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COLLANA
3
Fabio Ferrucci
Anima Edizioni
4
© Anima Edizioni. Milano, 2005.
© Fabio Ferrucci, 2005.
ANIMA s.r.l.
Gall. Unione, 1 - 20122 Milano
tel. 02 72080619 fax 02 80581864
e-mail: info@animaedizioni.it
www.animaedizioni.it
I
novembre 2005
edizione
I
luglio 2006
ristampa
II
luglio 2008
ristampa
III
gennaio 2010
ristampa
III
marzo 2011
ristampa
Tipografia ITALGRAFICA
Via Verbano, 146
5
28100 Novara (NO)
6
INDICE
7
1.4.7. Codifica e de-codifica
1.5. Altri contributi
1.5.1. I trattati sulla memoria
1.5.2. Ars Combinatoria
1.5.3. in attesa di una sintesi
Note
2. I Presupposti dei sistemi bruniani
2.1. Premessa
2.2. Un alfabeto per (quasi) tutte le lingue
2.3. Conseguenze del principio fonetico
2.4. Fonetica e diplomazia
2.5. Strutturazione dei loci
2.6. Verifica dell’efficienza dei loci
Note
3. Memoria Vocum – Le immagini della prima pratica
3.1. Introduzione
3.2. Allestimento del sistema
3.3. Il principio della associazione arbitraria
3.4. Le immagini degli agentes
3.5. Il ruolo delle appropriatae operationes
3.6. L’aggiunta degli instrumenta
3.7. Le ruote
3.8. Funzionamento del sistema combinatorio
3.8.1. Sillabe bielementali
3.8.2. Sillabe trielementali e oltre: trucchi grammaticali
3.8.3. E le altre lingue?
3.9. Sviluppi
3.9.1. Quando i loci non bastano
3.9.2. … Aesopum et Cimbrum subornari
3.9.3. La forza dell’abitudine
Note
4. Memoria Terminorum Le immagini della seconda pratica
4.1. Introduzione
4.2. Le ipotesi relative al funzionamento della seconda pratica
8
4.2.1. Felice Tocco
4.2.2. Frances Amelia Yates
4.2.3. Rita Sturlese
4.2.4. Ubaldo Nicola
4.2.5. Manuela Maddamma
4.3. Secunda praxis: una alternativa possibile
4.4. Ri-allestimento del sistema
4.4.1. La prima praxis come punto di partenza
4.4.2. I vexilla e la dislocazione degli attori
4.4.3. Le ruote della secunda praxis
4.5. Strutturazione della memoria verborum
4.5.1. Premessa
4.5.2. Le immagini degli agentes-inventores e le loro
actiones
4.5.3. Gli insigna
4.5.4. Gli adstantes
4.5.5. Le circumstantia
4.5.6. Possibilità alternative
4.6. Funzionamento del sistema combinatorio
4.6.1. Memorizzazione “verticale”
4.6.2. Garanzie per la codifica e la de-codifica
4.6.3. Sillabe bielementali aperte
4.6.4. Sillabe bielementali chiuse
4.6.5. Determinazioni accessorie
4.6.6. Un problema pratico
4.7. La secunda praxis e la memoria rerum
Note
5. Conclusioni
5.1. Vantaggi e limiti delle pratiche bruniane
5.2. Bruno e le mnemotecniche moderne
5.2.1. Dall’arte alla tecnica
5.2.2. Trasformazioni e scambi di ruolo
5.2.3. La parte per il tutto
5.2.4. Il bagaglio culturale dell’apprendista
9
5.2.5. Loci “atomi”
5.2.6. Esigenza sistematica e libertà
Note
LA TRADUZIONE DELLA ARS MEMORIAE DEL DE UMBRIS IDEARUM
Arte della memoria di Giordano Bruno
Parte Prima
Parte Seconda
I subiecta
Gli adiecta
Lo strumento
Parte Terza
Prima pratica che riguarda la memoria dei suoni
Stabilità delle ruote
il movimento delle ruote
Seconda pratica che riguarda i termini semplici per mostare
un qualsiasi raggruppamento di diverse sillabe di parole
Adiecta relazionabili al collo
Oggetti adattabili ai piedi
Descrizione delle Figure dei Segni Zodiacali, tratte da Teucro
Babilonese, che possono essere facilmente utilizzabili per la
presente arte
Ariete
Toro
Gemelli
Cancro
Leone
Vergine
Bilancia
Scorpione
Sagittario
Capricorno
Acquario
Pesci
immagini dei pianeti, tratte dai filosofi egiziani e persiani,
10
utilizzabili sia per i luoghi che per i subiecta
Sette immagini di Saturno
Sette immagini di Giove
Sette immagini di Marte
Sette immagini del Sole
Sette immagini di Venere
Sette immagini di Mercurio
Sette immagini della Luna
Immagine del Drago della Luna
Ventotto immagini delle posizioni della Luna tratte ad uso di
questa arte
Grande utilità delle immagini precedenti per la memoria
delle cose
Riguardo alle sillabe in cui la vocale precede la
consonante
Riguardo alle lettere liquide e alle terminali poste tra le
sillabe o al termine delle stesse
Le due grandi invenzioni di questa arte, ed elogio della
stessa
La pratica delle cose rappresentabili con termini incomplessi
La pratica delle cose rappresentabili con termini complessi
Note
Bibliografia ragionata
Artes memoriae o testi con riferimento all’ars memoriae
Testi di Giordano Bruno
Altri testi
Saggistica sulle artes memoriae
Saggistica su Giordano Bruno
Altra saggistica
Mnemotecniche moderne
Figure
11
RINGRAZIAMENTI
Fabio Ferrucci
12
PRESENTAZIONE
di Guido del Giudice*
13
Quelle immagini che ognuno di noi può formarsi
autonomamente, una volta vivificate dalle emozioni, ci
connettono automaticamente con la sfera delle idee di cui siamo
ombra, umbra profunda, ma a cui fatalmente, come una
fiamma, tendiamo e da cui dipendiamo in un ciclico alternarsi di
ascenso e descenso, dove gli spiriti pervengono alla
contemplazione del divino principio e le anime si incarnano,
mutando e assumendo il controllo della materia e delle forme.
Astri, numeri, figure, rinviano tutti alle forze elementari della
natura, operanti in una materia che ha la stessa dignità dello
spirito. Bruno avverte tutto ciò e cerca di esprimerlo utilizzando
con disinvoltura tutte le arti, gli strumenti che il suo tempo
riesce ad offrirgli: la magia naturale, l’astrologia, la matematica
e, appunto, l’arte della memoria. Egli non si accontenta però
degli artifici lulliani o degli altri mnemonisti precedenti, ma
elabora, sperimenta, trasforma. L’uso delle immagini assume
per lui un significato che va al di là della semplice correlazione
mnemonica e, a partire dalle cosiddette “opere
mnemotecniche”, esso si evolverà e accompagnerà tutto il suo
pensiero successivo. Dalle allegorie dello Spaccio agli emblemi
dei Furori, fino ai concetti-statue della impressionante Lampas
triginta statuarum, l’associazione parola-immagine si trasforma
da semplice tecnica di memoria a meccanismo di pensiero, che
consente di elaborare e confrontare i concetti per giungere a
nuove verità.
Lo capirà, purtroppo, anche Giovanni Mocenigo, il patrizio
veneziano che lo attirerà nella trappola mortale, consegnandolo
all’Inquisizione. Con il pretesto di voler imparare l’ars
memoriae, egli mirava in realtà ad impadronirsi, pervertendone
scopi e significati, dei segreti del vincolo e della magia naturale.
14
ha preso posto di fronte a Giordano. In quel viaggio da Napoli a
Roma ha appreso dal Maestro i segreti della memoria.
Oggi, a più di quattro secoli di distanza, grazie a questa opera
realizzata da Fabio Ferrucci, concede, come Bruno, saggi delle
sue doti non comuni, destando, come allora, ammirazione e
sconcerto e diffonde, attualizzandola, la tecnica della memoria
per immagini. Una volta associata alla lettera, al numero, alla
parola, l’immagine acquista una forza sua propria, talismanica:
da semplice artificio mnemonico si carica di contenuti
emozionali. È questa la grande intuizione che Gianni Golfera
deve a Bruno e in questo libro ci spiega come la lettura del De
umbris idearum gli abbia fornito gli elementi fondamentali per
l’elaborazione di un personale metodo di memoria (battezzato
Gigotec dalle sue iniziali), che egli diffonde quotidianamente,
attraverso corsi di insegnamento e dalle pagine del sito
www.gigotec.com. Forte della padronanza tecnica della materia,
egli ci propone una rivisitazione dinamica del De umbris, in cui
coniuga la divorante curiosità dello sperimentatore
all’ammirazione devota per il Maestro. Si tratta di un esempio
eclatante di rivitalizzazione di un testo attraverso la sua
applicazione pratica. L’effetto che ne sortisce è quello di una
illuminazione dei passi più esoterici e apparentemente
incomprensibili del testo bruniano e la suggestione dei vasti
orizzonti applicativi dei suoi insegnamenti. Il libro, partendo
dall’analisi delle fonti, ripercorre il cammino compiuto dal
Nolano e chiarisce le tecniche da lui utilizzate e sviluppate,
dimostrando come l’arte della memoria non sia uno strumento
obsoleto, ma un sistema ancora attuale e fecondo di
applicazioni, cui le sorprendenti capacità di Golfera,
restituiscono quell’utilità pratica che il tempo gli aveva
sottratto. Il suo commento presenta un fascino particolare
proprio perchè si avverte l’entusiasmo di chi quello strumento
lo utilizza quotidianamente e vuole saggiarne e svilupparne le
potenzialità. Al giorno d’oggi, mezzi come il computer
15
sembrerebbero rendere superflua questa tecnica, se essa non
celasse qualcosa di ben più importante e sostanziale. Si scopre il
velo di un’arte che va molto al di là della semplice abilità
mnemonica, arrivando a stabilire contatti e vincoli con la natura
e con l’assoluto.
In appendice al libro viene proposta la traduzione dell’Ars
memoriae (che costituisce la seconda parte, quella “pratica”, del
De umbris), realizzata da Fabio Ferrucci, in sintonia con le
intuizioni di Golfera e colpevolmente rimasta nel cassetto fino
ad oggi. Quando Gianni me la sottopose, cinque anni fa, mi si
rivelò subito superiore alle altre allora disponibili, che
risultavano, in molti punti, del tutto incomprensibili e oscure,
perchè non ne era stata capita l’applicazione pratica. Siamo
certamente disposti a sorvolare benevolmente su qualche
audacia interpretativa, in cambio della soddisfazione di poter
eseguire operativamente le istruzioni che Bruno impartì ad
Enrico III di Valois, cui il testo era dedicato. Soltanto
recentemente Nicoletta Tirinnanzi ha realizzato per l’edizione
delle Opere mnemotecniche, diretta da Michele Ciliberto, una
nuova traduzione, in cui al rigore filologico si accompagna
quella comprensione dell’utilizzo pratico dell’arte, che le era
mancata in ampi tratti di un suo precedente tentativo.
Il libro a cura di Golfera costituisce pertanto un prezioso
strumento introduttivo, indispensabile a chi voglia davvero
imparare ad utilizzare il suo metodo con la piena conoscenza
delle basi teoriche e storiche e, soprattutto, la consapevolezza di
quanto, anche in questo campo, si debba al genio straordinario
di Giordano Bruno. Al di là delle eccezionali capacità
mnemoniche di cui fa sfoggio e che deve a doti innate, coltivate
e perfezionate fin dall’infanzia con continuità e tenacia, Gianni
Golfera si rivela, dunque, un interprete bruniano valoroso e
appassionato, che ci restituisce, illuminandone la praxis, il
senso vero della straordinaria eredità del Nolano.
16
* Curatore del sito internet www.giordanobruno.info, ha dedicato a Giordano Bruno
due suggestivi saggi: WWW.Giordano Bruno (2001) e il recente La coincidenza degli
opposti (2005).
17
PREFAZIONE
18
imprenditori, studenti, vip, bambini, traumatizzati cranici,
persone disabili e persone con disturbi nell’apprendimento.
Queste esperienze mi hanno insegnato moltissimo, ho capito
che tutto ciò che desideriamo dalle nostre facoltà mentali, noi
possiamo raggiungerlo! L’intelligenza è poca cosa se
paragonata alla volontà e dopo aver visto che tutti ma proprio
tutti, se solo lo vogliono possono raggiungere con il mio sistema
dei risultati superiori ad ogni aspettativa, sono giunto alla
conclusione che anche tu, tu che leggi, meriti una qualità di vita
superiore ed io ti accompagnerò alla sua ricerca attraverso la
migliore risorsa che l’universo abbia mai generato: la tua
memoria e la tua intelligenza.
Queste due realtà inscindibili possono portarti a dei risultati
così eccellenti da superare ogni mio tentativo di descrizione.
Tutto quello che ti serve è un po’ di fiducia in te, un minimo
di volontà ed il desiderio di migliorare, a tutto il resto
provvederanno i miei insegnamenti per migliorare la memoria
attraverso una miglior attività cerebrale e neurologica; in altre
parole imparerai ad usare in modo ottimale le tue capacità e ti
sorprenderai quando ti renderai conto che gli unici confini che
abbiamo sono le nostre insicurezze.
Non mi resta che augurarti una buona lettura ed una vita
piena di successo e di ricordi meravigliosi.
Ringrazio moltissimo Fabio Ferrucci per aver contribuito alla
realizzazione della presente opera.
Fraternamente
Gianni Golfera
19
INTRODUZIONE
20
OBIETTIVI E LIMITI DELLA RICERCA
21
di informazioni e del suo “stoccaggio” stabile su supporti più o
meno permanenti, abbiamo avuto, nel nostro secolo, un
mutamento radicale dell’approccio didattico scolastico che,
all’apprendimento di dati in maniera mnemonica, ha
contrapposto la comprensione “personale” dei concetti: ad uno
scolaro oggi viene richiesto di capire, piuttosto che di ricordare
letteralmente; è più importante, ad esempio, comprendere le
cause che hanno portato alla fine dell’Impero Romano piuttosto
che memorizzare nomi e date di tutti gli ultimi imperatori.
“Ricordare a memoria non mi serve a nulla, giacché posso
trovare tutte le informazioni di cui ho bisogno su una
enciclopedia”: così diceva Albert Einstein. In questo modo
l’apprendimento mnemonico ha assunto a poco a poco una
connotazione negativa, di ripetizione pedissequa a
“pappagallo”, in contrapposizione alla rielaborazione personale
e ad una comprensione concettuale più profonda.
L’ars memoriae, dal canto suo, si è trasformata in una
tecnica, in mnemotecnica appunto, senza più la pretesa di essere
un modo di dare senso alla realtà ed interpretare il mondo, bensì
ridotta a dei pratici metodi e presentata ai corsi di formazione
dei manager d’azienda in abbinamento alle tecniche di lettura
veloce, oppure vistosamente pubblicizzata agli studenti
universitari come mezzo per sveltire e rendere più efficiente la
preparazione degli esami. Allo stesso tempo gli “artisti della
memoria” sono divenuti fenomeni da baraccone o dei campioni
di quiz televisivi, nel caso in cui – ed è la migliore delle ipotesi
– le loro facoltà derivino da arte ed esercizio, oppure sono stati
considerati dei veri e propri “casi clinici”, studiati da neuro-
psicologi e psichiatri quando invece mostrano di essere in grado
di ricordare molto, moltissimo, o addirittura tutto, come il Funes
borgesiano, senza dover ricorrere esplicitamente ad un qualche
tipo di tecnica.
La situazione, alla fine del ’500, è completamente diversa e
tanto il dedicatario Enrico III di Valois, quanto qualsiasi altro
22
lettore del De umbris sono perfettamente in grado di apprezzare
il testo bruniano per quello che è, ovvero un trattato di memoria,
e come tale possono collocarlo nell’ambito delle arte memoriae
che, dalla pseudociceroniana Ad Herennium, al De oratore,
all’Institutio oratoria di Quintiliano, passando per tutta la serie
dei trattati medioevali, giungevano fino all’Oratoria artis
epitoma di Pubblicio, alla Phoenix sive artificiosa memoria di
Pietro da Ravenna, ai trattati di Romberch e Rosselli, al Teatro
di Giulio Camillo e a quanti ad essi si rifacevano.
Così, fin dalla sua pubblicazione, il De umbris è accolto in
maniera entusiasta, conosce una vasta circolazione ed una
notevole risonanza: ne sono testimoni le più di cento copie
giunte fino a noi, molte delle quali recano la firma di letterati e
studiosi di primo piano tra la fine del ’500 e l’inizio del ’600;
tra questi, Alexander Dicson ne appronta in breve tempo un
compendio dal titolo De umbra rationis (l’edizione è del 1584)
e Daniel Sennert lo utilizza assieme ad un altro testo bruniano, il
De imaginum composizione, per realizzare, nel 1599, il suo
Templum Mnemosynes. Tale fortuna durerà per circa un secolo,
fino a quando, verso la fine del ’600, l’ars memoriae non sarà
più la chiave di lettura privilegiata dell’opera bruniana, giacchè
la maggioranza degli studiosi preferirà mettere l’accento o sulla
critica alle religioni rivelate, come si ritrova nello Spaccio, o
sulla visione dell’universo infinito, dei mondi innumerevoli, o
ancora sulle teorie eliocentriche. Si dovrà attendere l’inizio del
IXX secolo per avere una riscoperta del De umbris, grazie
soprattutto agli scritti del kantiano Buhle e alle Lezioni di storia
della filosofia di Hegel; nel 1835 uscirà a Stoccarda la prima
edizione “moderna”, ad opera di August Friedrich Gfrörer, nel
1868 quella del Tugini, fino a giungere alla pubblicazione tra il
1879 ed il 1891, dell’edizione nazionale degli scritti latini di
Bruno, curati in un primo tempo da Imbriani e Tallarigo,
successivamente da Tocco e Vitelli. Per la lectio storico-critica
del De umbris si dovrà invece attendere il 1991 ed il corposo
23
lavoro di collazione degli esemplari della editio princeps svolto
da Rita Sturlese.
24
In Appendice viene riportata la traduzione da noi realizzata
della Ars Memoriae, quando ancora non era disponibile il testo
di Manuela Maddamma. Chiude il lavoro una bibliografia
ragionata su Bruno, le artes memoriae e sulla saggistica relativa
a questi argomenti.
Fabio Ferrucci
25
1. LE IMMAGINI DI MEMORIA
PRIMA DI BRUNO
26
banchetto.
Stimolato da questo episodio, egli capì che l’ordine era
l’elemento fondamentale per illuminare la memoria. Pertanto
coloro che esercitano questa capacità della mente devono fissare
dei luoghi immaginari, raffigurarsi con il pensiero ciò che
vogliono ricordare e collocarlo in questi luoghi: così l’ordine
dei luoghi conserverà l’ordine delle cose e l’immagine delle
cose indicherà le cose stesse; i luoghi saranno per noi come le
tavolette di cera, e le immagini come le lettere».*
27
– PRIMATO DELLA VISTA SUGLI ALTRI SENSI: ben difficilmente
potremo ricordare nomi, numeri, parole, dati se non ci
creiamo, più o meno esplicitamente, una qualche
rappresentazione di tipo visivo di essi; non basta cioè aver
compreso ed essersi formati un concetto: è necessario vedere
le cose da memorizzare o , nel caso in cui si debba ricordare
qualcosa di astratto, formarsi un’immagine che sia in grado di
richiamarci alla mente la cosa stessa. Simonide ricostruisce
l’ordine perché vede nella propria immaginazione la
disposizione delle persone; egli inoltre, pur essendo un poeta,
eccelleva nell’uso di belle immagini e sosteneva, come ci
riporta Plutarco che i metodi della poesia fossero gli stessi
della pittura, essendo “la pittura una poesia silenziosa e la
poesia una pittura parlante, giacché le azioni che i pittori
dipingono nell’atto del loro compiersi, le parole le descrivono
dopo che esse sono compiute”1. Un secolo e mezzo dopo
Simonide, Aristotele affermerà nel De anima che la nostra
psiche non è in grado di pensare neppure speculativamente,
senza l’utilizzo di una qualche immagine, essendo la facoltà
immaginativa il tramite fra la percezione, operata dai cinque
sensi, ed il pensiero. Tutte le artes memoriae che verranno in
seguito saranno in primis dei sistemi di regole per poter
formare delle immagini efficaci delle cose o delle parole da
ricordare.
– ORDINE DEI LUOGHI: a nulla servirebbe avere delle seppur
splendide immagini, se queste venissero abbandonate a sé
stesse nei remoti meandri della nostra mente, senza poter
disporre di un metodo che ci consentisse un loro recupero
ordinato.
Poniamo, ad esempio, di aver memorizzato un’immagine per
ciascuna delle cose che dobbiamo comprare al supermercato:
chi mi assicura che, al momento di fare la spesa, sarò in grado
di ricordarle tutte? Oppure prendiamo un esempio più
“classico” e immaginiamo di essere un oratore che, di fronte
28
al proprio pubblico, non ha problemi a ricordare tutto quello
che deve dire, ma disgraziatamente “monta” le varie parti del
discorso secondo una successione diversa da quella stabilita
in precedenza, commuovendo il pubblico quando non è
necessario, invertendo l’ordine delle argomentazioni, o
ricordandosi di piazzare l’esordio solamente quando ormai si
trova a metà dell’orazione stessa: non basta dunque essere in
grado di memorizzare sic simpliciter, giacché è necessario
anche sapere come recuperare le immagini e in quale ordine
montarle. A tale scopo serve dunque una struttura ordinata,
da noi perfettamente conosciuta, che possa funzionare da
sistema di loci nel quale andremo a collocare, appunto, le
nostre immagini di memoria. Come Simonide ricordava le
persone in base al loro posto a tavola, così le artes successive
mostreranno come crearsi sequenze ordinate di loci in edifici,
in casa propria, in chiese e palazzi, nei gironi dell’Inferno, in
monasteri o per la strada, dando regole precise riguardo alla
loro dislocazione, dimensione, luminosità e varie altre
caratteristiche. E non importa, si badi bene, che tali luoghi
siano realmente esistenti o creazioni fittizie della nostra
immaginazione, l’importante è vederli come se fossero reali,
giacché, a lungo andare “ci farai l’abitudine che non ti
sembreranno affatto diversi da quelli più veri”2.
– COINVOLGIMENTO EMOTIVO: ripensiamo per un istante al
banchetto di Scopa e allo stato d’animo in cui si deve essere
trovato il nostro Simonide al momento della drammatica
ricostruzione della posizione dei commensali: il ricordo del
boato del soffitto che crolla, la consapevolezza di avere
salvato la pelle per un soffio, le immagini dei volti e dei corpi
dei banchettanti orrendamente sfigurati. Siamo sicuri che, in
circostanze “normali”, con un pranzo tranquillo, in cui tutto si
fosse svolto in maniera assolutamente regolare e monotona,
senza alcun avvenimento particolarmente degno di nota,
Simonide avrebbe potuto ricostruire la collocazione di tutti i
29
presenti con altrettanta sicurezza? Probabilmente no, ed ecco
perché le immagini di memoria non dovranno essere normali,
scialbe, anonime, dozzinali e stereotipate, bensì particolari,
stimolanti, sconvolgenti, attraenti, orride, rivoltanti o
stupefacenti, giacché si ricorda meglio ciò che colpisce – sia
positivamente che negativamente – la nostra affettività. Per
questo ci sono cose, nomi, persone, avvenimenti che
rimangono indelebilmente impressi nella nostra mente non
tanto per la loro importanza, quanto perché noi siamo rimasti
colpiti dallo loro “curiosità”, dalla loro particolarità. Primato
della vista, ordine dei loci e coinvolgimento emotivo
verranno successivamente adattati ed interpretati alle più
svariate esigenze per le quali l’ars memoriae verrà via via
utilizzata nei secoli successivi, ma nessun trattatista li
ignorerà, né verrà mai dimenticato il tragico banchetto dalle
cui macerie sorse una pratica destinata a condizionare in larga
misura la storia del pensiero occidentale, sia di quello dell’età
classica, sia successivamente, di quello medioevale e
rinascimentale.
30
assimilazione della cultura greca, ed infatti le prime tre fonti per
l’arte della memoria giunte fino a noi sono tutte latine:
31
contrariamente a quanto avviene in continuazione oggigiorno,
assistere alla lettura di un discorso scritto.
Come per noi il valore di un pianista solista verrebbe
immediatamente sminuito nell’eventualità in cui egli si
proponesse in pubblico suonando con lo spartito di fronte a sé –
e ciò accade da quando, verso la metà del secolo scorso, la
pianista Clara Wieck, moglie di Robert Schumann, ha introdotto
l’usanza del recital solistico eseguito interamente a memoria –
allo stesso modo la professione dell’oratore implicava solo
performance “a memoria”; oltre a ciò, una buona capacità di
ritenzione forniva, all’oratore che la possedesse, tutta una serie
di abilità accessorie, come ci racconta Cicerone stesso: “Ma è
forse il caso che io vi spieghi quale sia il vantaggio, quanta
l’utilità e l’importanza della memoria per l’oratore? Quanto
valga il ricordare ciò che si è appreso al momento di assumere
la causa, le riflessioni che si sono fatte successivamente al
riguardo? L’avere ben impressi nella mente tutti i pensieri?
Tutto ben disposto il materiale del discorso? L’ascoltare il
proprio cliente e l’avversario con l’atteggiamento non di chi
ascolta un discorso con le orecchie, ma se lo imprime nella
mente? Perciò solo quelli che hanno buona memoria sanno che
cosa dire, entro quali limiti e in che modo; sanno che cosa
hanno già confutato e ciò che resta da confutare. E inoltre
ricordano molto di ciò che hanno fatto in cause precedenti e
molto di ciò che hanno sentito da altri”3. Dunque, come ai
giorni nostri la carriera di molti valenti pianisti è stata
irrimediabilmente compromessa dalla loro pessima memoria,
così, nel I secolo a.C. doveva esserci più di un “collega” di
Cicerone che si vedeva privato dei favori del pubblico – e
quindi di una potenziale clientela – per aver trascurato di
approfondire e curare, a tempo debito, l’ars memoriae al pari
delle altre quattro sezioni della retorica.
Prosegue Cicerone: “Ammetto certo che la natura è la fonte
principale di questa dote […] tuttavia quasi nessuno ha una
32
memoria tanto salda da ricordare l’ordine di tutte le parole o di
tutti i nomi o di tutti i pensieri se non ha disposto e registrato
ogni cosa; né, d’altra parte, vi è alcuno di memoria così labile
da non ricevere alcun giovamento da questo esercizio”4. E,
similmente, la Ad Herennium : “Due sono le memorie: una
naturale, l’altra artificiale. Naturale è quella che è insita nella
nostra mente ed è nata assieme al nostro pensiero; artificiale è
quella che trae la propria forza dal metodo e dallo studio. Ma
come in altri campi l’arte contribuisce a fortificare ed aumentare
i doni della natura, anche se la bontà dell’ingegno può sovente
supplire alla dottrina, così accade qui: che talvolta la memoria
naturale, se qualcuno se la ritrova eccellente, è pari a quella
artificiale, ma quest’ultima conserva ed accresce con
l’educazione le qualità innate”5. L’ars memoriae si presenta
dunque all’oratore come una tecnica volta al miglioramento
della memoria naturale: più una persona è dotata di una buona
memoria, più trarrà giovamento dall’ars, ma anche chi non è un
mnemonista nato potrà compiere vistosi ed insperati progressi
grazie all’applicazione e all’esercizio costanti.
Vediamo ora in dettaglio in cosa consista questa exercitatio e
come, nei tre trattati presi in esame, i principi di Simonide
vengano adeguati alle nuove esigenze retoriche.
1.2.2. I LOCI
“Constat igitur artificiosa memoria ex locis et imaginibus”.6
Questo è l’esordio della sezione sulla memoria della Ad
Herennium, a testimonianza immediata del fatto che la scoperta
episodica di Simonide si trova ad essere qui applicata in
maniera generalizzata e sistematica. Come Simonide ricordava
in base all’ordine dei posti a tavola, ora il discepolo è invitato
ad allestire un sistema altamente organizzato di loci in cui poter
33
collocare in seguito tutte le cose da ricordare: naturalmente, più
cose vorrà affidare alla memoria, più alto sarà il numero di loci
di cui dovrà disporre. Come devono essere realizzati questi loci
? La Ad Herennium ci dà le seguenti prescrizioni, dalle quali gli
altri due trattati si discostano poco:
34
nelle tenebre né feriscano lo sguardo), ad una distanza media
l’uno dall’altro, di circa tre piedi, poiché una distanza
maggiore rischia di far perdere il collegamento visivo e
mentale tra essi, mentre una distanza inferiore rischia di far
sovrapporre le immagini dei loci adiacenti;
– vanno collocati in una zona poco frequentata, giacché la
folla ed il passaggio di troppa gente può confondere ed
indebolire le immagini in essi collocate;
– nel caso i luoghi reali non soddisfino, se ne possono creare
di fittizi, i quali si comporteranno esattamente come quelli
reali;
– per praticità si può contrassegnare un locus ogni cinque,
ponendo una mano d’oro nel quinto luogo e un nostro
amico di nome Decimo nel decimo luogo e così via, allo
stesso modo, ogni cinque loci.
35
affidando ad una immagine il ricordo di un nome o di una
espressione.
– Le immagini devono essere “forti” da un punto di vista
affettivo, così da creare in noi degli “urti emozionali”: si
useranno quindi immagini impressionanti o insolite, belle o
disgustose, comiche od oscene (imagines agentes) ; ciò si
ottiene nel migliore dei modi grazie all’utilizzo di figure
umane, drammaticamente impegnate in una qualche
attività, adornate, imbrattate, sfigurate o messe in ridicolo,
eccezionalmente belle o brutte; gli oggetti si prestano
peggio a questo tipo di trasformazioni e per questo
vengono meglio utilizzati come accessori dell’immagine
principale, anche se nulla vieta di usare oggetti al posto di
figure umane.
– Per la memoria verborum si utilizzano immagini dotate di
somiglianza fonetica con le parole da ricordare, come
Domizio per domus itionem, oppure in base ad una
associazione di similitudine, contiguità, opposizione.
– Ognuno appronterà da sé le proprie immagini, e ciò perché
ciascuno è più colpito da certe somiglianze che da altre.
36
quello di insegnare i principi e citare un paio di esempi, non
tutti, per rendere più chiaro l’insegnamento”9.
Fatto sta che l’Ad Herennium non riesce neppure a giungere
al fatidico paio di esempi per la memoria verborum e ne riporta
solamente uno:
Iam domuitionem reges Atridae parant.
Per memorizzare le parole di questo verso inizieremo a
collocare in un luogo Domizio, con le mani levate al cielo,
fustigato dai Marcii Reges, e ciò rappresenta Iam domuitionem
reges; per la seconda parte del verso collocheremo invece, in un
secondo luogo, gli attori Esopo e Cimbro che si preparano
(parant) per la parte di Agamennone e Menelao (figli di Atreo)
nell’Iphigenia.
Pur trattandosi di un unico, isolato esempio e nonostante il
testo non si dilunghi certo in spiegazioni, possiamo notare come
ci vengano presentati, in un solo verso, cinque diversi
procedimenti di realizzazione di immagini per le parole, e
precisamente:
37
certo limitato alle persone: posso collocare ad esempio
un’àncora per indicare l’avverbio ancóra, il numero 7 per
indicare delle sette religiose, e così via;
– USO DELLO STESSO TERMINE CON SIGNIFICATI DIFFERENTI: ben
diverso è il significato del parant per gli Atridi che tornano
a casa o per una coppia di attori che si travestono; così noi
oggi potremmo usare una persona che mena un’altra (nel
senso di picchiare) per ricordare il verso 18 del Canto I
dell’Inferno “che mena dritto altrui per ogni calle”, pur
avendo il verbo menare, in questo caso, un senso
completamente diverso, o ancora, nel precedente esempio
“i ferri del mestiere” potremmo rendere l’intera locuzione
collocando il nostro amico Ferri nell’atto di prostituirsi,
essendo la prostituzione il mestiere per antonomasia. Ci
scusiamo se qualche lettore dovesse rimanere urtato
dall’eccessiva trivialità delle immagini che stiamo
collocando, anche se ciò sarebbe un’ulteriore conferma,
per noi, della efficacia di questi procedimenti sulla nostra
affectivitas…
– COLLOCAZIONE DI UNA PERSONA PER RAPPRESENTARE SÉ
STESSA: Agamennone e Menelao non fanno altro che
indicare sé stessi, ovvero gli Atridi, o figli di Atreo; posso
quindi collocare il Papa per ricordare il termine papa, o il
mio lattaio se devo rammentare lattaio; l’unico pericolo è
rappresentato dal rischio di una raffigurazione anonima o
comunque debole per certi personaggi “istituzionali” o del
passato di cui manchi la conoscenza personale e diretta;10
in questa eventualità ci viene però in aiuto il principio
successivo:
– PERSONIFICAZIONE DELLE PERSONE COLLOCATE PER MEZZO DI
VOLTI CONOSCIUTI: l’autore dell’Ad Herennium sa bene che
nessuno può avere una raffigurazione vivida degli Atridi;
così sfrutta abilmente il parant per far vestire i panni di
Agamennone e Menelao da due noti attori del tempo,
38
Esopo e Cimbro, come se noi utilizzassimo Elizabeth
Taylor per Cleopatra, o dessimo il volto di Kevin Costner
a Robin Hood.
39
Reges (nominativo) che fustigano Domitium (accusativo),
così come i reges (nominativo) preparano la domuitionem
(accusativo); lo stesso discorso vale per Atridae parant;
naturalmente l’esempio della Ad Herennium è scelto con
molta cura e non è sempre detto che tale simmetria si possa
mantenere in tutti i casi; quando però ciò avviene, abbiamo
un appiglio in più che ci viene in aiuto al momento del
ricordo;
– CIÒ CHE NON È ESSENZIALE NON VA RAFFIGURATO: lo Iam
iniziale del verso viene tranquillamente ignorato, vuoi
perché un avverbio è di più difficile rappresentazione,
oppure perché le immagini già collocate ci restituiscono
perfettamente quattro delle cinque parole di cui è formata
la frase.
40
immagini. In tal modo l’arte viene in aiuto alla natura,
poiché l’una separata dall’altra avrebbe meno efficacia”12;
– Cicerone è convinto che la memoria rerum sia quella
specifica dell’oratore, essendo quella verborum meno
necessaria e presentando più problemi, come, ad esempio,
quando ci troviamo di fronte alla creazione di immagini
per le parti del discorso prive di un riferimento concreto,
come le congiunzioni; in ogni caso le imagines aiutano la
memoria e sbagliano coloro che temono di ritrovarsi le
proprie facoltà naturali schiacciate e ottuse dall’enorme
carico di immagini;
– è proprio di questo timore che Quintiliano non riesce a
liberarsi, poiché è convinto che il movimento del discorso
sia reso impacciato in modo irrimediabile dal doppio
compito imposto alla memoria di ricondurre ogni parola ad
un simbolo; tutta l’ars, allora, serve solo ai banditori d’asta
o – al limite – per ricordare degli elenchi, e i mnemonismi
Carmada e Metrodoro di Scepsi, tanto elogiati da Cicerone,
diventano quasi dei ciarlatani agli occhi di Quintiliano.
Meglio allora memorizzare in maniera visiva ciò che si è
scritto sulla tavoletta, ovvero le lettere e le parole, senza
ricorrere ad ingombranti artifici.13
41
E tutti questi problemi relativi all’organizzazione sistematica,
alla velocizzazione, allo snellimento ed al miglioramento
dell’efficacia della memoria verborum rimarranno sempre,
come vedremo, una costante nella storia successiva delle artes
memoriae occidentali.
42
accaduto. Intelligenza è la facoltà con cui accerta ciò che è.
Preveggenza è la facoltà per cui si vede che qualcosa sta per
accadere avanti che accada”15. Le definizioni ciceroniane delle
virtù e delle loro parti furono un riferimento importantissimo
all’interno di quel processo di formulazione delle “quattro virtù
cardinali” operato da Alberto Magno e da Tommaso D’Aquino
nelle loro Summae, e poiché Cicerone, nella Retorica secunda
(cioè nella Ad Herennium) trattava della memoria artificiale
come di un metodo per rafforzare la memoria naturale,
diventava ovvio – ragionando in base alla proprietà transitiva,
come diremmo oggi – considerare l’ars memoriae come parte
della virtù e della prudenza.
Manca ancora un personaggio al quadro che si sta delineando,
ed è Aristotele. Come ben sappiamo, uno dei maggiori meriti di
Tommaso d’Aquino consistette nella assimilazione del pensiero
aristotelico all’interno di quello della Chiesa, allo scopo di
preservare e difendere la Chiesa stessa, confutando le
argomentazioni degli eretici: il risultato più tangibile di questo
enorme lavorio teoretico è appunto la Summa Theologiae.
Nell’ambito di questo processo imbattersi nel De memoria et
reminescentia aristotelico, significò per i frati domenicani, la
possibilità di dare una solida base teorica alla giustificazione
dell’ars memoriae “ciceroniana” attraverso il riesame dei
principi psicologici dei luoghi e delle immagini condotto
appunto con l’ausilio delle osservazioni fatte da Aristotele sulla
memoria e la reminescenza.
Ciò che dovette colpire l’Aquinate fu sicuramente il fatto che
tutti i conti tornavano: Aristotele sostiene che la memoria
appartiene alla stessa parte sensitiva dell’anima a cui appartiene
anche l’immaginazione e che consta di una collezione di
immagini mentali derivate da impressioni sensoriali; la
reminescenza, invece, pur conservando traccia delle forme
corporee, appartiene alla parte intellettiva. Le Sacre Scritture e
tutta la didattica cristiana parlano di cose spirituali raffigurate
43
sotto similitudine di cose corporee. L’ars memoriae insegna a
ricordare tutto, compresi i concetti, per mezzo di immagini.
Tommaso tirava quindi le somme e ne deduceva che “è naturale
per l’uomo raggiungere gli intellegibilia mediante i sensibilia,
perché tutta la nostra conoscenza fonda i propri principi nel
senso”16.
Così l’arte della memoria, sebbene proiettata fuori dal
ricettacolo della retorica, trovava ora accoglienza nel cuore
della escatologia cristiana, divenendo uno dei mezzi più
importanti per inseguire la virtù ed ottenere la salvezza.
44
testo, con immagini confuse di qualcuno bastonato dai figli di
Marte e l’introduzione sulla scena di una errante Ifigenia18.
Degne di nota sono invece tutte le obiezioni che, nel De
bono, Alberto Magno avanza alla memoria verborum e
l’insinuarsi del dubbio che le regole “ciceroniane”siano più un
impaccio e un ostacolo che un reale aiuto alla memoria, poiché:
45
– usare immagini non troppo familiari, così che possono
destare meraviglia: per questo le cose viste nell’infanzia
sono più radicate nella memoria. Inoltre, legare le
intenzioni spirituali a un qualche simbolo corporeo aiuta a
non farle scivolare via;
– disporre ordinatamente nei loci ciò che si vuole ricordare,
così che da un punto ricordato venga reso agevole il
passaggio al punto successivo;
– indugiare con cura ed aderire con interesse vivo alle cose
da ricordare, perché, come dice Cicerone, la sollecitudine
conserva nitide le immagini delle cose;
– meditare con frequenza ciò che si desidera ricordare, così
che le immagini siano rafforzate dall’abitudine.
46
d’Aquino, abbiamo il rifiorire dell’arte oratoria, non più
secondo l’elegante strutturazione dell’età classica, bensì nella
forma della predicazione, giacché l’ordine domenicano era
appunto sorto principalmente come ordine di predicatori. Una
buona predica ha lo scopo di imprimere nella mente di chi
ascolta degli insegnamenti morali e spirituali e ciò può avvenire
in maniera sicuramente più efficace e “memorabile” facendo
ricorso a delle similitudini corporee, meglio ancora se si tratta di
esempi insoliti, singolari ed “eccentrici”: tale è l’indicazione
che troviamo nella Summa de exemplis ac similitudinibus rerum
di Giovanni di San Giminiano, scritta all’inizio del secolo XIV.
Le Summae che si vanno appunto diffondendo tra i predicatori
in questo periodo sono delle collezioni, dei repertori di
immagini e di similitudini da utilizzare nelle prediche; oltre a
ciò le Summae presentano, al loro interno o in appendice, delle
regole per la memoria artificiale, tratte o da Tommaso d’Aquino
o dalla Ad Herennium; va inoltre notato come qualcuno di
questi trattati venga scritto non più in latino, bensì in volgare,
come gli Ammaestramenti degli antichi di Bartolomeo di San
Concordio, opera dell’inizio del secolo XIV che presenta, in
appendice, un Trattato della memoria artificiale che non è altro
che la traduzione italiana della sezione sulla memoria della Ad
Herennium. Da un lato abbiamo così dei predicatori che fanno
uso della memoria artificiale per ricordare le prediche e, forse,
qualcuno di essi utilizza non solo la memoria rerum, ma anche
la memoria verborum a fini memorativi, anche se si tratta solo
di una congettura; dall’altro il propagarsi di testi in volgare
dimostra come all’argomento vengano ad interessarsi dei gruppi
di laici, anche se la diffusione doveva essere limitata ad un
ambito di tipo devozionale.
L’unico altro utilizzo – questa volta pienamente documentato
– della memoria verborum all’inizio del XIV secolo è quello
che troviamo in Robert Holcot, un frate domenicano inglese
che, nelle sue Moralitates, dava istruzioni su come potersi
47
formare delle rappresentazioni, dei veri e propri “quadri” dei
vizi e delle virtù destinati non ad una realizzazione visiva, bensì
intesi come vere e proprie immagini di memoria ad uso dei
predicatori. Vediamone uno: “Il simbolo della Penitenza, come
la dipingevano i sacerdoti della dea Vesta, secondo Remigio; la
Penitenza soleva essere dipinta in forma di uomo interamente
nudo, con una frusta a cinque corregge in mano”. Al di là della
autenticità o meno dei riferimenti antichi citati da Holcot,
sembra che ci troviamo davanti alla solita memoria rerum: un
uomo, immaginato nudo per renderlo più memorabile, con una
frusta in mano, per indicare la Penitenza. Ma il testo presegue
così: “Cinque versetti o sentenze erano scritte su ciascuna delle
corregge”. Immagini di memoria rerum utilizzati come
“contenitori” di memoria verborum, ma non attraverso altre
immagini, bensì per mezzo delle verba stesse inscritte
nell’immagine: questa è la novità e questa, secondo la Yates,
poteva essere l’interpretazione medioevale di quella che era
stata nel passato la memoria per le parole22. Il sistema non è
semplicistico come sembra e si basa su quella “memoria visiva
della pagina” che molti di noi usano ancora oggi quando
riescono a ripetere una frase letta su un libro “rivedendo”
mentalmente la collocazione della frase sulla pagina; in fin dei
conti si tratta dello stesso tipo di memoria che consigliava già
Quintiliano, quando sosteneva che, al cumulo delle immagini, è
preferibile “apprendere a memoria un passo delle tavolette
stesse su cui si è scritto. È, infatti, come se la memoria seguisse
una traccia, come se avesse sott’occhio non solo le pagine, ma
le righe stesse, ed uno parla come se leggesse”23.
Si tratta, comunque, di fenomeni collaterali. In realtà l’ora
della riscossa della memoria verborum scoccherà solo alla fine
del secolo 15°, ma a quel punto l’enorme “buco” sia teorico sia
pratico dei secoli precedenti farà sentire tutto il suo peso, tanto
che si ricomincerà a memorizzare parole su basi completamente
diverse rispetto alle precedenti.
48
1.4. PIETRO TOMAI
49
prestigio di questo giurista: tutti volevano vederlo, sentire le sue
lezioni, invitarlo per metterlo alla prova: la vera e propria
realizzazione del sogno ciceroniano dell’oratore che ricorda
tutte le leggi, le cause, le testimonianze, ciò che è stato
confutato e ciò che è ancora da confutare. E Pietro Tomai seppe
ben amministrare le sue doti, non solo come giurista, ma anche
come scrittore.
50
viene ribadito, in più di un punto, come il libro sia stato scritto
per svelare tutti i segreti del suo autore, allo scopo di lasciare
dei degni eredi di questa arte.
51
tre piedi della Ad Herennium ai cinque o sei della Phoenix.
Entrambi i testi parlano di “giusta distanza”, ma dall’85
a.C. al 1491, la misura dei mediocria intervalla si dilata
sensibilmente, vuoi per il mutamento di percezione dello
spazio architettonico che deve essersi verificato
sicuramente in quindici secoli, vuoi perché una chiesa
presenta già di fatto i propri loci ad una distanza superiore
ai tre piedi;
– il principio della corretta illuminazione dei loci non è
neppure citato, e non perché esso fosse andato perduto con
il passare del tempo, visto che si ritrova in trattati
successivi: può essere che Pietro Tomai lo abbia omesso,
confidando nel buon senso del lettore; oppure che l’abbia
deliberatamente taciuto, dal momento che una chiesa, in
genere, non è mai fortemente illuminata, né totalmente
buia;
– non importa collocare i loci in posti poco frequentati,
giacché “basta aver visto la chiesa vuota almeno una volta,
non importa quando”.
52
– se un oggetto non è in grado di muoversi, dovrà essere
mosso da qualcuno;
– se un’immagine è piccola, la si potrà moltiplicare; se di
difficile collocazione, si potrà fare uso di immagini
ausiliarie;
– un’immagine buffa viene ricordata con maggiore facilità;
– un’immagine “erotica” ecciterà la nostra memoria come
nessun altra potrebbe fare; più volte infatti Pietro Tomai
colloca la sua “amica di gioventù” Ginevra da Pistoia o,
più in generale, delle bellissime fanciulle, possibilmente
nude.
53
la tecnica della collocazione di persone – possibilmente delle
donne, tranne se si è misogini – per le lettere dell’alfabeto (nella
Phoenix, sulla scia della migliore tradizione delle imagines
agentes, “immagine” è sempre inteso nel senso di immagine di
una persona, non di un oggetto): Antonio, per la A, Benedetto,
per la B, e così via. Per una sillaba bielementale si
collocheranno così due persone, ma non in due loci diversi,
bensì nello stesso locus, introducendo un preciso modo di
ordinare le immagini, così da non incorrere in confusione al
momento del recupero: “Se devo collocare in un luogo la copula
et, colloco in quel luogo Eusebio e Tommaso d’Aquino, ma in
modo che Eusebio tocchi il luogo e Tommaso stia di fronte a
lui. Se invece Tommaso d’Aquino fosse al posto di Eusebio e
Eusebio al posto di Tommaso, allora vedremmo collocato in
quel luogo non la copula et, bensì il pronome te.
Una delle regole di quest’arte stabilisce che ciò che viene
prima in ordine va collocato più vicino al luogo; come sulla
carta scriviamo prima la lettera e in questa copula così facciamo
anche nel luogo; si tratta di una regola generale che va osservata
in qualunque espressione o quant’altro vada collocato”24. Si
ottiene in tal modo un notevole risparmio di loci ed una maggior
compattezza delle immagini stesse. Verrebbe da pensare che,
nel caso di una sillaba trielementale, le persone da collocare
diventino tre, invece Pietro Tomai, in considerazione sia della
presenza costante di almeno una vocale in ciascuna sillaba e
della pericolosa confusione potenziale dovuta alla collocazione
di tre persone nello stesso luogo, prescrive l’utilizzo di due sole
“figure”, ovvero una persona e un oggetto o un animale, allo
scopo di rappresentare una sillaba di tre lettere: naturalmente
una delle due immagini dovrà rappresentarci due delle lettere
che formano la sillaba. La regola è questa: se la vocale si trova
in posizione centrale o terminale, la consonante che precede la
vocale e la vocale stessa andranno raffigurate con un oggetto
che sia mosso da una persona che mi rappresenti la lettera
54
rimanente: “Nella sillaba bar, prendo l’immagine dell’ultima
lettera e vi aggiungo qualcosa il cui nome cominci allo stesso
modo delle due lettere che precedono. Perciò se avrò collocato
nel luogo Raimondo che percuote il luogo con un bastone, in
quel luogo leggerò la sillaba bar; se invece Simone avesse
percosso il luogo, si sarebbe avuta la sillaba bas […] se invece
la vocale è alla fine, come nella sillaba bra, allora colloco nel
luogo un’immagine per la prima lettera con qualcosa che venga
mosso o si muova da sé, il cui nome cominci con le sue lettere
che seguono nella sillaba. Perciò se avrò collocato nel luogo
Benedetto con delle rape o delle rane, otterrò la sillaba bra;
Tommaso la sillaba tra”25. Se invece la vocale si trova all’inizio
della sillaba “bisogna collocare sempre nel luogo l’immagine
della prima lettera assieme ad una cosa il cui nome cominci
come le lettere seguenti: così se Antonio fa girare una mola,
vediamo apposto il verbo amo; se al suo posto c’è Eusebio il
verbo emo”26. Semplice ed efficace, anche se si tratta di una
pratica limitata a monosillabi di tre lettere, come è Pietro stesso
ad ammettere: “Va detto che non si possono collocare con
altrettanta facilità parole di tre o quattro sillabe, ma non occorre
usare molte sillabe inutilmente quando di può ottenere lo stesso
risultato usandone poche: basta infatti che siano state collocate
le prime due sillabe”27. In pratica, questo tipo di memoria
verborum non ha la pretesa di codificare in maniera perfetta
intere parole, ma semplicemente intende far memorizzare
l’inizio, le prime lettere, in modo da funzionare da aggancio, da
appunto mnemonico e venire incontro a quelle situazioni in cui
cerchiamo disperatamente una certa parola, sentendo di averla
“sulla punta della lingua” e basterebbe che qualcuno o qualcosa
ce ne suggerisse le prime lettere che noi saremmo
immediatamente in grado di ricordarla: la memoria verborum
proposta da Pietro Tomai svolge appunto questo ruolo.
La tecnica dell’alfabeto visivo della Phoenix si ferma dunque
55
alle parole bisillabiche e diventa estremamente complessa nel
caso in cui una sillaba sia formata da più di tre lettere: come
potremmo infatti memorizzare la sillaba pentaelementale prans?
Ma Pietro Tomai ha in serbo per noi altre sorprese.
56
farci venire in mente le parole, quanto la frase stessa che
continua a risuonarci nella testa…
GESTO CORPOREO: se il termine da collocare fa riferimento ad
un gesto corporeo, il che generalmente accade con dei verbi,
c) posso raffigurarmi qualcuno che compie il suddetto gesto,
come uno che scrive per il verbo scrivere, o un altro che
afferra un oggetto per il verbo afferrare e così via.
SIMILITUDINE: è la riesumazione della tecnica classica della
somiglianza di tipo fonetico, quella grazie alla quale la Ad
d)
Herennium consiglia di collocare Domizio per indicare il
ritorno a casa, cioè la domuitionem.
57
sinistro per il vocativo, mentre il ventre o il petto indicano
l’ablativo). Dal momento che ciascuna immagine di memoria
implica l’utilizzo costante di figure umane, queste andranno
relazionate al locus o all’oggetto con cui interagiscono per
mezzo della parte del corpo che rappresenta il caso latino da
ricordare. Se invece la tecnica utilizzata dovesse comportare la
collocazione del solo oggetto (come del pane nel caso di panem)
si piazzerà comunque nel locus una figura umana: “Se una cosa,
per esempio un pane,28 collocherò nel luogo una ragazza nuda
che tocca un pane col piede destro; se invece voglio collocare il
termine uomo29 posto ad indicare un qualche grado o una certa
carica, come un abate, metto nel luogo un unico abate nudo che
calci il luogo stesso col piede destro”30.
Dopo aver fornito alcuni precetti riservati ai giuristi, per la
memorizzazione di leggi e Codici, Pietro Tomai ci dice che è
pure possibile, anzi consigliabile, collocare più immagini nello
stesso luogo dando ad esse una strutturazione: ad esempio, per
gli argomenta di legge egli usa una immagine per il “titolo”,
ovvero l’intestazione dell’articolo di legge e poi colloca pure,
nello stesso spazio del locus, due o tre delle parole principali
dell’argumentum grazie ad una delle tecniche suesposte. Si
ottiene in questo modo un’immagine completa riguardo
all’informazione che stiamo cercando, rendendo parimenti
efficiente l’uso dei loci; se invece non c’è tempo a sufficienza,
come quando si devono imparare lunghi elenchi per una
dimostrazione “dal vivo” delle proprie capacità, allora Pietro
Tomai consiglia la collocazione di una sola immagine per
ciascun locus.
Di tutte queste idee della Phoenix dovremo tenerne d’occhio
soprattutto tre, ovvero:
58
diverse immagini collocate nel medesimo locus;
– la regola di avere sempre una persona come immagine
principale alla quale connettere gesti e oggetti come
immagini secondarie.
1.4.6. NUMERI
L’ultima Conclusio della Phoenix ci mostra infine un originale
sistema per la memorizzare non più di lettere, bensì numeri. La
grande forza di questo sistema consiste nelle sue possibilità
combinatorie, grazie alle quali, con sole sedici immagini, sono
rappresentabili tutti i numeri immaginabili. Dapprima si
preparano dieci immagini per le decine 10, 20, 30 eccetera fino
a 100: una croce per il 10, qualcosa di spigoloso unito a
qualcosa di tondo per il 20 e così via. Poi abbiamo altre cinque
immagini per le unità da 1 a 9, rappresentate grazie alle dita
della mano unite per associazione a persone o a oggetti: “Il
pollice della destra è dei guelfi, l’indice dei ghibellini, il medio
dei giudei, il quarto dito è quello degli anelli, il mignolo è il dito
delle orecchie; lo stesso vale per le dita della mano sinistra.
Dico che il pollice è dei guelfi perché i guelfi dicono di tenerlo
in grande considerazione: l’indice perciò è dei ghibellini. Dico
che il medio è dei giudei perché se glielo mostriamo ci
guardano molto male: se vuoi sapere il perché prova a
chiederglielo e lo scoprirai; anulare e mignolo non hanno
bisogno di spiegazioni”31. Per i numeri dal 6 al 9 si usa la
medesima simbologia con la differenza che per i primi cinque
numeri (da 1 a 5) immagineremo azioni svolte con la mano
59
destra, mentre per i rimanenti quattro (da 6 al 9) con la sinistra.
Infine, il mio interlocutore mi indicherà il numero 1000. Così
“se voglio ripetere la Quaestio XI, capo III mi immagino nel
luogo un guelfo che tiene una croce nella mano destra ed un
giudeo che cerca disperatamente di afferrarla con la forza con la
mano destra. Se voglio collocare la Seconda lettera ai Corinzi,
capitolo 4, raffiguro nel luogo un ghibellino che tiene nella
mano destra un tripode,32 mostrandolo ad una graziosa
fanciulla; la quale a sua volta lo prende nella propria mano
destra”33.
Nonostante questo sistema nasca e muoia praticamente col
proprio autore, giacché le mnemotecniche moderne basano la
memorizzazione dei numeri su principi completamente diversi,
tuttavia dovremo tenerne conto quando andremo ad analizzare il
De umbris, sia per le regole combinatorie che implica, sia per
l’idea di introdurre delle differenziazioni basate sull’uso di
diverse parti del corpo.
60
associazione di similitudine, contiguità o opposizione, ma non
c’è nulla che mi suggerisca quale metodo usare al momento
della decodifica. È significativo, a questo riguardo, come
nessuna arte di memoria affronti questo problema: né la
Phoenix – ma ciò potrebbe essere messo in relazione
all’assenza, nel testo, di considerazioni teoriche – né tanti altri
trattati, anche se generalmente più prodighi di considerazioni e
valutazioni sul funzionamento della memoria. Possibile che tutti
abbiano tralasciato questo aspetto?
In realtà non si tratta di trascuratezza: più semplicemente
questo dubbio sussiste unicamente a livello teorico e non si
pone mai nella pratica: se siamo in grado di ricordare
un’immagine non possiamo fare a meno di connetterla al
proprio referente originale (res, litterae, o verba) in base alla
corretta associazione, e ciò avviene perché un’immagine di
memoria è sempre il risultato di un nostro processo mentale di
costruzione ed essa rimane sempre in qualche modo
“impregnata” del procedimento per mezzo del quale l’abbiamo
ottenuta. Così se l’abbondanza dei modi effigiandi a nostra
disposizione ci torna estremamente utile per costruire immagini,
così che possiamo scegliere di utilizzarne uno nel caso in cui gli
altri falliscano, essi non ci creano alcun tipo di impaccio al
momento del recupero dei dati.
61
Romberch35 (1533) e Rosselli36 (1579) per citare i più famosi,
non aggiungono molto a quanto già preso in esame a proposito
della Phoenix: le uniche novità degne di nota, ai fini della nostra
trattazione, riguardano la costituzione di liste di immagini
“preconfezionate”, già pronte per essere collocate come
riferimenti di memoria verborum. Invece di dare, cioè, delle
istruzioni per la realizzazione degli alfabeti visivi, come aveva
fatto Pietro da Ravenna, ci vengono ora proposte delle vere e
proprie tabelle di alfabeti completi, dalla A alla Z. Tali alfabeti
si basano o sulla coincidenza tra lettera da memorizzare e
iniziale dell’immagine collocata, oppure sulla somiglianza
visiva tra forma della lettera e forma dell’oggetto collocato. Il
trattato di Romberch fornisce, ad esempio, una tabella dove
sono riportati ventuno immagini di animali, ciascuno associato
ad una lettera: Anser, Bubo, e così via. In un’altra tabella
abbiamo invece ventisei oggetti che assomigliano a lettere,
come un forcale per la lettera M e una cazzuola per la lettera Z.
Tratteremo dettagliatamente nel prossimo capitolo dei vantaggi
e degli inconvenienti conseguenti all’applicazione di questi
sistemi.
Ciò che invece ci preme di far notare qui è la palese
contraddizione tra l’inserimento di liste di immagini ed i
principi della Ad Herennium, giacché se grazie a questi elenchi
si guadagna in sistematicità, si perde sicuramente in termini di
legame affettivo e personale con le immagini collocate: nel
tentativo di rappresentare tutto, le mnemotecniche rischiano
quindi di incrinare il delicatissimo rapporto di adfectivitas che
lega l’artista della memoria con le proprie, personalissime
rappresentazioni. Anche Bruno percepirà, al pari di Romberch e
Rosselli, l’esigenza di sistematicità delle tecniche presentate,
ma, a differenza dei trattatisti che abbiamo citato, riuscirà a
meglio preservare tanto la globalità del proprio sistema quanto
il vincolo personale con l’immagine e quindi la sua originalità,
personalità e – soprattutto – memorabilità.
62
Un’idea interessante che prende poi piede in questi trattati è
poi quella che prevede, oltre alle solite abbazie, chiese o strade,
l’utilizzo di sistemi a ruote o sfere concentriche per la
collocazione dei loci; tutti questi sistemi si basano su luoghi
fittizi o che comunque non ricadono nella sfera della nostra
percezione quotidiana: Publicio suggerisce l’uso delle sfere
dell’universo, Romberch anche dei gironi dell’Inferno e Rosselli
organizza alla stessa maniera il Paradiso. Essendo la
strutturazione classica dell’universo e dei luoghi “danteschi”
(Paradiso, Purgatorio e Inferno) ben segmentata, altamente
caratterizzante e nota a tutti, abbiamo in questo modo a nostra
disposizione un valido riferimento per mezzo del quale
possiamo ordinare i nostri loci.
Esiste infine un altro trattato, riportato in un manoscritto di
Vienna della metà del secolo XV,37 di solito trascurato nelle
trattazioni sulla memoria, ma che menziona una maniera
peculiare di organizzare i luoghi di memoria e che risulta
illuminante, come vedremo, per spiegare un passo in cui Bruno
tratta dei vari tipi di subiecta, ovvero di loci. A pagina 108 del
De umbris troviamo infatti una apparentemente inspiegabile
tipologia di loci, un tipo dei quali viene definito tetrathomum
vel pentethomum: il fatto che Bruno non si dilunghi in alcun
tipo di spiegazione rende manifesto come la natura di questo
tipo di loci fosse chiara e ovvia a tutti gli “artisti”. La risposta –
per noi – va cercata nel trattato che abbiamo appena citato, ove
sono descritti e materialmente raffigurati dei veri e propri
“modelli” di stanze per la memoria, ciascuna delle quali funge
da “contenitore” per cinque loci, quattro negli angoli e uno al
centro, nei quali è possibile collocare immagini. Non più
dunque successioni irregolari di loci, contrassegnati ogni cinque
da mani e croci d’oro, ma una struttura regolare e
matematicamente organizzata: un edificio diviso in stanze e
ciascuna stanza contenente cinque luoghi, così che, se voglio
recuperare, ad esempio, l’immagine affidata al locus numero 32,
63
so già che dovrò cercare nella stanza numero 7. E se questa
tecnica di richiamare un luogo ben specifico non rappresentava
probabilmente un’esigenza vitale per il retore del I secolo a.C.,
si trattava di un modus operandi che diveniva invece
fondamentale per il giurista e per il mnemonista rinascimentali,
giacché il primo era finalmente in grado, ad esempio, di citare
rapidamente uno specifico articolo o punto di legge, mentre il
secondo poteva, con altrettanta rapidità, ripetere in ordine
sparso dei dati di un elenco ordinato, memorizzato magari
durante una esibizione pubblica, allo scopo di dare prova delle
proprie strabilianti abilità.
64
medioevale e rinascimentale, giacché si tratterebbe di un lavoro
ben oltre gli scopi della nostra ricerca. C’è però un aspetto che
ci interessa da vicino e che è correlato alla fig.1.
FIG. 1
65
risultavano dalle ruote, senza riferirle agli attributi divini, ed il
gioco era fatto: le ruote ferme, lette dall’esterno verso l’interno,
mi danno gli inutilizzabili BBB, CCC, DDD, eccetera, ma
quando le stesse ruote sono in movimento, posso ottenere, ad
esempio, BEI, DIE, DEI, EDI, CHE, CHI, e così via.
Tra l’altro, l’uso della figura del cerchio in Lullo è connesso
alla raffigurazione geometrica dei cieli, così come il quadrato
rappresenta gli elementi ed il triangolo la divinità, e tanto
Romberch quanto Rosselli useranno i cerchi dell’universo allo
scopo di collocarvi immagini di memoria.
Se solo a qualcuno fosse venuto in mente di utilizzare un
numero maggiore di ruote, ciascuna delle quali divisa in tanti
settori quante sono le lettere dell’alfabeto…
66
argomento e di un locus; gli altri trattatisti e la loro idea degli
elenchi di immagini per le lettere dell’alfabeto; la Ad
Herennium con la sua bizzarra idea di far vestire i panni di
Reges Atridae a dei personaggi che fossero più noti ai propri
lettori; Publicio e Romberch che collocano immagini delle sfere
concentriche in cui è strutturato l’universo; Raimondo Lullo,
infine, con la sua Ars combinatoria che prevede la collocazione
delle lettere indicanti concetti su ruote concentriche girevoli allo
scopo di ottenere tutte le possibili combinazioni degli elementi
originali. Sullo sfondo l’intramontabile mito, vecchio quanto
l’ars memoriae di realizzare immagini per tutte le parole.
Esiste comunque un denominatore comune in questo
processo di montaggio di metodi diversi operato da Bruno, e
che consiste nel loro utilizzo “spregiudicato”: il nolano, cioè, si
mostra ben poco preoccupato degli scopi originari per cui certe
tecniche erano state inventate: per lui è sufficiente la buona
funzionalità della tecnica e la certezza che si tratti di qualcosa di
familiare per i propri lettori. Per questo, come vedremo,
utilizzerà le celeberrime ruote di Lullo, e non allo scopo di
combinare gli attributi divini, ma con l’intenzione – meno
nobile ma assai più pratica e funzionale – di formare immagini
complesse per la memoria verborum; similmente l’utilizzo,
nella seconda praxis, delle immagini dei decani dello zodiaco,
più che a intenzioni di tipo occultistico, cabalistico o
quant’altro, andrà connesso alla loro indiscutibile notorietà per
coloro che si occupavano di ars memoriae. In questo modo
ciascuna delle risorse “riciclate” viene a perdere la propria
funzione originale ed acquista una nuova, inedita luce.
67
NOTE
68
29. In accusativo nel testo.
30. Phoenix, Conclusio VI.
31. Phoenix, Conclusio XII.
32. Cortina in latino.
33. Phoenix, Conclusio XII.
34. I. Publicio, Oratoriae artis epitome.
35. J. Romberch, Congestorium artificiose memoriae.
36. C. Rosselli, Thesaurus artificiose memoriae.
37. Vienna, Österr. Nationalbibliothek, Cod. 5395; cfr. anche L. Volkmann, Ars
memorativa e F.A. Yates, L’arte della memoria, pp. 100-101.
69
2. I PRESUPPOSTI DEI SISTEMI
BRUNIANI
2.1. PREMESSA
70
sull’importanza della memoria verborum, il che rende
chiaramente manifesto l’esiguo numero di allievi di questi
maestri disposti a spendere energie in tale tipo di pratica:
Cicerone stesso nel De oratore afferma che la memoria delle
parole è per lui meno utile rispetto a quella delle cose2 e la
liquida con pochi cenni, molti trattatisti la ignorano in tutta
tranquillità e i pochi che ne mostrano delle applicazioni
possibili ne danno in genere un’esposizione frettolosa o basata
su principi di dubbia efficacia.
Bruno, dal canto suo, si trova in una situazione
completamente diversa rispetto a tanti suoi predecessori,
giacché il De umbris si occupa quasi esclusivamente di tecniche
relative alla memoria delle parole e tocca in maniera assai
marginale la memoria delle cose; alla memoria verborum sono
infatti dedicate settanta delle ottanta pagine che compongono la
terza parte dell’Ars memoriae, mentre la memoria rerum viene
sbrigata nelle ultime quattro pagine della stessa parte.
Per giustificare una tale vastità di trattazione nell’economia
del De umbris, Bruno spiega dettagliatamente quale sia il
“campo d’azione” della memoria delle parole e di quali benefici
essa sia apportatrice:
71
ci aiuta a cercare la giusta espressione al presentarsi delle
c)
parole iniziali di un argomento o di una frase;
serve per memorizzare quei nomi propri che non risultino
d) essere immediatamente chiari ed evidenti, come i nomi latini
delle erbe, degli alberi, dei minerali, dei semi;
ci viene in aiuto qualora si presenti l’occasione di fare una
e) citazione, o di pronunciare parole di cui non conosciamo
affatto il significato, come le parole straniere.4
72
di Johannes Romberch, datato 1520 e che sfruttano il principio
della somiglianza tra forma fisica degli oggetti collocati a mo’
di immagine e forma delle lettere che si vogliono ricordare,
oppure quelli basati sulla collocazione di oggetti la cui lettera
iniziale sia la medesima che dobbiamo tenere a memoria.
Facciamo ora alcuni esempi allo scopo di chiarire meglio i
metodi – e gli inconvenienti – di questi sistemi: poniamo di
voler ricordare la sigla dell’Unione Europea (UE); in base al
primo principio avremo come immagine una cetra e un’àncora,
immagini che hanno appunto una somiglianza fisica con le
lettere U ed E; se adottiamo invece il secondo principio, allora
potremmo collocare un’upupa ed un ermellino, oppure un uovo
ed un elastico, oggetti le cui iniziali sono appunto U ed E. Il
sistema, a tutta prima, sembra ben congegnato, poiché si basa su
principi semplici e richiede la sola memorizzazione di poco più
di una ventina di immagini, una per ciascuna lettera
dell’alfabeto; tuttavia esso non è privo di inconvenienti che
sorgono non appena le parole da memorizzare divengono molte,
o sono molto lunghe o presentano più volte la medesima lettera,
condizioni queste che portano a collocare e ricollocare sempre
le stesse immagini, con il conseguente innalzamento del tasso
antropico del sistema ed il rischio sempre maggiore di generare
confusione al momento del recupero dell’informazione
memorizzata.
Ipotizzando, ad esempio, di voler memorizzare le seguenti tre
parole: SALAMANDRA, PARANOMASIA, CANAPA siamo
costretti ad utilizzare un totale di ventisette immagini (una per
lettera) e a collocare per ben undici volte la medesima
immagine per la lettera A. L’inconveniente può essere
parzialmente aggirato con l’uso contemporaneo di più di un
alfabeto visivo, ma da un lato il pericolo non viene
completamente eliminato e dall’altro sussiste comunque un
secondo problema, rappresentato dalla necessità di dover
disporre di un locus per ciascuna immagine e quindi per
73
ciascuna lettera: nel nostro ipotetico esempio dovremmo
disporre di ventisette loci per la memorizzazione di tre sole
parole. E a questo punto, potete starne certi, i detrattori di
Cicerone, quelli col terrore dell’enorme cumulo di immagini
che incombe sulla memoria naturale, farebbero sicuramente
sentire la propria voce.
Una soluzione parziale al problema dell’economia dei luoghi
l’aveva già offerta, come abbiamo visto, colui che Bruno
considerava il proprio “maestro” di memoria, ovvero Pietro da
Ravenna, quando nella Phoenix ci spiega come collocare nello
stesso luogo ad esempio Eusebio e Tommaso, in modo che
Eusebio tocchi il luogo e Tommaso stia di fronte a lui, per
indicare la copula et, o Benedetto con delle rane per indicare la
sillaba bra :6 dunque non più un luogo per ciascuna immagine,
ma più immagini all’interno dello stesso luogo con una regola
per definire l’ordine con cui collocare le immagini e
successivamente recuperarle.
Per il resto, l’alternativa appare insanabile: o un’immagine
per ciascuna delle parole esistenti, il che, a detta di tutti è pura
follia, oppure il rischio di precipitare nel caos di simboli di
singole lettere che si aggregano, si disgregano, si mescolano,
danzano e si confondono a vicenda nella mente del malcapitato
artista della memoria che disperatamente cerca di ricordare.
Bruno, dal canto suo, promette una via di uscita da questo
vicolo cieco grazie ad un semplice – a suo dire, naturalmente! –
sistema che consente da un lato di “poter avere delle immagini
preparate”7 e dall’altro, sulla scia dello stratagemma di Pietro da
Ravenna, di “apporre intere parole, di qualunque genere esse
siano, in un singolo locus”8 e tutto questo non limitato alla sola
lingua italiana, ma esteso anche al greco, all’ebraico e a tutte le
lingue che da queste tre derivano.
Magia? No, e vedremo quali siano i principi mnemonici e
grammaticali su cui egli basa le proprie affermazioni.
74
2.2. UN ALFABETO PER (QUASI) TUTTE LE LINGUE
75
come la «α» greca e la « » ebraica) è del tutto inutile crearsi dei
“doppioni” di lettere, essendo sufficiente integrare l’alfabeto
latino con quelle poche lettere greche ed ebraiche che nel latino
non trovano corrispondenza.
Il risultato è che per mezzo delle ventitré lettere latine A B C
D E F G H I K L M N O P Q R S T V X Y Z, le quattro greche
Ψ Φ Ω Θ e le tre ebraiche per un totale di sole trenta lettere,
si coprono tutte le parole pronunciabili (ed immaginabili) da un
uomo di cultura del Cinquecento. Si badi bene: abbiamo detto
“pronunciabili” e non “scrivibili”. Questa arte, infatti, essendo
essenzialmente di tipo performativo, è finalizzata alla actio e, al
pari delle artes memoriae classiche, fonda i propri principi più
sulla somiglianza fonetica delle parole da memorizzare che
sull’esatta precisione di scrittura alfabetica. Come l’ignoto
autore della Ad Herennium suggeriva di usare Domizio per
ricordare l’inizio dell’ormai noto verso:
Iam domum itionem reges Atridae parant9
a causa della somiglianza fonetica con domum itionem, così
Bruno estende questo principio e, da stratagemma episodico, lo
pone alla base dei propri sistemi mnemonici: non ciò che si
scrive e come lo si scrive, bensì ciò che si dice e come viene
pronunciato è oggetto di memoria. Cadono così all’improvviso
– ed è sicuramente il fatto più importante – tutte le barriere
linguistiche: non importa più che la citazione, la classificazione
botanica, il termine iperspecialistico siano in latino, in francese,
in spagnolo o in qualunque lingua conosciuta, giacché se posso
pronunciarlo, posso memorizzarlo, e dovrò perciò imprimermi
nella memoria solo quanto è necessario alla pronuncia;
contemporaneamente a questa conquista si ottengono come
corollari alcuni fatti che sono, se non proprio inattesi,
perlomeno non immediatamente evidenti. Alcuni di essi, e lo
vedremo subito, piuttosto piacevoli; altri, invece, quanto meno
imbarazzanti.
76
2.3. CONSEGUENZE DEL PRINCIPIO FONETICO
77
tutte le parole in cui c’è una lettera B o una S o il gruppo BS.
78
definito “generoso, potente e saggio” nella dedica del De
umbris, scriverà nello Spaccio: “Questo Re cristianissimo, santo
religioso, e puro può securamente dire: Termia cœlo manet,
perché sa molto bene che è scritto Beati li pacifici, beati li
quieti, beati li mondi di cuore, perché de loro è il regno de’ cieli.
Ama la pace, conserva quanto si può in tranqullitade e
devozione il suo popolo diletto; non gli piaceno gli rumori,
strepiti e fragori di in strumenti marziali che administrano al
cieco acquisto di instabili tirannie e principati de la terra; ma
tutte le giustizie e santitadi che mostrano il diritto cammino al
regno eterno. Non sperino gli arditi tempestosi e turbolenti
spiriti di quei che sono a lui suggetti, che, mentre egli vivrà (a
cui la tranquillità de l’animo non administra bellico furore),
voglia porgerli aggiuto per cui non vanamente vadano a
perturbar la pace d’altri paesi, con pretesto d’aggionger gli altri
scettri ed altri corone; perché Termia cœlo manet […]. Tentino,
dunque, altri sopra il vacante regno lusitano; sieno solleciti altri
verso il bellico dominio»12.
Il sovrano di Francia riveste dunque il ruolo di uno strumento
di pace religiosa e di pace con gli altri popoli, in aperta
polemica con le pedanti polemiche luterane, che nulla arrecano
se non divisioni e fratture, per non parlare delle politiche
religiose spagnole e dei puritani inglesi.13
Motivi di tale importanza fanno sicuramente passare in
secondo piano il problema della grafia della lingua francese. In
ogni caso Bruno si affretta a fornire chiarimenti, quasi a mo’ di
scusa, laddove afferma che “…i francesi […] non perché la loro
lingua non sia rozza (!), ma a causa di non so quale uso o
consuetudine ammettono l’uso di alcune lettere che vengono
omesse nella pronuncia per distinguere le parole. A tal riguardo
non vi è alcunché che ti possa creare problemi: la scrittura
interna infatti non ne viene toccata e viene eseguita in relazione
a ciò che va pronunciato, senza aggiungere quelle lettere di cui
si è detto. Per quanto non mancano tra i francesi uomini
79
d’ingegno affatto superficiale che cercano di liberare la scrittura
della loro lingua da questa specie di condizione ingiusta
arrecatale da una evidente mancanza di cultura”.14 I grammatici
francesi apprezzati da Bruno (gli uomini “dall’ingegno affatto
superficiale”) sono stati identificati da Rita Sturlese nelle figure
di Jacques Peletier, autore del Dialogue de l’Ortografe e
Prononciacion Françoese (Lione 1555), Johannes Garnerius,
che nel 1558 aveva pubblicato la Institutio Gallicae linguae,
Antonius Caucius, autore della Grammatica Gallica (Basilea
1570) e nel Brunot, a conferma del fatto che il problema del
divario tra scrittura e pronuncia della lingua francese era
avvertito non solo da un frate eccentrico, ma anche da diversi
cenacoli intellettuali dell’epoca.
80
parti vengano a loro volta determinate e percepite in una
successione ordinata che sostituisca la contiguità fisica, oltre a
determinare convenzionalmente altre parti che sono i subiecta
più specifici in assoluto e sono individuali, i quali vanno
ingranditi in base alla dimensione dei subiecta più specifici e
alla possibilità di potervi collocare agevolmente qualsiasi cosa
capiti”15.
Affinché questo passo possa essere comprensibile, esso va
integrato con la classificazione dei subiecta operata da Bruno
stesso nella Seconda Parte della ars memoriae del De umbris.
“Un tipo di questi subiecta è assai comune, nel senso che può
estendersi per tutto lo spazio che può essere abbracciato dalla
fantasia, la quale è in grado di aumentare a piacere le
dimensioni di un determinato cerchio, anche se non,
ovviamente, di diminuirle all’infinito. Un altro è pure comune,
in quanto formato dal cumulo delle regioni conosciute del
mondo. Un altro ancora è meno comune, in quanto, diciamo
così, politico, ovvero urbano. Un altro è specifico, se vuoi
economico, nel senso che è racchiuso nello spazio domestico.
Un altro è ancora più specifico, poiché formato da quattro o
cinque elementi. Un altro poi è estremamente specifico, poiché
costituito di un unico elemento, atomo ovviamente non in senso
fisico, bensì ai fini della presente arte”16.
Vediamo come vanno intese queste indicazioni:
81
sue cinque estremità degli arti e del capo) o i subiecta
“atomi”, così definiti non in senso fisico, ovviamente, ma
perché formati di un solo elemento. L’idea di utilizzare
stanze ciascuna organizzata in cinque loci come subiectum è
derivata da trattati precedenti, in particolare in quello
anonimo riportato in un manoscritto viennese della metà del
secolo XV che abbiamo preso in esame nel corso della
nostra analisi sui trattati rinascimentali.17
Si prende dunque un subiectum comune e lo si ripartisce
nelle sue parti principali, che, a loro volta, vanno
ulteriormente segmentate in modo da ottenere dei loci
“atomi”, ovvero delle unità indivisibili; tutte queste parti, sia
quelle principali, sia quelle “atome” dovranno essere
percepite senza alcuna esitazione come succedentisi l’una
all’altra, secondo un ordine reale o fittizio; non dovremo
cioè avere dubbi sull’ordine delle stanze in cui abbiamo
ripartito un edificio, né su quello dei loci all’interno di
ciascuna stanza; poco importa se abbiamo aggiunto dei
subiecta artificiali o abbiamo stravolto l’ordine di quelli
reali: l’importante è che l’occhio dell’immaginazione possa
vederli tutti e ordinati come loci reali: “Di qui si proceda
nella suddivisione, così che queste parti [siano] percepite
come confinanti l’una con l’altra e ordinatamente
succedentisi l’una all’altra, in luogo della contiguità vera o
positiva”18. Supponiamo, ad esempio, che vogliate utilizzare
la vostra abitazione come sistema di loci; fisserete dunque un
ordine delle stanze, magari iniziando dalla cucina, per poi
passare al soggiorno, allo studio, al bagno ed infine alla
camera da letto; è ovvio che tale ordine potrà essere del tutto
arbitrario, giacché poco importa che tali stanze siano
realmente disposte secondo questa successione o fra loro
comunicanti: l’importante è che non abbiate alcun dubbio su
questa successione da voi organizzata. Supponiamo poi che
dividiate ognuna delle stanze in dieci subiecta “atomi”, come
direbbe Bruno, segmentandole cioè in dieci luoghi: in
82
b) cucina, ad esempio, il luogo n. 1 potrebbe essere la porta, il
n. 2 il tavolo, il n. 3 il bidone dei rifiuti, il n. 4 il frigorifero,
il n. 5 la finestra, e così via fino al luogo n. 10. A questo
punto, per comodità e rapidità di ordinamento, potreste
decidere di assegnare lo stesso numero di unità, cambiando
ovviamente le decine, ai luoghi simili che si trovano in altre
stanze. Per capirci: la cucina, abbiamo visto, contiene i
luoghi dal n. 1 al n. 10, il soggiorno conterrà quelli dal n. 11
al n. 20, lo studio dal n. 21 al n. 30 e così via. Potrei decidere
che la porta del soggiorno sia il luogo n. 1 del soggiorno
stesso e che quella dello studio sia il luogo n.1 appunto dello
studio, così che tutti i “numeri 1” 1, 11, 21, 31 siano porte;
allo stesso modo tutti i numeri 5 (5, 15, 25, 35, etc.) saranno
finestre. Supponiamo che la mia stanza da bagno sia priva di
finestra: è a questo punto che può entrare in gioco la
creazione artificiale dei luoghi, giacché, invece di assegnare
il n. 35 ad un subiectum diverso dalla solita finestra, non
faccio altro che collocare una finestra immaginaria. Allo
stesso modo, se ho la necessità di aumentare il numero di
loci, posso aumentare con l’immaginazione le stanze della
mia casa; l’unica precauzione da tenere sempre ben presente
consiste nel ripercorrere mentalmente assai spesso i subiecta
fittizi, come ci suggerisce Bruno: “Cosa impedisce infatti
all’immaginazione di far svanire da qui i subiecta vecchi e
sostituirli con altri costruiti da sé? Tuttavia questi non
vengono posseduti con la medesima facilità con cui vengono
formati; ad essi infatti bisogna applicarsi con il pensiero,
tanto da farli diventare così consueti da non differire in nulla
da quelli veri”.19
Questi loci “atomi” vanno ingranditi, allargati, aumentati di
dimensioni fino a farli divenire dell’ordine di grandezza dei
subiecta “più specifici”, ovvero di quelli formati da quattro–
cinque elementi.20 Questa ulteriore trasformazione, a prima
vista priva di senso, necessita di un chiarimento, dal
momento che tanti studiosi ha tratto in inganno. Nella nostra
83
c) ipotetica abitazione, il luogo n. 3 era rappresentato dal
bidone dei rifiuti (spero mi si vorrà perdonare l’utilizzo di un
così poco nobile subiectum); se le immagini di memoria
fossero sempre poche piccole formae, non si porrebbe mai
alcun problema di spazio; disgraziatamente, nella seconda
pratica ci imbatteremo anche in adiecta della seguente
complessità:
84
prima di venticinque elementi, poi di cinquanta, poi ancora di
cento, in modo da procurarti la conoscenza desiderata a poco a
poco grazie all’esercizio, poiché ci si accorgerà benissimo di
come le cose il cui ordine supplisce alla memoria naturale,
grazie ai subiecta per mezzo dei quali sono ordinate e collocate,
si presenteranno in maniera non meno ordinata che se fossero
scritte su una pagina, così da poter andare con la stessa facilità
dalla prima all’ultima e dall’ultima alla prima, e parimenti
invertire a piacere l’ordine di ciò che va ripetuto, grazie
all’evidenza sensibile dei loci”21.
Troviamo qui condensata, in sole due pagine, tutta l’ars
memoriae classica, perlomeno quella di Simonide, della Ad
Herennium, di Cicerone e di Quintiliano. Questa grande
tradizione, questa mirabile pratica tramandata per secoli diviene
nel De umbris null’altro che una premessa, un modo per
verificare la validità delle basi del sistema, un esercizio
preparatorio alle pratiche ben più ardite che stanno per esserci
svelate.
Se ciò è vero, ha ben ragione Ermete, nel dialogo che apre il
De umbris, a domandarsi se questo libro debba davvero essere
pubblicato o piuttosto rimanere per sempre celato nelle
tenebre.22
Ed ha ragione anche Bruno, quando chiede al dedicatario
Enrico
III di Valois di accettare il libro con animo benigno, proteggerlo
con grande favore e – soprattutto – di valutarlo con maturo
giudizio.23
85
NOTE
1. De umbris, 152: “Adest ergo duplicis generis memoria, terminorum videlicet atque
rerum; quorum haec simpliciter admittit necessitatem”.
2. De oratore II, LXXXVIII, 359: “Verborum memoria, quae minus est nobis
necessaria…” e oltre: “Rerum memoria propria est oratoris”.
3. Cfr. qui al cap. 1.2.4.
4. De umbris, 152.
5. Cfr. De umbris, 155: “Qui per primus apparet hanc artem transtulisse a Graecis ad
Latinos, deridet Graecorum quorundam studium verborum imagines conscribere
volentium, atque ita eas sibi parare, ut cum opportunae fuerint, in inquisendo
tempus non consumetur”.
6. Cfr. qui al cap. 1.4.4.
7. De umbris, 155.
8. Ibid. “Atqui nobis non solum possibile sed et facile compertum est posse apparatas
haberi imagines, quibus singulis quibusque locis cuiuscumque generis terminos
integros apponamus”.
9. Ad Herennium III, XXI, 34.
10. De umbris, 172. La frase, quasi uno scioglilingua, significa letteralmente: “Quinto,
Quinto, perché scuoti il quinto quadro?”. Tale frase non si ritrova altrove, né in
raccolte di proverbi, né intesti di grammatica o altro ed è probabilmente inventata
sul momento da Bruno per mostrare un caso-limite nel quale l’applicazione del
principio di riduzione del gruppo QU permette in un solo colpo l’eliminazione di
ben sei lettere.
11. Ibid. 171.
12. Spaccio, 826-827.
13. Per una trattazione più ampia del rapporto tra Bruno e le politica religiosa del suo
tempo si confrontino anche La ruota del tempo di Michele Ciliberto e La cabala
dell’asino di Nuccio Ordine.
14. De umbris, 169.
15. De umbris, 150.
16. Ibid. 108.
17. Cfr. qui al cap. 1.5.1.
18. De umbris, 150.
19. De umbris, 114.
20. Ibid. 150.
21. De umbris, 151.
22. Ibid. 9.
86
23. Ibid. 2.
87
3. MEMORIA VOCUM
3.1. INTRODUZIONE
88
3.2. ALLESTIMENTO DEL SISTEMA
89
subire qualsiasi azione” ce l’ha già detto Bruno nella sezione
dedicata alle caratteristiche degli adiecta : “Alcuni di essi sono
animati e possono quindi aggiungersi come strumenti, agenti,
adiecta adiacenti o effetti; altri sono inanimati e sono di tal fatta
che si aggiungono solamente come strumenti, adiacenti o effetti.
Alcuni di quelli animati sono dotati di ragione e sono perciò
adatti ad agire e a subire qualsiasi cosa, oltre a poter rimanere
neutri (cioè né agire né subire). Altri sono privi di ragione e a
questi – come è ovvio – in generale le parole si addicono
poco”4.
Il senso della frase a questo punto è chiaro: iniziamo ad
esercitarci con delle sillabe, imparando ad averle promptae, cioè
a memorizzarle perfettamente, così da poterle citare in maniera
esatta come se le stessimo leggendo su di una pagina, il che sarà
reso possibile dall’associare ciascuna lettera ad un adiectum
animato dotato di ragione, cioè ad una persona.
90
immagineremo nell’atto di suonare il proprio strumento; se un
vigile urbano, mentre dirige il traffico; se un cuoco, mentre è
intento a preparare un succulento pranzo, e così via.
In base a quale criterio va operata la correlazione? “Non si
richiede necessariamente che la prima lettera del nome
dell’agente o dell’azione sia la stessa che si vuole esprimere:
basta infatti stabilire che entrambi indichino quella determinata
lettera”7. È questa una caratteristica rivoluzionaria che svincola
Bruno dagli alfabeti visivi usati da Romberch, da Rosselli o dal
suo maestro Pietro da Ravenna: la presa di coscienza, cioè, e
l’introduzione sistematica del principio di arbitrarietà e della
soggettività delle associazioni di memoria. La lettera A, per
esempio, ci fa venire in mente il verso “aaaah” che facciamo
quando il dottore esamina la nostra gola. Benissimo: associo la
A a Renato, il mio medico di famiglia, nell’atto di esaminare un
paziente. Tanto l’agente “Renato” quanto l’azione “esaminare
un paziente” saranno sempre collegati alla lettera A. Nulla vieta
di continuare ad usare i vecchi alfabeti visivi o la
corrispondenza della prima lettera del nome proprio con la
lettera da memorizzare: semplicemente Bruno mostra qui
un’altra strada, una ulteriore possibilità per nulla vincolante, ma
con caratteristiche notevoli che non sono state ancora esaminate
a fondo.
91
qualcuno ben definito che compie una sua azione specifica per
ciascuna lettera. L’elenco è presentato con queste parole: “Tu
disporrai e stabilirai nel modo che ti sembrerà più opportuno;
noi intanto rappresentiamo gli agenti e le azioni con immagini
di questo genere”8. Le opinioni degli studiosi riguardo agli
elenchi di immagini del De umbris sono in genere raggruppabili
in due poli, tra loro opposti: da un lato quelli che, sulla scia
della Yates, hanno attribuito alle immagini un valore assoluto,
mistico, astrale, di immagini-archetipe della memoria, senza
però fornire alcuna spiegazione in merito a siffatta
interpretazione o – peggio ancora – perdendosi in
considerazioni estremamente fumose9. Altri, all’opposto, hanno
invece fatto notare come Bruno stesso non desse in fondo
grande importanza agli elenchi di immagini da lui riportati,
soprattutto a quelli della seconda pratica ed hanno perciò
sbrigato in fretta il problema, affermando che, in fin dei conti,
dal momento che la correlazione significante-significato tra
immagini e lettere deve funzionare in modo personale ed
affettivo per ciascuno di noi, evidentemente tali immagini
funzionavano per Bruno e solo per lui; gli elenchi forniti
sarebbero così null’altro che una frettolosa compilazione
realizzata più che altro per completezza o addirittura per
esigenze di carattere tipografico.
Andiamo a vedere in dettaglio l’elenco di Bruno: a sinistra è
riportato l’agens, al centro l’azione specifica, a destra la coppia
di lettere gemelle alle quali agens e azione si riferiscono.
92
Cadmo nella semina dei denti FF
Semele nel parto GG
Eco in Narciso HH
Il nocchiero tirreno in Bacco fanciullo II
Piramo nel pugnale KK
Mineide nel lavoro della lana LL
Perseo nella testa di Medusa MM
Atlante nel cielo NN
Plutone in Proserpina OO
Ciane nello stagno PP
Aracne nella tela QQ
Nettuno nel cavallo RR
Pallade nell’ulivo SS
Giasone nei tori TT
Medea nella pentola di Esone VV
Teseo in Scirone XX
La figlia di Niso nei capelli del padre YY
Dedalo nella costruzione delle ali ZZ
Ercole in Anteo ΨΨ
Orfeo nella lira ΦΦ
Ciconi in Orfeo ΩΩ
Esaco nella caduta ΘΘ
Memnone nel luogo di sepoltura
Arione nei delfini
Glauco nell’erba
93
Tocco10 liquidava brevemente la questione: un arbitrario pot-
pourri di personaggi mitologici, un calderone di eroi dell’antico
mondo greco, che altro poteva offrire il Rinascimento a
Giordano Bruno?
In realtà, a ben guardare, si tratta di una lista per nulla
casuale, giacché esiste un testo nel quale tutti i personaggi
elencati e le loro gesta specifiche sono ordinatamente elencati:
le Metamorfosi di Ovidio.
Cerchiamo ora di rispondere a due domande: perché proprio
la mitologia? E perché, fra tutte le opere a soggetto mitologico
proprio le Metamorfosi?
Se Bruno avesse optato per un insieme di persone comuni
conosciute da lui – e solo da lui – allora l’apposizione di un
elenco completo, come quello da lui riportato, non sarebbe stato
di alcuna utilità né per i suoi lettori contemporanei né, a
maggior ragione, per noi che leggiamo il testo a distanza di
quattro secoli. In un caso del genere non gli sarebbe rimasto
altro da fare se non fornire un paio di esempi al massimo, come
fa Pietro da Ravenna quando ci dice che “al posto di una pulce
ho collocato [più di una volta] il Maestro Gherardo Veronese, il
più valido medico fra tutti quelli del nostro tempo, poiché una
volta lo vidi mentre afferrava una pulce”11. Esempio in sé
ineccepibile, tranne per il fatto che Maestro Gherardo Veronese
è conosciuto solamente da Pietro da Ravenna e probabilmente
lui solo o pochi altri suoi pazienti l’hanno potuto scorgere
nell’atto di afferrare una pulce.
Allora, si potrebbe obiettare, Bruno avrebbe potuto utilizzare
persone in carne ed ossa famose, conosciute da tutti, come il
papa, un re, un principe, e così via, allo scopo di rendere
utilizzabile per tutti i lettori l’elenco fornito. Una scelta del
genere avrebbe però comportato almeno tre inconvenienti:
innanzitutto si potrà anche aver visto una volta il papa, ma è ben
difficile che si abbia una conoscenza diretta di una trentina di
regnanti, il che comporta immediatamente la seconda difficoltà,
94
rappresentata dal fatto che di tali personaggi si sarebbe avuta
una rappresentazione generica, stereotipata, con un investimento
“affettivo” scarso o addirittura nullo; ciò, come ben si intuisce,
avrebbe condotto all’immediata compromissione del rapporto di
corrispondenza univoca tra un singolo agens ed una singola
lettera dell’alfabeto. La terza ed ancora più grave difficoltà
sarebbe sorta al momento dell’introduzione della azione
peculiare dei soggetti; giacché assai probabilmente ci
aspettiamo che tutti i regnanti, fatta eccezione per un qualche
atto eroico o alcune gesta memorabili, facciano più o meno le
stesse cose, compiano cioè le medesime azioni che, nelle
raffigurazioni dell’epoca, si riducono alla buona
amministrazione del regno, a qualche atto pio o alla vittoria di
qualche guerra; a questo punto, quindi, addio correlazione.
Semmai una scelta del genere potrebbe funzionare oggi, nella
nostra cultura globale dei mass-media, magari con l’utilizzo dei
vip dello spettacolo, del cinema o della televisione come
agentes, giacché, grazie alla diffusione dei mezzi di
comunicazione, i loro volti, il loro carattere, la loro vita privata
e le loro “gesta” sono noti a tutti: so benissimo che la sola idea
di utilizzare Mike Buongiorno nell’atto di compiere una delle
sue gaffe al posto, per esempio, di Apollo che lotta con il pitone
fa venire i brividi, però è innegabile che un personaggio di tal
sorta sarebbe conosciuto da qualsiasi lettore contemporaneo di
un trattato di mnemotecnica, di qualsiasi estrazione culturale
egli fosse; inoltre l’azione della gaffe risulterebbe sempre
riferibile con estrema sicurezza a Mike Buongiorno, senza la
benché minima esitazione.
Ma Bruno, bontà sua, la televisione non l’aveva e doveva
scegliere una strada diversa per poter coniugare due esigenze tra
loro complementari anche se opposte, ovvero quella
dell’utilizzo di agentes noti a tutti i lettori e quella della
possibilità che i lettori potessero instaurare con tali agentes un
rapporto di “affettività”, così da sentire le immagini come
95
proprie. Il fatto è che ciascuna delle due condizioni sembra
escludere automaticamente l’altra: se io uso immagini di
persone a me note, queste saranno inutilizzabili per la maggior
parte delle altre persone, a meno che il mio trattato di ars
memorativa non circoli solo tra una ristretta cerchia di amici; se
invece i personaggi sono noti, famosi, conosciuti, essi saranno
sicuramente ritratti in maniera generica e quindi anonima.
La mitologia, a questo punto, offre a Bruno una possibilità
per uscire da questo vicolo cieco.
I personaggi mitologici presentano, a differenza degli altri,
alcuni vantaggi e rispondono a diverse esigenze. Innanzitutto gli
eroi del mito, con le loro gesta, sono conosciuti da tutti, fanno
cioè parte di una memoria collettiva della nostra cultura
occidentale: non esiste lettore colto a cui Orfeo sia sconosciuto
o per il quale l’associazione Orphaeus in lyram possa risultare
incomprensibile. Si tratta quindi di personaggi noti, ma non
solo: per la loro stessa natura sono sicuramente i più “adatti
tanto a fare quanto a subire qualsiasi azione” come raccomanda
Bruno all’inizio della prima pratica12. Solo a loro possono
capitare cose straordinarie, incredibili, fuori dal comune:
Glauco che mangiando l’erba si trasforma in pesce; Aracne
mostruosamente mutata in ragno; Ciane che viene liquefatta in
uno stagno; Eco, di cui rimane solo il suono della voce. Non
azioni normali, quotidiane, dozzinali, ma trasmutazioni
straordinarie, gesta eclatanti ed estremamente varie e
differenziate, in virtù delle quali questi personaggi sono
divenuti famosi e memorabili nei secoli come coloro che hanno
compiuto quella certa azione. Aracne è colei che è stata
trasmutata in ragno da Minerva: tutto il resto scompare, tutte le
altre azioni da lei compiute si perdono: rimane solo la
memorabilità della sua prodigiosa abilità nel tessere. Se l’azione
“esaminare un paziente” potrà essere da me connessa, come
abbiamo visto, al mio medico Renato, tuttavia non è automatico
che ciò possa funzionare anche per gli altri lettori; i denti del
96
drago seminati, invece, verranno correlati da tutti a Cadmo, la
tela farà sempre venire in mente Aracne, le pietre scagliate che
divengono uomini ci faranno sempre associare automaticamente
Deucalione.
Non solo: “esaminare un paziente” è un’azione che possiamo
immaginare senza caricarla di una particolare valenza emotiva,
ma non possiamo non essere smossi dal tragico rapimento di
Proserpina, da Perseo che se ne va in giro con la testa di Medusa
sullo scudo a pietrificare la gente o dalla epica lotta tra Apollo
ed il pitone. Non sono vuote astrazioni o intricati ed aridi
ragionamenti: la nostra immaginazione non può non farci
vedere Aracne alla quale cadono capelli, naso, orecchie, si
rimpiccioliscono la testa e tutte le membra, e le esili ed agili dita
s’attaccano ai fianchi: un’immagine del genere non può non
restare impressa in maniera forte e permanente nella nostra
memoria.
Di tutte le “storie mitologiche” circolanti in Europa alla fine
del XVI secolo, Bruno sceglie di utilizzare le Metamorfosi,
poiché rappresentavano il testo sicuramente più diffuso nel loro
genere, e lo erano fin dal Medioevo, motivo per il quale
avevano avuto ben modo di radicarsi nell’immaginario
collettivo. Inoltre, fra tutti i paesi europei, la Francia era forse
quello che meglio le aveva accolte e diffuse: quale scelta
migliore, quindi, per un’opera da pubblicare nella Parigi nel
1582?
Ma non basta: per il lettore “colto” del tempo (e quale lettore
del De umbris non lo era?) l’elenco di agentes mitologici
presentava un ulteriore vantaggio mnemonico, giacché i
personaggi ovidiani vengono ordinati da Bruno in base alla
medesima successione con la quale si trovano nelle
Metamorfosi, e non vi è alcun dubbio che il lettore del tempo
potesse e dovesse cogliere tale ordine, senza che Bruno senta il
bisogno né di citare la sua fonte, né tanto meno di far notare la
corrispondenza dell’ordinamento.
97
Per fare un esempio a noi più familiare, se Bruno avesse
iniziato la propria carrellata di personaggi con Virgilio e avesse
proseguito con Caronte, Minosse, Francesca da Rimini, Cerbero
e Ciacco, nessun lettore colto contemporaneo faticherebbe a
riferire tale elenco all’Inferno dantesco e la logica successione
di tali personaggi gli fornirebbe un puntello mnemonico in più.
Ma si tratta di un puntello e nulla più: sbaglierebbe chi
ritenesse che tale successione possa funzionare da sola come
riferimento di memoria, che si possa cioè ricavare la
corrispondenza tra Atlante e la lettera N, per il fatto che nel
testo ovidiano Atlante viene dopo Tirreno, Piramo, Mineide e
Perseo: un siffatto ragionamento è troppo lungo e macchinoso
per un sistema mnemonico performativo che abbia la pretesa di
poter funzionare “in tempo reale”. L’ordine può invece dare una
mano, può coadiuvare in alcuni casi particolari; supponiamo ad
esempio di non ricordare a quale lettera sia correlata Semele: ci
ricordiamo però che Cadmo è connesso alla lettera F; sappiamo
pure che Ovidio narra di Cadmo che semina i denti del drago
nel Terzo Libro delle Metamorfosi ai versi 99 e seguenti, mentre
l’inusuale parto di Semele è descritto sempre nel Terzo Libro,
ma più avanti, attorno al verso 300, perciò ne traggo che Semele
significa la lettera G.
Vediamo ora in successione tale corrispondenza tra agentes,
actiones, lettere associate e passi ovidiani:
98
Eco in Narciso HH III, 344
Il nocchiero
in Bacco fanciullo II III, 629
Tirreno
Piramo nel pugnale KK IV, 55
Mineide nel lavoro della lana LL IV, 389
Perseo nella testa di Medusa MM IV, 612
Atlante nel cielo NN IV, 644
Plutone in Proserpina OO V, 385
Ciane nello stagno PP V, 425
Aracne nella tela QQ VI, 1
Nettuno nel cavallo RR VI, 75
Pallade nell’ulivo SS VI, 78
Giasone nei tori TT VII, 100
Medea nella pentola di Esone VV VII, 220
Teseo in Scirone XX VII, 443
La figlia di Niso nei capelli del padre YY VIII, 81
Dedalo nella costruz. delle ali ZZ VIII, 183
Ercole in Anteo ΨΨ IX, 1
Orfeo nella lira ΦΦ X, 1
i Ciconi in Orfeo ΩΩ XI, 1
Esaco nel precipizio ΘΘ XI, 762
Memnone nel luogo di sepoltura XIII, 576
Arione nei delfini 13
Glauco nell’erba XIII, 917
99
– C: questa lettera è raffigurata da Apollo che combatte con
il pitone e la lettera C è quella che più assomiglia ad un
serpente.
– D: la lettera D ricorda nella forma un aratro e, per
associazione, il bovem di Argo.
– O: la O, lo zero, il nulla; quale lettera si poteva riferire
meglio di questa a Plutone, il re degli inferi?
– Q: guardiamola bene: non è molto difforme da un ragno
che tesse la tela; e allora perché non correlarla ad Aracne?
– R: mettiamogli un’ala sulla testa e diventa il cavallo di
Nettuno visto di fianco.
– V: oppure U a seconda dei casi: quale lettera migliore da
effigiare con una pentola?
– Y: immaginate di osservare da dietro una ragazza con i
capelli raccolti in una treccia e diventa chiaro perché
Bruno ha scelto di correlare questa lettera alla figlia di
Niso nei capelli del padre.
– Z: associata per la sua forma all’ala di Dedalo.
– Φ: la somiglianza tra questa lettera e la lira di Orfeo non ha
bisogno di alcun commento.
– : quasi un’icona dell’erba che costrinse Glauco a divenire
abitante del mare14.
Corrispondenze di lettere:
Successioni logiche:
100
– V: la lettera T si riferisce a Giasone; è allora logico
correlare la successiva V a Medea.
– Ω: la precedente lettera Φ si riferisce ad Orfeo; questa
denota i Ciconi, le cui donne riservarono ad Orfeo una
accoglienza per nulla gradevole15.
101
l’importante è che l’azione fosse memorabile. Non discutiamo,
naturalmente, riguardo all’efficacia di messinscena di questo
genere, giacché si tratta di stratagemmi che hanno sempre
funzionato, dalla Ad Herennium ai nostri giorni; vogliamo
invece far semplicemente notare come tali associazioni possano
sempre presentare un piccolo rischio latente, giacché
consistono, a conti fatti, di accostamenti incidentali, artificiali
ed in quanto tali esiste l’eventualità che personaggi ed azioni
possano scambiarsi, mescolarsi, invertirsi nella nostra mente nel
momento in cui andiamo alla ricerca di una precisa
informazione che avevamo in precedenza affidato a loro.
Accostando invece ad un personaggio la propria, peculiare
azione specifica, agens e actio si rafforzano l’un l’altro;
vediamo come, facendo qualche esempio.
Plutone è connesso alla lettera O; ovviamente anche
Proserpina, la fanciulla da lui rapita per farne regina dell’Ade, è
connessa alla stessa lettera. Dal momento che la prima pratica,
come vedremo nel paragrafo dedicato al suo funzionamento,
prevede la rappresentazione di ciascuna delle lettere della
sillaba da memorizzare per mezzo di una di queste liste di
immagini – gli agentes per la prima lettera della sillaba, le
operationes per la seconda – il sistema funziona egregiamente
come un doppio rimando: non importa che io mi ricordi quale
lettera sia rappresentata da Proserpina, dal momento che è
sufficiente che io mi ricordi la connessione tra la lettera O e
Plutone e che vada a ripescare nel mio patrimonio culturale di
uomo occidentale la storia del rapimento di Proserpina, così da
associare immediatamente Proserpina a Plutone e quindi alla
lettera O. Riprendendo il parallelo precedentemente utilizzato
tra Metamorfosi e Inferno dantesco, mentre là si utilizza
l’associazione tra agens ed appropriata operatio, qui si
potrebbe usare quella tra dannato e pena relativa, per cui, se ho
associato la lettera G, ad esempio, a Farinata degli Uberti, la
medesima lettera G sarà connessa alla tomba infuocata, e non
102
mi dovrò preoccupare di memorizzare saldamente questa ultima
connessione, poiché “tomba infuocata” mi farà sempre venire in
mente Farinata e quindi lettera G:
Con questo triplice sistema di rimandi tra agens e lettera,
operatio e lettera, agens ed operatio, si ottiene una compattezza
del sistema incomparabilmente superiore rispetto a qualsiasi
tipo di associazione liberamente lasciata alla discrezione del
lettore, quelle, per capirci, alla Ad Herennium o alla Pietro da
Ravenna. Ma non solo: l’appropriata operatio svolge anche,
come abbiamo visto, il compito di determinare meglio la
raffigurazione del personaggio, che in questo modo non viene
ritratto in maniera statica e quindi mnemonicamente debole. Noi
vediamo Deucalione mentre lancia i sassi e ne sorgono uomini;
vediamo Eco che corteggia disperatamente Narciso, o Esaco che
si lancia a precipizio, inorridiamo alla vista dell’empio
banchetto di Licaone. Ed il principio dell’affettività delle
immagini di memoria è in tal modo pienamente rispettato.
Di più, in virtù di tale azione specifica, noi sappiamo quale
preciso passo delle Metamorfosi utilizzare e, di conseguenza,
come si debbano raffigurare concretamente gli agentes, oltre a
poter essere sempre in grado di ricostruire il loro ordine, la loro
successione. Apollo da solo non mi dice nulla, rimane troppo
vago, giacché si tratta di un dio coinvolto in due metamorfosi,
in una decina di flirts ed in altrettanti miti diversi. Quale è
quello buono? È l’appropriata operatio a suggerirmelo: in
pitonem mi dice chiaramente che si tratta della scena di Met. I,
438 nella quale Apollo uccide il serpente con mille frecce
scoccate dal suo arco, e non, invece, la storia del suo amore con
Coronide che portò alla morte della fanciulla, alla nascita
prematura di Esculapio e a far sì che il corvo, uccello spione,
fosse mutato, da bianco che era, a completamente nero per
punizione del dio; e neppure si può trattare di uno degli altri
passi delle Metamorfosi – e sono più di venti – in cui il dio
svolge un ruolo importante. In questo modo io so anche la storia
103
dell’uccisione del serpente, animale generato dal fango del
diluvio, deve trovarsi subito dopo quella di Deucalione, e
perciò, essendo “Deucalione nei sassi” connesso alla lettera B,
“Apollo nel pitone” mi indicherà senza ombra di dubbio la
seguente lettera C.
Oltre a tutto questo, esiste, secondo noi, un’ulteriore
vantaggio che nessuno ha finora messo in luce.
Tutte le azioni tratte dalle Metamorfosi ed utilizzate da Bruno
per rappresentare le lettere dell’alfabeto sono la causa di una
trasmutazione, di una metamorfosi appunto. Prendiamole in
esame una alla volta:
104
– I: i marinai, tra cui il nocchiero Tirreno, che cercano di
dirottare la nave di Bacco fanciullo sono mutati in pesci.
– K: il sangue di Piramo e Tisbe, entrambi suicidi per un
tragico equivoco, macchia perennemente i frutti del gelso.
– L: i telai delle figlie di Minia che disprezzavano Bacco
sono mutati in tralci di viti carichi di grappoli d’uva.
– M: le gocce di sangue cadute dalla testa di Medusa, posta
da Perseo sul proprio scudo, divengono serpenti.
– N: Atlante, pietrificato da Perseo per mezzo della testa di
Medusa, diviene prima un monte, poi cresce
smisuratamente per volere divino fino a divenire il
basamento del cielo.
– O: Cerere rende completamente sterile la terra dove è
avvenuto il rapimento di Plutone ai danni di Proserpina.
– P: Ciane, struggendosi di lacrime per l’affronto di Plutone,
si liquefà tutta e diviene uno stagno.
– Q: Aracne, a causa della sua abilità nella tessitura, è mutata
in ragno da Giunone.
– R: Nettuno fa balzare fuori un cavallo da una roccia, dopo
averla colpita con il proprio tridente.
– S: la terra, percossa dalla lancia di Pallade, produce una
pallida pianta di ulivo, con tanto di olive.
– T: Giasone rivolta il suolo col vomere trainato da tori
domati, vi semina denti di serpente da cui nascono uomini.
– V: Medea fa ringiovanire Esone con il filtro magico
preparato nella pentola.
– Z: dopo la sventurata esperienza delle ali, il giovanetto
ucciso per invidia da Dedalo è mutato in pernice.
– Ψ: il corno, scelto da Ercole dalla testa di Anteo mutato in
toro, diviene la Cornucopia.
– Φ: al canto di Orfeo si aduna un intero bosco ed anche il
cipresso, un tempo cervo, ora mutato in albero
perennemente al lutto.
– Ω: Bacco trasforma in alberi le donne dei Ciconi, ree della
105
morte di Orfeo.
– Θ: Esaco che cerca la morte lanciandosi ripetutamente dal
precipizio è mutato in smergo, uccello marino.
– : la pira funebre di Memnone crolla: si alzano nere volute
di fumo che divengono uccelli.
– : Bruno parla di Arione, di cui non vi è traccia nelle
Metamorfosi; Rita Sturlese suggerisce che possa trattarsi
delle figlie di Orione; se così fosse si tratterebbe di vergini
suicide, dalle cui ceneri si originano due giovani chiamati
«Corone»; Arione, che col canto attirava i delfini, è invece
citato da Ovidio nei Fasti.
– : Glauco, dopo aver assaggianto un’erba magica, viene
mutato in pesce.
106
al contrario, possa essere scelto a caso in maniera arbitraria. Per
capirci, torniamo all’esempio di Renato, il mio medico di
famiglia, nell’atto di esaminare un paziente: se lo strumento
aggiunto deve essere correlato ad agente e azione, dovrò
mettergli in mano uno stetoscopio, un termometro, oppure un
bisturi, qualcosa, insomma, di peculiare all’esercizio della
professione medica; se invece la correlazione è lasciata a mia
totale discrezione, allora potrò, per esempio, mettergli in testa
un cappello di paglia, non perché sia un attrezzo necessario ad
una visita medica, ma semplicemente perché l’immagine di
Renato che esamina un paziente con in testa questo copricapo
mi colpisce e sono sicuro che, anche quando avrò
eventualmente messo il cappello di paglia in testa a qualche
altro personaggio, a causa, come vedremo, delle esigenze
combinatorie del sistema, potrò sempre ricordarmi
immediatamente come tale oggetto fosse originariamente stato
attribuito appunto a Renato. Giacché so che Renato mi
rappresenta la lettera A, anche il cappello di paglia mi restituirà
sempre alla memoria la lettera A.
Quali indicazioni fornisce Bruno al proposito? “Aggiungi
all’agente ed alla sua azione uno strumento o un contrassegno
distintivo che non si dovrà riferire solamente alla sua azione, ma
che sia tale da poter essere adattato a tutte le azioni o per lo
meno a quelle che possono capitare”17. Non quindi uno
strumento o un oggetto specifico, peculiare, come diceva Felice
Tocco, quando, commentando questo passo, affermava che “a
questi trenta subiecta e relativi adiecta si aggiungono altrettanti
strumenti, che qui […] si intendono nel senso di arma o
qualsiasi altro mezzo, con cui gli eroi compirono le loro opere,
o anche di circostanze che le accompagnarono. Così Licaone,
che invitò Giove allo scellerato convito ha la catena;
Deucalione, le cui pietre scagliate in terra divennero uomini, ha
la benda sacerdotale”18. A parte il fatto che si tratta di
associazioni “logiche” solo nella mente del Tocco, viene da
107
chiedersi come un commento del genere possa essere
compatibile con le istruzioni bruniane appena riportate, che
spiegano senza possibilità di equivoco come si debba utilizzare
qualcosa di arbitrariamente scelto, curando di selezionare un
oggetto che possa essere utilizzato in tutte le operationes che
sono state attribuite ai vari agens. Si badi bene però: non si
tratta di un contrassegno da apporre semplicemente alla
persona, ma di uno strumento che dovrà essere “aggiunto,
attaccato o inserito in una qualche maniera in modo che venga a
turbare o ad aiutare l’azione e sia gettato, rovesciato, rimosso,
districato, distrutto, possa precipitare, cadere o ancora
comportarsi in qualunque altro modo si voglia, in relazione
all’azione che si svolge”19. Quindi, se vogliamo utilizzare un
cappello di paglia come strumento, non lo dovremo
semplicemente immaginare collocato sulla testa dell’agens; al
contrario, ci dovremo raffigurare una situazione nella quale
questo copricapo aiuti l’operaio – magari per il fatto di riparare
gli occhi dal sole accecante – o una, invece, in cui la impedisca,
il che potrebbe avvenire se, essendo tale cappello troppo grande,
esso scivolasse in continuazione sugli occhi dell’agens,
costringendolo così a rallentare il proprio operato, a
interromperlo o, perlomeno, a svolgerlo con maggiore difficoltà.
D’altronde, se Bruno avesse voluto un insieme di oggetti
spedifici, perché non avrebbe dovuto allegare un elenco
completo di essi, così come ha fatto per le operationes? Al
contrario, egli cita solo sei esempi, che sono i seguenti:20
108
F Semele E nel parto F ha una sedia sotto
di sé
3.7. LE RUOTE
109
FIG. 2
110
FIG. 3 – 4
111
carta…” (R. Sturlese)24.
Bruno, però, non parla mai di ruote fisiche, né mai suggerisce
che le caselle in cui sono suddivise le ruote siano i luoghi
deputati ad accogliere le immagini di memoria. Andiamo a
rileggere la parte finale della premessa alla terza ruota: “Le
ruote fisse da osservare con lo sguardo della mente sono fatte
come la seguente”. Con lo sguardo della mente, dice Bruno,
mentis oculo; non si tratta perciò di realizzare concretamente
delle ruote e mettersele davanti agli occhi: quella che ci viene
suggerita è un’astrazione, un modo simbolico grazie al quale
l’apprendista può rappresentarsi da un lato l’associazione tra
l’agens, la sua operatio peculiare e l’instrumentum aggiunto
(Licaone nel banchetto incatenato), dall’altro la triplice
ripetizione di una stessa lettera (AAA). La disposizione a ruote
concentriche favorirà poi la comprensione del principio
combinatorio quando personaggi, azioni e oggetti verranno
mescolati, come vedremo, allo scopo di formare tutte le sillabe
possibili.
Le ruote sono quindi degli schemi, delle rappresentazioni
grafiche di processi mentali di due tipi ben distinti:
112
La nostra ipotesi diviene ancora più plausibile se si considera
come il riferimento più immediato delle ruote bruniane siano
sicuramente quelle dell’Ars combinatoria lulliana25 e delle
pratiche pseudolulliane che su di essa si basano: anche in quei
casi non si tratta di ruote da costruire fisicamente, bensì di
schemi di combinazioni possibili dei concetti degli attributi
divini.
Infine il loro uso da parte del nolano non è, secondo noi,
indice tanto degli influssi lulliani o cabalistici nel De umbris,
quanto della strategia bruniana di utilizzare tecniche e
conoscenze in possesso dei propri lettori, riciclandole ai fini
della propria arte. La Parigi del Cinquecento è il più importante
centro del lullismo in Europa, perciò nessun lettore del De
umbris poteva essere privo del riferimento lulliano delle ruote
utilizzate da Bruno. È una strategia che abbiamo già visto a
proposito delle idee di Pietro da Ravenna e dei trattatisti
rinascimentali e la vedremo ancora all’opera seguitando nella
nostra analisi. Così di Lullo viene presa l’idea della
combinazione raffigurabile per mezzo di elementi posti su
cerchi concentrici. Niente altro. Non importa che le ruote
lulliane fossero divise in nove settori: a noi ne servono trenta,
per rappresentare i trenta elementa (questa volta intesi non più
come elementi, ma come lettere dell’alfabeto). Non importa che
le lettere di Lullo rimandassero ad attributi divini: ciascuna
lettera ora indica solo sé stessa – per mostrare tutte le possibili
combinazioni di una sillaba – e l’agens, l’appropriata operatio
o l’instrumentum a cui tale lettera è correlata, così che ci
possiamo rappresentare tutte le immagini di memoria possibili
per le varie voces. Non interessano i nobili scopi per cui la
combinatori lulliana fu concepita e sviluppata: per noi hanno la
stessa funzione che svolge un pallottoliere per un bambino che
impara le addizioni.
113
3.8. FUNZIONAMENTO DEL SISTEMA COMBINATORIO
114
specifica di un solo personaggio, ora viene condivisa da tutti gli
altri posti sul cerchio, e perciò viene adattata a ciascuno di essi
in base alla particolare sillaba di due lettere che si vuole
formare. Licaone nel banchetto ti restituiva alla memoria due A
identiche, cioè AA, trovandosi la A della ruota interna in
corrispondenza della A della ruota esterna; lo stesso dicasi per
Deucalione nelle pietre, il quale indicava BB. Ora che la ruota
gira avrai coppie di lettere non più gemelle, bensì diverse:
infatti quando la B della ruota interna si trova in corrispondenza
della A della ruota esterna, non hai più Licaone nel banchetto,
bensì Licaone che trasforma i sassi. Deucalione che uccide il
Pitone, Apollo che custodisce la giovenca e così via tutti gli altri
svolgono l’azione di quelli a loro successivi man mano che si
susseguono le altre lettere”28.
Seguendo queste istruzioni, se vogliamo memorizzare la
sillaba CE, non dovremo far altro che rappresentarci Apollo (la
lettera C della prima ruota) che insegue Callisto (la lettera E
della seconda ruota); per la sillaba MA avremo Perseo che
imbandisce il banchetto, e così via. Come abbiamo già visto, se
il lavoro di correlazione è stato svolto diligentemente, non
abbiamo timore che possa originarsi alcun tipo di confusione,
giacché all’atto della decodifica delle immagini, ciascuna
operatio potrà sempre essere rimandata al proprio agens
originale, quando cioè vedrò Apollo che insegue Callisto, non
avrò problemi a ricordare come Callisto, nel racconto ovidiano,
fosse inseguito dal proprio figlio Arcade, e che mi rappresenti
quindi la lettera E.
115
giacché basta fare riferimento alla figura composta dalle tre
ruote concentriche: “Allo stesso modo, lasciando libere di girare
le due ruote interne della [successiva] figura, sarai in grado di
rappresentare qualsiasi sillaba di tre lettere. Così, se con le tre
ruote fisse Licaone in catene nel banchetto ti rappresentava
AAA, ora invece Licaone che fa qualcosa a Medusa con il
segno distintivo di Plutone ti rappresenterà AMO. Arca che fa
qualcosa a Semele ed l’instrumentum di Plutone ti darà EGO.
Medea che fa qualcosa a Tirreno il segno distintivo di Perseo ti
darà VIM. E in questo modo, cambiando in molte combinazioni
le lettere della ruota di mezzo e di quella interna, in relazione a
ciascuna lettera della ruota esterna, potrai formare secondo il
tuo volere qualsiasi sillaba immaginabile di tre lettere”29.
Questo sistema di memoria verborum presenta evidenti punti
di contatto con quello proposto da Pietro da Ravenna30, poiché
anche nella Phoenix vengono combinate immagini di agentes e
di instrumenta nel medesimo locus allo scopo di ottenere la
raffigurazione di una sillaba fino a tre lettere. Ma un bravo
allievo deve sempre superare il proprio maestro e così la
memorizzazione delle sillabe nel De umbris non è limitata a
sole tre lettere, giacché possiamo avere sillabe di quattro, cinque
o addirittura sei lettere. Ci si potrebbe attendere, a questo punto,
l’introduzione di altre ruote allo scopo di denotare le lettere
oltre la terza, ma non è così, dal momento che Bruno aveva
imparato dai manuali di grammatica del tempo che non a tutte le
lettere può capitare di essere aggiunte ad una sillaba
trielementale, ma solo alle lettere S e T in posizione finale
(come MENS e DANT) e alle lettere L, R, N in posizione
intermedia (come nella prima sillaba di TR UNCUS e nella
terza di PERMAGNUS). Alla luce di ciò, il principio di
economia del sistema suggerisce a Bruno di escludere
l’aggiunta di ulteriori ruote per sole cinque lettere e di agire
invece nel seguente modo:
116
– per la S e la T finali “è sufficiente raffigurarsi una
determinata cosa particolare che sia relazionata al
subiectum o all’adiectum secondo una qualche relazione,
così da indicare la S nel primo caso e la T nel secondo”31.
Il medesimo oggetto, quindi, indicherà una delle due lettere
a seconda della propria diversa collocazione
nell’immagine;32
– per indicare la presenza di L, R o N in posizione
intermedia tra lettera adsistens e lettera subsistens della
sillaba “potrai stabilire altre disposizioni, ponendo
accidenti sensibili nel subiectum, congiungendoli ad esso o
ponendoglieli accanto. A tal scopo di solito mi tornava
assai utile un adiectum razionale che mi significava la
terza, la seconda o la prima lettera a seconda che stesse
seduto, appoggiato o ritto”33. L’adiectum razionale è
l’uomo, come si ricava dal passo nel quale Bruno spiega
come “alcuni degli adiecta animati sono dotati di ragione e
sono perciò adatti ad agire e a subire qualsiasi cosa”34.
117
lettere Bruno non né conosce al di fuori di SCROBS che, come
abbiamo già visto35, viene sostituito con SCROΨ, di cinque
lettere, grazie alla somiglianza fonetica.
118
C’è infine il problema della lingua francese con tutte le sue
lettere scritte sulla carta ma omesse nella pronuncia. Delle
considerazioni “diplomatiche” di Bruno su questo idioma
abbiamo già parlato:37 aggiungeremo solamente che, se del
francese consideriamo solamente la pronuncia, esso diviene in
tutto e per tutto omologabile alle altre lingue previste dal De
umbris.
3.9. SVILUPPI
119
L’allievo che si cimenta con l’ars, infatti, non può sapere a
priori quali loci siano più adatti a conservare e restituire in
maniera integra le immagini ad essi affidate, né Bruno può
consigliarlo in tal senso, poiché come ciascuno di noi è
stimolato in maniera diversa da cose diverse, così ognuno
“aggancia” luoghi ed immagini ponendoli in relazione reciproca
secondo modalità personalissime. Solo l’esperienza ottenuta con
un po’ di pratica potrà quindi indicarmi quali caratteristiche
debbano possedere i miei loci per meglio trattenere le immagini
ivi collocate.
Da qui fino alla fine della trattazione della memoria
verborum non si parlerà più di loci: queste che abbiamo preso in
esame sono infatti le ultime prescrizioni riguardo ai subiecta. Se
tiriamo le somme e confrontiamo le indicazioni – e le
preoccupazioni – di Bruno con quelle degli altri trattatisti non
possiamo fare a meno di notare come nel De umbris si ponga di
più l’accento sulle caratteristiche e sulle proprietà dei loci e
assai di meno sul loro aspetto esteriore. In nessun passo ci viene
suggerito l’utilizzo di un edificio, un monastero, una strada,
dell’Inferno o dell’universo, e ciò perché a Bruno non interessa
dove noi collochiamo le nostre immagini, ma unicamente la
certezza che il sistema funzioni. Ci vengono forniti solo una
classificazione della specificità dei loci 40 ed il solito elenco
delle loro caratteristiche funzionali (grandezza, luminosità,
etc.),41 ma neppure una parola sul loro aspetto concreto o la loro
organizzazione. Se da un lato ciò significa che al lettore è
lasciata molta più discrezionalità nella scelta e nella costruzione
dei loci, dall’altro dobbiamo concludere che il lettore a cui si
rivolge Bruno doveva essere già piuttosto avvezzo all’ars
memoriae per poter fare a meno di tutte le indicazioni e gli
esempi concreti di cui abbondano invece tanti altri trattati che si
rivolgono invece ad un pubblico più profano.
Doveva inoltre trattarsi di un lettore sensibile ai nuovi
indirizzi pedagogici del ramismo, perché in almeno due punti
120
Bruno ci mette in guardia dalla pericolosa iconoclastia delle
immagini di memoria operata da “l’arcipedante di Francia”,
come verrà chiamato Pietro Ramo. Innanzitutto nel dialogo che
apre il De umbris, dove Ermete e Filotimo devono mettere a
tacere le obiezioni del pedante Logifer42 circa l’inutilità delle
artes di memoria; successivamente quando ci viene
raccomandato di “guardarsi dall’affidarsi, credendo di ricordare
un subiectum, più alla memoria naturale che alla visione
dell’immagine; dalla mancata osservazione di ciò accade infatti
che si creda di immaginare un subiectum e di considerarlo come
se fosse figurato, quando invece ciò non avviene affatto. Un
conto è formare subiecta, tutt’altra cosa è scrivere come quando
si è al buio o sotto una coltre”43. La mancanza di immagini,
tipica del pensiero logico e astratto auspicato da Ramo, è come
se ci privasse del senso della vista e proprio questa necessità che
spinge Bruno a spiegare la differenza tra il pensare per
immagini ed il pensare astratto – necessità di cui non si trova
traccia nei trattati precedenti – è indice del mutamento delle
forme mentali che stava avvenendo nel XVI secolo in maniera
lenta ma inesorabile. E col passare del tempo le preoccupazioni
del nolano si sono rivelate più che fondate: ancora oggi la nostra
scuola è più debitrice alla pedagogia ramista e ai dubbi di
Quintiliano che non alle immagini di Bruno ed ai precetti
dell’Ad Herennium : quali insegnanti infatti, oltre a far capire, si
preoccupano anche di far memorizzare? Pochissimi. E quanti di
questi utilizzano coscientemente una tecnica di memoria e ne
mostrano le possibilità ai propri alunni? Nessuno. Gli unici
consigli che vengono dati sporadicamente consistono nella
frequente ripetizione (quella dei trattati medioevali), nella
memorizzazione visiva della pagina (come suggeriva
Quintiliano) o, al massimo, nella suddivisione dell’argomento in
concetti principali e sotto-concetti ad essi correlati, tipica del
metodo ramista.
121
3.9.2. … AESOPUM ET CIMBRUM SUBORNARI…
Nessun termine potrebbe rendere l’idea della trasformazione
che Bruno sta per operare sugli adiecta meglio di multiplicatio
poiché non basta infatti aumentare il numero dei loci: bisogna
pure “moltiplicare” gli adiecta. Abbiamo visto44 come
l’inconveniente maggiore degli alfabeti visivi consista nel
collocare e ricollocare sempre le stesse immagini, con il
conseguente rischio di confusione; anche la prima praxis del
nolano, nonostante la sua maggiore organicità e raffinatezza
rispetto ai sistemi di Romberch e colleghi, offre il fianco a
questo rischio. Bruno ne è consapevole e corre immediatamente
ai ripari: “Aumentare senza limiti l’aggiunta di parole può
avvenire in maniera poco agevole se si ricollocano sempre più
spesso gli stessi adiecta alla stessa maniera, dal momento che
per la scrittura interna è richiesta una varietà che non serve
affatto per quella esterna, come sanno bene coloro che si
esercitano in questa pratica. E allora? Come prima avevi un
Licaone, un Deucalione, etc. adesso immaginati due Licaoni,
due Deucalioni e così via in modo che dove prima ne avevi
trenta, ora se ne presentino sessanta. Se li triplichi ne avrai
novanta, se li quadruplichi centoventi. Tutti quelli di cui hai
potuto sperimentare con certezza l’efficacia sulla tua
immaginazione vanno ridotti al numero dei trenta nomi
principali. Nulla infatti impedisce che abbiano un nome proprio
diverso dal loro. Infatti a Filoteo rimarrà sempre addosso il
carattere del nome di Deucalione se anche solo una volta è stato
annoverato nel numero di quelli che lanciano sassi”45.
Ciascun agens può quindi essere “impersonato” da un nostro
amico o conoscente; possiamo inoltre avere più di un
“interprete” per ognuno degli agentes. Cosa ci fa venire in
mente questa regola di dare un volto familiare ad un
personaggio mitologico? A ben guardare non è altro che la
122
riedizione dello stratagemma utilizzato dall’autore dell’Ad
Herennium quando fa vestire i panni di Agamennone e Menelao
agli attori Esopo e Cimbro, con la notevole differenza che qui
non si tratta più di un trucco, bensì di una tecnica applicata in
maniera sistematica. E i vantaggi che ne derivano sono diversi e
consistenti:
123
con cui abbiamo un rapporto di conoscenza diretta non può
fare altro che migliorare la qualità affettiva dell’immagine.
Anche l’ultimo pericolo connesso all’utilizzo dei miti delle
Metamorfosi viene eliminato: Medea, Glauco, Orfeo, per
quanto fortemente caratterizzati relativamente alla loro
personalità e all’azione specifica, rischiavano tuttavia una
rappresentazione stereotipata soprattutto per quanto
riguarda le fattezze del volto, o, peggio ancora, potevano
diventare dei “busti senza testa” essendo privi di tratti
somatici precisi e definiti quali possono essere quelli di
una persona in carne ed ossa di nostra conoscenza; ora
invece, grazie a questo “innesto”, da un lato aumenta in
maniera drastica il realismo della scena, perché ad un volto
noto possiamo applicare anche tutta una serie di
espressioni mimico-facciali, dall’altro migliora
notevolmente il nostro rapporto affettivo con l’immagine
nel suo complesso, poiché assistere ad una scena compiuta
da nostra moglie o dal nostro datore di lavoro è
sicuramente più coinvolgente per noi rispetto al vedere
agire gli eroi del mito, personaggi sicuramente
importantissimi, ma con i quali, in genere, non siamo in
rapporti molto intimi…
124
Infine, per usare le parole con le quali Bruno chiude la prima
praxis, “si può comprendere meglio il valore di questa scoperta
applicandola ad altre cose, piuttosto che osservandola da
fuori”:46 se la sostituzione delle immagini, per quanto
importante e di fruttuosa applicazione, rimane un principio
“accessorio” della memoria vocum, la successiva memoria
terminorum, al contrario, non sarebbe neppure immaginabile
senza di essa.
125
sempre più preciso rispetto a quanto potrebbe mai fare il puro
pensiero di una persona non abituata anche se fosse
diligentissima nel dominare e controllare le singole parti ed ogni
elemento. Un citaredo virtuoso è in grado di suonare alla
perfezione senza pensare grazie alla sola abitudine; un altro,
magari dotato dello stesso tocco del primo, ma privo della sua
abitudine, sarà tanto più goffo nell’esecuzione, quanto più
rifletterà su ciò che deve fare. Ormai abbiamo parlato a
sufficienza della forza dell’abitudine ed è abbastanza chiaro
come l’acqua lieve sia capace di scavare anche il duro marmo
ed il ferro”47.
126
NOTE
1. De umbris, 156.
2. G. La Porta, Le ombre delle idee, 138.
3. M. Maddamma, L’arte della memoria, 137.
4. De umbris, 123.
5. Ibid. 157.
6. Cfr. qui al paragrafo 2.2.1.
7. De umbris, 159.
8. De umbris, 159.
9. Si confronti a tal riguardo la traduzione realizzata da Gabriele La Porta per le
edizioni Atanor in Le Ombre delle idee, cit.
10. F. Tocco: Le opere latine di Giordano Bruno, 55.
11. Foenix, B1 r.
12. De umbris, 156.
13. Per l’assenza di riferimento vedi più avanti al cap. 3.5.
14. Cfr. Ovidio, Metamorfosi, XIII 906-segg.
15. Metamorfosi, XI 1-segg.
16. De umbris, 161.
17. Ibid.
18. F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno, 55.
19. De umbris, 163.
20. Ibid. 162.
21. Ibid. 164.
22. Ibid. 162.
23. F.A. Yates, L’arte della memoria, 195.
24. Rita Sturlese, De umbris idearum, Introduzione LXIV.
25. Cfr. al cap. 1.5.2.
26. De umbris, 165.
27. Ibid.
28. Ibid. 166.
29 Ibid. 167.
30 Cfr. qui al cap. 1.4.4.
31. De umbris, 168.
32. Non riusciamo a capire come possa Manuela Maddamma interpretare questo passo
nel senso dell’utilizzo di due diversi accidenti per le lettere S e T. Citiamo
testualmente: “Gli elementi in questione potranno essere accidenti o collaterali: ad
esempio, volendo comporre la parola DANT, le tre lettere DAN saranno rese con
127
l’immagine di Argo nel convivio bendato, mentre per significare la lettera T
potremmo assegnare ad Argo un determinato accidente (lo potremmo immaginare
inginocchiato) o un certo elemento collaterale (come un uccello posato sul suo
capo). Un elemento differente sarà evidentemente (!) scelto per significare la
lettera S e tutte le altre di questo tipo”. M. Maddamma, L’arte della memoria, cit.
p. 149 n°16.
33. De umbris, 169.
34. Ibid. 123.
35. Cfr. qui al cap. 2.3.
36. De umbris, 169.
37. Cfr. qui al cap. 2.4.
38. De umbris, 173.
39. Ibid.
40. Ibid. 108.
41. Ibid. 111.
42. Ibid. 9-15.
43. Ibid. 113.
44. Cfr. qui il cap. 2.1.
45. De umbris, 173.
46. De umbris, 173.
47. Ibid. 115.
128
4. MEMORIA TERMINORUM
4.1. INTRODUZIONE
129
“personalmente” per essere in grado di smuovere in maniera
efficace la nostra memoria; per finire, va anche considerato
come un vocabolario del genere, oltre a tutti questi problemi,
sarebbe continuamente da aggiornare, giacché la lingua è in
costante ed incessante evoluzione.
La strada seguita dalla secunda praxis non sarà ovviamente
quella del vocabolario, ma, ricalcando le orme di Pietro da
Ravenna e della prima praxis permetterà l’allestimento di un
sistema combinatorio basato su immagini di agentes e immagini
di azioni, oggetti, coagenti e determinazioni circostanti connessi
a questi agentes. La prima praxis, infatti, utilizzando
un’immagine per ciascuna lettera, si ferma alla raffigurazione
delle sillabe di tre lettere e, con qualche trucco grammaticale,
può giungere fino a cinque-sei lettere; la Phoenix, pur
fermandosi alle tre lettere, aveva introdotto un principio
interessante, ovvero la possibilità di rappresentare più di una
lettera con la stessa immagine: Raimondo che percuote il locus
con un bastone indica infatti la sillaba bar.2 Prendendo spunto
da ciò, Bruno ora associa ciascuna immagine non più ad una
singola lettera bensì ad una sillaba bielementale, formata cioè da
due lettere, e fornisce delle regole per combinare le immagini
allo scopo, appunto, di effigiare tutte le sillabe di cui possono
essere composte le varie parole. Se la prima praxis prevedeva la
combinazione di tre lettere, più alcune eventuali determinazioni
accessorie per giungere fino a cinque lettere, ora la secunda
praxis, utilizzando agentes, azioni, oggetti, co-agenti e
determinazioni circostanti, ciascuno dei quali indica una sillaba
bielementale, è in grado di rappresentare compiutamente parole
fino a cinque sillabe; sono pure previste, come vedremo, delle
determinazioni accessorie per invertire l’ordine delle lettere
nella sillaba (AT invece di TA) o per indicare la presenza e la
collocazione di lettere eccedenti la ripartizione bielementale
delle sillabe, giacché non tutte le parole sono formate da sillabe
di due lettere (come BARILE) ma possono presentare sillabe di
130
tre lettere, quattro o oltre (come GROTTESCO). Per tutti questi
casi Bruno fornisce delle regole basandosi, esattamente come
nella prima praxis, sulla grammatica latina così come era
trattata nei manuali dell’epoca.
Cercheremo quindi di capire quali siano le regole e i principi
bruniani e come vadano utilizzati affinché il sistema possa
funzionare in maniera veloce ed efficiente. Prima di procedere
però con l’esposizione della nostra interpretazione della
secunda praxis prenderemo in esame qualcuna delle ipotesi
formulate al riguardo ad opera di alcuni dei più noti studiosi di
Bruno, ovvero Felice Tocco, Frances Amelia Yates, Rita
Sturlese, Ubaldo Nicola e Manuela Maddamma.
131
rispondenza nel latino”4. Invece delle ruote lulliane ampliate a
trenta caselle per poter accogliere le lettere dell’alfabeto
poliglotto con il quale rappresentare tutte le parole
pronunciabili, Tocco, invertendo cause ed effetti del sistema,
interpreta il ricorso a lettere esotiche come mezzo per poter
fissare su una ruota trenta predicati pseudolulliani! Salvo poi
rettificare, poche righe più sotto, che “il nostro Autore torce
l’arte del Lullo ad uno scopo affatto nuovo […] un artifizio
mnemonico simile a quello che da Cornifico in poi tutti i
trattatisti solevano adoperare”5.
Questa confusione tra scopi e mezzi delle pratiche bruniane
rimane costante per tutta la trattazione; più avanti, ad esempio,
commentando la prima praxis laddove si parla delle sillabe
formate da più di tre lettere, il Tocco parte molto bene: “Se non
che v’ha delle sillabe risultanti da più di quattro elementi, ma
non per questo occorre una quarta ruota, ovvero una quarta serie
d’immagini, perché in cosiffatte sillabe le lettere finali non sono
molto differenti”. Ma poi prosegue: “Se poi occorrano sillabe di
cinque lettere, è facile ottenerle aggiungendo le medie l, n, r alle
finali s, t”6. Purtroppo non siamo noi ad aver bisogno di sillabe
da cinque lettere, giacché ci imbattiamo in esse durante il
processo di memorizzazione delle voces e la nostra
preoccupazione è semmai quella di riuscire a trovare delle
immagini adatte per rappresentarle in maniera completa e
organica.
Comunque, nonostante tutti i fraintendimenti, Tocco
comprende il funzionamento della prima praxis poiché
prosegue spiegando che “per ottenere una rappresentazione
reale di questi elementi aggiunti” ovvero le lettere l, n, r
intermedie oppure s, t finali “basterà dunque ricorrere a qualche
accidente o circostanza che accompagni l’azione dei subjecta”7.
Da qui, però, prosegue saltando immediatamente quanto
inspiegabilmente alla secunda praxis, esaurendone la trattazione
132
in meno di dieci righe: “Ai subjecta, adjecta, e instrumenta,
aggiungiamo ora questi altri elementi (adstantia et
circumstantia), ed avremo tutto l’occorrente perché ogni parola
possa essere ricordata in funzione dell’analoga combinazione
reale. Gli ad stantia e circumstantia non sono più di cinque,
perché tre sono le lettere intermedie e due le finali, e quindi
possono essere rappresentati benissimo dalle cinque vocali
minuscole a, e, i, o, u. Combinando i trenta elementi già
conosciuti con questi cinque nuovi, si hanno centocinquanta
punti di ricordo. Non occorre diffonderci più oltre in quest’arte
mnemonica, della quale è più che bastevole di aver data la
chiave”8.
Delle sillabe nessuna traccia: sembra che l’unico
ampliamento concesso alla prima praxis quando essa sfocia
nella secunda consista nel poter articolare ognuno dei trenta
elementi per mezzo delle cinque lettere (l, r, n, s, t) a loro volta
rappresentate dalle cinque vocali (!) in modo da ricavare
centocinquanta punti di ricordo. Le cinque vocali sarebbero
dunque introdotte da Bruno per indicare cinque consonanti?
Quindi le combinazioni AA, AE, AI, AO, AU andrebbero intese
nel senso di AL, AR, AN, AS, ATI O forse che il Tocco intenda
tutto il sistema come una memoria rerum, visto che parla di
punti di ricordo rappresentabili da combinazioni di lettere?
Viene piuttosto il sospetto che la frettolosa conclusione non
sia altro che la maniera più elegante a disposizione del Tocco
per non dover tirare fino in fondo le fila del proprio
ragionamento, prima che le contraddizioni che ne sono alla base
finiscano coll’incrinarne definitivamente la credibilità.
133
artes memoriae compiuta da Frances Amelia Yates nel suo
L’arte della memoria ed entrambi sono dei tentativi di
ricostruzione: uno di essi riguarda la struttura originaria del
Globe Theatre, l’altro la secunda praxis del De umbris.
A tal riguardo, la prima operazione svolta dalla Yates
consiste nel prendere i cinque elenchi bruniani delle immagini
della secunda praxis e di riportarli su cinque ruote concentriche:
tale azione, per quanto apparentemente in linea con le idee di
Bruno, risulta invece essere piuttosto maldestra all’atto pratico
per tutta una serie di motivi:
134
all’interno delle caselle delle ruote.
135
cielo con tutti i suoi movimenti e i suoi influssi, per mezzo di
immagini magiche, era davvero in possesso di un «segreto» che
valeva la pena di conoscere! […] Adattando o manipolando o
utilizzando le immagini astrali si manipolano forme che sono a
un livello più prossimo alla realtà che non gli oggetti del mondo
inferiore. […] Come funzionava il sistema? Per magia,
naturalmente; perché basato sulla sede centrale di potenza dei
«sigilli», […] ma non basta dire vagamente che le ruote della
memoria funzionavano per magia. Era una magia portata ad un
grado altissimo di sistematicità”13.
Nessun tentativo di ricostruzione può essere svolto con
sussesso attenendosi a premesse di questo genere che, derivando
dalla scuola di pensiero dell’Istituto Warburg, pongono più
l’accento sui riferimenti iconici delle immagini utilizzate
rispetto alla effettiva funzionalità del sistema e della sua
struttura combinatoria. Ciò di cui la Yates non si accorge è che
le immagini, al pari delle tecniche, vengono ri-utilizzate,
riciclate da Bruno per fini affatto nuovi e che, quindi, ciò che
importa per lui non è tanto il valore simbolico o “occultistico”
quanto la certezza che tali immagini appartenessero ad un
repertorio conosciuto dai propri lettori, con il quale essi
potessero avere un rapporto di dimestichezza e familiarità. Così
se per certi aspetti, connessi soprattutto alle tematiche del
lullismo ed al risveglio dell’interesse attorno al Bruno
“mnemonista” ed il suo rapporto con la tradizione precedente,
l’importanza del lavoro della Yates rimane indiscutibile, tuttavia
nessun aiuto ci può venire dalle sue indicazioni se abbiamo
intenzione di capire come utilizzare il sistema per concreti fini
memorativi. E ciò per un motivo assai semplice, poiché la
Yates, per sua stessa ammissione, non ha mai provato in tutta la
sua vita a sperimentare in prima persona l’utilizzo di una delle
tecniche di memoria di cui con tanto calore tratta nei propri
scritti.14
136
4.2.3. RITA STURLESE
La gratitudine dello studioso di Bruno verso Rita Sturlese
dovrebbe essere già immensa per il solo fatto di aver reso
possibile per la prima volta la pubblicazione, nel 1991, del De
umbris in una edizione critica degna di tale nome; di più, le
siamo ulteriormente in debito per almeno altre due ragioni,
ovvero per l’enorme lavoro di collazione degli esemplari della
editio princeps del De umbris, lavoro che non ha precedenti, e
soprattutto per la corposa ed esauriente Introduzione premessa
al testo bruniano, poiché in essa, per la prima volta, ci viene
mostrato abbastanza in dettaglio – e soprattutto in maniera
concreta e plausibile, senza fumosità e con tanto di esempi – il
funzionamento della secunda praxis.
Muovendo dall’assunto che il congegno bruniano sia
preposto alla memorizzazione di parole, in particolare di parole
in lingue straniere, la Sturlese prende dunque i cinque elenchi di
centocinquanta immagini ciascuno (agentes, azioni, oggetti, co-
agenti e determinazioni circostanti) ma, contrariamente alla
Yates, non segue la strada della collocazione sulle ruote, poiché
“È assai più semplice riportare i contenuti delle centocinquanta
caselle di ciascuna ruota lungo cinque strisce di carta divise
ciascuna per la lunghezza in centocinquanta quadrati, non
dimenticando di riportare in ciascun quadrato, oltre
all’immagine, la sillaba corrispondente. Facendo scorrere le
cinque strisce verso destra o sinistra sarà facile trovare le
immagini corrispondenti alla parola che si desidera
codificare”15.
Viene poi riportata, a mo’ di esempio, una “sezione” di
queste cinque strisce mobili di carta; quello che balza subito agli
occhi è che le ruote dell’esempio non sono ordinate
verticalmente, come avviene costantemente nell’esposizione di
Bruno, il quale inizia sempre la propria trattazione mostrandoci
137
il sistema prima “a ruote fisse” e successivamente mettendolo in
moto. La Sturlese parte invece con tutte le ruote già messe in
movimento, poiché si tratta di un esempio che, come vedremo,
ha lo scopo di mostrare in modo concreto il processo di
memorizzazione di una particolare parola:
138
a cavallo di un’idra dalle molte teste.
La Sturlese ci dice anche che per una parola con meno di
cinque sillabe andremo ad utilizzare solo le prime ruote,
tralasciando le ultime, e mostra altresì il modo con cui Bruno
indica le lettere che eccedono la ripartizione bielementale,
tecnica di cui non parliamo ora, giacché ne tratteremo più
avanti, nel corso dell’esposizione della nostra interpretazione
del sistema.
C’è però un aspetto in cui l’esposizione della studiosa si trova
in una impasse, ovvero riguardo alla spiegazione della
strutturazione e della codifica delle associazioni tra le varie
immagini, di cui non si fa cenno nell’Introduzione: “Processi di
codifica non erano rari nei trattati di mnemotecnica del tempo
(Romberch, Rosselli), anzi costituivano la base degli ordinari
espedienti di memorizzazione delle parole. Tali espedienti
tuttavia si differenziavano in modo radicale dal sistema
bruniano: mentre infatti i primi si basavano su una relazione di
similarità, visiva o fonetica, tra espressione e contenuto […]
Bruno, al contrario, abbandona questo tipo di relazione iconica
tra gli elementi dei due piani. Le 750 unità di espressione […]
non hanno alcuna relazione di similarità con il proprio denotato,
sono originati dalla creatività infinita della «ratio/phantasia» ed
acquistano una funzione significante sia in virtù della libertà
della fantasia stessa, sia in virtù di trovarsi in un sistema che
organizza simboli”17.
Siamo d’accordo sia con le considerazioni sull’affrancamento
dei simboli dai vincoli della somiglianza fonetica e iconica, sia
con le osservazioni sulla funzione organizzatrice del sistema,
ma nulla ci viene suggerito riguardo alla effettiva correlazione
tra immagini e valore sillabico, in nome di una generica
“arbitrarietà”. Forse che in nome di questa arbitrarietà Bruno,
dopo la prima pratica che consiste di trenta associazioni tra
lettere e agentes alle quali sono incorporati operationes e
139
instrumenta, lasci davvero ora al lettore l’arduo compito di
memorizzare settecentocinquanta correlazioni distinte,
apparentemente prive del benché minimo nesso tra loro? Mi si
dirà, ad esempio, che se l’elenco degli agentes della prima
pratica era ordinato ricalcando le Metamorfosi di Ovidio, ora i
centocinquanta agentes della seconda pratica e le actiones ad
essi assimilate si rifanno al De rerum inventoribus di Polidoro
Virgilio e l’elenco delle circumstantia segue l’ordine dei segni
zodiacali, dei pianeti e delle posizioni lunari, ma da un lato non
è pensabile, come abbiamo già dimostrato,18 che la semplice
successione possa funzionare da sola in maniera veloce ed
efficiente come correlazione, giacché, se voglio utilizzare il
sistema in tempo reale, non posso aver bisogno di scorrere
l’intero elenco o buona parte di esso per ritrovare il nesso tra
un’immagine ed una sillaba; dall’altro insigna e adstantes non
seguono alcun tipo di successione e perciò ci ritroviamo
esattamente al punto di partenza.
La Sturlese dunque ci fa vedere il sistema già all’opera,
dando per consolidata la memorizzazione delle
settecentocinquanta correlazioni, ma chi ha provato anche solo
un poco a fissare delle liste sa bene che elenchi di questo genere
possono sicuramente essere memorizzati, ma ben difficilmente
utilizzati in maniera “istantanea” come richiede invece la prassi
bruniana. Per poter comprendere invece come strutturare tutta
questa mole di simboli avremo bisogno di riconsiderare tutto il
sistema “a ruote ferme”, poiché quando viene introdotto il
movimento è troppo tardi per potersi occupare di correlazioni.
140
post-fazione ai Diagrammi Ermetici.19 Di fronte
all’organizzazione dei sistemi delle due pratiche del De umbris
su base trenta, il Nicola non trova di meglio che associare Bruno
al mnemonista Serasevskij,20 giungendo grossolanamente alla
conclusione che, mentre “l’estensione normale della nostra
memoria oscilla attorno ai sette elementi, si può
ragionevolmente dire che Bruno aveva uno span quattro volte
superiore alla normalità, ragionava, per così dire, «su base
trenta», costruendo schemi e processi mentali con un numero di
variabili assolutamente sproporzionato per i limiti oggettivi di
una psiche normale”21. L’assurdità di una tale interpretazione è
paragonabile solamente al dilettantismo del Nicola per quanto
riguarda le tematiche di psicologia cognitiva, poiché la cifra di
“sette elementi più o meno due” riguarda la misurazione delle
capacità di memoria a breve termine e non “l’estensione
personale della memoria”, come la definisce lui. Da questo
punto di vista il sistema di Bruno funziona semmai su base
cinque, essendo cinque gli elementi – uno per ruota – da
combinare contemporaneamente in una immagine per una
parola di cinque sillabe, e per questo non si pone come un
metodo esoterico ed ultracomplesso utilizzabile solo dal proprio
autore, bensì come una tecnica adottabile anche da quelle
persone, meno dotate dalla natura, che riescono a manipolare
solo cinque elementi alla volta. Inoltre perché Bruno avrebbe
dovuto spendere tante energie per divulgare un metodo che
funzionasse solamente per lui? E come sarebbe stato possibile
che il re di Francia potesse comprendere le tecniche di Bruno ed
utilizzarle se queste fossero davvero state così difficili e
complicate?
In realtà, come al solito, quando un sistema non viene
compreso ci si rifugia dietro all’occultismo oppure ci si appella
alla assoluta straordinarietà del proprio autore, come se la teoria
della relatività, per il fatto stesso di essere stata concepita da una
141
persona geniale fosse impossibile da comprendere per i comuni
mortali…
142
prima, domandandosi poi il perché di questa inutile
ripetizione:24 in realtà la ruota più esterna indica i vessilli e le
altre sei interne, come vedremo,25 vanno considerate assieme.
Purtroppo anche la Maddamma, al pari dei suoi predecessori,
non commenta le caratteristiche più importanti dei metodi
bruniani per il semplice fatto di non averle mai seriamente
sperimentate su sé stessa.
Ognuna delle interpretazioni fin qui esaminate presenta almeno due punti in
comune con le altre, nel senso che nessuna di esse parte dalla semplice
constatazione che il sistema, complesso e macchinoso quanto si vuole, deve
comunque essere in grado di funzionare all’atto pratico, né alcuna di esse
spiega come possa riuscire l’allievo a fissare nella memoria le
settecentocinquanta immagini previste da Bruno e a destreggiarsi con esse.
143
notizia da ricordare, metterselo in tasca, ed estrarlo nel
momento in cui se ne presentasse il bisogno.
Il nostro tentativo di interpretazione terrà invece come punto
fermo l’idea che la secunda praxis esposta dal nolano dovesse
risultare di agevole comprensione per i lettori contemporanei e
che il sistema di memoria verborum ivi descritto apparisse
pienamente utilizzabile con una ragionevole facilità dopo il
necessario periodo di allenamento. Inoltre, come ogni artificio
mnemonico che si rispetti, non dovrà avere bisogno di
appoggiarsi a tabelle o liste scritte né durante la codifica di una
parola, né tantomeno durante la sua decodifica, poiché
l’associazione tra verba e imagines deve risultare un fatto
pienamente acquisito quando si comincia a mettere in pratica il
sistema.
144
parole complete…”. In questa fase c’è quel breve inciso,
evidenziato in corsivo, che fino ad ora è sfuggito o comunque
non è stato compreso fino in fondo: la seconda pratica è una
evoluzione della prima quando questa è in fase avanzata. Perché
la prima pratica possa considerarsi in fase avanzata sono
necessarie, come abbiamo visto,26 alcune condizioni, e
precisamente:
145
Seguendo la regola della multiplicatio degli adiecta farò
impersonare il ruolo di Perseo (che è appunto l’agens
mitologico per la lettera M) a due o tre miei amici, e per
ottenere ciò dovrò innanzitutto fissare visivamente ciascuno di
essi nell’atto di andare a spasso per la città pietrificando le
persone con la testa di Medusa (essendo in caput Medusae
l’appropriata operatio di Perseo); e volendo, in questa fase,
potremmo anche aggiungere loro l’instrumentum di Perseo:
Bruno non lo prevede, ritenendo sufficiente la connessione tra
attore e operatio, ma di sicuro un nesso in più non farà altro che
rafforzare ulteriormente i rimandi reciproci. Solo quando queste
correlazioni saranno ben impresse nella mia mente potrò “far
girare le ruote” utilizzando i miei amici in relazione a diverse
operationes e a differenti instrumenta senza il timore di perdere
le associazioni originali.
Questa è quella che Bruno intende per “prima pratica in fase
avanzata”: ciò che di essa ci interessa, ai fini della seconda
pratica, è solamente la connessione tra gli attori aggiunti da noi
e le lettere dell’alfabeto, poiché, come vedremo, agentes,
operationes, e instrumenta della prima pratica verranno lasciati
cadere e saranno sostituiti con altre determinazioni più adatte
alle nuove esigenze. L’appropriata operatio, infatti, mi è utile
solo nel momento in cui voglio associare un attore a Perseo:
dopo aver ottenuto l’associazione, essa non mi serve più ed il
riferimento tra attore e lettera dell’alfabeto diviene automatico,
come suggerisce anche Bruno: “A Filoteo rimarrà sempre
addosso il carattere del nome di Deucalione se anche solo una
volta è stato annoverato nel numero di quelli che lanciano
sassi”27.
146
Gli attori da noi dislocati sono dunque il punto di partenza per la
seconda pratica. Proseguiamo, attenendoci sempre alle
istruzioni del testo: “Grazie a quanto abbiamo detto riguardo
all’estensione grafica abbiamo ottenuto dei nomi
conosciutissimi, giacché ciò giova appunto a quella varietà che
è assolutamente necessaria in questa arte, e ricondurrai alcuni
nomi principali ed utilizzati con maggiore frequenza, tra quelli
che è tua cura aggiungere, come centurie al riparo e sotto l’ala
dei trenta vessilli”28.
Il fatto di utilizzare un gergo militare per designare le trenta
lettere come “trenta vessilli” può rendere l’idea del carattere di
dispiegamento di forze e mezzi che il Bruno sta per compiere.
Tra l’altro, non c’è alcun tipo di forzatura nell’introduzione di
questa metafora, poiché quelli che abbiamo tradotto come
“nomi principali” nel testo latino sono indicati come
principalia: i principes nell’esercito romano erano i soldati di
seconda linea, immediatamente dietro gli astati e davanti ai
triari; Bruno immagina di collocare i trenta vessillilettere
appunto sulle aste, in prima fila, e di schierare dietro a ciascuno
di essi ordinatamente tutti quegli elementi che concorreranno
alla realizzazione della sua memoria verborum.
Questa volta, però, gli attori non andranno ad essere inseriti,
come nella prima praxis, in un sistema basato su trenta semplici
divisioni di lettere, bensì su trenta lettere moltiplicate per cinque
vocali, in modo da ottenere le centocinquanta divisioni possibili
di sillabe bielementali aperte, ovvero terminanti con una vocale:
“Come ti eri fissato trenta agenti, azioni, segni distintivi, oltre a
circumstantia (personaggi circostanti, sullo sfondo) e adstantes
(co-agenti, che stanno vicini) correlati alle trenta lettere, ora, in
maniera altrettanto ordinata, collocane centocinquanta, cifra che
si ottiene combinando ogni prima lettera di una sillaba
bielementale aperta (che Bruno chiama “lettera assistente”) con
ognuna delle cinque vocali (definite come “lettere sussistenti”).
Vediamo dunque che in base allo stesso principio con cui
147
abbiamo insegnato a realizzare un abbecedario abbiamo
insegnato anche a formare un sillabario”29.
Riassumiamo: abbiamo trenta vessilli, ciascuno dei quali
rappresenta una singola lettera dell’alfabeto, esattamente come
nella prima pratica. “All’ombra di questi vessilli, ovvero
stabilmente correlati ad essi, noi andremo dunque a piazzare i
nostri attori, ma in che modo?
Abbiamo visto che occorre ricondurre “alcuni nomi principali
ed utilizzati con maggiore frequenza, tra quelli che è tua cura
aggiungere, come centurie al riparo e sotto l’ala dei trenta
vessilli”; Bruno suggerisce inoltre che “quei nomi a te meglio
noti siano correlati a questo insieme di vessilli in modo tale che
ciascuno di essi occupi quel posto che sembrerà essere più
adatto secondo la propria natura”30. Se per “nomi principali
utilizzati con maggiore frequenza, tra quelli che è nostra cura
aggiungere” si intendono i “migliori” e più affidabili attori della
prima praxis, essi andranno ora correlati ai vessilli tenendo
conto della lettera che impersonavano nel corso della prima
praxis: in tal modo si riciclano le correlazioni già effettuate con
notevole risparmio di tempo e fatica. L’unico pericolo di cui si
deve tener conto è che tre degli agentes della seconda pratica
coincidono con altrettanti agentes della prima pratica, ma con
valore sillabico e letterale assolutamente diverso.31 Se invece
facciamo uso di attori diversi da quelli della prima praxis,
dovremo cercare anticipatamente quale sia il vessillo “più adatto
secondo la loro natura”, prima di operare la correlazione. Se
utilizziamo gli elenchi di agentes e azioni dato da Bruno, per
esempio, costituiti come vedremo da inventori correlati alle loro
invenzioni, dovremo vedere se tra i nostri conoscenti candidati
al ruolo di attori ce ne sia qualcuno che possa essere adattato ad
un inventore o ad una scoperta, magari perché svolge una
professione simile: se, ad esempio, ho un amico che fa
l’artigiano potrò piazzarlo all’ombra del vessillo rappresentante
148
la lettera L, poiché ad esso sono connessi tutti agentes che
hanno operato nel settore che oggi definiremmo “artigianale”,
come risulta dal seguente estratto degli elenchi:
LA Abas barbiere
LE Stram nel rasoio
LI Crates tornisce l’oro
LO Arphalus fa la doratura
LU Dubitrides nelle bottiglie32
149
sistema funzioni all’atto pratico, cosa che ognuno di noi potrà
verificare solamente con l’esperienza diretta.
Dal momento che anche nella secunda praxis ci troveremo,
prima o poi, ad affrontare il fatidico problema della pericolosa
collocazione reiterata delle stesse immagini, questa volta Bruno
gioca d’anticipo: “I vessilli che vanno più spesso in battaglia si
prenderanno le truppe maggiori; tra tutti infatti ce ne sono anche
di quelli che si accontentano di uno o due soldati. Bisogna fare
in modo tale da operare con tutti secondo un’uguaglianza di
proporzione, non di numero”33. Così, mentre per la lettera Ψ mi
basteranno pochi attori, per la lettera M, la B, la C e per tutte
quelle di più frequente utilizzo, avrò bisogno di allestire attori in
numero decisamente maggiore.
Sotto a ciascun vessillo-lettera e al suo gruppo di attori –
oppure più indietro nello schieramento, se vogliamo continuare
la metafora militare – è poi posta la lettera dell’alfabeto
omonima, non più isolata come nella prima praxis, bensì
articolata nel quinario delle lettere sussistenti, ovvero delle
cinque vocali A, E, I, O, U, così da ottenere centocinquanta
sillabe “aperte”, cioè terminanti in vocale.
Tutto questo spiegamento di forze, perciò, mi permette di
rappresentare una sola sillaba, e poiché le parole che dobbiamo
memorizzare sono spesso e volentieri formate da più sillabe,
dovremo “riprodurlo” per tante volte quante sono le sillabe
massime delle parole da memorizzare; a questo riguardo Bruno
propone di lavorare con parole di un massimo di cinque sillabe:
“Poi, per poter lavorare senza limitazioni, ad ognuno dei vessilli
posti innanzi, ciascuno dei quali va articolato nel quinario delle
cinque lettere sussistenti, sottomettiamo altri cinque vessilli”34.
150
Poiché è difficile far stare cinque ruote in poco spazio, ne
collochiamo solo una, a cui le altre sono simili, e non estesa,
bensì ristretta, poiché i trenta vessilli principali sono disposti
sulla circonferenza, e i cinque sottomessi a ciascuno di essi
sono disposti in scala da questi verso il centro35(fig. 5).
FIG. 5
151
in raffigurazioni di processi combinatori mentali,36 allora tutto
si spiega: la ruota esterna rappresenta i vessilli principali “i
trenta vessilli principali sono disposti sulla circonferenza”; se la
ruota fosse rappresentata in maniera estesa, allora noi potremmo
“vedere” gli attori connessi con i vessilli, ma la ruota è
rappresentata in forma “non estesa, bensì ristretta” e così
dobbiamo accontentarci dei soli vessilli, immaginando gli attori
“all’ombra” di essi. Procedendo verso l’interno abbiamo la
seconda ruota che è quella dei vessilli sottomessi, che
corrispondono alle lettere assistenti, ovvero ciascuna prima
lettera di una sillaba bielementale: ognuna di queste lettere
assistenti va articolata nel quinario delle sussistenti, ovvero
nelle cinque vocali, che qui si presentano in minuscolo, per
evitare confusione con le assistenti, e sono scritte “sfalsate” in
modo tale che, leggendo i vari settori della ruota “in verticale”
si possano vedere immediatamente tutte le combinazioni
sillabiche realizzabili.
Ora possiamo capire chiaramente come, tolta la ruota esterna
dei vessilli principali, tutto il rimanente sistema di sei ruote sia
in realtà un’unica, grande ruota che serve per la
rappresentazione di una sola sillaba: dovrò perciò moltiplicarlo
– procedendo verso l’interno – tante volte quante sono le sillabe
della parola che vogliamo memorizzare: questo è il senso del
“poiché è difficile far stare cinque ruote in poco spazio, ne
collochiamo solo una, a cui le altre sono simili […] i cinque
vessilli sottomessi a quelli principali sono disposti in scala da
questi verso il centro”.
Ciascuno dei vessilli sottomessi indica infatti la prima lettera
di ogni sillaba: di essi nella figura è presente appunto solamente
il primo, corrispondente alla seconda ruota partendo
dall’esterno.
152
4.5. STRUTTURAZIONE DELLA MEMORIA VERBORUM
4.5.1. PREMESSA
Dopo aver ri-allestito il sistema come abbiamo descritto, siamo
ora pronti a strutturare le immagini per la memoria verborum. E
per fare ciò utilizzeremo dei procedimenti assai simili a quelli
già presi in esame per la prima praxis, poiché le uniche
differenze riguarderanno:
153
disposizione di queste o di altre – se ne hai di migliori – specie e
mestieri delle vocali – in modo che si uniscano alle medesime
per mezzo di azioni e in mestieri definiti – o collocando nomi a
te conosciuti secondo una disposizione ordinata che procede in
linea retta, o ordinando in modo diverso da come li abbiamo
collocati noi, come ti sia più comodo, usandone altri che si
susseguano al posto di certi altri, riconducendoli in una
successione precisa, in modo tale che possano entrare in
relazione alle stesse o ad altre circumstantia, agli stessi o ad
altri tratti distintivi e co-agenti”37. Esattamente come aveva
fatto nella prima pratica, ove si diceva: “Tu disporrai e stabilirai
nel modo che ti sembrerà più opportuno”38 Bruno continua ad
insistere sulla possibilità lasciata a ciascuno di utilizzare elenchi
diversi da quelli da lui proposti.39 Prima però di prendere in
considerazione altre possibilità, proveremo a seguire alla lettera
le proposte bruniane.
Dovendo rappresentare centocinquanta sillabe, Bruno ha
bisogno innanzitutto di centocinquanta agentes che fungano da
immagini principali a cui connettere poi tutte le altre immagini
accessorie. Non può ovviamente continuare ad utilizzare la
mitologia ovidiana, per evitare confusione con la prima praxis,
ma ha bisogno di un elenco che presenti caratteristiche simili in
quanto a strutturazione e memorabilità. A questo punto,
frugando nelle proprie conoscenze, si imbatte nel De rerum
inventoribus di Polidoro Virgilio. Pubblicato a Lione nel 1561 e
subito tradotto in varie lingue, questo testo si presenta come una
carrellata delle scoperte e delle invenzioni umane: di ciascun
inventore vengono descritte brevemente la vita ed il carattere,
oltre alle circostanze che lo portarono per primo a scoprire o
escogitare la cosa grazie alla quale è poi passato alla storia.
Perché gli inventori? Perché come ogni personaggio
mitologico è indissolubilmente connesso ad un gesto eroico o
comunque grandioso grazie al quale egli è divenuto
154
memorabile, così ciascun inventore verrà sempre e comunque
associato alla propria actio, corrispondente all’invenzione che lo
ha reso famoso, ed è questa la caratteristica di cui ha bisogno
Bruno perché le relazioni istituite all’interno del sistema
possano sempre funzionare in maniera efficiente.
Contrariamente a quanto era stato fatto con i personaggi delle
Metamorfosi, però, ora l’elenco di inventori estrapolato da
Polidoro Virgilio non segue, se non in minima parte, la
successione originale del testo. Come mai? Perché se la
successione costituiva solo un criterio accessorio per i trenta
agentes della prima pratica, ora, con centocinquanta inventores,
essa diviene un criterio ancora meno importante e cede il posto
alla strutturazione “a gruppi” operata dalle cinque vocali:
“Strutturati secondo l’ordine della prima lettera della sillaba, e
organizzati ordinatamente dalle cinque lettere sussistenti” dice
infatti Bruno, aggiungendo che questi nomi andranno ricondotti
“alla disposizione di queste specie e mestieri delle vocali, in
modo che si uniscano ad esse per mezzo di azioni e in mestieri
definiti”.
Vediamo l’inizio dell’elenco:
155
CA (CA) Hasamon trapianta 11
CE (CE) Phega innesta 12
CI (CI) Belhaiot nell’asino da soma 13
CO (CO) Pilumno trebbia il grano 14
CU (CU) Oresteus cura le viti 1540
156
comunque non meno di cinque attori per ogni vessillo, poiché la
lettera adsistens corrispondente al vessillo va articolata con le
cinque vocali, il ruolo di ognuna delle sillabe risultanti va
assegnato ad un agens diverso, e agentes diversi non possono
essere rappresentati dallo stesso attore, per evitare confusione.
Per il vessillo B, ad esempio, avevo già previsto41 cinque
attori in relazione fra loro, ovvero Paolo, Massimiliano, Gian
Paolo, Fabiano, Matteo allo scopo di impersonare altrettanti
agentes così da poter raffigurare le sillabe BA, BE, BI, BO, BU,
in modo da ottenere, ad esempio, le seguenti correlazioni:
Pietro
157
Alberto
Giorgio
Marco
AA (AA) nodoso 1
AE (AE) simulato 2
AI (AI) intricato 3
AO (AO) informe 4
AU (AU) celebre 5
158
BA (BA) fiacco 6
BE (BE) turpe 7
BI (BI) avvolto 8
BO (BO) inetto 9
BU (BU) giacente 10
159
una successione logica nell’elenco, poiché l’associazione tra
adstans e valore sillabico corrispondente verrà ottenuta grazie al
concorso dell’attoreagens e dell’actio.
La novità consiste invece nell’introduzione, ad un certo
punto, di una classificazione di tipo “funzionale” degli
adstantes proposti, suddivisi in base al modo con il quale
possono essere relazionati all’agens.
Abbiamo così:
160
4.5.5. LE CIRCUMSTANTIA
Veniamo ora alle circumstantia, quelle immagini che la Yates
riteneva essere le componenti di quella “centrale dell’energia
astrale” collocata nella ruota più interna: in realtà esse, lo
abbiamo già capito, non sono altro che le immagini per
rappresentare la quinta sillaba di una parola. Avendo già
collocato un attore-agens come immagine principale, tutto
intento a compiere un’azione, con tanto di insigna ed adstantes,
l’unico modo per completare il quadro è quello di aggiungere
delle determinazioni circostanti che fungano da sfondo, da
ambientazione dell’immagine: non quindi altri elementi
direttamente connessi con il soggetto, perché ciò potrebbe
portare confusione, ma un secondo piano all’interno
dell’immagine, quasi che gli studi ottici rinascimentali
riguardanti la prospettiva applicata alla pittura venissero ad
influenzare anche l’organizzazione delle immagini di memoria:
per la prima volta, infatti, esse escono dalla bidimensionalità e
acquistano una profondità spaziale articolata in diversi livelli di
cui fino a Bruno non si trova traccia, anche perché collocando al
massimo un paio di immagini in un medesimo locus, come
“Raimondo che percuote il locus con un bastone”, non c’è alcun
bisogno di tridimensionalità.
Passando ad una raffigurazione su più livelli esiste però
l’eventualità che, mancando qualsiasi connessione tra immagine
principale in primo piano ed immagini sullo sfondo, queste
ultime possano essere perse o confuse al momento del recupero
dei dati. Per evitare ciò Bruno utilizza come circumstantia non
dei singoli oggetti, bensì delle raffigurazioni già complesse ed
elaborate, attingendole principalmente dal De occulta
philosophia di Agrippa. Queste immagini, nell’ordine, sono così
strutturate:
161
– trentasei immagini dei decani dello zodiaco (tre per
ciascuno dei dodici segni) alle quali viene fatto seguire un
elenco delle loro caratteristiche peculiari;
– cinquanta immagini dei diversi pianeti: Saturno, Giove,
Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna (sette immagini per
ciascuno di essi più l’immagine del Drago della Luna);
– ventotto immagini delle posizioni lunari;
– trentasei immagini per le dodici “case” astrologiche (tre
per ogni casa); per un totale di centocinquanta immagini.
162
dell’immagine prendiamo ad esempio in considerazione la
prima di queste circumstantia, relativa alla sillaba AA:
163
preciso.
164
rappresentanti le cinque sillabe e le immagini ad esse correlate,
più la ruota esterna dei vessilli principali. Poiché ciascuna ruota
è divisa in trenta settori, esattamente come quelle della prima
praxis, dovremo memorizzare “a ruote ferme” una “fetta” alla
volta, ovvero un singolo settore, in testa al quale troviamo il
vessillo principale.
Poniamo, ad esempio, di voler memorizzare tutte le immagini
relative al settore rappresentato dal vessillo B, il che equivale a
dire tutte le possibili immagini delle sillabe che hanno la B
come lettera adsistens. Quello che segue nella prossima pagina
è appunto lo schema della “fetta”, ovvero del settore di ruota
corrispondente al vessillo B.
Seguendo le istruzioni di Bruno ho condotto diversi attori
all’ombra della B e li ho assegnati alle varie sillabe BA, BE, BI,
BO, BU. Possedendo già questa correlazione tra attore (o attori),
agens, actio e sillaba corrispondente, proseguo ora nella lettura
verticale dello schema, aggiungendo adstans e circumstantia,
così da ottenere, ad esempio, la seguente immagine per la
sillaba BI:
165
rappresentare delle parole, saprò sempre ricondurli all’attore-
agens-actio originali. Il papavero, per esempio, potrà entrare in
relazione con qualunque altra immagine, ma se ho ben fissato
l’immagine originale nella quale esso è falciato da Gian Paolo-
Trace, e se naturalmente mi ricordo quale sillaba era associata a
Gian Paolo-Trace o all’azione del falciare, potrò ricostruirne il
valore sillabico BI.
Bruno, come abbiamo visto, non si preoccupa di spiegare
tutto questo, sia perché la tecnica è identica a quella prima
pratica, anche se complicata dalla possibile presenza di più di
un attore e dal maggior numero di elementi (cinque invece di
tre), sia perché allineare in orizzontale cinque elenchi avrebbe
comportato probabilmente più problemi da un punto di vista
tipografico per il povero e già abbastanza bistrattato Gilles
Gourbin.47
166
Organizzata in questi termini, la mole di lavoro da affrontare
per la memorizzazione di tutto il sistema appare ora assai più
snella: trenta settori, ognuno formato da cinque raffigurazioni
“complesse”, per un totale di centocinquanta “quadri”. E se il
sottoscritto è riuscito in un paio di settimane a crearsi e ad
utilizzare felicemente cento luoghi di memoria, consistenti
ciascuno in raffigurazioni elaborate, risulta credibile che nello
stesso lasso di tempo una persona già avvezza all’utilizzo delle
artes memoriae, o comunque interessata ad esse, potesse
167
padroneggiare con sicurezza tutto l’impianto di immagini della
secunda praxis in breve tempo.
168
strutturazione degli attori e degli agentes o delle azioni operata
a suo tempo per ricostruire che Gian Paolo-Trace che falcia
viene dopo Pietro-Erittonio nel carro (BA) e di Giorgio-Glauco
che sguaina una spada (BE), ed è seguito da Misa che è
incapace di produrre sale, appoggiato a una quercia (BO).
Essendo BO, la sillaba che ci interessa, collocata al quarto posto
in ADMOVEBO, dovrò utilizzare l’immagine della quercia,
ovvero l’adstans.
Nel caso invece della decodifica tutto è più semplice, poiché
quando mi imbatto nell’immagine di un’ortica, mi verrà in
mente Matteo-Pirode che trae il fuoco dalla selce sdraiato su
un’ortica e ricaverò il valore sillabico BU sempre in base alle
relazioni esistenti tra i sistemi degli attori, degli agentes e delle
azioni.
Aver “complicato” il codice con molte relazioni all’interno di
esso non aumenta dunque le difficoltà: al contrario è l’unica
maniera per avere delle garanzie di corretto funzionamento
anche qualora “saltino” alcuni dei nessi correlativi.
169
l’infido Tubalchaim sta facendo la calce nella fornace con un
fazzoletto al collo.
170
Il problema delle differenziazioni riguarda solo gli agentes,
poiché le sillabe bielementali chiuse si trovano praticamente
solo in posizione iniziale di una parola, fatta eccezione per i
termini composti.
171
vicino tutti coloro che si occupano di memoria verborum non da
un punto di vista teorico, bensì ne fanno un uso pratico:
l’immagine di una parola, una volta formata, dove va collocata
per poterla ritrovare al momento del bisogno?
Il problema non si pone nel caso io abbia memorizzato una
serie di parole da citare in successione, poiché andrò ad
utilizzare alcuni loci fra loro adiacenti scelti tra quelli del
sistema locale a suo tempo allestito. Poniamo invece il caso di
un lettore francese del De umbris che abbia imparato la parola
italiana CARENA e se ne sia formato la seguente immagine,
conformemente alle istruzioni bruniane:
Hasamon è appoggiato e scopre il capo di un uomo davanti agli
altari.
172
all’interno.
Naturalmente se il termine codificato è di tipo astratto, ce ne
dovremo creare una rappresentazione figurata ed in ogni caso le
immagini utilizzate come loci dovranno essere opportunamente
ridimensionate e “ritoccate” in base ai precetti esposti da Bruno
per i .51
Sarebbe meglio, per non creare confusione, evitare di
utilizzare come loci quegli oggetti che vengano già
correntemente usati come imagines, magari perché fanno parte
dell’elenco degli adstantes bruniani, poiché si potrebbe correre
il rischio di confondere loci e immagini, anche se ciò
rappresenta una eventualità assai remota poiché, come abbiamo
visto,52 ciò che si ricorda non è solo la raffigurazione, ma anche
il processo mentale da cui essa è scaturita.
173
può portare ad una forma mentis tale da riuscire ad applicare gli
stessi metodi su sé stessi.
Ed è esattamente questo che fa Bruno, poiché si accorge che
le immagini della seconda pratica non sono delle accozzaglie di
elementi disparati, bensì presentano una strutturazione
gerarchica altamente organizzata, con un agens-attore che
svolge il ruolo principale a cui sono ordinatamente connesse le
altre determinazioni (azioni, tratti distintivi, adstantes e
circumstantia). E, forse, si accorge anche che la secunda praxis
ha comportato un dispendio di energie tale che sarebbe un
peccato utilizzarne i risultati “solamente” per gli scopi della
memoria verborum, anche perché la maggioranza dei lettori del
De umbris, esattamente come gli studenti dell’autore della Ad
Herennium, era sicuramente più propensa all’applicazione della
memoria rerum che, nell’Ars memoriae bruniana, trova posto
solamente nelle pagine dalla 226 alla 229 del testo.
Tornando alle nostre immagini, un “quadretto” come questo:
Apis tesse un tappeto, vestito di stracci, con ceppi ai piedi.
Sullo sfondo una donna che protende le mani, a cavallo di
un’idra dalle molte teste.
174
andranno unite ai subiecta più stabili”. Esattamente come
alla fine della prima praxis, quando dovevamo controllare
quali loci avessero meglio trattenuto le immagini ad essi
affidate,53 è necessario essere sicuri di utilizzare come loci
per la memoria rerum solo quelle immagini della secunda
praxis che abbiano dimostrato una buona memorabilità e
stabilità.
– II. “I subiecta diano ordine alle immagini oppure siano
ordinati da esse, ciò infatti porta ad aver memoria delle
immagini stesse”.
Ho quindi la possibilità di scegliere se ordinare le
immagini della memoria rerum a partire
dall’organizzazione delle immagini preesistenti ottenute
nella seconda pratica, oppure se agire al contrario,
modificando la strutturazione delle immagini preesistenti
in base a quella della materia da ricordare. Ciò, tradotto in
termini operativi, significa che se le res che devono essere
collocate presentano una strutturazione gerarchica
sovrapponibile a quella delle immagini preesistenti, bene.
In caso contrario, dovrò apportare delle modifiche alla
organizzazione delle immagini della seconda pratica in
modo tale che esse possano riflettere la struttura della
materia da ricordare. Potrò in questo caso utilizzare anche
solo le immagini delle circumstantia, poiché presentano in
molti casi una strutturazione più che adatta agli scopi della
memoria rerum: è Bruno stesso a suggerircelo, quando
introduce le immagini dei pianeti.54
– III. “Non c’è nulla che possa impedirti di trasformare gli
adiecta alla maniera dei e viceversa”. Collocata come terzo
precetto, in realtà questa è la premessa di tutto il sistema di
memoria rerum, premessa che è resa possibile da questa
facoltà di poter mutare ciascuna delle immagini ottenute in
un locus atto ad accogliere una nuova immagine. Si tratta
di un principio che, come vedremo verrà ripreso assai
175
proficuamente anche dalle moderne mnemotecniche.55
– IV. “Unirai dunque di seguito le parti di ciò che va
ricordato a immagini vive e a tratti distintivi, azioni e
circumstantia delle immagini stesse, in modo tale che
ciascuna di esse sia capace di descrivere figurativamente le
parti in cui abbiamo diviso ciò che va ricordato secondo un
criterio conforme all’agire, al subire, alla situazione adatta,
o in base a tante altre maniere di essere, sia attive che
passive, e riguardo alle azioni che vengono svolte”. Questo
precetto è il cuore di questa memoria rerum e non ha
bisogno di particolari commenti: le singole parti di ciò che
va ricordato vengono connesse ordinatamente alle
immagini vive (gli agentes) e a quelle ad esse subordinate,
mettendole in relazione, come al solito, in modo da rendere
il più possibile “memorabile” l’immagine risultante.
Quando andrò a recuperare una qualsiasi delle res ad essa
affidate, potrò ricordare non solo la semplice res, ma anche
quale posizione essa occupa all’interno della divisione
gerarchica in cui essa è contenuta. Se, per esempio, la res
fosse un fiore, riuscirò in questo modo a recuperare anche
delle informazioni riguardo alla sua classificazione
botanica, ad esempio quali altri fiori appartengano alla
stessa specie.
Questa idea della collocazione multipla trova come
referente più immediato l’ormai immancabile Pietro da
Ravenna: è lui, infatti, che nella Phoenix consiglia ai
giuristi di assemblare tutto ciò che riguarda, ad esempio,
un articolo di legge o un argumentum in un unico locus,
utilizzando una prima immagine come “intestazione” e
connettendo ad essa altre immagini per illustrare aspetti più
particolari della legge o dell’argumentum.56
L’unico inconveniente di un sistema di questo genere è
rappresentato dal tempo necessario per la elaborazione di
tutte le strutturazioni: già Pietro avvertiva infatti che “se
176
voglio collocare nei loci ciò che mi viene proposto da un
altro e mi trovi nella necessità di ripetere immediatamente,
allora metto l’immagine di una singola cosa in ciascun
luogo; ma se decido di affidare ai loci le cose che leggo nei
libri per poterle poi ripetere a memoria, allora invece assai
spesso non ho esitato a collocare immagini di più cose nel
medesimo luogo”57. L’organizzazione delle proprie
conoscenze secondo un ordine gerarchico parallelo a
quello delle immagini utilizzate come loci necessita
dunque di tempo, ed è per questo un’operazione da
compiersi non in modo rapido allo scopo di sfoggiare le
proprie abilità, ma solamente quando si disponga della
necessaria tranquillità.
Un’ultima raccomandazione: “In tutto questo lavoro non
dimenticare che le immagini vanno scelte in modo tale da
essere non astratte, bensì ben presenti allo sguardo della
fantasia”58.
Ancora una volta Bruno deve fare i conti con il ramismo
dilagante59 poiché anche i concetti, per poter essere resi
memorabili, dovranno essere raffigurati, cioè rappresentati
mediante qualcosa di corporeo: non quindi le sentenze
scritte sic simpliciter all’interno dell’immagine di
memoria, come quelle del domenicano Robert Holcot,60
bensì gli intelligibilia rappresentati per mezzo dei
sensibilia di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino,
domenicani pure loro, al pari di Giordano Bruno.61
177
NOTE
1. De umbris, 174.
2. Cfr. qui al cap. 1.4.4.
3. F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane,
cit.
4. F. Tocco, Le opere latine, p. 43. In tutte le citazioni di questo paragrafo i corsivi
sono nostri.
5. Ibid. p. 44.
6. Ibid. p. 55.
7. Ibid. 56.
8. Ibid.
9. Cfr. qui al cap. 3.7.
10. Cfr. qui dal cap. 3.4. al cap. 3.7. ed al cap. 4.9.
11. “Le ruote mobili dell’arte di Lullo sono diventate i luoghi per la recezione delle
immagini”. F.A. Yates, L’arte della memoria, 206.
12. Ibid. 195.
13. Ibid. 195-206.
14. “Non c’è dubbio che questo metodo funzioni con chiunque sia disposto a lavorare
seriamente a questa ginnastica mnemonica. Non ho mai provato a farlo
personalmente, ma mi è stato raccontato di un professore che aveva l’abitudine di
divertire i propri studenti, ai ricevimenti”. F.A. Yates, L’arte della memoria, 5.
15. De umbris, a cura di R. Sturlese, Introduzione LXIV.
16. Abbiamo già utilizzato questa immagine per esemplificare la possibile complessità
delle immagini bruniane al cap. 2.5.
17. De umbris, a cura di R. Sturlese, Introduzione LXX – LXXI.
18. Cfr. qui al cap. 3.4.
19. Giordano Bruno, Il sigillo dei sigilli – I diagrammi ermetici, a cura di Ubaldo
Nicola, cit.
20. Per la storia del mnemonista Serasevskij vedi: Lurija, Un piccolo libro una grande
memoria, cit.
21. Giordano Bruno, Il sigillo dei sigilli, a cura di Ubaldo Nicola, 83.
22. M. Maddamma, L’arte della memoria, 193 n° 9.
23. Ibid. 194 n° 11.
24. Ibid. 197 n° 22.
25. Cfr. qui al cap. 4.4.3.
26. Cfr. qui al cap. 3.9.
27. De umbris, 173.
178
28. Ibid. 176.
29. Ibid. 175.
30. Ibid. 177.
31. I tre agentes in questione sono Pallade Minerva (S nella prima pratica, DU nella
seconda), Aracne (Q nella prima pratica, IO nella seconda) e Atlante (N nella
prima pratica, ΨO nella seconda).
32. De umbris, 182.
33. Ibid. 177.
34. Ibid. 176.
35. Ibid. 180.
36. Cfr. qui al cap. 3.7.
37. De umbris, 178.
38. Ibid. 159.
39. Cfr. qui alla fine del cap. 3.4.
40. De umbris, 181.
41. Cfr. qui al cap. 4.4.2.
42. Cfr. De umbris, 186 e 190.
43. Cfr. De umbris, 191-195.
44. Cfr. qui al cap. 3.4.
45. De umbris, 196.
46. De umbris, 178.
47. Per le vicende tipografiche del De umbris vedi: R. Sturlese, De umbris Idearum,
Prefazione XXVI-LIV.
48. De umbris, Conclusio I.
49. De umbris, 223.
50. Ibid. 224.
51. Per i concetti sui cfr. qui al cap. 2.5.
52. Cfr. qui al cap. 1.4.7.
53. De umbris, 173; cfr. anche qui al cap. 3.9.1.
54. “Sequuntur semptem Saturni imagines ex Aegyptiis et Persis philosophis, quae
etiam pro locis, et subiectis usuvenire possunt”. De umbris, 210.
55. Cfr. qui al cap. 5.2.2.
56. Cfr. qui al cap. 1.4.5.
57. Phoenix, Conclusio XI.
58. Tutte queste citazioni sono tratte da De umbris, 222.
59. Cfr.qui al cap.3.9.1.
60. Cfr.qui al cap.1.3.3.
61. Cfr.qui al cap.1.3.1.
179
5. CONCLUSIONI
180
il già citato “trippa” per il tedesco Treppe);
– enorme diffusione di supporti “tascabili” sui quali è
possibile “fissare” parole, sigle e numeri da ricordare in
maniera precisa (agende cartacee, dittafoni, agende
elettroniche, telefoni cellulari con memoria dei numeri più
chiamati).
181
Vediamo in dettaglio pro e contro della secunda praxis
bruniana:
182
tecniche a loro volta sviluppate per scopi completamente diversi
da quelli bruniani.
Vediamo ora in quali ambiti è possibile tracciare dei paralleli
tra le attuali tecniche di memoria ed il De umbris.
183
Un primo utilizzo di questa correlazione permette la
creazione di un sistema di memoria per i numeri: vi ricordate
Pietro da Ravenna e le sue sedici immagini che, usate in
combinazione, permettevano la raffigurazione di un qualsiasi
numero pensabile?3 Ora, poiché ad ogni suono è possibile
associare una consonante, per ricordare un numero non farò
altro che vedere quali consonanti corrispondano alle cifre da
ricordare, unirle a delle vocali, in modo da ottenere delle parole
da raffigurarsi con delle immagini. Per esempio, se voglio
memorizzare il numero 701428461, per prima cosa cercherò
quali consonanti corrispondano alle cifre:
184
bancario, ci potremmo immaginare il nostro castoro inferocito
mentre divora dei fogli di un estratto conto inviatogli dalla
banca.
Grazie al codice fonetico possediamo poi un potentissimo
mezzo per realizzare delle serie numerate per le nostre
immagini di memoria; vedremo ora come sia possibile
realizzare, ad esempio, un sistema di cento luoghi. Essendo ogni
cifra connessa ad una consonante posso, utilizzando una tecnica
del tutto analoga a quella appena vista per realizzare l’immagine
di un numero da memorizzare, crearmi cento immagini che
corrispondano foneticamente ai numeri da 1 a 100, nel seguente
modo:
1 tè 11 dado
2 Noè 12 donna
3 amo
5 Alì 30 rosa
6 ciao 43 ramo
7 oche 64 giara
8 bue 81 foto
9 via 90 vaso
10 tassì 97 bocca
185
– LOCI:invece di spendere energie alla ricerca di luoghi in
successione ordinata nelle stanze di casa mia, per la strada,
nei gironi dell’Inferno o altrove, posso utilizzare queste
immagini come luoghi, come contenitori cioè di altre
immagini: è la tecnica delle immagini-perno o, più
comunemente, dei locks, termine che letteralmente
significa serrature, lucchetti. Se dunque devo memorizzare
una lunga lista non farò altro che associarne ordinatamente
ogni singolo elemento ai locks: se avessi un elenco come
cane, giornale, automobile, coltello e così via, connetterò il
cane al primo locks, ottenendo l’immagine di un cane che
sorseggia una tazza di tè; potrò poi avere, ad esempio, Noè
che legge il giornale su una panchina mentre l’arca con
tutti gli animali salpa senza di lui; un pescatore che con il
proprio amo tira su dal fiume un’automobile; un re sulla
cui corona sono conficcati tanti coltelli al posto delle
gemme. Il vantaggio dei locks rispetto ai loci tradizionali
consiste nella possibilità di recitare un elenco in qualsiasi
ordine: dall’inizio alla fine, al contrario, solo i numeri
dispari, uno su cinque o su dieci, l’oggetto numero 46, non
fa alcuna differenza poiché il codice fonetico mi permette
di recuperare sempre con la massima velocità uno qualsiasi
dei locks. Un eventuale problema potrebbe sorgere con
quei locks che sono costituiti da immagini di piccole
dimensioni, ma abbiamo già visto come in realtà ogni lock
sia integrato in un “quadretto” più ampio;
– IMMAGINI: in certi casi i locks possono essere utilizzati
anche come immagini di memoria per i numeri; nel caso in
cui, ad esempio, mi ritrovi senza carta per prendere appunti
e debba memorizzare in fretta il numero di telefono
3043816 prima che svanisca dalla mia memoria a breve
termine, posso utilizzare alcuni locks in combinazione:
186
prenderò ad esempio le immagini dei locks 30, 43, 81 e 6,
ottenendo la seguente immagine:
187
5.2.3. LA PARTE PER IL TUTTO
188
fine della terza e della R liquescens nella quarta. Sappimo bene
come sia sempre possibile, anche quando il sistema
combinatorio sia già stato messo in moto, recuperare il valore
sillabico di ogni elemento ricordando l’associazione originaria
attore-agens-insigne-adstans-circumstantia. Se tuttavia, per un
qualsiasi motivo, ricordassi solo il vessillo principale a cui
apparteneva l’attore che patrocinava originariamente un
elemento dell’immagine, e non il completo valore sillabico,
avrei comunque elementi e sufficienza per riuscire a ricostruire
la parola completa. Così, in teoria dovrei ricordare che l’adstans
“corona regale” è corrispondente alla sillaba DA, ma nel caso
perdessi questa associazione, dovrei comunque poter ricordare
che tale attore fa parte del gruppo che è stato messo “all’ombra”
del vessillo della lettera D. Supponendo anche il caso peggiore,
in cui dimenticassi il valore sillabico di tutti gli elementi
dell’immagine, riuscendo a ricordare il solo vessillo principale
degli attori originali, potrei comunque ottenere S-L-M-D:
provando a ripetere queste quattro consonanti (che Bruno
chiamerebbe lettere assistenti), unendole per tentativi a diverse
vocali e con un po’ di aiuto fornito dal contesto in cui la parola
va collocata, dovrei essere in grado di ricostruire in maniera
completa la parola originaria.
Pur essendo rivolti a fini diversi, i due procedimenti sono
assai simili tra loro, poiché entrambi implicano una
“espansione” della parola a partire dalle sole consonanti o
lettere assistenti, a seconda delle definizioni. La differenza
consiste nel diverso utilizzo del procedimento: una tecnica di
codifica applicata sistematicamente per le mnemotecniche
moderne, una garanzia del buon funzionamento in extremis
della de-codifica nel caso di Bruno.
189
Tanto il De umbris quanto le mnemotecniche moderne
condividono poi una medesima preoccupazione di cui non si
trova traccia nei trattati classici ed in quelli medioevali,
preoccupazione che è in stretta relazione con la necessità di
presentare al lettore degli elenchi di immagini già pronti per
l’uso: un’ars che proponga delle immagini preconfezionate
deve sempre fare i conti, implicitamente o esplicitamente, con
quello che possiamo definire il “patrimonio di immagini” o, più
in generale, il bagaglio culturale dei discenti.
Né Bruno né i trattatisti moderni accennano in sede teorica a
questo problema, anche se, ad un certo punto, non è possibile
evitare di compiere delle scelte ben precise: ogni lettore che si
cimenta con un’opera mnemonica, tanto ai nostri giorni quanto
nel XVI secolo, possiede una propria formazione culturale, uno
specifico modus cogitandi, un repertorio di immagini
assolutamente singolare ed una sua peculiare sensibilità
“affettiva”, facoltà che ci permette di ritenere certe cose meglio
di altre: tutte caratteristiche, queste, che non potranno mai
essere esattamente sovrapponibili con quelle di un altro lettore.
Nel caso che un’ars presenti solamente dei principi mnemonici,
evitando di corredare il testo con troppi esempi, non si pongono
grossi problemi di applicazione, ed è per questo che la Ad
Herennium risulta essere valida ancora oggi; quando invece ci
sia la necessità o la volontà di fornire elenchi esaurienti di loci o
di imagines la cosa cambia radicalmente, poiché tutto ciò che
viene proposto deve essere già compreso in quel patrimonio
comune a tutti i miei lettori di cui si diceva innanzi e deve
essere presentato in maniera tale che ciascuno possa entrare in
relazione “affettiva” con ogni singola immagine elencata, pena
l’impossibilità per il sistema di funzionare con efficienza al
momento del recupero delle informazioni.
A tal riguardo Bruno individua un primo filone di conoscenze
comuni ai propri lettori, consistente nelle Metamorfosi e nelle
storie mitologiche in esse contenute: come abbiamo visto,
190
infatti, il testo ovidiano era il più diffuso nel suo genere in
Europa e soprattutto in Francia sin dal Medioevo; inoltre
ciascuno dei suoi personaggi era stabilmente connesso con una
operatio peculiare e presentava in sommo grado tutti i caratteri
di individualità e affettività immaginativa richiesti per una
buona memorabilità, ma di ciò si è già detto.5 Per la secunda
praxis Bruno deve ugualmente utilizzare degli agentes connessi
a delle azioni specifiche, in ragione delle esigenze combinatorie
del sistema, e a questo scopo evidenzia un secondo filone di
conoscenze comuni nella storia delle scoperte e delle invenzioni
umane; trattandosi però di un elenco cinque volte maggiore
rispetto a quello degli eroi ovidiani e non potendo contare su
una conoscenza totale di tutti gli inventori da parte dei propri
lettori, né su una diffusione del De rerum inventoribus pari a
quella delle Metamorfosi, Bruno supera abilmente il problema,
come abbiamo visto, applicando sistematicamente il trucco di
fare vestire panni degli agentes ad attori di nostra conoscenza.
Le mnemotecniche moderne, dal canto loro, si trovano a
dover affrontare lo stesso problema nel momento in cui
presentano all’apprendista l’elenco dei cento locks. Questi
vengono formati “pescando” tanto da riferimenti culturali
occidentali, poco esportabili in altre culture, quanto da comuni
esperienze quotidiane. Così, per fare qualche esempio, il lock
numero 1, ovvero l’immagine della fumante tazza di tè, è
patrimonio comune tanto di noi occidentali, quanto dei popoli
orientali, anche se sicuramente con valenze assai diverse; lo
stesso non si può dire del lock numero 2, rappresentato da Noè
intento a caricare gli animali sull’arca, poiché la storia del
diluvio universale così come è raccontata dalla Bibbia è
patrimonio comune solo per ebrei, cristiani e musulmani;
peggio ancora quando giungiamo al lock numero 5, ovvero
Cassius Clay-Muhammed Alì raffigurato sul ring nel corso di
un incontro di boxe, poiché il pugile ex-campione del mondo
costituisce un riferimento culturale in possesso ad una fetta
191
assai minore di esseri umani.
In realtà una piccola differenza tra gli agentes ed i locks a
nostro parere esiste, poiché se l’enumerazione degli agentes in
Bruno è in relazione alla necessità del sistema di avere gli
agentes stessi correlati a delle appropriatae operationes ben
precise e univoche, per quanto riguarda invece le tecniche
attuali, la ragione principale per la quale vengono presentati i
locks “prefabbricati” è da individuare nella scarsa iniziativa
personale degli allievi, la maggioranza dei quali è, almeno
all’inizio, ben poco disponibile ad investire fatica ed energie in
una pratica di cui non sono ancora ben visibili le potenzialità
questa inerzia iniziale non deve stupire, giacché ben pochi di
noi sono disposti in genere ad abbandonare il proprio modo
collau-datissimo ed abituale di fare in nome di qualcosa di
sconosciuto: la stessa Frances Yates, come abbiamo visto, pur
essendosi occupata di tematiche connesse con le artes memoriae
per quasi tutta la vita, mai ha provato a mettere in pratica quanto
aveva scoperto.6
Va infine detto come tanto Bruno quanto le tecniche moderne
obbediscano ad una importante raccomandazione di Pietro da
Ravenna relativa alla rappresentazione dei personaggi e degli
oggetti: “Stai attento a non stupirti se, collocando così,
semplicemente un libro nel primo luogo ed un cappuccio nel
secondo ti capita poi di sbagliare nel ripetere; compito di
quest’arte è appunto quello di stimolare la memoria naturale, ma
questi oggetti non sono in grado di impressionarci, giacché è il
movimento ad eccitarci, movimento che non si riscontra
normalmente in questi oggetti. Nel luogo deve perciò essere
collocata un’immagine tale che si possa muovere e, nel caso
non si possa muovere, essa andrà mossa da qualcos’altro”.7
Questo era il guaio di molti trattati rinascimentali che
presentavano delle tavole di immagini raffigurate in maniera
anonima e a questo problema Bruno risponde con gli agentes
impegnati in incredibili o importanti operationes, mentre le
192
mnemotecniche moderne insistono, al momento della fissazione
dei locks, sull’inserimento di queste immagini in “quadri
animati”: così per il primo lock non immagineremo una tazza di
tè sic simpliciter, ma la dovremo vedere sul nostro tavolo della
cucina, calda e fumante, dovremo sentire l’aroma della bevanda
che si espande per tutta la casa ed il sapore sul nostro palato
mentre la sorseggiamo a poco a poco, o ancora udire il tintinnio
del cucchiaino contro l’interno della tazza mentre mescoliamo
lo zucchero. In questo modo la rappresentazione della tazza di
tè prende vita e guadagna memorabilità, associandosi anche a
quelle sensazioni extra-visive tanto utilizzate dai mnemonisti.8
193
specifici”, ovvero di quelli formati da quattro-cinque elementi,
come le stanze di un edificio, così che essi possano contenere
raffigurazioni anche estremamente complesse senza presentare
problemi di spazio.
194
diverso da un tassì, ma, le scelte alternative non sono
moltissime non potendo mai uscire dal seguente schema:
195
NOTE
1. Phoenix, Conclusio V.
2. P. Hérigone, Cursus Mathematicus, 1634; A. Paris, Principes et applications
diverses de la mnemonique, 1833; M. Silvin, Trattato di mnemotecnica, 1843.
3. Cfr. qui al cap. 1.4.6.
4. Per una trattazione completa sul riutilizzo delle immagini di memoria verborum ai
fini della memoria rerum cfr. qui al cap. 4.7.
5. Cfr. qui al cap. 3.4.
6. Cfr. qui al cap. 4.2.2.
7. Phoenix, Conclusio II.
8. Cfr. L. Borges, Funes o della memoria; A.R. Lurija, Un piccolo libro una grande
memoria, cit.
9. Cfr. qui al cap. 2.5.
10. De umbris, 159.
11. Ibid. 178.
12. Ibid. 225.
196
LA TRADUZIONE DELLA ARS
MEMORIAE DEL DE UMBRIS
IDEARUM
197
ARTE DELLA MEMORIA DI GIORDANO BRUNO
PARTE PRIMA
II
198
sua interezza.
E ritengo che quanto ho appena detto non sia privo di
fondamento, poiché, se consistesse nella sola facoltà
memorativa, in qualche modo potrebbe provenire
dall’intelletto? E se nella sola facoltà intellettiva come farebbe a
trasmettersi dalla memoria, dai sensi e dalle inclinazioni?
Inoltre grazie ad essa formiamo in base a regole e possiamo
capire, parlare, ricordare, immaginare, desiderare, riuscendo a
volte addirittura a percepire in base alla nostra volontà. (87)
III
IV
199
soggetto dell’agente? Senza alcun dubbio in base a ciò che di
fisico era preesistente. Esso si è formato in base ad una certa
condizione per la quale riceve la fondamentale definizione di
primo strumento.
Se poi, a chi filosofa in maniera dozzinale, piace chiamarla
innanzitutto essenza, in base alla forma esteriore, non importa,
dal momento che è normale porre la proprietà delle cose
artificiali nella forma esteriore, giacché l’arte non penetrerebbe
all’interno della materia. Ma costui è talmente lontano dai nostri
propositi che non è in grado di comprenderci. (89)
VI
200
l’arte superi la natura in certe cose e sia invece superata da essa
in altre. Ciò infatti non può accadere se non nel caso in cui si sia
potuto osservare la natura mostrare le sue proprietà superiori
negli atti più remoti piuttosto che in quelli più immediati. Si
ritiene che essa perpetui la forma sostanziale nella stessa specie,
quella medesima forma che non riesce a mantenere nella
moltitudine dei singoli; la capacità dell’arte non riesce ad
ottenere ciò.
È invece grazie all’arte che la forma estrinseca e la figura del
creatore della Clavis magna sono affidate alla dura pietra o al
diamante. Parimenti le qualità, le azioni e il nome sono affidati
alla memoria, e ciò che va ricordato è affidato al pensiero per
mezzo di oggetti, e pure la natura non avrebbe potuto trattenerli,
giacché il ventre della materia fluttuante divora ben presto
qualsiasi cosa. (91)
VII
201
universale, infatti, non si restringe per servirci di meno, poiché
Giove piove su tutti i germogli ed il benigno Apollo sorge su
tutte le piante. Tuttavia non tutte le cose attingono una
medesima vita dal mondo celeste, giacché non tutte si rivolgono
ad esso nel medesimo modo, come possiamo osservare
chiaramente in noi stessi, che ci impediamo con le nostre stesse
mani di entrare in rapporto con tale mondo. (92)
VIII
Poiché dunque la natura offre tutto ciò che è possibile, sia prima
di ciò che è naturale, sia nelle cose naturali, sia per mezzo di
esse, così osserva come da tutte le cose naturali abbia origine
un’azione, così che potrai cessare di ignorare come la natura
agisca per mezzo di esse. La filosofia comune potrà distinguere
quanto vuole l’agente positivo da quello naturale, poiché non
sarà mia cura negare ciò. Chiedo solo che mi sia accordato il
diritto di operare distinzioni, allo stesso modo in cui lo
strumento di chi opera è distinto da colui che opera, il mezzo da
chi ordina e il braccio da colui che lo agita. (93)
IX
Vedi dunque come non siamo per nulla legati alla filosofia
comune, la quale ha vincolato il nome di natura alla forma e alla
materia ed ha previsto un principio efficiente intrinseco, sia in
quanto comune a tutte le cose, sia sottoposto a questa, sia
contratto in quella. Perciò stiamo a sentire più volentieri gli
idioti mentre parlano e paragonano la natura di un uomo con
quella di un altro uomo: la natura infatti non va considerata
come un universale logico né rapportata ad esso, bensì come un
202
universale fisico contratto sia in tutte le cose, sia in ciascuna di
esse. (94)
XI
203
calamai alle penne, fino ad arrivare dalle penne alle lettere di
metallo fuso.
Non diversamente riteniamo che sia andata per ciò che
concerne la scrittura interna, poiché tale ricerca umana iniziò sin
dall’antichità o con Simonide melico o con altri; essi,
utilizzando luoghi e immagini al posto della carta e della
scrittura, e ponendo la facoltà immaginativa e quella cogitativa
al posto dello scriba e della penna, studiarono un modo per
scrivere le immagini delle cose da ricordare nel libro interiore.
Che cosa e quanto importante sia ciò che aggiungeremo al loro
zelo lo giudicheranno quanti potranno confrontare le nostre
opere con le loro.
Ma ora iniziamo ad occuparci di ciò che è alla base della
nostra pratica. (96)
XII
204
specie.
Alcuni di questi non hanno una propria sostanza, come è
evidente in tutto ciò in cui il sofista mendica dal reale ed in
genere l’arte imitatrice della natura.
Alcuni poi appaiono a tal punto appropriati all’arte da
sostenere senza dubbio anche quelli naturali: si tratta dei segni,
delle note, dei caratteri e dei sigilli. In essi l’arte ha tanto potere
da sembrare agire al di fuori della natura, sopra di essa e, se la
situazione lo richiede, contro di essa. (97)
XIII
XIV
205
possono ben mostrarci Mercurio. Ma la sostanza, l’essenza, la
bontà, la giustizia e la sapienza di Mercurio possono
mostrarcela solo le note, i caratteri ed i sigilli. Quelli invece che
ci presentano promiscuamente sia Mercurio, sia tutto ciò che si
dice di Mercurio, sono chiamati più propriamente indizi. Per
mezzo di questi, come per mezzo di un comune ceppo di
immagine e nota, indichiamo e mostriamo entrambi, come è
evidente nei pronomi dimostrativi, quando, riferendoci a
Mercurio e alla virtù, diciamo questo simulacro, questo segno,
questa nota, questa similitudine. (99)
XV
Dopo aver considerato queste cose, ricordati che per questa arte
non possono essere utilizzati, per raggiungere il fine che le è
proprio, altri intermediari che non siano sensibili, formati,
figurati, definiti nel tempo e nello spazio; e come ciò avvenga
anche riguardo alle altre facoltà tecniche dell’anima è stato
spiegato nel primo libro della Clavis Magna. È chiaro tuttavia
come nulla possa essere meno utile delle immagini nel caso in
cui molte delle cose da memorizzare non siano né immaginabili
né rappresentabili e neppure rapportabili a qualcosa di simile,
come è il caso dei termini essenza, ipostasi, mente e così via,
ma come userai i segni per le cose significabili, allo stesso
modo utilizzerai le immagini per quelle immaginabili. E con
questo non va dimenticato che le immagini non sono meno
legate ai segni di quanto questi siano connessi alle immagini.
(100)
XVI
206
Dalla mancanza di collegamento deriva quella incapacità per la
quale spesso l’immagine collocata non torna alla mente di chi
pratica l’arte e tuttavia non ci sembra che i nostri predecessori
abbiano esaminato la questione da questo punto di vista. Questa
mancanza di collegamento è quella cosa che a volte ferisce lo
sguardo più di una luce accecante, di una oscurità troppo densa,
di un grande affollamento, di una disperdente distanza e altre
cose simili che capitano nei loci da essi utilizzati solitamente.
Per questo, come cani bastonati che mordono la pietra o il
bastone, non riescono affatto ad individuare il responsabile reale
di quel pericolo e danno la colpa a qualcos’altro.
Noi invece, essendo stati in grado di trovare e realizzare tale
collegamento, non abbiamo avuto bisogno di loci materiali, la
cui esistenza dovesse cioè essere verificata grazie ai sensi
esterni, né abbiamo dovuto vincolare l’ordine di ciò che va
ricordato all’ordine dei loci, ma basandoci solamente
sull’architetto dell’immaginazione, abbiamo collegato l’ordine
dei loci all’ordine di ciò che si deve ricordare. E riteniamo di
essere riusciti a fare ciò in modo tale che tutto quanto fosse stato
esaminato, insegnato e sistematizzato al riguardo dagli antichi –
in relazione a ciò che si trova esposto nelle loro trattazioni che
sono giunte a noi – non rappresenti qualcosa di rispondente alla
nostra scoperta, la quale, dal canto suo, rappresenta una
invenzione oltremodo pregnante, alla quale è dedicato il libro
della Clavis magna.
Ma ritorniamo ora ad occuparci dell’importanza della nostra
concezione. (101)
XVII
207
sola materia, designate con il nome di natura, bensì la materia
formata e la forma materiale congiunta alla materia stessa, in
base alle quali si ottiene ciò che propriamente viene definito
naturale, ovvero quel nesso tolto il quale non vi è più nulla che
la natura possa riprodurre; ancor meno può fare l’arte, che della
natura è solo imitatrice, a meno che non vogliamo immaginare
che esista qualcosa di inferiore al nulla. L’arte, non solo
presuppone la natura stessa come primo subiectum, ma anche il
naturale stesso come subiectum prossimo.
Dunque, come ciascuna arte cerca la proprietà di una materia
adatta alle proprie operazioni, in base agli elementi della sua
concezione, e quelle della forma più armoniosa – essendo il fine
comune di tutte le arti quello di ricreare una qualche forma in un
qualche subiectum - allo stesso modo anche la presente arte, la
quale condivide la proprietà della facoltà grafica in genere e
l’ottima regola della proporzione, è in rapporto a questi due
aspetti. È infatti una pittura interna, giacché realizza le
immagini delle cose e dei fatti che vanno ricordati. È anche una
scrittura interna, poiché organizza e distribuisce i segni, le note
e i caratteri i quali, essendo soggettivati anche in ciò che è
immaginabile, non nego che, parlando comunemente, vengano
chiamati immagini, sia per la memoria delle cose, sia per le
figure utilizzate per la memoria delle parole. (102)
XVIII
208
come luogo, come subiectum prossimo l’inchiostro e come
forma i tratti stessi dei caratteri.
Allo stesso modo anche questa arte ammette oggettivamente
un duplice subiectum : innanzitutto il locus; successivamente
ciò che ad esso viene apposto, ovvero l’adiectum. Anche
potenzialmente ammette un duplice subiectum, in primo luogo
la memoria e l’immaginazione in genere, in secondo luogo la
rappresentazione immaginabile e pensabile in genere; come
forma prevede l’intenzione ed il confronto delle immagini che
appaiono in un subiectum con quelle presenti in un altro
subiectum. Come anche la pittura e la scultura allestiscono gli
strumenti per formare la loro materia, così anche a questa arte
non mancano gli strumenti per le sue rappresentazioni. (103)
PARTE SECONDA
209
sopra. La prima serie tratta della materia, ovvero del subiectum.
La seconda della forma, cioè dell’adiectum. La terza dello
strumento che dimostra il proprio valore operando. Perciò
cause, genere efficiente e strumento concorrono allo stesso fine.
(104)
I SUBIECTA
210
spinta, può assumere tutte le infinite configurazioni di aspetto.
E non c’è nulla che possa giudicare meglio della stessa
esperienza riguardo a come questo subiectum si elevi felice e
nobile. In ogni caso chi riuscirà a cavar fuori qualcosa dalla
Clavis Magna, faccia pure: non a tutti è dato di giungere fino a
Corinto.
Ma torniamo ora al subiectum come lo abbiamo definito
inizialmente. (105)
II
III
211
IV
212
VI
VII
213
precisi e gli intervalli e, mescolandosi altri elementi
all’immagine originale, renderebbe impossibile l’interpretazione
di una ed ostacolerebbe quella dell’altra.
Infatti, come le lettere o i sigilli che, scritti sopra ad altre
lettere o ad altri sigilli, o si cancellano a vicenda o quanto meno
si confondono, allo stesso modo, anzi, direi ancor di più, in
quelli annessi e connessi come in quelli adiacenti e contigui non
separati da una intercapedine convenientemente ampia, ti
troveresti ad incorrere in una inopportuna confusione. (111)
VIII
214
continuità, in modo da mutare la forma e più in generale
l’aspetto di ciò che è mutabile. (112)
IX
215
intervenisse a modificare la loro disposizione naturale, i
subiecta sarebbero disgiunti più del necessario, potrai sia
sottoordinarli, grazie alla tua collocazione, l’uno dopo l’altro,
sia immaginarli distinti per mezzo di subiecta aggiunti.
Cosa impedisce infatti all’immaginazione di far svanire da
qui quelli vecchi e sostituirli con altri costruiti da sé con i quali
rappresentarsi le stesse cose? Inoltre questi subiecta immaginari
che abbiamo voluto aggiungere a quelli veri non andranno
tenuti in scarsa considerazione per il semplice fatto di essere
creati con facilità; fino a quel punto infatti quando si pensa a
loro occorre applicarsi, finché ci farai talmente l’abitudine che
non ti sembreranno affatto doversi da quelli più veri. E si tratta
di un risultato ottenibile con un minimo sforzo, se solo vuoi.
(114)
XI
Non c’è alcun dubbio che una scorsa frequente dei subiecta sia
di tanto giovamento quanto può portarne la presente arte.
Sappiamo tutti come chi si è abituato a leggere per più tempo,
ha imparato ad osservare le singole lettere e a ricavarne da esse
scritti ben strutturati più velocemente di quanto possa riflettere.
In questo caso è sicuramente l’abitudine che lo porta a
comportarsi, senza neppure il bisogno di pensare, in modo
sempre più preciso rispetto a quanto potrebbe mai fare il puro
pensiero di una persona non abituata, anche se fosse
diligentissima nel dominare e controllare le singole parti ed ogni
elemento.
Un citaredo virtuoso è in grado di suonare alla perfezione
senza pensare grazie alla sola abitudine; un altro, magari dotato
dello stesso tocco del primo, ma privo della sua abitudine, sarà
tanto più goffo nell’esecuzione, quanto più rifletterà su ciò che
216
deve fare. Ormai abbiamo parlato a sufficienza della forza
dell’abitudine. È ormai piuttosto chiaro come l’acqua lieve sia
capace di scavare il duro marmo ed il ferro. Ma perché ci siamo
soffermati su cose tanto risapute? Abbiamo voluto riportare
degli esempi non certo perché non fossero conosciuti, ma
perché è sicuramente utile citarli qui per il nostro fine. (115)
Chi si applica con metodo alle regole dell’arte antica è in
grado di prendere in esame tutti assieme, con un solo atto
dell’immaginazione, diversi subiecta messi da parte da lungo
tempo da una parte e dall’altra, anche se sono moltissimi,
esprimendosi non meno velocemente e raffinatamente di come
farebbe se stesse leggendo su una pagina.
Il che di solito sembra una cosa incredibile a chi è
incompetente in questa arte, così come ai principianti; tuttavia i
fatti dimostrano il contrario. Se ciò riesce meglio grazie alle
antiche arti, e come ciò avvenga lo vediamo tutti i giorni, cosa
avverrà in questa, per la quale l’abitudine richiede un periodo di
esercizio oltremodo breve? Qui, tre o quattro mesi ti
arrecheranno più, migliori e più corrette capacità rispetto a
quelle che là potresti ottenere di sicuro in sei anni. Stiamo infatti
scoprendo il modo di collocare in qualsivoglia dei singoli
subiecta ciascuno dei termini che vogliamo ritenere a memoria,
nella loro interezza, e molte altre cose più importanti, come
appare evidente nei segreti della Clavis Magna. Riguardo a
quanto ed in che modo quel libro ne abbia parlato, lo vedranno
coloro che potranno giudicare correttamente entrambe le opere.
(116)
XII
217
Varie sono le membra del mondo. Varie sono le specie nelle
membra del mondo. Varie sono nelle specie le figure degli
individui: non esiste un olivo completamente uguale ad un altro,
né un uomo identico ad un altro. In tal modo ogni cosa è distinta
secondo le proprie attitudini dalle differenze, ogni singola cosa
dalle altre, e tutto è separato da tutto in base alle diversità come
se fossero i propri confini.
Saggia dunque, per conformarti alla natura, la diversità in
tutte le cose, nel modo di essere, nella grandezza, nella forma,
nella figura, nella disposizione, nella strutturazione, nel limite,
nella collocazione e rivestile di tutte le differenze che puoi,
agendo e subendo, dando e ricevendo, togliendo e aggiungendo,
e modificando in tutti i modi che abbiamo riportato.
Uno e ente sono termini scambievoli; ciò che non è uno non è
neppure ente; in tal modo vediamo come ciascuno sia uno,
poiché, a modo suo, è definito dalla propria differenza.
L’uniformità procura la nausea a tutti i sensi; nessuno di essi
infatti è allettato dalla medesima specie di qualità piuttosto
assidua e continua; ma neppure tollerano, neanche per poco
tempo, la stessa identica qualità, se disposta alla stessa identica
maniera.
Ciò non è affatto sfuggito a quelli che, riflettendo sullo
scorrere veloce di tutte le cose naturali, ritengono impossibile
bagnarsi i piedi due volte – o perfino una sola – nello stesso
fiume. (117)
XIII
218
quando si fanno notare per la loro posizione.
Per questo decidiamo di apporre certi altri subiecta a questi
principali, in modo che possano ricevere, grazie all’aggiunta di
altri subiecta come innestati in loro, quell’affettività che non
possiedono presi in sé stessi. E che dunque? Quanto più
aumenta o diminuisce la loro efficacia emozionale, tanto più
efficientemente o lentamente sono in grado di smuovere la
fantasia stessa che è assai sensibile all’aspetto affettivo, e perciò
entrare e tornare nella stanza della memoria. Nasce da qui la
necessità di stimoli, detti pungenti, arguzie, condimenti; ecco
perché chi si è dimenticato, mentre tenta di ricordare ripete,
ricapitola, riprende, come se sperasse di richiamare a sé
l’ispirazione del ricordo per mezzo della stessa varietà, della
successione dei luoghi medesimi, o, per meglio dire, della stessa
varietà di luoghi. Il che facilmente capita che riesca bene a
coloro che compiono tali operazioni senza alcun turbamento
d’animo; altrimenti si giunge ad una confusione tanto maggiore
quanto quel turbamento si infiamma sempre di più.
Va comunque detto che quanta sia l’importanza degli affetti
in genere e come essi vadano eccitati, mantenuti e differenziati
è spiegato assai chiaramente nella Clavis Magna. (118)
GLI ADECTA
219
aggiunge ad un subiectum, sia esso naturale, artificiale o
fantastico, per esprimere o significare qualcosa mostrando,
rappresentando, segnando o indicando, riferendosi ad essa a
somiglianza della pittura e della scrittura, per mezzo di un
ingegnoso allestimento dell’immagine. Questa regola concerne
le forme comuni disseminate dall’antichità fino ai giorni nostri.
La forma, in verità, come si deduce dai principi della Clavis
Magna, è un ordine scelto e ben formulato delle specie
immaginabili, ordinato in statue, microcosmi, o più
generalmente, in una qualche strutturazione, per notare
internamente o raffigurare qualsiasi cosa dicibile, estraendolo
dal caos della fantasia, la quale permette qualunque
trasformazione. Per esemplificare ciò aggiungiamo una figura,
non a mo’ di spiegazione, ma solo da osservare attentamente.
(119)
FIG. 1
II
220
peraltro l’ordine e la serie degli elementi e dei numeri, non solo
quando occorre concepirlo come suscettibile di forma, ma anche
quando vi è la necessità di immaginare ordinatamente ciò che
può essere formato.
Come potrai meglio capire analizzando la figura, essa è
distinta al suo interno in diversi intervalli: le parti che risultano
sono suscettibili di assumere qualsiasi forma, mentre quella che
dà forma, indicata dalla lettera A, scorre lungo la circonferenza
ed i raggi di numeri e lettere privi di figure. In questo modo
segna una figura con l’Ariete, un’altra con il Toro e così via le
rimanenti altre. E ancora una con l’Ariete che ritorna con
Saturno, un’altra che torna in congiunzione con Marte, un’altra
con questo e quello, un’altra senza entrambi. Così all’infinito
possono essere formati e riformati sia i numeri stessi, le lettere
stesse, nonché essere organizzati in modi diversi quegli
(elementi) che muovono e operano (motori efficienti).
Questo significa organizzare il caos informe, e non importa a
tal proposito che tu metta in relazione i medesimi formatori con
diversi formati o, viceversa, diversi formatori con i medesimi
formati. Tuttavia quello che rimane immobile e rimane sotto,
proprio per il fatto di stare sotto e di venire formato, va trattato
come una donna vicino ad un uomo, e cioè completamente
informe, così da poter essere formata in qualsiasi modo. In base
ad una opinione comune il caos ci sarebbe in maniera più
compiuta se fosse costituito da elementi eterogenei e privi di
ordine, ma un caos di questo tipo non potrebbe essere di alcuna
utilità. (120)
Per aiutare la memoria è necessario che i numeri e le lettere
siano distribuiti in un preciso ordine grazie al quale possano
assumere tutte le altre figure da ricordare al sopraggiungere dei
motori e dei formatori. Come puoi vedere, sono comunque
disposti in maniera così ordinata che lo stesso elemento, sia esso
una lettera o un numero, non può mai capitare né sullo stesso
raggio, né nello stesso punto della circonferenza.
221
E molte altre cose straordinarie possono essere padroneggiate
grazie a questa figura, anche se non è questa la sede adatta per
trattare di ciò. In ogni caso non sto a giudicare se vadano
collocate in questo modo o in un altro, semplicemente lo
stabilisco. Dirò solo che se osserverai attentamente secondo i
principi qui esposti potrai acquisire un’arte rappresentativa tale
che ti sarà utilissima non solo per la memoria, ma anche per le
altre facoltà dell’anima, in modo incredibile. (121)
III
IV
222
Inoltre alcuni di essi sono naturali, altri artificiali. Alcuni
giungono al senso interno per mezzo dei sensi esterni, altri sono
immaginati direttamente nei sensi interni; le specie in cui
possono essere tutti raggruppati sono forma, somiglianza,
immagine, figura, esemplare, carattere e segno, distinte secondo
i significati formali così come è prescritto nelle osservazioni
della Clavis Magna. (124)
VI
223
VII
VIII
224
di uno sia unito al concetto dell’altro. Infatti chi si potrebbe
immaginare l’adiectum “dignità regale” separato da ogni
subiectum? Dunque gli adiecta siano pensati assieme ai
subiecta, e appariranno come lettere scolpite nella pietra, senza
volar via come se fossero agitati dal vento, e neppure
diverranno indistinguibili, come accade alle figure tracciate
sulla sabbia. (127)
IX
225
definisce la sorte costante nella propria incostanza. D’altronde
sarà necessario un limite alla varietà, all’abbondanza numerica,
alla rapidità e alla lentezza, perché non vengano meno le qualità
che si riferiscono alla natura degli adiecta. (128)
XI
226
in altre faccende. (130)
LO STRUMENTO
II
227
essa appunto ricerca. Lo scrutinium con il quale
l’immaginazione ricerca attentamente. L’immagine in quanto
immagine di memoria. L’intentio dell’immagine che è appunto
il motivo per cui essa diviene memorabile, essendo stata esclusa
la presenza di altre. La presentazione di tale intentio, che è per
l’appunto la ragione per cui tale intentio si rende manifesta.
Infine il giudizio, con il quale conosciamo che quella è la
intentio di quella specifica immagine. (132)
III
IV
228
Si impara a conoscere questo strumento per la sua attività.
Trattandosi di una duplice capacità, cioè di ritenzione e di
ricordo, benché dica-no che in realtà siano la stessa cosa,
tuttavia vanno distinte metodicamente, così come ciascuna di
esse deve essere distinta dall’immaginazione, anche se si tratta
solamente di una mia opinione – infatti la facoltà di ritenzione è
al confine con le facoltà memorativa e rappresentativa, e, per
così dire, le delimita – la capacità di richiamare alla memoria va
dunque distinta da quella rappresentativa, giacché da un lato si
può cogliere l’intentio dell’immagine senza forma
immaginabile, mentre non è possibile togliere all’immagine la
propria intentio. Ed è per questo che possiamo ricordare molte
cose nello stesso tempo, ma non siamo in grado di raffigurarcele
simultaneamente.
A tal proposito ecco che ruolo svolge lo strumento: distingue,
separa e ordina, o – se vogliamo parlare più appropriatamente –
è ciò per mezzo di cui avvengono la distinzione, la separazione
e l’ordinamento. Così estrae dal pensiero un’unica cosa dalle
molte presenti per poterla esaminare attualmente; seleziona e
prende in esame un solo ricordo o la sua immagine fra le molte
che si trovano nella nostra memoria.
E come si dice che la nostra immaginazione comprende
qualche cosa di ciò che il pittore traccia sulla parete e la
capacità di ricordare ne trattiene l’intentio, così questo
strumento svolge il ruolo di portare (sottoporre) e unire, o
piuttosto è ciò per mezzo di cui si prende in esame e si unisce
questo a quello, come se fossero legati insieme a vicenda, come
avviene nella stretta tra gli anelli delle catene e in cose simili. E
per questo, quasi seguendo ciò che avviene in natura, fino ai
nostri giorni l’arte imitava questa connessione per mezzo
dell’ordine dei loci, in modo tale che quando non riusciva a
congiungere una cosa all’altra, vi piazzava ciò che era di una
dopo ciò che era dell’altra, e intendo di una e dell’altra non in
senso proprio e a ragione, bensì secondo la posizione attuale; in
229
tal modo si andava in cerca del modo di apporre le immagini di
memoria, utilizzandone di affatto estranee. (134)
Ecco dunque a cosa serve lo scrutinium : a fare in modo che
le unità – così oserei definire molte singole cose per concedere
qualcosa ai censori di parole – ottenute con le immagini
vengano disposte secondo un criterio di ordine dettato dallo
scrutinium stesso. Accadrebbe così se marchiassimo cento
singole pecore con i singoli diversi segni dei numeri 1 2 3 4 5 6
7 8 9 e così via; quando in seguito quelle accorressero a frotte e
disordinatamente, intralciandosi a vicenda, come il pastore con
il bastone ne devia alcune e ne fa volgere altre, ne tocca alcune
e ne attira a sé altre, in modo da condurle una per una
ordinatamente, così il pensiero è in grado di scegliere senza il
minimo indugio, in virtù dello scrutinium, delle singole cose,
una dopo l’altra, allontanando quelle che non c’entrano.
È il momento di riflettere bene secondo questa analogia,
poiché come il pastore, basandosi sul ricordo della successione
numerica, recupera l’ordine delle pecore, cosa che non avrebbe
potuto fare per mezzo delle sole pecore, così noi abbiamo
scoperto un facile tipo di arte grazie al quale, rappresentandoci
le cose udite e viste per mezzo di un ordine numerico adatto al
suo genere, grazie alla medesima successione numerica, siamo
poi in grado di ricostruire l’ordine di ciò che viene percepito a
tal punto che, sapendo contare, insegniamo a ricordare in un
modo estremamente semplice.
Riguardo alla rappresentazione dei numeri sotto ogni aspetto
esiste un nostro lavoro conosciuto da pochi, la cui esposizione
teorica si trova nel libro Clavis Magna dove si tratta dei numeri
semimatematici. Per gli uomini d’ingegno ritengo basti aver
mostrato il riferimento in questa parte dove, anche se non ne
parliamo diffusamente, in realtà abbiamo esposto più di quanto
era necessario in relazione all’argomento che stiamo trattando.
(135)
230
V
231
seconda, la terza, sia quando indica e fa venire in ordine il
primo, il secondo, il terzo, e viene resa specifica, riguardo ai
nostri fini, in base al secondo, e non al primo dei due modi presi
in esame. Si tratta infatti di un ordine pratico e non teorico ed è
proprio più dell’uso che della dottrina. (136)
Tale pratica avviene in due modi: il primo capita a coloro
che, riferendosi a una precisa strutturazione, ricordano per doti
naturali, riflessione e intelligenza, sapendo di dover parlare di
questo, citare quest’altro, e dopo parlare di quello e dopo
ragionevolmente di un altro ancora; a ragione si dice che in essi
avvenga la reminiscenza, la quale notoriamente si distingue
dalla memoria. Il secondo modo, apparentemente senza alcuna
considerazione, ma invece con una considerazione più assoluta
– anche se non totalmente assoluta – come avviene a noi che
possiamo ricordare parole senza averne la minima
comprensione, come quelle di Caronte e Merlino:
Est percor partes agrios labefacta ruinam
e altre di tal fatta, in cui non può esserci alcuna attività
rappresentativa o possibilità di distinzione, e perciò possiamo
avere memoria di esse, ma non reminiscenza, come si vede in
questi casi in cui la differenza tra l’uno e l’altro modo è
evidente. (137)
Poiché questa applicazione non si riferisce alla memoria, la
cui funzione è quella di ricevere e mantenere – come abbiamo
detto e provato nelle dimostrazioni della Clavis Magna – né
all’immaginazione in senso generale – poiché essa comprende
anche il senso comune comunemente detto: ed è infatti
peculiare di ciò che è preesistente, a suo modo, integralmente o
in parte nei singoli sensi esterni - né di sicuro alla facoltà
rappresentativa, poiché essa riguarda le capacità di
comprensione e conoscenza – anche se gli esempi che abbiamo
riportato non rientrano nel genere delle cose comprensibili e
conoscibili - di che natura è dunque quella facoltà interiore che
232
ha la capacità di introdurre nella memoria i suoni percepiti con
le orecchie recati al senso comune come semplici suoni? Di
sicuro, se si tratta della facoltà rappresentativa – non volendo
immaginare un’altra facoltà interiore adeguata agli scopi della
memoria tanto quanto la rappresentativa al fine di introdurre
quegli elementi – non è la facoltà rappresentativa pura e
semplice, bensì armata dello scrutinium, grazie al quale non
solo è in grado come di toccare con mano ciò che viene
percepito, ma di immettere nel magazzino della memoria anche
ciò a cui, per così dire, non riesce a tendere le mani.
Da tutto ciò si evince la necessità di applicare questo mezzo,
la cui assenza ha sbarrato la strada a molte scoperte. (138)
VI
233
abbiamo dichiarato nelle massime introduttive. Per non parlare
di come la novità di certi nomi, dovuta alla novità delle scoperte
e delle osservazioni, darebbe fastidio a molti; per questo ho
taciuto a ragion veduta, anche perché a questa operazione, che è
diretta soprattutto alla prassi, tutto questo non è necessario. Va
prestata la massima attenzione a ciò che ora aggiungiamo
ordinatamente a quanto abbiamo precedentemente elencato
riguardo allo scrutinium. (139)
VII
234
organizzato. (140)
VIII
235
che chiudere gli occhi ed essere morto siano la stessa cosa?
(141)
IX
236
convincono di ciò perché le immagini dotate di molta fisicità
persistono, mentre il senso comune separa la spiritualità dalla
loro fisicità, in modo da poter collocare un’immagine in essa, e
ciò soprattutto quando accoglie quelle dotate di poco spessore.
Parimenti concludono che sia dotato di una migliore capacità di
ricordo un uomo di poca intelligenza nella cui anima siano
fissate tutte le cose sensibili passate.
Si tratta di affermazioni prive di persuasione, perché con le
loro spiegazioni sono simili ai giudizi e ai discorsi di chi
vaneggia. Stabiliscono infatti alcune immagini di memoria più
rapide, altre più lente, alcune con prontezza, altre con
laboriosità; alcune sono rappresentate dal cavallo di Martino,
altre dal cavallo di Giorgio; dire e udire queste cose non si
addice alla loro serietà.
Infatti qualsiasi cosa sentano, giammai la fisicità in quanto
tale, o potresti dire più propriamente il corpo in quanto corpo,
deve essere considerata come ciò che agisce; al contrario
bisogna affermare che l’azione non deriva in ogni caso dalla
fisicità, che quella minore deriva da una maggiore fisicità e
quella minima da quella massima, poiché il corpo in quanto
corpo non agisce; infatti ogni azione dipende dalla qualità, e più
da ciò che è spirituale della stessa qualità, e soprattutto da ciò
che è incorporeo. (143)
Dunque, se andiamo a osservare da vicino le parole di quegli
uomini famosi, non sempre essi sono in grado di evitare le
contraddizioni, se pure vuoi perdonare loro il fatto che le cose
fisiche non agiscono di più in quanto fisiche, ma perché
persistono più a lungo e fungono da substrato degli accidenti da
cui vengono prodotte le rappresentazioni che persistono poiché
persistono i corpi, e persistendo si fissano meglio. Una tale
giustificazione non può essere accolta senza vomitare per le loro
parole, frase da stomaco delicato. Tralascio poi il fatto che più
sono ignoranti, più sono pedanti e quanto più sono pedanti,
tanto più sono ignoranti. E non è una contraddizione con la
237
nostra esperienza che, infatti, quando indugiamo ad esaminare
una singola cosa ci ricordiamo meglio di quando lasciamo
scorrere le cose prestandoci poca attenzione; l’esperienza ci dice
anche come avvenga altrettanto spesso che ci ricordiamo per
sempre di qualche cosa vista, udita o presa in considerazione
senza soffermarci affatto su di essa, mentre magari non abbiamo
il minimo ricordo di altre viste e prese in considerazione a lungo
e con una certa attenzione. La forza dunque non consiste nella
persistenza e nella fisicità, anzi nel contrario stesso, soprattutto
per quanto concerne i corpi. (144)
Ma, al contrario, non è l’indugio che fissa il ricordo, bensì la
capacità attiva della forma, anche se a volte sembra che la causa
sia l’indugio, perché alcune forme non sono adatte o di natura
tale da muoversi rapidamente o accogliere prontamente un
subiectum e perciò lo scopo viene raggiunto grazie all’indugio.
Invece quanto più la forma è incorporea, tanto più è attiva. Così
il fuoco è il più attivo di tutti gli elementi perché è il più
incorporeo di essi e quello che meglio riesce ad attirare su di sé
l’attenzione e, se gli si fornisce materia, si alimenta da solo
all’infinito. Anche se agisce molto, non lo fa in quanto è molto
grande o in virtù della propria fisicità, bensì grazie a quella
qualità più intensa che suole essere conservata in tale
grandezza; di sicuro se tale qualità – come sottolinea un
Platonico – potesse essere ridotta alla metà di quella grandezza,
aumenterebbe in modo tale da avere doppia efficacia; così
avrebbe efficacia massima se ridotta al minimo, infinita se
ridotta ad una quantità indivisibile.
Da quanto abbiamo detto, possiamo vedere quanto questi
cosiddetti filosofi abbiano parlato sconsideratamente. (145)
XI
238
In questo modo si può anche vedere chiaramente – giacché
sottolinearlo non è privo di giovamento a chi studia la presente
dottrina – con quanta sconsideratezza certi dottori asini
affermino quel detto comune: «Non la qualità, bensì la
quantità», poiché si deve dire tutto ciò che si oppone alla loro
affermazione. Ammettiamo pure che la qualità di così grande
forza non sia inferiore ad una quantità tanto grande (cioè che
siano proporzionali) e che in una grande quantità si trovi molta
qualità, tuttavia giammai l’attività va ascritta alla grandezza e a
tutto quanto riguarda la materia; l’estensione stessa infatti –
secondo loro stessi – serve per contenere la qualità e la forma.
Tutto ciò può comunque essere tollerato, se è stato detto dai
loro magazzinieri, poiché stabiliscono il valore in base alla
quantità che si trova nei pesi, nei numeri e nelle misure e tutto
ciò che riguarda la qualità di cose semplici, medicine e altri
preparati. Per questo, penso, uno di loro nella nostra patria
aveva annotato nel suo insigne libro: «Non la qualità, bensì la
quantità». Infatti per quanto sia evidente che abbia riferito
queste cose alla descrizione di un maiale, per il quale non si
chiede, come si farebbe per un cavallo, se ha gli occhi
simmetrici, le orecchie piccole, il collo stretto, il petto ampio, la
fronte sporgente, muso dritto, zampe sciolte, e altri particolari
simili, ma importa solo se è grande, lungo e grasso, tutto questo
tuttavia poteva essere rimandato subito dopo dal maiale a colui
che si trovava nel magazzino in modo non meno conveniente:
«Non la qualità, bensì la quantità», come una madre pia che ha
dato alle figlie la dote e ha fatto dottore il figlio. (146)
XII
239
unendo si muta. Mostriamo ora il loro funzionamento. Eraclito
disse: «Se tutte le cose fossero fumo, le narici distinguerebbero
tutto». Noi diciamo più spesso che se tutti fossero trasformati in
galline tranne la volpe, questa non soffrirebbe più la fame e tutti
verrebbero divorati dalla volpe. Di tutti i poteri l’unico in grado
di trasformare tutto è la fantasia dell’uomo; di tutti i poteri
l’unico in grado di mangiare e gustare tutto è il pensiero
dell’uomo. La fantasia potrà applicarsi a tale tipo di
trasformazione – non senza un atto del pensiero – così che la
facoltà cogitativa possa riprodurre potentemente tutte le cose
memorabili, non senza il concorso della fantasia.
Ma chiederai: la fantasia dovrà trasformare tutte le cose
secondo la medesima specie e secondo più specie?
Trasformandole e riportandole ad una sola, non si avrà memoria
di molte, ma di una sola, poiché se tutto si convertisse in pecora,
a quel punto il lupo non moltiplicherà le specie commestibili
così che si possa dire che tutte tranne una sola sono
commestibili per lui. Trasformandole e riportandole invece a
più specie, dipende se le specie sono finite o infinite. Se sono
finite o sono determinate e in questo caso bisogna conoscerle e
stabilirle, o sono indeterminate e ci troveremmo così al punto di
partenza. Se invece sono infinite, cercare di cavarci qualcosa è
da stolti. (147)
Bisogna perciò sapere che la trasformazione non va realizzata
in modo tale da distruggere la diversità sostanziale o da
eliminare gli accidenti specifici di ciascuna cosa; bisogna invece
fare in modo che tutte le cose, quando viene accostata loro una
particolare forma, siano mutate in una particolare maniera, così
da assumere una comune caratteristica di memoria da una sola
[forma] e per mezzo di essa. Così il nostro lupo potrà divorare
tutte le cose come se fossero una sola, se tutte le essenze2 e tutto
quanto consegue da esse si rivestiranno del medesimo genere di
accidente.
Così come è possibile immaginare anche infinite lettere,
240
volendo, correlate alla stessa vocale posta al centro del cerchio
– facendo attenzione che ognuna di esse mantenga la propria
specificità – le quali assumono tutte il suono della medesima
vocale, o meglio sono così lungi dal perdere la propria
specificità distintiva a causa dell’aggiunta della vocale, tanto
che grazie ad essa sono in grado di comunicare meglio di prima,
allo stesso modo applicando diversi registri [dell’organo] alla
stessa nota, si ottengono dei suoni diversi in base al loro
specifico tipo.
Perché pensi di non poter riuscire a ordinare e non provi
invece ad unirti qualche specie, fra tutte le innumerevoli
possibili, ponendola al confine tra fantasia e pensiero, così che
tutte le cose divengano memorabili nell’anima, così come
possono essere osservate in un libro? Questo è quanto lasciamo
al tuo zelo, chiunque tu sia, o lettore intelligente. Osserva in che
cosa sia consistita la superiorità dell’invenzione di Pan, dio
dell’Arcadia, quando per primo unì le canne selvatiche; queste,
già realizzate in precedenza da diverse persone d’ingegno, di
solito non erano facilmente intonate fra loro, con l’emissione
del medesimo soffio di Pan nello stesso accordo di canne
diverse, eliminando la dispersione e realizzando l’unione, uno
da solo supera gli altri senza difficoltà. (148)
XIII
241
giunge contemporaneamente a un’altra, sia essa di luogo, di
tempo, razionale, naturale, artificiale o di qualunque altro
genere di cose convenzionali che siano concomitanti o in
successione una dopo l’altra. In tal modo passiamo dal ricordo
della neve a quello dell’inverno; all’inverno è associato il
freddo e a questo il suo contrario; così si associano di seguito il
ricordo del calore che si diffonde nello stomaco, quello di una
buona digestione, l’appetito, il nutrimento vitale, la forza,
l’allenamento e così via, similmente per tutte le altre cose.
Tuttavia se qualcosa è per natura privo di ordine, va riferito e
sostenuto a qualcosa di ordinato, il quale, a sua volta, deve
comunque essere qualcosa di sensibile. Per questo non a caso un
filosofo deduttivo (sillogistico) ha detto che l’ordine delle cose
sensibili consiste nella loro natura, e non conosce ordine al di
fuori di essa. Per cui se gli chiedessimo: «In cosa consiste
l’ordine?¬ egli risponderebbe che consiste nel procedere di
qualcosa secondo la via naturale. Allo stesso modo direbbe che
la mancanza di ordine consiste nell’allontanarsi dalla via
naturale.
Questo è ciò che volevamo fosse detto riguardo al mezzo e
che riguarda il mezzo dello scrutinium. Se solo studierai queste
cose con un minimo di attenzione, non vi è nulla che ti possa
impedire di progredire ulteriormente: grazie ad esse ti sei
allontanato da ciò che impediva l’accesso a quanto segue. E
sicuramente abbiamo evitato di non porre un corpus sufficiente
di quelle speculazioni filosofiche che bastano da sole per attuare
la prassi. (149)
PARTE TERZA
242
I
II
243
all’esercizio, poiché ci si accorgerà benissimo di come le cose il
cui ordine supplisce alla memoria naturale, grazie ai subiecta
per mezzo dei quali sono ordinate e collocate, si presenteranno
in maniera non meno ordinata che se fossero scritte su una
pagina, così da poter andare con la stessa facilità dalla prima
all’ultima e dall’ultima alla prima, e parimenti invertire a
piacere l’ordine del discorso, grazie all’evidenza sensibile dei
loci. (151)
III
IV
244
Parleremo altrove in merito ai vari modi con cui le cose stesse si
collocano, si recuperano e si mettono in relazione tra loro. Per
quanto riguarda questa facoltà la strada da percorrere è spiegata
a sufficienza in quanto abbiamo detto precedentemente; hai
comunque un’ottima maestra e guida nella natura, intrinseca ed
estrinseca, che ti illumina costantemente sia dentro di te, grazie
all’intelletto, sia fuori di te, per mezzo degli oggetti fisicamente
presenti. (153)
VI
245
unico adiectum, così che si otteneva un numero enorme di
distinzioni di combinazioni e disposizioni possibili. A tal
riguardo colui che conosciamo come il primo che abbia
trasferito questa arte dai Greci ai Latini, si prende gioco dello
sforzo di alcuni Greci che intendevano redigere le immagini
delle parole e prepararsele così da non perdere tempo a cercarle
quando ce ne fosse stata la necessità. Egli infatti notava come il
numero delle parole fosse sterminato e come fosse perciò
ridicolo tenervi dietro dalla prima all’ultima. Noi invece
abbiamo accertato che non solo è possibile, ma è pure semplice
poter avere delle immagini preparate, con ciascuna delle quali si
possono apporre intere parole, di qualunque genere esse siano,
in ciascun locus e tutto ciò può avvenire in più di un modo,
come ora mostriamo in diverse pratiche realizzate per fini
diversi tra loro. Ma ora, con quella che segue, ne mostriamo
l’applicazione. (155)
246
II
FIG. 6
III
247
con la massima rapidità possibile e senza alcun indugio quando
uno ti chiede oppure tu stesso cerchi di individuare rapidamente
quello che è correlato ad una particolare lettera; ciò deve poter
avvenire sia in maniera ordinata, dalla prima all’ultima e
dall’ultima alla prima, sia in ordine sparso. (158)
IV
248
Nettuno nel cavallo RR
Pallade nell’ulivo SS
Giasone nei tori TT
Medea nella pentola di Esone VV
Teseo in Scirone XX
La figlia di Niso nei capelli del padre YY
Dedalo nella costruzione delle ali ZZ
Ercole in Anteo ψψ
Orfeo nella lira ΦΦ
i Ciconi in Orfeo ΩΩ
Esaco nel precipizio ΘΘ
Memnone nel luogo di sepoltura
Arione nei delfini
Glauco nell’erba
249
FIG. 7
250
pratica sono preferibili al metodo della precedente. (161)
251
FIG. 8
VI
252
I
II
253
Licaone che trasforma i sassi. Deucalione che uccide il Pitone,
Apollo che custodisce il bue e così via tutti gli altri svolgono
l’azione di quelli a loro successivi man mano che si susseguono
le altre lettere.
Vuoi richiamare la sillaba PA? Poni la A della ruota interna
in corrispondenza della P di quella esterna e la otterrai per
mezzo di Plutone nel banchetto. La sillaba RE? Basta mettere la
E della ruota interna in corrispondenza della R di quella esterna
e la otterrai per mezzo di Nettuno che trafigge Callisto. Allo
stesso modo la sillaba SI con Pallade con Bacco fanciullo e VO
con Medea che trascina via Proserpina.
Ora sai come si deve procedere per raffigurare in maniera
sensibile una sillaba di due lettere. (166)
III
254
(167)
IV
255
stesse seduto, appoggiato o ritto.
E se si presentassero altre lettere oltre a queste, il che può
accadere assai di rado nei termini latini, greci, ebrei, caldei,
persiani, italiani, arabi e spagnoli, vi provvederai grazie alla
medesima luce che hai visto venirci in aiuto per le tre lettere
precedenti.
Per quanto riguarda i francesi – riguardo ai tedeschi, ai goti,
agli scizi e altri di tal fatta, essi stessi vi provvederanno – i quali
non perché la loro lingua sia rozza, ma a causa di non so quale
uso o consuetudine ammettono l’uso di alcune lettere che
vengono omesse nella pronuncia per distinguere le parole, a tal
riguardo, si diceva, non vi è alcunché che ti possa creare dei
problemi: la scrittura interna infatti non ne viene toccata e viene
eseguita in relazione a ciò che va pronunciato, senza aggiungere
quelle lettere di cui si è detto. Per questo non mancano tra i
francesi uomini dall’ingegno affatto superficiale che cercano di
liberare la scrittura della loro lingua da questa specie di
condizione ingiusta arrecatale da una evidente mancanza di
cultura. (169)
VI
256
VII
VIII
La U dopo la Q
Non voglio fare a meno di notare – sebbene quanto sto per dire
vada collocato non tra i precetti indispensabili, bensì tra quelli
utili – che nella scrittura interna non bisogna considerare la U
dopo la Q: infatti il suono della Q non muta, con o senza la U,
così che QU mostra chiaramente il proprio valore, che è
semplicemente quello di un’unica lettera; per questo, se
servissero lettere da vendere, andrebbe bene scrivere: «Quinte,
Quinte quare quadrum quintum quatis?». Ma se si dovesse
comprarne, non sarebbe male scrivere: «Qare Qinte qatis
qadrum qintum?». Così anche coloro che sono soliti fare uso di
lettere inutili senza basarsi su qualche giudizio preliminare
imparziale e di maggior cultura, renderebbero un servizio
migliore agli stranieri che studiano la loro lingua, servizio che è
invece completamente inutile nella loro patria. (172)
257
IX
258
Tutti quelli di cui hai potuto sperimentare con certezza
l’efficacia sulla tua immaginazione vanno ridotti al numero di
trenta nomi principali. Nulla infatti impedisce che abbiano un
nome proprio diverso dal loro. Infatti a Filoteo rimarrà sempre
addosso il carattere del nome di Deucalione se anche solo una
volta è stato annoverato nel numero di quelli che lanciano sassi.
Si può comprendere meglio il valore di questa scoperta
applicandola ad altre cose, piuttosto che osservandola da fuori.
(173)
II
259
correlati alle trenta lettere, ora, in maniera altrettanto ordinata,
collocane centocinquanta, cifra che si ottiene combinando ogni
prima lettera di una sillaba bielementale aperta con ognuna delle
cinque vocali. Vediamo dunque che in base allo stesso principio
con cui abbiamo insegnato ad organizzare un abbecedario
abbiamo insegnato anche a formare un sillabario. (175)
III
IV
260
V
VI
261
collochiamo solo una, a cui le altre sono simili, e non estesa,
bensì ristretta, poiché i trenta vessilli principali sono disposti
sulla circonferenza, e i cinque sottomessi a ciascuno di essi
sono disposti in scala da questi verso il centro (fig. 9).
FIG. 9
262
CA (CA) Hasamon trapianta 11
CE (CE) Phega innesta 12
CI (CI) Belhaiot nell’asino da soma 13
CO (CO) Pilumno trebbia il grano 14
CU (CU) Oresteus cura le viti 15
263
GU (GU) Talus nella sega 35
264
KU (MU) Glycera intreccia corone 60
(182
LA (NA) Emor danza 61
LE (NE) Anacharsis tira i mantici 62
LI (NI) Delos fonde il rame 63
LO (NO) Lydus nelle monete 64
LU (NU) Api medico 65
265
PO (RO) Anfiarao augure 84
PU (RU) Orfeo nell’orgia 85
266
VI (YI) Maletes nella bandiera (vessillo) 108
VO (YO) Gaegar nello scudo 109
VU (YU) Ermus nella campana 110
nella corazza e
XA (ZA) Marmitus 111
nell’elmo
nelle lettere e nella
XE (ZE) Theut 112
scrittura
lettere impresse col
XI (ZI) Conradus 113
torchio
XO (ZO) Talete nell’eclissi e nell’Orsa 114
XU (ZU) Pitagora in Venere e Vespero 115
267
(ψI (ΩI) Alcmeone nella scienza della 128
natura
(ψO (ΩO) Euclide nel male come nulla 129
(ψU (ΩU) [manca nel testo originale] 130
268
DA ( A) Omero in Sofocle epico 146
DE ( E) Sofocle in Omero tragico 147
DI ( I) Farmacon nell’ottica 148
DO ( O) Tapes nella prospettiva 149
DU ( U) Melico nella memoria 150
(185
AA (AA) nodoso 1
AE (AE) simulato 2
AI (AI) intricato 3
AO (AO) deforme (informe) 4
AU (AU) infame (celebre) 5
CA (CA) calpestante 11
CE (CE) inaudito 12
CI (CI) instabile, mutevole 13
CO (CO) rozzo 14
CU (CU) incantato 15
DA (DA) avvicinato 16
DE (DE) adescato 17
DI (DI) giacente 18
DO (DO) orribile 19
DU (DU) impotente 20
269
FA (EA) colpito 21
FE (EE) privo di onore 22
FI (EI) gaio, divertente 23
FO (EO) che porta (sopporta) 24
FU (EU) atteso 25
FA (FA) sprezzante 26
FE (FE) che ha messo radici, testardo 27
FI (FI) fatale 28
FO (FO) sottratto, evitato 29
FU (FU) sfinito, spaventato 30
(186
GA (GA) brutale 31
GE (GE) disordinato 32
GI (GI) appeso, sospeso 33
GO (GO) confuso 34
GU (GU) indistinto 35
270
KA (KA) cadente (incline) 46
KE (KE) offensivo (funesto) 47
KI (KI) ingurgitante 48
KO (KO) preparato (rinnovato) 49
KU (KU) odioso 50
MA (MA) rotto 56
ME (ME) intrecciato 57
MI (MI) insolito 58
MO (MO) spruzzato, versato 59
MU (MU) contraffatto, finto 60
(187
NA (NA) appoggiato 61
NE (NE) inosservato, ignoto 62
NI (NI) irritato, aggredito 63
NO (NO) ferito, molestato 64
NU (NU) funesto 65
OA (OA) affamato 66
OE (OE) sussurrato 67
OI (OI) ripetuto, rinnovato 68
OO (OO) impacciato 69
OU (OU) irremunerabile 70
271
PA (PA) sporco 71
PE (PE) fragile, debole 72
PI (PI) mendicante 73
PO (PO) multiforme 74
PU (PU) che si oppone (interpone) 75
QA (QA) stretto 76
QE (QE) misterioso, segreto 77
QI (QI) prodigioso 78
QO (QO) ignoto 79
QU (QU) ozioso 80
SA (SA) laborioso 86
SE (SE) funesto 87
SI (SI) nuovo, insolito 88
SO (SO) oscuro 89
SU (SU) infausto, osceno 90
(188
TA (TA) impenetrabile 91
TE (TE) disseccato 92
TI (TI) duro 93
TO (TO) infido 94
TU (TU) che (si) precipita 95
272
VA (VA) venale 96
VE (VE) incitato, molestato 97
VI (VI) pusillanime 98
VO (VO) sfrenato 99
VU (VU) rotto, indebolito, fiaccato 100
273
AA (ΦA) obliquo, torvo 121
AE (ΦE) infernale 122
AI (ΦI) tremante 123
AO (ΦO) assalito 124
AU (ΦU) amaro, aspro 125
274
AA ( A) insano (di mente) 146
AE ( E) discordante 147
AI ( I) mordace, mordente 148
AO ( O) che tira calci, recalcitrante 149
150
AU ( U) stupefacente
(190
aa (AA) ulivo 1
ae (AE) alloro 2
ai (AI) mirto 3
ao (AO) rosmarino 4
au (AU) cipresso 5
aa (BA) ulivo 6
ae (BE) alloro 7
ai (BI) papavero 8
ao (BO) quercia 9
au (BU) ortica 10
aa (CA) fiori 11
ae (CE) spine 12
ai (CI) tiara triplice 13
ao (CO) corno 14
au (CU) corna 15
275
ae (EE) cometa 22
ai (EI) arcobaleno 23
ao (EO) torre giunonica 24
au (EU) nube che incombe 25
aa (HA) sega 36
ae (HE) pioggia 37
ai (HI) uncino 38
ao (HO) freno (dei cavalli) 39
au (HU) lingua vibrante 40
276
ae (KE) elogio funebre 47
ai (KI) gufo lugubre 48
ao (KO) gallo 49
au (KU) colomba 50
aa (OA) cappio 66
ae (OE) faretra 67
ai (OI) balteo 68
277
ao (OO) setaccio 69
au (OU) macina (mola) 70
aa (PA) giogo 71
ae (PE) borsa 72
ai (PI) ventaglio 73
ao (PO) scettro 74
au (PU) frusta 75
aa (QA) brocca 76
ae (QE) tromba 77
ai (QI) spada 78
ao (QO) trofeo 79
au (QU) piatto 80
278
aa (TA) albero 91
ae (TE) mele d’oro 92
ai (TI) serpente 93
ao (TO) ceppi 94
au (TU) conchiglia 95
aa (VA) colonna 96
ae (VE) delfino 97
ai (VI) drago 98
ao (VO) cavallo 99
au (VU) ruota della fortuna 100
279
aa (ΨA) panca 116
ae (ΨE) sedia 117
ai (ΨI) tomba 118
ao (ΨO) specchio riflettente 119
120
au (ΨU) viscere degli aruspici
(194)
aa (ΦA) bue lento 121
ae (ΦE) alveare 122
ai (ΦI) spaventapasseri 123
ao (ΦO) trappola per topi 124
au (ΦU) fascio di giunchi 125
aa ( A) fornace 141
280
ae ( E) stoppa che brucia 142
ai ( I) tugurio di pesci (?) 143
ao ( O) cagna che allatta i cagnolini 144
au ( U) cocchio 145
ARIETE
Nella prima immagine dell’Ariete ascende un
uomo nero, di smisurata statura, con occhi ardenti,
AA (AA)
col volto austero, (che sta in piedi) cinto di un
mantello bianco.
Nella seconda una donna non priva di grazia che
porta una tunica bianca, ma con un mantello di
Ae (AE)
colore purpureo, coi capelli sciolti e con la testa
cinta d’alloro.
Nella terza un uomo pallido dai capelli fulvi,
vestito di rosso, con un bracciale d’oro nella mano
281
sinistra e un bastone di rovere nella destra che ha
Ai (AI)
il volto di chi è inquieto e sdegnato poiché non
può ottenere né procurare i beni vagheggiati.
(196)
TORO
Nella prima immagine del Toro vi è un uomo
nudo che ara, con un pileo (berretto) di paglia
Ao (AO)
intrecciata; l’uomo, di colore scuro, è seguito da
un altro contadino che semina.
Nella seconda un uomo nudo e coronato che porta
Au (AU) una chiave, con un balteo d’oro a tracolla e uno
scettro nella mano sinistra.
Nella terza un uomo che tiene nella mano sinistra
un serpente e nella destra una lancia o una freccia;
Ba (BA)
davanti a lui una lampada di fuoco (accesa) e una
brocca d’acqua. (197)
GEMELLI
Nella prima immagine dei Gemelli vi è un uomo
Be (BE) pronto a servire, con una verga nella mano destra,
col volto allegro e giocondo.
Nella seconda un uomo che zappa e lavora la terra
Bi (BI) a fatica; accanto a lui un flautista che danza a
piedi nudi e col capo scoperto.
Nella terza un buffone che tiene un flauto nella
Bo (BO) mano destra, un passero nella sinistra e accanto a
lui un uomo adirato che afferra un bastone. (198)
282
CANCRO
LEONE
283
VERGINE
BILANCIA
284
SCORPIONE
SAGITTARIO
285
manate di terra. (204)
CAPRICORNO
ACQUARIO
286
Nella terza un giovane in collera che sembra
GI (GI)
infiammato d’ira nell’aspetto, quasi con le mani
tese e le dita contorte. (206)
PESCI
287
II opere e lavori, nonché di attività geometriche. Potente e
nobile la seconda per il volgo. La terza bisognosa,
miserabile e schiava.
288
VIII malvagia. La seconda allo stesso tempo infida e turpe.
La terza non cela la propria ira, lo sdegno e la fierezza.
289
SETTE IMMAGINI DI SATURNO
290
mano destra contro la testa di un drago.
Seconda immagine di Giove: un uomo seduto su
Iu (IU) uno scranno trainato da quattro giovinetti alati,
appoggiato ad un fronzuto faggio.
291
fuoco dalla bocca.
La terza: uno che lancia con la mano destra dei
tizzoni di zolfo ardente e che con la sinistra tiene
Li (LI)
salda la testa di un leopardo che egli cavalca,
nonostante l’animale non sia molto d’accordo.
La quarta: un uomo col volto quasi bruciato dal
Lo (LO) sole che brandisce nella destra una spada grondante
di sangue, nella sinistra la testa di un uomo.
La quinta: un uomo di colore fulvo vestito di abiti
Lu (LU) rossi che porta un pesante scettro di ferro ed è a
cavallo di un lupo.
292
Mu (MU) diadema, dalla cui testa si sprigiona un bagliore di
raggi.
293
Oe (OE) essere stati innestati una testa di colomba e dei
piedi d’aquila, seguita da un giovane; davanti c’è
un uomo che sembra fuggire.
Quarta: una donna a cavallo di un toro; con la
destra si pettina i capelli e tiene uno specchio nella
Oi (OI)
sinistra; vicino a lei una donna più giovane tiene un
uccello verde in mano.
Quinta: un fanciullo con una catena d’argento;
Oo (OO) accanto a lui una fanciulla che danza nuda,
incoronata di foglie d’alloro con bacche.
Sesta: un fanciullo alato coi capelli più brillanti
Ou (OU) dell’oro; le penne sono tutte variopinte; il fanciullo
lancia dardi infuocati.
Settima: un giovane e una fanciulla che lottano,
Pa (PA) entrambi nudi, cercando di legarsi a vicenda; lei ha
in mano del lino, lui una catena d’oro. (214)
294
Quarta: un uomo togato con la barba fluente fino al
Pu (PU) petto, seguito da una fanciulla dal volto attraente,
ben fatta in corpo, ma con una coda di serpente.
295
Ri (RI) uno scettro, su di un carro trainato da due capre.
Sesta: una donna che ha delle serpi attorcigliate ad
Ro (RO) ognuna delle corna, delle braccia e delle gambe ed
è a cavallo di una pantera.
Settima: un cacciatore che spinge il cane contro una
Ru (RU) scrofa selvatica e gli va dietro; è vestito con abiti di
lino.
296
Quinta: un principe su un trono d’argento che ha un
Ta (TA) bastone nella destra, mentre con la sinistra
abbraccia una fanciulla.
Sesta: due uomini armati a capo scoperto che si
Te (TE)
abbracciano con le spade sguainate.
Settima: su uno scranno d’argento un uomo
Ti (TI) supplice tende entrambe le mani al cielo; è
riccamente vestito.
Ottava: un uomo a cavallo di un’aquila con un
To (TO) ramo di palma nella destra, seguito da due
sottomessi.
Nona: un eunuco che si chiude gli occhi con le
Tu (TU)
mani di fronte a un letto sudicio.
297
Xe (XE) d’argento; un altro lo paga (contando).
298
delle fondamenta, un altro, vicino a una sorgente
Zu (ZU) zampillante allontana una pecora col bastone e ne
fa avvicinare un’altra.
299
Terza: un uomo presso una tomba circondata da
Aa (ΩA) un’inferriata; vicino a lui un bue divora del fieno.
(219)
Prima della quinta: un uomo canuto con una lunga
barba, accompagnato da due figli, elargisce doni ai
Ae (ΩE)
suoi amici, dietro ai quali ci sono due custodi di
lepri.
Seconda: un uomo con gli occhi rivolti a un libro e
Ai (ΩI) un portalettere vestito di bianco che si avvicina col
capo coperto con un berretto verde.
Terza: un uomo siede a tavola con la moglie o
Ao (ΩO)
un’altra donna, la bacia e le versa da bere.
Prima della sesta: un malato steso a terra; vicino ha
Au (ΩU)
un cane magro e scuro che gli abbaia contro.
300
Seconda: come Sisifo che cerca di far rotolare un
enorme sasso in cima a un monte, seguito da una
Ae ( E) donna col capo e il volto velati, con un mantello
scuro.
Terza: un contadino che porta dei frutti e si tira
Ai ( I)
dietro una volpe legata a una catena. (220)
Prima della nona: una bellissima donna vestita di
Ao ( O) verde, coronata d’oro, con la mano destra levata al
cielo, sul cui volto discende la folgore.
Seconda: un uomo prega inginocchiato, con le mani
Au ( U) giunte sul capo; davanti a lui un altare sul quale una
vittima è consumata dal fuoco.
301
amico con una mano; nell’altra tiene nascosto un
Ai ( I)
pugnale; vicino una vecchia intirizzita presso il
fuoco.
Seconda: un bue al pascolo; vicino il giogo e la
Ao ( O)
soma.
Terza: un uomo che si ferisce il petto nudo con un
Au ( U) sasso; vicino c’è un altro uomo infuriato che spacca
dei vasi di argilla e versa l’olio per terra. (221)
302
eccitanti per i sensi esterni, sono penetrate in modo più
profondo in quelli interni. (222)
303
terminali e subentranti in ciascuna delle cinque sillabe potrai
provvedere da solo con il tuo zelo, amico mio. Infatti ti abbiamo
svelato una strada assai ampia quando ti abbiamo insegnato a
formare qualsiasi sillaba costituita da un numero di lettere via
via crescente, sino a cinque.
Darai dunque a chi svolge l’azione (l’agens) undici differenze
distintive, che staranno a significare le lettere finali
C.G.L.M.N.P. NS. NT. R. S. T. e altre tre differenze distintive
che indichino le lettere liquide poste in mezzo alla sillaba L. N.
R. Volendo, le prime saranno poste in testa a chi svolge
l’azione, le altre sulla schiena o viceversa.
Allo stesso modo darai undici differenze distintive di azione
per le undici lettere finali e tre per le intermedie: se vuoi puoi
collocare le prime nella materia che subisce l’azione e le altre
nelle mani o nelle braccia di chi compie l’azione. Similmente ne
distinguerai dodici più tre nelle determinazioni circostanti
(circumstantia). Con gli adstantes invece potrai usare le stesse
differenze distintive dell’agens, poiché sono dello stesso tipo.
Abbiamo spiegato tutto in modo talmente semplice da
lasciare ben poco compito al tuo personale impegno. (224)
304
poiché possiamo facilmente collocare qualsiasi parola da
ricordare su di un singolo ed individuale subiectum di questa
arte.
La nostra scoperta permette di compiere la scrittura interna in
maniera più rapida e semplice, oltre a far maturare il frutto
dell’esercizio. Dove infatti [gli antichi] belavano le lettere
cercando di unirle in sillabe, prima di accingersi ad azioni più
complete, ma quando ormai era troppo tardi, noi invece
insegniamo a riunire senza indugio le parole in un discorso.
Appena l’allievo avrà avuto il mio catalogo grazie all’arte della
prima o della seconda prassi, potrà ricordare le cose lette o udite
collegandole ai subiecta ordinati. In seguito con l’esercizio sarà
in grado di fare qualunque cosa senza il benché minimo
indugio. Perciò questa arte annienta tutte le altre che l’hanno
preceduta in questo campo e non teme di essere superata da
quelle che seguiranno. Riteniamo infatti di aver portato questa
materia al culmine del suo sviluppo, poiché mentre gli altri
spalancavano gli occhi cercando di andare quasi a caccia delle
lettere, noi abbiamo trattato la realizzazione di un discorso e di
un’orazione per mezzo di parole compiute. (225)
305
sostanze possono essere sensibili o intellegibili. Quelle sensibili
alcune lo sono o per sé, altre per accidente.
Di quelle che sono accidenti, alcune appartengono alla
sostanza, come la qualità e la quantità intrinseca, altre sono
unite alla sostanza in quanto qualità estrinseche, come i colori e
la configurazione. Altre, invece, per certi versi appartengono
alla sostanza e per altri sono associate ad essa: è il caso delle
disposizioni, alcune delle quali sono ricavate da ciò che è, altre
da ciò che viene detto. Ce ne sono che si collocano nella
sostanza, come quelle che agiscono nei confronti di qualcosa e
quelle che subiscono da qualche altra cosa. Altre si collocano
accanto alla sostanza – è il caso delle cose a cui si congiunge la
sostanza, come la disposizione – altre invece si congiungono
alla sostanza stessa, ed è il caso delle cose che diciamo trovarsi
all’esterno, delle quali alcune sono unite al subiectum che è
appunto aggettivato grazie ad esse, per cui si dice che uno è
inanellato, calzato, vestito, ammogliato; altre sono aggiunte,
come casa, podere, donna.
Alcune per certi versi si trovano dentro e per altri vi stanno
accanto, come lo stesso “quando”. Osserva infatti come sia
unico e generale rispetto a tutte le cose, al di fuori e al di sopra
di esse, mentre nelle singole cose sia specifico a ciascuna di
esse. Lo stesso si può dire del tempo e del luogo. Il tempo,
infatti, è soggettivamente unico in cielo ed è soggettivamente
molteplice in ciascuna delle cose che vengono definite
temporali. Anche il luogo, se lo definiamo, come i filosofi
logici, superficie del contenente, è circostante. Se parlando in
maniera meno comune, lo definiamo corpo contenente, è ancora
circostante. Se invece come i migliori fisici, lo chiamiamo
spazio, e dimensione della materia più sicura, o ricettacolo di
ogni dimensione, allora esso è nella cosa ed unito ad essa, a suo
modo, come è evidente a chi rifletta. (226)
Perché possa avvenire la memorizzazione di tutte queste
cose, è necessario che prima se ne realizzi la raffigurazione.
306
cose, è necessario che prima se ne realizzi la raffigurazione.
Perciò le sostanze complesse intellegibili vanno raffigurate
tramite la raffigurazione di quelle sensibili, come avveniva nelle
ruote e nei fuochi di Ezechiele. Le sostanze in complessi
sensibili vanno raffigurate per il tramite dei loro accidenti, come
avviene nella disposizione regolare delle membra dell’uomo o
coi molteplici modi dei bruti di chinarsi verso terra. Le sensibili
per accidente, grazie a quanto per sé cade sotto i sensi. Gli
accidenti che appartengono alla sostanza per mezzo di ciò con
cui appartengono alla sostanza: una certa quantità va raffigurata
con ciò che ammette la stessa quantità, in maniera continua
o discreta; una certa qualità con ciò a cui essa appartiene; allo
stesso modo la sostanza con quegli accidenti ai quali
immaginiamo che essa sia sottostante. Gli accidenti che sono
uniti alla sostanza per mezzo di ciò grazie a cui sono uniti ad
essa, così come le cose a cui sono uniti mediante gli accidenti
che sono uniti. Gli accidenti che vengono associati alla sostanza
per mezzo di ciò con cui sono reciprocamente associati. Gli
accidenti che si collocano nella sostanza per mezzo di ciò con
cui sono mutevolmente collocati. Gli accidenti che si collocano
accanto alla sostanza, non essendo raffigurabili da soli, vanno
raffigurati mediante le cose a cui sono circostanti o alle quali
sono poste come circostanti. Queste cose, una volta che siano
state raffigurate, possono reciprocamente riferirsi al significato
di quelle cose con le quali sono state raffigurate.
Dopo aver quindi raffigurato tutto a tal modo, utilizzando
quanto abbiamo detto essere necessario riguardo ai subiecta ed
agli adiecta, tutte le cose divengono memorabili e possono
essere trattenute negli atrii dei sensi interni. (227)
307
Nello stesso modo con cui avviene la complessione nella mente
e nella voce, allorché, grazie la copula del sostantivo, si unisce
una parola in complessa con un’altra in complessa, così nella
scrittura interna, la quale imita quelle complessioni e si riferisce
ad esse, innanzitutto si realizza la complessione partendo dai
termini incomplessi, connettendo una sostanza all’altra,
adattando accidente ad accidente, ciò che è unito a ciò a cui esso
è unito, ciò che viene associato con ciò a cui è associato, ciò che
è circostante con ciò a cui è circostante.
Tale complessione contribuisce innanzitutto alla
raffigurazione delle immagini, delle figure e di quelli che
vengono generalmente chiamati segni, per quanto riguarda le
definizioni – lasciamo stare il fatto che in alcuni casi le
definizioni sono considerate incomplesse, poiché senza
complessione esse non possono essere raffigurate nella scrittura
interna e qui senza la semplicità dei termini semplici non
possono venire espresse. In secondo luogo la complessione
serve per formare e completare le enunciazioni, quando uno o
più termini si riferiscono a proposito di altri termini o in
conseguenza di essi. Infine essa contribuisce alla elaborazione
dei discorsi, quando si ottiene la complessione a partire dai
termini complessi come se fossero membra appropriate,
componendo ulteriormente cose già composte. (228)
Come i fisici affermano che la forma giunge alla materia
nella composizione del corpo semplice; in seguito il corpo
semplice nella composizione del misto imperfetto, e tutti i corpi
semplici in uno stesso tempo giungono alla formazione da una
parte del nervo perfetto, dall’altra delle ossa perfette, dall’altra
ancora della carne perfetta, tutte parti considerate fra loro
omogenee; tutte quelle parti contribuiscono alla costituzione di
questo o di quel membro eterogeneo, come la testa o le braccia,
e tutte le membra infine si uniscono per mettere insieme il corpo
animato di un’unica persona, non diversamente avviene con le
immagini e gli adiecta: dopo una prima rappresentazione
308
giungiamo alla realizzazione di una prima complessione, da qui
a una seconda e poi a una terza e oltre, a seconda delle
possibilità dei subiecta.
E se un unico subiectum non è in grado da solo di accogliere
una complessione così grande mantenendola integra, si dovrà
innanzitutto realizzare la complessione di un subiectum con un
altro o la connessione di più subiecta ad altri, in modo che la
connessione degli adiecta avvenga solo dopo la connessione di
quelle cose grazie alle quali l’aggiunta viene realizzata, ovvero
dei subiecta. Perciò, mentre le navi si uniranno una dopo l’altra
in modo da formare un ponte, attraverserai l’Ellesponto con i
piedi asciutti. (229)
NOTE
1. In italiano nell’originale.
2. Gioco di parole: in latino substantia significa tanto essenza, sostanza, quanto
alimento.
309
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
Nella presente bibliografia vengono riportati sia i titoli
direttamente citati nel testo, sia quelli che, pur non essendo
citati, sono stati consultati nella fase di ricerca e stesura.
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MNEMOTECNICHE MODERNE
318
FIGURE
Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3
Fig. 4
Fig. 5
Fig. 6
Fig. 7
Fig. 8
Fig. 9
319
SELEZIONE DEI VOLUMI PUBBLICATI DA ANIMA EDIZIONI
320
Adriano De Carlo. L’ambiguità della perfezione.
Scilla di Massa. Il giardino interiore.
Vincenzo Fanelli. Il potere di rendersi felici (con CD allegato).
Silvano Federici. La pace tornerà.
Nirodh Fortini. Brainwaves (con CD allegato).
Cristina Garavaglia. Diario di una nascita.
Gianni Golfera. L'arte della memoria di Giordano Bruno.
Ludovico Guarnieri. La formula di Rene Caisse. Un rimedio per
difendersi dal cancro e dalle malattie degenerative.
Ludovico Guarnieri. La cosa più stupefacente al mondo.
Avventure di un malato esperto.
F. Hartmann. I simboli segreti dei Rosacroce.
Olga Karasso. Esperanza.
Pier Luigi Lattuada. Sciamanesimo brasiliano.
Alfredo Lissoni. UFO.
Maet. Come superare il sistema capitalista.
Rita Massarenti. Ricomincio da capo.
Laura Pellegrini. Letti di ghiaccio.
Anna Piantadosi. Il Signore è il mio Pastore.
Massimo Picasso. Il gemello di Dio.
Angelo Picco Barilari. Kryon.
Mario Pincherle. Leopardi Segreto.
Fiamma Rossa Secchi. Il tentativo.
Conte di Saint Germain. Io sono.
321
Iole Sesler. Numeri e conoscenza.
Igor Sibaldi. La trama dell’Angelo.
Igor Sibaldi. Iniziazione. Come incontrare i propri Maestri
Invisibili (con CD allegato).
Nada Starcevic. Eros. Il sesto senso.
Roberta Stucchi. Maree del tempo.
Gabriella Zevi. Donne in via d’estinzione?
322