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Leopardi, A. Vigorelli
Filosofia morale
Università degli Studi di Milano
27 pag.
Nello Zibaldone, Giacomo Leopardi cita solo una volta la parola pessimismo con
significato metafisico, ed è per prenderne le distanze. Influenzato da d’Holbach,
rovescia la teodicea religiosa. Pur non prendendo una posizione su Dio, viene
considerato ateo. Leopardi considera il mondo, l’universo, l’esistenza, il fine e
l’ordine come male, come se fosse un inno ad Arimane, una figura di somma
malvagità. Leopardi si professa dunque pessimista perché il pessimismo ha più
argomenti, sebbene non lo estenda a Dio, in modo da non sostituire il pessimismo
all’ottimismo e farli coesistere. Assume un atteggiamento neutrale.
Difatti Leopardi non si uniforma totalmente al pessimismo; mostra una preferenza
per i filosofi inglesi empiristi e, in secondo luogo, per i francesi, rispetto agli
idealisti tedeschi, ignorando anche Kant. Leopardi considera la filosofia tedesca
Esponente della seconda categoria è Croce, autore di “Poesia e non poesia “, in cui
si riferisce a Leopardi attraverso l’espressione “vita strozzata “e inaugura un intero
filone critico. Croce lega all’antitesi tra ottimismo e pessimismo il significato
teoretico, al fine di stroncare
le due teorie che hanno radice storica nel Romanticismo europeo. Egli non
approfondisce la
questione metafisica che è capace di allontanare Leopardi dal pessimismo. Croce
richiama l’epoca dell’illuminismo e del romanticismo. Il romanticismo pessimistico
era una reazione all’ottimismo illuminato. Ecco che Benedetto Croce critica
La natura, secondo Leopardi, ci ha già fatti saggi tanto che il saggio opera usando
le massime, mentre noi usiamo l’istinto. L’apice del sapere umano consiste nel
riconoscere l’inutilità del sapere troppo. Se l’uomo fosse ancora ciò che era in
principio, non avrebbe avuto questa sete di conoscenza. La filosofia serve a
superare i danni che questa brama ha provocato, in quanto ci libera e ci
disinganna. Questo è un atteggiamento anti intellettualistico, tipico di Rosseau,
benché non sappiamo quanto Leopardi conoscesse l’autore.
Leopardi distingue le parole primitivo e barbaro. La prima ha una connotazione
positiva, e rimanda al selvaggio, al primitivo. La seconda richiama uno stato
dell’uomo, anche civile.
I grandi “se” della filosofia sono tre per Leopardi:
Leopardi afferma che l’uomo deve rientrare nello stato di natura
immaginario, benché si renda conto che il processo di evoluzione delle
civiltà sia irreversibile. L’autore divide anche la “grande” natura dalla
“piccola” ragione. L’uscita dell’uomo dallo stato naturale selvaggio allo stato
civile è considerato un regresso, benché, anche secondo Rosseau, lo stato di
natura non è mai esistito se non in uno scenario ideale;
Il ruolo della filosofia è farci capire l’errore commesso in origine dall’uomo e
correggerlo. Questo errore è il voler sapere troppo, e ciò ha fatto perdere la
felicità all’uomo. Ecco che l’identificazione tra il dubbio e il vero inizia a
delinearsi come un passo indietro che il filosofo deve fare per porsi nella
condizione originaria, a priori di ogni volontà di conoscere in modo esatto
ogni cosa;
Rimettere l’uomo nella condizione in cui sarebbe sempre stato. La filosofia è
utile quando ci libera da sé stessa, quando si auto supera in una direzione
pratica. Ecco quindi che si parla di ultra filosofia, un allontanamento dallo
“La natura è grande, la ragione è piccola”: questo è alla base della teoria delle
illusioni. L’arcana sapienza della natura, ripresa ne “Storia del genere umano”, ha
mescolato fantasia e razionalità. Dimostrando le illusioni come errori, la ragione ha
reso l’uomo infelice: è questo il peccato dell’uomo, la troppa volontà di sapere.
I concetti di filosofia, mezza filosofia, ultrafilosofia sono ricondotti in tre principali temi:
ragione-passioni, natura-ragione e antichi-moderni.
La passione è forte ed efficace rispetto alla debole ragione. Occorre che la ragione, il
dovere, la virtù diventino passioni, ovvero “lasciassimo fare alla natura, le cose
andrebbero benissimo”.
Alla base della teoria degli affetti, vi è l’amor proprio ed è ciò che differenzia l’uomo
dagli animali, non l’istinto di autoconservazione. L’uomo, sentendo la vita e agendo
per cercare il piacere, implicitamente rinuncia alla quieta felicità. Perciò agli umani
tocca la noia, ossia lo spezzare di questa ricerca per preservare il vigore.
L’uomo con gli studi e le fatiche impara ciò che per il fanciullo era naturale e ha perso
con lo stesso studio. La vita è movimento e la sapienza appartiene ai fanciulli e ai
selvaggi. L’unico utile della filosofia è questo: diventare ultrafilosofia e disingannarci
dalla filosofia stessa. L’unico rimedio alla civiltà è la civiltà stessa. Occorre porsi nello
stato di “mezza civiltà”, ossia una civiltà che cerca di tornare alla natura e dove gli
uomini sono come il secondo, ossia conservanti ancora un poco di natura.
Importante nel Discorso è la “società stretta”, prodotta dai commerci intimi degli
uomini. L’intento di Leopardi non è quello di criticare, ma di assicurare l’esistenza di
costumi come nelle regioni del nord Europa e superi l’insocievole socievolezza
kantiana. La civiltà è unico rimedio a sé stessa con la società stretta dove gli uomini si
stimano grazie agli scambi. Ognuno quindi desidera farsi stimare. In Italia, però, non si
hanno costumi ma usanze e abitudini. Gli italiani sono incivili, cinici e dissipano le loro
giornate. Non hanno riguardo delle opinioni altrui e provano un’indifferenza profonda.
L’italiano è filosofo e intelligente ma abituato a ridere di tutto. Quest’abito di
freddezza e noncuranza contrasta con il carattere climatico dei paesi del
Mediterraneo.
Leopardi arriva a preferire una società dell’interesse personale rispetto a degli stretti
legami. Il funzionamento fondato sull’egoismo è ben raffigurato da un’analogia fisica:
così come le trombe d’aria premono l’una contro l’altra mantenendo un precario
equilibrio, così la società umana nello stato di egoismo mantiene stabilità a dispetto di
sé stessa. La ripresa del valore antico del bene individuale non è tanto nostalgica, ma
è ripresa in quanto esalta la libertà e l’azione individuale; con la civiltà invece, “le
masse guadagnano ma l’individualità perde”.
Esistono tuttavia delle virtù naturali in grado di scuotere le ultime tracce di vitalità
nell’uomo modernizzato e penitente. La noncuranza si può curare con la compassione
(Detti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. III), l’irrisione con la cooperazione e il riso
caldo (Dialogo di Timandro ed Eleandro), alle passioni tristi come l’odio e l’invidia si
oppone l’amicizia.
Decifrare la natura e il suo ordine non è compito della ragione, ma della facoltà di
sentire con l’immaginazione. Queste facoltà indovinano meglio la natura, mentre la
ragione fallisce nello scoprirla. Gli antichi e la loro metafisica erano superiori poiché
avevano capito che la natura “si dispiegava nuda e aperta”. La contesa tra la
metafisica ossia il punto di vista filosofico poetico e la fisica, il punto di vista
scientifico, è il tema del “Dialogo di un fisico e di un metafisico”. Ragione e
immaginazione si devono unire a creare un sistema metafisico il più possibile al vero.
Questo Leopardi ultra filosofico infatti produrrà la risposta del sole a Copernico.
Questo tono viene trasferito allo spettatore terrestre ne “Dialogo della Natura e di un
Islandese”. Si tratta in realtà di un soliloquio, non di un dialogo. L’immagine finale
della mummia sommersa dal mausoleo dà l’idea dell’inizio della metamorfosi organica
cui ogni vivente è abbandonato dal ciclo naturale. Sebbene le sventure dell’islandese
abbiano fatto crollare tutte le sue convinzioni, egli è ancora resistente all’insensatezza
del vivere, ma le sue accuse cedono davanti all’indifferenza della Natura la quale è
“un perpetuo circolo di produzione e distruzione”.
Questo tema raggiungerà il culmine nella fine eterna dei pianeti nel “Frammento
apocrifo di Stratone da Lampasco”, passando prima per la rinnovata speranza della
vita nel “Cantico del Gallo silvestre” e il riscatto simbolico della morte nel “Dialogo di
Federico Ruysch e delle sue mummie”. In questo dialogo alla brevità della vita,
Leopardi contrappone lo “spazio vuoto che resta da percorrere”. Il sentimento della
noia fa provare il sapore del nulla in anticipo e può derivare da un difetto di calcolo: la
vecchiaia valuta diversamente dalla giovinezza il valore del tempo. Essa è assuefatta
dall’esistenza, è sazia, rinuncia alla vita. Come spesso accade in Leopardi, anche in
questo dialogo vi è uno spettacolo senza spettatore con il coro delle mummie, diverso
dalla chiacchierata con Ruysch. Il nostro essere trascorre gli interminati spazi cosmici
senza tormento.
L’”Elogio degli uccelli” rovescia la metafisica classica: la facoltà del ridere pare
un’irrisione nei confronti dell’uomo dal momento che mediante la ragione, egli
apprende la propria costitutiva infelicità. A differenza del pianto il riso è acquisito dalla
civilizzazione ed originato dalla ubriachezza, rimedio naturale contro il dolore e
l’infelicità. Gli uccelli invece sono naturalmente felici, predisposti al canto, al riso e al
volo e non alla noia. Gli uccelli sono come i fanciulli instancabili e leggeri, fonte di
diletti. Vi è un parallelismo tra Amelio, che desidera essere un uccello anche solo per
La pazienza è una virtù che emerge nel “Dialogo di Plotino e di Porfirio”, dove Plotino
non ribatte le affermazioni di Porfirio, ma lo invita a pazientare la vita, in nome delle
consolazioni dell’amicizia. La pazienza nasce anche dalla sopportazione delle tendenze
della moda. Di fronte al dolore, non si deve opporre resistenza, ma una pazienza
eroica.
È possibile ricavare dalla vita moderna una diversa terapia per rinvigorire gli uomini? Il
quarto capitolo dell’Ottonieri distingue tre tipi di umanità in base al grado di
civilizzazione. Il primo gruppo, i mediocri, si trova in una società moderna e sviluppata
dove la natura umana è mutata dalla vita cittadina. Gli individui del secondo gruppo
sono inferiori o superiori in queste società e non hanno coltivato la loro natura; è il
“volgo”. Il terzo gruppo è una ristretta minoranza che ha mantenuto un certo grado di
natura e disprezza gli altri.
L’alter ego moderno di Colombo è Torquato Tasso. I temi del sonno e del sogno come
fonte di diletto sono al centro del “Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio
famigliare”. Il Genio per sollevare Tasso dal dolore propone “un sogno in cambio del
vero”. L’immagine di Leonora gli verrà condotta in sogno, più vera e reale che nel
passato e, a causa della natura illusoria del piacere, non vi è reale differenza di valore
tra realtà e sogno. L’illusione è preferibile al vero che priva del diletto. L’amore è
principio vivificante della natura: l’uomo non vede altro che l’oggetto amato. L’amore,
pur illusorio, aggiunge forza alla passione. Si passa dunque dal diletto alla malinconia,
unico rimedio efficace alla noia e ad i suoi effetti antivitali.
Solo quando l’uomo forte è privato di sensazioni si trova più infelice del debole, ma
dotato di distrazioni ed azioni forti, ecco che il debole torna ad essere il più infelice. Le
tre distrazioni principali, fonte di piaceri, sono tre. Il sonno è il più accessibile e
frequente e convince l’individuo di un continuo rinnovamento. Il sonno però è solo una
momentanea interruzione; la seconda distrazione è l’occupazione. Ogni attività è fonte
dei principali piaceri. La terza distrazione, presente nei fanciulli, è la meraviglia che si
prova vivendo secondo natura.
Leopardi aveva intuito il tono melanconico di Virgilio riguardo alla perdita “delle grandi
e vive illusioni”. Virgilio, nella sua malinconia, è moderno perché non ricava il
sentimento originario della vita ma lo traduce nella rassegnazione al destino. La sorte
di Teofrasto non è infelice, invece. Egli muore circondato dall’affetto dei discepoli ai
quali svela una verità che va contro i suoi precedenti insegnamenti. La penitenza è un
atto religioso che può manifestarsi anche in punto di morte: Teofrasto non rinnega la
scienza, ma chiede più scienza. Un sentimento doloroso e profondo conduce Teofrasto
sulla soglia di una lucida consapevolezza del vero preservandolo tuttavia dal cinismo
stoico per il quale “tutto il bello, il piacevole è falsità”. Egli suggerisce un recupero
degli “errori naturali” finalizzato all’operare magnanimo e generoso”. Ecco la sfida di
Teofrasto: nulla detrarre al vero, senza spregiare le illusioni. Compiere un passo
indietro, per sostarvi, nel breve periodo della nostra vita. Durante la vita, Teofrasto ha
insegnato attraverso l’operare all’amor di patria, e con la morte ha insegnato ad
approfondire il senso tragico della vita.
Questo lavoro filologicamente accurato testimonia l’importanza che Leopardi dava agli
stoici, ossia una felicità concepita come apatia, tranquillità, che in apparenza è
l’opposto di quella di Leopardi della magnanimità, del culto dell’azione e del
movimento. Lo stoicismo, nello Zibaldone, viene vista come filosofia della debolezza,
una “tecnologia della sottomissione” e ne vede il fallimento durante l’episodio di
Pietrino. Durante l’infanzia, Luigi lanciò dalla finestra la cannuccia di Pietrino e lui
iniziò a piangere. La madre, Adelaide Antici, affermò: “non piangere che l’avrei gettata
io”. L’aneddoto ci riporta al clima di rigido cristianesimo stoico. La ribellione del
fanciullo, che richiama la magnanima disposizione degli antichi, si contrappone alla
sottomissione rassegnata dell’uomo moderno. Tuttavia, la rassegnazione, secondo
Leopardi, addolcisce la crudeltà della speranza, rendendo possibile la vita. I tre temi –
giudizio, desiderio, azione – della pratica stoica possono diventare un recupero del
“sentimento di sé” per i moderni. Una ragionata contentezza di sé e del proprio valore
prende il posto della disperazione. Anche in questo caso, vi è una sorta di pazienza,
uno strato di passività che va riattivato per avere una consolazione personale,
pazientando eroicamente. Se il volgo può urlare e disperarsi secondo natura, il
beneficio della filosofia è la sopportazione del dolore affidato alla pazienza e alla cura
del tempo.
Il paragone tra virtù e stile è ripreso da Leopardi nel “Preambolo del volgarizzatore”.
Ciò che va recuperato dagli antichi è l’esercizio dello stile, ossia produrre una buona
forma con contenuto e fine morale dell’opera. Gli antichi, negli scritti, non si
proponevano di dire cose nuove, ma di dire meglio quelle già dette.
Isocrate afferma inoltre, a riguardo della politica, che il primo dovere del principe è di
“formare la propria mente alla difficile arte di governo”, superando in virtù i privati
cittadini, senza ricercare vantaggi dalla propria posizione di potere. L’amore per gli
uomini e la città, la filantropia, è il presidio per stabilizzare il governo. La virtù del
principe è quella di avere amici come gli uomini buoni, non i tristi, di essere benvoluto
dai cittadini ed essere alieno dall’ira. Isocrate riprende, in questo contesto politico,
Socrate. Leopardi, come uomo politico, si rivolge alla monarchia ellenistica, alla
repubblica e ad Atene.
Il percorso che porta dalla politica dello Zibaldone all’indignazione nel “Discorso sopra
lo stato presente dei costumi degli italiani” e al riso delle “Operette morali” passa da
questi elaboratissimi “Volgarizzamenti”. Leopardi non perderà la sua tempra
combattiva e la sua passione morale. La cura di sé leopardiana si traduce in una
pratica autobiografica, riprendendo il “conosci te stesso” di Socrate.
Questo passaggio è ben definito in Leopardi e risale alla crisi esistenziale dell’estate
del 1819 nel primo tentativo grottesco di fuga da Recanati. L’autobiografia di Leopardi
diventa per lui un problema filosofico, di volontà di sapere e conoscere sé. L’autore
giunge a “un’arte della memoria” dove l’analisi introspettiva è legata dalle emozioni e
dal desiderio di conoscersi.
Tutto ciò è descritto, anche le riflessioni precedenti, nelle “Memorie della mia vita”
dove il poeta maturo necessita ma è impossibilitato a creare un’autobiografia.
Leopardi vorrebbe offrirsi come esemp0io della condizione umana universale ma
occorrerebbe un “centro” stabile e permanente. Ma, fuori da Recanati, Leopardi si è
immaginato un intero microcosmo: Recanati è la verità per Leopardi. All’impazienza
del giovane ardito, Leopardi sa opporre la difficile arte del “portare pazientemente” la
vita.
Leopardi ha dunque creato una teoria filosofica del soggetto, lontano dall’idealismo e
dallo spiritualismo. I temi cardine sono la potenzialità umana, la teoria del piacere, il
desiderio, la teoria dell’azione e la memoria. Ma anche il socratismo, la conoscenza e
cura di sé. (Il Vigorelli qui se la prende con la società del Novecento che non dà la
minima importanza a Leopardi filosofo e afferma che c’è ancora molto lavoro da fare).
La noia è il desiderio della felicità puro, lasciato intatto. Questo desiderio è passione,
quindi l’animo non può mai essere senza passione. Se la vita è il “sentimento
dell’esistenza” e l’uomo concepisce la materia come non vivente, ne risulta che la
vitalità sarà in proporzione diretta dall’amor proprio, e dunque dell’infelicità percepita
dal soggetto. Dunque, è questo l’unico dogma che Leopardi riprende dai filosofi
moderni e pone alla base del suo scetticismo dimostrato e ragionato. La conclusione di
Leopardi è una contraddizione tra esistenza e vita dovuta dall’impossibilità, per
l’esistente, di far corrispondere la propria forza vitale, mossa dall’amor proprio e non
dall’autoconservazione, alle condizioni materiali che ne sono a fondamento. In altre
parole, è la contraddizione tra l’esistenza come “nuda vita” e il vivere, tra “l’esserci
fattuale” e “l’esistenza sentita”. Leopardi, sulla base di concreti vissuti poetici ed
estetici, pone l’immaginazione come facoltà dell’animo radicata nella memoria e nel
sentimento, a cui affidare il ruolo di creatrice di illusioni attive.
Il vigore del corpo, come quello dell’animo, ha una duplice assuefazione: generale e
particolare”. L’esercitazione generale del copro rende meglio disposti alle facoltà
particolari cosicché una nuova sofferenza riesce più facile perché il corpo è già
abituato a soffrire. Le assuefazioni particolari, invece, rendono estremamente facile
solo una sofferenza in particolare. Per chiarire la differenza tra disposizioni e facoltà,
Leopardi ricorre all’immagine del foglio di carta. Le disposizioni sono innate, si
acquistano mediante lo sviluppo e il perfezionamento: come la carta contiene la
disposizione ad essere scritta. Le facoltà nascono dalle circostanze, dall’educazione.
Esistono due forme di memoria: spirituale e materiale, riconducibili alle due modalità
di attenzione: volontaria e involontaria. Essendo la memoria sinonimo di assuefazione
e apprendimento, è tautologico dire non vi è memoria senza attenzione. È la memoria
involontaria, la forza e vivacità delle sensazioni, a porsi all’origine della stessa facoltà
di attendere. La capacità di ricordare è propria degli uomini riflessivi ed è “la punta di
un più vasto continente sommerso”. Nel bambino piccolo, non esiste memoria prima
delle esperienze; in questi, la facilità della distrazione e la poca attenzione richiedono
un allenamento della memoria; utile, in questi casi, è la lettura. Questa memoria attiva
e volontaria, però, ha origine in una natura involontaria, dove si hanno i ricordi della
prima fanciullezza. La distrazione, spessa vista come un difetto, deriva dall’applicare
la memoria con troppa intensità al flusso di sensazioni cui è sottoposta la mente dei
Questa concezione del tempo considera la natura non come lineare, ma come
circostanziale e topica. La differenza di ingegno tra due persone è dovuta alle
circostanze e dalle assuefazioni casuali, come per esempio le preferenze individuali al
riguardo dei piaceri più o meno secondo natura, ossia piaceri che siano in linea con i
costumi, le persone, il territorio. Si può affermare quindi che “l’uomo sia quasi tutto
opera delle circostanze e degli accidenti”, poiché la natura pone in lui semplici
disposizioni che si possono sviluppare o meno in base alle circostanze, cosicché
l’individuo diventi e non nasca.
La storia, una sorta di memoria collettiva, non procede in modo lineare, ma a sbalzi,
ossia il carattere degli eventi è occasionale e fortuito. Lo stesso si può dire del
processo formativo dell’uomo. L’uomo è una macchina semplice da costruire, ma ha
un’infinità di effetti diversi, prodotti dalle circostanze. Solo una facoltà è sorgente della
ragione, delle passioni, della poesia ed è l’immaginazione. Sono le circostanze storiche
a produrre la diversità dei talenti.
Il risultato teorico finale che raggiunge Leopardi nello Zibaldone, dopo molte altre
analisi, è l’identificazione di ragione e affettività. L’allegria e la tristezza sono
disposizioni dell’animo in grado di aprirci a due facce diverse della medesima verità.
Esiste un senso della verità, ovvero che oltre a intendere ciò che è vero, bisogna
anche sentire che è vero; in questo senso, per Leopardi, la verità è relativa.
Nuovamente Leopardi si oppone ai filosofi moderni che ricercano delle verità
indipendenti dall’uomo.
La fenomenologia degli affetti è ricondotta alla dinamica dell’amor proprio, che rimane
costante in quantità negli esseri viventi insieme al piacere. Se resistita, la passione
verrà intensificata; invece verrà diminuita dall’assuefazione, che renderà l’individuo
meno capace di provare sentimenti vivi e forti. Le manifestazioni dell’umore, come
allegrezza, tristezza, noia, entusiasmo, curiosità, precedono la disamina delle emozioni
e dei sentimenti. L’umore lieto è incline a favorire le attitudini sociali e le azioni,
mentre la tristezza deprime la forza. Curioso come l’entusiasmo e la curiosità siano
svalutati, visti come negativi e non incentivanti all’azione, mentre l’ostinazione e
l’impazienza sono “tipiche degli spiriti grandi”.
Ecco perché il piacere che si prova nel compiacere gli altri è raro. Difficilmente
possiamo compiacere l’amico senza incorrere nell’odio di un altro (Nota degli appunti:
questo tema viene trattato nei “Detti memorabili di Filippo Ottonieri”, capitolo III). La
beneficenza si trova in chi ha totalmente disperato di sé e della propria felicità; è in
uno stato di tranquilla disperazione, consolato al pensiero di usare a vantaggio degli
La tendenza a comunicare altrui piaceri permane anche nello stato di civiltà. Essa però
conserva una forma di esistenza minore nei soggetti deboli: le donne, i fanciulli, gli
ignoranti. La passione amorosa rimane la sorgente dei maggiori piaceri: la ragione è
nel vago e nell’indistinto, nell’idea confusa di un sommo piacere.
Leopardi rintraccia, sempre a partire dall’amor proprio, le passioni della speranza e del
timore. L’uomo è più inclinato al timore poiché il bene e il male aspettato è più grande
di quello presente. Vogliamo credere più facilmente alle nostre paure che alle nostre
attese. L’uomo è infatti l’unico essere scaramantico. La speranza però non abbandona
mai l’uomo quanto alla natura, mentre lo può abbandonare quanto alla ragione. Ne è
prova il suicidio, atto razionale ma contro natura. Il coraggio nulla può contro gli
spaventi della natura, che si impone ancora una volta sulla ragione.
Il coraggio autentico è quello che proviene dal disprezzo del male e dalla volontà di
opporvisi. Più debole è il coraggio di rinunciare a qualcosa. Il coraggio è in proporzione
alla forza del corpo: sono i giovani i più coraggiosi. Chi più spera, più teme e il timore è
indice di propensione all’egoismo. Per effetto del timore, l’uomo si rannicchia e si
isola, pur di conservare la nuda vita.
La speranza nulla può contro il timore. Leopardi denuncia l’illusorietà del cristianesimo
che indica una felicità che l’uomo non può autenticamente desiderare. Riguardo
all’efficacia del sentimento religioso, le paure e i timori di un castigo eterno sono più
potenti della felicità futura. Il pentimento, tipico del cristianesimo, è la consapevolezza
di una colpa e Leopardi la considera la peggiore di tutte le disgrazie ed invita a
diffidare da questa passione rassegnata tipica della vecchiaia. Nella assuefazione alla
vita possono trovare spazio sentimenti benevolenti verso il prossimo.
Più ci si allontana dalla visione tragica di Leopardi più si scoprono i tratti originali di lui
come pensatore. La sua riflessione restituisce alla lingua italiana moderna il posto che
le spetta. Come Dante ha insegnato a parlar volgare, Leopardi adegua a parlare nella
lingua nazionale. La lingua filosofica di Leopardi è il lascito più durevole. Parole come
ex novo, assuefazione, assuefabilità, conformabilità e anche espressioni perifrastiche
come comunicare-altrui-piaceri. La consapevolezza dell’insufficienza del linguaggio
tecnico della filosofia studiata a scuola costringe Leopardi a un esercizio continuo di
adeguazione della parola alla cosa interiormente sentita.
A differenza dei termini e delle voci scientifiche, le parole esprimono anche delle
immagini accessorie. Questa proprietà delle parole può aiutare la filosofia nella ricerca
del vero. Il francese per Leopardi è una lingua artificiale, cruda e scientifica.
Curiosamente la lingua italiana è ottima in tutti gli ambiti, tranne in quello filosofico e
politico. Leopardi vorrebbe concepire un “vocabolario universale europeo” che
comprenda parole significanti precisamente un’idea chiara e precisa.
Leopardi introduce una riflessione a proposito del verbo sostantivo “essere”. La natura
imperfetta di questo verbo si spiega per la difficoltà di esprimere un’idea così
elementare. La lingua filosofica moderna dovrà seguire l’esempio della lingua francese
L’italiano deriva, secondo Leopardi, dall’antico volgare latino. Se vi fossero stati i goti
in Italia, staremmo parlando una di quelle lingue. A differenza del latino, però, la
lingua italiana condivide con il greco una maggiore varietà e naturalità; addirittura il
greco antico serve di più del latino. Questi però è radice delle lingue indoeuropee, ed è
da considerare sorella del greco.
Poeta e filosofo hanno molto in comune. Il primo punto di contatto è il trovare delle
similitudini e trovare delle somiglianze negli oggetti più distinti. Inoltre sono entrambi
capaci di esprimere tali scoperte con nuove parole. Il filosofo scopre e lega dei rapporti
e usa la facoltà inventiva. Oggi, i moderni sono filosofi mentre i fanciulli sono poeti. I
fanciulli grazie alla grande vivacità scoprono affinità tra le cose più disparate e il
filosofo dovrebbe trarne esempio. Anche i filosofi, come i fanciulli, dovrebbero usare
l’immaginazione, che nuovamente è fonte di ragione, sentimenti e passioni.
L’immaginazione dipende dalla integrità del senso da cui deriva e che costituisce una
fonte in comune con l’intelletto. La forza dell’immaginazione si oppone alla sua
fecondità. Il primo carattere dell’immaginazione sarà malinconico, il secondo
scherzoso. Ancora una volta la regola generale è che da una medesima causa si
producono effetti opposti in base alla diversa composizione di senso, immaginazione e
intelletto. La forza dell’immaginazione non si sposa con il coraggio. Se in un popolo
prevale il polo naturale dell’immaginazione, i suoi uomini saranno inclini all’azione e
alla libertà, mentre se prevale il polo razionale vi sarà oziosità, metafisica e tirannide.
Il prevalere odierno dell’immaginazione derivante da verità filosofiche, e non dalla
natura, produce una società tetra.
In queste note giovanili Leopardi insiste molto sulla diversità tra immaginazione
poetica e filosofia (Nota degli appunti: questo tema è presente nel “Parini”, VII cap.),
mentre in quelle recenti matura la consapevolezza dell’operare razionale, cercando un
connubio tra creazione poetica e intuizione filosofica; l’immaginazione e l’intelletto
diventano sinonimi. Leopardi si distacca dal sé giovanile in seguito allo studio
scientifico-naturalistico. Un esempio di unione è l’ipotesi nell’esperimento, quindi
un’immaginazione non solo fantastica, ma anche razionale. Leopardi rimane
comunque dell’avviso che l’analisi debba partire dall’individuazione del poetico nella
natura.
L’immaginazione influenza l’agire dei popoli. I popoli meridionali erano, per questo,
attivissimi. Ora sono i popoli settentrionali attivissimi, poiché essendo privi di
immaginazione, ricorrono a stimoli esterni. L’immaginazione povera dei settentrionali
non favorisce la forza del sentimento. La patria della poesia è il meridione, la patria
del pensiero è quella settentrionale.
Nella “scala degli esseri” alla cima si trova l’uomo, che può avere le disposizioni e le
qualità più disparate, mentre all’ultimo gradino vi è la natura inorganica. Leopardi si
rifà al sapere chimico per completare l’ontologia della natura, evidenziando come la
chimica e la sua nomenclatura sia stata riformata. Nel “Frammento apocrifo di
Stratone da Lampasco” vi è questa concezione del mondo, una materia in movimento
di costruzione e distruzione formata da elementi limitati.
Prodotto dalle circostanze, l’uomo si distingue al massimo grado dagli altri individui
suoi simili. L’individualità è un prodotto della cultura. L’unica analogia tra uomo e
animali è l’attaccamento alla propria specie. La guerra tra individui è la massima
espressione della società stretta. Vi è maggiore distanza tra uomo e uomo che tra
specie e specie.
Gli uomini dovrebbero imparare dagli animali alcune virtù sociali. Gli animali rendono
proficue le forze individuali unendosi in branchi, costituendo la social catena invocata
nella Ginestra per resistere alla natura; esempio di questo sono le scimmie. Vi è quindi
non un pessimismo cosmico, ma un’apertura all’animale non umano esempio di
felicità.
Non vi è però in Leopardi nostalgia per lo stato primitivo e selvaggio. Questo perché
l’uomo civile è ormai corrotto e lo stato selvaggio perso per sempre. Leopardi cerca il
corrotto stato selvaggio, un rimasuglio di natura che sopravvive nell’uomo civile. Per
Leopardi, per sopravvivere in una grande città, occorre crearsi relazioni strette, ossia
creare una piccola città dentro a una grande. L’autore inoltre suggerisce la vita
d’azione e, parzialmente, il lavoro, come collante per tenere unita la società.