La deriva istituzionale
Riconoscere che anche qualora una teoria comprensiva della giustizia accolga al proprio
interno considerazioni non in linea con la sua struttura non significhi doverla per forza
valutare incoerente o inservibile. È questo il passaggio preliminare per assumere a motore
del processo decisionale la pluralità delle opzioni e per non sacrificare il pluralismo ai
recinti che in nome dell'accordo da raggiungere selezionano i partners suscitati al dialogo o
i valori fondamentali da sottrarre al confronto.
Quella di Amartya Sen è, in questo senso, una prospettiva davvero globale. Non soltanto
per il suo reclutare i propri argomenti dalla biblioteca delle differenti culture che il suo
nomadismo accademico gli ha reso possibile attraversare, ma per la consapevole rinuncia
al trascendentalismo della ragione e al suo rovescio istituzionale. Le concrete realizzazioni
sociali della giustizia, la costante rivedibilità dei criteri di accesso al dialogo pubblico, il
potenziamento delle capacità individuali e collettive, che viene con ciò reso possibile e non
una «felicità» e una «democrazia» universali e minacciose perché promosse
indipendentemente dalle concrete condizioni di vita dei cittadini globali, quando non
addirittura sospinte dalle ali dei bombardieri, è ciò che gli interessa difendere.
La rivedibilità dei criteri di giustizia e il mantenimento di un'apertura al cuore della loro
definizione sono ciò che spinge il confronto critico di Sen con le teorie del contratto sociale,
da Thomas Hobbes a John Rawls. Ciò che Sen contesta in esse sono fondamentalmente
due cose: il costruttivismo istituzionalista (l'idea cioè che sia possibile pervenire
all'identificazione e alla realizzazione di un ordine «giusto») e un modello di razionalità
formale che elude il confonto con i problemi di intersezione e di confronto con culture e
pratiche sociali materialmente differenziate.
Contro quest'ipotesi - la cui ombra lunga si proietta ovviamente ben oltre il XVII secolo per
toccare parte significativa del dibattito filosofico-politico contemporaneo (da John Rawls a
Robert Nozick) -, Sen mobilita, tra gli altri, argomenti della cultura tradizionale indiana. Il
ruolo assegnato ai doveri e alla responsabilità che derivano dall'esercizio di un potere reale
non si esaurisce nella promozione di un vantaggio, ma configura un impegno oblativo: se
una persona ha il potere di compiere un'azione che a suo avviso può ridurre l'ingiustizia nel
mondo, ci sarebbero buoni e fondati motivi perché essa proceda in tal senso, senza
bisogno di giustificarsi invocando un qualche vantaggio pratico connesso all'attività di
cooperazione. Buddha contra Hobbes, evidentemente.
Ci sono due parole per dire «giustizia» in sanscrito classico: niti e nyaya. Ad esse Amartya
Sen fa riferimento per l'intero svilluppo del suo libro. La giustizia intesa come niti fa
riferimento all'organizzazione, all'istituzione e all'«adeguatezza» di un comportamento
rispetto ad una norma. Ad essa fa da contraltare il termine nyaya: la giustizia intesa come
più ampia distribuzione sociale realizzata.
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occorre giudicare le società stesse per la distribuzione delle capabilities che realizzano e
per il sistema di opzioni che mettono a disposizione.
È attraverso questa posizione che Amartya Sen impatta il dibattito internazionale. Da un
lato, mobilitando un sapere locale occultato e rimosso dal canone formalista occidentale
della razionalità. Dall'altro, fondando direttamente i principi di giustizia sulle concrete
realizzazioni sociali da essi rese possibili e non limitandosi ad ancorarli a norme e ad
accordi procedurali, come si limitano invece a fare molti di coloro che egli assume a
interlocutori: da Rawls, a Dworkin, a Nagel.
Proprio di Ronald Dworkin, un libro su argomenti analoghi esce ora in Italia (La giustizia in
toga, Laterza, pp. 325, euro 24). Qui, la prospettiva criticamente discussa da Amartya Sen,
si fa particolarmente esplicita. I criteri di giustizia, in una serie di contributi nei quali Dworkin
si confronta, oltre che con teorici del diritto, con giudici e sentenze della Corte Suprema,
vengono inscritti nelle tavole di un'«anatomia» dell'ordinamento. Ciò che interessa a
Dworkin è definire il luogo che le «convinzioni morali» di un giudice dovrebbero, oppure
non dovrebbero, occupare in relazione alle sue opinioni circa cosa sia il diritto.
Di qui l'operazione che Dworkin conduce differenziando diversi livelli dell'analisi giuridica -
questo il bisturi con cui Dworkin incide il sistema normativo per attingere l'anatomia della
decisione giurisprudenziale - e innestando la funzione morale, come criterio di giustizia, su
di un piano intermedio tra la definizione semantica e quella dottrinaria dei principi del diritto.
Ne deriva una serie di conseguenze: innanzitutto l'assunzione «olistica ed integrata» di
valori etici non gerarchizzabili che segnano la cooperazione sociale indirizzandola ad un
progresso; poi, una polemica col «pragmatismo darwiniano» di coloro che pensano che il
diritto evolva quasi di per sé, in termini incrementali, in nome di una teoria del diritto e della
pratica giurisprudenziale che connetta, invece, morale e diritto. Infine, una concezione
dell'interpretazione giudiziale che non assuma a proprio motore la «fedeltà ai principi», per
assumersi invece la responsabilità politica di indirizzare decisioni collettive che hanno un
effetto diretto sulla vita dei cittadini. Il ruolo della giustizia nella definizione di cosa sia il
«diritto» emergerebbe a questo livello.
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