della storia, secondo il governo

Queste novità non appartengono tutte alla Gelmini. La sua azione politica si inserisce nel quadro disegnato
nel 2003 dal ministro Letizia Moratti, alla quale si deve sia la divisione del curricolo verticale in due soli cicli;
sia lo scheletro del programma di storia, poi messo a punto nel 2010; sia il modello ideologico di una scuola
“leggera”, che fornisce solo alcuni elementi culturali imprescindibili, affidando in sostanza alla società (e al
libero mercato) una larga parte della formazione dei giovani. Nella divisione dei compiti, il progetto Moratti
riservava al programma della primaria e della secondaria di primo grado la descrizioni degli aspetti formativi
di questo progetto (le competenze, i rapporti con la società, le finalità dell’insegnamento storico); mentre il
programma di secondo grado era, sulla scorta più rigorosa della tradizione liceale italiana, secco e quasi
privo di indicazioni pedagogiche. Per questo motivo, occorre essere prudenti, nella valutazione del curricolo
appena promulgato, proprio perché di esso conosciamo solo il capitolo riguardante le superiori, quello, per
l’appunto, tendenzialmente solo disciplinare. Sappiamo (mentre scrivo questo intervento) che le
commissioni sono attivamente impegnate a produrre una versione del programma per la scuola di base,
diversa da quella attualmente in vigore (promulgata dal ministro Fioroni, nel secondo governo Prodi). Al
contrario, non esiste nessun documento riguardante l’insegnamento della storia nelle superiori, prodotto
da un governo di centro sinistra in questo inizio secolo. Per capire e valutare le intenzioni governative
sull’insegnamento della storia, abbiamo – perciò - solo questa possibilità di confronto (prendo in
considerazione i documenti diventati effettivamente operativi, e riguardanti la scuola nel suo complesso):

Scuola elementare e media (o Programma Moratti (Legge del Programma Fioroni (direttiva del
primaria e secondaria di primo 2003) 2007)
grado)
Scuola superiore (o secondaria di Programma Gelmini (direttiva del Programma di Berlinguer sul
secondo grado) 2010) Novecento (direttiva del 1996)

Questo schema ci serve per mettere a fuoco alcune divergenze fondamentali. La prima si rileva dal
confronto fra i due programmi della scuola di base, e riguarda gli obiettivi ideali dell’insegnamento storico.
Il programma del centro-destra assegna, come meta finale del lavoro del professore, la costruzione di
un’identità collettiva, europea e cristiana. Considera il territorio della penisola e il suo patrimonio storico-
culturale come luogo della memoria nazionale. Disegna una società futura comunitaria, alla quale la storia
fornisca l’anima ideologica (non è affatto folkloristica l’insistenza sull’apprendimento dell’inno nazionale,
della bandiera e dei simboli e statuti regionali). Al contrario, il documento Fioroni (al quale ha contribuito
chi scrive), sottolinea le differenze fra memoria e storia; assegna alla storia funzioni cognitive e non
identitarie; mette in guardia i docenti sul sempre più insistito uso pubblico della storia. La seconda
divergenza riguarda la definizione dei contenuti di studio. Qui, concordemente, i documenti Moratti e
Gelmini suddividono la materia in due fasce: quella dei contenuti obbligatori (stabiliti per legge) e quella dei
contenuti opzionali. (va rilevato che la massa dei contenuti obbligatori tende a sottrarre spazio vitale al
lavoro personale del docente, soprattutto in ragione della diminuzione degli orari della quale abbiamo
parlato sopra). Altrettanto concordemente, invece, i documenti del centro sinistra riprendono
sostanzialmente la formulazione del 1979, che definiva i criteri dell’apprendimento storico (il tipo di storia
da studiare); fissava i parametri cronologici, anno per anno, all’interno dei quali lasciava libero il docente di
scegliere i contenuti di studio. Con delle differenze significative. Nel 1979 la ragione ideale era costituita dal
proposito di sollecitare la progettualità didattica del docente; nel 1996 si prendeva atto dalle vastità della
materia, lasciando al docente il compito di scegliere le tematiche di studio. Infine, la motivazione del 2007
– discussa con i rappresentanti delle associazioni dei medievisti, modernisti e contemporaneisti (per
questioni di tempo non fu possibile incontrare i colleghi antichisti) – derivò dalla riflessione che il compito
di un programma, in una scuola che per Costituzione ormai è autonoma, non può che essere quello di
stabilire i criteri che garantiscano un apprendimento corretto.

Di parere opposto, come abbiamo visto, sono gli autori del documento Gelmini, che argomentano così la
loro scelta: “Intorno ai contenuti imprescindibili il legislatore individua il patrimonio culturale condiviso, il
fondamento comune del sapere che la scuola ha il compito di trasmettere alle nuove generazioni, affinché
lo possano padroneggiare e reinterpretare alla luce delle sfide sempre nuove lanciate dalla
contemporaneità”. Questo ragionamento parte dal presupposto che un “patrimonio culturale condiviso”
possa essere definito per legge, e per giunta, da una sola parte politica. Il periodo di alternanze di governo
che stiamo vivendo, invece, mette in risalto i rischi di questa premessa. Non appare, in realtà, per nulla
condivisibile il fatto che “il feudalesimo” o “l’Islàm” entrino o escano dalle nostre scuole a seconda di chi
vince le elezioni. Al contrario, quindi, di quello che afferma il testo ministeriale, la determinazione della
trama fondamentale degli studi – il canone – dovrebbe spettare agli addetti ai lavori. Essa nasce, vive e si
trasforma all’interno al dibattito storico-didattico dell’Accademia e della Scuola.

4. Un medioevo condiviso

Anche il Medioevo, come tante cose di quest’Italia, si deve dividere in destra e sinistra? A prima vista, si
potrebbe rispondere affermativamente. Un medioevo di scambi; società aperte; un mondo a parte contro
un Medioevo di radici identitarie, finalizzato alla nascita dell’Europa? Un’Europa perennemente
ossessionata dall’Islàm, non a caso l’unica intrusione di una realtà non europea in entrambi i programmi del
Centro destra, contro un’Europa plurale? Una storia di popoli e di civiltà, contro una storia di territori, multi
scalare (come appare nei testi Fioroni e nelle bozze, mai diventate legge, della Commissione De Mauro)? E’
un gioco che si potrebbe tentare, magari con qualche opportunità di interessare i media, solitamente poco
attenti alle questioni scolastiche. In effetti, un contrasto del genere ha già afflitto la scuola, coinvolgendo (i
pochi) universitari che si occuparono di insegnamento della storia proprio nella stagione post-sessantottina.
Era la ben nota opposizione fra storia dall’alto e storia dal basso, che, per il Medioevo, si tradusse nella
messa a confronto fra la storia dei papi e degli imperatori e quella di Bodo il contadino. Ma, come insegna
proprio questa storia recente, è un gioco che rapidamente porta alla sclerotizzazione degli argomenti e
delle posizioni. Un autentico generatore di stereotipi, che, non fornisce nessun aiuto a chi vuol
comprendere la realtà della scuola.

Per di più, le Indicazioni del 2010 si prestano male a questo gioco. Esse si presentano come un innocuo
elenco di argomenti da studiare. Sembrano l’indice di un vecchio manuale. Proprio questo loro aspetto
“vintage” ci suggerisce la strada per intuirne la “filosofia”. Esse vanno confrontate con il “vero” programma
tradizionale, quello promulgato al principio degli anni ’60.

Programma 1960 Programma 2010


(il Medioevo si studia nel primo anno del triennio) (il Medioevo è diviso fra secondo anno del biennio e
primo anno del triennio)
Il Medio Evo: limiti e importanza di esso. Chiesa l’avvento del Cristianesimo; l’Europa romano-
barbarica; società ed economia nell’Europa
cattolica. Origini del monachesimo. L’Islam e
altomedioevale; la Chiesa nell’Europa
l’impero degli Arabi: la civiltà musulmana. I altomedievale; la nascita e la diffusione
Longobardi. Carlo Magno e l’Europa dei suoi dell’Islam; Impero e regni nell’altomedioevo;
tempi. L’organizzazione feudale: campagne, il particolarismo signorile e feudale.
città, castelli, abbazie e vescovati. Papato.
Il terzo e il quarto anno saranno dedicati allo
Impero. Il delinearsi d’una nuova vita dopo il
studio del processo di formazione dell’Europa
Mille e i suoi fattori. Movimenti religiosi e sette e del suo aprirsi ad una dimensione globale
ereticali. Le Crociate e lo sviluppo delle tra medioevo ed età moderna, nell’arco
relazioni tra i popoli mediterranei. Il Comune cronologico che va dall’XI secolo fino alle
italiano. Dal Comune alla Signoria. Gli albori soglie del Novecento.
Nella costruzione dei percorsi didattici non
della nuova Europa. Papato e Impero in lotta
potranno essere tralasciati i seguenti nuclei
per la supremazia politica. Il declino del Papato tematici: i diversi aspetti della rinascita dell’XI
e dell’Impero come forze politiche secolo; i poteri universali (Papato e Impero),
universalistiche. Il Rinascimento. Le invenzioni; comuni e monarchie; la Chiesa e i movimenti
le scoperte geografiche e le loro conseguenze religiosi; società ed economia nell’Europa
basso medievale; la crisi dei poteri universali
nella vita mondiale. e l’avvento delle monarchie territoriali e delle
Signorie; le scoperte geografiche e le loro
conseguenze.

Il paragone fra i due dispositivi sollecita due impressioni contrastanti. La prima è quella della immobilità.
Sembra quasi che la Commissione sia riuscita a interpretare alla lettera il proposito della Gelmini e sia
tornata effettivamente indietro nel tempo. Al di là, infatti, di alcune espressioni e di poche particolarità, la
“sequenza narrativa” dei due programmi appare identica, con il Cristianesimo, gli Arabi, Carlomagno, i
poteri universali e i Comuni, fino alle scoperte geografiche. La seconda è sorprendente. Il testo del 1960 è
ricco di rimandi e sonorità familiari agli addetti ai lavori: da Gioacchino Volpe a Cinzio Violante, il lettore
esperto vi riconosce accenni e rinvii all’intera storiografia italiana della prima metà del secolo scorso.
Nonostante la secchezza dell’elenco, è un testo vivo. Questi echi si cercheranno invano nel secondo testo,
che è un indice, e basta. Gli echi antichi si sono spenti e non se ne percepiscono di nuovi. I quarant’anni
sono stati cancellati, ma con essi, è stata abrasa una vicenda storiografica, che pure ha vissuto momenti
tumultuosi: dall’’irruzione dei temi e delle metodologie delle “Annales”, degli anni ’70, al dibattito sulla
narratività e sul linguistic turn degli anni ’80; e poi la questione delle storie “soggettive”, l’apertura del
capitolo dell’ambiente e dell’alimentazione, la scuola di Vienna e la ridiscussione del tema, centrale per il
medioevo, dell’etnogenesi, le diatribe sull’uso pubblico della storia e sulla storia nei media. Tutto questo
viene espunto, messo fuori dall’aula. Il programma dialoga con il manuale, non con la storiografia. Il sapere
condiviso, impossibile da trovare nella società italiana, viene recuperato sfogliando gli indici della
manualistica in circolazione, e producendo una sorta di “programma medio”.

5. Gli stereotipi sul Medioevo

“Il curricolo nascosto” o hidden curriculum è il nome che la letteratura internazionale da all’insieme di
pratiche e di conoscenze che soggiacciono ai curricola formali. Sono complessi conoscitivi radicati, anche
nella mentalità degli addetti ai lavori, e, perciò, difficili da estirpare. Devono la loro forza alla loro antichità,
alla diffusione sociale, alla ripetitività del gesto quotidiano. Mentre la storiografia procede, si trasforma e
produce immagini sempre nuove del passato, il curricolo nascosto tende a replicarsi, sempre uguale a se
stesso. Questa dinamica è la matrice del progressivo allontamento fra storia insegnata e ricerca storica. Per
questo, ogni tanto, occorre riscrivere i programmi e riavvicinare, per quanto è possibile, ricerca e
insegnamento. Man mano che la storiografia evolve, la cura dell’Amministrazione dovrebbe essere quella di
sollecitare i docenti a mettersi al passo delle novità. La successione di programmi, alla quale stiamo
assistendo, invece, non sembra aver molto a che vedere con queste preoccupazioni. Un programma si
riscrive, questa sembra la nuova regola, quando cambia un governo. Questa regola, di per sé opinabile,
diventa inquietante nel caso del Medioevo, perché il prodotto finale di questo allontanamento dalla ricerca,
tende a far combaciare il curricolo formale con quello nascosto. Dal punto di vista di politica scolastica, si
tratta di una manovra di successo, perché va incontro alle abitudini professionali diffuse. Dal punto di vista
della conoscenza storica, è la rinuncia alla sua guerra di sopravvivenza, quella di far scoppiare il dissidio fra i
due curricoli.

Nel curricolo nascosto, infatti, si annidano la maggior parte degli stereotipi, che la ricerca ha messo in
evidenza, a partire da una battaglia, condotta a lungo in solitario da Giuseppe Sergi, ma che, col tempo, ha
dato luogo a numerose ricerche e contributi: da quelli dell’indimenticabile Renato Bordone, sull’immagine
gotica del Medioevo, fino ai convegni dell’Irre Emilia Romagna, organizzati da Flavia Marostica, e agli studi
internazionali sugli stereotipi, gli eroi, gli aspetti mitopoietici della storia, sulle invenzioni storiche e, infine,
sull’uso pubblico della storia. Lo scopo di questa massa, ormai imponente di lavori, non è quello di mettere
alla berlina, gli “svarioni” dei manuali. Né si tratta di una ricerca erudita, volta a sottolineare con il rosso e il
blu gli errori di un testo divulgativo, di un documentario o di un discorso politico. Si tratta, invece, di capire
come si sono formate delle immagini storiche, così potenti e forti, da resistere ai cambiamenti e alle
critiche. Nei tempi più recenti, infine, si è messo in evidenza come proprio questi stereotipi costituiscano un
solido fondamento per il rinnovato uso pubblico della storia. La ricerca di Patrick J. Geary, medievista
americano, sul mito delle nazioni ne è una splendida dimostrazione, e trova come utile “specchio didattico”
il pamphlet sull’insegnamento, scritto da Giuliano Procacci, sulla memoria controversa nei manuali di storia.

Il castello medievale, con i suoi buffoni e le feste pantagrueliche, la curtis autarchica, Carlomagno che
investe i feudatari; i servi della gleba, sono gli esempi più evidenti, tratti da una ricchissima antologia
medievale. Il più celebre è certamente la “piramide feudale”, con al vertice l’imperatore (a volte in
compagnia del papa) e, a scendere, i vari gradi vassallatici, fino alla base, costituita da una schiera
tristissima di servi della gleba. Si tratta di un disegno recente, per la verità: nella manualistica non ne ho
trovato esempi antecedenti agli anni ’70. Come concetto, invece è ben stagionato. Nei manuali più antichi
veniva chiamata, di preferenza, “scala feudale” o “catena feudale”. Non è, si badi bene, un’immagine fissa,
chiusa in un determinato periodo. Essa genera, al contrario, da una parte una narrazione, dall’altra un
territorio. Secondo questo racconto, sulla scorta della rovina dei regni romano-germanici, Carlomagno
costruisce un impero, nell’unica forma che gli è possibile, utilizzando i legami personali. Quindi è lui
l’inventore della piramide. Sotto il suo impulso, l’Europa ritrova una sua unità; effimera, come sappiamo,
perché il virus che la mina è costituito proprio dai feudatari, la cui natura porta a frantumarla. La dinamica
che si produce, fra impero e feudi, genera la storia successiva, nella quale le dinastie imperiali sassoni,
saliche, sveve, tentano sempre più inutilmente di ricostituire il loro potere universale. A questa
ricostruzione temporale corrisponde una visione territoriale, di un impero (unità massima),
progressivamente frazionata in unità sempre più piccole (feudi maggiori e minori).

Potremmo chiamarla, questa, la “Grande Narrazione” del Medioevo. Capace di metabolizzare ogni
innovazione storica: storie dal basso, della mentalità, dell’alimentazione, ecc, le trasforma in “schede”,
“finestre”, “approfondimenti”, “diorami”, inseriti nel testo per corredarla e vivacizzarla. Ma è questa
narrazione che detta i tempi dell’insegnamento, le appoggiature sulle quali l’insegnante tende a costruire la
sua programmazione. Le riconosciamo nella sequenza dei contenuti imprescindibili esposti sopra, fra i quali,
Giuseppe Sergi ha segnalato (autentico indizio alla Ginzburg!) il “particolarismo signorile e feudale”. Non
possiamo prescindere dal fatto che il valore conoscitivo di questa narrazione è quasi nullo. Ne dovremmo
immaginare un’altra e lottare per la sua affermazione. Una nuova narrazione, nella quale i poteri si formano
dal basso e, per aggregazione e legittimazioni successive, generano signorie, contee, regni territoriali e
perché no? Anche imperi. Il feudalesimo, con le sue gerarchie sempre più codificate, è un fatto tardo, che
implica la formazione di un forte e funzionante potere centrale: non è la sua antitesi.

Questa Grande Narrazione ha un buco nero: il periodo che va dalla caduta dell’Impero romano alla rinascita
imperiale di Carlomagno. Esso è visto come il tempo della decadenza e dei regni romano germanici. Una
sorta di terra di nessuno, sempre meno praticata nelle scuole. E, in effetti, viene coperta (nella manualistica
e nell’insegnamento) dai capitoli su Bisanzio, sugli Arabi e, per quanto riguarda l’Italia, dai Longobardi e
dalla cosiddetta formazione dello Stato della Chiesa (altro stereotipo inamovibile). La storiografia degli
ultimi decenni, invece, lo considera così importante e definito, da aver creato una nuova periodizzazione, “il
tardo antico”. Ed è questo periodo, grosso modo, dal 400 all’800, che Chris Wickham ha preso in
considerazione per la sua opera straordinaria, nella quale, mette a confronto dieci diverse società (dalla
Danimarca alla Siria, passando per Italia, Francia e Germania). E’ in questo periodo, infine, che si gioca la
grande partita dell’etnogenesi, imposta alla discussione mondiale dalle ricerche della cosiddetta Scuola di
Vienna. Secondo questi studiosi, fra i quali Walter Pohl è sicuramente la figura più rappresentativa, noi
dobbiamo cambiare il nostro modo di guardare il grande incontro fra romani e germani. Nella visione
tradizionale, questo è visto come una fusione fra popoli, ciascuno con la sua cultura e il suo bagaglio etnico.
E questa immaginazione antica è fondamento di una considerazione del presente, che tutti considerano
scontata: sulla sua scorta, infatti, noi siamo convinti che le nostre origini siano proprio lì, dove si
incontrarono popoli germanici e civiltà latino-cristiana. La ricostruzione proposta attualmente, invece,
smonta il concetto stesso di “popolo”. Ce ne fa vedere la sua natura provvisoria, politica e volontaria. Non
brillavano per identità etnica o culturale, i Longobardi o gli Ostrogoti. Allora, come oggi, queste sono il
frutto di precise azioni politiche. Questa storiografia, dunque, tocca uno dei punti nevralgici dei rapporti fra
storia e politica ed è vitale (a mio modo di vedere) richiamarne le conclusioni, proprio mentre si cede alle
Regioni il diritto di legiferare su di una parte del curricolo.

Ripercorrendo all’indietro la storia degli ultimi quarant’anni, con lo sguardo al rapporto fra gli storici e la
scuola, si nota facilmente come, dopo quelle antiche fiammate, magari velleitarie, di partecipazione, la
vicende successive abbiano marcato il progressivo distacco della ricerca dalla scuola. Sempre di più la
ricerca si è chiusa nei suoi problemi, fino all’afasia che, come abbiamo notato sopra, ha accompagnato la
promulgazione dei nuovi programmi delle superiori. Prima ancora del ministro, dunque, è la corporazione
degli storici che sembra aver cancellato il ricordo di quell’impegno. Forse, oggi, è il caso di riprendere un
dialogo interrotto.

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