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Di Maio Vincenzo

Barthes: oltre l’autore.


I. Introduzione
Paolo Fabbri1, semiologo italiano ed autore di una intervista a Barthes, racconta

che, quando Geràrd Genette si affidò a Roland Barthes per inaugurare la sua Poetique,

ciò che ricevette fu un testo dal titolo “come si comincia?”, in relazione al come porsi

dinanzi al problema della significazione. Era il 1970, circa. Tre anni dopo, Barthes

pubblicherà Le plaisir du texte 2, estrema formulazione dello strutturalismo francese, in

cui, proprio la significazione, o la jouissance, rappresentavano i punti focali della

trattazione: temi e tesi, dunque, che l’autore coltivava in seno sin dall’Impero dei segni3,

una delle sue opere più note, scritta in seguito al suo primo viaggio in Giappone, ed, in

cui, confluisce per la prima volta l’idea di scrittura come Satori, una pratica Zen che

indica una sorta di tilt logico intimo; una scrittura, dunque, che rappresenta un

momento sacrale.

In questo contesto, il meraviglioso pastiche che è il lavoro di Barthes, si configura

come una serie di riflessioni pratiche sul medium testo e sulla ricezione (negli stessi anni,

peraltro, in cui venivano pubblicati gli scritti riguardo l’estetica della ricezione di

1 Gianfranco Marrone, Sul racconto - una conversazione inedita con Paolo Fabbri, 2019
2Le Plaisir du texte, Éd. du Seuil, Paris 197
3L'Empire des signes, Skira, Genève 1970

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Jauss4), e lo fa attraverso un processo - per certi versi ecfrastico ed autobiografico - che

mostra quanto l’autore si ponga con sfrontata forza nei confronti di una critica la cui

tendenza è prettamente legata all’oggettivazione, ed esprimendosi con ardita

insofferenza - che, però, lui stesso nega essere acuta come quella della giovinezza, e di

Mythologies, 1957 - nei confronti di una Francia in cui almeno metà della popolazione si

prima del piacere del testo (e del testo di piacere) .

“[…] Ed è questo l’intertesto, l’impossibilità di vivere al di fuori del testo

infinito - sia questo testo Proust, o il giornale quotidiano, o lo schermo

televisivo: il libro fa il senso, il senso fa la vita”

Così scrive Barthes nel piacere, sfruttando in maniera irriverente una formulazione

del Lukàcs di Armonia e forme5 (che, però, invero, parlava di forme infinite, piuttosto che

testi), per tracciare un manifesto programmatico del suo pensiero, non più legato al

simil-dogmatismo che vede nel segno l’unità atomica imprescindibile, quanto,

piuttosto, attento al testo in quanto tale, percepito come entità complessa, non

risultante dall’addizione matematica di sema, ne’ come precisa restituzione del discorso

orale. Dalla Jouissance, fino alla morte dell’autore, le tesi di Barthes hanno rappresentato

per la critica un documento di primaria importanza: non è un caso che il suo Sur

4Literaturgeschichte
als Provokation der Literaturwissenschaft, 1967, trad. it. Perché la storia della
letteratura?, 1969; Ästhetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, 1977-82, trad. it. 1987-89
5Gyorgy Lukàcs, Die Seele und die Formen, Berlino 1910 (L’anima e le forme, Milano 1963)

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Racine6, nel 1963, venga visto come una delle “punte di diamante” dell’avanguardista

nouvelle critique.

Il mio elaborato, dunque, verterà sull’analisi delle tesi contenute nella già citata

opera Barthesiana, il piacere del testo: cercherò di affrontare la tematica del rapporto tra

autore e lettore in relazione - ed in confronto - agli argomenti topici dello

strutturalismo, con particolare riferimento alle tesi Genettiane contenute in Figures7, e a

teorie letterarie altre o post-strutturaliste, come la semiotica di Umberto Eco, per poi

focalizzarmi, dunque, sull’applicabilità odierna delle tesi del secondo Barthes.

II. Il piacere del testo e la morte dell’autore.

Seppur interessato con zelo a vari campi, prima di tutto, Roland Barthes è un

semiologo, piuttosto che un filosofo. La sua figura, per quanto scevra dalla possibilità

di essere classificata all’interno di una corrente o tendenza precisa - e per quanto,

effettivamente, quasi nessun autore negli anni ’60 si riconoscesse come “parte dello

strutturalismo” - risente, comunque, del fermento culturale del XX secolo, seguito

all’impatto propulsivo che ebbero le lezioni di De Saussure8 , la cui collazione venne

6Sur Racine, Éd. du Seuil, Paris 1957 


7Gerard Genette, Figures III, 1972. (Figure III. Discorso del racconto, tr. Lina Zecchi, Torino: Einaudi, 1976).

8Coursde linguistique générale, a cura di Charles Bally e Albert Sechehaye , con la collaborazione di Albert
Riedlinger, Losanna-Parigi, Payot, 1916

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pubblicata nel 1916, ed in cui la teoria della struttura assumeva una prima forma

regolarizzata, seppur con il sinonimo di sistema.

Tuttavia, Barthes, che pur contribuisce allo sviluppo dello strutturalismo, compie un

passo in avanti, definitivo, che è sì presente nelle idee di altri suoi contemporanei,

come Levi-Strauss con la sua antropologia, ma che in RB (come lui amava firmarsi)

assume il ruolo di topic della ricerca: l’autore, per Barthes, è morto. Dal momento in

cui l’autore si stacca dal suo prodotto, il testo diventa il ruolo d’analisi privilegiato, in

quanto produttore esso stesso di segni. Allo stesso modo, la critica letteraria, che pure

rappresenta uno dei temi preferiti dall’autore, è una scienza che si serve di altre

scienze, quali, ad esempio, la psicanalisi (con un eco che, nei lavori post-strutturalisti di

Julia Kristeva, sarà ampiamente visibile ed assumerà un ruolo privilegiato nella sua

semanalisi) o la sociologia. Barthes arriverà, nel piacere del testo, infine, ad unificare la

critica con la scrittura stessa: “Così è per me” è il neologismo chiave, che introduce,

dunque, quel concetto di critica come voyeurismo. La coerenza di suddette tesi rispetto

ad un panorama odierno, marcato dalla iper-connessione, dall’entrata in scena dei big

data, è trascendentale, ed è ancor più calzante nell’esegesi del tema portante del saggio

Barthesiano.

Il piacere del testo, dunque, viene introdotto attraverso una citazione di alto spessore:

“la sola passione della mia vita è stata la paura.” - Thomas Hobbes

Il termine paura, nella citazione, non è casuale: esso è, altresì, prossimo ed identificabile

con la Jouissance, termine assoluto, tradotto da Lidia Lonzi in prima battuta come

godimento, e che Carlo Ossola, nell’introduzione alla sua traduzione del testo per

Einaudi, preferisce rendere come diletto.

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È sicuramente lo studio più celebre di Barthes, quello che riguarda la differenza tra

piacere e jouissance: se da un lato il testo di piacere è quello che appaga chi ne fruisce con

la mimesi del linguaggio e con l’attesa e la suspense (addirittura, in un passo, si parla di

quest’attesa come di uno strip-tease extracorporeo), dall’altro, la jouissance, il diletto è la

pratica zen di cui nell’introduzione, il Satori, una implosione, un procedimento simil-

pratico che porta alla distruzione nella fruizione. In questo contesto, ciò che emerge

dalle riflessioni di Barthes, è la visione e l’attribuzione di un ruolo differente al

rapporto che intercorre tra autore e lettore, come già anticipato: “non c’è dietro al testo

qualcuno di attivo o qualcuno di passivo”, scrive, ma anzi il testo stesso desidera il lettore ed

il lettore, in questa proposizione, è desiderato da esso. In altre parole:

“il testo è un oggetto feticcio e questo feticcio mi desidera”

Una parola chiave, feticcio, che testimonia quella inutilità del testo di cui Barthes parla,

e che ancora oggi troviamo negli studi di autori quali Massimo Fusillo 9, ed in cui si

incanala quel trionfo della significanza intesa come senso in quanto prodotto

sensualmente, a cui, nel piacere del testo, vengono dedicate le ultime battute. Il feticcio,

dice ancora Fusillo in riferimento, però, all’oggetto e non al medium testo, è la svolta

epocale compiuta dall’arte contemporanea: in tal proposito, non risulta estraneo,

dunque, il fatto che Barthes, in vita, si fosse dedicato anche allo studio del mezzo, con,

ad esempio, l’ennesimo dei suoi più celebri saggi critici, ovvero La camera chiara10, il cui

tema centrale è proprio la fotografia.

9 Feticci. Letteratura, cinema, arti visive; Il Mulino, Bologna 2012; pp. 61-68
10La Chambre claire: Note sur la photographie, Cahier du cinéma/Gallimard/Éd. du Seuil, Paris 1980.

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In un procedimento quasi sillogistico, se il testo è un feticcio, che nella società

moderna è ambivalente, oggetto alto da un lato, mercantile dall’altro, e, se la lettura,

critica e non, assume valore di tipo scientifico, allora, l’autore in quanto istituzione, è

sparito. Un ventaglio di infinite possibilità si apre a partire da questa definizione: dalla

messa in discussione dell’autorità di chi scrive, dalla definizione di esso come un Pensa-

frasi (cfr. Barthes, p.113), ovvero qualcuno che, nell’economia di un’attività ideologica

esprimibile solo attraverso la compiutezza dell’enunciato, come affermano prima

Chomsky - per il quale, però, la frase è di diritto infinita in campo linguistico - e poi

Kristeva, non è un creatore di sginificato, bensì qualcuno che unisce i segni preesistenti;

fino, dunque, all’approccio completamente avulso da quel “biografismo” che

macchiava le analisi con una visione, immancabilmente, limitante. Il cambiamento di

prospettiva viene assunto quale reminiscenza anche nel giudizio di Barthes sul

cinema11, in cui si parla dei pilastri su cui si fonda la macchina filmica, strumento che

fagocita la storia ma allo stesso tempo dipende da essa, per analizzarla con le parole di

Virginia Woolf 12 divenendo uno strumento atemporale che nasce già vestito: il semiologo

teorizza un sense obtus, che esula da immagine e simbolo e si riferisce all’atto fondatore

della cinematografia, ovvero il rapporto emozionale che passa tra immagine e chi ne

fruisce. Con dovuta lungimiranza, credo che negli anni ’80 Barthes, con date

riflessioni, avesse colto un punto focale di una discussione che ancora oggi non risulta

esaurita: in questo rapporto di connessione tra il feticcio ed il desiderato, la società

francese di Barthes - e, per estensione, probabilmente anche quella odierna - tende a

11Letroisième sens: notes de recherches sur quelques photogrammes de S.M. Eisenstein (in "Cahiers du
cinéma", 1970, 222, poi in L'obvie et l'obtus, 1982; trad. it. 1985, pp. 42-61)
12 Virgina Woolf, The Cinema - Il Cinema (pubblicato per la prima volta in Arts, giugno 1926)

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privarsi del piacere del testo, separata com’è da una tendenza della piattezza e da una

del rigore, che sia esso politico o scientifico (e già il problema era comunemente sentito

molto prima di Barthes; in Italia, a cavallo tra ‘800 e ‘900, il De Amiciis autore di

Cuore lamentava la “mancanza di una classe media”). L’artista, che è tale in quanto

produttore d’arte, di fronte a questa frigidità, vede la sua arte compromessa e si sforza

di distruggerla, cambiando media d’espressione, o congedandosene: la distruzione

stessa è paradosso, che va contro la doxa, binarismo chiave che nel testo rivela, invece, un

processo semantico più che dialettico (se Bataille, infatti, dice Barthes, per processo

logico in un'opposizione dovesse trovarsi a contrapporre l’idealismo del pudore con il

materialismo della libertà sessuale, egli, invece, ne troverebbe una terza via…nel riso.).

Un paradosso, dunque, problematico, come notificato anche da una personalità chiave

per la filosofia del XX secolo, Adorno13, che in uno dei suoi saggi sul racconto rileva

quanto il narratore non sia più in grado di raccontare un qualcosa - il romanzo,

appunto - che, però, esige di essere raccontato.

Questa tendenza di un Barthes post-strutturalista, che nasce, piuttosto che sulle ceneri

dell’autore, sulla nascita del lettore, non è un caso isolato: in Figures III (p. 307), di

Gerard Genette leggiamo:

“Come il narratore, il narratario è uno degli Elementi della situazione

narrativa, e s’inserisce al medesimo livello diegetico.”

In Genette, quanto mai legato al testo ed, anzi, al paratesto, sulla base di un’analisi della

Recherche proustiana, testo amato ed analizzato dallo stesso Barthes, la morte

dell’autore viene taciuta ma, in qualche modo, sottesa. Leggiamo nelle righe presenti

13 Theodor W. Adorno, Note per la letteratura, a cura di Sergio Givone, Einaudi, 2012

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di una figura nuova, il narratario, che, extra o intradiegetico è parte della narrazione

stessa e dialoga col narratore col fine del senso; una figura, insomma, che risente del

cambiamento epocale attuato dal modernismo, conservando, in parte, la volontà di

offrire all’ermaneutica testuale un ruolo privilegiato. Non è un caso che uno studioso

del calibro di Umberto Eco, animato dal suo famoso spirito sovranazionale, arrivi nel

1979 ad una soluzione affine a quella dei due strutturalisti citati, in Lector in fabula14,

definendo il testo come una macchina pigra, che solo in parte ha senso date le strutture

definite dall’emittente, ma, anzi, proprio grazie al lettore smette di essere muto.

Ancora, nel testo di Eco, è presente una tesi ulteriore, basata sull’analisi di scritti di

Edgar Allan Poe, che vede la presenza di funzioni (con un richiamo fortemente legato

alle innovazioni sulle funzioni narrative introdotte da Propp nella sua anamnesi delle

folktales) e strategie discorsive al cui interno è insito un processo di vero e falso, verità e

menzogna: ciò troverà massima espressione in un ennesimo lavoro di Barthes del

1984, le bruissement de la langue15, di cui il paragrafo dal titolo La morte dell’autore, grazie

all’incredibilmente esplicativo esempio su Balzac, permette di cogliere la vena

soggettivista che anima gli studi sul testo del semiologo:

“la scrittura è distruzione di ogni voce”

Un’intuizione monumentale, questa, se la si osserva in rapporto anche ai suoi lavori

precedenti che riguardano questa società dei segni, primo fra tutti Mythologies16, in cui

l’analisi del pop viene a scontrarsi con un significante che nella società moderna è

14Umberto Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani ("Studi Bompiani" n. 22), 1979
15 Roland Barthes, Essais critique IV, le bruissement de la langue; Ed. du Seuil, Paris, 1984
16Roland Barthes, Mythologies, Éd. du Seuil, Paris 1970.

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capace di agire sul significato stesso, attraverso l’ideologia, che restituisce alla società

una episteme diversa ma paragonabile a quella che un tempo era, appunto, la

mitologia. Mythologies, con le sue riflessioni sulla società, presenti anche nel piacere, in

cui la spaccatura tra Destra e Sinistra viene analizzata quasi con ironia, traccia il

contorno del pensiero di un autore che, per tutta la vita, non è stato interessato

solamente al fatto linguistico ed al segno, ma a problemi e questioni di ordine più

pragmatico, come la società ed i nuovi media: lo stesso piacere del testo, infatti,

sembra sfruttare le tesi iniziali soltanto per calarle, in seconda battuta, in una critica

verso la frigidità della società, e sulla distruzione di un’arte di cui solo quell’actio della

scrittura vocale avrebbe potuto rappresentarne un’ancora, ma che oggi ha la sua

espressione, invece, esclusivamente ed in parte, nel cinema.

III. Conclusioni

Seppur possa sembrare marcata da un ombra di finalismo, date la premessa per cui,

nella scrittura e nella figura dell’autore, una verità oggettiva non esiste, la teoria di

Barthes presuppone, in tale marasma, la possibilità di una ricezione libera e non

mediata da autobiografismo o dalla ricerca forzata dell’intenzione originale

dell’emittente: il testo, dunque, diviene un tessuto, potenzialmente infinito, di segni,

che ammette possibilità di relativismo. In un contesto moderno, come il nostro, del

resto, la potenza icastica di un’asserzione del genere assume ancora più valore: negli

ultimi anni, in particolare, con lo sviluppo dei nuovi media e la progressione continua

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dei cultural studies l’autore non può che morire costantemente, nella ricerca di nuove

significazioni in lavori ed opere di molto precedenti. La modifica dei canoni specifici e

non, per forza, nazionali, con gli inserimenti all’interno di essi di autori - ed opere, in

particolare - che vengono riletti nelle loro nuove chiavi (il dante queer ne è un esempio

lampante) non rappresentano che un culmine di questa precisa teoria.

In passato si pensava che le nuove generazioni, i Millennials e la generazione Z, non

avrebbero più dovuto combattere guerre: asserzione, effettivamente, mediata dal

pensiero delle grandi guerre già combattute nel ‘900. Tuttavia, le guerre che oggi in

campo culturale vengono affrontate risultano avere, prettamente, un carattere

ideologico ed ancor di più possono smuovere le fondamenta della società. Negli ultimi

anni assistiamo a battaglie di ogni tipo, relative, in particolare, all’identità di genere e,

dunque, alle ideologie contrapposte di gruppi e minoranze che lottano per affermare

la propria rilevanza: sono battaglie per il padre politico. È il soggetto storico17 il fruitore del

testo, nonostante lo spazio del godimento stia drasticamente diminuendo. Proprio in

questo senso, come già accennato in precedenza, grazie alla connessione costante che

permea il nuovo mondo, l’autore è una istituzione che pian piano sta cessando di

esistere, in favore del testo. Se prendessimo in esame, così come fa Barthes con De

Balzac, un film qualunque di Tarantino (a rappresentare un autore tipico della pop

culture) e volendoci interrogare sull’utilizzo di epiteti razzisti da parte di alcuni

personaggi, cosa dovremmo cercare? Si parla di pensiero dell’autore, carattere del

personaggio o motivazioni differenti? La risposta a questa domanda non esiste e non

può che non esistere: il pensiero di Barthes dimostra esattamente questo. La

17Barthes nelle battute finali del testo asserisce proprio che chi legge non può sentirsi individuo in quanto tale,
bensì un soggetto storico inquadrato in un preciso contesto.

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sua jouissance supera e varca il carattere delusivo della letteratura, combatte contro lo

stereotipo prodotto dalla cultura medio-borghese, arriva a godere dello sfiguramento della

lingua in cerca della distruzione.

“Resta un’isola: il testo.”

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