3. Tommaso Landolfi: si colloca anche lui su una linea che parte da quella di
Bontempelli e Savinio. Tommaso Landolfi nasce a Pico (in provincia di
Frosinone) nel 1908, visse tra Roma, Firenze e la Riviera ligure e morì nel
1979. Egli visse a contatto con l’ambiente culturale fiorentino ed in particolare
con il gruppo di scrittori e di poeti ermetici di “Campo di Marte”. Di qui
l’importanza che viene ad assumere la letteratura. Essa costituisce per Landolfi
un mondo “altro” rispetto alla realtà, una totalità alternativa. E tuttavia tale
totalità si rivela insufficiente.
Landolfi esordisce con sette racconti inseriti nella raccolta “Dialogo dei
massimi sistemi (1937). Nel racconto iniziale (che dà il titolo alla raccolta)
espone la poetica dell’autore: attraverso la parabola del personaggio che crede
di avere scritto poesie in persiano e si accorge poi di avere adoperato una
lingua inesistente, Landolfi vuole suggerire che la poesia e la letteratura in
generale sono composte in una lingua prsonale e originale, ai limiti
dell’incomunicabilità o addirittura dell’inesistenza.
La sua parabola artistica si divide in due fasi distine: la prima va dal 1937 al
1950 ed è caratterizzata dal rispetto della durata e dell’articolazione narrativa;
la sconda va dal 1953 al 1967 ed è qualificata dalla frustrazione del tessuto
narrativo e dalla annotazione diaristica in cui l’aspetto essenziale e meditativo
prevale nettamente su quello del racconto vero e proprio. La seconda fase
appare maggiormente sperimentale e ncontrò per questo il favore di alcuni
autori della neoavanguardia (come Sanguineti). Ma la prima risulta più
inquietante, per la prevalenza di un senso dell’ignoto e del mistero.
o Sergio Corazzini, nato a Roma nel 1886, le sue poesie pubblicate fra i
18anni e la morte, causata da una grave forma di tubercolosi. Tra le sue
raccolte ricordiamo “Dolcezze”, prima ad essere pubblicata dall’autore nel
1904. Nelle sue poesie è evidente una lucida consapevolezza della poesia e
della condanna che pesa su un’adolescenza che non poté mai trasformarsi in
età adulta, infatti ricordiamo la sua morte a soli 21 anni. Celebre la sua
negazione “io non sono un poeta, piuttosto un piccolo fanciullo che piange”.
Corazzini quindi si nega come poeta e si dichiara fanciullo. Ma la figura del
fanciullo di Corazzini, pur richiamando il fanciullo di Pascoli non ne ha la
stessa funzione sociale, egli non è garante di un privilegio. Il fanciullo di
Corazzini, dichiarandosi non-poeta, prende atto della crisi che investe nella
società moderna quel privilegio e quella funzione.
Ricordiamo Corazzini per il rovesciamento della sovrapposizione ARTE-
VITA teorizzata da D’Annunzio. Vita = quella di un giovane malato. Arte =
non aspira più al sublime ma all’autenticità, come esperienza reale del
dolore.
o Marino Moretti, nato in provincia di Forlì, ma visse a Firenze nei primi anni
del secolo. È il maggior rappresentante del gruppo emiliano - romagnolo dei
crepuscolari. Moretti rappresenta la condizione del poeta quale condizione
comune e grigia, esibendo la mancanza dei privilegi sociali o conoscitivi
tanto nella scelta dei temi, sempre umili e quotidiani, quanto nelle scelte
metrico formali, ispirate a una consapevole monotonia. Il mondo piccolo-
borghese, costituisce lo sfondo della poesia di Moretti; ricordiamo fra le sue
raccolte di poesie più importanti “Poesie di tutti i giorni” e “il giardino dei
frutti”.
5. Il Futurismo: Il periodo d’oro del Futurismo italiano va dal 1909, anno in cui
Marinetti pubblica a Parigi il manifesto del movimento sul “Figaro”, all’inizio
degli anni Venti, allorché il cambiamento generale nel clima culturale allenta la
tensione avanguardistica e la convergenza col fascismo tande a fare del
Futurismo, paradossalmente, un’accademia ufficiale. Tuttavia il movimento si
prolunga fino alla morte del suo fondatore nel 1944.
L’impegno a creare un’arte omologa alla società industriale e tecnologica più
avanzata implica nei futuristi la necessità di combattere la tradizione, i musei,
ogni concezione umanistica e classicistica. Il pubblico, legato al passato, deve
essere provocato e costretto attraverso uno choc violento ed accettare la nuova
tendenza. In poesia ciò comporta dapprima la teorizzazione del verso libero,
poi quella delle parole in libertà e della distruzione della sintassi.
Fanno parte di questo movimento sia pittori
come Boccioni e Soffici (che fu anche notevole poeta), sia i poeti come
Marinetti, Palazzeschi e Govoni (per un certo periodo).
La personalità in ogni senso centrale del
Futurismo italiano è comunque Filippo Tommaso Marinetti: Nato ad
Alessandria d’Egitto da ricchi genitori liguri nel 1876, compie gli studi
superiori tra Parigi e Genova, dove si laurea in legge. La produzione letteraria
giovanile è prevalentemente in francese. Si impegna attivamente per la
diffusione del Futurismo e per la fortuna del movimento, elaborando numerosi
programmi e manifesti, e organizzando mostre. Nel 1909 pubblica il
“Manifesto del Futurismo”, cui seguono, negli anni successivi, altri interventi.
Violentemente interventista, partecipa al primo conflitto mondiale. Aderisce
poi al movimento fascista. L’importanza di Marinetti come poeta è assai
inferiore a quella dell’organizzatore di cultura e del teorico. Né, più in
generale, il Futurismo ha prodotto poeti di rilievo (mentre significativa fu
l’esperienza futurista di alcuni scrittori, come Palazzeschi). Marinetti, nei suoi
testi più fedeli alle regole da egli stesso, presenta soluzioni paro liberiste
(parole in libertà, senza nessi logico-sintattici).
7. Clemente Rebora: Nasce a Milano nel 1885, nel corso della sua vita
collabora ad alcune riviste letterarie fra cui “La Voce” dove pubblica
“Frammenti lirici”, partecipa alla prima guerra mondiale finché non cade
vittima di uno shock nervoso che lo porterà al congedo. Rebora appartiene alla
tendenza espressionista dei poeti della Voce, che spiccarono per produzione del
corso degli anni Dieci. Importante punto di svolta nella vita del poeta è la
conversione religiosa degli anni Venti che portò ad una modificazione radicale
nello stile e nelle tematiche della sua produzione. Rebora rappresenta il caos
dell’esistenza, c’è una ricerca disperata di un significato, spasmodica tendenza
a portare ordine e razionalità a imporre una redenzione etica. Con Rebora si
parla di atletismo agnostico, cioè sfida solitaria ad affrontare la realtà nello
sforzo di dare un ordine e un significato.
8. Camillo Sbarbaro: Nasce in provincia di Genova nel 1888, condusse una vita
appartata e fu un grande studioso di liriche, il suo primo volumetto di poesie
esce nel 1911 sotto il nome di Resine, il secondo nel 1914, Pianissimo, raccolta
di versi significativa per il poeta che ne ha curato due edizioni. Fa parte dei
“poeti vociani”, ovvero, poeti che collaborano con “La Voce”, periodico di
cultura diretto da Prezzolini dal 1908 al 1914 e trasformato in rivista da De
Robertis fino al 1916. La poesia di Sbarbaro rientra nelle coordinate
dell’espressionismo, che caratterizza i primi due decenni del secolo. Sbarbaro
scrive dominato da un tono pacato e oggettivo, a metà fra narrazione e
autoanalisi. Il protagonista, il soggetto lirico si presenta come un fantoccio, un
sonnambulo, un esistenza ridotta alla condizione di oggetto, alienata. Questo
fantoccio-sonnambulo, riporta alla condizione del poeta, non esiste più il poeta
vate, ma si riduce allo status di uomo di massa, degradato. L’unica soluzione
che gli resta è quella di diventare spettatore di se e rassegnarsi alla scissione
dell’io-> tema dello sdoppiamento: (topos della poesia espressionista).
Dipende dall’impossibilità di entrare in rapporto reale con le persone e con gli
oggetti della civiltà moderna.
Figura dell’ubriaco in Sbarbaro: è una forma diversa di essere angeli: Nel
Novecento infatti “l’alzare il gomito” dell’ubriaco è visto come una sorta di
volo rattrappito. Questa figura viene ripresa da Montale nella poesia “Forse un
mattino andando”
9. Luigi Pirandello: Nasce nel 1867 nei pressi di Agrigento. Con Pirandello
entrano nella letteratura italiana alcuni caratteri fondamentali della ricerca dell’
Avanguardia europea nel primo Novecento, come la crisi per le ideologie, il
relativismo, il gusto per il paradosso, la scelta della dissonanza e
dell’umorismo, il gusto per il grottesco e l’allegoria. L’umorismo in Pirandello
nasce da un limite ontologico dell’uomo, che vive in un mondo privo di senso
e crea degli autoinganni e delle illusioni per dare un significato alla propria
esistenza; la nascita di questo malessere è una conseguenza alla modernità, che
induce a una percezione relativa di ogni fede e di ogni valore. Ne
deriverebbero da qui un sentimento di disincanto e una tendenza nichilista.
o “Il fu Mattia Pascal” fu scritto nel 1903, dopo una grave crisi familiare che
pose Pirandello in cattive condizioni economiche e scatenò la malattia
mentale della moglie. Il romanzo è suddiviso in tre parti, nel primo capitolo
si ha la fine della storia, il romanzo infatti è narrato dalla fine, si tratta di un
romanzo di formazione alla rovescia. La conclusione del romanzo non
vuole affermare l’accettazione dello stato civile, Mattia Pascal obietta di
non essere rientrato nella legge né di volervi rientrare e di aver rinunciato a
qualsiasi illusione d’identità, sia individuale che sociale. I temi principali
sono:
10. Federigo Tozzi: Nasce a Siena nel 1883, figlio di un contadino violento e
dispotico, e di una madre incapace di opporsi alla brutalità del coniuge. Tozzi
cresce, quindi, in un ambiente familiare ostile, si oppone al volere del padre nel
dover occuparsi della fattoria e dei poderi, viene così giudicato come un
teppista indisciplinato. Si innamora di Isola, ragazza sensuale ed astuta, che poi
ritroverà a Firenze incinta di un altro uomo (sarà la protagonista del suo primo
romanzo “Con gli occhi chiusi”), e comincia una corrispondenza epistolare con
una sconosciuta, Emma Palagi, che poi diventerà sua moglie, e con cui si
trasferì a Roma dal 1914-1920 per entrare a far parte di un mondo culturale e
letterario più ampio. Si appassiona di psicologia, soprattutto attraverso i
“principi di psicologia” di William James che esercitò una significativa
influenza sulla nascita del romanzo inglese fondato sullo “stream of
consciousness”. Intanto una malattia venerea e le conseguenze alla vista da
questa procurategli lo costringono all’isolamento più totale e ad una grave crisi
esistenziale da cui esce attraverso la conversione religiosa.
L’anno di svolta è il 1913, in cui fonda, con l’amico Domenico Giuliotti, la
rivista “La Torre”, che si rivolge ai giovani d’Italia per persuaderli ad un
sovversivismo di destra, ispirato ad un cattolicesimo medievale. Il 1913 è però
l’anno della stesura di “Con gli occhi chiusi”.
La poetica di Tozzi è quella del “un qualsiasi misterioso atto nostro” fondato
sullo svuotamento della trama tradizionale. All’autore non interessa una
narrativa di fatti basata sull’azione, ma un qualsiasi misterioso atto nostro,
magari il più banale nel quale, però, si esprime l’ondeggiamento e
l’oscillazione degli stati psicologici. Pur avvicinandosi allo “stream of
consciousness novel”, Tozzi se ne differenzia per il tentativo di lasciare
un’apparente intelaiatura tradizionale, fondata su personaggi oggettivi e su
ambienti costruiti con cura realistica. In realtà questa “impalcatura viene
svuotata dall’interno. Il punto di vista non è mai quello di un narratore esterno
ma è sempre calato nella dimensione onirica ed allucinata dei personaggi. Ne
deriva una tensione grottesca e deformante, un’atmosfera di oppressione, che
possono essere paragonate a quelle analoghe di Kafka, lo scrittore europeo più
vicino a Tozzi.
Da rigettare qualunque ipotesi di adesione di Tozzi al Naturalismo in quanto
quest’ultimo, nella persona dei suoi autori, scrive per spiegare la realtà, mentre
Tozzi non sa spiegarla e perciò scrive. I l
cattolicesimo di Tozzi non ha niente di confessionale, il Dio di Tozzi è un
Padre terribile, figura del padre biografico; non dà risposte e significati, resta
assurdo, immotivato, pur esigendo obbedienza totale.
13.Pier Paolo Pasolini: Nasce a Bologna nel 1922, e qui compie e conclude gli
studi universitari in Lettere. La severa durezza del padre e la mitezza
dell’amatissima madre sono alla base di un profondo conflitto edipico al quale
è da ricollegare la stessa omosessualità del poeta. Dal 1960 in poi la scoperta
del cinema come mezzo espressivo porta Pasolii al massimo della fama non
solo nazionale.
All’alba del 1975 Pasolini è ritrovato assassinato presso Fiumicino, ma la
cattura del giovane colpevole non basta a chiarire le incertezze sui modi e sulle
cause del delitto. L a
grande varietà dell’impegno artistico e intellettuale nel corso di un trentennio
rende assai difficile la valutazione delle poesie di Pasolini. Lo straordinario
successo dell’autore a partire soprattutto dagli anni Sessanta non si deve
certamente alle opere poetiche ma a quelle narrative e soprattutto all’attività di
regista cinematografico: “Accattone” (1961), poi “Uccellacci e uccellini” (con
la partecipazione del grande Totò), “Le mille e una notte”, “Decameron”.
Pasolini vede tra la scrittura letteraria e la realizzazione di un film una
differenza soprattutto tecnica; e ritiene dunque possibile proseguire per mezzo
del cinema la propria ricerca di romanziere e poeta. Il cinema, anzi, consente
secondo Pasolini una più diretta adesione realistica all’oggetto. I l
cinema è una tecnica che, in questa prospettiva, è intesa a dare alla realtà un
significato. Il cinema finge di considerare la vita un punto di vista del suo
compimento, cioè quale conclusa e definita. Il cinema ha, rispetto alla materia
narrata, lo stesso potere di significazione che ha la morte rispetto alla vita
umana: bloccandone lo svolgimento temporale, le permette di esprimersi e di
essere conosciuta, la rende narrabile e comprensibile.
La grande notorietà consente al poeta di intervenire efficacemente su questioni
culturali e socio-politiche, assumendo un punto di vista critico-radicale nei
confronti del sistema borghese e della rivoluzione antropologica operata dal
capitalismo; idee sostenute particolarmente sulle colonne del “Corriere della
Sera”. All’inizio degli anni
Settanta Psolini è l’intellettuale ufficiale dell’opposizione culturale, il portatore
di uno scandalo politico (il marxismo non ortodosso) e personale
(l’omosessualità).
16. Andrea Zanzotto: nasce a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, nel 1921,
si laurea in Lettere a Padova nel 1942. Muore a Congliano nel 2011. Rimase
sempre molto legato al suo paese natìo. Per molti anni ha insegnato alle scuole
medie.
Egli ha esordito nel clima degli anni Cinquanta, ma si è pienamente affermato
solo con la produzione più sperimentale degli anni Sessanta. Come per
molti altri poeti del Novecento, anche per Zanzotto la riflessione e la ricerca
sul linguaggio costituiscono un momento di decisiva impotanza. E però,
rispetto alle due ipotesi estreme degli ermetici (lingua e poesia = verità) e della
neoavanguardia (lingua = falsità e inautenticità), egli si colloca in un punto
defilato che costituisce la prima ragione della sua originalità. Da una parte per
lui la lingua è, nella società massificata, il luogo massimo dell’inautenticità e
dell’alienazione, per responsabilità soprattutto dei mass media; ma d’altra parte
la lingua è anche il deposito di usi e di significati passati e quindi in essa è
presente la profondità dell’intera sua storia. Nella lingua dunque è depositata la
vastità dell’esperienza umana. Non sorprende dunque che
Zanzotto sia giunto all’uso del dialetto in parecchi suoi testi e abbia recuperato
i modi del linguaggio infantile (il “petèl”), con i suoi balbetìi e le sue
onomatopee. Nella lingua c’è un residuo vitale e a Zanzotto interessa
recuperare tale residuo che giace sepolto sotto i morti detriti dell’inautenticità e
dell’insignificanza. Questi morti detriti corrispondono alla lingua presente dei
vivi, e il residuo vitale è riconosciuto piuttosto nella morte che nella vita: il
linguaggio dei vivi è il linguaggio dell’insensatezza e del nulla, mentre la
lingua dei morti e del passato può ancora recuperare un senso di presenza e di
vita. Ciò che è più profondo è ciò che contiene la potenzialità di mostrare
ancora un sentiero, una salvezza. Il riscatto avviene solo nel linguaggio.
17. Paolo Volponi: visse tra Urbino e Milano (1924-1994). Il suo impegno
letterario è diviso tra poesia e narrativa. Tale fatto aiuta in parte a spiegare la
cura riservata nei romanzi alla scrittura (di straordinaria intensità) e il taglio
prevalentemente narrativo delle opere poetiche. La forma prevalente è quella
del poemetto. Il poeta organizza gli elementi dell’esperienza in modo narrativo,
quasi raccontando un fatto preciso; il fine, così, non è quello di coinvolgere il
lettore attraverso uno sfogo sentimentale, ma quello di comunicare con lui
attraverso la razionalità della struttura testuale.
La ricerca di Volponi si contrappone alla tradizione simbolistica e
all’esperienza ermetica; anche se le sue prime raccolte (“Il ramarro”, 1948, e
“L’antica moneta”, 1955) risentono di tali influenze. Con “Le porte
dell’Appennino” (1960) si apre una nuova fase della ricerca poetica,
confermata poi dalle raccolte successive.
La caratteristica fondamentale della poesia di Volponi sta nell’impegno
discorsivo, meditativo e concettuale, e l’urgenza di esprimere la definita
posizione dell’io all’interno di tale impegno e rispetto ad esso. Convivono così
una forte tensione etico-politica e una messa in questione della dimensione
privata, psichica e corporale.
L’unione di impianto narrativo e di impegno ideologico implica, sul piano
formale, il rifiuto delle strutture metriche della tradizione lirica: al centro
dell’interesse volponi ano stanno la precisione del lessico e l’efficacia
ragionativa della sintassi, spesso complessa e ardita, nella prevalenza di periodi
lunghi, ricchi di interconnessioni. E’ prevalente la scelta del verso libero e sono
evitate soluzioni banali o consuete.
Quindi potremmo definire Volponi una figura anomala di letterato italiano,
l’unico che abbia avuto un’esperienza di lavoro, lunga e continuata, all’interno
del mondo industriale, dapprima alla Olivetti di Ivrea, poi alla FIAT di Torino,
come responsabile dei rapporti tra fabbrica e città. Allontanato dalla FIAT per
le sue dichiarazioni politiche a favore del PCI, Volponi è stato eletto senatore
nelle liste di questo partito a partire dal 1983 e poi ha aderito a Rifondazione
Comunista. E’ stato fra i redattori della rivista “Alfabeta”. Sul piano
letterario, Volponi muove dall’esperienza di “Officina” e del “Menabò”,
unendo impegno etico-politico e sperimentalismo formale, analisi sociale e una
forte capacità innovativa e inventiva. Il suo sperimentalismo consiste tanto
nell’introduzione di nuovi contenuti, quanto nella capacità di far confluire, e
deflagrare nell’attrito, poesia e prosa, motivi lirici e grotteschi. Questo magma
incandescente di generi e di modi diversi viene poi ricondotto a unità attraverso
l’uso del metodo del montaggio e della costruzione allegorica, costante
soprattutto nell’ultima sua produzione.
Dopo aver esordito come poeta negli anni Cinquanta, Volponi s’impegna,
durante gli anni Sessanta, nel romanzo, dapprima con “Memoriale” (1962), poi
con “La macchina mondiale” (1965). Entrambi i testi affrontano il tema
dell’alienazione dell’uomo contemporaneo, dei suoi disturbi psicologici.
20.La “Ronda”: rivista romana, pubblicata tra il 1919 ed il 1922. Con essa la
letteratura del dopoguerra si inaugura all’insegna del “ritorno all’ordine”. Un
gruppo ristretto di scrittori, che per lo più avevano attraversato l’esperienza
della “Voce” e il clima effervescente degli anni Dieci, esprimono qui
insoddisfazione per l’orizzonte tumultuoso e sperimentale del decennio
trascorso, per il generale turbamento degli equilibri formali e dei modelli di
comportamento intellettuale: lo stesso titolo della rivista, che si riferisce alla
“ronda” militare, indica un proposito quasi poliziesco di mettere ordine nel
disordine della cultura contemporanea. Alla contestazione ed alla ridiscussione
continua, all’esaltazione della giovinezza e dell’energia, i rondisti oppongono
un’esigenza di maturità: riaffermano l’aspetto istituzionale della letteratura e il
rilievo della tradizione. Rifiutano l’immersione totale e indiscriminata
dell’esperienza artistica nel flusso del presente: propongono di ricondurla ai
suoi limiti, al suo spazio professionale, in un orizzonte di matura coscienza
borghese, fuori da troppo stretti intrecci con la politica. Le posizioni dei singoli
autori, tra loro diverse, presentano sfumature molteplici; ma questa ricerca
dell’ordine si risolse comunque ancora una volta in un progetto classicistico.
“La Ronda” infatti suggerì un modello di classicismo “moderno”, che si
rifacesse a Leopardi e Manzoni. Ma questo programma restò indeterminato,
non riuscì a riempirsi di contenuti, approdò ad una nuova poetica del
frammento, lontana dall’irruenza espressionistica e dall’intensità lirica del
frammento vociano. Tra i suoi esponenti Vincenzo CARDARELLI, I fratelli
Giorgio ed Alberto DE CHIRICO (pittore di fama internazionale il primo e
musicista e scrittore il secondo, quest’ultimo noto con lo pseudonimo Alberto
SAVINIO). La proposta di un classicismo moderno sarà poi ripresa da Montale
e poi dalla rivista “Solaria”.
Una funzione più rilevante ebbe “Il Regno”, fondata nel 1903 da Enrico
Corradini per propagandare il nazionalismo, l’imperialismo, il disprezzo per la
democrazia. Essa attrasse molti giovani, ma il linguaggio letterario, scolastico,
non ne favorì un reale radicamento di massa.
“La Voce” realizza un’inversione di tendenza: essa nasce rifiutando gli
atteggiamenti aristocratici di “Leonardo” e rifiutando anche una concezione
dell’attività intellettuale come geniale dilettantismo. Essa usa un linguaggio
nuovo, moderno, agile ed incisivo; nasce come settimanale e inizia poi a
diffondersi anche nelle province, nei piccoli centri, nelle campagne. Essa mira,
insomma, a creare un “movimento d’opinione”. Il titolo della rivista indica
espressamente l’intento di dare “voce” alla uova generazione di intellettuali,
perché questa possa affermarsi come classe dirigente. E’ con questa rivista che
in Italia nasce il moderno ceto intellettuale.
“La Voce” nasce a Firenze nel dicembre 1908, per iniziativa di Giuseppe
Prezzolini. La rivista ha una storia complessa, che si può dividere in fasi
diverse. La prima fase è la più viva, la più ricca e stimolante: va dal dicembre
1908 al novembre 1911. In questi primi anni la rivista subisce l’influenza
decisiva di uno dei suoi più attivi collaboratori, Gaetano Salvemini,
democratico e antigiolittiano. Ma la guerra di Libia segna la svolta: Salvemini
si oppose, insieme a molti vociano, all’impegno bellico ed alla spedizione
libica, ma dopo lo scoppio delle ostilità preferirono lasciar cadere la questione
e Salvemini si ritirò dalla rivista fondando “L’Unità”. A questo punto inizia una
seconda fase, assai confusa e di crisi sempre più profonda, che si prolungò
dalla fine del 1911 alla fine del 1913. Il lavoro redazionale passo a Giovanni
Papini, che cercò di dare alla rivista un carattere più letterario ed artistico. Ma
nel giro di poco “La Voce” apparve priva di quell’originario mordente. Il ruolo
preponderante che vi assunse Papini nel 1912 e la sempre più evidente
tendenza a una svolta antidemocratica, indussero alcuni dei collaboratori più
validi a ritirarsi. Comincia a questo punto la terza fase, che occupa tutto l’anno
1914: Prezzolini, che riprese in pugno la rivista, ne modificò la periodicità (da
settimanale a quindicinale) e la trasformò in organo dell’”idealismo militante”
e della filosofia di Giovanni Gentile. Si accentuò in questo periodo la spinta
antidemocratica e la scelta nazionalistica, che indusse ad un’accesa propaganda
interventista.
La prima “Voce” propose il decentramento amministrativo, la riforma
del codice della famiglia, il divorzio, il suffragio universale maschile (ma aprì
anche una discussione sulla possibilità di allargare il voto alle donne). In
conclusione, essa svolse, nella prima fase della sua attività, un’utile azione di
rinnovamento e di democratizzazione del costume e della cultura.
“L’Ordine nuovo” è un settimanale nato a Torino nel 1919, nel vivo della
lotta di classe alla FIAT e della esperienza dei Consigli Operai. Fu diretto da
Antonio Gramsci, e anche da Togliatti (poi segretario PCI), Terracini e Tasca.
Dopo la fondazione del Partito Comunista ad opera di Gramsci e di Bordiga, il
settimanale si trasformò in quotidiano politico del nuovo partito.
22. Il Romanzo nel Novecento: nel primo quarto del Novecento si assiste in tutta
Europa alla distruzione e alla rifondazione delle forme narrative. Viene
distrutta la forma tradizionale ottocentesca, ritenta “vecchia” (anche il romanzo
decadente viene considerato superato), e viene rifondato il romanzo su basi
diverse. Questi autori (che sono coetanei di alcuni “tradizionali”) non si
limitano a mettere in crisi le forme del passato ma ne inventano di nuove,
basate sul “flusso di coscienza” del monologo interiore (Joyce), sulle
“intermittenze del cuore” e sul lavoro della memoria (Proust), sul “romanzo-
saggio” (Musil), su strutture aperte e destrutturate del racconto che pongono in
causa la successione logica e cronologica degli avvenimenti (Svevo). Nasce
così il romanzo del Novecento, una nuova forma narrativa capace di rendere
dall’interno la vita interiore dei personaggi, la loro visione del mondo
deformata ed onirica, i loro incubi, le loro allucinazioni. Il crescente senso di
disadattamento e di estraneità dell’intellettuale negli anni dell’Imperialismo,
della guerra e del dopoguerra, il suo sentirsi, insieme, borghese ed
antiborghese, la sua crisi d’identità sociale e psicologica introducono nuovi
temi nell’immaginario degli scrittori: quello della nevrosi (Svevo), della
memoria (Proust), della malattia (Mann), della dimensione onirica (Kafka),
dell’“uomo senza qualità (Musil) e dell’inettitudine (Svevo, Tozzi, Pirandello).
Soprattutto quelli della malattia e della inettitudine bene si prestano a
rappresentare e definire la condizione di esclusione dell’intellettuale nella
società primo novecentesca. Alcuni di questi temi poi si coagulano intorno alla
figura del padre: un padre autoritario e incombente che rappresenta la sicurezza
borghese ma anche la sua intrinseca vuotezza, impersona la forza della legge e
dell’autorità ma spesso anche la sua insensatezza. Una figura paterna di questo
tipo rafforza il senso di impotenza, di inettitudine, di malattia del figlio. Motivi
psicologici e psicoanalitici desunti da Freud (complesso di Edipo e desiderio
inconscio di uccidere il padre), motivi sociali (opposizione alla società), e
motivi letterari (scrittori che vogliono rompere la tradizione ed uccidre i padri
ottocenteschi) confluiscono nel tema del padre, quale compare, con particolare
forza, in Kafka (cfr. Lettera al padre) e in Tozzi (in Congli occhi chiusi e le
novelle), ma anche in Svevo (La Coscienza di Zeno) e in Pirandello (Uno,
nessuno e centomila). Oltre al padre è in discussione anche il ruolo della
donna, che è insieme madre, amante e moglie.
23. Solaria: l’Umanesimo di Firenze, fra la fine degli anni Venti e la prima metà
dei Trenta, non è quello romano della “Ronda”; è meno provinciale, più intriso
di cultura europea. Inoltre a Firenze sono ancora attivi il gusto di “Lacerba” e il
moralismo vociano, quale era stato continuato dalla rivista gobettiana “Il
Baretti”. Tutti questi elementi confluiscono nella più importante rivista
letteraria fra le due guerre, la fiorentina “Solaria” (1926-1934). Essa riprende sì
dalla “Ronda” la tendenza all’autosufficienza della letteratura e alla decenza
dello stile, nonché dell’equilibrio, della compattezza, della classicità, ma li
vuole unire ad un’inquietudine culturale europea, al gusto lacerbiano del
divertimento e del sogno svagato e al moralismo di derivazione vociana e
gobettiana.
Questa compresenza di motivazioni e questa convivenza di istanze diverse,
letterarie, morali e ideologiche, spiegano la fine di “Solaria” a metà degli anni
Trenta e la successiva scissione del gruppo redazionale in due tronconi: i
“letterati-letterati”, guidati da Bonsanti, che diedero vita a una rivista in
continuazione con l’originale intitolata “Letteratura” (1937); l’altro gruppo
delle “idee” che diedero vita a “La Riforma letteraria”, in polemica con l’altro
troncone e con gli ermetici. A
“Solaria” collaborarono quasi tutti i principali autori del periodo, da Montale e
Gadda, a Vittorini, Quasimodo, e critici di grandissimo valore come
Debenedetti e Contini. Inoltre la rivista dedicò numeri speciali a Svevo, a Tozzi
e a Saba. Recensiva
tempestivamente i maggiori autori stranieri appena uscivano in lingua originale
e ne traduceva prose e poesie. Grazie a “Solaria” comincia a penetrare nella
letteratura italiana la lezione del grande romanzo europeo d’avanguardia: di qui
in avanti Kafka, Joyce, Proust, Svevo diventano letture obbligate dei letterati
italiani.
27. Neorealismo: nasce dal "nuovo realismo” degli anni Trenta. Ma ha caratteri
propri, essendo caratterizzato da un più deciso impegno ideologico e morale e
da una maggiore fedeltà alla tradizione nell’impianto narrativo. A una prima
fase di Neorealismo come tendenza spontanea o “corrente
involontaria” (1943-48) ne segue una, a partire dal 1949, più organizzata
perché articolata in una poetica coerente: il romanzo deve avere protagonisti
popolari “positivi”, fare intravedere la prospettiva socialista, e descrivere i
rapporti fra le classi. Tuttavia il romanzo neorealista non sempre si attiene a
queste norme. In genere si limita al recupero di alcuni aspetti strutturali del
romanzo ottocentesco, realista o verista, come la trama, l’oggettività dei
personaggi, l’autorità del narratore. Ma i risultati sono modesti. Il principale
rappresentante del Neorealismo è Vasco Pratolini (Firenze 1913-Roma 1991),
che diresse con Gatto la rivista ermetica “Campo di Marte”. La prima opera
importante è “Il quartiere” (1945), storia di un gruppo di giovani fra il 1932 ed
il 1935, narrata da uno di loro, Valerio. Vi confluiscono tutti gli elementi della
formazione di Pratolini: il populismo, il lirismo dei ricordi, il realismo storico
ed ambientale (il quartiere è quello di Santa Croce a Firenze negli anni della
guerra in Etiopia). Una continuazione de “Il quartiere” è “Cronaca
familiare” (1947), in cui si racconta la storia del fratello di Valerio, Ferruccio,
che si perde e muore proprio perché estraneo alla “solidarietà collettiva” del
quartiere. Il Neorealismo come tendenza di scuola si impose
con altri due romanzi, “L’Agnese va a morire (1949) di Renata Viganò
(1900-1976) e “Le terre del Sacramento” (1950) di Francesco Jovine
(1902-1950). Il periodo che va del 1943 al 1948
è quello del Neorealismo come “corrente involontaria” (Corti). Nell’ultimo
periodo di guerra e nel primo dopoguerra domina una smania di raccontare e di
testimoniare: sorge un movimento spontaneo e caotico ma volto comunque al
realismo e all’impegno etico e politico. E’ questo il momento dei primi
romanzi e racconti del Neorealismo (come quelli di Calvino) e soprattutto delle
“cronache”, delle memorie, delle testimonianze.
E’ inseparabile da questo clima “Cristo si è fermato a Eboli
(1945) di Carlo Levi, opera che si situa al confine tra generi diversi: per certi
aspetti un libro di memorie quasi diari stico, per altri di un saggio di etnologia
o di sociologia, per altri ancora di un romanzo. Il piemontese Carlo Levi
(1902-1975), confinato dal regime fascista in un paese della Lucania, dove
visse tra il 1935 ed il 1936, diede testimonianza di questa sua esperienza
qualche anno dopo, fra il 1943 ed il 1944, scrivendo appunto l’opera suddetto.
Seguace di Gobetti e del suo liberalismo illuministico e democratico, levi era
aperto anche alla filosofia irrazionalistica di Bergson. Di qui la compresenza di
interessi e atteggiamenti diversi: da un lato il bisogno razionalistico di
comprendere e di spiegare scientificamente e politicamente, dall’altro
l’attrazione per l’irrazionale, la curiosità non priva di turbamento per la realtà
oscura e profonda dell’inconscio; e inoltre: da un lato la consapevolezza della
problematica meridionalistica, dall’altro, invece, la mitizzazione di un mondo
arcaico, immobile.
31. Giorgio Bassani: di famiglia ebrea, nato nel 1916. Egli si froma negli anni
Trenta e rientra in quella tradizione narrativa borghese, consapevole delle
innovazioni introdotte da Proust e da Svevo, ma volta a riassorbirle in una
scrittura più tradizionale, in cui il grado d’inventività, talora persino cospicuo,
non giunge mai però ad urtare la sensibilità comune. I libri di Bassani sono
stati unificati sotto il titolo comune “Il romanzo di Ferrara”, e infatti sono
dedicati alla borghesia ebraica ferrarese, fra fascismo e dopoguerra. Il ciclo
comprende “Cinque storie ferraresi (1956), “Gli occhiali d’oro” (1958), “Il
giardino dei Finzi Contini” (1962), “Dietro la porta” (1964), “L’airone” (1968)
e i racconti “L’odore del fieno” (1972).
Bassani rivela una narrativa fatta di sfumature, di raccordi simbolici, di sofferta
intimità. I personaggi ebraici riflettono un destino di emarginazione e di
solitudine che è quello stesso dell’intellettuale nella società contemporanea.
Talora è una intera famiglia ad essere travolta dalla persecuzione razziale; altre
volte ad essere emarginato è il singolo in quanto “diverso” (come il
protagonista de “Gli occhiali d’oro”, che è omosessuale).