Sei sulla pagina 1di 8

Cicerone, Marco Tullio

Scrittore e oratore latino, nato ad Arpino nel 106 a.C. da agiata famiglia
equestre, ebbe una profonda conoscenza del diritto, della retorica e della
filosofia che fu alla base del suo impegno forense e politico (console nel
63 a.C.) come di quello letterario. Dopo la formazione del secondo
triumvirato nell’autunno del 43 a.C., C., a causa dell’opposizione a
Marco Antonio, venne inserito nelle liste di proscrizione e, raggiunto da
sicari, trovò la morte il 7 dicembre nei pressi di Formia.

Per gli umanisti della seconda metà del Trecento e di tutto il


Quattrocento C. fu modello di stile letterario e oratorio, e simbolo di
sapienza civile e di equilibrio tra vita contemplativa e vita attiva. Nel
15° sec. erano note le opere retoriche De inventione, De oratore, De
optimo genere oratorum, Orator, Brutus, Topica, Partitiones oratoriae;
era conosciuto un buon numero di orazioni tra cui quelle In Verrem, In
Catilinam, le ‘cesariane’ Pro Marcello, Pro Ligario, Pro rege
Deiotaro e le Philippicae; le opere filosofiche e politiche divulgate
erano il Somnium Scipionis del De re publica, il De legibus, i Paradoxa
Stoicorum, il De finibus bonorum et malorum, il De natura deorum,
le Tusculanae disputationes, il Cato Maior de senectute, il De
divinatione, il De fato, il Laelius de amicitia, il De officiis;
dell’epistolario si conoscevano le raccolte Epistulae ad Atticum, ad
Quintum fratrem, ad M. Brutum, ad familiares (cfr. R. Sabbadini, Le
scoperte dei codici latini e greci ne’ secoli XIV e XV, ed. anast. a cura di
E. Garin, 2 voll., 1967; C. Bec, Les livres des Florentins (1413-1608),
1984; Cicerone nella tradizione europea. Dalla tarda antichità al
Settecento, a cura di E. Narducci, 2006; Manoscritti e lettori di Cicerone
tra Medioevo e Umanesimo, a cura di P. De Paolis, 2012). In particolare,
nella cultura fiorentina del primo Quattrocento e nella sua filiazione
oligarchica, alternativa al platonismo mediceo, occupa una posizione
centrale il De officiis, «la Bibbia dell’Umanesimo civile», secondo la
definizione di Roberto Cardini (Mosaici, 1990, p. 25).

Nelle opere machiavelliane, la presenza di C. è significativa


nel Principe e nei Discorsi. In Principe v 9, M. scrive che «nelle
repubbliche è maggior vita, maggiore odio, più desiderio di vendetta: né
gli lascia [...] riposare la memoria della antiqua libertà» (cfr.
anche Discorsi II ii 25), concetto affine a De officiis 2, 24: Acriores
autem morsus sunt intermissae libertatis quam retentae («Più pungenti
sono invero i morsi della libertà perduta che quelli della libertà
conservata»). Poco prima C. osservava:

PUBBLICITÀ

Omnium autem rerum nec aptius est quicquam ad opes tuendas ac


tenendas quam diligi nec alienius quam timeri

Di tutte le cose nessuna è invero più adatta a difendere e a mantenere il


potere che l’essere amato e nessuna è più contraria che l’essere temuto
(2, 23).

Risulta evidente la differenza con la tesi machiavelliana che per il


principe «è molto più sicuro essere temuto che amato» (Principe xvii 9).

Per la considerazione sul danno che deriva dal «volersi mantenere [...] el
nome di liberale» (Principe xvi 2) si può rinviare a De officiis 1, 42-44 e
2, 52-55 (cfr. Il principe, ed. L.A. Burd, 1891 e Il principe, a cura di M.
Martelli, 2006). In effetti in De officiis 2, 52 si legge:

largitioque, quae fit ex re familiari, fontem ipsum benignitatis exhaurit.


Ita benignitate benignitas tollitur
e la elargizione, che deriva dal proprio patrimonio, esaurisce la fonte
stessa della generosità. Così la generosità si distrugge con la generosità,

e M. ricalca questo passo ammonendo che «non ci è cosa che consumi


sé stessa quanto la liberalità [...] e diventi o povero e contennendo o, per
fuggire la povertà, rapace e odioso» (Principe xvi 18; cfr. Principe xvi
3); anche in De officiis 2, 54, C. fa osservare che multi enim patrimonia
effuderunt inconsulte largiendo («molti uomini hanno dilapidato i loro
patrimoni con elargizioni inconsulte»), elargizioni alle
quali sequuntur [...] rapinae («seguono [...] le rapine»). Se C. suggerisce
di esercitare con prudenza la beneficientia (2, 54) ed evitare il sospetto
di avarizia (2, 58), M. invita il principe a non curarsi di essere ritenuto
«misero: perché questo è uno di quelli vizi che lo fanno regnare»
(Principe xvi 11; cfr. Principe xvi 19).

Così la celebre massima contenuta in Principe xviii 2-4

e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con le leggi; l’altro, con la


forza. Quel primo è proprio dell’uomo; quel secondo, delle bestie. Ma
perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo

è una ripresa quasi verbale di De officiis 1, 34 dove C. afferma:

Nam cum sint duo genera decertandi, unum per disceptationem, alterum
per vim, cumque illud proprium sit hominis, hoc beluarum,
confugiendum est ad posterius, si uti non licet superiore

Infatti poiché due sono i modi di combattere, l’uno per mezzo della
discussione, l’altro per mezzo della forza, e poiché il primo è proprio
dell’uomo mentre il secondo è delle bestie, bisogna ricorrere a
quest’ultimo se non si può fare uso del primo.
L’immagine della volpe e del leone, che in Principe xviii 7 subito segue
per rappresentare la forza e l’astuzia di cui il principe deve sapersi
servire, è ben attestata nella tradizione letteraria, da Plutarco
(→) Lisandro 7, 6 e Silla 28, 6, a Dante, Inf. XXVII 7475, ma in M. si
deve supporre anzitutto il ricordo di De officiis 1, 41. Tuttavia, se C.
afferma

Cum autem duobus modis, id est aut vi aut fraude, fiat iniuria, fraus
quasi vulpeculae, vis leonis videtur: utrumque homine alienissimum, sed
fraus odio digna maiore

Poiché invero si commette ingiustizia in due modi, cioè o con la


violenza o con la frode, la frode sembra propria di una piccola volpe
astuta, la violenza del leone: entrambi i modi sono del tutto estranei alla
natura dell’uomo, ma la frode è degna di maggior disprezzo,

M. giunge a una conclusione ben diversa: «Sendo dunque necessitato


uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la
golpe e il lione».

Per M. necessaria a governare è «la prudenza» che «consiste in sapere


conoscere le qualità delli inconvenienti e pigliare el men tristo per
buono» (Principe xxi 24; cfr. anche Discorsi I vi 20-22, I xxxviii
5; Mandragola III i), un’espressione che richiama De officiis 3, 3 dove
si legge che è necessario ex malis eligere minima («fra i mali scegliere i
minori»; cfr. Il principe, ed. L. A. Burd, cit.). La prudenza come
capacità di scelta si identifica nell’uomo come esercizio di quel «libero
arbitrio» che gli permette di governare «la metà» delle sue azioni,
sottraendole almeno in parte all’arbitrio della fortuna (Principe xxv 4);
M. oppone tale concezione a quei «molti» che «hanno avuto e hanno
opinione che le cose del mondo sieno in modo governate da la fortuna e
da Dio» (Principe xxv 1). A riscontro di questo passo sono state addotte
numerose fonti classiche (cfr. Il principe, ed. L.A. Burd, cit.), tra cui
le Tusculanae disputationes 5, 25, dove, citando dal Καλλισθένης ἢ περὶ
πένθους di Teofrasto un verso di Cheremone (A. Nauk, Tragicorum
Graecorum fragmenta, 18892, fr. 2), C. scrive: Vitam regit fortuna, non
sapientia («La fortuna governa la vita, non la sapienza»). La stessa
opera ciceroniana propone il detto proverbiale Fortis [...] fortuna
adiuvat («La fortuna [...] aiuta i forti», 2, 11), consonante
all’osservazione di M., per cui la fortuna «è amica de’ giovani, perché
[...] con più audacia la comandano» (Principe xxv 27).

Nei Discorsi si trovano vari riferimenti espliciti a Cicerone. In I iv 10 si


legge: «Li popoli, come dice Tullio, benché siano ignoranti, sono capaci
della verità, e facilmente cedano quando da uomo degno di fede è detto
loro il vero», che richiama il paragrafo 95 del Laelius de amicitia in cui
C. afferma:

Contio, quae ex imperitissimis constat, tamen iudicare solet, quid intersit


inter popularem, id est adsentatorem et levem civem, et inter constantem
et severum et gravem

L’assemblea popolare, che è formata da uomini molto inesperti, è pur


capace di giudicare quale differenza ci sia tra un demagogo, cioè un
cittadino adulatore e superficiale, e un cittadino coerente, serio,
ponderato.

In Discorsi I xxxiii 13, in un parallelo tra Cosimo de’ Medici e Cesare,


M. scrive: «Questo medesimo intervenne a Roma con Cesare [...] di che
fa testimone Cicerone, dicendo che Pompeio aveva tardi cominciato a
temere Cesare»; la notizia si trova in Epistulae ad familiares 16, 11, 3,
dove si legge che Pompeo Caesarem sero coepit timere («incominciò
tardi a temere Cesare»). C. è esempio negativo di prudenza politica
in Discorsi I lii 12-16, per il suo tentativo di portare dalla parte del
senato e della libertas repubblicana Ottaviano, figlio adottivo di Cesare,
contro l’esercito, già cesariano, di Marco Antonio (cfr. Philippicae 5,
34; 42-43), senza considerare la possibilità di un’alleanza tra Antonio e
Ottaviano che, realizzatasi, fu fatale alla Repubblica e allo stesso
Cicerone. Quale vittima dell’incostanza della fortuna, C. è menzionato
nel capitolo “Di Fortuna”, vv. 187-89. Echi da C. possono essere nella
lettera a Francesco Vettori del 29 aprile 1513 (minuta) la citazione di un
verso neviano dall’Hector proficiscens (O. Ribbeck, Tragicorum
Romanorum fragmenta, in Scaenicae Romanorum poesis fragmenta, 1°
vol., 18973, fr. 2) presente in Tusculanae disputationes 4, 67, e nella
lettera a Francesco Guicciardini del 4 aprile 1526 la menzione scherzosa
del filosofo greco Formione che voleva dare consigli militari ad
Annibale, episodio che si trova in De oratore 2, 75-76.

C. e M. elaborano due concezioni ben diverse della natura umana: per C.


peculiare dell’uomo è la ratio che si manifesta con l’eloquentia, il ius
aequabile (cfr. De inventione 1, 2), la consapevolezza storica (cfr. De
oratore 2, 35; De officiis 1, 11), la filosofia (cfr., per es., De
legibus, Hortensius, De finibus bonorum et malorum, Tusculanae
disputationes, De officiis), ciò che consente all’uomo di emanciparsi
dalla sua origine ferina (cfr. De inventione 1, 2). M. considera gli uomini
nella prospettiva del loro agire nelle «cose del mondo» (Principe xxv 1),
che li mostra «più proni al male che al bene» (Discorsi I ix 8;
cfr. Principe xvii 10-11). Sbagliano coloro che credono che essi
«fussero variati [...] da quello ch’egli erano anticamente»; perciò si deve
acquisire, se si vuole agire efficacemente nel mondo della politica, «la
cognizione delle istorie» (Discorsi, proemio B 7; cfr. anche Principe,
dedica 2). In questo senso, M. riprende l’antica massima sulla storia
‘maestra di vita’ (per cui cfr. De oratore 2, 35 e De officiis 1, 11, oltre a
Polibio, Storie I, 1, 1-2, e Livio, Praefatio agli Ab urbe condita libri).

Anche nei riferimenti all’opera di C. è dato riscontrare come «nei


confronti delle sue ‘fonti’, ossia dei luoghi classici», M. procedesse
«consapevolmente rovesciando l’iter concettuale» di quel che leggeva
(Sasso 1987-1997, 4° vol., p. 149). M. dunque, pur attingendo dalle
opere di C. significativi spunti di riflessione, si è rapportato a esse in
modo autonomo e critico.

Bibliografia: E. Raimondi, Machiavelli and the rhetoric of the warrior,


«MLN», 1977, 92, pp. 1-16; M.L. Colish, Cicero’s De officiis and
Machiavelli’s Prince, «The sixteenth century journal», 1978, 9, pp. 80-
93; W.R. Newell, How original is Machiavelli? A consideration of
Skinner’s interpretation of virtue and fortune, «Political theory», 1987,
15, pp. 612-34; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi, e altri saggi, 4 voll.,
Milano-Napoli 1987-1997; J.N. Stephens, Cicero nian rhetoric and the
immorality of Machiavelli’s Prince, «Renaissance studies», 1988, 2, pp.
258-67; L. Piccirilli, L. Licinio Lucullo in Cicerone e
in Machiavelli. Nota ai Discorsi III 13, 13, «Giornale storico della
letteratura italiana», 1991, 168, pp. 223-27; V. Cox, Machiavelli and the
Rhetorica ad Herennium: deliberative rhetoric in the Prince, «The
sixteenth century journal», 1997, 28, pp. 1109-41; J.J. Barlow, The fox
and the lion: Machiavelli replies to Cicero, «History of political
thought», 1999, 20, pp. 627-45; P. van Heck, Il De officiis di Cicerone
nel Machiavelli maggiore, «Res Publica litterarum», 2004, 27, pp. 42-
69; W. Olmsted, Exemplifying deliberation: Cicero’s De officiis and
Machiavelli’s Prince, in A companion to rhetoric and rhetorical
criticism, ed. W. Jost, W. Olmsted, Malden-Oxford 2004, pp. 173-89;
M. Zerba, The frauds of Humanism: Cicero, Machiavelli, and the
rhetoric of imposture, «Rhetorica», 2004, 22, pp. 215-40; D. Fott, How
Machiavellian is Cicero?, in The arts of rule: essays in honor of Harvey
C. Mansfield, ed. S.R. Krause, M.A. Mc Grail, Lanham 2009, pp. 149-
65; G. Remer, Rhetoric as a balancing of ends: Cicero and Machiavelli,
«Philosophy and rhetoric», 2009, 42, pp. 1-28; D.J. Kapust, Acting the
princely style: ethos and pathos in Cicero’s On the ideal orator and
Machiavelli’s The prince, «Political studies», 2010, 58, pp. 590-608;
J.G.A. Pocock, Machiavelli and Rome, in The Cambridge companion to
Machiavelli, ed. J.M. Najemy, Cambridge 2010, pp. 144-56; M.
Zerba, The politics of skepticism and sublimity in Cicero and
Machiavelli, «APSA Annual meeting paper», 2010, pp. 1-24 (http://ssrn.
com/abstract=1643787, 14 genn. 2014); A.S. Duff, Republicanism and
the problem of ambition. The critique of Cicero in Machiavelli’s
Discourses, «The journal of politics», 2011, 73, pp. 980-92.

Potrebbero piacerti anche