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CARTAGINE
La prima guerra fra Roma e Cartagine scoppiò dopo l'unificazione della penisola italiana.
"Qart Chadascht", dai Greci chiamata "Karchedon" e dai Romani "Charthago", era una colonia
fenicia dell'Africa settentrionale. Popoli eminentemente commerciali, i Fenici, fin dai tempi
remotissimi (quindici secoli a. C.), avevano fondato città e colonie in moltissimi punti delle coste
mediterranee: quelli di Sidone nel bacino orientale, quelli di Tiro nell'occidentale.
Nel Mediterraneo occidentale, non poche, erano le colonie commerciali e fra queste
primeggiavano Utica (nell'Africa Zengitana) e Gades (nella Spagna) quando, forse nel XII secolo,
fu fondata Cartagine.
Secondo la tradizione, i fondatori di Cartagine furono nobili di Tiro, ai quali il partito democratico
aveva tolto di mano il potere, guidati da DIDONE, sorella del re e moglie di SICHEO, gran
sacerdote del dio Melkart, che era stato ucciso dal cognato.
Ma, al contrario di Utica e di Gades, Cartagine non fu nei primi secoli della sua fondazione una
colonia commerciale. I fondatori prima, i loro discendenti poi, uomini d'armi anziché mercanti,
esplicarono la loro attività in guerre fortunate sul continente africano, poi ingrandirono il territorio
della città tra i confini della Numidia e il mare della " Sirtis minor" (Golfo di Gabes).
Fu solo nel sesto secolo che, giunti da Tiro numerosi emigrati, in prevalenza commercianti e
industriali, Cartagine da stato prettamente militare diventò una repubblica commerciale e sorse
come antagonista dei Greci, i quali, padroni già del bacino orientale, stavano acquistando, anche
loro per mezzo delle colonie, l'egemonia assoluta sul bacino occidentale del Mediterraneo.
Allo scopo di abbattere la supremazia greca sul mare, Cartagine si alleò con gli Etruschi, rivali dei
Greci nel Tirreno, sconfisse la flotta di Massilia (Marsiglia, colonia focese) presso la Corsica,
s'impadronì di Alalia in Corsica e ridusse in suo potere tutti gli insediamenti che i Focesi avevano
fondato sulle coste della penisola iberica.
Con la successiva conquista della Sardegna e delle isole Baleari, Cartagine conseguì
l'incontrastata egemonia sul Mediterraneo occidentale e rivolse le sue mire alla Sicilia, la quale,
per esser dominata dai Greci, rappresentava una permanente minaccia alla potenza marittima
della repubblica africana.
Abbiamo qua e là, nel corso di questa storia, accennato alle vicende della lunga lotta tra
Cartaginesi e Greci dell'isola. Alleatasi con Reggio, Cartagine cinge, nel 274 (480 a. C.) di assedio
Imera, ma è sconfitta duramente dagli eserciti di GERONE di Siracusa e TERONE di Agrigento;
ritenta la prova nel 344 (410 a. C.) chiamata da Segesta, e, distrutte Selinunte ed Imera,
s'impadronisce di buona parte della Sicilia; e solamente Agatocle e Pirro più tardi riescono a
scacciarla (questi ultimi fatti li abbiamo letti nel precedente capitolo).
Partito Pirro, si rialzano le sorti dei Cartaginesi in Sicilia e l'isola ritorna quasi tutta in potere della
forte repubblica.
I MAMERTINI
Solo due città rimanevano libere: Siracusa e Messana (od. Messina). Nella prima, dalle truppe, in
gran parte formate da soldataglia, era stato acclamato capo GERONE (nulla a che vedere con
l'antico omonimo) un giovane di oscuri natali, ma di animo nobile, il quale, impadronitosi della città
con l'aiuto di questi soldati, aveva restaurato l'ordine e riorganizzato l'esercito, mirando a rialzare
le sorti di Siracusa e a farle riacquistare l'antica potenza.
A Messana spadroneggiavano i Mamertini. Erano questi mercenari campani, assoldati a suo
tempo dal tiranno Agatocle per le sue guerre contro i Cartaginesi. Morto Agatocle erano rimasti
ospiti scomodi a Siracusa; erano più elementi del disordine che di aiuto alla città, e i siracusani
avevano tentato più volte di disfarsene, senza riuscirci.
Finalmente i Mamertini (cioè figli di Marte; in dialetto campano Mamers corrisponde al Mars latino)
si erano decisi a partire da Siracusa, ma nel loro viaggio di ritorno in patria, fermandosi a Messana
(Messina), si erano a tradimento impadroniti della città, commettendo violenze ed eccidi, e vi
erano rimasti, poi spalleggiati dalla legione campana della vicina Reggio (ribelli, di cui abbiamo già
parlato, e che si erano impossessata della città, non rispondendo più a Roma) avevano
sottomesso molte altre città vicine.
Per essersi schierati contro Pirro in favore dei Cartaginesi e perché facevano continue scorrerie
nei territori vicini, erano odiati dai Greci dell'isola e costituivano una continua minaccia per lo stato
di Siracusa che comprendeva le città di Acri, Leontini, Megara, Tauromenio, Elori e Neeto. I
Mamertini se n'erano andati, ma non molto distanti, e già si stavano allargandosi nel circondario.
Contro di loro si mosse GERONE nel 488 (266 a.C.) e, affrontati sulle rive del fiume Longano
presso Milae (Milazzo), inflisse loro una durissima sconfitta e li costrinse a ritirarsi a Messana.
Dopo questa disfatta la posizione dei Mamertini divenne insostenibile. Stretti dall'esercito
siracusano e nell'impossibilità di resistere, cominciarono ad avviare trattative con Gerone per la
cessione della città, ma, essendo, in quel frattempo, giunta nelle acque di Messana una flotta
cartaginese al comando di ANNONE, chiesero aiuti agli alleati di una volta e ricevettero un
presidio di soldati cartaginesi nella loro cittadella.
Subito però i Mamertini si accorsero di aver fatto male a mettersi sotto la protezione di Cartagine,
la quale non avrebbe tardato a farsi da protettrice a padrona di Messana e, poiché il pericolo di
Gerone era per il momento scongiurato, cercarono di liberarsi della presenza degli incomodi amici
africani invocando l'aiuto di Roma.
ROMA E CARTAGINE
I rapporti delle due potenze erano stati fino allora apparentemente amichevoli. Datavano questi
rapporti forse dal tempo dei Tarquini, certo dal primo anno della repubblica romana (245 A. di R. -
509 a.C.) nel quale era stato tra Roma e Cartagine stipulato un trattato di navigazione.
Con questo trattato si proibiva ai Romani ed ai loro alleati di navigare al di là dal Bel promontorio
(Promontorium pulcrum, Capo Bon) dalla parte di levante, a meno che essi non vi fossero spinti
dalle tempeste o dal nemico, nel qual caso non potevano trattenersi presso la costa più di cinque
giorni.
Ma si permetteva ai Romani di commerciare liberamente ad occidente del promontorio e cioè in
Africa, in Sardegna e nella Sicilia cartaginese.
Da parte sua Cartagine s'impegnava a non razziare né a danneggiare le città della costa laziale
soggette a Roma, fra cui Ardea, Anzio, Laurento, Circejo e Terracina, e di cedere a Roma quelle
città latine non ancora soggette che fossero cadute per caso in suo potere.
A questo trattato erano state apportate importantissime modifiche nel 406 e nel 448 (348 e 306
a.C.) con le quali si revocava il permesso già accordato ai Romani di commerciare in Sardegna e
nelle coste d'Africa.
Amicizia dunque sospettosa era quella che correva tra Cartagine e Roma e ipocriti complimenti
più che dimostrazione di gioia erano le congratulazioni inviate dai Cartaginesi al Senato romano e
la corona d'oro, da appendersi nel tempio di Giove Capitolino, dopo la conquista del Sannio.
Che i loro rapporti non fossero di sincera amicizia e che l'una sospettasse dell'altra lo provano da
una parte l'aiuto rifiutato da Roma durante la guerra contro Pirro e dall'altra l'offerta di soccorsi
fatta dai Romani ai Cartaginesi impegnati in Sicilia contro il re dell'Epiro e da loro non accettati.
Nonostante i sospetti, questi rapporti erano continuati perché ad entrambe le repubbliche
conveniva non compromettere l'amicizia, avendo entrambi nemici più vicini da combattere. Ma se i
rapporti non si erano rovinati, erano senza dubbi molto tesi, quando nel 482 (272 a.C.) la flotta
cartaginese inviata a Taranto per impadronirsene era stata costretta dal console romano PAPIRIO
ad allontanarsi.
Ma ora che Roma (dopo aver stroncata nel sangue la ribellione della sua legione) era giunta fino a
Reggio, davanti alla Sicilia dove i Cartaginesi si trovavano e della quale intendevano essere
incontrastati padroni; ed era impossibile che potessero continuare a sussistere rapporti cordiali, i
quali, del resto, erano stati contratti non per confermare e sviluppare reciproci sentimenti
d'amicizia, ma per evitare possibili ragioni di dissidio e tutelare i propri interessi in contrasto.
Inoltre, cosa molto importante; Cartagine possedeva da un millennio una flotta di navi; Roma non
aveva neppure un naviglio da guerra.
Ammesso che potesse sbarcare in Sicilia, se i cartaginesi con le loro navi bloccavano lo stretto,
per i Romani non ci sarebbe stato scampo.
I due stati stavano ormai di fronte e solo un braccio di mare li separava. Fiaccata la potenza delle
colonie greche, non era più l'ellenismo della Sicilia e dell'Italia meridionale il grande rivale di
Cartagine; era invece Roma, la temuta nuova potenza, da qualche tempo rivale, e che a quelle
colonie si era sostituita.
A sua volta anche Roma, che ora, erede della Magna Grecia, aveva bisogno di espandere sul
mare il suo commercio, Cartagine era una barriera che bisognava infrangere; era quella stessa
barriera che nel 245 dalla sua fondazione, le aveva proibito di oltrepassare con le navi il capo Bon
verso levante e un secolo dopo aveva vietato a Roma di trafficare con l'Africa e la Sardegna.
Anche se la richiesta dei Mamertini non avesse messo le due repubbliche l'una di fronte all'altra
per ineluttabilità di cose il dissidio sarebbe scoppiato lo stesso.
INTERVENTO DI ROMA IN SICILIA
I Mamertini, invocando in loro favore l'intervento di Roma, giustificavano la richiesta d'aiuti
ritenendosi della stessa nazionalità
Questi, infatti, dicevano di essere Italioti e perciò alleati di Roma. E questo era verissimo, però i
Mamertini avevano sempre agito senza il permesso della repubblica e per giunta si erano
macchiati di orribili delitti. Questi semmai meritavano una punizione esemplare anziché protezioni
e aiuti; e molti nel Senato questo lo pensavano.
Grave e imbarazzante era la decisione che i senatori erano chiamati a prendere. Sì trattava di
prendere le difese dei Mamertini o di abbandonarli al loro destino. Nel primo caso, aiutando
un'accozzaglia di banditi, si sarebbe commessa un'azione indegna dell'onore romano; nel
secondo si sarebbe lasciata Messana alla mercè dei Cartaginesi.
Doveva prevalere la ragione morale o l'interesse politico?
Il Senato non volle pronunziarsi ed assumere una così grave responsabilità e preferì che fosse il
popolo a prendere una deliberazione tanto importante.
E il popolo - affermano certi storici - agì saggiamente, mostrando di essere pienamente
consapevole della missione di Roma, e della via che doveva scegliere, e, deliberando che si
dovesse intervenire in favore dei Mamertini, ebbe soltanto presente - e fece bene - i vitali interessi
della repubblica.
La soluzione della questione era molto complessa. E gli storici ci hanno lasciato ben poco. Polibio
ad esempio, non dice quale assemblea approvò l'alleanza con i " briganti"; afferma solo che il
popolo, fu convinto dai capi militari che rappresentarono la guarnigione punica nello stretto come
un grave pericolo, e illustrarono i vantaggi che sarebbero derivati ai cittadini romani l'alleanza con
i Momentini e una guerra in Sicilia. Fra questi vantaggi il grano della ricca isola da portare a Roma
a guerra vinta.
A parte questi demagogici motivi, i militari forse erano gli unici a rendersi conto della grande
importanza strategica; quella di bloccare l'avanzata cartaginese, sicuri che prima o poi, i
cartaginesi, da quella testa di ponte, avrebbero scatenato una guerra.
Se l'opinione dei senatori era divisa, lo si deve anche ad una certa avversione della vecchia
aristocrazia, che non vedeva di buon occhi l'espansione romana; per due motivi: la politica delle
conquiste aveva rafforzato l'assemblea democratica; e le stesse guerre aveva innalzato al senato
e al consolato un gran numero di eroi di guerra. Dalle " Forche caudine" in poi, l'assemblea
democratica riusciva ad esercitare il decisivo diritto di ratifica alle dichiarazioni di guerra o di pace;
e con la successiva "lex Ortensia" dava perfino all'assemblea popolare il potere di assumere
l'iniziativa e di decidere su qualsiasi questione di stato senza tener conto del senato.
Se poi andiamo a vedere pure l'aspetto economico; l'aristocrazia senatoriale che aveva in mano i
terreni e il commercio, l'espansione rappresentava un gravissimo danno; con le acquisizioni i
terreni valevano sempre meno, e in quanto al grano, già costava poco, ma con un'eventuale
annessione della Sicilia -conosciuto come il granaio per eccellenza- il prezzo sarebbe crollato e
addio lauti guadagni.
L'argomento moralistico sui Mamertini, era solo un ipocrito pretesto; anche perché Gerone, pure
lui era arrivato al potere con un'azione non meno discutibile. Fino al punto che qualcuno disse,
che in fin dei conti, se i Mamertini erano dei briganti, lo erano stati quando Roma non dominava
ancora fino a Reggio, e che quindi era stata una questione interna della Sicilia; e che bisognava
essere "pragmatici" (questo vocabolo lo usò poi Polibio, per giustificare l'intervento- anticipando
così Machiavelli, che se non proprio copiò, tuttavia s'ispirò allo storico greco diventato poi romano,
e che oltre che essere uno storico, era un consumato politico).
Tuttavia il Senato per tergiversare il suo intervento, prima che la decisione popolare fosse
conosciuta, mise davanti una ragione, che doveva giustificare la sua condotta; mandò cioé
ambasciatori a Cartagine perché chiedessero conto dell'invio da parte dei Cartaginesi di una flotta
a Taranto nel 482, sette anni prima! (qui sembrano patetici, si ricordano di farlo dopo tanto
tempo).
Il Senato cartaginese rispose negando che Cartagine, con l'invio della flotta avesse allora avuto
l'intenzione di impadronirsi di Taranto.
Ma se la richiesta di Roma era solo un pretesto per rompere i rapporti e giustificare una prossima
dichiarazione di guerra, la risposta di Cartagine non rispondeva alla verità dei fatti ed era dettata
dalla prudenza e - perché non dirlo? - pure loro avevano il timore di una guerra con Roma.
Cartagine avrebbe volentieri evitato un conflitto armato con la sua alleata della penisola,
conoscendo perfettamente le condizioni in cui Roma e lei stessa si
trovavano.
I Romani erano un popolo disciplinato, pieno di grandi energie, che disponeva di poderose forze
armate. Roma non era un insieme di popoli soggetti ad una città, pronti a ribellarsi, ma una
nazione i cui vari elementi erano legati da vitali interessi. Era inoltre uno stato militarmente
potente, fornito di eserciti non mercenari che combattevano per la propria patria, rotti a tutte le
fatiche, abituati a battersi e a vincere.
Inoltre il teatro dove si sarebbero svolte le operazioni di guerra era a due passi dalla penisola e
questa vicinanza costituiva un vantaggio grandissimo per gli eserciti romani.
L'esercito cartaginese invece era un'accozzaglia di mercenari libici, di Numidi, di Greci, di Ispani,
di Galli, che aveva poca disciplina, metodi diversi di combattere ed erano gli uomini spinti a far la
guerra solo dall'amore della paga e del bottino, non dal desiderio della gloria e dall'affetto per
Cartagine.
Soltanto la cavalleria era composta esclusivamente di Cartaginesi, quasi tutti nobili, e una legione
che era chiamata sacra. Inoltre queste truppe erano sfiduciate da una lunga serie di sconfitte.
Non meno liete di quelle del suo esercito erano le condizioni dell'impero cartaginese. Questo
mancava di quella compattezza geografica e politica che invece Roma aveva. I domini erano
estesi, ma disgregati, né Cartagine aveva saputo fonderli o cementarli, stringerli fra loro con
legami d'interessi e legarli a se stessa. Cartagine non pensava che a sé, era la dominatrice
superba, tirannica, egoistica e la sfruttatrice odiosa dei suoi sudditi, i quali guardavano alla
capitale come ad una nemica che li opprimeva. Come nessuna simpatia, nessuna fiducia,
Cartagine aveva saputo ispirare alle varie parti del suo impero, allo stesso modo nessun amore
aveva saputo il governo della città ispirare agli abitanti di Cartagine.
Un insanabile dissidio esisteva tra democrazia ed aristocrazia, che ostacolava ogni azione. Il
potere era in mano a due Suffeti (magistrati annuali), ad un Senato di trenta membri e ad un
collegio detto dei Centoquattro, ma mentre il Senato era prevalentemente democratico, i
Centoquattro erano aristocratici che esercitavano una sorveglianza occulta sui senatori ed i
suffeti.
Se tutto questo metteva Cartagine in una posizione d'inferiorità rispetto a Roma, non le
mancavano però i vantaggi sulla rivale.
Solide erano le sue finanze e tali da permetterle qualsiasi sforzo. Si aggiungano alle ricchezze
una potentissima flotta, che neutralizzava in parte il vantaggio che Roma aveva per la vicinanza
della Sicilia alle sue basi; e aveva marinai abilissimi ed esperti ufficiali di marina, che
tramandandosi da padre in figlio conoscevano l'arte della navigazione, e ogni angolo del
Mediterraneo.
Ma questi vantaggi non erano tali da assicurare la superiorità su Roma a Cartagine; erano anzi
scarsi in confronto di quelli che militavano in favore della rivale, ed alla consapevolezza di questo
stato di cose bisogna, come abbiamo già detto, attribuire il desiderio di Cartagine di non rompere i
rapporti con Roma.
GAJO CLAUDIO
ANNONE, che era giunto con la sua flotta a Messena, dovette avere istruzioni precise dal governo
cartaginese: evitare con un'accorta politica la guerra e togliere qualsiasi pretesto ai Romani.
La condotta diplomatica dell'ammiraglio fu molto abile; e poiché a chiedere l'intervento di Roma
erano stati i Mamertini e la radice prima del conflitto era nella guerra tra questi e Gerone, Annone
riuscì a pacificare Mamertini e Siracusani e persuadendo Gerone a togliere l'assedio.
Dopo quest'abile negoziato, ogni motivo d'intervento romano cadeva, ma Roma non volle tener
conto del fatto nuovo ed ordinò ugualmente al console APPIO CLAUDIO CAUDICE di recarsi, con
l'esercito che era già stato allestito, in Sicilia, a Messena.
Locri, Neapolis, Taranto ed altre città greche fornirono le navi per il passaggio dello stretto e il
console incaricò GAJO CLAUDIO, suo luogotenente, di presiedere alle operazioni d'imbarco e
sbarco. Era stata a Reggio imbarcata una parte delle truppe romane quando un'improvvisa
tempesta scompigliò la flotta. Alcune navi, sbatacchiate dal vento, caddero in mano dei
Cartaginesi.
ANNONE che doveva evitare che nascesse un casus belli, rimandò libere le navi, ma Claudio non
fu commosso da quest'atto leale dell'ammiraglio, rifiutò i navigli catturati e rinnovate le operazioni
le condusse a termine felicemente.
Sbarcato in Sicilia Claudio entrò a Messana alla testa di numerose schiere e convocò il popolo in
assemblea, esponendo il proposito di risolvere pacificamente la vertenza. All'adunanza fu invitato
l'ammiraglio cartaginese e questi, per nulla sospettoso, anzi desideroso di contribuire all'opera di
pacificazione, non mancò d'intervenire.
Male però glie ne incolse, perché Claudio lo fece subito arrestare e condurre in prigione e lo
costrinse ad impartire ordini ai Cartaginesi di sgombrare la cittadella.
Solo quando il presidio punico fu uscito da Messana, Claudio lasciò libero l'ammiraglio, il quale fu
lui a pagare con la vita la slealtà di Claudio.
Richiamato infatti, a Cartagine, accusato di avere ritirato la guarnigione e di essere ingenuamente
caduto nelle mani dei Romani, Annone fu crocifisso.
Dalla disfatta di Tunisi, Attilio Regolo languiva in ceppi e quando Cartagine decise di avanzare
proposte di pace e pensò che il prigioniero, accompagnando a Roma gli ambasciatori, poteva con
la sua presenza e con la sua parola indurre il Senato alla riconciliazione. Regolo doveva essere
stanco della lunga prigionia e pur di ottenere la libertà non avrebbe mancato di farsi sostenitore
della pace. Fu perciò fatto uscire dalla prigione e gli si fece giurare che sarebbe ritornato a
Cartagine se Roma avesse respinto le proposte di pace e lo scambio di prigionieri; prestato
giuramento Regolo e gli ambasciatori s'imbarcarono.
Ma l'ex-console quando fu al cospetto del Senato, anziché appoggiare le proposte degli
ambasciatori punici, parlò e si scagliò contro la superba rivale di Roma, disse che la guerra
bisognava continuarla e che maggiori sforzi dovevano esser fatti per costringere l'odiata nemica
alla resa, disse ancora che il pensiero dei prigionieri non doveva influire nelle deliberazioni del
Senato; i prigionieri erano lieti di vivere lontani dalla patria, privi della libertà, e sarebbero stati
contenti di sacrificare la propria vita purché Roma respingesse la pace chiesta da Cartagine.
La perorazione di Attilio Regolo fu così calda che i senatori rifiutarono d'intavolare trattative. Ma la
sorte di Regolo da quel momento era decisa. Lui aveva promesso a Cartagine che avrebbe
collaborato e che se la missione falliva doveva far ritorno come prigioniero; ma comportandosi con
ostilità Cartagine al suo ritorno sopra di lui avrebbe sfogato la sua collera.
Si cercò di trattenerlo; il pontefice massimo lo sciolse dal sacro vincolo del giuramento che il
prigioniero aveva fatto sotto l'imposizione del nemico; gli amici, i parenti, i familiari cercarono di
commuoverlo con le loro preghiere e con le lacrime. Ogni sforzo riuscì vano. Un romano non
poteva né doveva venir meno alla promessa fatta anche se questa era stata strappata con la
violenza.
E, conscio del destino che lo aspettava nella terra africana, Attilio Regolo, partì e rifece la via che
parecchi anni prima aveva fatto, al comando di una poderosa flotta, e l'animo pieno della
speranza della vittoria.
Appena giunto a Cartagine il martirio che gli era stato riservato fu atroce. Fu messo in un'oscura
prigione, in compagnia, dicono alcuni, di un elefante di cui era costretto a subire le molestie, poi
portato fuori gli tagliarono le palpebre e costretto a guardare il sole, infine fu chiuso dentro in una
botte disseminata di acutissimi chiodi alle pareti, poi fatta rotolare per le strade, fin quando il corpo
fu ridotto a brandelli sanguinolenti.
La critica ha voluto mettere in dubbio questa tragica fine di Attilio Regolo, relegandola tra le
leggende, eppure non presenta nulla di straordinario e d'inverosimile se si pensi da un lato alla
crudeltà dei Cartaginesi intensificata dal contegno del prigioniero, e dall'altro, che non mancano
esempi nella storia di Roma di prigionieri, temporaneamente liberati, ritornati poi allo scader del
termine in cattività.
ASSEDIO DI LILIBEO
Se la fine di Attilio Regolo è leggenda o, meglio, se la sua ambasceria non ottenne i risultati che
Cartagine si aspettava, dobbiamo credere che i negoziati di pace non diedero alcun risultato forse
per le pretese avanzate da Roma, che chiedeva la cessione di Lilibeo (Marsala) e Drepano.
Finché queste due città rimanevano in potere dei Cartaginesi, nessuna sicurezza esisteva per le
conquiste romane della Sicilia. Occorreva dunque costringerle alla resa e occuparle, ma a questo
fine non erano sufficienti le forze terrestri. Era necessaria una flotta che bloccasse dalla parte del
mare le due piazzeforti.
Messo da parte il decreto, iniziarono i lavori per costruire duecento navi, fu allestita una flotta e
con quarantamila soldati fu inviata contro Lilibeo.
Questa città era sorvegliata da un presidio cartaginese formato da diecimila uomini, al comando di
IMILCONE; era forte per la sua posizione naturale e per le imponenti opere di difesa; anche Pirro
non era riuscito a prenderla con la forza.
I consoli la bloccarono al largo con la loro flotta perché non potesse ricevere aiuti da Cartagine,
mentre altre navi tentavano di farla cadere mettendo in opera potentissime macchine da guerra.
Queste da principio diedero ottimi risultati e sei torri crollarono sotto i martellanti colpi. Ma i
Cartaginesi rendevano vani gli sforzi del nemico affrettandosi a riparare i danni. Cercarono i
consoli di impadronirsi con il tradimento della città corrompendo alcuni mercenari, ma il colpo fallì.
Nonostante la straordinaria difesa, la città era stremata di forze e cominciavano a mancare le
vettovaglie.
Cartagine, che teneva moltissimo a conservare in proprio potere la piazzaforte di Lilibeo, in
soccorso inviò ANNIBALE con cinquanta navi, diecimila soldati e viveri.
Al valoroso comandante cartaginese, noto per la sua audacia e risolutezza, riuscì a passare
attraverso il blocco delle navi romane e a penetrare nel porto e poco mancò che alle forze
consolari non toccasse una sconfitta.
Nonostante imperversasse una tempesta; IMILCONE, imbaldanzito dall'aiuto insperato, uscì con
le sue truppe dalla città, assalì gli assedianti ed incendiò le macchine offensive romane (504), con
la distruzione delle quali non c'era più da sperare di poter conquistare a viva forza la città.
Ma anche senza queste, l'assedio non fu rimosso.
Eletti a Roma consoli PUBLIO CLAUDIO PULCRO e LUCIO GIUNIO PULLO, questi furono subito
mandati in Sicilia; il primo con centoventitre navi tentò un colpo su Drepano.
Si narra che alla vigilia dell'impresa, gli "auguri pullari" avevano sconsigliato l'impresa perché i
sacri polli non avevano voluto beccare; l'ostinato Claudio sarcastico pare che ordinasse che gli
animali fossero gettati a mare e che se non avevano voluto mangiare che bevessero".
L'impresa si mutò in disastro. Assalito improvvisamente da ADERBALE che comandava il presidio
di Drepano, la flotta romana subì una grave sconfitta; soltanto trenta navi riuscirono a salvarsi.
CLAUDIO, messo, più tardi sotto processo, fu condannato dai comizi tributi a pagare la somma di
centomila assi. Non fu più fortunato il console GIUNIO PULLO. Mentre da Siracusa portava
soccorsi di viveri ai Romani che assediavano Lilibeo fu sorpreso in mare da CARTALONE, uno
dei luogotenenti di Amilcare, nelle cui mani lasciò alcune navi onerarie; sorpreso poi dalla
tempesta e sbattuto sugli scogli di Pachino e Camerino, perse l'intera flotta che si componeva di
ottocento navi da carico e centoventi da guerra.
Fu una fortuna che riuscì salvare buona parte delle truppe e con queste Giunio marciò su Erice,
l'assediò, la costrinse alla resa, la occupò
Ciononostante accusato come il collega, Giunio Pullo, si uccise preferendo morire anziché
comparire davanti ai giudici.