I 19 migliori piatti tipici toscani, quelli che secondo noi rappresentano la cucina della
Toscana, dal cacciucco ai pici all'aglione, dai "pani" dolci a quelli inzuppati.
Per chi, come noi, in estate non sceglie tra il mare e la montagna, ma tra le cozze pelose
pugliesi e la carne salada trentina, anche la collina andrà benissimo, specialmente se
irrorata da un buon Chianti. La cucina toscana, meta gastronomica quasi quanto i suoi
paesaggi vitivinicoli, oggi ve la raccontiamo attraverso i suoi piatti tipici.
Sia mai che in questi mesi vacanzieri dai viaggi all’estero limitati, scegliate Maremma, Val
d’Orcia o l’Argentario per il vostro viaggio, senza arrivare abbastanza preparati sul cibo
autoctono.
Non sorprende che la Toscana sia una delle regioni italiane più conosciute nel mondo
(soprattutto anglosassone) e celebrate per la bellezza antica e ispiratrice di visioni bucoliche.
Immaginatevi la scena: dolci pendii dorati su cui si ergono casali solitari contornati da
cipressi. Oppure silenziose cittadine sempre uguali a se stesse dai tempi del Rinascimento,
quasi ad aspettarsi il passaggio improvviso di un Dante o un Leonardo, ma anche di un
Troisi confuso perché catapultato indietro nei secoli. O ancora, promontori ventosi che si
perdono nell’azzurro.
E voi, persi con lo sguardo rivolto all’orizzonte mentre sorseggiate un pregiatissimo Chianti
abbinato alle ricette della tradizione toscana. Bello vero?
Dopo questo tour carico di poesia in effetti ci è venuta un po’ di fame: andiamo a vedere
cosa bolle in pentola e quali sono i 19 piatti tipici toscani imprescindibili.
Crostini neri
Antipasto chiama crostini, e qui a Dissapore ne abbiamo veramente visti per tutti i colori e
per tutte le nazionalità. Anche la Toscana ha la sua bella collezione, ma qui vogliamo
parlarvi dei crostini neri. Proviamo un attimo a destrutturarli: da una parte abbiamo il pane,
dall’altro il condimento da spalmare. Sembra semplice ma non lo è, perché entrambe le parti
meritano una bello spiegone tattico, sintetico ed esaustivo che potrete somministrare ai
vostri prossimi commensali come diversivo per accaparrarvi gli stuzzichini prima che ci
arrivino loro.
La base è ovviamente il pane toscano, unico nel suo genere nel panorama italiano: oltre ai
requisiti specifici di produzione, forma e caratteristiche organolettiche richiesti dalla DOP, si
distingue per la mancanza di sale. Preferenze gustative? Necessità dietetiche? Turbamenti
religiosi? Nossignore, qua c’è di mezzo il vile denaro: il “sale-gate” risale al XII secolo,
collegato a una disputa tra pisani e fiorentini riguardo i dazi imposti sulla materia prima. Pisa
blocca i rifornimenti di sale a Firenze che prima abbozza, poi apprezza e infine spara a zero
con la sferzante penna di Dante che nel suo Paradiso scrive: “Tu proverai sì come sa di
sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e l’salir per altrui scale”.
Il pane sciapo o sciocco si presta dunque meglio di altri a reggere il contrasto con salse e
condimenti di ogni tipo. Tradotto in Dissaporese, ci si può schiaffare sopra senza problemi
qualsiasi bomba calorico-gustativa: lui regge da paura. Nel caso dei crostini neri, il
companatico consiste in un ibrido ragù-patè in cui l’unica cosa veramente in comune tra gli
ingredienti sono quelle è con l’accento finale. Fegatini di pollo, acciughe e capperi sono gli
insoliti sospetti che mai avrebbero sperato di trovarsi uniti in questa preparazione liscia e
cremosa, che cambia leggermente ricetta da famiglia a famiglia pur rimanendo simile a se
stessa. Noi qui vi proponiamo-propiniamo la nostra: avrete il fegato di assaggiarla?
Dunque abbiamo introdotto l’argomento “pane”, che in Toscana non solo è accessorio
indispensabile della tavola imbandita, ma è anche un ingrediente importantissimo alla base
di molte preparazioni. Spesso si tratta di zuppe, ma non solo: in ogni caso la categoria è
talmente ampia che o facevamo un post dedicato, oppure questo articolo diventava
un’enciclopedia. Vediamo allora in dovuta sintesi quali sono i piatti tipici a base di pane che
in Toscana proprio non vi potete perdere.
Il primo vi è stato urlato nelle orecchie da fin quando vi ricordate (ovviamente facciamo
affidamento all’età media dei lettori di Dissapore, se qualcuno di voi ha un vissuto
precedente all’uscita di questa canzone sappiate che vi invidiamo tantissimo). Si tratta della
celeberrima pappa col pomodoro, portata all’attenzione nazionale dal Giornalino di Gian
Burrasca prima, e dalla voce acuta di Rita Pavone poi. Il segreto di questo piatto sta negli
ingredienti: pane raffermo, pomodori, aglio, olio e basilico basta metterli insieme, e se sono
buoni fanno praticamente tutto da soli (noi nel dubbio vi lasciamo la ricetta della pappa al
pomodoro). Spostiamo l’attenzione sulla panzanella, che a differenza della pappa ha molto
meno pomodoro, è molto meno liquida e soprattutto è molto meno calda.
Infine ci dirigiamo a Pistoia per assaggiare il carcerato, una localissima zuppa di pane
raffermo e brodo di interiora di vitello. Il nome curioso sembra sia dovuto alla vicinanza tra i
macelli e la prigione, giusto per rendere il soggiorno più confortevole ai galeotti.
Vi sembra che manchi qualcosa? Bravi, non vi sfugge niente: non abbiamo nominato la
regina delle zuppe toscane, la ribollita. L’assenza in questo caso è voluta per poterla
affrontare meglio in un focus dedicato alla città di Firenze. Ci sarà pane per i vostri denti,
garantito!
Ginestrata
Ci sono parecchie differenze tra la carrellata di zuppe che abbiamo appena trattato e la
ginestrata, tipica di Chianti, Val di Chiana e Valle dell’Arno. La prima è che stavolta il pane
non c’è, al massimo compare per un intingolo veloce. La seconda è la consistenza, in
questo caso molto omogenea e cremosa. La terza è la provenienza: non ci riferiamo alla
zona geografica, quanto al contesto sociale. Se pappa al pomodoro, panzanella e carcerato
sono piatti codificati dalla tradizione povera, contadina, la ginestrata si dà decisamente arie
da aristocratica.
Questa crema di uova, spezie e brodo di pollo infatti non poteva che prendere forma dalle
dispense dei più ricchi, che potevano accedere a ingredienti pregiati quali zucchero, noce
moscata e cannella. La ginestrata è rimasta dunque nell’immaginario mangereccio un piatto
delle grandi occasioni, dalle proprietà ricostituenti e afrodisiache. Non a caso era servito ai
novelli sposi per dare loro modo di “riprendersi” dopo la prima notte di nozze.
Scarpaccia
Ci spostiamo su una delle coste più scatenate d’Italia, ma stavolta non è né per fare le
vacanze da “sciura” al Lido, né per assistere alle parate di Carnevale. Ci andiamo per
assaggiare la scarpaccia, un piatto tipico della provincia di Lucca la cui ricetta di partenza
viene parimenti rivendicata da Viareggio e Camaiore. La base è la stessa: una frittata di
zucchine spessa e consistente, dal nome che non le fa assolutamente giustizia. Poi però,
quando arriva il momento di mettere i condimenti, le strade si dividono. A Camaiore la
scarpaccia è salata, con cipolline e basilico; a Viareggio è dolce con fiori di zucca e farina.
Due versioni e un’ottima scusa per visitare entrambi i comuni e decidere quella che vi piace
di più.
Garmugia
Rimaniamo nei dintorni di Lucca per assaggiare questa zuppa primaverile. Avete presente
quella brevissima finestra di tempo in cui la temperatura si aggira tra i 1o e i 20 gradi
massimo, il sole scalda solo se ci state sotto per almeno mezz’ora all’una di pomeriggio, e vi
potete permettere di andare in giro col pullover (senza giacca) tutto il giorno?
Bene, mettetevelo bene in testa perché coi tempi che corrono sarà sempre più difficile vivere
con serenità questi passaggi intermedi tra una stagione e l’altra. Uno dei modi per ricordarsi
che sì, è primavera, è proprio la garmugia. Questo piatto sostanzioso è un trionfo di primizie
verdi (fave, asparagi, carciofi, piselli), macinato di manzo e pancetta fatti rosolare
lentamente e bagnare (non troppo) con il brodo. Corroborante per giornate fresche e
ventose al punto giusto.
Pappardelle
Il dialetto toscano, ricordiamo, è la fucina di tutta la lingua italiana. Uno dei termini per cui gli
siamo più riconoscenti è pappardelle. Questo formato di pasta all’uovo tipicamente toscano
deriva dal bellissimo pappare, che oltre alla sua funzione adorabilmente onomatopeica,
rende benissimo i nostri sentimenti nei confronti di questo piatto. Qualcuno potrebbe dire
che assomigliano alle tagliatelle emiliane, noi avvisiamo gentilmente i naviganti che qua
siamo su campi minati che nemmeno vi immaginate. Rimaniamo concentrati sul nostro
prodotto: le pappardelle in origine l’uovo se lo sognano e partono da un impasto di acqua e
farina. Sono molto larghe, mantenendosi sui 2cm con la possibilità di arrivare fino a 4, e al
tatto risultano ruvide (mai stati leccati da un gatto?).
Infine, se avete l’immenso privilegio di assaggiarle in Toscana e per di più fatte in casa, il
suo accompagnamento di elezione, macché, la Morte loro con la Emme maiuscola è
soltanto uno: il ragù di cinghiale. Sforzandoci di non pensare al fatto che è diventato uno dei
capisaldi dell’assortimento “cibo pronto”, manteniamo toni poetici immaginando questo
vassoio che dall’oscurità si fa strada prima verso il nostro piatto, e poi verso la nostra bocca.
Un classico sublime della cucina toscana tutta.
Pici all’aglione
Andiamo in Val di Chiana per scoprire prima di tutto il condimento di un altro primo
imperdibile. L’aglione è un’antica varietà di aglio gigante (sì, avete capito bene) che fa la
gioia di innamorati, soggetti al reflusso gastroesofageo e persino vampiri. Sì perché è privo
di allicina, il composto solforganico tipico dell’aglio, e quindi non puzza! Questo campione
può avvicinarsi al chilo di peso ma è un po’ un cuore solitario: è registrato infatti nell’Arca del
Gusto di Slow Food, che recupera tutti quei prodotti tipici a rischio di estinzione.
Quindi cosa aspettate a mangiarne a più non posso (a maggior ragione senza effetti
collaterali) accompagnandolo ai pici? Gli spaghettoni irregolari vengono conditi con un sugo
a base di pomodoro e aglione, una specie di “ajo e ojo” più dolce e meno aggressiva che
saprà convertire tutti quei miscredenti che di solito evitano questo sapore come la peste.
Paste…e ripieni
In Toscana succede una cosa strana: sul piatto possiamo aspettarci di trovare la pasta, la
pasta ripiena,…e addirittura il ripieno senza pasta! Robe da matti. O robe di chi ha capito
tutto? Ma andiamo con ordine.
Ci sono almeno due formati di pasta ripiena che vale la pena di menzionare. Il primo è il
tortello di patate mugellano, un quadratone giallo di pasta ripiena di patate del Mugello,
aglio, prezzemolo e noce moscata. Dei tortelli mugellani e di come siano difficilmente
reperibili nella loro versione artigianale vi abbiamo parlato di recente, tra l’altro.
Il secondo formato appartiene alla zona della Versilia: il tordello lucchese è una mezzaluna
di pasta ripiena di manzo, bietole, formaggio e pane (rigorosamente sciocco).
Bene, superati i convenevoli, passiamo al ripieno: gli gnudi sono il piatto tipico della
Maremma a cui in pratica manca solo la pasta. “Nudi” proprio perché senza l’involucro a
proteggerli, sono comunque considerati un primo. Si tratta di palline di ricotta, farina e
spinaci condite con un sugo burro e salvia.
Scottiglia
Anche qui la carne non si accontenta di essere tale e chiama in causa quei poveri cugini
marini che di solito finiscono in scatoletta. Il tonno del Chianti, ne siamo consapevoli, non fa
parte dei secondi ma andrebbe fatto filare su con gli antipasti. Tuttavia l’assonanza carni-
pesci ci sembrava troppo azzeccata per non menzionarla in questa posizione. In questo
caso succede che il maiale, anzi la lonza venga tagliata a fettine e ricoperta di sale per
almeno 3 giorni. Poi si passa alla cottura in vino bianco (probabilmente in tempi che sono
ancora più lunghi rispetto alla scottiglia), alla sgrassatura e alla conservazione sott’olio ed
erbe aromatiche: tutti questi passaggi assicurano un radicale cambiamento di consistenza
del maiale, rendendolo tenerissimo quasi appunto quanto il suo contraltare squamato.
Cacciucco
Ci siamo mossi nell’ambiguità, ora possiamo tornare alla luce del sole. Ancora meglio se il
sole lo prendiamo in spiaggia, sulle bellissime sponde tirreniche della provincia di Livorno,
patria di questa zuppa di pesce (sul serio stavolta) ormai diventata ricetta nazionale. Il
cacciucco prevede da 5 a 13 varietà di pesce e molluschi nel significato più profondo
dell’espressione Chi più ne, ha più ne metta. Del resto quando rimane del pesce invenduto
che fai, lo butti?
La prima in ordine cronologico è la panina toscana dalla provincia di Arezzo. Questo lievitato
a base di farina, uova, burro, uvetta e zafferano, viene consumato durante tutto il periodo
pasquale, Quaresima compresa. Come dire, i digiuni si sopportano meglio con una bella
fettona dolce e gialla nello stomaco!
All’inizio di Novembre ci spostiamo a Siena per assaggiare il Pan co’ santi, un impasto
lievitato arricchito da noci, uvetta e abbondanti dosi di pepe. Che aiuti ad allontanare
qualche spiritello dispettoso? Noi nel dubbio ne mangiamo, anche se pizzica.
Rimaniamo a Siena per finire l’anno in bellezza con il panforte, dolce natalizio a base di
frutta secca, spezie e miele. Quale frutta secca, quali spezie, quale miele? A questa e ad
altre domande risponde pronta la nostra formidabile ricetta perfetta: perché le mani dovete
sporcarvele comunque, ma almeno vi garantiamo il successo nel minor numero di tentativi
possibili!
Si è fatta una certa, come si dice in dialetto nazionale ormai da parecchio, e siamo arrivati
alla fine di questo excursus culinario in giro per la Toscana (saltando volutamente Firenze, lo
ricordiamo). È quasi il momento dei saluti, giusto il tempo di prendere un caffè o di brindare
col bicchiere della staffa. A questo punto, di solito, saltano fuori degli insospettabili biscottini
di tutte le fogge e i colori, conservati appositamente per l’ultimissimo round. Vogliamo dare
un’occhiata in dettaglio a questo assortimento? Dai, lo sappiamo che vi è venuta voglia.
Un altro biscotto tipico senese è il morbido cavalluccio a base di farina, zucchero, miele, noci
e spezie (anice, cannella, arancia candita): un omaggio al Palio oppure una constatazione
che l’origine di questo dolcetto rustico veniva preparato soprattutto nelle locande di
passaggio dei viaggiatori? Nel dubbio, come sempre, sgranocchiate che vi si schiariscono le
idee.
In ritardo come le star, celebriamo il dulcis in fundo con i cantucci di Prato, così duri e puri
che hanno nuotato attraverso l’Atlantico senza mai sbriciolarsi e negli USA sono diventati
sinonimo di italianità diffusa, tanto da essere indicati ovunque con il generico nome di
biscotti. Prato fa da madrina, non tanto per un’ipotetica origine ancestrale, quanto per una
questione burocratica di prima attestazione scritta che scoraggia in partenza tutti gli altri
concorrenti alla paternità della ricetta. I biscotti secchi alle mandorle sono consacrati per
sempre al matrimonio con il Vin santo,e non sappiamo davvero cos’altro aggiungere se non
e vissero tutti felici e contenti.
Lampredotto fiorentino
Protagonista è infatti lo stomaco di bovino che viene sapientemente preparato dal trippaio
con tagli, cotture e condimenti che seguono ricette gelosamente custodite, e servito tra due
fette di sémelle, il panino all’olio versione fiorentina. Come se non bastasse, per i più arditi
c’è opzione ancora più unta: il lampredotto bagnato in rapida immersione nel pentolone dove
ribollono altre succulente interiora.
Testarolo artigianale pontremolese
I miracoli a volte succedono anche in cucina. Forse avrete sentito parlare di qualcuno che si
dilettava a moltiplicare i pani e i pesci: in Lunigiana, regione storica a cavallo tra Liguria e
Toscana, sono riusciti a fare più o meno la stessa cosa con il testarolo. Questo sottilissimo
pane azzimo composto soltanto di acqua, farina di grano tenero e sale e cotto nei
tradizionali “testi” in ghisa o terracotta si presenta, all’inizio, come una normale crespella del
diametro di 40-45 centimetri. Poi, la magia: da un unico testarolo infatti si ricavano tanti
testaroli, piccoli rombi che, rinvenuti in acqua bollente, diventano un primo piatto dalla
consistenza leggermente spugnosa.
Carcerato pistoiese
Considera l’aragosta: no davvero, non è una mera referenza al (magnifico) saggio di David
Foster Wallace. Considera proprio l’aragosta, che da cibo di poveri e galeotti (d’altronde un
insettone marino gigante a prima vista non è che ispirasse proprio sicurezza, figuriamoci
bontà) è diventata prelibatezza ricercata e di lusso. Rispetto al Maine e al suo emblematico
crostaceo, l’ascesa del carcerato di Pistoia forse non è stata altrettanto significativa, ma
sicuramente ha saputo riscattarsi.
Questa zuppa di pane e rigaglie infatti deve i natali al carcere di Santa Caterina in Brana,
zona della città circondata dai macelli: questi ultimi rifornivano i ranci degli “ospiti coatti” di
scarti e tagli meno nobili. Da pochi, umili ingredienti (e una metonimia quantomeno
azzeccata) è nato un piatto gustoso che col tempo ha saputo conquistare anche i palati più
raffinati. Oggi il carcerato è uno dei simboli gastronomici di Pistoia senza, per fortuna,
bisogno di farsi arrestare.
Cosa distingue la torta co’ bischeri da una semplice crostata? I bischeri appunto, piccoli
“becchi” o striscioline arricciate che come una corona circondano i bordi superiori della torta.
Il significato della parola nasconde ulteriori allusioni decisamente poco pie, forse per
sdrammatizzare la sacralità del pellegrinaggio e delle funzioni legate alla reliquia. Senza
bisogno di mettervi in cammino, potete provare a replicare a casa la torta co’ bischeri
aggiungendo riso e frutta secca alla nostra crostata al cioccolato.