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11 CULTURA & VISIONI 25.06.2010

APERTURA | di Sandro Chignola


UNA DEMOCRAZIA APERTA ALLA POTENZA DEL REALE
IL SOGNO dei giusti
Una buona società nasce senza l'investitura statale. La teoria della giustiza vista criticamente dal
premio Nobel Amartya Sen e dal filosofo statunitense Ronald Dworkin. Due volumi che metteno al
centro della riflessione le idee di eguaglianza e di libertà
Forse è possibile partire dalla fine. Nell'estate del 1816 James Mill scrive a David Ricardo
in merito alla carestia indotta dalla grave siccità abbattutasi sull'Inghilterra. La fredda
constatazione di Mill è che un terzo della popolazione è destinata a morire. Il suo fatalismo,
tuttavia, non si limita a questo. La conclusione cui perviene il suo utilitarismo è che sarebbe
bene, per praticare una riduzione delle sofferenze del popolo, portare la gente colpita dalla
siccità «nelle strade e nei viali e sgozzarle come si fa con i maiali». Con questa
conclusione, Ricardo si dice pienamente d'accordo. E, nella sua risposta a Mill, aggiunge il
suo dispiacere nel «vedere la tendenza ad infiammare gli animi delle classi inferiori»
convincendole che il legislatore potrebbe in qualche modo soccorrerle.
Lo scambio di lettere tra Mill e Ricardo, alquanto efficace nel restituirci il lato in ombra del
liberalismo ottocentesco, quello dal quale emana il suo «cattivo odore», per riprendere la
felice espressione di Michelle Perrot, viene evocato nell'ultimo capitolo del poderoso
volume di Amartya Sen che Mondadori manda in questi giorni in libreria (L'idea di giustizia,
pp. 457, euro 22). Se, come facevano Ricardo e Mill a partire da un fatalismo economico
determinato, si riteneva che quelle persone non potessero in alcun modo essere salvate,
era legittimo stigmatizzare le proteste e pensare, invece, a come minimizzare i costi sociali
della loro agonia.

I codici del comando


Ciò che appariva «giusto» da fare in quella circostanza, apriva evidentemente uno spazio
conteso. Da un lato, la prospettiva dei saperi a stretta desinenza «tecnica», quelli di Mill e
di Ricardo. Una prospettiva che metteva fuori corso anche solo la legittimità di proteste e di
aspettative che chiedessero di intervenire sulla situazione. Dall'altro, le rivendicazioni di
coloro che non soltanto avrebbero avuto la loro da dire in merito al fatto di farsi sgozzare
come maiali, ma che muovevano contro la fredda linearità del ragionamento che portava a
quella conclusione. Quello che si apre tra «situazione effettiva» e «situazione potenziale» è
uno iato che è possibile valorizzare in termini di promozione della giustizia. E, per Amartya
Sen, quegli stessi «animi infiammati» che dispiaceva a Ricardo dover considerare presenti
sulla scena dell'analisi economica, possono invece innescare, proprio per il loro spalancare
la dimensione del possibile, il processo della critica. L'«indignazione» - autentica passione
spinoziana, anche se Sen non ce lo ricorda - può inaugurare «la riflessione, anzichè
sostituirla», come egli scrive. Non mantenersi al di qua. o al di là della situazione, ma
attraversarla, metterla in movimento, sparigliarne i codici costitutivi.
È sulla necessità di assegnare uno status particolare all'accordo raggiunto attraverso una
riflessione pubblica, che Amartya Sen fa ruotare il suo libro. L'operazione che sta al suo
centro agisce su molti livelli. Innanzitutto, essa muove dal conservare quell'apertura. Una
teoria della giustizia che si fondi sulla riflessione pubblica, non può cedere all'illusione di
definire un orizzonte preciso, unanimistico, delle scelte. L'accordo sul quale è possibile
convergere non pretende di realizzare una gerarchizzazione univoca e ultimativa delle
opzioni. Se è vero che il disaccordo - che Sen non ritiene affatto una iattura - non è una
condizione insuperabile, gli accordi che la discussione pubblica delle opzioni può realizzare
non possono essere supposti facilmente stringibili o incisi per sempre nel bronzo. La messa
in discussione di pregiudizi, interessi, preconcetti, è fondamentale per decidere secondo
giustizia, ma talvolta può non essere sufficiente per aggirare lo stallo che si determina
quando le ragioni alla base delle scelte possibili appaiono tutte legittime se prese ciascuna
di per sé. Nè essa può esorcizzare per sempre il ritorno del disaccordo come componente
fondamentale della comunicazione sociale.

La deriva istituzionale
Riconoscere che anche qualora una teoria comprensiva della giustizia accolga al proprio
interno considerazioni non in linea con la sua struttura non significhi doverla per forza
valutare incoerente o inservibile. È questo il passaggio preliminare per assumere a motore
del processo decisionale la pluralità delle opzioni e per non sacrificare il pluralismo ai
recinti che in nome dell'accordo da raggiungere selezionano i partners suscitati al dialogo o
i valori fondamentali da sottrarre al confronto.
Quella di Amartya Sen è, in questo senso, una prospettiva davvero globale. Non soltanto
per il suo reclutare i propri argomenti dalla biblioteca delle differenti culture che il suo
nomadismo accademico gli ha reso possibile attraversare, ma per la consapevole rinuncia
al trascendentalismo della ragione e al suo rovescio istituzionale. Le concrete realizzazioni
sociali della giustizia, la costante rivedibilità dei criteri di accesso al dialogo pubblico, il
potenziamento delle capacità individuali e collettive, che viene con ciò reso possibile e non
una «felicità» e una «democrazia» universali e minacciose perché promosse
indipendentemente dalle concrete condizioni di vita dei cittadini globali, quando non
addirittura sospinte dalle ali dei bombardieri, è ciò che gli interessa difendere.
La rivedibilità dei criteri di giustizia e il mantenimento di un'apertura al cuore della loro
definizione sono ciò che spinge il confronto critico di Sen con le teorie del contratto sociale,
da Thomas Hobbes a John Rawls. Ciò che Sen contesta in esse sono fondamentalmente
due cose: il costruttivismo istituzionalista (l'idea cioè che sia possibile pervenire
all'identificazione e alla realizzazione di un ordine «giusto») e un modello di razionalità
formale che elude il confonto con i problemi di intersezione e di confronto con culture e
pratiche sociali materialmente differenziate.
Contro quest'ipotesi - la cui ombra lunga si proietta ovviamente ben oltre il XVII secolo per
toccare parte significativa del dibattito filosofico-politico contemporaneo (da John Rawls a
Robert Nozick) -, Sen mobilita, tra gli altri, argomenti della cultura tradizionale indiana. Il
ruolo assegnato ai doveri e alla responsabilità che derivano dall'esercizio di un potere reale
non si esaurisce nella promozione di un vantaggio, ma configura un impegno oblativo: se
una persona ha il potere di compiere un'azione che a suo avviso può ridurre l'ingiustizia nel
mondo, ci sarebbero buoni e fondati motivi perché essa proceda in tal senso, senza
bisogno di giustificarsi invocando un qualche vantaggio pratico connesso all'attività di
cooperazione. Buddha contra Hobbes, evidentemente.
Ci sono due parole per dire «giustizia» in sanscrito classico: niti e nyaya. Ad esse Amartya
Sen fa riferimento per l'intero svilluppo del suo libro. La giustizia intesa come niti fa
riferimento all'organizzazione, all'istituzione e all'«adeguatezza» di un comportamento
rispetto ad una norma. Ad essa fa da contraltare il termine nyaya: la giustizia intesa come
più ampia distribuzione sociale realizzata.

La dottrina della morale


Tutti gli antichi teorici indiani del diritto parlano non a caso con disprezzo di ciò che
chiamano matsayanyaya, la «giustizia del mondo dei pesci», quella per cui il pesce grosso
mangia quello piccolo. Ciò che qui è cruciale - e il riferimento agli squali della finanza
globale e alla «matrice» giuridica neoliberale non è del tutto improprio - è che per realizzare
la giustizia come nyaya non è sufficiente attrezzare modelli decisionali e normativi, ma
occorre giudicare le società stesse per la distribuzione delle capabilities che realizzano e

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occorre giudicare le società stesse per la distribuzione delle capabilities che realizzano e
per il sistema di opzioni che mettono a disposizione.
È attraverso questa posizione che Amartya Sen impatta il dibattito internazionale. Da un
lato, mobilitando un sapere locale occultato e rimosso dal canone formalista occidentale
della razionalità. Dall'altro, fondando direttamente i principi di giustizia sulle concrete
realizzazioni sociali da essi rese possibili e non limitandosi ad ancorarli a norme e ad
accordi procedurali, come si limitano invece a fare molti di coloro che egli assume a
interlocutori: da Rawls, a Dworkin, a Nagel.
Proprio di Ronald Dworkin, un libro su argomenti analoghi esce ora in Italia (La giustizia in
toga, Laterza, pp. 325, euro 24). Qui, la prospettiva criticamente discussa da Amartya Sen,
si fa particolarmente esplicita. I criteri di giustizia, in una serie di contributi nei quali Dworkin
si confronta, oltre che con teorici del diritto, con giudici e sentenze della Corte Suprema,
vengono inscritti nelle tavole di un'«anatomia» dell'ordinamento. Ciò che interessa a
Dworkin è definire il luogo che le «convinzioni morali» di un giudice dovrebbero, oppure
non dovrebbero, occupare in relazione alle sue opinioni circa cosa sia il diritto.
Di qui l'operazione che Dworkin conduce differenziando diversi livelli dell'analisi giuridica -
questo il bisturi con cui Dworkin incide il sistema normativo per attingere l'anatomia della
decisione giurisprudenziale - e innestando la funzione morale, come criterio di giustizia, su
di un piano intermedio tra la definizione semantica e quella dottrinaria dei principi del diritto.
Ne deriva una serie di conseguenze: innanzitutto l'assunzione «olistica ed integrata» di
valori etici non gerarchizzabili che segnano la cooperazione sociale indirizzandola ad un
progresso; poi, una polemica col «pragmatismo darwiniano» di coloro che pensano che il
diritto evolva quasi di per sé, in termini incrementali, in nome di una teoria del diritto e della
pratica giurisprudenziale che connetta, invece, morale e diritto. Infine, una concezione
dell'interpretazione giudiziale che non assuma a proprio motore la «fedeltà ai principi», per
assumersi invece la responsabilità politica di indirizzare decisioni collettive che hanno un
effetto diretto sulla vita dei cittadini. Il ruolo della giustizia nella definizione di cosa sia il
«diritto» emergerebbe a questo livello.

La fisiologia del conflitto


Anche Dworkin polemizza con il proceduralismo di Rawls. E valuta estremamente limitato il
concetto di libertà di Isaiah Berlin. E tuttavia, Amartya Sen muove ancora oltre Dworkin.
Quest'ultimo, a parere di Sen, non fuoriesce in fondo dall'istituzionalismo trascendentale.
Non solo perché traduce l'egualitarismo in uguaglianza di risorse in partenza e non in
uguaglianza di libertà e capacità effettiva, ma soprattutto per il tentativo, che è in fondo lo
stesso di Rawls, di generare secondo un modello razionale e in una sola mossa, un
sistema di di istituzioni perfettamente giuste. Al gesto anatomico di Dworkin e del
contrattualismo, Amartya Sen contrappone la fisiologia - la «vita» - del diritto inteso come
giustizia, come nyaya.
Se una teoria della giustizia ha un obiettivo, questo non coincide con il narcisismo e la
retorica della fondazione. Esso ha a che fare piuttosto «con il tipo di creatura che noi esseri
umani siamo», sostiene Sen. Uomini dotati di ragione e tuttavia capaci di simpatia; capaci
di provare dolore ed indignazione di fronte all'umiliazione del prossimo, sensibili alla libertà,
capaci di ragionare, di argomentare, di disapprovare, di convenire. Capaci di situarsi nella
posizione dello «spettatore imparziale» di Adam Smith e di prendere dunque in
considerazione, eccedendo il confine di ogni concezione locale della giustizia, le opinioni
altrui e la riflessione che le ha prodotte. Di assumere perciò la democrazia come una
pratica e il processo del diritto come un concreto farsi della giustizia.
«Nulla è mai stato percepito e sentito quanto l'ingiustizia» dice Pip in Grandi speranze di
Dickens, frase scelta come citazione d'apertura del libro di Sen. Per Dworkin,
«manifestamente ingiuste sono le aliquote dell'imposizione fiscale negli Stati Uniti». I limiti
del dibattito contemporaneo sulla giustizia stanno esattamente nella distanza che separa
queste due posizioni. E ciò forse allude alla necessità di una ben più radicale genealogia.

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