L’equilibrio, il giusto
mezzo, la naturalezza e l’armonia vengono posti come valori alla luce del buon senso. Predica la
chiarezza chiedendo al testo letterario di comunicare senza costringere il lettore ad alcuna fatica secondo il
valore della scorrevolezza. La razionalità propugnata da Boileau non si dimostra attraverso la costruzione di
un dover essere in sé coerente ma avallata dal rimando al pubblico. Porsi il problema del pubblico, di come
tenerne desta l’attenzione indica che il consenso sui valori artistici va conquistato sul campo. I TRATTATISTI
DEL ‘700 GIANVINCENZO GRAVINA (1664-1718) un valido esempio della forma-trattato è la sua
Ragion Poetica. Poiché i modelli vanno desunti dagli antichi ma riadattati ai costumi attuali, diventa
necessario l’excursus storico sull’evoluzione dei generi. Poiché la verosimiglianza è dovuta all’incanto che fa
prendere per vera la finzione poetica ecco allora chiamata in ballo l’interpretazione che individua sotto al
falso il senso vero. Un’interpretazione che restava ancorata all’interno moraleggiante di una utilità
educativa. GOTTHOLD EPHRAIM LESSING nel Laocoonte il lavoro critico va al di la delle regole e
dei precetti. Il criterio classico dell’unità e della convenienza veniva chiamato a confrontarsi con i
problemi dell’espressione di sentimenti forti come il dolore là dove il canone della bellezza è messo a
repentaglio sui confini del brutto o del disgustoso. Non è più questione d imitazione piuttosto
emergono problemi di datazione perché i rapporti tra gli oggetti critici prescelti non sono di dipendenza
passiva, ma di filiazione somigliante ma differente. Il Laocoonte è più un saggio che un trattato.
Contempla divagazioni e digressioni. Quando all’inizio Lessing afferma di voler procedere liberamente
a fissare sulla carta i suoi pensieri proprio nell’ordine in cui si sono sviluppati siamo già entrati nella
nuova costellazione della critica moderna. 1.3 - Alla ricerca del senso (la forma-commento) L’altro grande
modo in cui fin dall’antichità si è esplicata l’attività critica è stato il commento. Mentre la forma-trattato
vuole avere funzione di guida, la forma-commento si mette al servizio del testo. Lavorando ai suoi margini e
rendendolo più comprensibile, per avvicinarlo al lettore e favorire, quindi, il trasferimento della tradizione.
Annotazioni di fonte diversa possono convivere e svariare in molteplici direzioni. Ai giorni nostri nella
cosiddetta edizione critica assume particolare importanza il commento filologico puntato a stabilire la
correttezza del testo e la successione dei suoi stati. La prima grande impresa filologica fu compiuta
dagli alessandrini con la costituzione definitiva dei poemi omerici. Il compito del commento è che il gesto
con cui l’opera viene offerta al lettore comporta l’appianamento delle difficoltà, la risoluzione dei passi
oscuri. Là dove il testo non comunica immediatamente diventa necessaria l’interpretazione. Il nome
classico dell’arte dell’interpretazione è ermeneutica. Gli antichi lessero Omero mediante l’allegoria
termine che indica il dire altro. Le assurdità del mito potevano essere intese come un meraviglioso
rivestimento di concetti morali. Nel medioevo l’interpretazione assumerà un prioritario ruolo culturale: nel
cristianesimo la religione si fonda su un libro, la Sacra Scrittura, che parla per enigmi e parabole. Più che alla
razionalizzazione del mito l’esegesi biblica tende ad accedere al senso mistico, al mistero velato
nella Parola. Occorre anche riconoscere all’esegesi una produttività inventiva che arrivò ad articolarsi
nella dottrina dei 4 sensi: letterale, allegorico (un personaggio rappresentava una virtù), morale
(indicazione per il comportamento) e anagogico (una proiezione nella prospettiva della storia della
salvezza). DANTE (1265-1321) adottò la dottrina dei 4 sensi soprattutto nelle pagine del Convivio
mediante l’autocommento che scrive a ridosso dei propri testi come integrazione e aiuto alla
comprensione. Dante evidenzia il di più di ragione che si ottiene spiegando il senso letterale in vista del
raggiungimento della verità allegorica nascosta sotto il manto delle favole. Questo tirar fuori qualcosa di
profondo e di non immediatamente visibile non è senza problemi: infatti una volta che si è perduta la
certezza nel senso immediatamente comunicato, sembra che nulla possa frenare l’arbitrarietà
dell’interpretazione. Si può capire ciò che si vuole? Il sospetto contenuto in questo interrogativo produrrà
alle soglie dell’età moderna una divaricazione tra commento filologico e interpretazione critica.
BENEDETTO SPINOZA (1632-1677) nel suo Trattato teologico-politico sostiene che si debba
distinguere tra verità e senso letterale: è il secondo che può essere stabilito, mentre riguardo alla
primabisogna lasciare a ognuno il diritto di giudicare liberamente. Spinosa precisa anche alcuni criteri in
base ai quali elucidare il senso della Scrittura: l’uso della lingua, il contesto, la storia dei testi. Ciò che
abbiano voluto significare i profeti sono geroglifici in senso negativo perché il significato non possiamo
dedurlo ma solo cercare di indovinarlo. È evidente che la polemica di Spinosa riguarda il fissarsi
autoritario dell’interpretazione. Restituisce all’interpreta la sua libertà. DENIS DIDEROT (1713-1784)
anche nella sua Lettera sui sordomuti l’illuminista adotta il termine geroglifico, in chiave però positiva.
Occorre cogliere quello spirito che anima e vivifica simultaneamente tutte le parti del testo, un tessuto di
geroglifici ammucchiati gli uni sugli altri che lo dipingono. Ogni poesia è emblematica. Il fatto che questo
livello di comprensione non sia concesso a tutti non toglie che il nodo decisivo risieda nel geroglifico
per quanto delicato e sottile esso sia. Diderot ricorda il valore gestuale della comunicazione umana. ERNST
SCHLEIERMACHER (1768-1834) con la sua ermeneutica romantica, all’interpretazione riservata ai
passi oscuri si sostituisce una interpretazione dell’autore, riportando il testo alle caratteristiche psicologiche
dello scrittore. Si parla di ermeneutica psicologica. 1.4 – La critica militante e il problema del gusto (le
teorie del gusto) ORAZIO nell’Arte Poetica la figura del critico viene evocata contro l’invadenza e la
presunzione dei cattivi poeti. Il poeta deve diventare un Aristarco (archetipo del giudice severo) nel
correggere i dettagli. La funzione della critica nell’età classica è eminentemente emendatrice. BOILEAU
nell’Arte Poetica la critica si esprime ancora con consigli e rimproveri, ma amplificando i toni dello scontro
in quella che è ormai la battaglia letteraria. SAVERIO BETTINELLI (1718-1808) passerà i moderni al vaglio
degli antichi, immaginando Virgilio nelle vesti del critico esigente, nelle sue Lettere Virgiliane si fa strada la
coscienza che nessun modello vada preso in assoluto. Anzi proprio là dove incontra i grandi uomini la critica
deve farsi attenta e non confondere la stima che si può provare. JOSEPH ADDISON (1672-1719) il critico
opera con nuovi strumenti. La diffusione dei giornali e delle riviste a sfondo culturale e letterario come il
suo The Spectator inglese riuscì a raggiungere un’alta tiratura rivolgendosi a una cerchia molto vasta,
comprensiva delle famiglie e del pubblico femminile. La letteratura vi veniva trattata all’interno delle
questioni del costume e della moda, in un tono accattivante e ricreativo. Il critico del giornale lavora per
guidare il lettore a delle giuste scelte. Mentre il commentatore arriva dopo, a cose fatte, e il trattatista si
pone prima dando modelli da seguire, emerge nei primi periodici letterari la figura di un critico che
interagisce con i testi seguendo il farsi della letteratura in atto. Il modo con cui esso si afferma è
ormai quello della critica militante. Addison rappresenta il tipo di critico che pretende autorevolezza
proprio perché fuori della mischia, si vuole neutrale spettatore. L’intervento periodico può favorire
invece la presa di posizione Tale sarà il caso di due periodici in Italia tra loro rivali: GIUSPPE BARETTI (1719-
1789) con la sua Frusta letteraria assume i panni di un nuovo Aristarco (anzi il suo alter ego fittizio è
Aristarco Scannabue). Baretti interpreta la funzione del critico, con un impegno non arreso ai gusti
prevalenti e pronto a schierarsi controcorrente. Il bersaglio preferito della frusta è l’Arcadia. Contro la
maniera stereotipata Baretti si richiama ancora di più al buon gusto e al buon senso. Il suo pregio sta nella
straordinaria effervescenza stilistica. PIETRO VERRI (1728-1797) all’insegna della combattività si apriva Il
Caffè animato da Verri insieme al fratello Alessandro e a Cesare Beccarla. Il Caffè è una rivista di tendenza
calata in un progetto di risveglio intellettuale in cui viene contestato con decisione il valore normativo
dei precetti formali e dello stesso purismo linguistico. Verri sostiene che il critico non deve restringere la
prospettiva appigliandosi a qualche piccolo difetto ma deve intendere l’effetto d’insieme dell’opera.
Parallelamente all’emergere della critica militante si sviluppa il dibattito sul gusto. DAVID HUME (1711-
1776) il filosofo scozzese con la sua Regola del gusto muove dalla constatazione della grande varietà dei
gusti e afferma che la bellezza che noi percepiamo non è una qualità inerente alle cose ma è legata al
nostro sguardo soggettivo. Essa esiste soltanto nella mente che contempla le cose ed ognimente
percepisce una bellezza diversa. A partire dal fato empirico che alcune opere ricevono maggiori
consensi e sono oggetto di una durevole ammirazione, Hume propende a credere che esista una
struttura mentale che induce l’uomo a provare piacere per alcune qualità e dispiacere per altre. BURKE
anche lui nel premettere alla sua Inchiesta sul bello e il sublime un saggio Sul gusto, perveniva
all’affermazione che le differenze dei giudizi sono differenze di grado che dipendono dalle doti naturali e
dall’esercizio. Nella Critica del Giudizio di IMMANUEL KANT (1724-1804) poiché giudicare bello qualcosa
significa accorgersi dell’accordo dell’oggetto con le nostre facoltà conoscitive, il giudizio rimanda a un senso
comune e ciò rende lecita la speranza del consenso e dell’adesione altrui. Perciò sostiene Kant sul gusto
non si può disputare ma si può legittimamente contendere. Il gusto buono è per Kant quello disinteressato.
Nel giudizio entrano in gioco l’immaginazione e il concetto. E l’esito è un aumento di carica vitale, di
animazione delle facoltà dell’uomo. La poesia è vista come un’esibizione di un concetto, congiunta con la
circolazione di una quantità di altri pensieri, avente l’effetto di fortificare l’animo. Inoltre, riflettendo sul
sublime, Kant mette in luce l’ambivalenza e l’interconnessione delle reazioni di piacere e dispiacere,
strappando così l’arte alla semplice degustazione del piacevole. Il sublime kantiano è stato collegato
con la tensione interminabile dell’arte moderna. Kant suggerisce alcune massime sul gusto: pensare
da sé (e quindi originalmente), pensare largo (nella prospettiva della comunità umana), pensare in modo
da essere sempre in accordo con se stessi (in modo conseguente). 1.5 – La comprensione storica (il
processo storico) La considerazione dell’origine storica dei testi porta a fissare lo sguardo sul processo
dell’evoluzione. GIANBATTISTA VICO (1668-1744) con la Scienza Nuova è posto in luce il
condizionamento della storia. Vico cerca di leggere lo sviluppo secondo le fasi della vita umana La
letteratura, o meglio la poesia, si trova collocata in una delle fasi iniziali, nell’epoca cosiddetta eroica
quando gli uomini in mancanza di categorie intellettuali utilizzavano le favole, i miti e le metafore.
Una tale concezione ha il merito di riconoscere alla poesia il suo valore conoscitivo e la sua funzione
sociale. Nel ‘700 italiano vediamo nelle Lettere inglesi di Bettinelli che il ricorso alla storia serve a
giustificare gli addebiti rivolti ai grandi poeti del passato, ad indicarne i limiti storici. (Imitare Dante,
stigmatizza Bettinelli, sarebbe come voler tornare a vestirsi col cappuccio!) JOHANN GOTTFRIED HERDER
(1744-1803) nella sua filosofia la collocazione dei prodotti culturali nella loro propria casella cronologica è
l’indizio di un atteggiamento tollerante che tendenzialmente accoglie la validità di tutti i contributi portati al
patrimonio dell’umanità, nel corso del tempo. Di fronte a ciascuna epoca occorre porsi non nella
posizione del giudice che valuta il vantaggio o lo svantaggio ma nell’immersione della simpatia. La
storicità apre la strada alla comprensione giustificativa. La storia si separa dalla critica? La storia letteraria è
una branca della storia o va compresa tra i generi della critica? Nel primo caso i libri andrebbero trattati al
pari dei fatti e degli eventi e quindi inventariati senza gerarchie di valore, sulla base della loro datiti
cronologica. Il secondo caso invece la storia letteraria verrà vista come il culmine di una stagione culturale
in cui la storia letteraria verrà condotta a concentrarsi sui testi rilevati dal giudizio estetico. BERTOLT
BRECHT (1898-1956) rapportare il testo alle tensioni storiche significa non farsi illusioni circa il suo
disinteresse; per quanto l’arte tenga spesso ad apparire superiore alle motivazioni di tipo materiale,
è tuttavia lecito interrogarsi sull’interesse dell’arte. Il drammaturgo tedesco suggerirà l’analisi degli
scritti come funzionari da un punto di vista sociale per verificare quanto essi possano giocare in difesa di
una certa cultura o avere influenza su determinati strati della popolazione e la misura in cui sono in grado di
incidere sulla situazione sociale esistente. CAP.2 2.1 – La svolta romantica: critica come partecipazione Con
il movimento romantico che nasce in Germania tra ‘700 e ‘800 si assiste a una svolta anche nel ruolo
assegnato alla critica. In primo luogo è superata la nozione classica di imitazione: l’artista e lo scrittore non
dovranno più riprodurre il mondo esterno, ma esprimere un mondo interiore. Rappresentare non la realtà,
ma l’idea. Rifiutate le regole, il raggiungimento del risultato artistico resta appannaggio della grande
personalità: il genio. Di fronte all’opera del genio, la critica non deve porsi a giudicare da fuori, ma
deveentrare nell’opera e contribuire ai suoi effetti. L’immedesimazione e la commozione diventano
cardini dell’approccio alla letteratura. Il tentativo di aderire alla costituzione profonda del testo dà
inizio ala modernità. FRIEDRICH SCHILLER (1759-1805) I punti chiave della posizione romantica sono
espressi dal suo saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale. La questione principale che vi si apre è
quella della discontinuità con la tradizione: tra gli antichi e i moderni viene tracciato il solco di una
differenza sostanziale nel modo di fare poesia. La causa di questo mutamento è posta da Schiller nella
separazione dalla natura. L’uomo moderno non vive in modo naturale e quindi deve cercare la natura fuori
di sé. La poesia sentimentale dei moderni è costretta ad andare alla ricerca della naturalezza perduta e a
riflettere sulla perdita stessa. Il moderno, poiché per lui il reale e l’ideale non possono coincidere,
opera su un doppio livello facendo interagire la sensibilità e l’immaginazione degli oggetti particolari con
le idee generali della ragione. Schiller si adopera a suddividere la poesia sentimentale in disposizioni
poetiche che discendono dalla scissione tra reale e ideale: satira (quando l’ideale fa contrasto con il
reale e lo rende oggetto della sua avversione), elegia (quando c’è oscillazione tra la natura perduta e
l’ideale irraggiungibile) e idillio (quando sia conseguito un accordo tale da riconciliare l’ideale e il reale).
Schiller mette a confronto lo stato d’animo dei moderni rispetto agli antichi. Non sceglie in favore della
dinamicità tuttavia quando discorre dell’effetto poetico esprime le proprie notazioni positive in termini di
tensione, potenza, forza, impulso, pathos. Bisogna distinguere all’interno del romanticismo due diverse
linee: JOHANN WOLFGANG GOETHE (1749-1832) la prima linea è incarnata insieme allo storicismo
tollerante di Herder da Goethe secondo il quale la critica produttiva deve entrare nelle ragioni dell’autore e
domandasi che cosa ha voluto fare l’autore. Goethe si pone dalla parte di un giudizio che
propende al positivo. Egli arriverà a dire che si impara veramente qualcosa solo dai libri che non
siamo capaci di giudicare. Dai suoi saggi si ricava anche un’attenuazione nel contrasto tra classicità e
modernità. Egli salva la nozione classica dell’arte come imitazione della natura. AUGUST WILHELM
SCHLEGEL (1767-1845) la seconda linea che approfondisce la contrapposizione tra classicismo e
romanticismo viene da lui sviluppata e l’applica in particolare all’evoluzione del dramma. Il carattere
fondante del romantico sta nella eterogeneità e contraddittorietà degli elementi dell’opera artistica; alla
perfezione e all’unità degli antichi, i moderni sostituiscono il valore della mescolanza e dell’antitesi. Schlegel
definisce la poesia romantica una poesia sempre in divenire, un’attiva tendenza alla sintesi che deve
tenere insieme poesia e prosa, genialità e critica. Il romantico qui non è sinonimo di una pura
effusione d’affetto ma piuttosto prevede l’intervento decisivo della riflessione. La prospettiva della
critica schlegeliana è quella dello scavo in profondità alla ricerca di un senso che non appare
immediatamente. Da un lato dovrà procedere con lentezza, nelle minime pieghe del testo, all’analisi
costante del particolare; dall’altro lato dovrà essere pronto a cogliere con un rapido colpo d’occhio il nucleo
centrale. Per comprendere veramente un’opera è necessario ricostruirla nelle parti che la compongono in
modo da scoprire ed evidenziare il suo carattere peculiare. Il giudizio comporta il fatto che il critico
capisca l’autore meglio di quanto l’autore non abbia capito se stesso, ma per poterlo fare è necessario
essere riusciti a capire il modo in cui l’autore capiva se stesso. La critica sarebbe lo sviluppo
dell’autocomprensione dell’autore. Vicino a queste ipotesi è NOVALIS (1772-1801) la critica è per lui
il prolungamento produttivo dell’opera: il vero lettore deve essere l’autore ampliato. Novalis ragiona
in termini di strategia e di fisiologia. Non deve stupire il paragone che lui fa tra l’attività del critico
e quella del medico: il critico tradizionale, che segnala i difetti e le manchevolezze dell’opera, è come un
medico che si limitasse a scoprire la malattia e a divulgarla con gioia maligna invece di cercare di
migliorare la disposizione malferma. Notevole anche l’allusione a un senso fisiognomico del testo:
come i tratti di un viso ne esprimono il carattere, così il linguaggio è espressione delle idee. Ma la
ricerca del senso, l’interpretazione, è qui qualcosa che ha a che fare con l’eccitazione e la stimolazione delle
energie. In Europa dopo la Restaurazione i valori che prevarranno sono quelli della spontaneità, dello stato
emotivo diretto soprattutto al cuore, del sublime tradotto in facile empito e rivolto a un pubblico
popolare. Dove prevale il patetico la riflessione critica non ha granchè luogo a procedere. Al passo con la
concezione produttiva dei primi romantici ci sarà: SAMUEL COLERIDGE (1772-1834) secondo lui il genio
non è una forza spontanea della natura né un automa passivamente in preda a raptus che vede in esso
invece l’unione del poeta e del filosofo. Il poeta è colui che mette in attività tutta l’anima dell’uomo. Più
vicino alla linea irrazionalistica platonica appare: PERCY BYSSHE SHELLEY (1792-1822) con la sua Difesa
della poesia anche se vede la poesia come ampliamento spirituale verso una serie di combinazioni
insospettate di pensiero preferisce lo strumento principe per il carattere istintivo della facoltà poetica
inconsapevole e trasfigurante. MADAME DE STAEL (1766-1817) appiattì le indicazioni dei tedeschi
privilegiando l’aspetto affettivo. Comprendere gli autori equivale a entrare in comunione con il loro
stato psicologico e con il loro senso religioso. Ma per esprimere il mistero della bellezza non ci sono
parole. Il romanticismo in Italia la naturale esigenza di una letteratura adatta ai nuovi tempi trovava
risposta nelle nozioni assai adattabili ancora una volta al patetico. Più interessante risulta essere il
confronto tra ALESSANDRO MANZONI (1785-1873) e GIACOMO LEOPARDI (1798-1837). Sia Manzoni
che Leopardi ritengono decisivo giudicare l’effetto della poesia. Manzoni al fine di giustificare l’impiego
della verità storica nella tragedia sostiene che i fatti reali suscitano in noi un più forte interesse,
un’attrazione più viva, infine una maggiore simpatia per i personaggi del dramma. La discussione sulle
unità aristoteliche viene risolta dal Manzoni con il rifiuto delle regole e la rivendicazione della libertà
dell’artista, che deve attenersi soltanto al soggetto che si è scelto, trattandolo in modo da incidere con la
massima potenza al punto da gettare gli uomini fuori di se stessi. Leopardi valuta la poesia secondo la
capacità di suscitare l’interesse. DIFFERENZE TRA MANZONI E LEOPARDI: In Manzoni c’è una sorta di
svuotamento (il destinatario è trasportato fuori di sé) in Leopardi un riempimento delle facoltà umane.
Manzoni modella la sua teoria su una catarsi rivolta verso uno scopo morale; per Leopardi l’effetto riguarda
la sensibilità e la vitalità in modo quasi fisico. Mentre in Manzoni le passioni vengono sollevate per
mostrare come la forza morale possa riuscire a dominarle. In Leopardi il valore classico dell’unità dell’opera
è superato dal valore del movimento e del contrasto. Manzoni dà ai problemi sollevati dal romanticismo la
soluzione più tradizionale mentre Leopardi risulta il più affine alla concezione dinamica propria della
linea Schiller-Schlegel-Novalis. 2.2 – letteratura e storia La nozione della critica come partecipazione
spingeva a prendere in esame anche il momento temporale in cui ciascuna opera era stata pensata e
prodotta. Prima le indicazioni sul clima e sull’ambiente geografico poi troverà sempre più spazio il disegno
della natura dei tempi con riguardo alla vita sociale. Ripercorrere le tappe della storia letteraria nazionale
era evidentemente un modo per risvegliare la coscienza unitaria della nazione. Non bisogna dimenticare
l’interesse del romanticismo per le origini. UGO FOSCOLO (1778-1827) in questa prospettiva cade ad
esempio il vi esorto alle storie di Foscolo del quale è utile tener presente l’esigenza di un libro che da un
lato spieghi le cause della decadenza dell’utile letteratura e dall’altro non si astenga dal giudizio sugli autori
intervenendo più nel merito che nel numero degli scrittori. Perché qui tocchiamo alcuni problemi di rilievo:
l’esigenza di una linea storica che metta ordine nei fatti e il superamento di una storiografia meramente
compilativi. Ci sono 2 rischi: il rischio di imporre alla storia un modello di evoluzione ideale aprioristico e il
rischio di ridursi a un pellegrinaggio tra i capolavori. Anche per HEGEL l’arte nel suo complesso rappresenta
una fase nella vita dello spirito umano destinata ad essere superata nel progresso verso il compimento
dello Spirito assoluto. Nei gradi di questo progresso l’arte deve cedere il passo alla religione e alla filosofia.
È la morte dell’arte. L’arte ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito. La storicità ha il
cammino segnato: le fasi devono esattamente derivare dal dispiegamento delle potenzialità insite
nell’idea. Le fasi sono 3: la fase iniziale (l’arte simbolica dell’Oriente e dell’antico Egitto) sarebbe
caratterizzata dal prevalere della forma; la fase centrale (l’arte classica greco-romana) dall’armonia e dalla
mediazione tra i due termini; la terza e ultima fase (l’arte romantica, che in Hegel viene generalizzata a
coprire tutta la produzione artistica dopo l’avvento del cristianesimo) dal prevalere del contenuto.
EDGAR ALLAN POE (1809-1849) nei suoi scritti circola un’idea di bellezza con la maiuscola come
avvicinamento a un’essenza metafisica che non si può cogliere in poesia che per brevi indistinti barlumi.
Getta le basi del simbolismo. Ma poiché la bellezza tende a coniugarsi con l’originalità bisogna considerare
la tecnica che ha analizzato nel commento nella sua Filosofia della composizione. BAUDELAIRE afferma
che il bello è sempre bizzarro. Non più un ideale eterno ma mosso dalla contraddizione, in quanto
aperto al relativo, al transeunte, alla rapida trasformazione della modernità: una bellezza che fa i conti con
la contingenza e la storicità. WALTER PATER (1839-1894) per lui essenziale non è solo avvertire la bellezza
ma anche spiegare e analizzare l’impressione ricevuta. L’apprezzamento dei punti elevati, dei vertici, dei
momenti eletti, conduce al collegamento extrastorico tra gli artisti di genio, tutti ugualmente ospiti nella
casa della bellezza e tuttavia ciascuno secondo il proprio modo. La bellezza è relativa e non se ne può dare
una definizione astratta. Il fascino è qualcosa di peculiare, l’incanto è unico, la bellezza singolare. Pater
ricorre alla biografia. Il principale problema è come rapportare la sfera estetica agli altri settori
dell’analisi filosofica. Sul posizionamento dell’estetica all’interno dell’elevazione dello Spirito i filosofi
dell’idealismo divergono: SCHELLING le dà il rango principale. Le attribuisce il potere di risolvere
con l’intuizione ogni contraddizione, nell’identità di una infinita armonia. mentre HEGEL ne fa un
grado inferiore. La perfetta trasparenza dell’interno nell’esterno si riscontra soltanto nell’arte classica.
Il dinamismo del libero gioco delle facoltà, che c’era nell’estetica kantiana non si ritrova nell’estetica
schellinghiana. Neppure nell’estetica hegeliana da cui, invece, si sviluppa un tipo di critica tesa a
fissarsi sull’idea contenuta nell’opera, accreditando il contenutismo. ARTHUR SCHOPENHAUER (1788-
1860) considera l’arte come un’intuizione contemplativa che astrae l’uomo dalla sua vita abitudinaria
dove egli è trascinato dalla cieca volontà di vivere. Dunque l’arte poiché riesce a liberarci dalla schiavitù
del volere è un conforto che fa dimenticare anche se solo momentaneamente i travagli della vita.
FRIEDRICH NIETZSCHE (1844-1900) la bellezza estetica serve a rendere tollerabile il peso
dell’esistenza. La bellezza è un trucco della forza primordiale per consentire alla vita di continuare. Egli
propose di abbandonare la figura del critico erudito per passare alla figura dell’ascoltatore estetico.
BENEDETTO CROCE (1866-1952) a partire dalla Estetica egli lavora a suddividere l’attività dello
Spirito in diversi ambiti: l’estetica risulta così separata dal pensiero concettuale, come la sfera economico-
pratica da quella della morale. Secondo la dialettica dei distinti l’arte viene distinta dalla logica:
essa è conoscenza, ma conoscenza pre-logica, intuitiva, che non adopera concetti bensì immagini.
L’arte è intuizione. Croce terrà costantemente a escludere dal bello i livelli di riflessione più
elaborata e paradossalmente un sistema di pensiero verrà messo in opera per recuperare la posizione del
lettore ingenuo. Croce vede nell’intuizione qualcosa di già pacificato. Il sentimento contemplato è destinato
a essere risolto e sperato per virtù dell’arte. L’intuizione artistica è un momento superiore alla
semplice percezione e sensazione. L’intuizione valida è quella già corredata della sua espressione
quindi già in qualche modo formata. Per Croce non è un processo che porti dal contenuto alla forma ma i
due aspetti debbono emergere insieme. L’estetica crociata perviene al privilegiamento della forma ma lo
scrittore non deve andare per nulla alla ricerca della forma migliore. L’espressione non può essere trovata
già pronta in regole prefissate. Dal punto di vista crociano l’estetica non può giovarsi di alcun metodo
comparativo: i paragoni tra due artisti diversi danneggiano l’uno e l’altro. Croce ad escludere molti dei
modi di approccio al testo che si erano imposti nell’800. non ammette la spiegazione attraverso le cause
esterne. L’opera letteraria non può essere riassorbita nella storia perché le intenzioni dichiarate
dell’autore non sono ritenute sufficienti in quanto l’intuizione è al di là della consapevolezza. Anche
i ponti tra critica e biografia risultano tagliati. Croce riduce l’importanza dell’erudizione. Nell’estetica
l’unica soluzione possibile sembra quella della compartecipazione. Non resta che ricreare l’opera in noi.
Il metodo critico proposto da Croce coinciderebbe con l’immedesimazione fino alla stretta identità.
Eppure nemmeno in questa forma il movimento della comprensione perde di mira il giudizio. La
critica che Croce deriva dalle proprie convinzioni estetiche è sempre volta all’apprezzamento. Per
contrassegnare il valore artistico Croce sceglierà il termine poesia divenendo sinonimo di bello. Con la
Poesia Croce riesce ad articolare maggiormente l’operazione critica.
12 Accanto al bello è possibile rintracciare il caratteristico cioè quel motivo generatore che permette di
definire lo stato d’animo fondamentale di ciascun autore. Nella Poesia viene puntualizzata la connessione
tra estetica e storia. Ciò non comporta però né la spiegazione dell’arte attraverso i mutamenti sociali
né la sua connessione con la sfera pratica. L’unico orizzonte storico concepibile è quello di una
comunione eterna delle opere belle. La posizione di Croce fu a lungo egemone in Italia e non senza influssi
sul resto d’Europa. Certo, i seguaci di Croce resero più elastico il suo metodo o ritornando all’arte come
sentimento o puntando sulla degustazione di singoli frammenti avulsi dall’insieme.
La transizione del primo novecento GUSTAVE LANSON (1857-1934) l’erudizione, le cognizioni esatte e
positive sono fondamentali ma il fine ultimo è aiutare la comprensione e il godimento dei testi. KARL
VOSSLER (1872-1949) nei suoi scritti ecco che si affaccia la nozione di stile. RENATO SERRA (1884-1915) e
GIOVANNI BOINE (1887-1917) portarono l’impressionismo critico alle estreme conseguenze ma con
soluzioni per molti versi opposte. SERRA arrivò a seguire le impressioni fino al vero e proprio racconto
della lettura. Egli porta attenzione a tutta una serie di dati sull’autore e sui suoi luoghi prediletti.
Come avveniva nel precedente caso dell’eclettismo di Sainte-Beuve, Serra non avverte contrasto: infatti
per lui le impressioni stesse sono fatti né più né meno che i dati biografici. Ad essere esclusa è semmai
l’emissione del giudizio, e questa è una distinzione con Croce. Proprio per non prevaricare l’opera,
Serra le offre molto spazio attraverso l’abbondanza di citazioni dirette. E non volendo apparire un
giudizio esterno, si attesta spesso sul rilevamento degli effetti prodotti dal testo. Il metro del valore non
è il bello definito filosoficamente come per Croce ma l’incanto che l’opera ha saputo creare catturando il
lettore. Un altro termine che Serra usa come contrassegno positivo è la felicità. Felice è sia il risultato
conseguito dall’opera sia lo stato che essa procura. La differenza da Croce su questo punto si riduce di
molto: l’ideale di Serra è una letteratura improntata alla sobrietà felice dei classici e alla civiltà. BOINE
risulta per molti aspetti il contrario di Serra. Per Boine il giudizio è essenziale a costo di esercitarlo
in maniera drastica. Quella di Boine vuole essere una nuova frusta letteraria ed infatti l’Aristarco Scannabue
di Baretti viene rievocato espressamente. Una frusta che si esercita soprattutto sulla narrativa
commerciale ma anche sulla poesia di maniera. Il rifiuto viene formulato portando all’eccesso la
personalizzazione del discorso propria della critica impressionistica. Con Croce Boine intrattenne una
dura polemica sulle pagine della rivista fiorentina “La Voce”. Contro Croce Boine propone di
sostituire come termine della valutazione positiva al bello il grande. Boine va alla ricerca dell’uomo e non
del poeta. Ma il riferimento all’uomo non finisce in un sereno biografismo, piuttosto a Boine interessano il
travaglio interno della personalità e il dissidio che rompe la sublimazione e vitalizia i morti schemi letterari.
L’ipotesi di scrittura che Boine come critico rintraccia riceve il nome di lirica. Ma in un senso molto diverso
dall’uso fattone da Croce. In Serra la presa del testo è considerata alla stregua di un magico incantesimo al
quale ci si deve abbandonare. In Boine invece il rapporto è visto come una scossa, un urto. ALBERT
THIBAUDET (1874-1936) ribalta la critica fisiologica di Sainte-Beuve proponendo la sua Filosofia della
critica, articolata nei tre rami della critica professionelle, parlée e d’artiste. Sia la critica universitaria che
quella svolta sulla stampa hanno per compito l’inventario; solo che l’una lo espleta sul passato l’altra sul
presente. La critica giornalistica a sua volta è il punto alto di quella critica parlée. I diversi tipi di critica
inquadrano competenze diversificate ma secondo lui non mancano di relazioni ed è anzi utile la loro
correzione reciproca. PAUL VALERY (1871-1945) è un lettore molto attento a ricostruire l’interiorità
dell’autore. Ma ciò lo porta a contestare la validità della critica biografica poiché i fatti esterni non
hanno nessun necessario riferimento al lavorio mentale che produce l’opera. Con la sua concezione
della poesia come arte del linguaggio, pendolarmente oscillante tra suono e senso, Valere consegna al
futuro strutturalismo il problema del rapporto tra significante e significato. È posto così il problema della
libertà dell’interpretazione. Il poeta francese si esprime contro la passività nella lettura. THOMAS STEARNS
ELIOT (1888-1965) secondo lui la poesia contiene già al suo interno il germe del lavoro critico e
nondimeno il critico deve avere un senso fattuale estremamente sviluppato. Gli strumenti
13 principali sono soprattutto l’analisi e il confronto. L’importanza della prospettiva storica è che il
presente può essere compreso solo rispetto al passato. VIRGINIA WOOLF (1882-1941) la polemica
riguarda il fatto che le donne vengono scarsamente considerate nel mondo letterario e in partenza
hanno molte meno possibilità di accedere alla scrittura. Quando la Woolf si occupa delle scrittici può
prevalere l’interesse biografico e campeggiare la ricostruzione della figura autoriale. Oppure l’uso
dell’immaginazione per entrare nelle vicende come se si partecipasse ad esse. O ancora l’impiego di
metafore vivide. La Woolf vorrebbe calarsi nel lettore comune e tuttavia continua ad affidare al critico
di professione un compito di supporto e di stimolo, non di autorità, ma di aiuto a specificare meglio le
impressioni confuse della lettura. Di fatto l’atteggiamento di simpatia e di adesione non è sufficiente: la
lotta contro i pregiudizi e le emarginazioni ha bisogno anche di un momento giudicante. La Woolf consiglia
di non esitare al giudizio più severo. CAP.3 3.1 – L’apporto della linguistica FERDINAND DE SAUSSURE
(1857-1913) ha chiarito 3 distinzioni: 1. i termini significante e significato si individuano i due livelli su
cui si impegneranno le discipline della fonologia (che studia i tratti distintivi e l’articolazione dei
significanti) e della semantica (rivolta all’analisi dei significati) 2. i termini langue e parole langue sta a
indicare il codice cioè il sistema della lingua mentre la parole è chiamata a designare il messaggio 3. la
coppia sincronia/diacronia la sincronia si riferisce allo stato della lingua in un determinato momento
mentre la diacronia è rivolta a comprendere i processi di cambiamento e di mutazione. LOUIS HJELMSLEV
(1899-1965) ha distinto espressione e contenuto i due livelli del significante e del significato. Con la
linguistica si è diffusa anche una mentalità scientifica. È nata una critica che non esita a servirsi di schemi,
anche grafici, per classificare i propri dati e definirne i legami di affinità, di differenza o di opposizione. 3.2 -
Le spie dello stile Nell’esercizio concreto della critica è stato possibile utilizzare gli spunti dell’analisi
linguistica. Oggetto di studio è quel tratto linguistico che più contraddistingue l’autore e fa del suo stile
qualcosa di riconoscibile. La nozione di stile è passata a designare l’aspetto individuale della lingua. E
critica stilistica sarà allora quella che tende alla determinazione delle peculiarità che rendono significativa
la figura di un singolo autore o addirittura di un singolo testo. LEO SPITZER (1887-1960) egli mise a punto
il metodo della stilistica. Parte dal presupposto che esiste sempre un rapporto reciproco tra stato interiore
e fatti di linguaggi. Il critico partendo da qualche tratto che si trova sulla superficie verbale deve arrivare ai
centri emotivi. Si tratta di cogliere l’emersione espressiva che Spitzer denomina spia stilistica e di ricondurla
alla radice psicologica d’origine. Il critico parte armato delle proprie impressioni che gli segnalano un
particolare come decisivo ai fini dell’interpretazione. Il cosiddetto clic che fa accendere la spia e mette
in azione l’analisi, può non essere evidente ed immediato. Spitzer raccomanda di leggere e rileggere
con pazienza. Inoltre questo elemento linguistico va sempre sottoposto a una verifica: deve dimostrare di
non essere un fatto contingente e isolato ma un denominatore comune. Parola e opera dovrebbero
ritrovarsi legate in una armonia prestabilita. Spitzer ha teorizzato un movimento pendolare dal particolare
al generale, dalla circonferenza al centro del cerchio e viceversa denominandolo circolo filologico. I
problemi inerenti alla stilistica sono soprattutto le remore a risolvere l’atto critico nell’analisi
linguistica. Una volta avuto accesso attraverso le spie al centro dell’opera le carte possono tornare in
mano all’impressione estetica. L’uso normale della lingua, chiamato anche standard o grado zero, è
difficilmente accertabile in modo definitivo. Si tratta di stabilire quali scelte lo scrittore ha compiuto in quei
punti della lingua che essendo più elastici offrono la possibilità di diverse sfumature. Ma nessuno può
trasferirsi nella mente dell’autore per sapere esattamente quali scelte abbia compiuto e su quali
alternative. L’unico modo oggettivo è quello su cui ha puntato GIANFRANCO CONTINI (1912-1990) le
uniche scelte reali operate dall’autore sono quelle documentate sotto forma di correzioni.
14 ERICH AUERBACH (1892-1957) successore di Spitzer dispiega tutta la versatilità del proprio metodo
che è quello della campionatura. Mentre Spitzer coglie come significativo un piccolo elemento all’interno
del testo, Auerbach preferisce lavorare su un campione abbastanza esteso contenente tutte le
caratteristiche fondamentali dello stile. Mimesis è un grande excursus storico che mette a confronto
diverse soluzioni stilistiche. Secondo Auerbach ogni testo prende posizione rispetto ai livelli stilistici e alla
loro gerarchia: o promuovendo la separazione (distanziando lo stile sublime dallo stile basso) o come nel
medioevo e nell’età moderna favorendo la mescolanza. Il testo è comprensibile e giudicabile solo secondo i
parametri del suo proprio tempo. Quella auerbachiana è una stilistica storicizzante. La situazione sociale
spiega lo stile. WILLIAM EMPSON (1906-1984) ha analizzato nei testi poetici le ambiguità in tutti i
loro tipi, ne distingue 7, riuscendo a cogliere in parafrasi l’oscurità e la ricchezza di passi particolarmente
ardui, senza escludere il momento apprezzativi. Empson considera sia la creatività individuale che la
convenzione collettiva.
l metodo formale ROMAN JAKOBSON (1896-1982) VICTOR SKLOVSKIJ (1893-1984) JURIJ TYNJANOV
(1894-1943) diedero vita alla teoria del metodo formale. Secondo Sklovskij il nostro modo di vedere le
cose è reso ottuso dall’abitudine. Per risvegliare la capacità di visione è necessario che l’osservatore si
metta in una prospettiva inedita e sorprendente. Anche i formalisti assumono la nozione di scarto, di
deviazione della norma. I formalisti affrontarono la questione mediante la contrapposizione tra linguaggio
letterario e linguaggio pratico: il linguaggio pratico adopera le parole come mezzi per realizzare i vari scopi
della vita. Invece nel linguaggio letterario la parola non è più mezzo ma fine in se stessa. Gli scarti
indagati furono principalmente il ritmo e la rima in poesia e l’intreccio in narrativa. OSIP BRIK (1888-
1945) ha distinto l’impulso ritmico dalle leggi della metrica in modo da poter avviare l’analisi del verso
libero. Allo stesso modo nell’ambito dell’intreccio SKLOVSKIJ individua diversi schemi di costruzione a
gradini (quando la storia procede per aggiunte successive), ad anello (quando ad una azione fa
seguito una contrazione), con intrecci paralleli, l’inserimento di novelle in una cornice e così via.
Viene privilegiato l’aspetto tecnico. I formalisti si adoperano a portare alla luce i segreti di fabbricazione,
cercando di vedere con quali procedimenti l’opera organizzi i propri materiali. Sklovskij porterà
all’estremo questa impostazione fino a considerare ininfluenti i materiali e a ritenere che le motivazioni
tecniche siano le uniche decisive. In questa ottica, in cui il contenuto dell’opera è la sua forma, si
comprende l’interesse di Sklovskij per la messa a nudo del procedimento e in generale per la parodia. Il
compito che si sono posti i formalisti non è valutare ma spiegare com’è fatto un testo. Il critico come
esperto inteso a dar conto del funzionamento dei meccanismi letterari. Un tentativo di osservare più da
vicino le funzioni dei singoli elementi testuali venne compiuto da PROPP sul corpus delle fiabe russe di
magia. Scoprì che vi era un unico schema attuato in modo diverso in ogni fiaba. C’è una costante
che Propp individua come una funzione del racconto a cui dà il nome di proibizione. L’analisi morfologica
mostra che le fiabe di magia si basano su un numero limitato di funzioni da cui ogni fiaba attinge per
comporre la propria sequenza. Per Sklovskij la letteratura non avanza in linea retta ma per scarti e salti
continui.
TODOROV arriverà addirittura a tradurre l’intreccio in formule algebriche GENETTE toccherà a lui con il
Discorso del racconto del 1972 a sistematizzare l’analisi degli aspetti e dei modi della narrazione uscendo
dalla mera sequenza delle vicende. Vi sono alcuni problemi che lo studio dell’intreccio non riesce a toccare,
ad esempio quello dell’enunciazione. Chi racconta la storia? Un narratore intradiegetico o extradiegetico
che può avere parte o no nella vicenda e quindi potrà essere omodiegetico o eterodiegetico. BARTHES
accanto alle funzioni egli suggerisce di considerare anche degli indizi che sono quelle notazioni
spesso appena accennate a indicare il carattere dei personaggi e l’atmosfera della vicenda, e
servono a preparare gli sviluppi della storia. Inoltre Barthes distingue tra le funzioni quelle cardinali
o nuclei da quelle di riempimento che offrono all’interprete dettagli non trascurabili. Barthes indica
la necessità di un passaggio dalle macrostrutture alle microstrutture verso il modo di organizzare i
significati, dove le analisi della poesia e della prosa si congiungono. 3.7 – Semantica - semiotica Del
metodo messo in campo da GREIMAS sono da ricordare soprattutto alcune nozioni basilari: la
suddivisione del significato in semi, il formarsi di catene coordinate di semi dette isotopie, la connessione ai
semi di marche valutative. Sulla scia di queste indicazioni greimasiane si sono mossi alcuni studiosi
belgi dell’Università di Liegi raccolti sotto la sigla del GRUPPO M i quali hanno riclassificato nei
termini della semantica strutturale l’antichissimo bagaglio della retorica. I ricercatori di Liegi passano
a individuare 4 possibili forme di deviazione: soppressione (quando viene tolto un elemento),
aggiunzione (quando l’elemento viene aggiunto), soppressione-aggiunzione (la sostituzione di un
elemento con un altro) e permutazione (invertire l’ordine degli elementi). La metafora è intesa come
soppressione-aggiunzione nel significato di una parola, la rima è vista come aggiunzione ripetitiva a livello
dei suoni. Il Gruppo M ha precisato la propria ipotesi teorica nella Retorica della poesia. Nel testo poetico le
metafore e le altre figure produrrebbero un proliferare di semi secondari che vanno a formare varie catene
di isotopie. Mentre il linguaggio normalmente si basa su una sola isotopia, la poesia è dotata di poli-
isotopia. Tali reti semantiche possono essere ricondotte a 3 grandi ambiti: un triangolo che ha per vertici
l’uomo, il cosmo e il linguaggio stesso (anthropos, cosmos e logos). Il modello Greimasiano è il quadrato
semiotico dove il termine chiave si sviluppa in una dialettica più aperta e complessa combinandosi con
i termini contrari e contraddittori. 3.8 – La cultura come universo di segni MARIA CORTI (1915-2002) ha
considerato la comunicazione letteraria come scampo di tensioni tra istanze alla codificazione e spinte
trasformatrici. CESARE SEGRE (1928-vivente) ha riattivato l’interesse verso la storia del confronto tra
scrittori col sistema semio-letterario. Il Gruppo di Mosca e Tartu raccolto attorno a Lotman e a Uspenskij
sostengono che se ogni testo non può essere pienamente compreso nel suo valore altro che in rapporto al
contesto culturale in cui si inscrive, è allora alla cultura in quanto sistema dei sistemi che l’analisi deve
in ultima istanza giungere. La cultura risulterà dal modo di sommarsi e di organizzarsi dei diversi codici e
sarà interpretabile come sistema di segni sottoposto a regole strutturali. Sono queste le basi della
culturologia. Secondo LOTMAN il modello culturale consiste essenzialmente in uno schema spaziale. Lo
spazio viene suddiviso a opera di una frontiera che serve a distinguere i valori dai disvalori: il gruppo sociale
dai nemici, i vivi dai morti, le divinità buone da quelle cattive. Le vicende dell’eroe sono significative perché
e in quanto lo portano ad attraversare alcune importanti barriere del modello culturale. I personaggi
possono essere vincolati (che sono legati a una particolare zona e non possono oltrepassarla) oppure
mobili (che assurgono al rango di protagonisti e di forze trainanti dell’azione narrativa). Per
identificare i tipi culturali Lotman ha avanzato varie proposte utilizzando le categorie tratte dalla
linguistica. La classificazione più articolata è quella approntata prendendo in considerazione
l’atteggiamento rispetto al segno. Questi versanti in linguistica ricevono il nome diparadigma e
sintagma. Si aprono 4 possibilità: privilegiamento del primo aspetto o del secondo o di nessuno dei
due o di tutti e due. Lotman legge lo svolgimento della cultura russa prima del sec. XX come successione di
4 tipi: nel medioevo predomina l’aspetto pragmatico il segno è fortemente valorizzato a scapito di ciò
che non è segno con i secoli XVI-XVII si impone la cultura del praticismo i segni non sono più
presi per il rapporto con un livello superiore ma per il posto che occupano in un piano determinato. È
questo il tipo sintagmatico dove predomina la capacità di combinare e organizzare i segni l’illuminismo
rappresenta il caso del rifiuto di entrambi gli aspetti tra il secolo XVIII e XIX con l’instaurarsi della società
borghese prende piede un modello culturale che concilia l’aspetto paradigmatico con quello sintagmatico.
Perché una cultura dopo aver funzionato bene a un certo punto viene sostituita da un’altra la risposta degli
studiosi russi è che il dinamismo non sia imposto da cause estranee ma che sia intrinsecamente connesso
alla cultura. Senonchè una volta inteso il dinamismo una proprietà ineliminabile della cultura, si
finisce per ritenere il cambiamento un fatto naturale, insomma per deresponsabilizzare le forze
culturali. Nell’ultima fase della sua attività Lotman ha indicato il punto di passaggio tra i diversi stati
con l’immagine dell’esplosione. L’arte è un’esplosione di senso che accade senza preavviso in un dato
momento temporale. La semiotica ha consentito a Lotman di toccare il punto di congiunzione tra
letteratura e comportamento. CAP.4 4.1 – La concezione materialistica della storia La comprensione della
letteratura ha ricevuto un potente impulso in seguito alle analisi del materialismo scientifico fondato
da KARL MARX (1818-1883) e FRIEDRICH ENGELS (1820-1895) la loro teoria forniva la precisa
indicazione di dove cercare le radici, il motore del processo storico. Tale ruolo era attribuito a una
motivazione sociale e a un nucleo profondo di natura economica. Secondo questo punto di vista, l’aspetto
propriamente umano non si trova nel linguaggio o nella significazione, ma nel lavoro e
nell’organizzazione legata alle necessità dell’attività lavorativa. Le istituzioni e pratiche culturali vanno
comprese nel loro intreccio con la base materiale socio-economica di cui sono espressione. La coscienza
che si illude della propria indipendenza finisce per rappresentare i rapporti reali in modo distorto e
deformato. Questa falsa coscienza viene dai due autori denominata ideologia. Viene messo in campo
lo sguardo sospettoso della critica dell’ideologia. Marx avverte che non la critica ma la rivoluzione è la forza
motrice della storia. Come mai noi gustiamo con intatto piacere le opere degli antichi, oggi che il quadro
della vita sociale è completamente mutato? Per la teoria, che viene risolta da Marx ricorrendo all’idea di un
particolare fascino che l’arte greca conserverebbe in quanto legata alla fanciullezza storica dell’umanità.
4.2 – Letteratura e politica Il collegamento con i gruppi e le classi che compongono la società può
essere tracciato riferendosi semplicemente all’estrazione sociale dell’autore o al tipo di pubblico al quale
egli dichiara di rivolgersi. Così accade del pari per lo studio dei raggruppamenti intellettuali e dei loro
strumenti collettivi (riviste, manifesti). Anche quando ingloba in sé l’analisi dell’opera, in ogni caso la
sociologia della letteratura procede a un rilevamento oggettivo della collocazione sociale che può
muoversi in parallelo ma non sostituire il giudizio critico vero e proprio. Non si tratta di emettere
una valutazione che riguardi la<letteratura presa a sé, ma di includer la sfera letteraria nella questione più
generale del senso della storia. Occorre ragionare su una valutazione politica. Alla distinzione tra bello e
brutto propria del giudizio estetico, verrà anteposta l’alternativa tra una direzione progressista o
rivoluzionaria e l’inversa direzione reazionaria o conservatrice. Di fatto la politicità della letteratura è stata
spesso intesa come meccanica sottomissione del valore estetico al valore politico. Ciò ha comportato
una forte svalutazione del letterario. In realtà nella politica culturale dei partiti comunisti negli anni
centrali del ‘900 il valore estetico non venne annullato o superato, quanto piuttosto ridotto e
strumentalizzato. Se il giudizio che si dà di un’opera è “bella ma reazionaria” ciò equivale ad
ammettere che il giudizio politico negativo non riesce a escludere il giudizio estetico positivo. L’opera, se
pure è reazionaria, nondimeno rimane bella. Il piacere estetico confinato nella sua zona franca sopravvive
intatto, con la conseguenza di limitare gravemente la portata della critica dell’ideologia. ANTONIO
GRAMSCI (1891-1937) il suo tratto peculiare è l’articolazione della critica su 3 livelli tra loro interconnessi
ma non sovrapponibili: la politica, la cultura e la letteratura. In carcere Gramsci avviòun’ampia riflessione
teorica e storica comprendente anche i problemi degli intellettuali e della letteratura, che rimase
consegnata alle pagine dei Quaderni. La sua preoccupazione principale sembra essere quella di
evitare sia l’autonomia del giudizio letterario sia l’intromissione del giudizio politico. Gramsci ritiene
opportuno distinguere il livello in senso stretto politico da quello letterario e inserirvi in mezzo, come una
sorta di spazio mediatore, il livello della cultura. Per capire bene quale sia il ruolo della cultura nella teoria e
nel metodo gramsciani è necessario considerarla nelle sue due facce, quella rivolta verso la politica e quella
rivolta verso la letteratura. Quella rivolta alla politica egli difende il valore rivoluzionario della cultura
e quindi l’importanza della lotta in ambito culturale. La vittoria del fascismo aveva convinto Gramsci che il
processo rivoluzionario sarebbe stato lento e complesso. Solo l’intervento nella cultura, cioè l’azione volta a
conseguire l’egemonia nell’ambito del senso comune, avrebbe creato un terreno favorevole alla
battaglia politica vera e propria. Nei Quaderni del carcere Gramsci riflette su una sconfitta epocale del
movimento rivoluzionario: gli è ormai chiaro che non basta la presa di potere se non c’è il consenso e quindi
l’egemonia culturale. Egli sviluppa una forte attenzione per l’organizzazione della cultura e si preoccupa di
stabilire la connessione tra i gruppi intellettuali e i più vasti gruppi sociali. Tra politica e cultura deve
stabilirsi una dialettica e non per nulla Gramsci rintraccia nella politica culturale un ulteriore livello
intermedio. Il raccordo tra l’opera letteraria e l’epoca storica non è sufficiente. L’attribuzione socio-storica
rischia di saltare il problema artistico. A parità di condizioni possiamo avere qui un artista e là quello che
Gramsci definisce umoristicamente un semplice untorello. Questa disparità tra artista e untorello vale a
dire il diverso grado di qualità delle opere, indica che il lavoro istruttorio del giudizio non può dirsi
concluso se non perviene a toccare il livello estetico. Non può prescindere dagli altri livelli e soprattutto
dal livello culturale che gli è più vicino e gli è direttamente collegato. Gramsci non accetterebbe mai
una valutazione estetica puramente svincolata dal terreno della cultura. Il sospetto che il metodo crociano
di distinguere drasticamente tra poesia e non poesia conduca in uno sterile rifiuto della gran parte della
produzione letteraria spinge Gramsci ad attribuire alla critica la funzione di cogliere gli aspetti propositivi
anche nelle opere minori. Una critica delle tendenze deve essere l’obiettivo del discorso sulla
letteratura. Ciò che è possibile fare è lottare per la formazione di una nuova cultura per una nuova
vita morale così da creare il retroterra da cui nasceranno nuove opere d’arte. Il livello culturale svolge
un ruolo trainante nel giudizio. Gramsci interroga l’interconnessione dei valori culturali e dei valori
estetici nelle opere. Questo rapporto è espresso da Gramsci anche attraverso la tradizionale relazione tra
forma e contenuto. Riflettendo sul fatto che l’opera è un processo e che ogni cambiamento nel
contenuto deve determinare un cambiamento nella forma, Gramsci perviene a ipotizzare una priorità
relativa del contenuto e dunque in esso dei valori culturali. In reazione a Croce procedeva in Italia anche il
percorso dello storicismo critico portato avanti da LUIGI RUSSO (1892-1961), NATALINO SPEGNO (1901-
1990) e WALTER BINNI (1913-1997). 4.3 -Gramsci e i diversi livelli di giudizio critico L’articolazione della
critica su tre livelli, tra loro interconnessi ma non sovrapponibili, è il “ il tratto peculiare della impostazione
data da Antonio Gramsci (1891-1937) all’approccio “sociale” al fatto letterario. La preoccupazione
principale di Gramsci sembra quella di evitare sia l’autonomia del giudizio letterario, sia l’intromissione del
giudizio politico. Poiché il politico tende a produrre un’azione verso un determinato fine futuro, è
inevitabile che veda nel letterato qualcosa di attardato e non risolto, così, per forza di cose “il politico non
sarà mai contento dell’artista e non potrà esserlo”. Per capire quale sia il ruolo della cultura nella teoria e
nel metodo gramsciani è necessario considerarla nelle sue due facce: 1- verso la politica Gramsci difende
il valore rivoluzionario della cultura e quindi l’importanza della lotta in ambito culturale. Secondo Gramsci
c’è un’eccezione positiva dell’ideologia, che concerne quella “storicamente organica” e necessaria a una
determinata struttura economica e sociale; e un’eccezione negativa, nel caso delle “ ideologie arbitrarie”
per le quali vale l’analogia col velo di un’apparenza vana e fuorviante. Solo l’intervento nella cultura,
avrebbe creato un terreno favorevole alla battaglia politica vera e propria. 2- verso la letteratura Gramsci
sviluppa una forte attenzione per lì”organizzazione della cultura” e si preoccupa di stabilire la connessione
tra gruppi intellettuali e più vasti gruppi sociali. Il raccordo tra l’opera letteraria e l’epoca storica non è
sufficiente; l’attribuzione socio-storica rischia di saltare il “problema artistico”: a parità di condizioni
possiamo avere qui un “artista” e là quello che Gramsci definisce umoristicamente un “semplice ritornello”.
Questa disparità tra “artista” e “untorello”, valeGramsci attribuisce alla critica la funzione di cogliere gli
aspetti propositivi anche nelle opere minori; una critica delle “tendenze” dev’essere l’obiettivo del discorso
sulla letteratura. Sarebbe infatti non solo vano ma “assurdo” pretendere di far spuntare nuovi geni artistici:
ciò che è possibile fare è, lottare per la formazione di una “nuova cultura”, per “una nuova vita morale”,
così da creare il retroterra da cui nasceranno, nuove opere d’arte. Riflettendo sul fatto che l’opera è un
“processo” e che ogni cambiamento nel contenuto deve determinare un cambiamento nella forma,
Gramsci perviene a ipotizzare una priorità relativa del contenuto, e dunque in esso dei valori culturali.
Attraverso l’interpretazione del canto x dell’inferno di Dante, Gramsci affronta il problema della “struttura”
e ne afferma l’essenzialità per la comprensione del testo. Gramsci oppone che, senza la conoscenza della
pena, il dramma di Cavalcante sarebbe incomprensibile e quindi ne subirebbe danno l’intero esito della
scena dantesca. La conclusione è, che il “brano strutturale” è necessario e ineliminabile; “non è solo
struttura” ma anche “poesia”. E su di esso cada l’accento “estetico”. 4.4 – Rispecchiamento e prospettiva in
Lukàcs GYORGY LUKACS (1885-1971) la sua è un’estetica sistematica. L’idea che l’arte debba rispecchiare
fedelmente la realtà è tributaria della nozione aristotelica di mimesi. Lukacs la adatta e la aggiorna alla luce
delle tesi marxiste: non si dovranno più tradurre in immagini plastiche o verbali determinati oggetti
o situazioni della vita reale, ma cogliere attraverso l’arte le proprietà del momento storico della società
umana, dei conflitti di classe e dei rivolgimenti rivoluzionari che vi si svolgono. La totalità che l’arte è
chiamata a rappresentare non è soltanto quella dell’esistente, deve anche porre in evidenza la direzione del
futuro. È ciò che Lukacs chiama la prospettiva. Uno scrittore che raggiunge un simile rispecchiamento della
realtà può essere definito realista. Alla critica viene demandato il ruolo valutativo di giudicare la
giustezza del contenuto delle opere, ovvero l’adeguatezza del rispecchiamento rispetto alla verità storica.
Nelle intenzioni di Lukacs la teoria del rispecchiamento doveva esaltare l’apporto conoscitivo dell’arte.
Mentre il sapere scientifico e quello storico partono dal singolo fenomeno per giungere alla legge
universale, il rispecchiamento artistico si appoggia su una categoria intermedia tra singolarità e
universalità, che non è più il singolo fenomeno e non ancora l’essenza dispiegata nell’universale. È un
termine medio tra i punti di partenza e di arrivo del processo conoscitivo. In sede letteraria ala categoria
del particolare corrisponde il tipico: esso è l’accadere individuale orientato nel giusto rispecchiamento
rispetto alla totalità storico-sociale. Il giusto rispecchiamento deve dar conto della viva dialettica del reale: il
tipo viene caratterizzato dal fatto che in esso convergono tutte le contraddizioni più importanti, sociali e
morali e psicologiche di un’epoca. Una tale tipicità esige che il personaggio sia dotato di una visione
del mondo che sia costruito con una fisionomia intellettuale fortemente caratterizzata. Personaggio,
carattere, intreccio: un privilegiamento del genere narrativo. È prevalentemente con il romanzo che il suo
metodo può produrre risultati. E in particolare con il romanzo storico. Perché ci sia un autentico realismo i
richiede che i fatti raccontati non siano fine a se stessi ma che rinviino alla rappresentazione delle forze
sociali portanti dell’epoca. La letteratura realista si distingue non soltanto da quella irrealista ma anche
dalla riproduzione fotografica delle cose così come si presentano. La polemica di Lukacs contro il
naturalismo e contro le poetiche moderne che procedono per somma di dati sensoriali senza volerli
organizzare e interpretare. Egli pone in alternativa narrare e descrivere. Mentre nel narrare ogni
aspetto è focalizzato sul nucleo drammatico della vicenda con una forte partecipazione dell’autore che si
trasfonde poi in partecipazione del lettore, nel descrivere prevale il distacco dell’osservatore. Bertold
Brecht fa un’obiezione alla posizione di Lukacs sostenendo che proprio per rispondere all’esigenza di
giungere al fondo della causalità sociale bisogna provare sperimentalmente i nuovi strumenti formali: una
forma che andava bene in passato può non andar bene per oggi, non si può usare lo stesso specchio per
rispecchiare epoche diverse. Nella concezione di Lukacs il mutamento storico viene considerato come
mutamento del contenuto da rispecchiare, ma lo specchio rimane di per sé immutabile. Lo svolgimento
letterario per Lukacs prende la fisionomia di una ricorsività ciclica. Questo ciclo corrisponde secondo
l’impostazione marxista all’arco dell’evoluzione storico-sociale delle forze propulsive della borghesia
che vengono sostituite dalle forze fresche del proletariato. Lukacs risolve anche il problemaGli studi
sociali di Francoforte Un’angolatura diversa pervenne dallo studio sociale dell’arte nella Scuola di
Francoforte con MAX HORKHEIMER (1895-1973), HERBERT MARCUSE (1898-1979) e THEODOR
ADORNO (1903-1969). Anche per i francofortesi l’arte e la letteratura vanno considerate nell’ambito
della società che le produce. Mentre nella visuale del marxismo la sovrastruttura veniva guardata con
sospetto perché lontana dalla realtà, gli studiosi modificarono questa concezione alla luce della nuova
esperienza sociale. Essi ebbero modo di vedere i regimi del fascismo e del nazismo e le prime avvisaglie del
consumismo neocapitalista. I nuovi fenomeni della cultura di massa convinsero i francofortesi che
l’ideologia non era pericolosa tanto per il suo distacco dalla prassi, quanto esattamente all’opposto per il
fatto di essere ormai troppo dipendente dall’ottica utilitaria del mercato. Con l’industria culturale la
cultura viene fatta rientrare tra i divertimenti eventualmente allestiti per il tempo libero e in tal modo
viene svilita, uniformata e neutralizzata. Se i prodotti culturali vengono proposti a un pubblico
indifferenziato viene a cadere anche la distinzione tra cultura borghese e cultura proletaria. I
francofortesi colgono la caduta di prestigio dell’arte e della letteratura nelle società industriali avanzate.
Altri mezzi di comunicazione. I mass media, salgono in primo piano. MARCUSE l’arte raccoglie quella
promessa di felicità che viene sempre più disattesa da un sistema sociale alienante e repressivo. Egli
considera la società moderna come un apparato dominato dalla logica del guadagno, che non ammette
perciò la felicità se non nella forma del dopolavoro, del riposo in vista di un ulteriore sfruttamento. Ma il
piacere che la bellezza suscita è negata dal regime utilitaristico: è necessario secondo lui liberare
l’esperienza estetica dalle incombenze ideali di cui è stata caricata, e restituirla invece al momento della
felicità sensibile. Negli anni ’50 Marcuse si appoggerà alla psicoanalisi per precisare l’arte come ritorno del
represso e come serbatoio delle istanze di liberazione. Ma se il condizionamento sociale è essenziale
negativo, per assumere la giusta posizione nel suo tempo l’arte dovrà tagliare i ponti proprio con ciò che la
determina e la deprime. Le opere d’arte rappresentano quel che esse non sono. Ciò vuol dire che la loro
storicità sta nel modo con cui si pongono fuori della situazione storica a loro toccata. L’arte è dunque
rivoluzionaria per sua stessa natura. Mentre per Lukacs l’arte è rivoluzionaria perché rispecchia fedelmente
le forze della prassi che tendono alla rivoluzione, invece, nel teorico francofortese la testimonianza che
l’arte rende riposa nella forza di resistenza alla prassi, a qualunque genere di prassi. Adorno respinge il
progetto di demistificazione portato avanti dal marxismo inteso a ricondurre le creazioni spirituali ai
moventi materiali. In questo quadro proprio l’arte autonoma verrà apprezzata esattamente nel suo
essere priva di scopo. Nell’epoca moderna l’arte percorre le soluzioni estremiste dell’avanguardia e
nella dissonanza esprime il conflitto tra la vocazione alla conciliazione e la vocazione alla verità che rende
impossibile una sintesi felice. Sulla considerazione del carattere rivoluzionario dell’arte per Marcuse
questo carattere risiede nella conservazione positiva delle istanze utopiche che possono così ritornare
disponibili all’azione liberatrice. Per Adorno si tratta di capacità negativa. L’arte è pensata per principio
come estranea in quanto tale al mondo empirico. Sebbene Adorno si adoperi a mantenere il rapporto tra la
criticità dell’arte e la situazione storica. L’efficacia dell’opera sta nella partecipazione allo spirito, il quale
contribuisce al cambiamento della società in processi sotterranei e si concentra nelle opere d’arte. WALTER
BENJAMIN (1892-1940) presenta una soluzione alquanto difforme polemicamente distante da quella di
Lukacs. L’autore è egli stesso un produttore e non può quindi essere collocato all’esterno del mondo
produttivo, né il compito di rispecchiare il mondo (Lukacs) né con quello di rifiutarlo (Adorno). In fondo in
Lukacs e in Adorno pur nella diversità c’è un modello comune che consiste nel porre il nesso tra società e
arte privilegiando uno dei due termini sull’altro. Benjamin invece si sforza di considerarli su un piano
paritario. L’importante è stabilire come si situa nei rapporti di produzione. Benjamin conferisce un ruolo
fondamentale alle innovazioni tecniche. Assume un atteggiamento meno pessimistico di quello di
Adorno riguardo agli esiti del mondo moderno. La comparsa nell’epoca moderna di nuovi mezzi come la
fotografia e il cinema non solo ha aggiunto ulteriori campi di attività, ma soprattutto ha cambiato il modo di
porsi dell’arte rispetto al pubblico. La riproducibilità tecnica moderna porta le opere verso il pubblico con
molto maggiore disponibilità di quanto non accada al pezzo unico. Nelle moderne arti riproducibili
Benjaminvede invece avanzare quello che egli chiama il valore espositivo ossia la possibilità di
un’esperienza più diffusa, libera e disinibita dei prodotti artistici. Così viene superato l’atteggiamento
individuale verso l’arte e la visione comunemente accettata per cui l’ispirazione arriva solo nello stato di
raccoglimento. L’opposto è il lato collettivo della creatività, che Benjamin va a rintracciare nei modi
organizzativi degli scrittori, nel loro riunirsi in gruppi e in tendenze, come nelle avanguardie. La scelta
della giusta tendenza politica non garantisce il valore letterario. La tendenza deve essere accoppiata
alla qualità dell’opera di volta in volta verificata e dimostrata sul testo in questione. Questa ottica
impedisce la meccanica sovrapposizione della politica alla letteratura. Il contenuto esplicito su cui insisteva
la teoria lukacsiana del rispecchiamento, non pare a Benjamin l’ultimo livello del senso di un testo.
Benjamin riprende dall’antica esegesi la nozione di allegoria e ne fa il principio della costruzione
complessiva dell’opera che agisce attraverso la frammentarietà e la tensione contraddittoria delle sue
parti. Al contrario del simbolo l’allegoria teorizzata da Benjamin elabora il suo discorso trasformando
i personaggi e gli oggetti in segni di una scrittura e il tal modo li estrania dal mondo naturale.
Benjamin sostiene l’idea che l’opera d’arte serve a risvegliare le forze assopite e a renderle disponibili per
l’azione collettiva e ciò caratterizza anche l’atteggiamento del critico verso le opere del passato. La distanza
temporale è vista da Benjamin all’insegna della discontinuità, in polemica con lo storicismo che
considerava la storia uno sviluppo lineare e continuo. Il critico non deve limitarsi a ricostruire,
incasellando le opere nella sequenza del loro tempo di origine per sprigionare da esse ciò che ancora
interessa il presente. ERNST BLOCH (1885-1977) ritiene che l’attimo vissuto sfugga alla conoscenza e che
perciò qualcosa di non ancora conscio permanga sotterraneamente come spinta al rinnovamento nel
presente. Ciò è collegato da Bloch alla speranza utopica rivolta al futuro. Le aspirazioni umane alla felicità,
rifiutate e sconfitte nel passato, continuano a rivolgere il loro appello nell’ora attuale. Così, quella che era
per Marx una difficoltà appare nella teoria benjaminiana affatto naturale. Ma più che del fascino del
passato in blocco, Benjamin s’interessa di quei particolari quasi cancellati e resi muti dalla storia, da cui si
manifesta l’utopia soffocata dalle classi dominanti. Tra il passato e il presente è messa in atto una
convergenza di tensioni: da un lato il passato vale se ha la forza d’urto per mettere in crisi il
presente, dall’altro lato l’interprete situato nel presente deve essere pronto a mettere in discussione la
gerarchia dei valori consolidati nella tradizione. Il critico deve passare a contropelo la storia. Benjamin ha
dedicato a Baudelaire una larga parte del proprio lavoro nella fase cruciale degli anni ’30. egli si muove sulle
connessioni di forma e contenuto. Scende nella minuzia all’interno del testo andando a scoprire in un
singolo verso la parola su cui si concentra il significato della frase. Ma è pronto a uscire all’esterno per
collegare le figure letterarie ai fenomeni della società e dell’ambiente. La connessione del particolare
alla totalità non può essere preordinata in anticipo ma deve per Benjamin venir fuori ricavando dai testi al
maggior grado possibile tutta l’energia che essi potenzialmente contengono. 4.6 - Benjamin: l’autore come
produttore Negli anni Trenta, assume particolare rilievo la posizione sostenuta da Walter Benjamin, teorico
e saggista nato a Berlino nel 1892, morto suicida nel 1940 in circostanze drammatiche, nel tentativo di
espatriare clandestinamente per sfuggire ai nazisti. Benjamin tenne una conferenza a Parigi nel 1934:
L'autore come produttore. L'autore è egli stesso un produttore e non può quindi essere collocato
all'esterno del mondo produttivo, né con il compito di rispecchiare il mondo (Lukàcs), né con quello di
rifiutarlo (Adorno). L'importante non è stabilire qual è la posizione dì un'opera “rispetto ai rapporti di
produzione dell'epoca”, ma piuttosto chiedersi come si situa nei rapporti di produzione. Benjamin
conferisce un ruolo fondamentale alle innovazioni tecniche, . Mentre per Adorno le trasformazioni della
tecnica servono a un dominio sempre più capillare, per Benjamin esse pongono di fronte a un bivio:
possono essere sfruttate o in senso produttivo o in senso distruttivo. Ciascun momento storico si trova di
fronte alla biforcazione di una alternativa in cui diventa determinante la scelta politica. Mentre le forme
classiche si basano sull’unicità dell’opera, nella fotografia o nel cinema l’opera può riprodursi in un infinito
numero di copie tutte perfettamente equivalenti all’originale, che di per sé non esiste più. ". Nelle moderne
arti riproducibili Benjamin vede invece avanzare quello che egli chiama il «valore espositivo», ossia la
possibilità di un'esperienza più diffusa, libera e disinibita dei prodotti artistici. L'opposto è un atteggiamento
collettivo, che si estrinseca in Benjamin nell'interesse per i modi organizzativi degli scrittori, per il loro
riunirsi in gruppi e in tendenze.
23 La scelta della giusta tendenza politica non garantisce il valore letterario; la tendenza deve essere
accoppiata alla qualità dell'opera e questa somma di tendenza + qualità non può essere data per scontata
ma di volta in volta verificata e "dimostrata" sul testo in questione. La tendenziosità politica, si realizza in
un'esposizione pedagogica; il contenuto esplicito, non pare a Benjamin l'ultimo livello del senso di un testo.
Non solo egli considera nella tecnica il punto di interpenetrazione tra forma e contenuto.
Marxismo e strutturalismo JEAN-PAUL SARTRE (1905-1980) nel suo pensiero il legame con
l’esistenzialismo conduceva a una concezione rilevante la specificità dell’avvenimento storico che non si
esaurisce nella situazione ma tende a superarla. Di qui il valore della libertà, il progetto rivolto al futuro. È
un’analisi che convince quando ragiona in termini di gruppi sociali e di collettivi. GOLDMANN propone
una sociologia della letteratura. Egli vuole rintracciare il legame tra letteratura e società. Riferire i contenuti
a una visione del mondo, o alla coscienza collettiva di un determinato gruppo sociale (come farebbe
Lukacs), risulta insufficiente se non addirittura fuorviante perchè la coscienza può essere alienata e
distorta. Con un uso del termine struttura molto più vicino a quello strutturalista che non a quello marxista,
Goldmann ipotizza che esista sempre una omologia tra la struttura mentale e culturale indotta dalle
forme della vita collettiva e la struttura del testo letterario. Queste strutture sono nello stesso tempo
formali e inconsce, è compito del critico e dell’interprete riscontrarle. Tra ‘800 e ‘900 Goldmann
rintraccia il passaggio a nuove fasi dello sviluppo sociale che si riverberano sulle strutture narrative.
Goldmann definisce il suo metodo strutturalismo genetico. Esso si basa sui due movimenti congiunti della
comprensione e della spiegazione. Mentre la comprensione rimane ancora al giudizio di fatto,
spiegare l’opera negli orizzonti della storia significa darne un giudizio di valore. Goldmann ritiene
indispensabili entrambi i livelli, e in ciò risiede il suo tentativo di sintesi tra marxismo e strutturalismo. Il
primo livello, la comprensione, è quello comunemente praticato dall’indagine strutturalista, il secondo,
la spiegazione, è quello più proprio delle correnti ispirate dal marxismo. Senonchè, la proposta
goldmanniana da un lato non scende nei particolari del testo rimanendo al rilevamento di strutture molto
generali e generiche. Dall’altro
24 lato finisce per legare troppo strettamente le opere alla loro epoca facendo passare in secondo piano,
nella omologia obbligata tra società e letteratura, i caratteri discordanti e conflittuali.
L’analisi del profondo L’indirizzo critico assume una nuova impostazione dopo l’avvento della psicoanalisi. I
termini e i concetti della psicoanalisi provengono dalle innovazioni introdotte da SIGMUND FREUD
(1856-1939) nel trattamento delle malattie mentali alle soglie del ‘900. Freud affrontava i casi clinici non
attribuendone le cause a disfunzioni cerebrali, ma cercandone il motivo in accadimenti traumatici
dell’esistenza trascorsa. Il medico doveva vestire i panni dell’analista attraverso un minuzioso lavoro di
interpretazione e di scavo delle espressioni meno controllate, soprattutto i sogni e le libere
associazioni.Freud portò avanti le ipotesi che andarono a costituire l’apparato scientifico della
psicoanalisi innanzitutto con la nozione di inconscio. La psicoanalisi afferma che le ragioni del
comportamento umano risiedono in piccola parte nella coscienza, mentre sono molto più forti i
moventi inconsci. Freud descrive l’inconscio come il luogo delle pulsioni. Nell’inconscio agiscono le
forze aggressive e le energie vitali primarie.. la psicoanalisi è dunque un metodo interpretativo che non
accetta le apparenze immediate e non si stupisce di dover mettere in mora ciò che il parlante dice e
asserisce di voler dire. Alla triade coscienza-preconscio-inconscio si aggiunse una nuova terna
formata da Io (il serbatoio primario dell’energia psichica contenente le pulsioni ereditarie, innate e
quelle rimosse), Es (è la parte della psiche in contatto con l’esterno attraverso la percezione) e SuperIo (è
solo in parte cosciente ed è costituito da quei divieti che l’Io è stato costretto ad accettare e ad
introiettare). Così dall’osservazione delle devianze e delle anomalie la psicoanalisi giungeva a costruire
una teoria dei processi costitutivi della psiche. E poteva andare anche oltre applicando le proprie scoperte
alle aree delle scienze umane, ivi compresa la letteratura. La sorte della società moderna dipende per Freud
dall’esito di grandi conflitti tra le istanze profonde dell’uomo: da un lato tra principio del piacere e principio
di realtà, dall’altro tra eros e pulsioni di morte. Una certa attenzione alla letteratura è presente nella
psicoanalisi fin dalle origini. Il punto di partenza della ricerca freudiana era stato l’interpretazione dei sogni.
Di fronte al racconto del sogno l’analista si comporta come un critico letterario che cechi di ritrovare il
senso al di là della lettera del testo. 5.2 – La concezione dell’arte in Freud Freud ha scritto che per la
psicoanalisi i poeti sono alleati preziosi in quanto essi sanno in genere una quantità di cose fra cielo e
terra che il nostro sapere accademico neppure sospetta. Non c’è da stupirsi che egli utilizzi accanto ai casi
clinici anche le finzioni della letteratura o che si abbandoni a disgressioni nel campo dell’arte. Per lui l’arte
e la scrittura creativa si trovano in una posizione privilegiata quasi a metà strada tra la coscienza e
l’inconscio. Freud sottolinea che la tragedia greca su Edipo si incentra sul complesso psichico dell’attrazione
per la madre e dell’odio verso il padre,ma lo mostra secondo la cultura del tempo come conseguenza
ineluttabile della volontà esterna del destino. I sogni a cocchi aperti ci ricompensano dei desideri che la
realtà non è stata in grado di soddisfare. L’arte sarebbe un tipo speciale di fantasticheria che si distingue
per essere un atto di comunicazione, mentre la fantasticheria vera e propria è un’attività privata che
difficilmente si confessa. Allo scrittore dunque è concesso il privilegio di esporre pubblicamente
senza vergogna le proprie fantasticherie. Freud ha proceduto con grande cautela nel trasferire le
scoperte della psicologia del profondo al campo della letteratura e dell’arte. In particolare egli ritiene che
su un punto la psicoanalisi non possa dir nulla, cioè sul problema dell’origine dell’arte. Il dono
meraviglioso che contraddistingue l’artista rimane un enigma e la psicoanalisi non si intromette nella
questione della valutazione estetica. Lo spettatore condannato a un’esistenza piena di rinunce e di
frustrazioni è portato a identificarsi con l’eroe che vede sulla scena. La convinzione che il
comportamento di un personaggio di finzione possa essere analizzato alo stesso modo di quello di
una persona e l’idea che il personaggio protagonista risulti il portavoce diretto dell’autore,
assegnatario dei problemi interiori di quello. Sebbene Freud non abbia sottovalutato l’importanza dei
materiali anonimi nella sua opera, è stato prevalente l’interesse per la figura dell’autore, da raggiungere
al di là dell’opera. Freud pur incoraggiando l’uso della psicoanalisi al servizio della biografia era consapevole
delle difficoltà di un’indagine condotta in assenza del soggetto in esame e operante con documento non
sicuri, parziali e lacunosi. L’analisi di Freud ci insegna a indovinare cose segrete e nascoste in base a
elementi poco apprezzati e inavvertiti dell’osservazione.
26 5.3 – Psicoanalisi dell’autore, psicoanalisi del personaggio o psicoanalisi degli effetti I continuatori di
Freud guardarono molto di più ai materiali che non all’effetto. Sarà quindi il nesso personaggio-
autore o, semmai, il rapporto tra i motivi letterari e le strutture psichiche, a predominare nei primi
tentativi di critica letteraria ispirati alla psicoanalisi. Molti di questi tentativi furono affidati alle pagine della
rivista Imago nata nel 1912.
27 Questo aspetto verrà approfondito da CARL GUSTAV JUNG (1857-1961) egli collaborò con Freud per
poi staccarsene e fondare quella linea della ricerca che prenderà da lui il nome di junghiana. La deviazione
di Jung consiste proprio nella considerazione dell’inconscio collettivo, uno strato dell’inconscio più
profondo di quello individuale, un repertorio di immagini ancestrali presenti da sempre nell’uomo.
Queste immagini arcaiche e originarie sono denominate da Jung archetipi. Quanto ai problemi letterari,che
Jung affronta nel saggio Psicologia e poesia, la creazione artistica è considerata una delle migliori vie di
accesso alla realtà psichica soprattutto quando si tratti di creazione visionaria. Nell’ottica junghiana il
grande poeta è colui che riesce a superare la coscienza singola per far parlare gli archetipi, secondo
l’esigenza psichica della collettività. Da ciò discende un atteggiamento di disponibilità nei confronti
dell’opera: lasciamo che l’opera d’arte agisca su di noi come ha agito sul poeta. Per comprenderne il
significato, bisogna lasciarsi plasmare da lei come essa ha plasmato il poeta. Riemerge qui il modello
platonico: l’effetto non va spiegato, ma ci si deve abbandonare ad esso. La versione della psicoanalisi
offerta da Jung ha molto stimolato lo studio dell’immaginario collettivo. GASTON BACHELARD (1884-
1962) secondo lui il regno della fantasia è diviso in 4 grandi ambiti che corrispondono ai 4 elementi
primordiali: fuoco, aria, acqua, terra. Ogni scrittore è portato a propendere nella scelta dei propri temi e
delle proprie metafore più verso l’uno o verso l’altro elemento. La ricerca bachelardiana ha
affrontato le fantasie sul rapporto tra l’uomo e la dimensione spaziale. Bachelard propone di chiamare
topo-analisi tale indagine sulle forme spaziali. Bachelard appare del tutto disposto a farsi assorbire
nel potere dell’immagine. A suo modo di vedere non bisogna ricondurre le immagini al passato ma lasciarsi
prendere dal loro scaturire e cioè dalla novità che esse mostrano al momento della lettura. Si può capire,
allora, il progressivo distacco di Bachelard dalla psicoanalisi. Ma non è solo contro la psicoanalisi che va a
parare il discorso bachelardiano. Esso sembra escludere in generale qualunque atteggiamento critico
esplicativo. Al critico letterario si sostituisce la figura del lettore appassionato che può cogliere l’espansione
immaginativa del testo grazie allo slancio della simpatia e dell’ammirazione. JEAN-PIERRE RICHARD (1922-
vivente) affronta particolarmente l’universo immaginario di ciascuno scrittore di cui tratta, traendo
dall’opera gli elementi base, il modo con cui vengono rese le reazioni, le forme o i colori preferiti dalla
fantasia dell’autore. Siamo però fuori della critica psicoanalitica propriamente detta perché questi aspetti
vanno a costituire l’insieme esistenziale dell’essere di uno scrittore e non l’inconscio. Il problema
dell’immagine non era sfuggito alla critica psicoanalitica più ortodossa. Il miglior esempio di psicocritica è
di CHARLES MAURON (1899-1966) in polemica con la critica tematica sostiene che non ci si può limitare a
inventariare le immagini ricorrenti di uno scrittore, ma bisogna ricondurle ai processi inconsci
corrispondenti. Non tutte le immagini usate da un autore abbiano uguale importanza: ve ne sono alcune
che tornano con tale insistenza da poter essere definite metafore ossessive. Per scoprire quali siano è
necessaria l’analisi del testo. Le parole e le immagini vengono raggruppate secondo le sfumature affettive.
Se si sovrappongono altri testi a quello di partenza si scopre che questa rete di associazioni è costante. Le
reti da lui individuate sono un’altra cosa rispetto alla tecnica letteraria di cui chi scrive può avere coscienza:
sono in comunicazione diretta con la realtà psichica inconscia. Con ulteriori passaggi, dalla rete delle
immagini vengono estratte le figure mitiche sulla quale le varie opere ritornano ossessivamente. È
raggiunto così il mito personale ovvero il fantasma più frequente in uno scrittore. Certo non prende per
buoni i personaggi immediatamente riconoscibili, ma li ricava dall’analisi delle immagini. Tuttavia alla
fine i risultati dell’analisi sono rapportati non alle istituzioni letterarie ma alle vicende biografiche
dell’autore. 5.5 – Psicoanalisi e struttura del linguaggio Con le reti individuate da Mauron, la
psicoanalisi si avvicina alle strutture linguistiche. E non poteva mancare interscambio tra l’analisi del
profondo e quella del linguaggio. Il punto di massimo contatto tra psicoanalisi e strutturalismo viene
raggiunto in Francia dalla teoria di JACQUES LACAN (1901-1981) egli identifica l’inconscio con il
linguaggio. Ogni soggetto umano viene a costituirsi con l’accesso al linguaggio. Il linguaggio non ci
appartiene, lo troviamo già tutto costituito. Nella teoria di Lacan l’inconscio è visto come linguaggio.
Nelle manifestazioni dell’inconscio, quando ciò che diciamo o facciamo appare come qualcosa di
estraneo alla nostra coscienza, noi non lo riconosciamo per nostro. Allora viene in evidenza questa voce
impersonale, che Lacan definisce il discorso dell’Altro. Il desiderio è visto come una catena di significanti in
cerca di significato. Va notato però chel’importanza attribuita al linguaggio non rafforza la certezza
dell’analisi, anzi turba la posizione stessa dell’analista. La teoria lacaniana è radicalmente pessimista: il
soggetto nel suo accedere al linguaggio, si scinde irreparabilmente e non può mai raggiungere un senso
integro e definitivo. L’essere umano è sospinto dal vuoto, dalla mancanza a essere. All’immaginario e al
simbolico è associato un terzo termine: il reale. Ma il reale non è la realtà, è qualcosa di irraggiungibile che
può solo fare irruzione come perdita di senso. Le ipotesi lacaniane possono essere applicate alle
situazioni letterarie. In più hanno suscitato interpretazioni riguardo ai giochi verbali sulle lettere o alle
particolari dislocazioni dei significanti nel testo. Ma non solo: l’idea del significante dominante o del grande
Altro ha condotto anche verso la psicoanalisi della politica e la reinterpretazione delle formazioni
ideologiche dell’immaginario collettivo. È soprattutto negli anni ’70 che si è svolto il tentativo di
applicare la psicoanalisi ai livelli linguistici dell’opera letteraria. Un ruolo importante è stato tenuto dal
Gruppo attorno alla rivista TEL QUEL, ruolo connesso anche alle realizzazioni testuali della scrittura. JULIA
KRISTEVA (1941-vivente) nelle sue proposte risulta chiaro il punto di distacco dallo strutturalismo.
L’individuazione del codice non è più sufficiente ma bisogna riuscire a vedere l’intero processo di
costituzione di ciò che ella chiama la significanza. Qui la psicoanalisi è d’aiuto. Si tratta infatti di guardare al
di sotto delle strutture per percepire gli spostamenti di energie pulsionali che attraversano la pratica del
linguaggio e possono arrivare a deformare e a sconvolgere la superficie dell’espressione rompendo la
catena significante e la struttura della significazione. La Kristeva distingue in un primo tempo tra feno-testo
(indica la superficie del livello codificato del linguaggio comunicativo) e geno-testo (indica la profondità
delle fasi dinamiche della produzione del testo). Adotterà in un secondo momento un’analoga
opposizione tra simbolico e semiotico dove il primo termine ricopre l’area del linguaggio organizzato e il
secondo gli aspetti in cui emerge la violenza delle cariche pulsionali. Gli aspetti linguistici che
rendono leggibile l’istanza delle pulsioni è il dispositivo fonematica e melodico del linguaggio poetico. Va
precisato che la Kristeva allude a fenomeni fonici e ritmici diversi da quelli della retorica e della metrica
classica. Ella mette in relazione il livello fonico-pulsionale con quello semantico-cosciente. In questi esiti
degli anni ’70 le scoperte della psicoanalisi sono utilizzate in senso rivoluzionario nella
contrapposizione diretta tra le pulsioni e la repressione sociale. Altrettanto il linguaggio poetico
viene anteposto al linguaggio comunicativo. Nella situazione culturale francese elementi di psicoanalisi
entreranno a far parte anche del bagaglio teorico del poststrutturalismo. JEAN-FRANCOIS LYOTARD (1924-
1998) e GILLES DELEUZE (1925-1995) reinterpretano l’inconscio in termini di zone di tensioni, di campi
di forze, insomma nel quadro di una meccanica delle pulsioni e degli investimenti affettivi connessa
alle grandi macchine sociali (le istituzioni, il potere,…). Lyotard di recente ha contribuito alla
diffusione della nozione di postmoderno. Deleuze ha trovato nei meccanismi testuali il riscontro
dell’inconscio concepito come macchina desiderate. Anch’egli con il rischio di un’estetizzazione del
marginale. 5.6 – Il ritorno del represso in letteratura FRANCESCO ORLANDO (1934-vivente) con la
teoria freudiana della letteratura scarta gli scritti freudiani più famosi. Il miglior ausilio per il critico è
trovato nella ricerca sul motto di spirito: la parola arguta, la barzelletta sono viste come esempio di
comunicazione letteraria. Mentre il sogno o il lapsus sono manifestazioni dell’inconscio che sfuggono alla
nostra volontà, nella battuta spiritosa l’inconscio si manifesta in una comunicazione linguistica
intenzionalmente rivolta a qualcuno, analogamente a quanto accade per le più reputate produzioni
letterarie. Orlando sottolinea che Freud da un lato vede nel ricorso al motto di spirito un modo per
aggirare la censura ma dall’altro ritiene che la tecnica della battuta sia inscindibile dai contenuti e
comporti essa stessa un profitto di piacere. Queste indicazioni freudiane possono essere estese a tutto il
campo della letteratura. Mentre Freud parla di ritorno del rimosso, le pulsioni censurate, Orlando
preferisce parlare di ritorno del represso, allargando a comprendere le censure imposte da forze sociali e
storiche. Questo attacco alla repressione può avvenire in forme non solo inconsce ma anche di consapevole
e progettata rivendicazione. Orlando istituisce tutta una gradazione del ritorno del represso i letteratura. Si
va dall’assenza di consapevolezza, in cui il ritorno del represso è inconscio e quindi oscuro all’autore stesso;
al ritorno del represso conscio ma non accettato, quando l’autore lotta all’interno del proprio testo
contro i contenuti che vi emergono; al ritorno del represso accettato ma non propugnato, che
a lettura come esperienza La critica, in quanto offre le coordinate per avvicinarsi a un testo e capirlo, ha
sempre di mira la lettura. La lettura sta sempre a valle (come finalità della critica) ma anche a monte: il
critico non è altro che un lettore come tutti gli altri, ma in più propone la sua interpretazione ed esperienza.
E’un rapporto “a due” nel quale il testo non ha la possibilità di controbattere, per cui il critico-lettore ha
tutta la responsabilità di quanto accade. Il critico è al servizio dell’autore, ma più che altro è un servo-
padrone. I nodi legati alla lettura di un testo sono tuttora dibattiti aperti e lo scetticismo accompagna ogni
critica che è dichiaratamente soggettiva. Ma come difendere i diritti di un testo dalla libertà del suo
interprete? In cosa il critico si differenzia da un lettore comune? Cosa lo autorizza a rendere pubblica la sua
esperienza? Dal punto di vista storico, come si ricostruisce il mutare dell’orizzonte nella ricezione del
testo? All’interno del testo poi, com’è l’atteggiamento del lettore? Si impadronisce del testo per
intenderlo a suo piacere o si lascia condizionare e quindi percorre il sentiero previsto che è implicito nel
testo? Intorno a questi nodi si è svolto dunque il dibattito sulla critica nella seconda metà del Novecento.
Gli sviluppi novecenteschi hanno tratto il loro fondamento teorico soprattutto nelle “filosofie della vita”: la
fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938) e l’esistenzialismo di Martin Heidegger (1889-1938). Da
Husserl e dal suo metodo di apertura ai fenomeni e al mondo della vita, la critica di indirizzo
fenomenologico ha ripreso l’atteggiamento di continua interrogazione tra il ricercatore e “la cosa”. Da
Heidegger e dalla sua concezione dell’esistenza come “comprensione” dell’essere-nel-mondo è sorto il
ritorno all’ermeneutica (è l’arte di intendere e interpretare i testi e i documenti antichi). L’attenzione sul
momento della lettura si è diffusa in varie forme. Secondo il saggista belga GEORGES POULET (1902-
1991) la lettura deve essere l’incontro di due coscienze: se l’essenza dell’opera è la coscienza
soggettiva che si manifesta in essa, allora la “coscienza critica” deve prestarsi a ospitare questa
coscienza altrui. La lettura consiste per Poulet nel cedere il posto a un altro essere, per poterlo
comprendere intuitivamente. Diversa angolatura per l’italiano LUCIANO ANCESCHI (1911-1996) la sua
critica e la sua ricerca, di ispirazione fenomenologia, puntano a riconoscere le particolarità dei fenomeni,
ma anche a individuare le linee portanti di una data situazione (le “direzioni vettoriali” o le “istituzioni”).
6.2 – Il caso Blanchot Nel clima letterario prodotto dall’esistenzialismo un posto a parte merita il
critico francese MAURICE BLANCHOT (1907-2003) considera la letteratura “assurda” e
“paradossale”. Lo “spazio letterario”, appunto per essere tale, dovrebbe portare chi gli si avvicina
all’esperienza limite della perdita di se stesso. Flaubert, Mallarmè, Kafka, Rilke, Proust vengono letti in
questa chiave come coloro che aprono l’accesso a un’ “alterità negativa” (uso di termini quali “morte”,
“notte”, “abisso”, “oscuro”). Partendo dalla constatazione che per scrivere bisogna essere soli,
Blanchot sviluppa all’estremo il rapporto della parola letteraria con la solitudine e col silenzio. Ma la
solitudine e il silenzio sono in contrasto, appunto, con la parola. Perciò, si interroga Blanchot, “come è
possibile la letteratura?”. La letteratura poggia dunque su una paradossale ambiguità che va intesa come
compresenza di significato e assenza di significato. L’opera rappresenta dunque un conflitto interno fra
il vuoto dell’angoscia e il tentativo di comunicare. Ma, mentre l’autore, spinto dal vuoto, non può che
continuare a scrivere, l’opera, una volta compiuta si distacca dal suo autore per finire nelle mani del
lettore, che libera definitivamente l’opera dal suo autore. L’ingresso nello “spazio letterario” comporta
per il lettore il rischio della perdita delle proprie certezze, l’opera è dunque il luogo della perdita delle
sicurezze del suo lettore. Il lettore è chiamato a “partecipare” all’opera ma l’opera, in quanto
manifestazione del vuoto, lo tiene a distanza. La lettura si gioca quindi tra fascinazione ed estraneità. Il
giusto modo di leggere deve accettare questo gioco: sarà più vicino all’opera colui che “mantiene integra”
la distanza e “la riconosce opera senza di lui”. Questo è, per Blanchot, il metodo della “discrezione”. L’opera
è quindi, secondo lui, inattaccabile dalle interpretazioni: la critica è un tramite non solo inutile, ma
anche dannoso quando si frappone fra l’opera e il lettore dettandogli le norme dell’approccio al testo. Il
giudizio del critico sarebbe anche colpevole di coprire il vuoto costitutivo della letteratura, di
spostarne lo spazio paragonando l’opera a qualcosa d’altro, fosse la morale o le regole di estetica,
violando quell’”ambiguità essenziale”. Per assurdo l’opera “più è apprezzata, più è in pericolo”. Se invece
messa da parte e dimenticata l’opera può preservarsi intatta da strumentalizzazioni. Ma è naturalmente un
paradosso perché Blanchot è un critico e lavora per promuovere i suoi autori prediletti, quindi non può non
ammettere che esiste un compito positivo della critica, a patto che questa lasci alla profondità dell’opera la
possibilità di manifestarsi. 6.3 – Il dibattito sull’ermeneutica Ripresa nell’Ottocento, è soprattutto nel
Novecento che l’ermeneutica (l’arte di intendere e interpretare testi e documenti antichi), con la filosofia
esistenzialista di HEIDEGGER, assurge a modello generale. Heidegger vede un aspetto ermeneutico
(interpretativo) nella situazione dell’uomo “gettato” nel mondo: l’agire in una determinata situazione
necessita prima di una “comprensione” della situazione stessa; questa comprensione globale viene prima di
ogni analisi dei particolari. Il “circolo ermeneutico” (da una visione del tutto si procede verso
l’individuazione dei particolari per poi tornare al tutto) è caratteristico di ogni esperienza umana. Su
questa linea tracciata da Heidegger si è mosso un altro pensatore tedesco, HANS GADAMER (1990-
2002). Per Gadamer, la comprensione di qualsiasi messaggio parte da un “pregiudizio”: noi ci accostiamo a
un testo avendo già idea di quello che troveremo. Per Gadamer il pregiudizio non nasce da un’esperienza
soggettiva ma dipende da un sostrato culturale comune a tutti. L’interprete (un esperto) ha il
compito di mediare il rapporto tra l’opera del passato e i lettori di oggi. Il lavoro dell’esperto illustra ciò
che il testo voleva dire tanto quanto un attore o un musicista “attualizzano” un testo teatrale o uno
spartito. Per Gadamer il dovere del critico è dunque quello di consentire alla parola di superare il divario
storico e di parlare ancora. Ma la ricostruzione storica (il senso “originario” rispetto ai lettori del suo
tempo) è semplicemente impossibile; il critico deve però permettere un adattamento all’orizzonte
attuale e contemporaneo, una “fusione d’orizzonti” che vede l’interpretazione come un “dialogo” fra
passato e presente. In “Verità e metodo” (1960), la sua opera più importante, se l’interpretazione deve
assomigliare all’apertura di un dialogo con il testo, le regole prefissate di un qualsiasi metodo applicato
sarebbero disturbanti. L’interpretazione deve assolvere il suo compito di interpretazione nel modo
meno appariscente possibile: “paradossalmente un’interpretazione è giusta proprio quando è capace di
scomparire”. Per Gadamer il giudizio estetico (l’opera è bella o brutta) è secondario, infatti la coscienza
estetica viene chiamata a intervenire solo in un secondo momento. Il grande successo delle sue tesi,
soprattutto negli anni ottanta, si spiega proprio come reazione all’egemonia delle tesi degli anni
sessanta/settanta (marxismo e strutturalismo). Dunque l’ermeneutica, con la sua intima unità di
comprendere e interpretare, riduce il peso della critica e ne limita di molto gli strumenti. Ma non è mancato
anche un animato dibattito che si è snodato su 3 punti: 1) Un primo problema è quello dell’attualizzazione
del testo. Se l’ermeneutica è “l’arte di far parlare di nuovo qualche cosa”, essa adatta e traduce il senso alla
situazione attuale dell’interprete. Noi uomini del presente cerchiamo di entrare in dialogo con ciò che è
stato scritto nel passato intendendolo non nel suo senso originario ma, mediato dalla tradizione, come se si
stesse rivolgendo a noi in questo momento. Questo sradicamento delle intenzioni dell’autore ha
suscitato le obiezioni di ERIC HIRSCH (1928-vivente). Contro la continua variabilità dell’interpretazione,
Hirsch pone l’esigenza di riconoscere ogni volta, quale interpretazione sia più valida; l’unico criterio è,
a suo parere, ilSul nodo problematico del rapporto tra comprensione e spiegazione è intervenuto anche il
francese PAUL RICOEUR (1913-vivente) ha tentato di accostare ermeneutica e strutturalismo. Sostiene
che la spiegazione del testo non può essere considerato un momento secondario e una semplice
esposizione di quanto si è compreso. Il punto di partenza di questo recupero delle procedure
esplicative sta nella concezione del simbolo. Il simbolo, in quanto contiene molti sensi nascosti, fa appello
all’interpretazione, ma il dischiudersi dell’inesauribile ricchezza di senso propria del simbolo dovrà passare,
secondo Ricoeur, attraverso l’identificazione delle forme codificate rispetto alle quali il simbolo stesso
esorbita. In questa prospettiva, l’analisi strutturalista non è più una concorrente dell’ermeneutica, ma
dovrebbe diventare un’utile tappa nel cammino verso il senso. Tuttavia è l’ermeneutica a prevalere:
per Ricoeur come per Gadamer, il linguaggio non è un “oggetto” ma una “mediazione”, il che vuol dire che
coglieremo il senso solo dalla visuale “chiusa” dei codici, a quella “aperta” del concreto atto di linguaggio.
3) JURGEN HABERMAS (1929-vivente, Scuola di Francoforte) intrecciando un confronto con le posizioni
ermeneutiche di Gadamer, dissente da esse sull’accettabilità della tradizione: i valori della tradizione non
devono essere presi per buoni solo perché hanno avuto la forza di giungere fino a noi. Habermas non dà
per scontata la validità dell’autorità sancita dalla tradizione. Il contenzioso riguarda anche la questione del
“pregiudizio” che, secondo l’ermeneutica, non può essere eliminato (Gadamer propende per i pregiudizi
che ci uniscono perché “del senso comune”). Per Habermas i pregiudizi legittimati dalla tradizione
disconoscono la forza della riflessione. Per Habermas la lettura deve essere quindi riflessiva. Il dibattito
non è chiuso: Gadamer ha risposto alle obiezioni di Habermas affermando che il riconoscimento
dell’autorità non è necessariamente qualcosa di costrittivo e opprimente. Questa discussione, tuttora
aperta, è una delle più interessanti e ha fatto nascere decisive questioni di fondo: accettare la tradizione
in blocco anche nelle gerarchie, o tradizioni non conformiste e alternative penalizzate dalla storia dei
“vincitori”? 6.4 – Dal poststrutturalismo alla decostruzione Le nuove strategie di lettura si sono sviluppate
in seguito alla crisi dello strutturalismo: la pretesa scientifica di considerare il testo come un oggetto da
analizzare ha sviluppato, per reazione, la sfiducia nella possibilità di segnare con certezza i suoi limiti. Il
poststrutturalismo vede nell’idea di un testo “chiuso” e nell’attribuzione di un senso un
atteggiamento riprovevole: la prevaricazione della ragione tende a escludere tutto ciò che cade
fuori dai codici razionalizzabili. Il discorso qui eccede dalla critica letteraria. I due massimi esponenti del
poststrutturalismo sono infatti un epistemologo, MICHEL FOUCAULT (1926-1984) e un filosofo,
JACQUES DERRIDA (1930-2004). Tuttavia per la formulazione delle loro teorie ricorrono alla letteratura
intesa come linguaggio non strettamente razionale. Gli “eventi discorsivi”, secondo Foucault, non vanno
ricondotti alle astratte regole da cui discendono in quanto esecuzione di un codice immutabile; agli
enunciati va restituita la loro singolarità. Gli enunciati devono essere utilizzati come documenti, reperti
archeologici, da cui individuare le pratiche sociali e culturali di una storia. Dal canto suo Derrida ritiene
che lo strutturalismo abbia guardato soltanto la “forma” e non la “forza” presente sotto le strutture.
Se la profondità è irraggiungibile bisogna attenersi alle sconnessioni, alle crepe, alle incongruenze. Il punto
d’appoggio è l’equivocità del linguaggio: tutto può essere interpretato in modi diverso e persino al
contrario. Il senso di un testo non potrà mai essere definito quindi una volta per tutte. Il testo è “aperto”,
anche altri testi possono innestarsi in esso. Il testo viene “decostruito”, ossia viene smembrato, per
mostrarne l’intima disfunzione, mettendo alcune parti contro altre e sviluppando le conseguenze di questa
“doppiezza”. La brillante intelligenza di Derrida sfocia spesso nel gioco di parole. Particolare attenzione
è stata dedicata ai percorsi di “mislettura”, cioè iIl relativismo delle interpretazioni Anche il critico più
convinto della qualità delle proprie ipotesi sa bene che in futuro nuove prospettive metteranno in
luce aspetti del testo che oggi non si è in grado di percepire. Un criterio di validità assoluto e permanente
non esiste. Nel dibattito in corso negli Stati Uniti, la teoria per cui ogni lettura è una “mislettura” sembra
annullare la differenza fra i fraintendimenti (che comunque si appoggiano al testo) e le invenzioni di pura
fantasia. Se alcuni critici pongono quindi come fondamento che l’interprete è obbligato a non falsificare,
altri assumono posizioni opposte. STANLEY FISH (1938-vivente) ritiene che tutto sia “relativo” al
punto di vista dell’osservatore. E’ il lettore che, sulla base dei propri modelli acquisiti, scorge in una serie
di segni il testo letterario. Fish nel suo relativismo preferisce sostituire al verbo “leggere” il verbo “scrivere”:
è il lettore che scrive il testo. “C’è un testo in questa classe?” è il titolo del suo libro più noto e “no”,
risponde Fish, “un solo testo non esiste perché ogni lettore mette in atto modelli interpretativi
differenti”. Non si possono quindi redimere controversie sulle interpretazioni in quanto anche le
caratteristiche “oggettive” in realtà sono già effetti della particolare angolatura adottata. La posizione di
Fish può essere assegnata al pragmatismo: il significato (o la verità) di un testo esiste solo all’interno della
situazione che si viene a creare nella lettura. A differenza del decostruzionismo, che vede nella lettura un
messaggio costitutivamente ambiguo, Fish sostiene che il significato è sempre unico, ma è esattamente
quel significato che il metodo da noi scelto ci consente di ottenere. Secondo Fish è impossibile redimere le
controversie delle interpretazioni anche ricorrendo alla “lettera” del testo: non esiste un significato
“letterale”. Ma allora il numero di interpretazioni è infinito? No, risponde Fish poiché nessuno inventa il
proprio metodo interpretativo. Ognuno sceglie e si orienta fra i metodi già inventati da altri,
aderendo a una “comunità interpretativa”. Niente però ci garantisce che le interpretazioni che
apparirebbero oggi assurde possano domani risultare plausibili: basta che riescano a persuadere e ad
avere successo per creare una nuova “comunità interpretativa”. 6.6 – La teoria della ricezione e il lettore
nel testo La scelta metodologica nota come “Teoria della ricezione”, sorta in Germania presso l’università di
Costanza (da cui il nome Scuola di Costanza), mette a fuoco il momento della lettura non per
“relativizzare” l’interpretazione, ma per vederne la base nell’attività dei soggetti che leggono. La Scuola di
Costanza trova i suoi principali esponenti in HANS JAUSS (1921-1997) e WOLFANG ISER (1926-vivente).
JAUSS rintracciava la crisi della storia letteraria nella mancata considerazione della prospettiva dei lettori
e notava come gi stessi metodi della critica marxista e formalista tardassero a rendersi conto
dell’importanza della “ricezione” e dell’ “efficacia” dell’opera. Guardando unicamente alla ricezione ci
si limiterebbe alla registrazione della fortuna di un opera o di un autore, secondo i gusti del pubblico.
L’efficacia invece vuole evidenziare l’impatto dell’opera sul pubblico anche a dispetto dei gusti vigenti. Per
calcolare l’efficacia Jauss inserisce la nozione di “orizzonte d’attesa”. Il rapporto fra opera è lettore è infatti
condizionato da ciò che il lettore si aspetta, sulla base delle opere del passato e dei generi letterari.
E’ dunque possibile che tra “ricezione” ed “efficacia” ci sia disparità o, che proprio il valore
innovativo di un’opera condizioni negativamente la sua accoglienza. Contraddicendo la concezione di
Gadamer per cui classica è quell’opera che da sempre è in grado di rendersi comprensibile al lettore,
Jauss fa notare che spesso quelli che oggi appaiono come classici indiscutibili hanno avuto difficoltà ad
affermarsi, a causa della delusione delle attese dei contemporanei. Jauss finisce per modificare nel
tempo le proprie concezioni, lasciando più spazio all’estetica, cioè alla “godibilità” dell’opera. In
polemica con Adorno, l’ “esperienza estetica” viene rilanciata in quanto liberazione
Anche l’italiano Umberto Eco (1932-vivente) ha analizzato la “cooperazione” del lettore. Secondo Eco il
lettore è nel testo, nel senso che il testo prevede già in partenza il suo ruolo e il suo apporto partecipativo.
Elaborata in contemporanea con quella di Iser, la teoria di Eco sembra lasciare minori spazi alla fantasia del
lettore: mentre Iser parla di “lettore implicito”, Eco crea il ruolo del “lettore modello”, quel lettore previsto
dal testo per la realizzazione dei suoi effetti. Delle competenze del “lettore modello” si suppone faccia parte
anche un bagaglio di “sceneggiature”, ossia quelle sequenze canoniche che possiamo prevedere come
sviluppi probabili di determinate situazioni (Es: se in una comica compare una torta per noi è presumibile
che verrà tirata in faccia a uno dei personaggi). Secondo Eco, l’interpretazione di un testo consiste
proprio nel mettersi nei panni del “lettore modello”, nell’accettare di giocare il gioco predisposto dal
testo. CAP.7 7.1 – Bachtin e la letteratura pluridiscorsiva Tra i critici al confine delle grandi correnti del
Novecento, una delle figure principali è MICHAIL BACHTIN (1895-1795) la sua posizione non allineata
né al formalismo, né alla critica marxista dominante nella cultura sovietica gli costò una dura
emarginazione. Il punto di partenza di Bachtin è la concezione del linguaggio come “dialogo”.
Qualsiasi parola, secondo Bachtin, è dialogica: più che esprimere l’interiorità del parlante, è diretta a
raggiungere l’interlocutore e viene quindi impostata per questo scopo. Perciò l’analisi di un testo basata
solo su elementi linguistici è considerata da Bachtin come un esame parziale. Bisogna capire rispetto a quali
discorsi (letterari e non) il testo intende intervenire ed assumere posizione. Bachtin preferisce parlare di
“senso” piuttosto che di “significato”. Qui sta la sua distanza dal formalismo, che ritaglia procedimenti
verbali staccati dal senso complessivo e non riflette fino in fondo il loro coordinamento interno all’opera,
né la relazione con le lingue “sociali”. Il linguaggio invece deve essere collegato con la società e con la
storia (sotto questo aspetto Bachtin si avvicina molto al materialismo storico). Ancora contro il formalismo,
la sua opinione è che nessun testo sia mai autonomo e autosufficiente: non solo ogni parola è già stata
detta da altri, ma ogni “enunciazione” interviene in discorsi che pre-esistono. Da ciò si deduce che il testo
deve essere considerato come l’anello di un a catena e dunque va collocato nell’avvicendarsi della
tradizione, variegata e composita. La tradizione non è costituita soltanto da testi: Bachtin sottolinea
l’importanza dei “generi”, cioè delle “forme tipiche” che si vengono accumulando nel tempo. Nella sua
ottica i “generi” costituiscono una ricca molteplicità di vie possibili . Non parla solo di “generi letterari”, ma
di “generi di discorso”: i generi della “grande letteratura” coesistono con la lingua “colloquiale”,
“burocratica”, “oratoria”, “giornalistica”, ecc. I confini tra i generi devono consentire scambi e interferenze.
Non sono codici fissi ma principi organizzativi elastici e plasmabili. Nei “generi” circolano anche altre
caratterizzazioni che determinano l’appartenenza dei parlanti dei parlanti ai ceti professionali e sociali.
Nella prospettiva di Bachtin la “pluridiscorsività della lingua” è un valore: il testo può chiudersi nel
“monolinguismo” di u unico stile o aprirsi al “plurilinguismo”, alla concretezza della “parola viva”. Questa
seconda ipotesi è appannaggio del romanzo, per lui l’unico genere ancora “giovane e in divenire”. Poiché il
romanzo contiene in sé tutte le “voci” (del narratore e di tutti i personaggi diversi), contiene anche
tutti i “generi” di discorso orale (conversazione, oratoria,…) o di scrittura (documenti, lettere, memorie,…).
L’approccio “mitico” di Frye Lo studio del canadese FRYE (1912-1991) è volto ad attenuare le divisioni
metodologiche: il critico non deve restare confinato in un unico metodo. Frye si rivolge all’indietro, alle
radici del fenomeno letterario; non si interroga sugli effetti (sulla riuscita) ma piuttosto sulle cause. Frye
ricerca la “causa formale”, ossia quelle forme elementari che le opere, di epoca in epoca, continuano a
utilizzare e a riadattare. Frye denomina queste forme elementari “archetipi”, derivato dalla psicanalisi di
Jung. Questo tipo di critica assume il nome di “critica archetipica”. L’archetipo per Frye è un’immagine
tipica o ricorrente che si può riscontrare in diverse opere e che può servire a collegarle fra di loro. Gli
archetipi si collegano non solo alle immagini ma anche alle azioni che si ripetono sempre uguali. Il mito per
Frye disegna l’archetipo a livello dell’organizzazione del testo. Anche la produzione moderna è legata al
mito (Moby Dick di Melville), una storia moderna di caccia alla balena che può essere fatta confluire nella
nostra esperienza immaginativa di mostri e draghi. Solo il contenuto delle opere muta, ma la forma (il
modello mitico) rimane identica. La convergenza di Frye con la tendenza metodologica del formalismo e
dello strutturalismo non si ritrova solo nella concezione della solidità delle forme ma anche
nell’atteggiamento da assumere davanti al testo: anche Frye rifiuta i attenersi alle immediate reazioni del
gusto e crede, invece, nella “presa di distanza”. Come per un quadro, anche nella poesia è necessario fare
un passo indietro per vedere le forme archetipiche che dischiude. Per dare ordine alla molteplicità delle
forme Frye ricorre alle “radici rituali” della letteratura. Come religione e folklore sono caratterizzati da dalle
scadenze cicliche delle stagioni, così Frye suddivide i miti in una quadripartizione che corrisponde al ciclo
stagionale. Nell’ambito letterario: la rinascita primaverile della natura è la commedia; al rigoglio e alla
maturazione dell’estate corrisponde il romance (il romanzo d’avventura); l’autunno coincide con la
tragedia; il rigore dell’inverno trova il corrispettivo nelle “forme negative” della satira e dell’ironia,
dove il riso demolisce e segna la definitiva scomparsa dell’eroico. Qui si delineano le differenze fra della
teoria dei generi di Frye e quella di Bachtin. Mentre Bachtin sottolinea la storicità delle forme e la
rivalità delle linee fino al rovesciamento della superiorità gerarchica di un genere sull’altro, Frye
adotta un modello ciclico in cui la vita dei generi è sostanzialmente extrastorica. Per ciascun genere
è prevista un’evoluzione interna, ma secondo un arco “naturale” di crescita destinata alla crisi e al
tramonto. Il modello della teorizzazione di Frye rimane la Poetica di Aristotele, sia pur attualizzata
mediante la psicanalisi junghiana. Frye afferma che “l’attenzione della lettura si muove
contemporaneamente in due direzioni”: l’una “centrifuga” che va verso le cose esterne, l’altra
“centripeta” da cui cerchiamo di sviluppare alle parole il senso. Dalla prima direzione emergono le
descrizioni e le informazioni, dalle seconda direzione le parole assumono significato per i rapporti che
intrattengono nel contesto. In merito al problema dell’interpretazione, Frye ritiene che debba seguire un
cammino progressivo, passando dal significato “letterale”, all’imagery (il complesso delle immagini di un
testo) e da questa all’ “archetipo” presente nella tradizione letteraria per giungere interrogarsi sul “centro
ordinatore” degli elementi archetipici. Secondo Frye, la grande letteratura è quella che ripropone di
riassumere in sé le diverse facce del mito. Per Frye sono quindi scritture “totalizzanti” la Divina Commedia
di Dante o il Paradiso perduto di Milton o la Bibbia, il “mito centrale della cultura occidentale”. 7.3 – La
“relazione critica” in Starobinski Come per Frye, anche STAROBINSKI (1920-vivente) incentra il discorso
su una unità immaginativa (“tema” o “simbolo”) che permette di costeggiare linguistica e psicanalisi.
Secondo Starobinski “non basta inventare” i temi che rientrano nell’immaginario di un autore, bisogna
interrogarsi su quale “tema” abbia più rilevanza. Questa ricerca del tema più insistente accomuna
Starobinski alla critica psicanalitica. La difesa del canone e del valore dei classici Il critico è un superlettore
un uberleser, sostanzialmente diverso da un qualunque lettore per il piccolo particolare di essere
provvisto di una sensibilità senza pari che gli consente di entrare nell’autore, di rivivere la sua esistenza e
per tal via far partecipare gli altri al mistero glorioso della creazione. Anche grazie a una speciale capacità
espositiva: non c’è Grande Critico che non sia anche Grande Scrittore. Poiché uno dei problemi del
mondo dominato dal consumo è il suo eterno presente e quindi la perdita della memoria storica, lo studio
della letteratura tende al recupero del passato. Paradossalmente, mentre i laudatori dell’attualità, nel
cosiddetto postmodernismo, dichiarano l’impossibilità del nuovo e la fine della storia, l’idea del progresso
sembra inevitabilmente costretta ad atteggiamenti conservatrici, di difesa e tutela, addirittura di pietas.
Ora, il salvataggio dei classici consiste nel dare loro ancora la parola. Si apre qui la direzione di una critica
come dialogo che vuole recepire quanto il testo ha ancora da dirci. Il discorso critico deve rispettare il testo,
il testo che il tempo ha impregnato di significato, è circondato da un’aura sacrale. Tanto che non lo si
chiamerà più testo ma opera. Parlare di opera vuol dire connotarla da subito con un valore d’alto livello.
GEORGE STEINER ( 1929-vivente) insiste a configurare il rapporto con il testo nei modi della
confidenza e dell’accoglienza, come se si trattasse di un interlocutore che viene da lontano cui rispondere
con cortesia e tatto. L’umanesimo di Steiner è tinto di istanze religiose. La scrittura è vista come un atto di
creazione che fa sorgere dal nulla un mondo. E in questo rivaleggia con il divino. Il critico deve ritenersi
sempre inferiore nei confronti della creatività artistica e scontare un ruolo gregario come di chi vive
attraverso esperienze altrui, di seconda mano. Eppure il suo intervento è necessario e finisce per ottenere
un posto modesto ma vitale. Di fato secondo Steiner l’opera è di grado superiore alle sue interpretazioni.
Però nel momento in cui il grande patrimonio letterario rischia di sprofondare nel silenzio il compito del
critico sebbene di rango inferiore diventa molto importante. Nel periodo recente la rivendicazione della
rilevanza della letteratura si è andata appuntando soprattutto sulla questione del canone. Canone è una
parola che proviene dalla terminologia religiosa. Cos’è un canone letterario? È l’insieme dei libri che sono
reputati fondamentali. Stabilire il canone è una scelta difficile a volte dolorosa. Un individuo solo è poco
per fare un canone. HAROLD BLOOM ha suscitato scalpore quando ha preteso di fissare
nientemeno che il Canone occidentale, riunendo nel suo volume del 1994 gli autori imprescindibili della
nostra tradizione. Gesto di presunzione, gesto drastico e senza mezze misure, che restringe l’olimpo dei
classici a 26 unità, attorno ai giganti Shakespeare e Dante. Perciò in Bloom, sebbene la letteratura si
disponga per grandi ere, la storia non è quella collettiva bensì consiste essenzialmente nel legame
autonomo che i capolavori intrecciano tra loro, collegandosi da cima a cima. Questa prospettiva è in aperta
polemica contro la diffusione nelle università americane dei seguaci delle poetiche politiche
(femminismo, postcolonialismo o neomarxismo), da lui denominate la scuola critica del risentimento. Li
definisce dei lemmings accademici che stanno conducendo allegramente alla distruzione del piacere della
lettura e al livellamento delle discipline letterarie. Attribuire al critico responsabilità politiche è come
pretenderle da un giocatore di baseball. ritiche femministe La polemica del femminismo non risparmia il
campo letterario: indiziato è proprio il canone, l’elenco degli autori più validi, che è costruito sul
pregiudizio. Il primo compito della critica femminista sarà allora quello di reclamare pari dignità per le
scrittrici. Per quanto non sino mancati gli attacchi al fallocentrismo e le immagini combattive verso
l’idolo, negli studi di genere è prevalsa nettamente la volta alla riscoperta e alla riproposta delle scrittrici
ingiustamente sottovalutate dalla critica ufficiale. Si determina una sorta di circuito chiuso nel privilegiare il
discorso di una donna su un’altra donna, rivolto alle donne. Secondo il femminismo più oltranzista il
maschio femminista è quello più sospetto. La richiesta d inserimento nel canone delle scrittrici, si
fonda sull’argomento che esse ne sono state tenute fuori in quanto donne; l’argomento perciò è più forte
quanto più si dimostra che non c’erano altri motivi di esclusione e che i loro testi erano altrettanto validi di
quelli maschili. Per paradosso, il risalto polemico è maggiore se si mantengono gli stessi criteri di giudizio
canonici e si dà scarso peso all’analisi del testo. D’altra parte, tutte le caratteristiche che possono essere
attribuite alla scrittura al femminile rischiano di assomigliare a poetiche già presenti nella tradizione. Il
ricorso alla figura dell’autrice, insito nel filone principale del femminismo, produce una stretta equazione
tra autrice-narratrice-protagonista, che conduce una volta di più nei paraggi della critica biografica.
Il femminismo è tutt’altro che monolitico. Come sul piano delle scelte letterarie si può passare dal racconto
minimalista del quotidiano e delle piccole percezioni alle punte del canto e della poesia,
dall’autobiografismo alla riscrittura, oppure dal piacere della lettura alle complicazioni dello
sperimentalismo, altrettanto nella critica varia l’atteggiamento. Uno dei punti che dominano il
dibattito femminista è il pericolo dell’essenzialismo cioè l’attribuzione alla dona di una essenza naturale
ben definita e data una volta per tutte. Cosa significa affermare l’essere donna? Il soggetto femminile è
diviso, spaccato, ma per ciò stesso più capace di disinvestimento e quindi di autocritica. La Kristeva
rilegge il fondamento freudiano del complesso di Edipo, facendo notare che,<mentre il maschio rimane
attaccato alla figura materna, il desiderio della bambina passa dalla madre al padre. Questa esplosione
dell’identità porta da un lato a letture decostruttive che esplorano le pieghe del testo e il gioco di dentro-
fuori del soggetto femminile rispetto ai codici vigenti. Porta anche, su un altro versante, per la china
dell’antirazionalismo a un avvicinamento della critica alla scrittura d’invenzione. HELENE CIXOUS (1937-
vivente) il suo saggio principale Il riso della medusa esalta le qualità sovversive della scrittura al
femminile come una forza dirompente. Apparentandosi al misticismo la Cixous mette in atto un
linguaggio immaginoso e un tono esortativo che risulta trascinante. L’esaltazione della poesia e dei
poeti si riflette in un comportamento di consonanza verso il testo. Anzi nel femminismo si direbbe
di sorellanza. La Cixous come larga parte del femminismo, insiste sulla corporeità, le donne sono corpo più
dell’uomo, e tuttavia inclina a una euforia ed empatia molto spirituale che si accosta alquanto allo sbocco
neoumanistico. Sul versante anglosassone il femminismo tende ad articolarsi in connessione con
l’emergere di altre marche di marginalità, in particolare quelle segnate dalla scelta sessuale e dalla
razza (studi sull’omosessualità, travestimento, razzismo verso le minoranze e i migranti postcoloniali).