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Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea

1. Massimo Bontempelli: rispetto al resto d’Europa l’Italia presenta un ritardo o


anomalia: mentre altrove il passaggio dall’Ottocento al Novecento è segnato
dalla progressiva importanza assunta dal regista, nel nostro paese questa figura
manca: Vige, in Italia, un sistema che fa perno sul grande attore, circondato da
“pertichini”, cioè da attori modesti che devono evidenziarne ancor più la
grandezza.
In Italia agì un’unica avanguardia organizzata, il Futurismo, che ebbe
particolare interesse per il teatro, contribuendo in modo decisivo a rinnovarlo.
Il Futurismo vuole distruggere tutti i generi teatrali (commedia, tragedia,
dramma) sostituendoli con le “battute in libertà”, con le fantasie surreali, con le
astrazioni concettuali.
L’influenza del Futurismo si osserva sia nell’evoluzione del teatro di varietà,
sia nel contributo di rinnovamento al teatro in prosa e, in particolare, alla
nascita del “teatro del grottesco”. Sul primo terreno essa agisce in modo
decisivo sulle farse di Ettore Petrolini e sulle macchiette di Raffaele Viviani
(1888-1950). L’estro satirico e parodico di Petrolini (1886-1936) enderà
immortale la macchietta romanesca di “Gastone”, risalente al 1921 e poi svolta
in due atti nell’opera omonima del 1924.
L’influenza sul teatro del “grottesco” si nota nella predilezione che i
drammaturghi di questa tendenza rivelano per la bizzarria, per il paradosso, per
la burattinizzazione dei personaggi, ridotti talora a marionette. D’altronde uno
dei principali rappresentanti del “teatro del grottesco”, Enrico Cavacchioli
(1885-1954), era convinto futurista.
L’esperienza del “grottesco” coinvolge anche Massimo Bontempelli (Como
1878 – Roma 1960), altro autore assai vicino a Pirandello. Dopo due
“grotteschi” del 1916 e del 1920, “Guardia alla luna” e “Siepe a Nord-Ovest”,
all’inizio degli anni Venti egli sviluppa la poetica del “realismo magico”, con
cui propone di partire dal dato realistico per trasfigurarlo in direzione magica e
fantastica. Da questo incontro “grottesco” e “realismo magico” nascono
“Nostra Dea” (1925), e sopratturro “Minnie la candida” (1926), capolavoro di
Bontempelli e fra le opere di maggior rilievo nel teatro fra le due guerre.
Il tema di “Minnie la candida” è il carattere artificiale e in autentico della
modernità. La vicenda prende avvio da una burla del fidanzato, Skaggerak, e di
un amico, Tirreno, i quali fanno credere a Minnie che i pesciolini nella
vaschetta siano costruzioni artificiali e che gli uomini che camminano per
strada possano esserlo. Minnie ne resta sconvolta. Ella si accorge infatti che gli
uomini obbediscono a regole convenzionali che li rendono automi, cosicché
tutti potrebbero essere trasformati in macchine e soprattutto diventa
impossibile distinguere uomini veri da quelli “fabbricati”. Minnie stessa
comincia a dubitare di sé e a pensare di essere stata anche lei “fabbricata”. Si
rifiuta dunque di seguire il fidanzato a New York dove dovrebbe sposarlo. Anzi
convince Tirreno e Skaggerak a rinchiudersi con lei in un alloggio per paura di
dover incontrare altri uomini meccanizzati. Infine si uccide lasciandosi
precipitare nel vuoto. (la coscienza dell’alienazione moderna diventa
allucinazione e follia).
Massimo Bontempelli fondò tra il 1926 ed il 1927 “900”, rivista legata al
movimento “Stracittà”, che si inserisce nel dibattito fascista (insieme a
“Strapaese”) sull’ordine di priorità e di importanza da assegnare a campagna
ed industria, a politica rurale e modernizzazione. “Stracittà” recupera il
modernismo cittadino dei futuristi, “Strapaese” prosegue il sovversivismo
antiborghese e campagnolo della tradizione lacerbiana (infatti è appoggiato da
Papini e Soffici). Il primo a darsi una rivista fu “Strapaese” attraverso “Il
Selvaggio”, fondato da Mino Maccari a Colle Val d’Elsa (Siena, 1924). Poi
rispose “Stracittà” con “900”.
Prima di teorizzare il “realismo magico”, Bontempelli aveva contribuito, come
già detto, al teatro del “grottesco” con l’obiettivo di fornire delle
“favole”rivolte al grande pubblico attraverso alcuni romanzi: “Il figlio di due
madri” (1929) e “Vita e morte di Adria e dei suoi figli” (1930).

2. Alberto Savinio: pseudonimo di Andrea Alberto De Chirico (1891-1952),


fratello del famoso pittore Giorgio De Chirico, si formò nelle avanguardie
internazionali, fra l’Espressionismo, Dadaismo e Surrealismo. Pittore
anch’egli, fu un narratore interessante che si ispirò direttamente all’ultima
corrente citata (Surrealismo). IL suo primo libro “Hermaphrodito” (1918), uscì
nelle edizioni della “Voce” e infatti si collega all’avanguardismo di questa
rivista; ma vi spicca già una tendenza non solo alla destrutturazione narrativa,
ma anche al paradosso. Anche i libri successivi dipendono chiaramente dal
Surrealismo, ma risentono anche della contemporanea proposta bontempelliana
del “realismo magico”

3. Tommaso Landolfi: si colloca anche lui su una linea che parte da quella di
Bontempelli e Savinio. Tommaso Landolfi nasce a Pico (in provincia di
Frosinone) nel 1908, visse tra Roma, Firenze e la Riviera ligure e morì nel
1979. Egli visse a contatto con l’ambiente culturale fiorentino ed in particolare
con il gruppo di scrittori e di poeti ermetici di “Campo di Marte”. Di qui
l’importanza che viene ad assumere la letteratura. Essa costituisce per Landolfi
un mondo “altro” rispetto alla realtà, una totalità alternativa. E tuttavia tale
totalità si rivela insufficiente.
Landolfi esordisce con sette racconti inseriti nella raccolta “Dialogo dei
massimi sistemi (1937). Nel racconto iniziale (che dà il titolo alla raccolta)
espone la poetica dell’autore: attraverso la parabola del personaggio che crede
di avere scritto poesie in persiano e si accorge poi di avere adoperato una
lingua inesistente, Landolfi vuole suggerire che la poesia e la letteratura in
generale sono composte in una lingua prsonale e originale, ai limiti
dell’incomunicabilità o addirittura dell’inesistenza.
La sua parabola artistica si divide in due fasi distine: la prima va dal 1937 al
1950 ed è caratterizzata dal rispetto della durata e dell’articolazione narrativa;
la sconda va dal 1953 al 1967 ed è qualificata dalla frustrazione del tessuto
narrativo e dalla annotazione diaristica in cui l’aspetto essenziale e meditativo
prevale nettamente su quello del racconto vero e proprio. La seconda fase
appare maggiormente sperimentale e ncontrò per questo il favore di alcuni
autori della neoavanguardia (come Sanguineti). Ma la prima risulta più
inquietante, per la prevalenza di un senso dell’ignoto e del mistero.

4. I Crepuscolari: La tendenza crepuscolare riguardò soltanto la poesia e non


diede vita a un movimento organizzato, tuttavia possiamo definire i confini di
una poetica comune sulla base numerose caratteristiche riscontrabili in vari
poeti. Il periodo in cui la poesia crepuscolare si sviluppa è assai circoscritto,
stendendosi tra il 1903, anno in cui escono le prime raccolte di Govoni e di
Palazzeschi, e il 1911, anno in cui Gozzano pubblica il suo secondo ed ultimo
libro di versi, “I colloqui”. Mentre interamente riconducibile all’esperienza
crepuscolare è l’opera poetica di Gozzano, di Corazzini e di Moretti, Govoni e
Palazzeschi sono riconducibili alla tendenza crepuscolare solo in modo
parziale e solo per un breve periodo: nel 1910 sono già entrambi schierati,
ancora una volta originalmente, nell’avanguardia futurista.

o Sergio Corazzini, nato a Roma nel 1886, le sue poesie pubblicate fra i
18anni e la morte, causata da una grave forma di tubercolosi. Tra le sue
raccolte ricordiamo “Dolcezze”, prima ad essere pubblicata dall’autore nel
1904. Nelle sue poesie è evidente una lucida consapevolezza della poesia e
della condanna che pesa su un’adolescenza che non poté mai trasformarsi in
età adulta, infatti ricordiamo la sua morte a soli 21 anni. Celebre la sua
negazione “io non sono un poeta, piuttosto un piccolo fanciullo che piange”.
Corazzini quindi si nega come poeta e si dichiara fanciullo. Ma la figura del
fanciullo di Corazzini, pur richiamando il fanciullo di Pascoli non ne ha la
stessa funzione sociale, egli non è garante di un privilegio. Il fanciullo di
Corazzini, dichiarandosi non-poeta, prende atto della crisi che investe nella
società moderna quel privilegio e quella funzione.
Ricordiamo Corazzini per il rovesciamento della sovrapposizione ARTE-
VITA teorizzata da D’Annunzio. Vita = quella di un giovane malato. Arte =
non aspira più al sublime ma all’autenticità, come esperienza reale del
dolore.

o Marino Moretti, nato in provincia di Forlì, ma visse a Firenze nei primi anni
del secolo. È il maggior rappresentante del gruppo emiliano - romagnolo dei
crepuscolari. Moretti rappresenta la condizione del poeta quale condizione
comune e grigia, esibendo la mancanza dei privilegi sociali o conoscitivi
tanto nella scelta dei temi, sempre umili e quotidiani, quanto nelle scelte
metrico formali, ispirate a una consapevole monotonia. Il mondo piccolo-
borghese, costituisce lo sfondo della poesia di Moretti; ricordiamo fra le sue
raccolte di poesie più importanti “Poesie di tutti i giorni” e “il giardino dei
frutti”.

o Guido Gozzano, nasce a Torino nel 1883, la vita di Gozzano fu condizionata


dalla tubercolosi che lo portò alla morte nel 1916. Gozzano rifiuta il
modello D’Annunziano, all’orgoglio della poesia vissuta da D’Annunzio
come un privilegio e un onore, egli risponde con la vergogna della poesia,
che rovescia e respinge il modello di riferimento, il binomio arte/vita fuse
tra loro rispondono a un significato del tutto diverso, dove l’arte è una
consolazione privata che ripaga il poeta dalle sue frustrazioni sociali ed
esistenziali, in tal modo l’arte prende il posto della vita come un sostituto
insufficiente e misero. L e
due raccolte più caratterizzanti della produzione gozzaniana sono “La via
del rifugio” e “I colloqui”.

5. Il Futurismo: Il periodo d’oro del Futurismo italiano va dal 1909, anno in cui
Marinetti pubblica a Parigi il manifesto del movimento sul “Figaro”, all’inizio
degli anni Venti, allorché il cambiamento generale nel clima culturale allenta la
tensione avanguardistica e la convergenza col fascismo tande a fare del
Futurismo, paradossalmente, un’accademia ufficiale. Tuttavia il movimento si
prolunga fino alla morte del suo fondatore nel 1944.
L’impegno a creare un’arte omologa alla società industriale e tecnologica più
avanzata implica nei futuristi la necessità di combattere la tradizione, i musei,
ogni concezione umanistica e classicistica. Il pubblico, legato al passato, deve
essere provocato e costretto attraverso uno choc violento ed accettare la nuova
tendenza. In poesia ciò comporta dapprima la teorizzazione del verso libero,
poi quella delle parole in libertà e della distruzione della sintassi.
Fanno parte di questo movimento sia pittori
come Boccioni e Soffici (che fu anche notevole poeta), sia i poeti come
Marinetti, Palazzeschi e Govoni (per un certo periodo).
La personalità in ogni senso centrale del
Futurismo italiano è comunque Filippo Tommaso Marinetti: Nato ad
Alessandria d’Egitto da ricchi genitori liguri nel 1876, compie gli studi
superiori tra Parigi e Genova, dove si laurea in legge. La produzione letteraria
giovanile è prevalentemente in francese. Si impegna attivamente per la
diffusione del Futurismo e per la fortuna del movimento, elaborando numerosi
programmi e manifesti, e organizzando mostre. Nel 1909 pubblica il
“Manifesto del Futurismo”, cui seguono, negli anni successivi, altri interventi.
Violentemente interventista, partecipa al primo conflitto mondiale. Aderisce
poi al movimento fascista. L’importanza di Marinetti come poeta è assai
inferiore a quella dell’organizzatore di cultura e del teorico. Né, più in
generale, il Futurismo ha prodotto poeti di rilievo (mentre significativa fu
l’esperienza futurista di alcuni scrittori, come Palazzeschi). Marinetti, nei suoi
testi più fedeli alle regole da egli stesso, presenta soluzioni paro liberiste
(parole in libertà, senza nessi logico-sintattici).

o Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani, Firenze 1885- Roma


1974). Non aderì alla “Voce”, ma a “Lacerba”, in quanto egli fu sempre
contrario ad un atteggiamento direttamente militamte e moralistico, quale
quello che ebbero molti vociani, preferendo i modi indiretti e giocosi delle
avanguardie esclusivamente artistiche. Infatti lui aderirà al Futurismo e
spiegherà che tale adesione è vissuta come avventura, dissacrazione e
divertimento, non come programma politico. La sua esperienza futurista fu
dunque esclusivamente letteraria; al centro della poetica dell’autore si pone
l’identità del poeta nella società di massa, non è più possibile guardare al
poeta come un portatore di verità e valori, ma la funzione sociale dell’artista
viene annullata dalla svalutazione dell’arte, ridotta a merce.
Infatti l’eroe del suo romanzo futurista “Il codice di Perelà” (1911) rifiuta
qualsiasi forma di aggressività, sceglie la leggerezza, la gentilezza,
l’inermità. Perelà è vissuto trentatré anni nella cappa di un camino. E’ stato
creato dal fumo di un camino ed educato dalle parle di tre vecchie che vi
sedevano intorno (Pena, Rete e Lama). All’età di trentatré anni (come il
Cristo), sceso dal camino e calzati un paio di stivali, va in città, provocando
lo stupore di tutti per la materia impalpabile di cui è fatto. Tutti vogliono
conoscerlo, fino al punto che è ricevuto dal re che gli affida l’incarico di
creare il nuovo codice del paese. La situazione si rovescia ed egli viene
processato e condannato. Dopo aver attraversato la città fra gli sputi della
folla, chiuso in cella, fugge per il camino sotto forma di una nuvola di fumo.
Si tratta di una favola allegorica dal senso enigmatico: un’opera
sperimentale, una sorta di antiromanzo. Palazzeschi inizia però la sua
attività letteraria come poeta, le tendenze crepuscolari in queste prime
raccolte sono evidenti, vige un tono semplice e ingenuo e un rifiuto della
tradizionale identità del poeta-vate, in Palazzeschi domina un’atmosfera
ingenua e giocosa, il poeta si immerge nella vita cercando di recuperare tutti
gli aspetti di irrazionalità e gioco. Palazzeschi si pone contro il perbenismo
borghese e contro la vita adulta, si avrà un’adesione al Futurismo dove vede
la possibilità di un rinnovamento generale della cultura e dei costumi,
capace di far riaffiorare, dietro il convenzionalismo borghese, il ritmo
imprevedibile e irrazionale della vita.

6. Dino Campana: nasce a Marradi, in provincia di Firenze, nel 1885; nella


poesia di Dino Campana convivono due tendenze apparentemente
inconciliabili, da un lato l’immediatezza quasi primitiva nel rapporto con la
realtà e nella sua rappresentazione, dall’altra l’influenza di modelli di forte
letterarietà. La stessa follia dell’autore, vittima di squilibri mentali già da
giovanissimo (certamente favoriti dalla ossessiva religiosità bigotta della
madre, infelice e gelida, che lo accusa addirittura di essere l’Anticristo) che lo
hanno portato a più riprese ad essere internato in manicomio, segnano un
incapacità al modello sociale e l’adesione al modello culturale del “poeta
maledetto”. Alla base della poesia di Campana c’è un sentimento lacerante di
esclusione e disarmonia. Viene perseguito dal poeta con insistenza un ideale di
reintegrazione dell’io nell’armonia profonda delle cose. Canti Orfici (1914) è il
mito centrale della tradizione simbolista, Campana insegue un’ideale di poesia
alta e sublime, come momento misterioso di identificazione con la vita
universale, e perciò come momento assoluto di verità. Il soggetto appare sulla
scena con i panni del vagabondo e dell’uomo sofferente fra la folla e nel
momento stesso in cui la poesia accoglie e comincia a rappresentare tale realtà,
rinunciando al ruolo armonizzante, essa è vissuta da Campana come una
condizione di sconfitta.

7. Clemente Rebora: Nasce a Milano nel 1885, nel corso della sua vita
collabora ad alcune riviste letterarie fra cui “La Voce” dove pubblica
“Frammenti lirici”, partecipa alla prima guerra mondiale finché non cade
vittima di uno shock nervoso che lo porterà al congedo. Rebora appartiene alla
tendenza espressionista dei poeti della Voce, che spiccarono per produzione del
corso degli anni Dieci. Importante punto di svolta nella vita del poeta è la
conversione religiosa degli anni Venti che portò ad una modificazione radicale
nello stile e nelle tematiche della sua produzione. Rebora rappresenta il caos
dell’esistenza, c’è una ricerca disperata di un significato, spasmodica tendenza
a portare ordine e razionalità a imporre una redenzione etica. Con Rebora si
parla di atletismo agnostico, cioè sfida solitaria ad affrontare la realtà nello
sforzo di dare un ordine e un significato.

8. Camillo Sbarbaro: Nasce in provincia di Genova nel 1888, condusse una vita
appartata e fu un grande studioso di liriche, il suo primo volumetto di poesie
esce nel 1911 sotto il nome di Resine, il secondo nel 1914, Pianissimo, raccolta
di versi significativa per il poeta che ne ha curato due edizioni. Fa parte dei
“poeti vociani”, ovvero, poeti che collaborano con “La Voce”, periodico di
cultura diretto da Prezzolini dal 1908 al 1914 e trasformato in rivista da De
Robertis fino al 1916. La poesia di Sbarbaro rientra nelle coordinate
dell’espressionismo, che caratterizza i primi due decenni del secolo. Sbarbaro
scrive dominato da un tono pacato e oggettivo, a metà fra narrazione e
autoanalisi. Il protagonista, il soggetto lirico si presenta come un fantoccio, un
sonnambulo, un esistenza ridotta alla condizione di oggetto, alienata. Questo
fantoccio-sonnambulo, riporta alla condizione del poeta, non esiste più il poeta
vate, ma si riduce allo status di uomo di massa, degradato. L’unica soluzione
che gli resta è quella di diventare spettatore di se e rassegnarsi alla scissione
dell’io-> tema dello sdoppiamento: (topos della poesia espressionista).
Dipende dall’impossibilità di entrare in rapporto reale con le persone e con gli
oggetti della civiltà moderna.
Figura dell’ubriaco in Sbarbaro: è una forma diversa di essere angeli: Nel
Novecento infatti “l’alzare il gomito” dell’ubriaco è visto come una sorta di
volo rattrappito. Questa figura viene ripresa da Montale nella poesia “Forse un
mattino andando”

9. Luigi Pirandello: Nasce nel 1867 nei pressi di Agrigento. Con Pirandello
entrano nella letteratura italiana alcuni caratteri fondamentali della ricerca dell’
Avanguardia europea nel primo Novecento, come la crisi per le ideologie, il
relativismo, il gusto per il paradosso, la scelta della dissonanza e
dell’umorismo, il gusto per il grottesco e l’allegoria. L’umorismo in Pirandello
nasce da un limite ontologico dell’uomo, che vive in un mondo privo di senso
e crea degli autoinganni e delle illusioni per dare un significato alla propria
esistenza; la nascita di questo malessere è una conseguenza alla modernità, che
induce a una percezione relativa di ogni fede e di ogni valore. Ne
deriverebbero da qui un sentimento di disincanto e una tendenza nichilista.
o “Il fu Mattia Pascal” fu scritto nel 1903, dopo una grave crisi familiare che
pose Pirandello in cattive condizioni economiche e scatenò la malattia
mentale della moglie. Il romanzo è suddiviso in tre parti, nel primo capitolo
si ha la fine della storia, il romanzo infatti è narrato dalla fine, si tratta di un
romanzo di formazione alla rovescia. La conclusione del romanzo non
vuole affermare l’accettazione dello stato civile, Mattia Pascal obietta di
non essere rientrato nella legge né di volervi rientrare e di aver rinunciato a
qualsiasi illusione d’identità, sia individuale che sociale. I temi principali
sono:

▪ Famiglia sentita come nido o come prigione,

▪ L’inettitudine: Pascal è un inetto, reso inadatto da questa sua


tendenza allo sdoppiamento, che lo riduce ad essere un
estraneo nei confronti della vita e di se stesso,

▪ Lo specchio, il doppio e la crisi d’identità,

▪ La modernità, la città, il progresso

o “Sei personaggi in cerca d’autore” romanzo idealizzato nel 1917, ruota


intorno al tema dell’incesto fra padre e figlia. L’opera non è suddivisa in
atti, all’interno del dramma viene rappresentata la commedia da fare. Sulla
scena sono presenti i “sei personaggi della commedia da fare” e dall’altro
gli attori della commedia. Il lettore non si troverà davanti a una commedia o
un dramma già compiuto ma al tentativo di mettere in scena una commedia
da fare.

▪ Contrasto fra persona e maschera (personaggio): Il soggetto è


costretto a vivere nella forma, non è più una persona
integra,coerente e compatta, fondata sulla corrispondenza
armonica fra desideri e realizzazione, fra passione e ragione;
ma si riduce a una maschera che recita la parte che la società
esige da lui.

10. Federigo Tozzi: Nasce a Siena nel 1883, figlio di un contadino violento e
dispotico, e di una madre incapace di opporsi alla brutalità del coniuge. Tozzi
cresce, quindi, in un ambiente familiare ostile, si oppone al volere del padre nel
dover occuparsi della fattoria e dei poderi, viene così giudicato come un
teppista indisciplinato. Si innamora di Isola, ragazza sensuale ed astuta, che poi
ritroverà a Firenze incinta di un altro uomo (sarà la protagonista del suo primo
romanzo “Con gli occhi chiusi”), e comincia una corrispondenza epistolare con
una sconosciuta, Emma Palagi, che poi diventerà sua moglie, e con cui si
trasferì a Roma dal 1914-1920 per entrare a far parte di un mondo culturale e
letterario più ampio. Si appassiona di psicologia, soprattutto attraverso i
“principi di psicologia” di William James che esercitò una significativa
influenza sulla nascita del romanzo inglese fondato sullo “stream of
consciousness”. Intanto una malattia venerea e le conseguenze alla vista da
questa procurategli lo costringono all’isolamento più totale e ad una grave crisi
esistenziale da cui esce attraverso la conversione religiosa.
L’anno di svolta è il 1913, in cui fonda, con l’amico Domenico Giuliotti, la
rivista “La Torre”, che si rivolge ai giovani d’Italia per persuaderli ad un
sovversivismo di destra, ispirato ad un cattolicesimo medievale. Il 1913 è però
l’anno della stesura di “Con gli occhi chiusi”.
La poetica di Tozzi è quella del “un qualsiasi misterioso atto nostro” fondato
sullo svuotamento della trama tradizionale. All’autore non interessa una
narrativa di fatti basata sull’azione, ma un qualsiasi misterioso atto nostro,
magari il più banale nel quale, però, si esprime l’ondeggiamento e
l’oscillazione degli stati psicologici. Pur avvicinandosi allo “stream of
consciousness novel”, Tozzi se ne differenzia per il tentativo di lasciare
un’apparente intelaiatura tradizionale, fondata su personaggi oggettivi e su
ambienti costruiti con cura realistica. In realtà questa “impalcatura viene
svuotata dall’interno. Il punto di vista non è mai quello di un narratore esterno
ma è sempre calato nella dimensione onirica ed allucinata dei personaggi. Ne
deriva una tensione grottesca e deformante, un’atmosfera di oppressione, che
possono essere paragonate a quelle analoghe di Kafka, lo scrittore europeo più
vicino a Tozzi.
Da rigettare qualunque ipotesi di adesione di Tozzi al Naturalismo in quanto
quest’ultimo, nella persona dei suoi autori, scrive per spiegare la realtà, mentre
Tozzi non sa spiegarla e perciò scrive. I l
cattolicesimo di Tozzi non ha niente di confessionale, il Dio di Tozzi è un
Padre terribile, figura del padre biografico; non dà risposte e significati, resta
assurdo, immotivato, pur esigendo obbedienza totale.

11.Alberto Moravia: nacque nel 1907 da un’agiata famiglia borghese, ammalato


di tubercolosi ossea, visse da ragazzo l’esclusione di tale condizione. È
l’iniziatore del romanzo borghese; riconduce alle forme del realismo la crisi
esistenziale e sociale della borghesia degli anni del fascismo e del dopoguerra.
Fondò negli anni ’50 la sua prima rivista “Nuovi Argomenti” con cui collaborò
Pasolini. Moravia pone con sicurezza la riflessione sulla propria classe sociale
al centro della propria ricerca, appare come uno scrittore coscientemente
borghese, che scrive sulla borghesia e contro la borghesia da un punto di vista
borghese.
La produzione poetica dell’autore è suddivisa in tre periodi:

o Primo periodo (1929-1945): fase del realismo borghese e la fusione di


elementi realistici, surreali, ed esistenziali.
o Secondo periodo (1947-1957): è la fase del Neorealismo, e in essa appaiono
spesso personaggi popolari che rappresentano un’alterità positiva rispetto al
mondo borghese.

o Terzo periodo (1960): è segnato da un accentuato pessimismo in cui


emergono le tematiche psicoanalitiche come quello dell’estraneità e della
passività di fronte alla vita.

Il primo romanzo di Moravia fu “L’indifferente” scritto nel 1929, troviamo


tematiche importanti quali:

▪ L’importanza del sesso e del denaro come mezzo per possedere le


persone,

▪ La presenza di personaggi estraniati, che siano adolescenti o intellettuali,


si tratta di figure impotenti o in crisi.

▪ La scrittura di questo romanzo si ispira a un realismo critico e un


impietoso sarcasmo antiborghese.

▪ Il realismo critico su cui si basa tutto il racconto è analitico ed empirico:


nasce in un moralismo che non diventa mai visione del mondo
alternativa a quella degli eroi borghesi.

Nel romanzo si descrive l’opacità, il grigiore, l’indifferenza di quattro


personaggi borghesi.

12.Carlo Emilio Gadda: nasce a Milano il 1893, il padre ha seriamente


compromesso la stabilità economica famigliare, e alla sua morte la madre
costrinse i figli a durissimi sacrifici per mantenere un regime di vita adeguato
alle apparenze della borghesia lombarda. Queste condizioni biografiche stanno
alla base della nevrosi di Gadda. Costretto a seguire gli studi di ingegneria
invece di quelli meno proficui di lettere, deve interrompere la carriera
universitaria perché chiamato alle armi. L’esperienza della guerra si rivela
decisiva per la formazione della personalità gaddiana. La prigionia e la
scoperta della morte del fratello Enrico, minano definitivamente il fragile
equilibrio psicologico e familiare del poeta; che oscilla dalla misoginia
scaturita dalla figura della madre, fino a una misantropia degli ultimi anni.
Momento di svolta sarà l’avvicinamento all’ambiente fiorentino di “Solaria”
che incoraggerà l’autore ad avvicinarsi nuovamente alla letteratura ed
abbandonare definitivamente negli anni Trenta l’attività da ingegnere. Nel
1950 si trasferisce a Roma per una stabilità economica data dal lavoro di
responsabile culturale dei programmi RAI, arriva in questi anni finalmente il
successo e i riconoscimenti dal pubblico e dalla critica. Gli ultimi quindici anni
sono segnati però da un intenso isolamento causato dalla nevrosi, muore così
nel 1973 a Roma. L’ideologia di Gadda si basa su un’attrazione fra ordine e
disordine, rigido controllo razionale, e abbandono alle pulsioni autentiche della
corporalità; in questa scissione Gadda vede con particolare acutezza la crisi di
una funzione intellettuale intesa come mediazione ideologica o diaframma fra
caos del mondo e criteri organizzativi, lo scrittore si scaglia contro le idee
esibizioniste e narcisistiche di D’Annunziane, rinnegando il poeta-vate e la
figura dell’intellettuale-guida. L’attività dello scrittore è rappresentata da
Gadda come dura lotta con la realtà esterna, con cui ogni pretesa dell’io deve
misurarsi; la scrittura è concepito più come un fatto filosofico che letterario, il
problema non è tanto la scelta di uno stile ma la corretta individuazione di una
tecnica di scrittura che non si riduca a consolazione, esibizione e a retorica.
Con Gadda si fa riferimento al realismo, poiché, in linea col pensiero del poeta,
consiste nella ricerca di una scrittura che rinunci ad adempiere un atto creativo,
comunque falsificante e infondato che aspiri a porsi come conoscenza della
realtà. Gadda fonda un originale realismo linguistico: la lingua diviene il
doppio della realtà. L’assurda complessità del mondo, e il suo caos, invadono
la pagina gaddiana per mezzo di codici linguistici di continuo mescolati e
giustapposti; ciò forma una deformazione espressionistica basata sul gusto per
l’ironia, il grottesco e la parodia. L’insieme delle opere di Gadda si presenta
come un caotico groviglio di abbozzi, appunti, diari e meditazioni; il corpus
comprende vari scritti di materia teorico-filosofica in parte privati, in parte
destinati alla pubblicazione.

Fra le prove mature di Gadda ricordiamo “Giornale di guerra e di


prigionia”, dove è rappresentato il passaggio dall’iniziale entusiasmo
interventista alla delusione rabbiosa provocata dall’esperienza della guerra:
viene a mancare quel mondo di valori per cui Gadda si era schierato, qui
tutto si rivela una realtà ipocrita senza sostanza, dove i comandi militari
mettono a repentaglio inutilmente la vita dei soldati.

N.B. “la cognizione del dolore”.

13.Pier Paolo Pasolini: Nasce a Bologna nel 1922, e qui compie e conclude gli
studi universitari in Lettere. La severa durezza del padre e la mitezza
dell’amatissima madre sono alla base di un profondo conflitto edipico al quale
è da ricollegare la stessa omosessualità del poeta. Dal 1960 in poi la scoperta
del cinema come mezzo espressivo porta Pasolii al massimo della fama non
solo nazionale.
All’alba del 1975 Pasolini è ritrovato assassinato presso Fiumicino, ma la
cattura del giovane colpevole non basta a chiarire le incertezze sui modi e sulle
cause del delitto. L a
grande varietà dell’impegno artistico e intellettuale nel corso di un trentennio
rende assai difficile la valutazione delle poesie di Pasolini. Lo straordinario
successo dell’autore a partire soprattutto dagli anni Sessanta non si deve
certamente alle opere poetiche ma a quelle narrative e soprattutto all’attività di
regista cinematografico: “Accattone” (1961), poi “Uccellacci e uccellini” (con
la partecipazione del grande Totò), “Le mille e una notte”, “Decameron”.
Pasolini vede tra la scrittura letteraria e la realizzazione di un film una
differenza soprattutto tecnica; e ritiene dunque possibile proseguire per mezzo
del cinema la propria ricerca di romanziere e poeta. Il cinema, anzi, consente
secondo Pasolini una più diretta adesione realistica all’oggetto. I l
cinema è una tecnica che, in questa prospettiva, è intesa a dare alla realtà un
significato. Il cinema finge di considerare la vita un punto di vista del suo
compimento, cioè quale conclusa e definita. Il cinema ha, rispetto alla materia
narrata, lo stesso potere di significazione che ha la morte rispetto alla vita
umana: bloccandone lo svolgimento temporale, le permette di esprimersi e di
essere conosciuta, la rende narrabile e comprensibile.
La grande notorietà consente al poeta di intervenire efficacemente su questioni
culturali e socio-politiche, assumendo un punto di vista critico-radicale nei
confronti del sistema borghese e della rivoluzione antropologica operata dal
capitalismo; idee sostenute particolarmente sulle colonne del “Corriere della
Sera”. All’inizio degli anni
Settanta Psolini è l’intellettuale ufficiale dell’opposizione culturale, il portatore
di uno scandalo politico (il marxismo non ortodosso) e personale
(l’omosessualità).

È possibile distinguere due fasi principali nella storia di Pasolini:

• la prima fase più tradizionale e letteraria, qui si dedica alle poesia


e alla carriera da critico e romanziere. Nelle opere giovanili
domina il tema dell’adolescenza divisa tra innocente purezza
regressiva e maturità peccaminosa. D’altra parte il contrasto
purezza/peccato ha un origine privata nel’irrisolto complesso
edipico del poeta, dove all’infanzia viene accostata
l’identificazione innocente con l’amatissima figura materna,
mentre l’amore esclusivo per lei diviene colpevole dopo
l’adolescenza e crea desideri trasgressivi e proibiti che
caratterizzano la vita e l’opera pasoliniana.
• la seconda fase è quella della ricerca pasoliniana, le coordinate
ideologiche dell’autore non si limitano a mettere in discussione
una forma o un’altra concezione della letteratura, ma mettono in
discussione la letteratura in sé, evidentemente incapace di
rispondere ai nuovi bisogni della società di massa. Si apre l’era del
cinema, idealizzato non soltanto come strumento alternativo alla
letteratura, ma anche come modo di criticarla o addirittura
rifiutarla.

Di Pasolini ricordiamo “Transumanar organizzar” (1971), che presenta la


condizione alienata dell’uomo di massa. Resta incompiuta la sua ultima opera
cinematografica, “Salò o le centoventi giornate di Sodoma”.
La produzione narrativa ha indubbiamente un rilievo minore rispetto a quella
poetica e cinematografica. Come romanziere, ha prodotto due opere importanti,
entrambe risalenti al periodo di “Officina” (rivista fondata a Bologna nel 1955 da
paolini, Leonetti e Roversi), “Ragazzi di vita” (1955) e “Una vita
violenta” (1959). Un terzo romanzo, giovanile e neorealistico, di argomento
sociale e di ambientazione friulana, “Il sogno di una cosa”, per quanto scritto
diversi anni prima, fu pubblicato nel 1962. Un quarto romanzo, “Petrolio”, era in
lavorazione al momento della morte e sarebbe dovuto essere una specie di
“summa” di tutte le sue esperienze.

14.Elio Vittorini: è insieme a Cesare Pavese il maestro del “nuovo realismo”


degli Anni Trenta e del Neorealismo postbellico. Ma il loro realismo è
sperimentale e non ha una matrice naturalistica o veristica, bensì lirica e
simbolica: in Vittorini operano fermenti di origine surrealistica (onirica e
fantastica) e fu promotore del mito dell’America il cui realismo fu assimilato
insieme al sogno di un’umanità totale, un uomo assoluto ed universale, e
dunque indeterminato, di cui si voleva cogliere l’essenza attraverso l’arte.
Elio Vittorini (Siracusa 1908 – Milano 1966) vive dapprima a Firenze,
nell’ambiente di “Solaria” e del “fascismo di sinistra”, poi a Milano, facendo il
traduttore dall’inglese. Egli unisce una indiscussa fiducia nella letteratura ad un
impegno politico e ideologico. Queste sono le due anime di questo autore che
ci si presenta ora come “letterato-letterato”, ora invece come “letterato-
ideologo”, ora, anche, alla ricerca di un equilibrio fra questi due aspetti. Il
punto più alto di fusione delle due tendenze si dà nel capolavoro
“Conversazioni di Sicilia”, uscito su “Letteratura” fra il 1937 ed il 1939 ed in
volume nel 1941. Questo romanzo nasce con lo scoppio della guerra di Spagna
che gettò nello sconforto Vittorini, facendo capire a lui e ad i suoi amici
(Pratolini) il carattere illusorio delle posizioni politiche fino ad allora
sostenute. Ha inizio per Vittorini una fase di vuoto da cui nasce appunto
“Conversazioni di Sicilia”. La tendenza a tradurre i dati reali in liricità, in
musica, in analogie simboliche avvicina Vittorini agli ermetici; ma ciò non
impedisce allo scrittore di mostrare il proprio interesse per ambienti e
situazioni del mondo popolare e di schierarsi a favore degli offesi e delle
vittime.
Nel romanzo, il protagonista, Silvestro, che parla in prima persona, supera la
situazione d’inerzia e di “astratti furori” compiendo un viaggio verso il paese
siciliano in cui è nato.

15.Cesare Pavese: Nasce in provincia di Cuneo il 1908, determinante per la sua


formazione fu il suo insegnante di liceo, Augusto Monti, uomo di cultura e
antifascista. Nel 1932 si laurea in lettere a Torino con una tesi su Walt
Whitman La sua attività da traduttore di narratori americani e l’impegno
politico militare, furono interrotti dall’arresto nel 1935 per ragioni politiche; fu
poi graziato nel marzo 1936 e poté tornare a Torino e riprendere la sua attività
culturale. Alla fine dell’anno pubblica con scarso successo “Lavorare stanca”.
Nel 1941 esce “Paesi tuoi”, il primo romanzo; al quale seguirono, tra il 1942 ed
il 1950, i romanzi “Prima che il gallo canti” (contenente due opere, tra cui “La
casa in collina”), “La luna e i falò” e opere pubblicate postume quale “Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi”. Benché il successo lo raggiunga nel 1950 con
l’assegnazione del Premio Strega, le delusione biografiche, unitamente alla
sfiducia nel ruolo degli intellettuali, lo inducono al suicidio, avvenuto in un
albergo di Torino il 26 agosto del 1950.
L’opera “Lavorare stanca” è un libro che fornisce un esempio di poesia
narrativa o di poesia-racconto, del tutto controcorrente in quegli anni nei quali
si stava affermando la poesia dell’Ermetismo. È evidente nell’autore la volontà
di costruire una struttura poetica in grado di rappresentare precise situazioni
individuali realistiche e oggettive, esterne alla soggettività dell’autore stesso. I
personaggi del libro vivono in una condizione umana ben definita sul piano
antropologico e sociale: i suoi preferiti sono quelli che più difficilmente si
inseriscono nella collettività (il vecchio, il ragazzo, ecc.). Il senso di chiusura e
di soffocamento caratteristico di molte poesie va ricondotto in egual misura
alla cultura repressiva e senza speranza di cambiamento della civiltà contadina,
protagoniste di “Lavorare stanca”, e dell’oppressione politica de regime
fascista. I tentativi di uscire dalla condizione di estraniamento della solitudine
dell’uomo, si rivelano destinati a fallire: l’impregno politico coincide con un
inutile gesto di ribellione che finisce per confermare il senso di impotenza e
frustrazione; l’amore risulta inappagante o impossibile, incapace di dare una
risposta al senso di solitudine e di emancipazione. Una seconda edizione
dell’opera “Lavorare stanca” del 1943, rivelerà un ambio di rotta, si passerà
dalla semplice costruzione narrativa di personaggi e di situazioni, alla
valorizzazione di alcuni particolari in vista di un loro più ampio significato
simbolico. Uguale in ogni caso resta però il metro adoperato, Pavese invento
un verso lungo narrativo, formato per lo più da decasillabi con l’aggiunta di
uno o più piedi, tale metro accentua la tendenza antilirica dei testi.
La cultura di Pavese è caratterizzata dal vagheggiamento della campagna, del
“selvaggio” e dell’America come luogo del primitivo. La campagna è colta dal
punto di vista dell’uomo di città, dell’intellettuale che, nei riti antichi di sangue
e di sesso, vuole recuperare il senso vero dell’esistenza e finisce ogni volta per
riscoprire la propria solitudine. La ricerca artistica pavesiana
oscilla fra due poli: può concentrarsi sull’estraneità e sull’impotenza
dell’intellettuale oppure può inseguire un progetto di sprofondamento
nell’arcaico o di rivelazione del “destino” umano nei miti del passato.
I racconti e i romanzi della
prima fase narrativa pavesiana (1938-1941) si muovono fra temi decadenti e
naturalisti: “Il carcere” è un resoconto del periodo passato al confino, di una
condizione di estraneità e di solitudine. Più interessante “Paesi tuoi” (1941), in
cui il naturalismo dell’ambientazione contadina e il decadentismo delle
atmosfere raggiungono una maggiore intensità. Inoltre “paesi tuoi” è anche il
più “americano” dei libri di Pavese, come mostra l’essenzialità dei dialoghi.
“Paesi tuoi” racconta una storia cupa e
violenta di passioni primitive: le racconta in prima persona Berto, un cittadino,
un operaio uscito di galera, che è andato a vivere in campagna con un suo
compagno di prigionia, il contadino Talino. Scopre così un mondo arcaico,
selvaggio e irrazionale, in cui Talino finito in carcere per aver dato fuoco alla
cascina di un rivale, può avere avuto un rapporto incestuoso con la sorella
Gisella. Tra Berto e la ragazza nasce un idillio. Quando, durante la trebbiatura,
Talino scorge la sorella che offre a Berto un secchio d’acqua, fuori di sé dalla
gelosia e dalla stanchezza, la uccide per poi darsi alla fuga nei campi. La lenta
morte per dissanguamento della ragazza ha più il valore mitico di un rito
arcaico che quello realistico di un documento sociale.
All’indomani della guerra ha inizio la seconda
fase narrativa pavesiana. “La casa in collina” (1948) è uno dei migliori
romanzi del dopoguerra. Si distingue per il coraggio dell’autoanalisi:
l’intellettuale, messo di fronte alla tragedia della guerra e alle esigenze di
impegno poste dalla Resistenza, rivela la propria ambiguità. Il tema è sempre
quello della solitudine. Il protagonista, Corrado, è un intellettuale che, durante
la guerra, può sfuggire alla città e vivere in collina. L’incontro con Cate (una
donna amata dieci anni prima) e con il figlio di questa, che potrebbe essere
anche figlio suo, mette in moto un bisogno di contatti umani e rivela
un’esigenza frustrata di paternità. Un altro termine di confronto è costituito da
Fonso, un operaio comunista, che diventa partigiano e che con le sue scelte
mette in discussione gli alibi intellettualistici con cui Corrado giustifica la
propria inazione. Quando cate e tutti i suoi amici antifascisti vengono arrestati,
Corrado si salva e si rifugia in un convento, poi sulle colline. L’ultima opera di
Pavese è il romanzo “La luna e i falò”, in cui l’autoanalisi assume l’aspetto di
una dolorosa e vana ricerca d’identità.

16. Andrea Zanzotto: nasce a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, nel 1921,
si laurea in Lettere a Padova nel 1942. Muore a Congliano nel 2011. Rimase
sempre molto legato al suo paese natìo. Per molti anni ha insegnato alle scuole
medie.
Egli ha esordito nel clima degli anni Cinquanta, ma si è pienamente affermato
solo con la produzione più sperimentale degli anni Sessanta. Come per
molti altri poeti del Novecento, anche per Zanzotto la riflessione e la ricerca
sul linguaggio costituiscono un momento di decisiva impotanza. E però,
rispetto alle due ipotesi estreme degli ermetici (lingua e poesia = verità) e della
neoavanguardia (lingua = falsità e inautenticità), egli si colloca in un punto
defilato che costituisce la prima ragione della sua originalità. Da una parte per
lui la lingua è, nella società massificata, il luogo massimo dell’inautenticità e
dell’alienazione, per responsabilità soprattutto dei mass media; ma d’altra parte
la lingua è anche il deposito di usi e di significati passati e quindi in essa è
presente la profondità dell’intera sua storia. Nella lingua dunque è depositata la
vastità dell’esperienza umana. Non sorprende dunque che
Zanzotto sia giunto all’uso del dialetto in parecchi suoi testi e abbia recuperato
i modi del linguaggio infantile (il “petèl”), con i suoi balbetìi e le sue
onomatopee. Nella lingua c’è un residuo vitale e a Zanzotto interessa
recuperare tale residuo che giace sepolto sotto i morti detriti dell’inautenticità e
dell’insignificanza. Questi morti detriti corrispondono alla lingua presente dei
vivi, e il residuo vitale è riconosciuto piuttosto nella morte che nella vita: il
linguaggio dei vivi è il linguaggio dell’insensatezza e del nulla, mentre la
lingua dei morti e del passato può ancora recuperare un senso di presenza e di
vita. Ciò che è più profondo è ciò che contiene la potenzialità di mostrare
ancora un sentiero, una salvezza. Il riscatto avviene solo nel linguaggio.

17. Paolo Volponi: visse tra Urbino e Milano (1924-1994). Il suo impegno
letterario è diviso tra poesia e narrativa. Tale fatto aiuta in parte a spiegare la
cura riservata nei romanzi alla scrittura (di straordinaria intensità) e il taglio
prevalentemente narrativo delle opere poetiche. La forma prevalente è quella
del poemetto. Il poeta organizza gli elementi dell’esperienza in modo narrativo,
quasi raccontando un fatto preciso; il fine, così, non è quello di coinvolgere il
lettore attraverso uno sfogo sentimentale, ma quello di comunicare con lui
attraverso la razionalità della struttura testuale.
La ricerca di Volponi si contrappone alla tradizione simbolistica e
all’esperienza ermetica; anche se le sue prime raccolte (“Il ramarro”, 1948, e
“L’antica moneta”, 1955) risentono di tali influenze. Con “Le porte
dell’Appennino” (1960) si apre una nuova fase della ricerca poetica,
confermata poi dalle raccolte successive.
La caratteristica fondamentale della poesia di Volponi sta nell’impegno
discorsivo, meditativo e concettuale, e l’urgenza di esprimere la definita
posizione dell’io all’interno di tale impegno e rispetto ad esso. Convivono così
una forte tensione etico-politica e una messa in questione della dimensione
privata, psichica e corporale.
L’unione di impianto narrativo e di impegno ideologico implica, sul piano
formale, il rifiuto delle strutture metriche della tradizione lirica: al centro
dell’interesse volponi ano stanno la precisione del lessico e l’efficacia
ragionativa della sintassi, spesso complessa e ardita, nella prevalenza di periodi
lunghi, ricchi di interconnessioni. E’ prevalente la scelta del verso libero e sono
evitate soluzioni banali o consuete.
Quindi potremmo definire Volponi una figura anomala di letterato italiano,
l’unico che abbia avuto un’esperienza di lavoro, lunga e continuata, all’interno
del mondo industriale, dapprima alla Olivetti di Ivrea, poi alla FIAT di Torino,
come responsabile dei rapporti tra fabbrica e città. Allontanato dalla FIAT per
le sue dichiarazioni politiche a favore del PCI, Volponi è stato eletto senatore
nelle liste di questo partito a partire dal 1983 e poi ha aderito a Rifondazione
Comunista. E’ stato fra i redattori della rivista “Alfabeta”. Sul piano
letterario, Volponi muove dall’esperienza di “Officina” e del “Menabò”,
unendo impegno etico-politico e sperimentalismo formale, analisi sociale e una
forte capacità innovativa e inventiva. Il suo sperimentalismo consiste tanto
nell’introduzione di nuovi contenuti, quanto nella capacità di far confluire, e
deflagrare nell’attrito, poesia e prosa, motivi lirici e grotteschi. Questo magma
incandescente di generi e di modi diversi viene poi ricondotto a unità attraverso
l’uso del metodo del montaggio e della costruzione allegorica, costante
soprattutto nell’ultima sua produzione.
Dopo aver esordito come poeta negli anni Cinquanta, Volponi s’impegna,
durante gli anni Sessanta, nel romanzo, dapprima con “Memoriale” (1962), poi
con “La macchina mondiale” (1965). Entrambi i testi affrontano il tema
dell’alienazione dell’uomo contemporaneo, dei suoi disturbi psicologici.

18.Sandro Penna nasce a Perugia il 12 giugno 1906. Ragioniere, lavoratore


saltuario e discontinuo. L’esordio poetico avviene nel 1939 per interessamento
di Saba, che lo aiuta a pubblicare la raccolta “Poesie”. Nel 1950 pubblica
“Appunti”; nel 1956 “Una strana gioia di vivere”; nel 1958 “Croce e delizia”.
Il carattere schivo e ritroso, anche a causa della sua omosessualità, tiene Penna
lontano dalla società letteraria, anche negli ultimi anni, quando conosce,
almeno in ambienti ristretti, un discreto successo. Così che prima della sua
morte, avvenuta a Roma nel gennaio del 1977, furono addirittura rivolti appelli
perché si desse qualche aiuto al poeta, malato e privo di mezzi di
sostentamento. Penna esordisce nel tempo della “poesia pura” e
dell’Ermetismo, da cui rimane estraneo rifacendosi piuttosto a Saba, ad una
sorta di realismo sublimato e leggero. La poesia di Penna appare tutta segnata
dal sentimento dell’esclusione e della discriminazione sociale, da un lato, e,
dall’altro, dal desiderio costante di essere accettato e reintegrato. Alla base di
tale condizione sta il dato autobiografico, in una società intollerante e
caratterizzata dalla morale repressiva piccolo-borghese. Tanto più che egli,
anziché rifiutarla, in qualche modo vi si riconosce e mira a farsi accettare
socialmente. Egli non rinuncia alla propria diversità, e cerca di difendersi
dall’intolleranza degli uomini attraverso la chiusura in se stesso: all’isolamento
egli risponde con un rifiuto della società. In questo modo l’esclusione diventa
autoesclusione. La poesia di Penna è dedicata ad un unico tema: quello erotico.
Ma non è un tentativo di contrapporre la propria diversità alla normalità
borghese; egli tenta piuttosto di farla accettare, o almeno tollerare. La poesia è
in questo caso strumento di piacere e di natura ma anche, grazie alla forma,
strumento di accettazione sociale.

19.Giorgio Caproni nasce a Livorno il 7 gennaio 1912. Trasferitosi all’età di


dieci anni a Genova, trascorre ivi la maggior parte della propria giovinezza. Si
iscrive all’università e studia violino ma deve abbandonare entrambe le cose.
Partecipa alla Seconda Guerra Mondiale. Nel 1936 pubblica il primo libro di
versi “Come un’allegoria”. Ricordiamo tra le sue opere “Cronistoria” del 1943,
“Il seme del piangere” del 1959, “IL franco cacciatore” del 1982. Oltre a
svolgere l’attività di poeta, Caproni ha insegnato per molti anni e si è dedicato
alla traduzione e al giornalismo. Benché nasca negli anni del successo
dell’Ermetismo, la poesia di Caproni ne resta distante. Agiscono su di lui la
lezione di Saba e quella più lontana di Pascoli. Il che spiega anche l’aspetto
attardato delle sue poesie, con una predilezione per forme metriche antiquate.
Egli vuole consegnare al pubblico un resoconto onesto e fedele della vita e non
semplicemente un congegno letterario. Egli vuole incarnare un tipo di
letteratura che possa appartenere alla vita di tutti, che tutti possano riconoscere
e sentire come propria (si riconosce l’influenza di Saba), e ciò spiega il
carattere semplice e popolare delle forme e della metrica. Ciò che egli
realmente rifiuta è la ricerca formale intellettualistica e raffinata, un’astrazione
fine a se stessa e lontana dalla realtà concreta. Nonostante tutte queste
caratteristiche, la poesia di Caproni non è ordinata e chiusa, infatti la metrica
semplice viene subito resa complicata con una sintassi ardita e ampia in cui
vediamo frequenti enjambements.

La letteratura è inganno, una finzione, un artificio. Ma al poeta non è dato


di uscirne in alcun modo. L’unica possibilità per accorciare la distanza dalla
realtà, cioè la poesia dalla vita, è affidata all’inganno stesso, nel senso che
sarà sempre un avvicinamento artificiale ed apparente.

▪ Il mito in Caproni è quasi la denuncia della mancanza di un ordine. Non


vuole essere un exemplum ma vuole sottolineare il distacco che c’è tra la
storia mitica e quella del ‘900. In pratica fa la stessa cosa che fa Montale
quando non crede ma lo fa in modo diverso.

20.La “Ronda”: rivista romana, pubblicata tra il 1919 ed il 1922. Con essa la
letteratura del dopoguerra si inaugura all’insegna del “ritorno all’ordine”. Un
gruppo ristretto di scrittori, che per lo più avevano attraversato l’esperienza
della “Voce” e il clima effervescente degli anni Dieci, esprimono qui
insoddisfazione per l’orizzonte tumultuoso e sperimentale del decennio
trascorso, per il generale turbamento degli equilibri formali e dei modelli di
comportamento intellettuale: lo stesso titolo della rivista, che si riferisce alla
“ronda” militare, indica un proposito quasi poliziesco di mettere ordine nel
disordine della cultura contemporanea. Alla contestazione ed alla ridiscussione
continua, all’esaltazione della giovinezza e dell’energia, i rondisti oppongono
un’esigenza di maturità: riaffermano l’aspetto istituzionale della letteratura e il
rilievo della tradizione. Rifiutano l’immersione totale e indiscriminata
dell’esperienza artistica nel flusso del presente: propongono di ricondurla ai
suoi limiti, al suo spazio professionale, in un orizzonte di matura coscienza
borghese, fuori da troppo stretti intrecci con la politica. Le posizioni dei singoli
autori, tra loro diverse, presentano sfumature molteplici; ma questa ricerca
dell’ordine si risolse comunque ancora una volta in un progetto classicistico.
“La Ronda” infatti suggerì un modello di classicismo “moderno”, che si
rifacesse a Leopardi e Manzoni. Ma questo programma restò indeterminato,
non riuscì a riempirsi di contenuti, approdò ad una nuova poetica del
frammento, lontana dall’irruenza espressionistica e dall’intensità lirica del
frammento vociano. Tra i suoi esponenti Vincenzo CARDARELLI, I fratelli
Giorgio ed Alberto DE CHIRICO (pittore di fama internazionale il primo e
musicista e scrittore il secondo, quest’ultimo noto con lo pseudonimo Alberto
SAVINIO). La proposta di un classicismo moderno sarà poi ripresa da Montale
e poi dalla rivista “Solaria”.

21. Le Riviste Fiorentine del primo Novecento: questo fenomeno fu il simbolo


del manifestarsi del processo di politicizzazione degli intellettuali piccolo-
borghesi, della loro inquietudine socio-culturale, del loro bisogno di recuperare
un ruolo da protagonisti nella società.

Le riviste fiorentine presentavano tratti comuni:


1) erano generazionali, cioè redatte da giovani che provocatoriamente si
dichiaravano tali, assumendo la giovinezza come valore in sé positivo, e che si
ribellano alla vecchia generazione positivista;

2) erano riviste politico-culturali, che esprimevano un bisogno di contare


nella società da parte degli intellettuali piccolo-borghesi;

3) sono fiorentine, cioè rendono evidente il ruolo centrale della città


toscana nella cultura primo novecentesca.

Dopo questa introduzione legata alle caratteristiche generali è però utile


distinguere le prime riviste, “Leonardo”, “Il Regno”, “Hermes”, dalla
successiva “La Voce”.

Perché questa distinzione? Perché mentre le prime rivelarono una


sostanziale contraddizione tra i programmi politici, rivolti alla massa della
piccola borghesia intellettuale, e il linguaggio, ancora aristocratico ed elitario,
“La Voce” si distinse per la sua modernità e per la coerenza con cui adeguò agli
obiettivi il linguaggio ed il programma editoriale.

La più importante tra le prime riviste fiorentine fu “Leonardo” (nata


gennaio 1903 sotto la direzione di Giovanni Papini e di Giuseppe Prezzolini),
essa svolse un’opera di provincializzazione della cultura, contribuendo a
diffondere in Italia il pragmatismo del filosofo statunitense Charles Peirce.

L’altra rivista, “Hermes”, fu fondata nel 1904 da Giuseppe Antonio


Borgese.

Una funzione più rilevante ebbe “Il Regno”, fondata nel 1903 da Enrico
Corradini per propagandare il nazionalismo, l’imperialismo, il disprezzo per la
democrazia. Essa attrasse molti giovani, ma il linguaggio letterario, scolastico,
non ne favorì un reale radicamento di massa.
“La Voce” realizza un’inversione di tendenza: essa nasce rifiutando gli
atteggiamenti aristocratici di “Leonardo” e rifiutando anche una concezione
dell’attività intellettuale come geniale dilettantismo. Essa usa un linguaggio
nuovo, moderno, agile ed incisivo; nasce come settimanale e inizia poi a
diffondersi anche nelle province, nei piccoli centri, nelle campagne. Essa mira,
insomma, a creare un “movimento d’opinione”. Il titolo della rivista indica
espressamente l’intento di dare “voce” alla uova generazione di intellettuali,
perché questa possa affermarsi come classe dirigente. E’ con questa rivista che
in Italia nasce il moderno ceto intellettuale.

“La Voce” nasce a Firenze nel dicembre 1908, per iniziativa di Giuseppe
Prezzolini. La rivista ha una storia complessa, che si può dividere in fasi
diverse. La prima fase è la più viva, la più ricca e stimolante: va dal dicembre
1908 al novembre 1911. In questi primi anni la rivista subisce l’influenza
decisiva di uno dei suoi più attivi collaboratori, Gaetano Salvemini,
democratico e antigiolittiano. Ma la guerra di Libia segna la svolta: Salvemini
si oppose, insieme a molti vociano, all’impegno bellico ed alla spedizione
libica, ma dopo lo scoppio delle ostilità preferirono lasciar cadere la questione
e Salvemini si ritirò dalla rivista fondando “L’Unità”. A questo punto inizia una
seconda fase, assai confusa e di crisi sempre più profonda, che si prolungò
dalla fine del 1911 alla fine del 1913. Il lavoro redazionale passo a Giovanni
Papini, che cercò di dare alla rivista un carattere più letterario ed artistico. Ma
nel giro di poco “La Voce” apparve priva di quell’originario mordente. Il ruolo
preponderante che vi assunse Papini nel 1912 e la sempre più evidente
tendenza a una svolta antidemocratica, indussero alcuni dei collaboratori più
validi a ritirarsi. Comincia a questo punto la terza fase, che occupa tutto l’anno
1914: Prezzolini, che riprese in pugno la rivista, ne modificò la periodicità (da
settimanale a quindicinale) e la trasformò in organo dell’”idealismo militante”
e della filosofia di Giovanni Gentile. Si accentuò in questo periodo la spinta
antidemocratica e la scelta nazionalistica, che indusse ad un’accesa propaganda
interventista.
La prima “Voce” propose il decentramento amministrativo, la riforma
del codice della famiglia, il divorzio, il suffragio universale maschile (ma aprì
anche una discussione sulla possibilità di allargare il voto alle donne). In
conclusione, essa svolse, nella prima fase della sua attività, un’utile azione di
rinnovamento e di democratizzazione del costume e della cultura.

Una rivista parallela alla “Voce”, ma di spirito ben diverso, è il


quindicinale “Lacerba”, fondato nel gennaio 1913 da Papini e Ardengo Soffici
e continuato fino al maggio 1915. La rivista nasce perché Papini e Soffici non
si riconoscono nei termini del rapporto fra letteratura e cultura proposto dalla
“Voce” e intendevano rovesciarne l’ordine d’importanza, mettendo al primo
posto l’arte.

“Lacerba” si pone come rivista d’avanguardia artistica, che vuole


“fregarsi della politica (come diceva lo stesso Papini) e trattare solo questioni
artistiche. (ma l’avvicinarsi della guerra è sufficiente a scatenare il violento
interventismo papiniano).

Dell’avanguardia “Lacerba” ha solo gli atteggiamenti più esteriori:


l’esaltazione del genio individuale dell’artista, della stranezza, del cinismo.
Dopo qualche numero la rivista aderì al Futurismo di Marinetti.

Nacquero poi delle riviste prettamente politiche. Dopo aver abbandonato


“La Voce” Gaetano Salvemini diresse dal 1911 al 1920 la rivista “L’Unità”,
facendone uno strumento di battaglia democratica contro la guerra di Libia, per
il suffragio universale, contro il protezionismo economico.

Le riviste torinesi di Pietro Gobetti, “Energie nuove” (1918-1920) e


“Rivoluzione liberale” (1922-1925), raccolgono l’eredità migliore di Salvemini
e della “Voce” ( volontà di formazione di un’élite di “spiriti liberi”) ma a
differenza dei vociani, Gobetti capisce che il destino dell’élite borghese si
gioca sulla sua capacità di diventare egemone nei confronti della classe
operaia. Per questo Gobetti si batte per la formazione di un gruppo di
intellettuali che elabori una linea politica che attragga la massa operaia e la
riporti nei canali della democrazia borghese.

“L’Ordine nuovo” è un settimanale nato a Torino nel 1919, nel vivo della
lotta di classe alla FIAT e della esperienza dei Consigli Operai. Fu diretto da
Antonio Gramsci, e anche da Togliatti (poi segretario PCI), Terracini e Tasca.
Dopo la fondazione del Partito Comunista ad opera di Gramsci e di Bordiga, il
settimanale si trasformò in quotidiano politico del nuovo partito.

Gli intellettuali che non aderirono immediatamente alla reazione si


ritirarono nella letteratura come rifugio e specializzazione tecnica, cercando
salvezza nella dignità degli studi e nel duro tirocinio di stile. Sarà questo l’esito
anche dell’ultima rivista gobettiana, “Il Baretti” (1924-1928; vi collaborarono
Croce, Montale, Sapegno, Debenedetti), che riprende dalla “Voce” l’aspetto
illuministico e la concezione della superiorità della cultura. Questa rivista, a
differenza delle altre riviste gobettiane, non si occupa più di politica ma solo di
letteratura. La difesa dello “stile”, come riaffermazione della dignità delle
lettere, accomuna “Il Baretti” alla romana “La Ronda”.

22. Il Romanzo nel Novecento: nel primo quarto del Novecento si assiste in tutta
Europa alla distruzione e alla rifondazione delle forme narrative. Viene
distrutta la forma tradizionale ottocentesca, ritenta “vecchia” (anche il romanzo
decadente viene considerato superato), e viene rifondato il romanzo su basi
diverse. Questi autori (che sono coetanei di alcuni “tradizionali”) non si
limitano a mettere in crisi le forme del passato ma ne inventano di nuove,
basate sul “flusso di coscienza” del monologo interiore (Joyce), sulle
“intermittenze del cuore” e sul lavoro della memoria (Proust), sul “romanzo-
saggio” (Musil), su strutture aperte e destrutturate del racconto che pongono in
causa la successione logica e cronologica degli avvenimenti (Svevo). Nasce
così il romanzo del Novecento, una nuova forma narrativa capace di rendere
dall’interno la vita interiore dei personaggi, la loro visione del mondo
deformata ed onirica, i loro incubi, le loro allucinazioni. Il crescente senso di
disadattamento e di estraneità dell’intellettuale negli anni dell’Imperialismo,
della guerra e del dopoguerra, il suo sentirsi, insieme, borghese ed
antiborghese, la sua crisi d’identità sociale e psicologica introducono nuovi
temi nell’immaginario degli scrittori: quello della nevrosi (Svevo), della
memoria (Proust), della malattia (Mann), della dimensione onirica (Kafka),
dell’“uomo senza qualità (Musil) e dell’inettitudine (Svevo, Tozzi, Pirandello).
Soprattutto quelli della malattia e della inettitudine bene si prestano a
rappresentare e definire la condizione di esclusione dell’intellettuale nella
società primo novecentesca. Alcuni di questi temi poi si coagulano intorno alla
figura del padre: un padre autoritario e incombente che rappresenta la sicurezza
borghese ma anche la sua intrinseca vuotezza, impersona la forza della legge e
dell’autorità ma spesso anche la sua insensatezza. Una figura paterna di questo
tipo rafforza il senso di impotenza, di inettitudine, di malattia del figlio. Motivi
psicologici e psicoanalitici desunti da Freud (complesso di Edipo e desiderio
inconscio di uccidere il padre), motivi sociali (opposizione alla società), e
motivi letterari (scrittori che vogliono rompere la tradizione ed uccidre i padri
ottocenteschi) confluiscono nel tema del padre, quale compare, con particolare
forza, in Kafka (cfr. Lettera al padre) e in Tozzi (in Congli occhi chiusi e le
novelle), ma anche in Svevo (La Coscienza di Zeno) e in Pirandello (Uno,
nessuno e centomila). Oltre al padre è in discussione anche il ruolo della
donna, che è insieme madre, amante e moglie.

• L’allegorismo vuoto di Kafka: non comunica un significato o un


messaggio positivo o una tesi precisa e razionale, come faceva
l’allegoria tradizionale, ma esprime un bisogno di significato che resta
senza risposta. Per questo la critica del Novecento ha coniato per Kafka
la formula di “allegorismo vuoto”. Come ogni autore allegorico, Kafka
rappresenta una vicenda per “dire altro”; ma quest’“altro” resta
indecifrabile e dunque indicibile: il significato è fuggito dalla vita e ne
resta solo l’esigenza. In questa modalità espressiva confluiscono ragioni
psicologiche (il conflitto con il padre, che rappresenta per Kafka
l’inaccessibilità della legge, dell’autorità e dunque dei significati) e
culturali (cultura ebraica con la sua obbedienza mistica ad una legge
inaccessibile alla ragione moderna). Essa è presente anche in alcuni
grandi e complessi racconti, come “La metamorfosi”.

• La vecchia e la nuova generazione in Italia: Pirandello, Svevo e la


rottura dei vociani; la novella e il ruolo in Tozzi: Il primo quarto di
secolo del Novecento è segnato da una profonda rottura della tradizione,
particolarmente radicale, in Italia, negli anni intorno alla Prima guerra
mondiale. da un lato si affermano nuovi temi; dall’altro s’impone una
forma narrativa che segue dall’interno i movimenti della coscienza e
concepisce il romanzo come “scomposizione” umoristica e
“costruzione” artificiale oppure come resoconto delle vicende
paradossali dell’inconscio.
Sono due gli autori che propongono radicali soluzioni alternative (simili
a quelle sperimentate da Joyce, Proust, Musil): Svevo e Pirandello.
Soprattutto Svevo, con “La coscienza di Zeno”, pone il romanzo italiano
all’altezza di quello europeo d’avanguardia. Questa capacità si spiega
con la particolare formazione culturale di questi due autori, nella quale
assume un peso rilevante il confronto con la cultura tedesca: Svevo visse
a Trieste, che apparteneva fino al 1918, all’impero austroungarico;
Pirandello trascorse un periodo di studi a Bonn. Vi c e v e r s a i
“giovani” conducono un’azione di distruzione più che di rifondazione.
Tutti rifiutano il romanzo e la novella, considerati generi
irrimediabilmente compromessi con la vecchia cultura; alcuni
“moralisti” vociani (Slataper, Jahier, Boine) scelgono la strada
dell’Espressionismo, altri vociani (Papini, Soffici) optano per esiti più
impressionisti. Saranno altri esponenti di quella generazione (“quelli
degli anni Ottanta”), periferici magari rispetto all’esperienza della
“Voce”, a spingere la nuova generazione a misurarsi davvero con il
romanzo, in particolare Federigo Tozzi giungerà a proporre (tra gli anni
’10 e ’20) un tipo di narrazione in cui la riconquista della vicende
narrativa e dei personaggi si concilia con le nuove acquisizioni
fondamentali dell’esperienza espressionista e con una scrittura che vuole
rendere immediatamente la vita interiore dei personaggi. Non si tratta di
una restaurazione del romanzo, ma di un contributo alla sua rifondazione
su nuove basi. Accanto alla rifondazione novecentesca del romanzo,
bisogna segnalare poi quella della novella. Nell’età giolittiana,
quest’ultimo è un genere di successo e di vasto consumo: soprattutto
Pirandello e Tozzi ne fanno un genere di punta. Anzi, “Novelle per un
anno” di Pirandello e “Giovani” di Tozzi sono indubbiamente capolavori
narrativi importantissimi di questi due autori. Possiamo dire che è da essi
che nasce la novella novecentesca.

23. Solaria: l’Umanesimo di Firenze, fra la fine degli anni Venti e la prima metà
dei Trenta, non è quello romano della “Ronda”; è meno provinciale, più intriso
di cultura europea. Inoltre a Firenze sono ancora attivi il gusto di “Lacerba” e il
moralismo vociano, quale era stato continuato dalla rivista gobettiana “Il
Baretti”. Tutti questi elementi confluiscono nella più importante rivista
letteraria fra le due guerre, la fiorentina “Solaria” (1926-1934). Essa riprende sì
dalla “Ronda” la tendenza all’autosufficienza della letteratura e alla decenza
dello stile, nonché dell’equilibrio, della compattezza, della classicità, ma li
vuole unire ad un’inquietudine culturale europea, al gusto lacerbiano del
divertimento e del sogno svagato e al moralismo di derivazione vociana e
gobettiana.
Questa compresenza di motivazioni e questa convivenza di istanze diverse,
letterarie, morali e ideologiche, spiegano la fine di “Solaria” a metà degli anni
Trenta e la successiva scissione del gruppo redazionale in due tronconi: i
“letterati-letterati”, guidati da Bonsanti, che diedero vita a una rivista in
continuazione con l’originale intitolata “Letteratura” (1937); l’altro gruppo
delle “idee” che diedero vita a “La Riforma letteraria”, in polemica con l’altro
troncone e con gli ermetici. A
“Solaria” collaborarono quasi tutti i principali autori del periodo, da Montale e
Gadda, a Vittorini, Quasimodo, e critici di grandissimo valore come
Debenedetti e Contini. Inoltre la rivista dedicò numeri speciali a Svevo, a Tozzi
e a Saba. Recensiva
tempestivamente i maggiori autori stranieri appena uscivano in lingua originale
e ne traduceva prose e poesie. Grazie a “Solaria” comincia a penetrare nella
letteratura italiana la lezione del grande romanzo europeo d’avanguardia: di qui
in avanti Kafka, Joyce, Proust, Svevo diventano letture obbligate dei letterati
italiani.

24. Ermetismo e Salvatore Quasimodo: L’Ermetismo deve il suo nome al


giudizio polemico di un critico letterario, Francesco Flora, che in un saggio del
1936 metteva a fuoco il carattere arduo, aristocratico, chiuso (appunto
“ermetico” delle nuove tendenze poetiche. In fondo l’Ermetismo è un episodio
di estremismo postsimbolista. Il Surrealismo francese, talora assunto a
modello, viene smussato nelle sue tendenze provocatorie e avanguardiste e
fatto rientrare nella grande tradizione del simbolismo orfico. E poiché le
singole parole stesse devono tendere a un massimo di assolutezza, si mira a
renderle indeterminate ed astratte, si eliminano gli articoli che potrebbero
conferire loro una determinazione, si omettono i nessi grammaticali e sintattici
per meglio isolare nella loro irrelatezza e per eliminare dalla poesia l’elemento
razionale.
L’epicentro dell’Ermetismo fu Firenze (dove si stampavano le riviste del
movimento, “Il Frontespizio” e “Campo di Marte”), e , cronologicamente, il
periodo fra il 1932 ed il 1942. La tendenza ermetica continuò comunque fino
agli inizi degli anni Cinquanta, con Luzi, Sereni e il primo Zanzotto. A partire
dal 1943 l’Ermetismo entrò in crisi, mentre cominciò ad affermarsi una nuova
poetica, il Neorealismo, che prevarrà fino al 1955.
Furono poeti ermetici Alfonso Gatto e Mario Luzi. Vicini agli ermetici furono
anche Salvatore Quasimodo, Ungaretti e Montale, talvolta erroneamente
definiti come ermetici, non furono invece mai interni al movimento ermetico,
anche se Ungaretti ne anticipò temi e forme con “Sentimento del tempo”.
Montale, da parte sua, prese pubblicamente le distanze sia dalla poesia pura
che dall’Ermetismo. Salvatore Quasimodo
nasce a Modica (Ragusa), in Sicilia, il 20 agosto 1901. Dopo aver frequentato
studi tecnici, nel 1919 si reca a Roma per studiare ingegneria ma è costretto a
lavorare per difficoltà economiche ed entra nel Genio civile. Nel 1929 va a
vivere a Firenze su invito di amici (tra cui Vittorini) legati all’ambiente di
“Solaria”, sulla quale nel 1930 pubblica le prime poesie. Nello stesso anno
esordisce con la raccolta “Acque e terre” (1930). Nel 1932 esce “Oboe
sommerso”. Ma il lavoro lo costringe a vari spostamenti finché si stabilisce a
Milano, dove trova un’attività stabile come giornalista. Nel 1942 esce “Ed è
subito sera2, che raccoglie tutta la produzione precedente. E intanto lavora a
numerose traduzioni dei classici latini e greci. Pubblica altre raccolte di versi:
“Giorno dopo giorno” (1947). Dal 1941 insegna letteratura italiana al
Conservatorio di Milano, senza abbandonare mai l’attività giornalistica e
partecipando attivamente al dibattito letterario e anche politico. Nel 1959 gli
viene assegnato il Premio Nobel per la letteratura. Muore improvvisamente a
Napoli il 14 giugno 1968. Legato prima al
clima della letteratura ermetica degli anni Trenta e poi a quello dell’impegno
neorealistico fra il 1943 ed il 1956, Quasimodo resta nella sostanza sempre
fedele a una concezione della poesia come momento di sintesi delle
contraddizioni (personali e storiche) e come punto di vista superiore e
privilegiato. Si nota indubbiamente, dopo il 1943, e a partire dalla raccolta
“Giorno dopo giorno” (1947), il passaggio ad una poesia più esplicitamente
ideologica e politica, ma resta costante lo sforzo di usare un linguaggio
classico e letterario, consacrato dalla tradizione, senza arrivare a scelte
espressive estreme. Piuttosto vi è la ricerca di un tono leggero e musicale, e
insieme intenso ed evocativo, che in qualche modo sfugga a caratteri
storicamente determinati.
La poesia deve consentire una specie di distacco dalla realtà, una innocenza
originaria, un non-coinvolgimento. La parola del poeta si sottrae alla storia e
alla società, e si colloca in una dimensione assoluta.

25.Mario Luzi è nato a Castello, vicino Firenze, il 20 ottobre 1914, e a Firenze


muore il 28 febbraio 2005. Laureto in lettere , Luzi ha insegnato prima al Liceo
e poi all’Università. All’attività di poeta si è continuamente affiancata quella di
critico letterario e quella di traduttore. L’esordio poetico è del 1935 (“La
barca”); “Avvento notturno” è del 1940; “Un brindisi”, del 1946; “Primizie del
deserto”, del 1952 e altre tutte confluite ne “Il gusto della vita” del 1960.
Inoltre altre raccolte, scritte tra il 1963 ed il 1978, furono inserite nella più
vasta “Nell’opera del mondo” (1979); altre ancora furno pubblicate tra gli anni
Ottanta e i primi anni Novanta. Mario Luzi è il maggior poeta del gruppo degli
ermetici fiorentini, affermatisi negli anni trenta. Poche esperienze poetiche del
Novecento uniscono in se stesse i segni della stabilità e quelli del mutamento
come avviene in Luzi. La stabilità è assicurata dalla fede religiosa. Il
mutamento deriva invece dalla forma profondamente problematica in cui Luzi
ha sempre vissuto la propria fede: come una dimensione assoluta, ma nel
costante bisogno di verificarla nei rapporti sociali e storici, e nel suo stesso
modo di fare poesia. La visione della realtà presente nelle opere luziane è quasi
sempre angosciata e cupa, rientrando, all’interno della tradizione cattolica, nel
filone pessimistico di Pascal. Ma resta comunque una duplice e complementare
certezza: il valore, nonostante tutto, della realtà, e il valore conseguente della
scrittura poetica. La realtà, infatti, anche nel suo aspetto tragico di sofferenza e
di sopraffazione, contiene (deve contenere, per fede)necessariamente un
significato ed una positività, anche quando essi sfuggano alla comprensione
umana, come avviene il più delle volte. La certezza che un senso ed un
progetto divino esistano e si compiano nella storia, servendosi degli uomini in
modo provvidenziale. L’attività del poeta sta allora innanzitutto nella
testimonianza, il cui valore si fonda sulla fiducia nel valore della scrittura
poetica. Ma Luzi non ripone la sua fiducia nel dono misterioso della poesia; la
fiducia di Luzi sta altrove, nel valore della vita e della storia. Eppure le
certezze offerte dall’adesione al Cristianesimo e dalla appartenenza alla
tradizione poetica simbolista non impediscono, nella fase ultima della
produzione luziana, un coinvolgimento drammatico ed appassionato nella
prospettiva della crisi.

26.Vittorio Sereni: nasce a Luino, provincia di Varese, nel 1913. Si laurea in


Lettere a Milano nel 1936. Partecipa alla vita letteraria di quegli anni,
collaborando a varie riviste d’avanguardia, legate in particolare all’Ermetismo.
Dopo un breve periodo come insegnante e dopo il matrimonio, esordisce come
poeta con la raccolta “Frontiera” nel 1941, anno in cui partirà per la Seconda
Guerra Mondiale, in Africa e Grecia. Nel 1943 viene fatto prigioniero dagli
angloamericani ed internato per due anni nei campi di prigionia dell’Algeria e
del Marocco; tale esperienza è alla base del secondo libro di versi “Diario
d’Algeria (1947). Dopo la guerra vive a Milano, prima insegnando al Liceo,
poi lavorando presso l’Ufficio Stampa della Pirelli, infine presso la Casa
Editrice mondadori come direttore editorile.Nel 1965 esce “Gli strumenti
umani” e nel 1981 “Stella variabile”. Muore a Milano nel 1983.
La “frontiera” che dà il titolo al suo primo libro è quella che separa l’Italia
fascista dall’Europa democratica. Eppure sono assenti nella raccolta prese di
posizione politiche esplicite. In Sereni però sono visibili dei “sottofondi di
responsabilità civile”. La frontiera è un’entità simbolica, riferibile ad una
condizione di precarietà e di certezza esistenziale dell’io. La poesia di Sereni
non è ignara della dimensione storica e sociale: in essa c’è sempre la fedeltà l
proprio orizzonte psicologico e culturale che resta la cosa più importante. Nella
seconda fase di Sereni assume importanza il tema dei morti: essi da un lato
rappresentano la conferma della fragilità dell’esistenza umana, dall’altro
indicano un modello di stabilità definitiva che può avere anche una funzione di
incoraggiamento, e soprattutto impongono al poeta di rompere la prudenza e di
uscire dalla sua costituzionale esitazione.

27. Neorealismo: nasce dal "nuovo realismo” degli anni Trenta. Ma ha caratteri
propri, essendo caratterizzato da un più deciso impegno ideologico e morale e
da una maggiore fedeltà alla tradizione nell’impianto narrativo. A una prima
fase di Neorealismo come tendenza spontanea o “corrente
involontaria” (1943-48) ne segue una, a partire dal 1949, più organizzata
perché articolata in una poetica coerente: il romanzo deve avere protagonisti
popolari “positivi”, fare intravedere la prospettiva socialista, e descrivere i
rapporti fra le classi. Tuttavia il romanzo neorealista non sempre si attiene a
queste norme. In genere si limita al recupero di alcuni aspetti strutturali del
romanzo ottocentesco, realista o verista, come la trama, l’oggettività dei
personaggi, l’autorità del narratore. Ma i risultati sono modesti. Il principale
rappresentante del Neorealismo è Vasco Pratolini (Firenze 1913-Roma 1991),
che diresse con Gatto la rivista ermetica “Campo di Marte”. La prima opera
importante è “Il quartiere” (1945), storia di un gruppo di giovani fra il 1932 ed
il 1935, narrata da uno di loro, Valerio. Vi confluiscono tutti gli elementi della
formazione di Pratolini: il populismo, il lirismo dei ricordi, il realismo storico
ed ambientale (il quartiere è quello di Santa Croce a Firenze negli anni della
guerra in Etiopia). Una continuazione de “Il quartiere” è “Cronaca
familiare” (1947), in cui si racconta la storia del fratello di Valerio, Ferruccio,
che si perde e muore proprio perché estraneo alla “solidarietà collettiva” del
quartiere. Il Neorealismo come tendenza di scuola si impose
con altri due romanzi, “L’Agnese va a morire (1949) di Renata Viganò
(1900-1976) e “Le terre del Sacramento” (1950) di Francesco Jovine
(1902-1950). Il periodo che va del 1943 al 1948
è quello del Neorealismo come “corrente involontaria” (Corti). Nell’ultimo
periodo di guerra e nel primo dopoguerra domina una smania di raccontare e di
testimoniare: sorge un movimento spontaneo e caotico ma volto comunque al
realismo e all’impegno etico e politico. E’ questo il momento dei primi
romanzi e racconti del Neorealismo (come quelli di Calvino) e soprattutto delle
“cronache”, delle memorie, delle testimonianze.
E’ inseparabile da questo clima “Cristo si è fermato a Eboli
(1945) di Carlo Levi, opera che si situa al confine tra generi diversi: per certi
aspetti un libro di memorie quasi diari stico, per altri di un saggio di etnologia
o di sociologia, per altri ancora di un romanzo. Il piemontese Carlo Levi
(1902-1975), confinato dal regime fascista in un paese della Lucania, dove
visse tra il 1935 ed il 1936, diede testimonianza di questa sua esperienza
qualche anno dopo, fra il 1943 ed il 1944, scrivendo appunto l’opera suddetto.
Seguace di Gobetti e del suo liberalismo illuministico e democratico, levi era
aperto anche alla filosofia irrazionalistica di Bergson. Di qui la compresenza di
interessi e atteggiamenti diversi: da un lato il bisogno razionalistico di
comprendere e di spiegare scientificamente e politicamente, dall’altro
l’attrazione per l’irrazionale, la curiosità non priva di turbamento per la realtà
oscura e profonda dell’inconscio; e inoltre: da un lato la consapevolezza della
problematica meridionalistica, dall’altro, invece, la mitizzazione di un mondo
arcaico, immobile.

28.Primo Levi: ma il capolavoro di questo periodo “involontario” del


Neorealismo è “Se questo è un uomo” (1947) di Primo Levi, saggista e autore
di racconti, torinese, chimico di professione, nato nel 1919 e morto suicida nel
1987. Se questo è un uomo, nasce da questo bisogno di raccontare di quegli
anni, da un impulso immediato e violento di fornire testimonianze
dell’accaduto. Si tratta di una riflessione che accompagnerà l’autore per tutto il
corso della sua vita, racconta della terribile esperienza di uno dei più famosi
campi di concentramento, Auschwitz, dove lo stesso autore visse per un anno
(febbraio 1944-marzo 1945) e si salvò unicamente per la sua professione da
chimico che gli fece svolgere un tipo di lavoro di cui i nazisti avevano bisogno.
Il libro è sorretto dalla volontà di capire e di spiegare, con l’arma della
razionalità, le atrocità e le barbarie irrazionali che si svolgevano in quel luogo.
Levi da continuità al percorso “testimoniante” con “La tregua” (1963). Qui
sulla struttura del documento-saggio prevale il piacere di un racconto
avventuroso: quello del lungo ritorno – quasi un vagabondaggio – attraverso
l’Europa in rovina. Levi capisce che il viaggio è solo una “tregua” tra
l’esperienza atroce del lager e quella difficile della quotidianità in cui non potrà
più dimenticare l’accaduto.

29.Beppe Fenoglio: la letteratura sulla Resistenza e il romanzo neorealista


abbondano di eroi “positivi” falliti artisticamente. Negli anni del Neorealismo i
risultati migliori si danno quando l’intellettuale ha il coraggio di guardare in
faccia le proprie contraddizioni e di analizzaersi coraggiosamente (come fa
Pavese ne “Una casa in collina”), oppure quando la Resitenza non viene vista
ideologicamente come prospettiva sociale e politica, ma come prova epica di
un destino. E’ questo il caso di Beppe Fenoglio (Alba 1922-Torino 1963),
indubbiamente il maggiore narratore della Resistenza. Egli è l’unico scrittore
che rappresenti davvero eroi “positivi”; ma nessuno di essi muore per una
ideologia politica. Ciò lo distingue nettamente dal Neorealismo. Il suo impegno
è di tutt’altra natura: è un impegno verso la vita stessa. L’uomo è passione,
ethos spontaneo: può morire per amore di una donna o per amicizia, in un
estremo individualismo tutto giocato sulla ricerca di una verità esistenziale che
passa anche attraverso la lotta partigiana. La Resistenza è un’espressione
dell’avventura umana, un’ulteriore prova, anche terribile, della vitalità e della
dignità dell’uomo.
Fenoglio aveva una conoscenza viva e diretta della letteratura inglese ed
americana (anche come traduttore). La prima redazione del romanzo “Il
partigiano Johnny” fu addirittura scritta in inglese. In questo romanzo la
resistenza si configura come prova terribile ed assurda e l’uomo è chiamato ad
impegnarvisi fino allo spasimo e alla morte, senza scappatoie: solo così può
dimostrare la propria dignità. Un altro romanzo importante è “Una questione
privata”, in cui la guerra partigiana e sfondo di una storia d’amore e
d’amicizia,

30. Due romanzieri del dopoguerra esemplificarono meglio di altri la nozione di


“tradizione novecentesca” nel campo del romanzo, con una voluta ripresa
soprattutto delle componenti ottocentesche iplicite nel concetto di “tradizione”.
Si tratta di Elsa Morante e Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
▪ Elsa Morante (Roma 1912-1985), moglie di Alberto Moravia negli anni
della guerra e del dopoguerra (si separeranno nel 1962), rivela sin dalla
sua formazione alcuni aspetti che sempre convivranno nella sua
produzione narrativa: una adesione profonda e una ammirazione
sconfinata per la letteratura, sentita come capacità di rivelazione e
bellezza; la tendenza a una narrazione totale, onnivora; il bisogno di
meraviglioso, con esiti barocchi, fantastici, surreali. Dopo alcuni
racconti iniziali, la Morante ci dà il primo capolavoro nel suo primo
romanzo, “Menzogna e sortilegio” (1948). Si tratta di un denso e folto
romanzo, diviso in sei parti. A raccontare la storia è una narratrice-
testimone, Elisa, che tuttavia rievoca anche fatti accaduti prima della sua
nascita. Rimasta sola dopo la morte della madre adottiva, la prostituta
Rosaria, ella ricostruisce le vicende della sua famiglia siciliana,
attraverso tre generazioni. La piccola borghesia è al centro del romanzo
con le sue convenzioni, le sue ambizioni e le sue passioni. I personaggi
“mentono” e la narratrice ne smaschera anche la vacuità. Accanto alla
“menzogna” nel romanzo compare però anche il “sortilegio”, una sorta
di oscura magia, di tragico destino, di incantata assurdità dell’esistenza,
di cui invano la narratrice ricerca il bandolo e il senso.
Il tema della madre perduta (Elisa ha una madre naturale, Anna, e una
adottiva, Rosaria) è un motivo autobiografico: Elsa Morante aveva un
padre anagrafico ed un padre naturale. Esso ritorna nel romanzo
successivo, “L’isola di Arturo” (1957), in cui il ragazzo protagonista,
orfano di madre, cerca ambiguamente un’altra madre, innamorandosi
della giovanissima matrigna. La storia si svolge in un ambiente solare e
mitico, l’isola di Procida. Dopo aver tentato invano di instaurare un
rapporto con il padre e di amare la matrigna, Arturo conosce il sesso con
una vedova e poi abbandona l’isola (è chiamato alla guerra). La felicità è
ormai tutta dietro le spalle e coincide con un’infanzia favolosa e con lo
spazio stesso dell’isola. E’ sicuramente il romanzo della Morante più
ricco di elementi mitico-simbolici e surreali. Un altro romanzo
importantissimo della Morante è quello in cui prevale, in dal titolo. “La
Storia”, l’aspetto storico. Esso ebbe un grande successo di pubblico, e la
sua uscita fu salutata da consensi eccessivi e anche da non meno
eccessive polemiche. Il romanzo intende esibire un risvolto politico di
tipo anarchico: la Storia è uno “scandalo che dura da diecimila anni”, è
sempre stata la storia del dominio e dell’orrore, che ha travolto nel suo
insensato percorso le masse dei deboli, delle vittime, delle donne, dei
bambini. Questa verità viene dimostrata nella vicenda di una maestra
elementare che vive con un figlio, Nino, a Roma negli anni della
seconda guerra mondiale (esattamente nel 1941), e che, in seguito ad un
rapporto con un soldato tedesco (che la violenta), ha un secondo figlio,
Giuseppe (Useppe). Nel romanzo non mancano scene storiche (per
esempio, quella, particolarmente intensa, della deportazione degli ebrei
romani a opera dei nazisti). Tutti i personaggi muoiono tragicamente nel
dopoguerra, eccetto la protagonista, che però finisce in manicomio.
(Luigi Comencini film 1981).

▪ Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), nobile siciliano vissuto


sempre appartato, estraneo agli ambienti letterari, ma appassionato
studioso di letteratura francese ed inglese, scrisse un unico romanzo
negli ultimi anni di vita. L’opera, “Il Gattopardo”, stentò all’inizio a
trovare un editore, e fu pubblicata solo postuma (1958), incontrando un
grande successo di critica e di pubblico (accresciutosi poi anche in
seguito al film che Luchino Visconti trasse dal libro), ma suscitando
anche vive polemiche, in chi vedeva il ritorno a soluzioni letterarie
troppo tradizionali o la proposta di atteggiamenti conservatori o
reazionari.
In realtà, ne “Il Gattopardo”, si uniscono moduli ottocenteschi, ispirati a
Stendhal, Balzac, De Roberto, e moduli novecenteschi, filtrati
soprattutto attraverso l’insegnamento di proust e di Virginia Woolf. Da
un lato, infatti, il romanzo presenta una costruzione compatta e distesa
nel tempo (fra il 1860 ed il 1910), scandita nella forma del “romanzo
storico” quale si era affermato nella tradizione siciliana da “I viceré” di
De Roberto a “I vecchi e i giovani” di Pirandello; dall’altro, il tempo
viene fermato in quadri staccati (ciascuno dei quali corrisponde ad una
parte o un capitolo) in cui la durata non supera quasi mai le ventiquattro
ore e la prospettiva è quella tutta interiore provocata dall’eco che gli
avvenimenti hanno nell’anima del protagonista, il principe di Salina. Di
qui la duplice trattazione del tempo: storica, lineare e progressiva per un
verso; immobile, analitica e tutta interiore per un altro.
Il principe di Salina aspira ad una distanza superiore e signorile,
all’immobilità, al controllo sul tempo, al distacco concessogli
dall’estrazione nobiliare e accetta la soluzione propostagli dal nipote
Tancredi nell’anno della rivoluzione e dell’annessione al Piemonte: tutto
deve cambiare in odo che tutto rimanga inalterato. L’autore (ma alla fine
anche il personaggio) è invece consapevole che Garibaldi e la borghesia
hanno vinto e che il tempo storico travolge qualunque aspirazione alla
nobiltà e alla superiorità signorili.

31. Giorgio Bassani: di famiglia ebrea, nato nel 1916. Egli si froma negli anni
Trenta e rientra in quella tradizione narrativa borghese, consapevole delle
innovazioni introdotte da Proust e da Svevo, ma volta a riassorbirle in una
scrittura più tradizionale, in cui il grado d’inventività, talora persino cospicuo,
non giunge mai però ad urtare la sensibilità comune. I libri di Bassani sono
stati unificati sotto il titolo comune “Il romanzo di Ferrara”, e infatti sono
dedicati alla borghesia ebraica ferrarese, fra fascismo e dopoguerra. Il ciclo
comprende “Cinque storie ferraresi (1956), “Gli occhiali d’oro” (1958), “Il
giardino dei Finzi Contini” (1962), “Dietro la porta” (1964), “L’airone” (1968)
e i racconti “L’odore del fieno” (1972).
Bassani rivela una narrativa fatta di sfumature, di raccordi simbolici, di sofferta
intimità. I personaggi ebraici riflettono un destino di emarginazione e di
solitudine che è quello stesso dell’intellettuale nella società contemporanea.
Talora è una intera famiglia ad essere travolta dalla persecuzione razziale; altre
volte ad essere emarginato è il singolo in quanto “diverso” (come il
protagonista de “Gli occhiali d’oro”, che è omosessuale).

32. Leonardo Sciascia: (Racalmuto, provincia di Agrigento, 1921 – Palermo


1989) presenta molti aspetti in comune con Calvino: il razionalismo, l’interesse
per l’Illuminismo e per il Settecento, gli stretti legami con la cultura francese,
il riferimento a Borges, il tema del labirinto, uno stile classico, fondato sul
valore della nitidezza e della semplicità. Da Calvino si distacca per una carica
morale più urgente, immediata e risentita.
Come Calvino Sciascia si avvicina negli anni Settanta a tematiche e a forme di
scrittura del Postmoderno: il motivo del complotto, la sovrapposizione e il
riuso contemporanei di generi diversi (romanzo-saggio, giallo, storico,
inchiesta, pumphlet), il conseguente recupero di generi popolari (il “giallo”, il
romanzo storico), la riscrittura di altri romanzi, il ricorso alla parodia e
all’ironia. L’attività
letteraria di Sciascia è sempre stata accompagnata da quella saggistica, di
contenuto storico o politico o critico-letterario. Il suo
maggior successo è “Il giorno della civetta”, romanzo sulla mafia (1961).

33.Italo Calvino: è forse il narratore più importante del secondo Novecento. Ne


ha frequentato tutte le principali tendenze letterarie, dal Neorealismo al
Postmoderno, ma sempre restando a una certa distanza da esse e svolgendo un
proprio coerente percorso di ricerca. Di qui l’impressione contraddittoria che
offrono la sua opera e la sua personalità: da un lato una grande varietà di
atteggiamenti che riflette il vario succedersi delle poetiche e degli indirizzi
culturali nel quarantennio 1945-1985; dall’altro una sostanziale unità
determinata da un atteggiamento ispirato ad un razionalismo più metodologico
che ideologico, dal gusto dell’ironia, dall’interesse per le scienze e per i
tentativi di spiegazione del mondo, nonché, sul piano stilistico, da una scrittura
sempre cristallina e a volte, si direbbe, classica.
Proprio in questa varietà e unità va cercato il significato più profondo della
vicenda artistica di Calvino: egli ha cercato per tutta la vita una risposta, in
termini razionali e morali, al senso di un mondo che gli si è andato rivelando
sempre più labirintico e incomprensibile, e ha seguito a questo scopo strade
diverse.
Per dare conto della varietà e dell’articolazione del percorso di Calvino è utile
anzitutto suddividere il quarantennio della sua attività in due periodi di quasi
identica lunghezza: quello fra il 1945 e il 1964, e il successivo dal 1964 al
1985. Il 1964 è l’anno della svolta, corrispondente al momento in cui Calvio si
sposa, lascia Torino e va ad abitare a Parigi. Mentre nel periodo che va dai
primi racconti a “La giornata dello scrutatore” (1963) fermentano ancora
esigenze di impegno e di realismo e istanze culturali di tipo marxista, in quello
successivo l’impegno tende progressivamente a ridursi, mentre prevalgono
poetiche di tipo combinatorio e poi postmoderno e ideologie scientiste prima,
vagamente nichiliste poi.
Nato a Santiago de las Vegas (Cuba) da genitori dediti alle scienze (il padre,
agronomo aveva una azienda sperimentale a Cuba), cresciuto a Sanremo –
dove la famiglia, tornata in Italia, era andata ad abitare nel 1925, educato in un
ambiente antifascista, laico e colto, il giovane Calvino partecipa alla Resistenza
e milita nel PCI. Laureatosi in Lettere nel 1947 con una tesi su Conrad,
frequenta il gruppo di intellettuali che collabora con la casa editrice Einaudi e
con “Il politecnico”, stabilendo una relazione d’amicizia soprattutto con Pavese
e Vittorini. E’ il periodo del Neorealismo, a cui Calvino dà il proprio contributo
con i racconti scritti a partire dal 1945 e poi riuniti in “Ultimo viene il
corvo” (1949) e con il romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno” (1947) subito
recensito positivamente da Pavese. La presa
di distanza dal Neorealismo è già chiara nel saggio del 1955 “Il midollo del
leone”. Entra in crisi, nel biennio 1956-57, anche il rapporto con il PCI. Nel
frattempo Calvino si è avvicinato ad “Officina” dove pubblica un romanzo poi
ripudiato, “I giovani del Po”. Nel 1959 con Vittorini dà avvio alla rivista “Il
Menabò” che durerà fino al 1967. Nel frattempo scrive altri racconti, riuniti
nella raccolta “I racconti” (1958), il ciclo fantastico-allegorico dei tre romanzi
che formano “I nostri antenati” (“Il visconte dimezzato, 1952; “Il barone
rampante”, 1957; “Il cavaliere inesistente”, 1959) e una serie di racconti o di
fiabe fantastiche ma di ambientazione realistica, “Marcovaldo ovvero Le
stagioni in città” (1963). Nel 1963 esce anche il racconto lungo “La giornata di
uno scrutatore”.
Nel 1964 Calvino sposa l’argentina Esther Judith Singer, traduttrice
dall’inglese, e va ad abitare a Parigi. In Francia entra in contatto con il gruppo
“Ouvroir de littérature potentielle” (Oulipo), con Queneau, con Perec, con
Barthes. Anche l’influenza di Borges si fa ora evidente. I suoi interessi
scientifici tornano a emergere con forza a contatto con gli ambienti del
neopositivismo. I racconti fantascientifici di questi anni (“Le Cosmicomiche”,
1965 e “Ti con zero”, 1967), sempre condotti con elegante ironia, rientrano in
questo clima. Dal gruppo dell’Oulipo e dalla frequentazione degli strutturalisti
e dei semiologi francesi nasce l’idea della letteratura come “gioco
combinatorio”, come attività condotta in laboratorio e volta a costruire romanzi
artificiali. La combinazione dei possibili finisce per identificarsi con quella del
mondo: le parole si sostituiscono alle cose. Questa ipotesi teorica tipicamente
postmodernista tende, con il tempo, a essere segnata da sfiducia e scetticismo
crescenti. Il gioco combinatorio rivela il nulla che gli sottostà. E’ questo il
percorso che va da “Il castello dei destini incrociati” (1969), condotto secondo
le metodologie degli studi semiotici ai romanzi degli anni Settanta (“Se una
notte d’inverno un viaggiatore…”, 1979).
La cultura di Calvino presenta come elementi costanti di fondo il gusto
cosmopolita, l’interesse per le scienze, la tendenza illuministica, alla chiarezza
e all’esattezza. L’illuminismo di Calvino non è una ideologia complessiva, una
visione del mondo che spiega la realtà, ma un metodo che fa ricorso all’analisi
razionale per circoscrivere una complessità che all’intelletto appare, a mano a
mano che si passa dagli anni Cinquanta ai Sessanta e ai Settanta, sempre più
labirintica e insondabile. L’illuminismo calviniano può perciç combinarsi con
la fantasia e affidarsi a ipotesi fantascientifiche, al gioco, alla fiaba: d’altronde
quest’ultima è concepita da Calvino come una combinazione razionale di
elementi più che come uno sprofondamento nel sentimentale o nel mitico o
nell’irrazionale. Non per nulla l’autore che Calvino più ama, Ariosto, controlla
con grande padronanza e superiorità razionale il mondo vario e fantastico che
mette in scena.
La poetica di Calvino è affidata a una serie di saggi che definiscono anche la
parabola del suo svolgimento dal 1945 al 1985. Il modo con cui Calvino visse
il Neorealismo è esposto nella “Prefazione” a “Il sentiero dei nidi di rago”
scritta dal 1964. Egli afferma con forza il carattere collettivo e spontaneo del
movimento e l’esigenza sperimentale di creare un nuovo linguaggio; mostra
quali erano i modelli (“I Malavoglia” di Verga, “Paesi tuoi” di Pavese,
“Conversazioni di Sicilia” di Vittorini) , e sostiene, per quanto lo riguarda,
di essere rimasto estraneo a ogni intento documentario e oratorio. La crisi e il
superamento del Neorealismo sono testimoniati dal saggio “Il midollo del
leone”, del 1955, in cui Calvino, pur accettando ancora l’ipotesi di una
letteratura come “educazione” e impegno morale, respinge la sua
subordinazione a compiti documentarii e a poetiche di partito.
Successivamente due grandi saggi scritti rispettivamente nel 1959 e nel 1962,
“Il mare dell’oggettività” e “la sfida al labirinto”, mostrano un confronto
serrato con il “nuovo romanzo” francese e con le teorie della Neoavanguardia:
Calvino crede ancora alla possibilità di studiare la complessità (il “labirinto”)
senza farsene travolgere e anzi mantenendo vigile un impegno razionale e
morale volto a trasformare la realtà. Già in un articolo del 1970, “Il romanzo
come spettacolo”, questa posizione appare superata. Approdato alla
semiologia, Calvino, che ha pubblicato “Il castello dei destini incrociati”, ha
sposato l’idea che l’universo linguistico abbia soppiantato e sostituito la realtà,
e concepisce il romanzo come un meccanismo chiuso in sé, che gioca
artificialmente con le combinazioni possibili delle parole, senza rimandare più
a un esterno da riprodurre. E’ questa la posizione di Calvino più vicina alla
Neoavanguardia. Ma da essa peraltro egli si distanzia per uno stile e per un
linguaggio che non intendono mai essere espressionistici o viscerali o
rivoluzionari.
Nel corso degli anni Settanta la “sfida al labirinto” risulta ormai perduta, come
dimostra l’Appendice a “una pietra sopra” (1980), in cui Calvino fa un bilancio
della propria ricerca artistica prendendo le distanze dalle speranze e dalla
fiducia del passato. Siamo negli anni in cui Calvino si avvicina al
postmoderno, di cui accetta una serie di motivi e di problematiche culturali, più
che le soluzioni formali modellate sul romanzo di consumo. Si tratta talora di
temi che derivano dalla cultura delle avanguardie degli anni Sessanta ma che
sono ora privati della baldanza aggressiva d’allora. Ne elenchiamo i principali:
la sostituzione delle parole con le cose, a causa dell’onnipervasività del
linguaggio e della caduta della referenzialità; il motivo del labirinto e della
complessità; il nichilismo, vissuto peraltro senza drammi; la tendenza al gioco
e all’ironia; il gusto della riscrittura (“Le città invisibili” rifà “Il milione”);
l’esaltazione della “leggerezza” e del piacere di cogliere la superficie di cose
ridotte a mobili apparenze e quella della “molteplicità” dei punti di vista e della
prospettiva. Molti di questi temi appaiono svolti e teoricamente approfonditi
nelle “Lezioni americane”.
Il libro d’esordio, “Il sentiero dei nidi di ragno”, e i racconti scritti negli stessi
anni presentano uniti i due aspetti, fantastico e realistico, che poi, negli anni
Cinquanta, si divideranno. Nel romanzo Calvino resta lontano da tentazioni
ideologiche e propagandistiche, scegliendo come protagonista un ragazzo, Pin,
una figura leggera e svelta, proveniente dal sottoproletariato e fratello di una
prostituta, dunque sboccato, petulante e malizioso, ha rubato una pistola ad un
tedesco e l’ha nascosta in un luogo favoloso noto a lui solo, un sentiero dove
fanno il nido i ragni. Acciuffato dai tedeschi, riesce ad evadere aiutato da un
partigiano comunista, Lupo Rosso, e poi a congiungersi con una banda di
partigiani, arruffoni e privi di coscienza politica. I partigiani di Calvino non
sono certo esemplari: allo scrittore preme il ritmo felicemente fantastico del
racconto più che la propaganda ideologica o la documentazione di episodi della
lotta resistenziale. Negli anni
Cinquanta la produzione narrativa di Calvino sperimenta strade nuove. Pur
restando fedele a un impegno etico-politico, egli tende ad abbandonare i
moduli del Neorealismo e a tentare uno sperimentalismo in parte simile a
quello indicato dalla rivista “Officina”. Gli elementi realistico e fantastico si
scidono in due filoni diversi: uno è quello fantastico-allegorico, ispirato ad
Ariosto e a Voltaire, l’altro quello sociale volto a una conoscenza critica della
storia e della realtà italiana del dopoguerra. Nel primo rientrano i tre romanzi
brevi riuniti sotto il titolo di “I nostri antenati”. Nel secondo racconti lughi
come “L’entrata in guerra” (1954), “La speculazione edilizia” (1957), “La
nuvola di smog” (1958) e il romanzo breve “la giornata di uno
scrutatore” (1963) I due filoni si incontrano e si sovrappongono nei racconti
“Marcovaldo ovvero Le stagioni in città” (1963), dove un manovale,
Marcovaldo, ha una serie di avventure surreali in una città industrializzata ed
estranea, dove la natura è scomparsa.
I tre romanzi fantastici sono ambientati in epoche remote e i protagonisti sono
figure bizzarre e irreali, con le quali tuttavia Calvino vuole rappresentare
allegoricamente determinati aspetti della condizione umana: la scissione
dell’uomo contemporaneo, alla icerca di un’impossibile unità ed estraneo a se
stesso (“Il Visconte dimezzato”); la situazione dell’intellettuale che sceglie la
strada della separazione dal mondo e che tuttavia non rinuncia a volerlo
conoscere e migliorare (“Il barone rampante”); la vita vuota ed artificiale
dell’uomo d’oggi, ridotta a funzionamento astratto e cerebrale (“Il cavaliere
inesistente”). Il più riuscito dei tre è sicuramente “Il barone rampante”, che
affronta uno dei nodi cruciali della riflessione di Calvino dagli anni Cinquanta
agli Ottanta: la condizione intellettuale.
L’altro filone narrativo ha un’ambientazione realistico-sociale che rimanda
all’Italia del boom o a quella delle elezioni politiche del 1953. Ne “La giornata
di uno scrutatore” il protagonista, l’intellettuale Amerigo Ormea, scrutatore in
un seggio elettorale al Cottolengo, viene posto bruscamente di fronte
all’universo abnorme e deforme dei ricoverati ed è indotto a riflettere sulla
debolezza della ragione e della civiltà rispetto al potere della natura. Alla fine,
il senso della vita può essere forse meglio percepito ed espresso dall’atto di
amore di un padre che schiaccia le mandorle al figlio infelice o addirittura dalla
scelta di dedizione e di carità fatta dalle suore. I l
secondo periodo dell’attività letteraria di Calvino prende avvio da due libri di
racconti, “Le Cosmicomiche” (1965) e “Ti con zero” (1967). E’ un periodo di
vivo interesse per le teorie scientifiche relative alla nascita e alla costituzione
del cosmo. Mentre la fantascienza sviluppa le proprie storie nel futuro e
rappresenta il fantastico come normale, Calvino le ambienta nel passato e
trasforma il normale in fantastico nell’intento di “vivere anche il quotidiano nei
termini più lontani dalla nostra esperienza”. Di qui l’effetto comico
(denunciato dal titolo e straniante). “Le
Cosmicomiche” sono dodici racconti unificati dalla voce di un narratore,
Qfwfq, che ha attraversato tutte le fasi della vita del cosmo assumendo di volta
in volta forme diverse di vita. Le fonti sono disparate. “Ti con zero” contiene
ancora quattro “cosmicomiche” e altri testi accomunati a esse dalla riflessione
scientifica sulla vita delle cellule e sulle combinazioni dei possibili. I due libri,
con l’aggiunta di altri racconti, per un totale di 29 pezzi, sono stati ripubblicati
nel 1984 con il titolo “Cosmicomiche vecchie e nuove”. Il cosmo si presenta
qui come una combinazione di eventi possibili. La scienza non rivela certezze,
ma mette a nudo problemi. Ne deriva un senso estremo di relatività.
La combinatoria narrativa
rispecchia dunque una combinatoria universale. Siamo alla sovrapposizione fra
cosmo e linguaggio. L’attività combinatoria che sceglie alcuni fra gli sviluppi
possibili della trama non è diversa da quella del creato. Anzi il mondo del
linguaggio tende a porsi come unico e assoluto, e la narrativa a risolversi in
metanarrativa, in riflessione cioè, sul proprio carattere astratto e artificiale.
Il gioco combinatorio è al centro de “Le città
invisibili” (1972), che si ispira a “Il Milione” di Marco Polo. Questo romanzo
presenta risultati artistici interessanti e ricchi in quanto in esso resta aperto il
confronto fra letteratura e realtà, fra la descrizione di città ipotetiche costruite
dalla fantasia e dal linguaggio e la consapevolezza che nondimeno, al di là
delle parole, esiste un “inferno” che bisogna conoscere: giacché “la menzogna
non è del discorso, è nelle cose”. Si riapre così la possibilità di un discorso
morale che sembrava annullata ne “Il castello dei destini incrociati”.
L’ultima opera metanarrativa è il romanzo “Se una notte
d’inverso un viaggiatore” (1979). Più che di un vero romanzo si tratta di un
“meta romanzo”, di un racconto che intende mettere in discussione i
meccanismi stessi della narrazione, affrontando in particolare la questione dei
rapporti fra scrittore e lettore e, più in generale, quella del senso stesso della
scrittura. Il libro è formato da dodici capitoli e comprende dieci inizi di
altrettanti romanzi. I loro titoli, letti di seguito con l’aggiunta del titolo di un
altro romanzo possibile, formano poi un altro incipit romanzesco. Ovviamente
questa struttura ha un valore allegorico, vuole alludere all’impossibilità di un
senso compiuto o di un romanzo tradizionale. Ma, data la sovrapposizione fra
linguaggio e mondo, è poi la realtà stessa che risulta aperta, incomprensibile,
sfuggente.
Le ultime opere narrative di Calvino sono i racconti di Palomar (1983)

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