Sei sulla pagina 1di 468

Nuovo Medioevo 65

Collana diretta da Massimo Oldoni


Massimo Bernabò

Ossessioni bizantine e cultura


artistica in Italia
Tra D’Annunzio, fascismo e dopoguerra

Liguori Editore
Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni.
L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni sta-
bilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet
http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza.
Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riprodu-
zione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software
a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione
attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se
parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito
della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet
http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal

Liguori Editore
Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA
http://www.liguori.it/

© 2003 by Liguori Editore, S.r.l.


Tutti i diritti sono riservati
Prima edizione italiana Marzo 2003

Bernabò, Massimo:
Ossessioni bizantine e cultura artistica in Italia. Tra D’Annunzio, fascismo
e dopoguerra/Massimo Bernabò
Nuovo Medioevo
Napoli : Liguori, 2003
ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5723 - 6

1. Critica figurativa del Novecento 2. Storia dell’arte contemporanea I. Titolo

Aggiornamenti:
—————————————————————————————————————————
12 11 10 09 08 07 06 05 04 03 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
INDICE

Premessa ......................................................................... 1

Parte I - L’Ottocento, D’Annunzio, Teodora e Basiliola

Capitolo 1 - Teodora ..................................................... 7


a. Da Belisario a Teodora ........................................ 7
b. La Théodora di Sardou ......................................... 11
c. Condanna e apologia di Teodora ........................ 15
d. Teodora in Italia: da Sardou alla Bizantina ........ 18
e. Teodora, odalisca, a dispense .............................. 21

Capitolo 2 - Basiliola ..................................................... 25


a. Basiliola, Teodora italianizzata ............................. 26
b. Teodora alla esposizione di Venezia .................... 34
c. Teodora la divina ................................................. 38
d. Psicologia di Teodora .......................................... 41

Capitolo 3 - Viaggiatori ottocenteschi .............................. 43


a. Costantinopoli ottomana. ..................................... 44
b. La Costantinopoli – Babilonia di De Amicis ....... 47
c. Un racconto sugli ultimi giorni di Costantinopoli 50
d. Taine su Ravenna, una voce dissonante .............. 51
 INDICE

Capitolo 4 - Primi studi in Italia ................................... 55


a. Seroux D’Agincourt e Garrucci ........................... 58
b. Cristi improsciuttiti e Madonne color cioccolata ... 60
c. Una fioritura effimera di studi ............................. 62

Parte II - Roma o Bisanzio, Roma o Parigi

Capitolo 5 - L’apogeo di Bisanzio e l’assalto all’arte italiana 71


a. L’apogeo novecentesco di Bisanzio ...................... 71
b. Parigi, cioè Bisanzio ............................................. 75
c. Strzygowski, moderno Attila ................................. 79
d. Bisanzio futurista e cubista .................................. 83

Capitolo 6 - La difesa dell’arte patria ............................ 87


a. La reazione antigermanica e antifrancese ............. 88
b. La definizione di un’arte nazionale ...................... 92
c. Contro l’Oriente, contro i barbari, contro Strzy-
gowski ................................................................... 96
d. Il nemico è a Oriente: conformismi, idiozie e vergo-
gne bizantine ........................................................ 100
e. Soffici, Vasari moderno ........................................ 108
f. Cézanne italiano, Matisse bizantino: plasticismo
contro colorismo ................................................... 111

Capitolo 7 - Il fronte interno filobizantino: Pietro Toesca ... 117


a. Pietro Toesca ....................................................... 118
b. Toesca orientalista ................................................ 121
c. Il Medioevo bizantino: le origini dell’arte cristiana ed 124
i mosaici di Ravenna ...........................................
d. Il Medioevo bizantino: dai mosaici romani a Giotto 129

Capitolo 8 - Gli altri filobizantini (Berenson, Lionello


Venturi), gli allineati, i manuali ................................... 131
a. Bernard Berenson, filobizantino ........................... 132
b. Lionello Venturi, anticlassico ............................... 138
c. Programmi scolastici ed altri studiosi allineati ..... 145
INDICE 

Capitolo 9 - Bisanzio e la politica fascista delle arti ....... 149


a. L’ala filobizantina del regime ............................... 150
b. Severini, il muralismo ed i mosaici bizantini ....... 156
c. La Mostra Augustea della Romanità ................... 162
d. La colonizzazione romanista dell’Adriatico e della
Sicilia 166
e. Epiloghi razzisti .................................................... 170
f. Folklore bizantino ................................................. 172
Capitolo 10 - Giotto: Bisanzio o Italia ........................... 175
a. Prima del 1937 .................................................... 175
b. La mostra giottesca del 1937 .............................. 179
c. Il “Giudizio” antibizantino di Longhi .................. 182
Capitolo 11 - L’enciclopedia orientalista .......................... 189
a. Ojetti alla direzione della Sezione Arte ................ 189
b. L’incarico a Toesca .............................................. 194
c. Il debole spirito romanista dell’Enciclopedia Italiana 196
d. “Iconografia”, “Musaico”: due voci metodologiche 203
e. Le voci altomedievali e duecentesche .................. 206
f. La voce romanista “Bizantina, Civiltà” ed il “Medio-
evo bizantino” di Pasquali ................................... 207

Parte III - Crociani, comunisti e ravveduti 217

Capitolo 12 - Il riassetto dopo il conflitto ........................ 219


a. La restituzione a Bisanzio delle conquiste romaniste 221
b. Il giudizio italiano su Longhi ............................... 224
c. Contini e Garrison su Longhi ............................. 227
d. Bianchi Bandinelli ed i Princetoniani ................... 233

Capitolo 13 - Stile contro iconografia .............................. 241


a. Il pericolo crociano .............................................. 242
b. La Mostra Storica Nazionale della Miniatura ...... 249
c. L’entrata ed uscita di scena della Siria ............... 253
d. L’Iliade Ambrosiana come problema metodologico 260
 INDICE

e. I Bizantini a Castelseprio ..................................... 266


f. La reazione italiana e l’intervento sovietico su Ca-
stelseprio ............................................................... 269

Epilogo: studi sull’arte bizantina 1960-2000 ................. 275

Tavole ............................................................................. 279

Bibliografia ...................................................................... 399

Indice dei luoghi e dei nomi ............................................. 443


PREMESSA

La trama di questo libro segue due fili conduttori: uno è la storia


della critica d’arte in Italia nell’Ottocento e nel Novecento, percorsa
attraverso la vicenda del rapporto di amore episodico e di ossessivo
odio verso l’arte bizantina, frutto decaduto della civiltà romana;
l’altro è la contemporanea storia degli studi sull’arte bizantina. Sino
agli anni Dieci del Novecento i due fili si intrecciano occasional-
mente; negli anni Venti e Trenta, quando Bisanzio diventa l’anti-
Roma, cioè la civiltà antitetica alla romanità dell’ideologia fascista, i
due fili si riuniscono: la demonizzazione dell’arte bizantina fu allora
anche pretesto per attaccare quel gruppo di intellettuali ed artisti,
anche fascisti, che cercavano rapporti con l’arte internazionale e
soprattutto con l’arte della rivale Francia democratica. A sfavore
dell’arte bizantina giocavano proprio l’accento anti-tradizione ita-
liana che veniva messo nel suo apprezzamento da parte delle avan-
guardie novecentesche, da Monet a Matisse, e la sua denigrazione da
parte dei sostenitori di un’arte accademica e di un arte nazionale
italiana, conservatrice e rurale (Soffici fu l’idolo di questi ultimi) che
si richiamasse ai valori plastici di Giotto, Masaccio o Paolo Uccello,
contrapposti al decorativismo o al preziosismo dei bizantini.
Gli antefatti di questa romanizzazione antibizantina sono presen-
tati attraverso la fortuna di Teodora, incarnazione femminile della
cattiveria e della immoralità, demone bizantino per eccellenza, ed
attraverso quella della sua figlia in arte, Basiliola, la bizantina nemica
e corruttrice del libero popolo dei Veneti, creata da D’Annunzio per
La nave. Per i capitoli sul periodo tra le due guerre i giudizi e le
interpretazioni storico-artistiche di Pietro Toesca, figura limpida ed
appartata di storico dell’arte non piegatosi alle banalità della critica
di regime, sono stati scelti come guida, contrapponendo quel tipo di
moralità intellettuale alla ambizione, coltivata da tanti storici del-
l’arte del periodo, ad entrare nella corte del principe, specialmente
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

con l’apparente trionfo internazionale di Mussolini negli anni


Trenta. Nonostante che gli studiosi abbiano di regola voluto tenere
la storia dell’arte ed i suoi protagonisti fuori dalle vicende dei propri
tempi, come se quella disciplina fosse attività dello spirito umano
vergine di contaminazioni secolari, atti, documenti e pubblicazioni
delineano l’aspettato quadro di compromissioni non imposte con il
potere. Fatto, del resto, già descritto per gli antichisti. Oltre a
Toesca, tra i maggiori che scelsero altre strade al prezzo dell’isola-
mento o dell’esilio, vanno ricordati Bernard Berenson e Lionello
Venturi, ai quali è intitolato uno dei capitoli del libro. Per i capitoli
sul secondo dopoguerra, caratterizzati, per l’ambito degli interessi del
libro, dalla metamorfosi dei critici d’arte emersi nel ventennio mus-
soliniano in crociani dichiarati, dal dominio quasi monopolistico
della storia dell’arte come disciplina che studi i valori formali delle
opere e dalla concezione dell’arte come mondo a sé isolato dai fatti
contemporanei della storia, è stata presa come figura guida l’archeo-
logo Ranuccio Bianchi Bandinelli, che fu tra i pochi che dal crocia-
nesimo passarono al marxismo, nello stesso tempo incorporando nel
suo approccio metodologico i criteri d’indagine del contenuto delle
opere e della trasmissione iconografica elaborati a Princeton. Le
citazioni dai suoi scritti appariranno forse banalità agli studiosi di
archeologia, ma sono probabilmente poco note al di fuori della loro
cerchia. Citazioni da D’Annunzio, Boccioni, Carrà, Croce od altri
possono avere lo stesso difetto. Le pagine su Soffici si addentrano, al
contrario, nei suoi scritti protorazzisti: la lunghezza di citazioni che
ne viene è dovuta al ruolo svolto nell’ideologia artistica del fascismo
dalle numerose pubblicazioni del pittore toscano, che dettero im-
pulso alla polemica contro la Francia ed anche, di conseguenza,
contro Bisanzio: all’opposto, nei discorsi elogiativi del mondo conta-
dino e della tradizione italiana di Soffici letti in monografie e catalo-
ghi delle sue opere che mi sono passati sotto gli occhi, mai ho trovato
l’onestà ed il dovere di studioso di mettere a conoscenza il lettore che
si appresta a vedere i suoi quadri del retroterra di razzismo e
volgarità che Soffici scriveva su donne, omosessuali e drogati. Aver
ricordato di passaggio che chi professava idee contrarie al regime,
storico dell’arte o altro, subiva intimidazioni e chi faceva invece parte
della grande maggioranza dei consenzienti aveva studi e carriera
facilitati è apparsa una menzione doverosa e necessaria per l’intendi-
mento degli avvenimenti descritti.
L’ampiezza dell’arco cronologico, la varietà degli argomenti toc-
PREMESSA 

cati e lo stato degli studi dovrebbero scusare il fatto che più argo-
menti di questa storia delle ossessioni bizantine sono soltanto abboz-
zati e sono quindi inevitabili generalizzazioni, difetti e lacune.
Purtroppo, a parte l’antologia di Paola Barocchi, sono stati pubbli-
cati solo studi su singoli storici dell’arte, quasi sempre monografie
agiografiche. Il libro non ha, tra l’altro, una discussione dei restauri
di monumenti del periodo bizantino condotti negli anni presi in
esame; per tutti, quelli di San Vitale a Ravenna e quelli del Battistero
di San Giovanni a Firenze. Un mio articolo, che racconta la campa-
gna della stampa fascista contro gli orientalisti, nel 1930, riassunta in
questo libro al capitolo sesto, e da poco pubblicato sulla veterana
Byzantinische Zeitschrift, è risultato il primo contributo lı̀ accettato
sulla storia della disciplina: attestazione che mi rende più sereno di
fronte a prevedibili critiche. Per non assillare il lettore zeppando le
frasi di numeri esponenziali di note ho cercato di raggrupparle in una
unica nota complessiva alla conclusione di ciascun argomento intro-
dotto, anche a scapito, forse, della praticità. Il tono narrativo e la
brevità dei capitoli sono voluti per l’analogo fine di leggibilità del
testo.
Origine remota del libro è stata la ricerca di risposte alle do-
mande: perché a Bisanzio si associano sempre valori negativi e, più
specificamente nel campo della storia degli studi, perché le testimo-
nianze di arte bizantina, che l’Italia ha più numerose ed importanti
che ogni altro paese dell’Occidente, non hanno indotto l’affermarsi
di una scuola e tradizione di studi consistente? Al destino sfavorevole
dei termini bizantineggiare, bizantinerie, bizantinismi, fatti divenire
sinonimi, rispettivamente, di argomentare con eccessiva sottigliezza,
di ragionamenti cavillosi e inconcludenti, di preziosismi ed estetismi
raffinati e decadenti, corrisponde l’assenza di biblioteche pubbliche
italiane che possiedano in misura confortante i libri su Bisanzio di
studiosi stranieri pubblicati almeno nei primi settanta anni del Nove-
cento. Solo due istituzioni straniere in Italia sopperiscono a questo
vuoto bibliografico 1900-1970: la Biblioteca Vaticana e la Biblioteca
Berenson. Più prosaicamente, la genesi di questo libro ha come
progenitrice la mia passione per l’arte bizantina che si è scontrata
con la formazione in un ateneo, quello fiorentino, dove due celebri
docenti avevano sentenziato la noiosità ed il disvalore artistico della
letteratura e delle arti figurative bizantine con inconfutata autorevo-
lezza. La lusinghiera proposta di uno dei maestri indiscussi dell’arte
bizantina del Novecento, Kurt Weitzmann, a trascorrere un lungo
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

periodo con lui all’Università di Princeton alla realizzazione di una


opera vasta e da tanto attesa, pubblicata infine nel 1999, mi ha
concesso fortuna e privilegio di frequentare la più autorevole scuola
metodologica del Novecento sulla illustrazione dei manoscritti me-
dievali e mi ha permesso di vedere con chiarezza i limiti degli studi di
arte bizantina in Italia – ovvia eccezione alcuni singoli avveduti
studiosi. Soprattutto, i motivi storici di questa assenza mi si comin-
ciarono a inserire nel percorso della cultura italiana.
Di lı̀, l’ideazione di un lavoro sulla demonizzazione dell’arte
bizantina nell’Italia tra le due guerre mondiali e sulla incapacità degli
studi dell’immediato dopoguerra in Italia di uscire da autarchia di
giudizio e approssimazioni sull’arte bizantina superate da tempo
dalla bizantinistica internazionale. I primi risultati di questo lavoro
furono da me presentati a un convegno a Urbino nel 1998 ed accolti
con molto calore dagli studenti e dai colleghi coetanei presenti. Il
sostegno e l’apprezzamento di coloro a cui piacque la problematica
storica da me allora proposta (per primo quello di Giulia Orofino,
poi di Massimo Oldoni, curatore della collana, di Luciano Canfora,
fonte autorevole di notizie e chiarimenti, Marcello Barbanera, che ha
fornito tra l’altro la foto inedita di Bianchi Bandinelli, Rita Tara-
sconi, alla quale si deve buona parte della ricerca, e altri colleghi
stranieri, sorpresi dalla rivelazione dell’ostracismo inflitto in Italia
all’arte bizantina, che pure collimava con intuizioni avute) mi ha
spinto a far conoscere in forma più estesa, con questo libro, il molto
materiale che avevo raccolto sull’amore e sull’odio in Italia verso
Bisanzio. Oltre alle persone elencate sopra, un ringraziamento parti-
colare va a Ilaria Toesca ed al personale della Biblioteca Berenson di
Villa I Tatti, a Sandra Bianchi Bandinelli, Gianfranco Morandi,
Valentino Pace, Anna Pontani, Niccolò Zorzi.

agosto 2001 Massimo Bernabò


PARTE I

L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO,
TEODORA E BASILIOLA
1

TEODORA

Fino al Settecento i personaggi della storia bizantina erano noti


solamente ad antichisti, eruditi ed uomini di chiesa, fatta eccezione
per un piccolo gruppo di imperatori, imperatrici e generali, protago-
nisti del teatro di prosa e dell’opera lirica. Nell’Ottocento, i romanzi
storici fecero conoscere i luoghi di Costantinopoli, mentre teatro ed
opera resero popolari prima Belisario, poi, in maniera incomparabil-
mente più viva e diffusa, Teodora, moglie dell’imperatore Giusti-
niano. La scenografia per eccellenza dove questi personaggi furono
immaginati è la chiesa di Santa Sofia, non nell’aspetto, perduto, della
basilica bizantina giustinianea scintillante di mosaici e marmi, ma in
quello esotico e ridondante di arredi della moschea ottomana dell’e-
poca. Parallelamente alla costruzione della immagine storica di Bi-
sanzio fatta dai primi studi ottocenteschi, spettacoli, riviste e moda
foggiarono una immagine volgare di Bisanzio come patria di lusso,
sensualità, corruzione, intrighi, le cui fila erano tirate da figure
femminili, delle quali Teodora era l’archetipo. In Italia, la Bisanzio
di Teodora ebbe la sua apoteosi all’inizio del Novecento, quando i
tratti dell’imperatrice furono fusi con quelli di Salomè e furono presi
come modello sulle scene per molte altre donne fatali, storiche e di
fantasia.

a. Da Belisario a Teodora
Teodora fu preceduta sul palcoscenico da Giustino, Teofane e Beli-
sario. Un dramma per musica Giustino, che ha per protagonisti il
militare di umili origini divenuto imperatore dal 518 al 527, Ariadne,
la vedova del suo predecessore Anastasio, che Giustino sposa dive-
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

nendo cosı̀ imperatore, e generali fedeli e ribelli, fu musicato da


Giovanni Legrenzi su libretto di Nicolò Beregan e fu messo in scena
al Teatro San Salvatore di Venezia nel 1683, per poi passare al
Teatro San Giovanni Grisostomo. Con le sue ricche architetture ed i
costumi bizantini, le battaglie terrestri ed una naumachia, l’opera
ebbe un grande successo e fu rappresentata varie volte in Italia fino
al 1699. Dal Giustino di Beregan derivò il Giustino opera in tre atti di
Georg Friederich Handel, data al Covent Garden Theatre di Londra
nel 1737. Le peripezie a lieto fine con nozze finali di Teofano,
principessa bizantina, con Ottone II, furono invece messe in scena a
Dresda nel 1719 col Teofane, dramma per musica in tre atti di
Antonio Lotti su libretto di Stefano Benedetto Pallavicino, per le
nozze del principe elettore Federico Augusto II di Sassonia. Mag-
giore fortuna ebbe Belisario, il generale di Giustiniano: dopo le opere
di Philodor (1796), Saint-Lubin (ca 1827) e Maurer (1830), nel
1836 Gaetano Donizetti compose Belisario, tragedia lirica in tre atti
con libretto di Salvatore Cammarano, la cui prima fu alla Fenice di
Venezia il 4 febbraio 1836. L’opera fu ridata a Napoli, Firenze,
Londra, Berlino, Filadelfia, Parigi, New York, Vienna tra il 1836 e il
18371. Il libretto di Cammarano riprende la storia raccontata nel
Bélisaire di Jean-François Marmontel, pubblicato in italiano a Vene-
zia nel 1768 con l’aggiunta di alcune incisioni che mancano nella
edizione francese. Marmontel dichiara di seguire la tradizione popo-
lare per il Belisario cieco e mendico e Procopio per il resto della
storia, senza però aver riguardo a “quel calunnioso libello, che gli
viene attribuito sotto titolo di Aneddoti o Storia Secreta. È cosa per me
evidente, che questo ammasso informe d’ingiurie e palpabili falsità,
non è suo, ma di qualche declamatore malvagio e sciocco”2.
La storia del Belisario di Marmontel si svolge in uno degli ultimi
anni dell’impero di Giustiniano, quando l’imperatore è restato solo a
governare, dopo che Teodora è morta; Belisario vaga accompagnato
dalla figlia Eudocia e finisce ospite nella capanna di un contadino,
che è in realtà Gelimero, il vecchio re dei Vandali da lui sconfitto e

1
H. Weinstock, Donizetti and the World of Opera in Italy, Paris, and Vienna in the First
Half of the Nineteenth Century (New York, 1963), pp. 113-119 e 350. S. Cammarano,
Belisario. Tragedia lirica in tre parti. Parte Prima, Il trionfo. Parte Seconda, L’esilio. Parte Terza,
La morte, da rappresentarsi nell’imp. e real teatro in via della Pergola, la primavera del
1836, sotto la protezione di S. A. Imp. e R. Leopoldo II Gran-Duca di Toscana (Firenze
[1836]). Notizie su Giustino, Teofane e Belisario si trovano in The New Grove Dictionary of
Opera, a cura di S. Sadie (London – New York, 1992), alle rispettive voci.
2
J.-F. Marmontel, Bélisaire (Paris, 1767); traduzione italiana, Belisario (Venezia, 1768).
TEODORA 

portato a Costantinopoli; nella capanna Belisario incontra anche un


gruppo di persone, tra le quali, in incognito, è il futuro imperatore
Tiberio; è poi la volta di Giustiniano, anche lui in incognito, a recarsi
da Belisario; l’imperatore capisce di aver accusato ingiustamente il
suo generale, lo abbraccia e lo riabilita di fronte ai suoi cortigiani
corrotti; Eudocia è promessa sposa a Tiberio. Le incisioni del Belisa-
rio della versione veneziana di Marmontel hanno costumi e monu-
mentali ambientazioni genericamente antichi, niente di esotico (fig.
1): Bisanzio è un prolungamento dell’antichità, non appartiene an-
cora all’Oriente. Parallelamente, ancora nel 1840, Delacroix nella
“Presa di Costantinopoli” (ora al Louvre) dipinge i bizantini sconfitti
dai Crociati di Baldovino vestiti di simili costumi latini davanti a
portici romani. Nel libretto per l’opera di Donizetti, Cammarano si
dichiara debitore non di Marmontel, ma di una tragedia di Holbein,
ridotta per le scene italiane dall’attore e drammaturgo fiorentino
Luigi Marchionni. Il racconto di Cammarano si svolge nel 580 e
comincia con il trionfo di Belisario a Costantinopoli con il re Alarico
suo prigioniero; seguono l’accusa di fellonia, la prigione, l’esilio del
generale cieco con la figlia, durante il quale Belisario riesce a sven-
tare un assalto inaspettato dei barbari di Alarico; nel frattempo
Giustiniano ha avuto da Antonina la prova della innocenza del suo
generale, che i veterani gli portano sui loro scudi morente, colpito da
una freccia; l’opera si chiude con la morte di Belisario.
Fino agli anni ottanta dell’Ottocento, Teodora è conosciuta a
pochi eruditi, per i quali lei e le altre cortigiane del tardo impero
sono emule di Salomè; “lussuriose, lascive, crudeli” le definı̀ Théo-
phile Gautier in Italia (1852), descrivendo il mosaico con la danza di
Salomè nella basilica di San Marco a Venezia. Per Valery (pseudo-
nimo di Antoine-Claude Pasquin), che visitò l’Italia tra il 1826 e il
1828, nel mosaico di San Vitale a Ravenna “les traits de Théodora,
de cette comédienne, passée d’un trône de théâtre sur le trône du
monde, ont encore un certain air lascif qui rappelle ses longues
prostitutions”3. Qualche immagine di Teodora dal pannello musivo
di San Vitale è presentata nelle incisioni nei primi studi ottocenteschi
sull’arte medievale, come nell’opera monumentale di Seroux d’Agin-
court o sul fascicolo della Revue archéologique del 1850 (fig. 2)4. Dopo

3
T. Gautier, Italie (Paris, 1852), p. 119. Valery, Voyages historiques et littéraires en Italie,
pendant les années 1826, 1827 et 1828; ou l’indicateur italien, vol. 3 (Paris, 1832), p. 240.
4
Revue archéologique 7/1 (1850), pp. 351-353. Per Seroux d’Agincourt vedi al Capitolo 4,
paragrafo a.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

la nuova edizione della Storia segreta pubblicata in traduzione fran-


cese nel 1856 da François André Isambert ed illustrata da alcune
incisioni dai mosaici di Ravenna (fig. 3), il giudizio degli storici fu di
aspra condanna, se cattolici – Teodora aveva deposto un papa ed
aveva sostenuto il monofisismo – oppure, se antipapali, di difesa del
suo operato e di rigetto delle pagine della Storia segreta come cumulo
di calunnie falsamente attribuite a Procopio: a Teodora fu attribuito
il merito della salvezza di Giustiniano quando con il suo intervento
risolutivo fece desistere il sovrano dalla fuga durante la rivolta del
“Nika” del 5325. Come antesignano della condanna di Teodora sono
citati gli Annales ecclesiastici del cardinale Cesare Baronio, che era
ricorso, per descrivere la donna, a paragoni con le figure di donne
bibliche più negative (Teodora come Eva, Dalila, Erodiade), al
dizionario infernale, alle personificazioni della mitologia pagana
(Teodora, nuova Erinni, alla pari di Aletto, Megera, o Tisifone,
femmina diabolica che si nutre del sangue dei martiri):

“Tanta haec mala ordita est pessima femina quae altera Eva serpenti
obaudiens facta est viro malorum omnium causa; novaque Dalila
Samsoni, ejus vires dolosa arte enervare laborans, Herodias altera
sanctissimorum virorum sitiens sanguinem; petulansque summi sacer-
doti ancilla, Petri negationem sollicitans: sed parum sit ipsam hujusce-
modi sugillasse nominibus, quae reliquas impietate feminas antecelluit:
accipiat potius nomen ab Inferis, quod Furiis fabulae indiderunt,
femina furens, Alecto potius, vel Megera, aut Tisiphone, nuncupando,
civis inferni, alumna daemonum, Satanico agitato spiritu, oestro per-
cita diabolico, initiaeque summo labore inimica concordiae, pacisque
redemptae sanguinem martyrum et sudoris confessorum partae fuga-
trix: quanta enim haec Ecclesiae Catholicae mola invexerit, quae
dicenda erunt ostendent.”6.

La lettura della Storia segreta di Procopio forniva svariati elementi


diffamatori sulla imperatrice. In sintonia, Hyppolite Taine parlava
del lusso mostruoso della imperatrice ritratta nel mosaico di San

5
F. A. Isambert, ANEKDOTA ou Histoire secrète de Justinien traduite de Procope. Géogra-
phie du VIe siècle et révision de la numismatique d’après la livre de Justinien (Paris, 1856). Un
caso di discussione di Teodora come personaggio storico e non come prostituta che fa
carriera è, ad esempio, in A. Marrast, La vie byzantine au VIe siècle (Paris, 1881), pp.
44-85. Il commento di Gibbon su Teodora è al Capitolo 40 della sua Storia: E. Gibbon,
Storia della decadenza e rovina dell’impero romano (Lugano, 1841), pp. 370-379, spec. p. 374
nota 2.
6
Caesar Baronius, Annales ecclesiastici, a cura di A. Theiner, vol. 9, 500-545 (Ludovicus
Guerin et Socii, 1867), citazione nel testo da p. 477 (= anno Christi 535, par. 63).
TEODORA 

Vitale: “la prostituta del circo”, figura pallida e distrutta, libertina


tisica dagli occhi enormi, dallo sguardo ardente, con l’energia feb-
brile della cortigiana sazia e magra; un giudizio che riprende, travi-
sandola partigianamente, la descrizione di Teodora data da Proco-
pio, pur acerrimo detrattore della imperatrice : “bella di viso e certo
graziosa, ma piccola e, se non proprio gracile, un po’ pallidina;
l’occhio mobile e aggrottato”:

“on voit l’impératrice Théodora, l’ancienne sauteuse, la prostituée du


cirque, apportant les offrandes avec ses femmes: figure pàle et presque
détruite, comme d’une lorette poitrinaire; rien que des yeux énormes,
des sourcils joints et une bouche (...). Il n’y a plus en elle que le regard
ardent, l’énergie fiévreuse de la courtisane rassasiée et maigre, mainte-
nant enveloppée et surchargée du luxe monstrueux de l’impératrice.”7.

b. La Théodora di Sardou
Il successo di Théodora, dramma in cinque atti e sette quadri di
Victorien Sardou, la cui prima fu data a Parigi al Teatro Porte-Saint-
Martin il 26 dicembre 1884 con la regia di Duquesnel e musiche di
scena di Massenet, rese definitivamente popolare l’imperatrice (figg.
4-7) . Come altre eroine di Sardou, Teodora fu interpretata da Sarah
Bernhardt (figg. 8-9). Il testo della Théodora, ambientata nel 532
durante la rivolta del “Nika”, rimase, comunque, inedito fino al
19078. Sardou dichiarò di essersi rifatto alla Teodora della “leggen-
da”, ma anche ai Dialoghi delle cortigiane di Luciano. Anche se alcuni
episodi sono evidentemente ispirati a Procopio, le calunnie della
Storia segreta sono inattendibili per Sardou. Tre soli fatti della biogra-
fia della donna sono inoppugnabili: il matrimonio con Giustiniano e
la parte che Teodora prende nel governo dell’impero, il suo atteggia-
mento energico che salva Giustiniano nel 532, la sua morte per

7
H. Taine, Voyage en Italie, 2 voll. (Paris, 1866; 2a ediz. 1874), citazione da p. 222. La
descrizione di Teodora data da Procopio è in Storia segreta 10:11; la traduzione italiana è di
F. M. Pontani (Procopio di Cesarea, Storia segreta, a cura di F. M. P. [Roma, 1972], p. 71).
8
Théodora. Dram en cinq actes fu pubblicato per la prima volta come fascicolo monogra-
fico in L’illustration théatrale 66 (7 settembre 1907), con una introduzione dalla quale sono
prese le citazioni di giudizi sul dramma in francese nel testo (p. i); alcune incisioni di scene
del dramma e dei mosaici di Ravenna apparvero in L’illustration. Journal universel 43, n 85
(3 gennaio 1885) insieme alla recensione dello spettacolo di M. Savigny, p. 15. Fotografie
di Sarah Bernhardt come Teodora scattate da Paul Nadar sono riprodotte in Sarah
Bernhardt. Sculptures de l’éphémère, a cura di G. Banu (Paris, 1955).
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

cancro nel 548. Il dramma di Sardou è il romanzo di un amore


impossibile che scoppia improvviso nel cuore della gelida impera-
trice: nei primi quadri nelle stanze imperiali con le cupole di Santa
Sofia che appaiono attraverso le finestre, l’eunuco Euphratas rievoca
per accenni con il parigino Caribert la giovinezza di Teodora gioco-
liera nel circo; Teodora umilia poi Belisario, costringendolo a ricon-
ciliarsi con l’infedele Antonina; annoiata dagli incontri di corte,
Teodora si reca in seguito all’Ippodromo a trovare Tamyris, un’an-
ziana donna egiziana da lei conosciuta quando dava spettacolo ad
Alessandria, capace di preparare filtri amorosi che l’imperatrice le
commissiona per riconquistare Giustiniano (ma Tamyris darà a Teo-
dora un filtro avvelenato per vendicare la morte del figlio). Nel
quadro successivo avviene l’incontro tra Teodora e un certo Andrea,
un giovane nel quale vive ancora lo spirito di Roma e dell’antica
Grecia, venuto da Atene a Costantinopoli a cospirare con l’amico
Marcello per uccidere la coppia dei tiranni, Giustiniano e, appunto,
Teodora. Ignaro della vera identità della donna, Andrea se ne inna-
mora. Nelle stanze di Giustiniano ricoperte di mosaici e d’oro, la
congiura viene però scoperta e Marcello è arrestato, mentre Andrea
riesce a sfuggire proprio grazie all’aiuto di Teodora; quest’ultima, per
evitare che Marcello tradisca sotto tortura il suo amato Andrea, lo
uccide con la spilla d’oro che tiene tra i capelli. All’Ippodromo,
Andrea si pone a capo del popolo in rivolta che va ad assediare il
palazzo imperiale. Infine, dopo vari avvenimenti, Andrea, ferito, è
trasportato per ordine di Teodora nel Palazzo; qui la incontra e,
pieno di collera contro di lei, si impadronisce del filtro preparato da
Tamyris e lo beve, morendo avvelenato. Il dramma si chiude con
Costantinopoli in fiamme e l’arrivo di Giustiniano che, vedendo
Teodora con il cadavere dell’amato stretto a sé, ordina al carnefice di
strangolarla con un laccio di seta rossa.
Charles Diehl, uno dei padri della bizantinistica, descrisse alcune
scenografie e costumi della messinscena del dramma di Sardou:

“Je sais peu d’évocations plus vivantes de la cour et du Palais Sacré de


Byzance que ce tableau sur lequel s’ouvre Théodora, où, sous les voûtes
de la Chalcé tapissées de mosaı̈ques étincelantes, se groupe autour de
l’impératrice le pompeux cortège des dignitaires vêtus de soie et d’or,
des gardes empanachés, des femmes joliment parées de brocarts aux
broderies multicolores. Et pareillement le tableau de la loge impériale
à l’Hippodrome est une merveille de reconstitution historique où tout
est à louer, les détails et l’ensemble, la splendeur des costumes et
l’arrangement des cortèges, et la vérité des gestes rituels que prescit le
TEODORA 

cérémonial. (...) Mais les costumes étaient en général d’une rigoreuse


exactitude, et l’archéologue le plus difficile put admirer sans arrière-
pensée la splendeur des parures de Théodora, la magnificence des
bijoux et des orfèvreries, dont quelques-uns avaient été dessinés par
9
Lalique.” .

Nel dramma di Sardou Giustiniano è personaggio senza spessore.


Teodora, invece, grazie a Sardou diventa nell’immaginario comune
donna crudele redenta dall’amore. La Théodora fu “bien une des
pièces le plus souvent jouées et avec les plus d’éclat, dans le monde
entier”; il suo successo a Parigi, scrive Diehl, fu “prodigioso” e rivelò
al pubblico un mondo bizantino inimmaginato che era stato presen-
tato con falsità e totale “ignoranza dei suoi costumi” (un riferimento
forse ai giudizi di Montesquieu e Voltaire)10 e che era, invece, uno
dei periodi più interessanti e drammatici della storia:

“Le succés fut prodigieux. Cette évocation de Byzance était une


révélation pour les spectateurs, à qui on ne l’avait jamais présenté que
sous le jour les plus faux, avec une ignorance parfaite des ses mœurs,
les auteurs dramatiques ayant toujours négligé l’étude de ce que l’on a
dédaigneusement appelé «le Bas-Empire», et qui est en réalité une des
périodes les plus curieuses et les plus dramatiques de l’histoire.”.

I costumi di Teodora erano stati ideati da Thomas “d’après les


meilleurs documents”, mentre i gioielli erano di René Lalique. Nelle
incisioni dalla messa in scena e nelle foto d’epoca, la Bernhardt porta
sulla testa più tipi di corone imperiali, una delle quali è una corona a
casco sormotata da una mezzaluna e da una raggiera; la parte
inferiore del volto è coperta da un velo trasparente, un dettaglio
probabilmente inaspettato, ma che l’elogio funebre scritto dall’eru-
dito bizantino Michele Psello per la madre Teodoto e da poco
pubblicato da Rambaud diceva indossato comunemente dalle don-
ne11. Le scenografie mescolano dettagli romani, bizantini e moreschi,
quasi sempre con sovrabbondanza di decorazioni: le pareti sono
coperte da decorazioni vegetali, le porte contengono medaglioni
istoriati, file di statue sormontano gli architravi, le colonne sono
decorate con figure di santi e sostengono capitelli corinzi, il letto di

9
C. Diehl, “Byzance dans la Littérature”, La vie des peuples, aprile 1922, ristampato in
Choses et Gens de Byzance (Paris, 1926), pp. 231-248, citazione da pp. 236-238.
10
Vedi Capitolo 4, premessa.
11
C. Diehl, Figures byzantines (Paris, 1906), pp. 305-306.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

Teodora è abbellito da grandi sculture dorate di pavoni agli spigoli e


una testata a penne di pavone. Questo eclettismo orientale di sceno-
grafie e costumi e la presenza come protagonista di una donna dai
capelli rossi come la Bernhardt, fatale, perversa e crudele, divengono
tratti identificativi di Bisanzio nell’immaginario comune. Il successo
della Théodora di Sardou (“le Napoléon de l’art dramatique”) eccitò
gli eruditi che si accanirono a criticare l’esattezza storica di orna-
menti, mobili e accessori. In una lunga intervista a Sardou che
apparve su L’illustration théatrale del 1907, seguita da una discussione
tra Sardou e Darcel, direttore della manifattura dei Gobelins, Darcel
puntigliosamente rimarcò le assurdità della forchetta che usa Teo-
dora nella scena della visita a Tamyris, dei vetri alla finestra della
stanza di Giustiniano, della cupola nella prima scena, della forma
della loggia imperiale del Cathisma e delle costruzioni simili a mina-
reti che davano un aspetto turco a Santa Sofia12.
Teodora fu solamente uno dei protagonisti della storia bizantina
che offrirono una collezione di figure per la letteratura ottocentesca,
le quali, se donne, furono perverse, fatali, appassionate, perfide o
sanguinarie, ma anche abili e intelligenti. Diehl definı̀ Teodora figura
enigmatica ed energica, di rara intelligenza, vero uomo di stato,
personalità originale, potente e dispotica, di complessità spesso scon-
certante e di profondo interesse psicologico13. Dei dodici capitoli
delle sue Figures byzantines Diehl ne dedica otto a personaggi femmi-
nili: “La vie d’une impératrice à Byzance”, “Athénaı̈s” (cioè Eudo-
cia, la moglie di Teodosio II), “Théodore” (la moglie di Giustinia-
no), “L’impératrice Irène” (la vedova di Leone IV), “Théoctista, une
burgeoise de Byzance au VIIIe siècle”, “La bienhereuse Théodora”
(la moglie di Teofilo), “Théophano” (la moglie di Romano II), “Zoé
la porphyrogénète” (la figlia di Costantino VIII), “Anne Dalassène”
(la figlia di Isacco Comneno); e ugualmente il capitolo “Une famille
de bourgeoisie a Byzance au XIe siècle” ha tra i suoi protagonisti la
madre di Psello14. La Bisanzio popolare nacque come mondo femmi-
nile. Lo stesso Diehl sottolineò più volte come l’esplosione della
fortuna di Bisanzio sia legata al suo successo in teatro, all’opera e nei
romanzi storici. Di Bisanzio interessarono ai romanzieri intrighi, lotte
politiche e religiose, fazioni del circo, corruzione, lusso, sensualità,

12
V. Sardou, “Théodora. Dram en cinq actes”, L’illustration théatrale 66 (7 settembre
1907).
13
C. Diehl, Justinien et la civilisation byzantin au VIe siècle (Paris, 1901), pp. vii, 37.
14
Diehl, Figures byzantines.
TEODORA 

raffinatezza, cerimoniale, costumi, titoli evocativi dei dignitari (silen-


ziari, cubicolari, ostiari, prepositi, sincelli, ecc.). In un elenco som-
mario, nel 1922, Diehl ricordò tra i romanzi su Bisanzio il Bélisaire
(1767) di Marmontel, dalla cui trama lui disse derivare il Belisario
(1836) di Donizetti; il Count Robert of Paris (1832) di Walter Scott,
ispirato all’Alessiade di Anna Comnena; i drammi dati al teatro
d’Atene, tra i quali Herakleios (1885) e Theodora (1884) di Cleone
Rankabes (figg. 10-11); il dramma Bizánc (1904) di Ferenc Herczeg;
Byzance (1891) di Jean Lombard; Amants byzantins (1897) di Hu-
gues Le Roux; Princesses byzantines (1893), Basile et Sophia (1900),
Irène et les Eunuques (1906) di Paul Adam (figg. 12-13)15.

c. Condanna e apologia di Teodora


L’anno successivo alla messa in scena di Sardou, 1885, sono pubbli-
cati vari scritti su Teodora, non indagini storiche, ma enunciazioni
polemiche di principio sulla sua figura. Da parte cattolica si attinge
senza novità al solito repertorio di accuse appreso da Procopio:
Teodora è corrotta e corruttrice, ambiziosa e prepotente, augusta
immoralissima che calpesta freddamente i deboli e gli onesti, genio
audace di intrighi dalla sete indicibile di oro. Alla condanna dell’im-
peratrice si affiancò la condanna generale di Bisanzio (eretica, sci-
smatica, ortodossa), alla quale venne opposta Roma (cattolica), una
contrapposizione che diventò un motivo ricorrente nei giudizi poste-
riori su Bisanzio anche in Italia. Cosı̀, in un articolo ferocemente
antiteodoriano su Nuova Antologia del 1885, Dionigi Largajolli de-
scrisse Bisanzio, “incadaverita moralmente”:

“Un cristianesimo, fonte di moralità e di idealità nella vita (...) non è


certamente nella Bisanzio del VI secolo, nè in seno al paese greco-
orientale che bisogna cercarlo: in fondo la grande città, sotto quella
sua impudente vernice di ascetismo, era sempre pagana, tutta vita
religiosa esteriore; cioè con tutti i vizi dell’antichità, senza le sue virtù.
Attraversando quella indicibile corruzione bizantina, il cristianesimo
non che potere rinnovare quella società incadaverita moralmente, si
era sinistramente trasformato in palestra di cavilli indigesti e di prati-
che pesanti; come, attraversando la Grecia, si era, direi quasi, umaniz-
zato, ed era divenuto operoso e pratico fra i latini. Non dimentichiamo

15
Diehl, “Byzance dans la Littérature”, rist., pp. 233-248.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

che il numero minore di martiri è stato dato appunto dal paese


greco-orientale.”.

Vengono poi le lodi del papa che opera in opposizione al Cristia-


nesimo di facciata dei Bizantini:

“Il vescovo di Roma, con le sue tendenze latine e pratiche alla unità,
agendo dall’antichissima e veneranda città come da un centro operoso
ed attraente, sentiva chiaramente la missione papale che era quella di
organizzare e disciplinare saldamente in un solo l’Impero spirituale,
16
l’Occidente barbarico e l’Oriente riluttante; (...).” .

Da parte francese, il giudizio sulla figura di Teodora è completa-


mente differente. Nello stesso 1885, ad esempio, escono più testi
polemici in difesa dell’imperatrice, né avventuriera, né eroina del
circo: se ritornasse in vita, scrisse Antonin Debidour, non avrebbe da
ringraziare certamente Sardou per come la fa apparire nel suo
dramma:

“Depuis quelques mois on a beaucoup parlé en France et surtout à


Paris de l’impératrice Théodora. De son vivant le théâtre, dit-on, lui
avait valu un trône. Le théâtre aujourd’hui lui vaut une notoriété
posthume qu’elle eût peut-être souhaitée si elle n’eût été qu’une
aventurière et une héroı̈ne de cirque. Comme elle fut probablement
tout autre chose, il y a gros à parier que, si elle revenait en ce monde,
elle n’irait pas remercier M. Sardou du rôle qu’il lui fait jouer dans sa
dernière pièce.”17.

L’ultima frase parafrasa un giudizio analogo di Diehl, riportato


dallo stesso Sardou nell’intervista pubblicata su L’illustration théatrale
del 1907:

“Si Théodora, dit-il [Diehl], revenait au monde, elle ne serait pas


flattée du rôle que lui fait jouer Sardou et de la gloire posthume qu’il
lui a value. Il nous monstre une impératrice gardant sur le trône des
façon d’aventurière, courant les rues de Byzance la nuit, menant avec
le bel Andréas une intrigue amoreuse! Une femme si soucieuse de
l’étiquette n’eût pas été, comme la Théodora de Sardou, s’encanailler
à l’Hippodrome et se lâcher au style familier qui lui prëte le drame.”18.

16
D. Largajolli, “Teodora. Un’augusta bizantina del VI secolo”, Nuova Antologia, ser. 2,
50 (1885), pp. 210-244; i brani sono da pp. 225 e 226.
17
A. Debidour, L’impératrice Théodora (Paris, 1885), citazioni da pp. 5 e 10.
18
Sardou cita proprio Debidour e Diehl in difesa della esattezza storica della sua Teodora
(L’illustration théatrale, cit. p. iii).
TEODORA 

E Henry Houssaye nello stesso anno 1885:

“A entendre Montesquie et tous les historiens occidentaux s’indigner


contre le despotisme, la dégradation, «le tissu de crimes et de perfidies»
de l’empire d’Orient, on croirait que les peuples de l’Occident avaient
alors recouvré les vertus de l’âge d’Or, sous le règne de la justice et de
la liberté. Or, quel tableau présente l’Occident pendant ce VIe siècle
où vécut Justinien? C’est la barbarie dans sa plus affreuse expression,
la barbarie qui a perdu ses mœurs simples et ses quelques vertus au
contact des races qu’elle a vaincues. Ce sont tous les excès de l’état
sauvage combinés avec tous les vices d’une civilisation finissante. C’est
partout le désordre, l’arbitraire, la violence, la dissolution morale, la
misère publique.
(...) ce gouvernement si corrupteur, ce peuple si corrompu, cette
administration si mauvaise, cette armée si misérable, ont fait durer
l’empire pendant, plus des neuf cents ans, qu’ils ont résisté à vingt
peuples, retardé de longs siècles l’invasion des Turcs, donné le chri-
stianisme aux Slaves, la civilisation aux Arabes et à l’Occident le trésor
des lettres grecques.”.

Teodora, giudicata quasi sempre con sfavore nella storiografia,


non era stata ancora difesa da nessuno e pochissimi avevano accolto
alcune giustificazioni in sua difesa, prendendo per buono quanto
narrato nella Storia segreta. Quasi eroina di un romanzo veristico
ottocentesco, Teodora è stata una povera filatrice di lana da giovane;
divenuta imperatrice, costruisce chiese ed edifici pubblici per i biso-
gnosi19.
Come le accuse a Teodora da parte italiana divennero in Italia
condanna di tutta Bisanzio ed apologia di Roma, la polemica in
difesa di Teodora, donna, imperatrice e cristiana, divenne in Francia
apologia di Bisanzio e condanna di Roma: se per Teodora bisogna
ricorrere a una storia segreta, ad accusare delle loro nefandezze i
vescovi italiani è la storia pubblica di Gregorio di Tours. Mentre
l’Occidente medievale è in situazione di anarchia, in preda ai barbari
ed in uno stato selvaggio combinato con i vizi di una civiltà alla sua
fine, in Oriente c’è una organizzazione statale, con città, scuole e
tribunali che si rifanno al codice di leggi giustinianeo; i Bizantini
sono stati i bibliotecari del genere umano e Bisanzio fu per gli Slavi
quello che Roma fu per il mondo occidentale. Questa difesa di
Bisanzio è un luogo comune negli studi francesi dell’Ottocento.

19
H. Houssaye, “L’impératrice Théodora”, Revue des deux mondes 67 (1885), pp.
568-597, citazioni da pp. 568 e 573.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

Curiosamente, se Teodora diventa il centro del dibattito sul valore


storico della civiltà bizantina, Giustiniano resta al confronto nell’om-
bra.

d. Teodora in Italia: da Sardou alla Bizantina


La Théodora di Sardou non fu salutata trionfalmente in Italia, almeno
dalla critica. Una recensione alla prima italiana al Teatro Manzoni di
Milano, apparsa nel maggio 1885 sull’Illustrazione italiana, ne parla
come di una mediocre interpretazione della Compagnia Nazionale,
“un drammone ad effetto, da circo”, “un misero lavoro” a confronto
di altri di Sardou, che fa sbadigliare e può ottenere successo solo in
tempi in cui nell’arte “si cerca la pompa, lo sfarzo, lo spolvero di
similoro per acciecare i gonzi”. Il recensore non obiettò alla inesat-
tezza storica delle scenografie e dei costumi; piuttosto, invece di far
morire Teodora “lagrimata da Giustiniano”, Sardou fa di lei “una
sgualdrina, che scappa dal palazzo, di notte, per isfogare un capriccio
erotico”. Trasformato Giustiniano in “una specie di Claudio, un
imbecille”, Teodora è

“una di quelle ragazze che, nate in infimo stato, cresciute mangiando


pomi crudi, colle pianelle nel fango, scarmigliate, sono invano portate,
un giorno, dalla loro bellezza, dal vizio e dalla fortuna in sale dorate da
premurosi protettori, – invano, ché ne scappano appena lo possono,
sia pure ad intervalli, per ritornare alle loro casupole, alle loro vecchie
conoscenze, alle loro minestre divorate sulle ginocchia, fra le risate. La
Teodora della storia è bensı̀ nata da un custode di orsi, è bensı̀
commediante, etéra e si dà a molti, ma ama uno solo, il suo cuore è
capace di elevazione.”.

A differenza della “fraschetta pettegola” di Sardou, la vera Teo-


dora, giunta al trono, aveva mostrato le sue capacità, diventando la
sovrana di fatto dell’impero:

“Ella vede tutto, sa tutto, fa tutto. La sua mente è acuta, capace d’ogni
astuzia di governo: il suo cuore è saldo, virile, chiuso alla pietà. Non è
più Giustiniano che regna, è lei con Giustiniano; o, meglio, lei sola. –
La Teodora del Sardou, non è che una fraschetta pettegola.”.

In conclusione, nulla di bizantino è nella Teodora di Sardou; la


vera Teodora è quella italiana di San Vitale, conosciuta solo dagli
eruditi:
TEODORA 

“La pagina autentica di Bisanzio, di Giustiniano, di Teodora, l’ab-


biamo noi, italiani, nell’antica cappella di San Vitale (...). Quella sola
vale tutte le Teodore della scena, francese e inglese; e noi siamo in
grado di presentarvela riprodotta da un nostro artista.
(...) Quante nuvole d’incensi salirono a quella immagine di artista da
circo incoronata!... Ora non attira che quelli degli eruditi d’occasione.
E, domani, dimenticata la Teodora del Sardou, sarà dimenticata anche
20
lei.” .

Negli stessi anni in cui si svolse la polemica su Teodora apparve


la rivista Cronaca bizantina. Periodico letterario – sociale – artistico di
Angelo Sommaruga (figg. 14-15). La Cronaca bizantina, o la Bizan-
tina tout cour, constava di una dozzina di pagine ed ebbe alta
tiratura, ma vita difficile (Sommaruga finı̀ sotto processo per le
battute allusive sui governanti). Uscı̀ in due serie: la prima quindici-
nale dal 15 giugno 1881 al primo febbraio 1885 sotto la direzione di
Sommaruga; la seconda rinacque settimanale nel novembre 1885,
sotto la direzione di Gabriele D’Annunzio, ma chiuse, definitiva-
mente, col numero del 28 marzo 1886. Il carattere della rivista era a
metà strada tra il giornale letterario – vi pubblicarono i maggiori
scrittori italiani del tardo Ottocento – e il giornale scandalistico di
cronaca mondana: intrighi, ricevimenti, moda, amori della buona
società del tempo. Una gran quantità di pubblicità di profumi,
abbigliamento, vini, e libri seri, esotici ed eccitanti della casa editrice
Sommaruga accompagnava gli articoli. La Bizantina, sulla prima
pagina, portava nella prima serie di Sommaruga i due versi finali
dell’ode postuma di Giosuè Carducci, del 1871, dedicata al patriota
Vincenzo Caldesi, che fa parte dei Giambi ed epodi:

“Impronta Italia dimandava Roma:


Bisanzio essi le han dato.”21.

20
R. Barbiera, “Teodora”, L’illustrazione italiana 12, n 20 (17 maggio 1885), pp.
307-310.
21
Sui ‘Bizantini’ e la Cronaca bizantina, vedi: S. Slataper, “Quando Roma era Bisanzio”,
in S. S., Scritti letterari e critici raccolti da G. Stuparich (Roma, 1920), pp. 161-167; F.
Flora, “La «Cronaca Bizantina»“, Pègaso 2 (1930) , pp. 681-698; M. Praz, La carne, la morte
e il diavolo nella letteratura romantica (Milano-Roma, 1930; seconda edizione accresciuta
Torino, 1942), pp. 289-403, in particolare sulla Teodora di Fiorentino p. 378; A. Somma-
ruga, Cronaca Bizantina (1881-1885). Note e ricordi (Milano-Verona, 1941); G. Squarcia-
pino, Roma bizantina. Società e letteratura ai tempi di Angelo Sommaruga (Torino, 1950); E.
Scarano, Dalla ‘Cronaca Bizantina’ al ‘Convito’ (Firenze, 1970); Cronaca Bizantina, a cura
di V. Chiarenza (Treviso, 1975); Roma bizantina, a cura di E. Ghidetti (Milano, 1979).
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

L’opposizione tra Bisanzio, simbolo di decadenza, e Roma, sim-


bolo di auspicata rinascita, diventa luogo comune; il titolo Cronaca
bizantina alludeva appunto alle trame della corte di Costantinopoli,
paragonabili a quelli di Roma neocapitale d’Italia. Di fatto, la rivista
non pubblicò mai niente a favore o contro la vera Bisanzio, sulla
quale probabilmente si avevano ben poche notizie esatte. La cita-
zione degli imperatori Basilio e Michele nella spiegazione del titolo
fornita nel primo numero della rivista non chiariva a quali Basilio e
Michele ci si riferisse:

“Il nostro titolo. Non ha nulla a che fare con l’argomento. È risaputa
che Bisanzio da più di quindici secoli si chiama Costantinopoli; che a
Costantinopoli, ora come ora, c’è il padiscià, mentre – per nostra
immeritata fortuna – qui a Roma c’è sempre il papa, vicario volonta-
riamente invisibile di quel dio che tutti vede; che i successori di
Niceforo non hanno niente, ma quel che si dice niente di comune co’
discendenti di Bertoldo – e tanto meno di Bertoldino; e che, infine, gli
eunuchi di Basilio e di Michel Paflagonico non possono, secondo ogni
probabilità, aver fatto razza (...).”22.

La Cronaca bizantina era impaginata a somiglianza di un codice


medievale, ma le decorazioni sono spesso grottesche rinascimentali e
altre volte cineserie. La grafica delle pagine è un misto di elementi
medievali ed esotici. Accanto al titolo, nei fascicoli dei primi due
anni (1881-1882), appaiono due incisioni a inchiostro rosso, en-
trambe ispirate genericamente all’arte medievale, che raffigurano
Daniele in abito militare romano nella fossa tra due leoni araldici,
sopra l’iscrizione DANIHEL, e un contadino in abiti medievali che
zappa la terra tra le sue pecore. Col primo numero del 1883 spari-
scono le scene medievali dalla testata e le lettere del titolo e dei versi
di Carducci imitano i caratteri cinesi; dal giugno 1883, terza annata,
il titolo ha per sfondo una processione con giovani cantori e mona-
che che portano una icona della crocifissione, mentre sulla destra,
dopo una colonna tortile, è deposto un cadavere (l’incisione è fir-
mata da Giulio Aristide Sartorio); dal gennaio 1884 (sempre a firma
di Sartorio) la processione è sostituita da una scena erotica con una

22
La conoscenza approssimativa di Bisanzio della Cronaca bizantina e il livello degli studi
bizantini di quegli anni sono commentati in G. Pasquali, “Medioevo bizantino”, Civiltà
moderna 13 (1941), pp. 289 sgg., che trascrisse e commentò il pezzo della Bizantina
riportato nel testo. Vedi inoltre R. Drake, Byzantium for Rome: The Politics of Nostalgia in
Umbertian Italy, 1878-1900 (Chapel Hill, 1980).
TEODORA 

giovane schiava procace, a seni nudi, baciata sulla spalla da un


efebico adolescente nero in un chiostro con colonne tortili; infine,
con la nuova serie sotto la direzione di D’Annunzio, la rivista riduce
il formato e tutta la prima pagina è occupata da un grande scudo su
cui sono tre figure femminili, intrecci agli angoli e due clipei circolari
con una testa femminile e un giovane arciere; intorno allo scudo
l’iscrizione “tristis gratia non ridet”.

e. Teodora, odalisca, a dispense


Nel numero del 22 novembre 1885, nel periodo della direzione di
D’Annunzio, la Cronaca bizantina annunciò l’uscita imminente di
Teodora. Romanzo storico bizantino di Italo Fiorentino, illustrato con
quaranta incisioni di Giuseppe Pigna (poi apparso col titolo Teodora.
Scene bisantine); il romanzo sarà posto in vendita a puntate, a due
dispense la settimana, presso i rivenditori di libri e giornali. Un
trafiletto diceva:

“Teodora. – Una donna che, uscita dall’infimo strato della plebe,


pervenne a sedere imperatrice sul maggior trono del mondo, che
presenta in se stessa uno strano miscuglio di abbiezione e di grandezza,
di crudeltà, di magnificenza, di magnanimità, è un soggetto non meno
degno di studio, che di ammirazione.
La società bisantina di tredici secoli or sono, con le sue dispute
teologiche, le sue voluttà feroci, e con una strana turba di eunuchi, e
vescovi, e capitani, e cocchieri, frammisti e avviluppati intorno al trono
imperiale, forma una corona degnissima a quella bizzarra figura.
Della Teodora si pubblicheranno due dispense alla settimana a cent.
10 cadauna. – L’opera sarà di 40 dispense. – (...)”23.

Il romanzo di Fiorentino è un feuilleton che ripropone, sulla scia


del rumore provocato dal dramma di Sardou, le vicende di Teodora
narrate da Procopio nella Storia segreta ampliandole di dettagli san-
guinari, crudeli, melodrammatici e soprattutto erotici (che mancano
nella Théodora) in ripetitive puntate: quasi ogni dispensa prende la
scusa dalle pagine di Procopio per descrivere amori di Teodora o
Antonina e le esibizioni di Teodora e della sorella maggiore Comi-

23
I. Fiorentino, Teodora (Roma, 1886); i brani riportati più sotto nel testo sono dalle pp.
22, 23-24, 45, 69; il trafiletto è a p. 8 del numero della Cronaca bizantina del 29 novembre
1885.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

tone (cioè Comito) nel circo (figg. 16-20). Dopo la disgrazia della
morte del padre, addetto alla alimentazione degli orsi, il nuovo
matrimonio della depravata madre e altre vicissitudini della giovi-
netta Teodora, al Capitolo IV (“In teatro”) avviene l’entrata in
società della sorella maggiore e poi quella della protagonista:

“L’esordio di Comitone ebbe un felice successo. (...) Questo trionfo


artistico della giovinetta non andò lungamente scompaginato dalla
rovina della sua virtù. In quel tempo le donne di teatro cumulavano
all’arte loro quella della cortigiana, esercitata più o meno nobilmente.
Non v’era eccezione possibile.”.

Dopo l’inizio come ancella di Comitone, male abbigliata, Teo-


dora

“prese cura del suo abbigliamento, e con precoce malizia lo dispose in


modo che rimanessero esposte senza velo agli sguardi della moltitudine
alcune porzioni del suo corpo atte ad accendere l’immaginazione.”.

Crebbero i trionfi di Teodora, coronati da un successo completo


e inaspettato. Inevitabilmente, la ragazza si fa cortigiana:

“Teodora, mima danzante il giorno, cortigiana alla notte, passava con


indifferenza dalle braccia d’uno a quelle d’altro amatore, senza prefe-
renza e senza ripugnanza, con una suprema indifferenza. Ciò che la
schierò di slancio fra le cortigiane di primo ordine fu appunto quella
impassibilità sua ad ogni prova, quell’obblio d’ogni pudore, che la
faceva somigliare a una sfinge, splendida di bellezze, gelida come il
marmo.”.

Sirena incantatrice, Teodora

“non faceva altra distinzione fra gli amanti se non che dal più al meno
ricco, e che non rifuggiva dalle ultime laidezze, innanzi alle quali si
arretravano le più imperterrite sue compagne.”.

Riesce, comunque, a sfondare e a diventare l’amante di Ipparco,


nipote dell’imperatore Anastasio, che però Teodora rifiuta di seguire
nella catastrofe e nella fuga:

“Orbene rimani. Vedo ora qual sei. Tu non mi hai amato mai, tu non
sei che una volgare meretrice.”.

Ed Ipparco si porta via il figlio loro, Giovanni, senza che Teo-


TEODORA 

dora, gelida madre, glielo impedisca in alcuna maniera; il figlio


riapparirà più tardi, nobile giovane che ignora chi sia sua madre
(l’episodio è raccontato da Procopio al Capitolo 17 della Storia
segreta: che il padre sia questo Ipparco è però una invenzione di
Fiorentino, dato che Procopio non dice il nome del padre di Gio-
vanni, il quale è poi fatto sparire da Teodora quando le si presenta a
corte divenuto ragazzo). L’incisione dal titolo “Cuor di pietra” (di-
spensa 7) ritrae Teodora che guarda impassibile verso il mare e la
didascalia commenta: “Teodora li vide dall’alto d’un balcone, né si
curò di dare un ultimo bacio a quel bimbo che forse non rivedrebbe
mai più” (anche questi sentimenti di Teodora sono invenzione di
Fiorentino).
Viene poi l’episodio della schiava Aglae (altra invenzione), fatta
bastonare per rabbia da Teodora perché, pettinandola, le avrebbe
tirato i capelli cosı̀ da farle male:

“Né preghiere, né pianti giovarono. Teodora comandò che Aglae fosse
tratta nel sottoposto cortile, e battuta sulle carni ignude con venti colpi
di verga. Essa medesima si affacciò al balcone per accertarsi che il suo
comando fosse eseguito. Vide correre il sangue dell’infelice, udı̀ le sue
strida disperate, ma non fu paga finché il ventesimo colpo non fu
caduto. Le carni delicate di Aglae, erano lacerate, e quelle spalle, care
ai baci degli amanti, sarebbero d’allora in poi deformate dalle cicatri-
ci.”.

Seguono altre crudeltà verso i nemici, derisioni di nobili, ca-


pricci, intrighi ed anche il drammatico giuramento di Giustiniano sul
libro (le Scritture, presumibilmente) all’Ippodromo durante la rivolta
del “Nika”, l’intervento di Teodora contraria alla fuga, e via dicendo.
Le scenografie delle incisioni di Pigna sono un pastiche di archi-
tetture e costumi medievali o moderne, ispirati in parte alle immagini
della Théodora di Sardou: soldati in armature da crociati, letti a
baldacchino barocchi, mobili gotici, bagni stile impero, capitelli egizi,
finestre ottomane, archi moreschi; ma anche dignitari vestiti in ma-
niera genericamente bizantina, monogrammi giustinianei, tralci d’a-
canto e santi ascetici dipinti alle pareti (sono anche nel bagno di
Amalasunta, la figlia di Teodorico uccisa da sicari), patriarchi dalla
lunga barba materializzatisi da qualche mosaico bizantino per con-
vincere il perplesso Giustiniano della questione del filioque. In ap-
pendice, sono pubblicati “brani della storia segreta di Procopio nella
parte che riguarda Teodora”, usati come scusa per riproporre altre
incisioni erotiche di Teodora.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

Di fatto, la maggior parte delle incisioni e delle leggende tratte


dal testo che le accompagnano insistono sulle nudità di Teodora e
compagne con presumibili finalità di vendita delle dispense (simili
incisioni con Teodora giovinetta seminuda, odalisca e piangente
accompagnano la Theodora di Rankabes, uscita nello stesso 1885)
(figg. 10-11)24. Tutte queste figure femminili non hanno niente di
storicamente bizantino, non sono riprese da mosaici: sono odalische,
il cui modello sono i dipinti esotici di Ingres e Delacroix, in gran
voga, anche se di qualche decennio anteriori, o la pittura storica
italiana contemporanea, come quella di Hayez, Morelli od Ussi.
Nella incisione della prima dispensa Teodora è ritratta come una
odalisca a seno nudo pettinata da serve di colore (la ricca turca
pettinata dalla schiava nel bagno turco è una scena tipica del reperto-
rio orientale ottocentesco), con la corona imperiale ai suoi piedi e lo
stendardo con l’aquila di Roma accanto (dice la didascalia: “In
mezzo a quel lusso orientale per le sue forme scultorie, i suoi sguardi
procaci risplendevano in tutta la loro possanza”), danza con un
tamburello su un tappeto tra rose e specchi; con alti stivali e nuda
tranne che per la vita nella quarta dipensa (Teodora mima: “Fu
impiegata in una parte che oggi si chiamerebbe di pantomima buffa.
Poco vestita anzi presso che ignuda ...”); si scioglie tra le braccia
dell’amato a petto nudo nella quinta dispensa (Amori di Teodora:
“Amato mio diceva ella, guardandolo cogli occhi socchiusi – io son
divenuta brutta e non ti piacerò più – Tu mi sembri cento volte più
bella”: anche qui il modello potrebbero essere stati i quadri di
Ingres); e cosı̀ via fino al riassunto della vita nella dispensa trenta-
treesima, dove suona e danza a petto nudo davanti a un muscoloso
negro che ha delle ali di farfalla attaccate alla schiena (Rimembranze:
“... quando si mostrava quasi nuda sul teatro, facendo arrossire fino
le cortigiane ...”), e nella trentanovesima, dove è nuovamente tra le
braccia di un amante sotto una rudimentale tettoia (Primi amori:
“Ma ad ognuno che si presentasse e la trovasse bella di tutta la
persona faceva copia”). All’occasione, sono gratuitamente seminude
anche anche altre giovani donne, come le schiave di Teodora fatte
frustare per minime inadempienze o la barbara Amalasunta, che vede
arrivare nel bagno i suoi assassini seduta nella posa di una bagnante
orientale di Ingres.

24
C. Rankabes, Θεοδωρα. Ποιηµα δραµατικον ει̋ µερη πεντε (Leipzig, 1884), pp. 3, 13, 53.
2

BASILIOLA

“(...) le non dirò vecchie, ma giudiziosamente mature


signore adorne di sardanapaleschi orecchini da 50.000
lire l’uno (detti nel Sàlgari «nocciuole di brillanti») (...).
Il «buonasera Anselmo» largito al passaggio pioveva giù
dal fastigio di una pellicciosa e margaritante regalità,
come sguardo di eccelsa Teodora o di Caterina allo
scriba genuflesso (...)”.
Carlo Emilio Gadda, “Quando il Girolamo ha smesso
...”, in L’Adalgisa. Disegni milanesi, 1944, p. 21.

Tra la fine dell’Ottocento ed il primo decennio del Novecento il


gusto bizantino si afferma in Italia. Sulle orme di Klimt e Mucha, la
ricchezza della decorazione bizantina ispira artisti: Galileo Chini, nei
dipinti per la esposizione di Venezia del 1908, incorona Bisanzio
come una delle grandi civiltà artistiche umane, alla pari della Grecia,
Roma ed il Rinascimento. Ancora una volta è un drammaturgo,
D’Annunzio, a creare un personaggio simbolo di Bisanzio: Basiliola,
la bizantina protagonista de La nave, unisce agli attributi di Teodora
quelli anch’essi orientali di Salomè. Dopo Teodora, personaggio
femminista per Diehl, Bisanzio corrotta e lussuriosa è nuovamente
impersonata da una donna. Questa volta, però, invece di un vacil-
lante Giustiniano, le è contrapposto un coraggioso e virile Marco
Gratico, veneto di sangue romano, che prima è stregato dal fascino
della donna, poi se ne libera e la doma: nonostante ne sia stato
inizialmente corrotto, nell’epilogo della tragedia dannunziana l’Occi-
dente latino ha ragione dell’Oriente bizantino.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

a. Basiliola, Teodora italianizzata


Nella Teodora di Italo Fiorentino, la vita dell’imperatrice raccontata
da Procopio è presa come scusa per un romanzo erotico che ha per
protagonista una donna dissoluta. Anche gli storici dell’arte raven-
nate degli inizi del Novecento, di fronte alla sua immagine nel
mosaico di San Vitale, ripeterono sull’imperatrice il giudizio cattolico
tratto da Procopio; Corrado Ricci, nel 1902, la descrisse come
dissoluta e sanguinaria (fig. 21):

“È ben essa, in questo vecchio tempio, la celebre donna, che dalla vita
istrionica del circo fu portata sul trono d’Oriente; che, gettati i falsi
ornamenti di comica, cinse il prezioso diadema bizantino stellante di
gemme; che dalla commedia, che dilettava i popoli, passò alla tragedia
che li fece sanguinare; che dal peccaminoso giaciglio, aperto a chi
pagava, salı̀ alla gloria delle absidi sacre. La figura, alta, magra, i suoi
occhi larghi, rotondi le dànno proprio quell’aspetto di nervosismo
isterico e sfrontato che sembra risultare dalla storia e dal suo enorme
successo in una società raffinata e corrotta.”.

A Teodora Ricci contrappose la virtuosa Galla Placidia, “la


donna più straordinaria di tutta un’epoca”, “il centro dei destini più
tragici dell’impero romano agonizzante”; Galla, figlia di Teodosio, è
obbligata a sposare Ataulfo, del quale resta vedova, ed è respinta a
Ravenna, “dopo indegni trattamenti”, presso il fratello Onorio; qui
sposa Costanzo, che muore lasciandola con due figli, ed è esiliata a
Bisanzio, da dove ritorna per mettere sul trono d’Occidente il figlio
Valentiniano. Galla ha ornato Ravenna di grandi monumenti:

“il suo mausoleo appare come la tomba della potenza dei Cesari, nella
sua potenza di raccoglimento di colibro, desta sensi di raccoglimento
storico più che il mausoleo d’Augusto e quello d’Adriano. Ogni poe-
tica tradizione. ogni fantasia contempla in lei sola la gloria d’un
periodo di tempo e di vicende straordinarie.”1.

Tutti, cosı̀, tra il popolo ricordano Galla Placidia, con sensi


ancora vivi di ammirazione. Diversamente, Carlo Cecchelli, nel
1932, per l’Enciclopedia Italiana, tracciò un ritratto negativo della
donna, imputandole leggerezza nel favorire gli intrighi di corte,
complicità nell’assassinio di Serena, moglie di Stilicone, relazioni

1
C. Ricci, Ravenna (Bergamo, 1902), citazioni da pp. 29 e 12.
BASILIOLA 

colpevoli della figlia Giusta Grata Onoria con il maggiordomo di


palazzo Eugenio2.
A differenza dell’immagine italiana di Teodora, quella francese
resta complessivamente positiva, quantomeno non viziata dal suo
presunto apprendistato di cortigiana; le pagine di Procopio non
fanno lı̀ testo. Nel 1901 Diehl pubblica Justinien et la civilisation
byzantin au VIe siècle, con numerose incisioni in bianco e nero di
accompagnamento; seguono nel 1904 Théodora impératrice de By-
zance, in edizione di lusso con sessanta grandi composizioni a colori
e oro di Manuel Orazi, che è proposta anche in edizione più sobria
ed è poi tradotta in italiano nel 1939, e, nel 1906, il già citato Figures
byzantines con un capitolo dedicato a Teodora3. Nella monografia
sull’imperatrice Diehl riparte dalla Teodora “sempre in cerca di
avventure amorose” di Sardou, ma nel capitolo “La virtù di Teo-
dora” sostiene che i fatti sono piuttosto a favore di Teodora, nono-
stante non si possa giurare sulla sua moralità dopo il matrimonio con
Giustiniano. Teodora è una prostituta famosa, ma, abbandonata
dall’amante, si ravvede e passa a frequentare i circoli cristiani di
Antiochia; era però anche donna, pertanto mobile, appassionata,
ambiziosa, avida di rifarsi una fortuna; di qui l’incontro con Giusti-
niano e la sua ascesa fino a diventare imperatrice. Tre capitoli,
infine, sono dedicati al femminismo, alla pietà ed alla religiosità di
Teodora. Quasi contemporaneamente esce Irène et les eunuques di
Paul Adam (1906), un drammone storico, anch’esso con illutrazioni,
insipide, di Orazi (figg. 12-13), che ha per protagonista Irene, una
colta ateniese che sposa l’imperatore Leone IV: donne di corte ed
eunuchi iconoduli sono contrapposti ad uomini, tra cui l’imperatore,
iconoclasti4.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento Orazi realizzò anche manife-

2
C. Cecchelli, “Galla Placidia”, in E. I., vol. 16 (1932), pp. 286-287.
3
C. Diehl, Justinien et la civilisation byzantin au VIe siècle (Paris, 1901); id., Théodora
impératrice de Byzance (Paris [1904]), p. 113 (traduzione italiana, Teodora imperatrice di
Bisanzio [Firenze, 1939 – XVII], p. 82):
“Depuis que Sardou, dans son drame, nous à monstré Théodora amoureuse et coureuse
d’aventures, on admet volontiers que l’impératrice, gardant sur le trône les libres de sa
jeunesse, ne se prive point, en courtisane qu’elle était restée, de retourner à ses vieux
péchés. Je ne voudrais point me donner le ridicule de me faire le champion trop résolu de la
vertu de Théodora après son mariage.” L’accenno al ridicolo sembra una risposta alle
contestazioni di Sardou delle critiche di Diehl pubblicate sull’Illustration théatrale, cit., p. iv.
Non sono stato in grado di rintracciare copia della edizione di Théodora di Diehl con le
incisioni di Orazi.
4
P. Adam, Irène et les eunuques, illustrazioni di M. Orazi (Paris, 1906).
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

sti e altre immagini dalla Théodora di Sardou (fig. 22), dove la


Bernhardt indossava un abito dorato ed ha un nimbo di tessere
musive pure dorate. La Théodora fu ripresa con un successo eclatante
nel 1902 e da essa fu tratta nel 1907 un’opera lirica in italiano,
Teodora, dove sono introdotte alcune varianti nella trama rispetto
all’originale (tra queste, Andrea che, ferito, dichiara il suo amore per
Teodora, dopo averla riconosciuta come l’imperatrice)5. In Italia, nel
1909, apparve un primo film muto Teodora, Imperatrice di Bisanzio,
con la regia di Ernesto Maria Pasquali; la trama è una parafrasi di
Sardou, senza prestiti da Procopio: Giustiniano si innamora di Teo-
dora, bellissima fanciulla, la quale, salita al trono, senza rivelare la
sua identità diventa amante di un certo Eraclio, che cospira insieme
ad altri per uccidere l’imperatrice; Eraclio, al momento di colpire
Teodora, la riconosce e si inginocchia davanti a lei. Un secondo film
su Teodora fu prodotto nel 1913; poi, nel primo dopoguerra (1921),
da Sardou fu tratto un altro film italiano di grande successo di
pubblico, con la regia di Leopoldo Carlucci, proiettato prima negli
Stati Uniti (1921) e poi in Italia (1922) (fig. 23); la trama è qui
fedele al dramma di Sardou: Teodora appare sulla scena indossando
costume e copricapo imperiali ispirati alla Tedora di San Vitale o alla
imperatrice Arianna del dittico d’avorio del Bargello6.
Negli stessi anni della riduzione a opera del dramma di Sardou,
dissolutezza, morbosità e intrighi di Bisanzio vengono messi in scena
anche da D’Annunzio ne La nave (figg. 24-28), la cui prima a Roma,
al Teatro Argentina, l’11 gennaio 1908, stabilı̀ il record di incassi per
il teatro di prosa italiano; alla Fenice di Venezia ne furono date più
di cento rappresentazioni7. La tragedia è ambientata nell’anno 552 e
racconta le vicende che precorrono la fondazione di Venezia: un
gruppo di cittadini di Aquileia si rifugia su una isola della laguna
veneziana per sfuggire alle invasioni barbariche e qui costruisce una
basilica e una nave (la Totus Mundus), con la quale salpare per
recuperare ad Alessandria il corpo dell’evangelista Marco. Gli attori

5
V. Sardou e P. Ferrier, Teodora, musica di X. Leroux, editore P. Choudens (Milano,
1907).
6
Per la trama e la critica su questi film: A. Bernardini, Il cinema muto italiano. I film dei
primi anni 1905-1909 (Torino, 1996) p. 411 (Teodora, Imperatrice di Bisanzio); V. Martinelli,
“Il cinema italiano muto. I film degli anni venti 1921-1922”, BN. Bianco e nero, 42/1-3
(gennaio-giugno 1981), pp. 505-506 (Teodora del 1913 e Teodora di Carlucci).
7
La notizia è presa da L’illustrazione italiana 35, n 12 (22 marzo 1908), p. 279. Le
citazioni sono dalla recensione alla prima dello spettacolo firmata Leporello, “La nave di
Gabriele D’Annunzio”, L’illustrazione italiana 35, n 3 (19 gennaio 1908), pp. 58-64.
BASILIOLA 

della Compagnia stabile del teatro erano diretti da Ferruccio Garava-


glia, con Basiliola interpretata da Evelina Paoli (alla Fenice invece
Basiliola sarà Emilia Varini) (figg. 27-28), i cori erano diretti dal
maestro Ildebrando Pizzetti, scenografie e costumi erano di Duilio
Cambellotti, che con “pazienza di certosino” trasse ispirazione dal
“tesoro di Brescia [la lipsanoteca del Museo Civico di Brescia], dal
museo Laterano [forse la croce di Giustino II in San Pietro], dagli
avori del South Kensington [il Victoria and Albert Museum di
Londra] o del Louvre, dagli argenti milanesi di San Nazario [il
reliquiario in argento di San Nazaro a Milano], dalle rosse miniature
del codice di Rossano [l’Evangeliario purpureo di Rossano Calabro],
da tutti i documenti sincroni o di poco anteriori e posteriori”8.
Nella tragedia sono contrapposti personaggi di due differenti
moralità e razze: da una parte Marco e Sergio Gratico ed i loro
seguaci, che impersonano la romanità, virile e combattiva; dall’altra
parte sta Basiliola, “la bizantina”, la bellissima, seducente figlia del
corrotto Orso Faledro, deposto ed accecato. Il lavoro di D’Annunzio
fu visto come “un monito di poeta civile che guarda oltre le miserie,
le vergogne, le viltà, i bizantinismi dell’ora corrente”, “un grande
soffio di italianità” dai recensori, una lotta antesignana tra Italia e
Bisanzio. Carlo Sforza, il ministro degli esteri di Giolitti nel primo
dopoguerra, parlando de La nave giudicò D’Annunzio un contraffat-
tore delle idee di Nietzsche e un precursore del fascismo, avendo
cominciato

“a volgarizzare per i giovani borghesi italiani il vangelo di una novella


vita che non aveva di romano altro che una messa in scena di cartone
(. ..). Nel 1908, una delle sue tragedie, La Nave, fu rappresentata a
Roma; un verso ne era il Leitmotiv:
Arma la prora e salpa verso il mondo.
Il verso non significava nulla; o tutt’al più un vago appetito di conqui-
sta; ma, agli studenti e giovani impiegati sbadiglianti all’università o
all’ufficio, esso parve un programma di grandezza e di guerra; (...). La
corruzione mentale fascista cominciò allora.”9.

L’opposizione morale tra i seguaci di Sergio e Marco Gratico e

8
D. Angeli, “Lo scenografo della ‘Nave’: Duilio Cambellotti”, Il Marzocco 12, n 52, 29
dicembre 1907, p. 2. Per le scenografie di Cambellotti per La nave: Nemi, “Tra libri e
riviste. «La Nave» di G. D’Annunzio”, Nuova Antologia, ser. 5, n 133 (1908), pp. 162-167;
per le musiche di Pizzetti: Valetta, “Rassegna musicale”, ibid., pp. 132-138.
9
Cf. C. Sforza, L’Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi (Roma, 1944), pp. 104-105.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

quelli di Basiliola emerge già dal prologo, al loro ritorno dalla


spedizione con la quale hanno ripreso le urne sacre dei tutelari ai
barbari; Marco si dichiara discendente dei Veneti, liberi perpetua-
mente perché nelle loro vene scorre il sangue di Roma:

“(...) la giovinezza vostra senza giogo,


la Libertà perpetua dei Veneti!
L’antichissimo sangue grida in voi?
Romana era la forza d’Aquileia
Romane l’arche ove seppelliremo
i nostri morti; e son romane quelle
colonne che porremo ai quattro canti
del nostro altare, sópravi il ciborio.”

All’opposizione sta la fazione grecanica, i Greci (i Bizantini):


“corrotti d’eresia nelle midolle!”, che nel nome di Giustiniano hanno
smunto e spolpato i Veneti con tasse, espropri e decime e che
volevano offrire i Veneti all’impero come sudditi. Sono i seguaci di
Basiliola – che nelle foto apparse sulla stampa dall’allestimento
all’Argentina portava un costume bizantino: lunghi orecchini a più
pendenti e tunica senza maniche con una stola davanti decorata con
motivi a palmette (fig. 27)–10, che la fazione gratica vorrebbe cacciare
via:

“Sia rimessa in mare


la Bisantina!
Al largo la Grecastra!”

Basiliola, come calunniano i Gratici, sarebbe stata portata dal


fratello maggiore Giovanni a Salona da Narsete, pio e casto eunuco
comandante dei Greci, “da esporre a mal uso”, da prostituire “a
tutta l’oste”, per aiutare le sue trame; Basiliola finirà

“sopra le carra delle meretrici


che cigolano dietro l’accozzaglia
dei Bulgari degli Unni e degli Alani.”.

10
Come si vede in una foto pubblicata su La Domenica del Corriere 10, n 3 (19-26
gennaio 1908), p. 8 e in Illustrazione popolare. Giornale per le famiglie 39, n 23 (7 giugno
1908), p. 356; qui a p. 357 altre due foto dei protagonisti della rappresentazione, una delle
quali con le sette danzatrici che accompagnano Basiliola. Altre foto e disegni dello
spettacolo in “Gabriele D’Annunzio e il varo della «Nave»”, Natura ed arte 1907-1908, pp.
329-335, e in L’illustrazione italiana 35 (1908), p. 419 (Emilia Varini come Basiliola).
BASILIOLA 

Dopo la sua apparizione, Basiliola reca all’altare una ampolla


votiva con una (improbabile) immagine di

“San Marco orante tra i cammelli, piena


dell’olio che arde sopra il suo sepolcro
nella piaggia d’Egitto.”.

D’Annunzio fa confusione tra l’iconografia di Marco e quella di


Menas, che è di solito raffigurato appunto come un orante a braccia
aperte tra due cammelli in ampolle e avori copti, dei quali uno al
Museo del Castello Sforzesco, che può essere stato visto da D’An-
nunzio: Menas è un santo venerato in Egitto come Marco, le cui
spoglie erano ad Alessandria. Poi Basiliola, resa folle dall’acceca-
mento col quale sono stati puniti il padre e i quattro fratelli, “all’uso
di Bisanzio”, e una volta che Sergio Gratico è stato proclamato
nuovo vescovo e Marco Gratico nuovo tribuno, promette distruzione
per la fazione gratica. Basiliola si prepara a una danza sacra di
vittoria, si profuma e chiede una spada, una fiaccola, il velo serpen-
tino e una stoffa di porpora su cui danzare, ma cadrà poi a terra
senza farlo; lei bellissima e desiderata da tutto il popolo, promette di
offrirsi come dono a Marco, il vincitore, quanto basta al popolo per
apostrofare Basiliola come nuova Teodora:

“Danza! Danza!
La Grecastra
appreso ha l’arte dell’Imperatrice!
Danza, danza, o Faledra!
Nei quadrivii
di Bisanzio, nel circo!
È bella! È bella!
Basiliola!

Basiliola diventa concubina di Marco Gratico; “bellissima belva”,


appare ai suoi precedenti oppositori, ora prigionieri in una fossa fuia
e melmosa, vestita alla bizantina come la Teodora di San Vitale:

“Col passo tacito e lieve della lonza, ecco, la Faledra si mostra in


prossimità dell’ara. Porta una tunica molle che scende fino ai piedi
calzati di porpora, verde come le alghe divelte; su cui larga fimbria
l’arte del ricamatore greco operò la trasfigurazione delle piante e degli
animali come in un sogno visibile. Traspariscono le bianche braccia a
traverso le maniche fatte d’un tessuto reticolare che svaria come il
collo dell’anatra selvatica. La grande capellatura (...) le scende più giù
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

della cintola ricca, più giù dei lombi potenti, insino al pòplite, costretta
da una lista purpurea intorno alla fronte imperiale.”.

Basiliola uccide di sua mano i prigioneri a tiri di freccia. A questo


punto entra in scena il monaco Traba, vestito come un eremita del
deserto, con l’aria ascetica di un santo bizantino:

“Egli porta intorno ai lombi un cilicio fatto di setole di cavallo


annodate; del rimanente è ignudo (...). Calvo come Eliseo, velloso
come Elia, cinto di corda il cranio come un battelliere siriaco, ossuto e
nocchiuto (...).”.

Di fronte a Marco Gratico, Traba accusa Basiliola di idolatria


pagana e di essere l’amante non solo di Marco, ma anche di suo
fratello, il vescovo Sergio Gratico. Basiliola riesce a vincere anche
questa volta, incantando Marco per mezzo della sua bellezza e
rendendolo obbediente al suo volere.
Il secondo episodio ha per scenario la basilica in costruzione, che
è un pastiche di elementi tratti da chiese ravennati: sul frontone è un
mosaico con il Cristo imberbe di San Vitale tra due spezzoni delle
teorie delle vergini e dei martiri di Sant’Apollinare Nuovo, mentre
dei capitelli bizantini stanno sopra le colonne dell’atrio:

“Appare costrutto di marmi raccogliticci l’atrio quadrilatero della


Basilica, (...); [sulla facciata] biancheggia e brilla d’opera musaica in
alto, sopra gli émbrici del nartece, il duplice ordine dei Martiri e delle
Vergini che procedenti dalle due mistiche Città fra gli alberi di palme
alzano con le mani velate il simbolo del premio eterno verso il
Redentore imberbe coronato del nimbo crucifero in mezzo a una nube
ovale.
(...) La porta maggiore della Basilica è spalancata: e si discopre pel
largo vano tutta la nave centrale fino all’abside: la cattedra del Ve-
scovo, il tabernacolo dell’altare, la scola dei cantori chiusa dai plutei di
marmo, l’ambone dell’Epistola e quello dell’Evangelio. Sospese per le
catenelle alla pergola e agli architravi tra colonna e colonna splendono
le lampade numerose in forma di corone, di delfini, di navicelle,
recanti il monogramma del Cristo, la croce equilatera, il vaso eucari-
stico, l’effige di San Pietro a poppa col timone e di San Paolo a prora
in vigilia.”11.

Emula di Salomè al banchetto di Erode, Basiliola danza accom-

11
Questo ed i precedenti brani riportati dal Prologo de La nave sono, nell’ordine, alle pp.
64, 37, 51, 68, 84, 102, 137-138 di G. D’Annunzio, La nave (Milano, 1908).
BASILIOLA 

pagnata dalle ancelle, coperte solo da veli trasparenti, davanti al


vescovo Sergio Gratico quasi ebbro, mentre gli altri commensali
intingono le dita nelle vivande e bevono dai calici colmi. Con due
grappoli di perle che le discendono fino ai lati della bocca, di fronte
all’ara dei Naumachi Basiliola seduce con i suoi movimenti il popolo
che la implora di denudarsi. È a questo punto che appare sulla porta
della basilica la processione con alla testa il presbitero Teodoro che
porta una croce “equilatera” (greca), “fasciata d’auree làmine e
costellata di pietre incise” (incastonata di gemme ad imitazione di
una croce altomedievale, come le croci di Agilulfo e Berengario nel
Tesoro del Duomo di Monza o come la croce di Giustino II nel
Tesoro di San Pietro a Roma); altri chierici portano “monogrammi
compresi nel nimbo”, “le immagini di Maria dipinte su le tavole con
l’arte arcana di San Luca” (cioè la Odegetria, la Vergine col Bam-
bino che si credeva dipinta dall’evangelista Luca), “le immagini
metalliche degli Apostoli”, “le teche delle reliquie, le fiale degli olii
santi, gli evangeliarii, i dittici”. In una foto d’epoca pubblicata sulla
Domenica del Corriere dopo la prima sono radunati insieme la grande
croce greca, un codice con la coperta dorata, quattro cassette a urna
con figure sbalzate di tipo limosino, uno smalto con un Cristo
frontale, un secondo smalto con una figura, forse un evangelista, una
corona, una croce latina, una spada, un calice di pietra dura con base
metalllica, un’icona con la Madonna col Bambino, un’icona con un
santo orante, un alto candelabro12.
Scoppiano ora la violenta discussione e poi la rissa durante la
quale i due gruppi di oppositori si accapigliano sui dogmi della fede,
i Tre Capitoli di Giustiniano, la natura degli angeli, la Resurrezione,
il sinodo di Calcedonia, la deposizione di papa Vigilio. Basiliola,
ripetutamente chiamata “la meretrice”, appare sempre più come una
creatura demoniaca, un po’ Teodora, un po’ Salomè di Oscar Wilde
– Sàlome era stata pubblicata in francese nel 1893 e tradotta in
italiano nel 190613 – o quella dei quadri di Gustave Moreau (1876) –
cosı̀ amati da Des Esseintes nel quinto capitolo di A rebours di
Huysmans (1884) –, un po’ Cleopatra; oppure come la grande
meretrice dell’Apocalisse, vestita di porpora e di scarlatto e adorna di
gioielli d’oro, pietre preziose e perle, con la quale i re della terra

12
Vedi sopra alla nota 9.
13
O. Wilde, Sàlome. Poema drammatico, unica versione italiana consentita dall’Autore di
G. G. Rocco (Napoli, 1906). Sulla figura di Salomè e la sua fortuna figurativa tra Ottocento
e Novecento: E. Bairati, Salomè. Immagini di un mito (Nuoro, 1998), pp. 151-194.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

hanno fornicato e con il vino delle cui prostituzioni i popoli si sono


inebriati.
Irrompe, infine, Marco Gratico, il tribuno, coi suoi soldati, che
rifiuta gli inviti di Basiliola e si batte a duello col fratello Sergio.
Marco uccide Sergio; il virile tribuno italiano trionfa sul fratello
corrotto dall’Oriente. Arrivano i soldati bizantini di Narsete guidati
da Giovanni Faledro, fratello di Basiliola, ma sono respinti dai
Veneti. Basiliola viene legata all’altare della Vittoria, al quale era
solita portare sacrifici; terrorizzata, è condannata all’accecamento,
nonostante le sue accorate suppliche; riesce però a darsi la morte
gettandosi nel fuoco. La storia si conclude con la partenza di Marco
ed i suoi che salpano per Alessandria con la Totus Mundus per
prendere le spoglie dell’evangelista Marco.

b. Teodora alla esposizione di Venezia


Il costume della Basiliola di D’Annunzio, con la stola davanti, era il
cosiddetto costume bizantino della moda dell’epoca. Cambellotti, lo
scenografo de La nave, realizzò costumi bizantini, maschili e femmi-
nili, ispirati a mosaici anche per i personaggi del film Giuliano
l’Apostata (1919), figurazione storica in quattro visioni di Ugo Falena
dal poema sinfonico per archi soli e cori di Luigi Mancinelli14. Nella
copertina del fascicolo del 12 gennaio 1908 della Illustrazione popolare
con la recensione de La nave, D’Annunzio è ritratto nel suo studio
tra cuscini e mobili moreschi, alla vigilia della prima (fig. 29); la
copertina del fascicolo successivo è occupata da una grande imma-
gine del “varo della Totus mondus, la gran nave dei primi Vene-
ziani” (fig. 30); ancora nel fascicolo di gennaio, stole ‘bizantine’ di
nastro azzurro ricamate d’oro accompagnano vestiti gialli di crespo
con pizzi d’argento, grande eleganze del tempo (fig. 31)15. Modelli

14
Cambellotti (1876-1960), Roma, Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contempora-
nea, 24 settembre 1999 – 23 gennaio 2000, catalogo della mostra (Roma, 1999), p. 224.
15
Illustrazione popolare. Giornale per le famiglie 45, n 2 (12 gennaio 1908), p. 26. Nel
successivo fascicolo 3 del 19 gennaio è pubblicata una recensione della prima de La nave
(p. 38); e nel fascicolo 5 del 2 febbraio è un grande disegno del varo della nave
dall’allestimento del dramma con lungo commento. Per gli abiti bizantini versioni ricche
come quello di Basiliola sono disegnati da Alphonse Mucha per la Bernhardt o per
pubblicità come nel manifesto per Moët et Chandon del 1899: Alphonse Mucha 1860-1939,
Darmstadt, Mathildehöhe, 8 giugno – 3 agosto 1980, catalogo della mostra (München,
1980), n 109 p. 158; vedi anche sotto alla nota 21.
BASILIOLA 

con stola ‘bizantina’ appaiono già nella moda italiana del periodo
umbertino. La famosa cantante lirica Adelina Patti indossò nel 1891
un abito da ballo, creato apposta per lei dalla sarta parigina Maria
Blossier, di raso bianco, ricamato a disegni di stella, con sei raggi in
perle vere e di cristallo, con alte bordure e stola bizantina16.
La nave fu musicata da Italo Montemezzi sulla riduzione di Tito
Ricordi; l’opera fu data in prima a Milano alla Scala nel 1918 e fu
ripresa nel 1938 per inaugurare la stagione lirica al teatro Reale di
Roma, con la regia di Carlo Piccinato, Gina Cigna nella parte di
Basiliola, il tenore Paolo Civil in quella di Marco Gratico, il baritono
Mario Basiola in quella di Sergio Gratico, scene di Ettore Polidori su
bozzetti di Cipriano Efisio Oppo17. Nel 1909, l’anno successivo della
apparizione teatrale del testo di D’Annunzio, La nave e Teodora
servirono di ispirazione per i dipinti realizzati da Galileo Chini nella
Sala della Cupola per la VIII Esposizione d’Arte di Venezia del 1908
(figg. 32-33). Chini dipinse le otto vele della cupola con una fascia a
tappeto decorativo, sopra la quale erano otto episodi delle civiltà
dell’arte. Alcuni endecasillabi di Antonio Fradeletto, segretario gene-
rale della Biennale dettano il programma degli episodi delle varie
civiltà. Dopo “Le origini” (“La Bellezza, portata dalle Muse e gui-
data da Amore, va verso l’uomo”), “Le arti primitive” (Egitto,
Babilonia, Assiria), “Grecia e Italia” (cioè Etruschi e Roma, con un
etrusco con un’urna, un Eros, simboli dell’Arte, la Forza e La
Grazia, la Lupa di Roma, un uomo che regge il mondo), la quarta
vela era occupata dall’“Arte bizantina”. Il programma diceva:

“IV. Arte bizantina. Paganesimo e cristianesimo, opulenza orientale e


misticismo s’accostano e talora si confondono: questo dicono le raffi-
gurazioni del quarto campo. Un sarcofago istoriato di immagini pa-
gane ha il coperchio santificato dalla croce. Nel musaico di Sant’Apol-
linare di Ravenna si svolge con ritmo divino la teoria delle Vergini
purissime; dal musaico di San Vitale ci muove incontro Teodora,
imperatrice e teologhessa. Intanto i rudi lavoratori latini dell’estuario
veneto s’accingono alla conquista del mare. La leggenda esprime
l’antitesi:
18
«Sogno a Ravenna e da Venezia salpo»” .

16
La notizia su Adelina Patti è presa da R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, vol. 2
(Milano, 1964), p. 329.
17
Per la ripresa del 1938 vedi gli articoli apparsi su Il Tevere del 6-7 e del 15-16 dicembre
1938, quest’ultimo a firma di A. Righetti, “Il successo della «Nave» di Montemezzi e
D’Annunzio al reale dell’Opera” (p. 3).
18
Il testo del commento di “Grecia e Italia” diceva invece:
“III. Grecia e Italia. Il grave etrusco assiso stringe fra le mani un’urna cineraria; ma Eros
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

Il verso finale parafrasa il motto de La nave: “Arma la prora e


salpa verso il mondo”. Seguivano “Medioevo e Rinascimento”, “Mi-
chelangelo”, “L’Impero del barocco”, “La civiltà nuova”. Durante il
fascismo i dipinti di Chini nella cupola non suscitarono più alcun
entusiasmo: per l’allestimento della Biennale del 1928 la cupola
venne ricoperta con una controcupola di Giò Ponti ed è stata
riportata alla luce solo nel 1986.
Bisanzio ricevette da Chini un’importanza pari a quella delle
civiltà della antichità o del Medioevo e Rinascimento insieme. La
vela di Bisanzio contiene la raffigurazione di due delle vergini di
Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna; poi, al centro davanti a un
sarcofago ravennate con due palme e due pavoni sulla fronte, sta
Teodora ritratta nella posa e nel costume del mosaico di San Vitale,
ma ringiovanita cosı̀ da diventare una florida ragazza bruna, dai
lineamenti mediterranei e regolari; sulla destra, bambini e ragazze,
nudi e in pose maliziose, spingono una nave in mare. La spiegazione
della vela della civiltà di Bisanzio fa riferimento a l’esotico, il cri-
stiano ed il pagano (“Paganesimo e cristianesimo, opulenza orientale
e misticismo s’accostano e talora si confondono”); Teodora è impe-
ratrice e teologa. Alcuni temi sono presi da La nave: Bisanzio
simboleggiata da una donna (Basiliola-Teodora), i mosaici di Ra-
venna come scenografia, “i nudi lavoratori latini dell’estuario veneto”
che sono in procinto di salpare con una nave (Chini ha dipinto in
realtà delle ragazze nude a destra di Teodora); il sarcofago dietro a
Teodora, che avrebbe dovuto avere nel programma simboli pagani e
non cristiani, ricorda l’ara alla quale viene legata Basiliola nell’epi-
logo drammatico de La nave19.

giovinetto gli porge fiori e fiori porge alla Grecia, simboleggiata da un fregio prefidiaco.
Passano trionfalmente i simulacri della Vittoria di Samotracia, della Vittoria virile, della
Vittoria femminile, a raffigurare l’Arte, la Forza, la Grazia. Cresce gagliarda la lupa di
Roma; e un lembo di architettura latina, un uomo che regge la sfera del mondo annunciano
la potenza dell’Urbe. L’Arte è serena come la natura e come l’anima: «Lieta rifulgo al greco
italo sole».”
19
Su questi dipinti vedi: VIII Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia 1909,
catalogo illustrato (Venezia, 1909), con la descrizione delle scene e gli endecasillabi; L.
Bortolatto, “Sulla cupola «ridonata alla luce» come Galileo Chini «la donò a Venezia» nel
1909”, in XLII Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia. Arte e scienza,
catalogo generale 1986 ([Venezia] 1986), pp. 21-30; F. Benzi, “Galileo Chini affreschista e
decoratore”, in Galileo Chini. Dipinti Decorazioni Ceramiche opere 1895-1952, catalogo della
mostra, Montecatini Terme, 5 agosto – 31 ottobre 1988, a cura di F. Benzi e G. Cefariello
Grosso (Milano, 1988), pp. 72-73. Grandi riproduzioni degli spicchi della cupola e della
vela di Bisanzio per intero sono in F. Fenzi, “La cupola di Galileo Chini alla biennale di
Venezia del 1909”, in Galileo Chini e l’Oriente. Venezia Bangkok Salsomaggiore, catalogo della
BASILIOLA 

La critica conservatrice espresse un giudizio favorevole sulle vele


di Chini: Ugo Ojetti vi vide un “vigore di stile tanto italiano”, la cui
freschezza gli ricordava le realizzazioni dei secoli d’oro dell’arte
italiana. La critica d’avanguardia lo bocciò: Ardengo Soffici definı̀ i
dipinti “un’arte che può utilmente alluminar vasi e piatti, illustrar
libri e riviste (...); ma che, per l’amor di Dio non sconfini – checché
possan cantare i critici pappagalli e i cortigiani del talento”; “An-
diamo, cari signori! Lasciamo da parte tutta questa fraseologia [dei
programmi] da callisti indannunziati, e dateci un po’ di buona
pittura (...)”; e sulla Teodora:

“(...) senonché io vedo, qui, nella cupola, cattivo disegno, membra


bistorte, falsità di attitudini, comunalità infinita d’invenzione, mala
pittura e morte. Pigliamo, per esempio, questa Teodora impalata nella
sua vestaglia, attonita, geometrica: vi par ch’essa rifletta, come pare
volesse l’autore, la solennità e l’incanto della divinissima arte di Bisan-
zio, di quell’arte che ha prodotto proprio qui a Venezia, dei capolavori
eterni, impregnati di realità e di spiritualità – di poesia entusiasmante
come la faccia del sole? O non somiglia piuttosto, questa Teodora, e
nelle pieghe dure, manierate dell’abito, e nella impersonalità della
faccia, e nel gesto inespressivo, e nel colore, e nel disegno, uno dei
tanti cartelloni di Mataloni, di Mucha o, tutt’al più, di Grasset,
raccomandanti una compagnia di assicurazioni, un nuovo modello di
lampada elettrica, un’acqua minerale o – prosa definitiva – un energico
purgante? Potrei anche sbagliare, ma a me questa basilissa e tutta la
pittura che ricopre gli otto spicchi della cupola ha fatto l’impressione
di roba da cartellone e di copertina di calendario (...).”20.

Soffici ha ragione: nel dipinto di Chini non c’è che qualche


aspetto esteriore di Bisanzio, come le figure simboliche della impera-
trice e delle vergini di Ravenna o lo splendore delle decorazioni
soprattutto dei tappeti a mosaico della fascia della vela sotto le
figure, che Chini può aver ripreso, piuttosto che direttamente da
Bisanzio, da Klimt, da manifesti pubblicitari, da locandine per gli
spettacoli della Bernhardt, o dalle “Teste bizantine” di Alphonse
Mucha del 189721. L’arte bizantina esiste solo come arte ravennate
del VI secolo, che viene citata con le due vergini e Teodora, espres-

mostra, Salsomaggiore, Terme Berzini, 20 maggio – 20 giugno 1995, a cura di M. Bonatti


Bacchini, introduzione di R. Bossaglia (Parma, 1995), pp. 41-61.
20
A. Soffici, “L’esposizione di Venezia”, La Voce 1 (1909), p. 195.
21
Riproduzioni in Alphonse Mucha 1860-1939, pp. 123-125 per le “Byzantinische Köpfe”
e passim per le immagini della Bernhardt.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

sione delle convenzionalità dell’immaginario comune; Teodora è una


figura carnale, opposta alla immaterialità della Teodora di San Vi-
tale. Curiosamente, però, la presentazione di Bisanzio di Chini
inverte figurativamente il giudizio morale dato ne La nave di D’An-
nunzio: la bizantina Basiliola, femmina corrotta e orientale, è sosti-
tuita da una Teodora etnicamente italianizzata, mentre i virili mari-
nai di sangue romano che fanno salpare la nave in D’Annunzio, sono
trasformati in seducenti ragazze corruttrici. Anche qui, come in
D’Annunzio, Bisanzio è simboleggiata per il pubblico italiano da una
immagine femminile, l’imperatrice Teodora; il suo compagno di
impero, Giustiniano, figura per eccellenza della storia bizantina, è
invece ignorato. Un’ultima nota riguarda le lodi di Soffici per l’arte
bizantina (“capolavori eterni, “arte divinissima”, “poesia entusia-
smante come la faccia del sole”): da ricordare per confronto alle
offese che Soffici e altri getteranno su Bisanzio nel periodo tra le due
guerre mondiali.

c. Teodora la divina
La nave fu tradotta in pellicola una prima volta nel 1912 da Eduardo
Bencivenga e una seconda volta nel 1921 da Gabriellino D’Annunzio
con la solita immagine dell’Oriente luogo di depravazione e di
passioni (fig. 34)22. Teodora, metà odalisca, metà donna di potere,
dai lunghi capelli rossi (come la Bernhardt), danzatrice seducente,
sanguinaria e crudele da far frustare altre donne, rivali o schiave, per
sua volontà – come nelle dispense di Fiorentino uscite con D’Ann-
nunzio direttore della Cronaca bizantina o ne La nave –, divenne il
modello, insieme a Salomè, di altre donne immorali del cinema
storico degli inizi del Novecento. Nel 1911, il film Le tentazioni di
Sant’Antonio, con la regia di Frusta, ispirato a La tentation de Saint
Antoine di Flaubert, mise in scena la storia del ricco Antonio e di
Yarba, una bella prostituta dai capelli rossi raccolta da Antonio in un
postribolo, la quale fa frustare ingiustamente la sua schiava etiope,
tradisce Antonio e infine, dopo che lui si è fatto anacoreta, si
converte e muore. In Marcantonio e Cleopatra (1913), con la regia di

22
Sulla prima versione cinematografica: A. Bernardini e V. Martinelli, “Il cinema muto
italiano. 1912. Seconda parte. I film degli anni d’oro”, Rivista del Centro Sperimentale di
Cinematografia “Bianco e nero”, numero speciale (Roma, 1955), pp. 8-13; sulla seconda
versione di Gabriellino D’Annunzio: Martinelli, “Il cinema italiano muto”, pp. 215-218.
BASILIOLA 

Enrico Guazzoni, Cleopatra, perfida e crudele, esegue una danza del


ventre e fa frustare e poi uccidere la schiava Agar, della quale si era
innamorato Marco Antonio. In Tersicore (Oriente e Occidente) (1913),
con la regia di Giuseppe Gray, la danzatrice Tersicore, accompa-
gnata da altre odalische, esegue la danza “Oriente e Occidente” alla
festa di fidanzamento di Susanna e Gérard, che poi giunge quasi a
cedere alla seduzione della stessa Tersicore. Un Christus (o La sfinge
dello Ionio), con la regia di Giuseppe De Liguoro, tratto da Leggenda
siracusana dell’anno 1000 di Victor de Lussac, che ha per trama
l’amore tra Christus e la regina Xenia (“corrotta e furba, feroce e
autoritaria”), secondo la critica ebbe il merito di mostrare al pub-
blico l’epoca bizantina, bella, ma trascurata cinematograficamente,
dopo tanti film su Roma (“Giuseppe De Liguoro à avuto il merito
d’aver saputo comprendere, una buona volta, che i gusti del pubblico
non esigono i più o meno tenebrosi drammoni storici dell’epoca
romana, a base di Cesari, Neroni, Attilii Regoli, Agrippine, ecc.”); i
costumi erano “confezionati su stampe e modelli dell’epoca bizanti-
na”23.
Teodora fu mitizzata, un’ultima volta, come ideale dannunziano
di donna e di bellezza in un panegirico su Bisanzio scritto da Angelo
Pernice nella rivista Studi bizantini del 1924: avventuriera passata dal
lupanare alla reggia, conosciuta da tutti attraverso “il meraviglioso
mosaico di San Vitale”, dove “è rappresentata in tutto lo splendore
della sua maestà imperiale”, Teodora possiede gli elementi della
bellezza divina secondo i canoni dannunziani del Trionfo della morte:

“C’erano in lei i tre elementi di bellezza che D’Annunzio nel «Trionfo


della morte» chiama divini: la fronte, gli occhi, la bocca. La fronte
liscia e superba; gli occhi, sotto l’arco perfetto delle sopraciglia, grandi
neri pieni di luce e di profondità; pieni di sogno e di passione, che
nessuno poteva fissare senza turbamento; una bocca piccola dalle
labbra rosee e armoniose di un disegno perfetto.”

Più che alla Teodora di San Vitale, la descrizione rimanda alla

23
Le schede di questi film si leggono, nell’ordine del testo, in A. Bernardini e V.
Martinelli, Il cinema muto italiano. I film degli anni d’oro. 1911, 2 (Torino, 1996), pp.
201-202 (Le tentazioni di Sant’Antonio); A. Bernardini, e V. Martinelli, Il cinema muto
italiano. I film degli anni d’oro. 1913 (Torino, 1994), pp. 41-46 (Marcantonio e Cleopatra), pp.
286-288 (Tersicore); V. Martinelli, Il cinema muto italiano. I film degli anni d’oro. 1914
(Torino, 1993), pp. 102-103 (Christus; la frase è dalla recensione di Olleja, apparsa su La
Cine-Fono, Napoli, 16-29 gennaio 1915, e riportata nel libro di Martinelli a pp. 102-103).
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

florida Teodora di Galileo Chini. Per il resto, l’articolo ripete luoghi


comuni sulla civiltà bizantina, dove si leggevano e commentavano i
classici mentre in Occidente trionfava la barbarie; le donne bizantine
avrebbero goduto di libertà e ruolo sociale, a confronto degli harem
arabi e dell’età moderna; una situazione migliore della presente
quando per la scelta della consorte dell’imperatore

“si facevano dei veri concorsi di bellezza che avevano un più serio e
utile risultato (...) di quelli che di tanto in tanto indicono le nostre
gazzette di provincia in cerca di réclame e di abbonati.”

Si indicava anche il numero di scarpe che doveva avere la nuova


24
imperatrice .
Infine, una vita di Teodora tratta da Procopio, sullo stile del libro
di Fiorentino, ma castigata dei particolari spinti, è pubblicata nel
1927 in un piccolo volume tascabile, a carattere popolare, da Dome-
nico Amato. Qui, Teodora è donna di rara bellezza, orgogliosa e
crudele, “maestra di prostituzione”, che sa governare Bisanzio “con
sagacia, con intelligenza e con fermezza più che virile”. La storia
dell’imperatrice, che doveva essere soggetto di facile vendibilità,
apparve anche in una collana di monografie accanto a volumi sulle
più strampalate curiosità: Bagni e toeletta presso i Romani, Le cortigiane
nella Roma antica, La morte e il suo mistero, Calzolai e calzature
nell’antica Roma, L’amore omosessuale, Le vite anteriori, L’Atlantide, Il
culto fallico nell’antichità, Filosofia delle psicopatie sessuali25.

24
A. Pernice, “Imperatrici bizantine”, Studi bizantini, ser. 2, 5 (1924), pp. 3-22; i brani
riportati sono a p. 12. Pernice scrisse più tardi (1937) la voce “Teodora” nel vol. 33 del
1937 dell’Enciclopedia italiana, pp. 508-509, dove ripropose Teodora come figura positiva e
pia, che affascina Giustiniano con la sua bellezza ed intelligenza: “Sul trono T. si mostrò
una donna veramente superiore. Essa parve nata per regnare, tanta fu la dignità che mise
nei suoi atti e l’attività che spiegò negli affari politici.” Giustiniano ne esaltò la fedeltà.
Dopo la sua morte l’attività di Giustiniano avrebbe subito un arresto a conferma della
“parte grandissima che T. ebbe nel governo del grande imperatore”. Nella stessa Enciclope-
dia Italiana, alla sezione “Storia dell’impero bizantino” della voce “Bizantina, Civiltà”, nel
vol. 9 (1930), p. 122, Pernice definı̀ Teodora “donna di grande animo e di acuta
intelligenza”.
25
Per i giudizi sull’arte bizantina di Bendinelli, Galassi, Toesca vedi al Capitolo 7,
paragrafo c. D. Amato, Teodora imperatrice di Bisanzio (Roma, 1927). Un capitolo su
Teodora si trova in G. Manacorda, Medaglioni. Con un autoritratto (Milano, 1941), pp.
7-12. Un film intitolato Teodora, Imperatrice di Bisanzio, con Teodora ritratta come donna
saggia, caritatevole, populista e democratica, e con scene davanti ai mosaici di San Vitale, è
stata realizzata nel 1953 come coproduzione italo-francese con la regia di Riccardo Freda.
BASILIOLA 

d. Psicologia di Teodora
Una storica dell’arte, Giusta Nicco, nel 1925, non vide, invece, nella
solennità ieratica di Teodora a San Vitale “nessuna di quelle caratte-
ristiche che la storia maldicente ripete sul suo conto”, né segni di
bellezza particolari; Giustiniano riguadagna prestigio e superiorità
sulla moglie:

“Il musaico di Teodora è poco compositivo, s’abbandona al capriccio


e all’improvvisazione nel gioco dei colori, fervido di fantasia. Fermezza
compositiva è nell’altra parete. E le qualità ritrattistiche [sottolineate
da altri bizantinisti, ad esempio Oskar Wulff] non sono altro che la
vivezza del colore; il colore fa brillare l’occhio e ne rende squillante la
nota, ma senza che l’occhio per questo acquisti sguardo umano e riveli
un’anima.”26.

Per altri storici dell’arte che scrivono negli anni Dieci e Venti del
Novecento, come Toesca, Galassi o Bendinelli non esiste una Teo-
dora come figura bizantina della cui moralità discutere, ma un’opera
d’arte bizantina su cui discutere. Di Teodora, Toesca sottolineò le
sfumature psicologiche che fu capace di esprimere con la sua arte
l’autore del mosaico:

“La figlia di un guardiano d’orsi del circo imperiale, che giovinetta


danzava nel teatro di Bisanzio, si mostra nobile, altera: è viva imma-
27
gine del fasto della corte bizantina.” .

Sulla ricerca psicologica nel mosaico di Teodora, giudicato ben


superiore come qualità a quello di Giustiniano, Toesca ritornò nella
introduzione a una raccolta di tavole a colori dei mosaici di San
Vitale pubblicata nel 1952 (fig. 35) (in essa sono ripetuti sintetica-
mente i giudizi sui mosaici ravennati de Il Medioevo); il brano che
segue, tratto dalla introduzione, è una bella lettura della poetica di
quei mosaici:

“Eccezionali sono le qualità psicologiche dell’artista: nella rappresenta-


zione che avrebbe potuto ridurre a una cerimonia di corte parallela al

26
G. Nicco, “Ravenna e i principi compositivi dell’arte bizantina”, L’arte 28 (1915), p.
263.
27
P. Toesca, Storia dell’arte italiana, vol. 1, Il Medioevo, Parte 1, Dalle origini cristiane alla
fine del secolo VIII, Parte 2, Dalla fine del secolo VIII al secolo XI, Parte 3, Dal principio del
secolo XI alla fine del XIII (Torino, 1927), p. 198.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

mosaico di Giustiniano, egli ha introdotto, facendoli campeggiare su


tutto lo splendore mondano che li circonda, ritratti di squisita, mor-
bosa sensibilità.
Teodora è figura indimenticabile. Pur se nulla si sapesse di lei, il suo
aspetto delicato, quasi esausto, sotto il pesante diadema, e l’atto deciso
della sottile persona nel grave paludamento, potrebbero accendere
appassionatamente tutte le fantasie. La sua storia non si può tutta
accettare quale fu narrata in un famoso libello dallo scrittore coevo
Procopio da Cesarea (...).
Nel mosaico, che precedette di poco la sua morte, i suoi lineamenti
rivelano una sensibilità acuta e insieme il freddo dominio della volontà
nello sguardo chiaro eppur instabile. Né meno penetrante è il ritratto
della sua vicina [che è forse da identificare con Antonina], di più età, il
cui atteggiamento, non cosı̀ riservato come nelle altre seguaci, ne
accenna l’autorità presso l’imperatrice (...). Ingenuo, ma personale, il
carattere della seconda giovane patrizia, che si vorrebbe identificare in
una figlia della supposta Antonina (...)28.’’.

28
P. Toesca, S. Vitale di Ravenna. I mosaici (Milano, 1952), pp. 19-20.
3

VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI

Costantinopoli, Venezia e Ravenna furono mete bizantine di viaggia-


tori e studiosi nel periodo romantico. Di Venezia sono note le lodi di
Ruskin e di Gautier; quest’ultimo vide in San Marco “una Santa
Sofia in miniatura”, un tempio incoerente, dove il pagano ritrove-
rebbe l’altare di Nettuno con i suoi delfini, tridenti e cocchi marini, il
maomettano potrebbe credersi nella sua moschea vedendo le scritte
nelle volte come sure del Corano, il greco-ortodosso vi incontrerebbe
la sua Panagia incornata come una imperatrice di Costantinopoli, il
suo Cristo barbaro con il monogramma a intrecci, i santi del calen-
dario disegnati alla maniera dei monaci-pittori del Santo Monte
dell’Athos:

“(...) temple incohérent, où le paı̈en retrouverait l’autel de Neptune


avec ses dauphines, ses tridents, ses couques marines servant de
bénitier, où le mahométan pourrait se croire dans le mihrab de sa
mosquée en voyant les légendes circuler aux parois des voûtes, comme
des Suras du Coran, où le chrétien grec rencontrerait sa Panagia
couronnée comme une impératrice de Constantinople, son Christ
barbare au monogramme entrelacé, les saints spéciaux de son calen-
drier dessinés à la manière de Panselinos et des moines-peintres de la
montaigne saint (...).”1.

Diehl definı̀ Ravenna una Pompei italo-bizantina, più greca an-


cora che italiana, una città dove, meglio che in Oriente e a Costanti-
nopoli stessa, si può studiare l’arte bizantina del V e VI secolo; e
dove si può vedere meglio che a Roma l’influsso dell’arte orientale

1
T. Gautier, Italia (Paris, 1852), p. 97. La definizione di San Marco come Santa Sofia in
2
miniatura è in Constantinople (Paris, 1856 ), p. 269.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

sull’Italia2. Quanto a Costantinopoli, fin dagli inizi dell’Ottocento, da


quando l’impero turco venne alla ribalta della scena politica, la città
fu meta esotica alla moda, dove i viaggiatori europei calarono alla
ricerca di avventure e segreti, senza spesso sapere niente della città e
neppure conoscere qualcosa delle lingue parlate dalla sua popola-
zione. Altre volte, la rapacità degli archeologi spogliò e degradò i
monumenti bizantini. Tuttavia, Santa Sofia è la più bella e la più
maestosa fra le tante chiese cristiane viste da Gautier. La città appare
bellissima a chi vi arriva dopo il lungo viaggio per mare, “sterminata,
superba, sublime”, “il più bel luogo di tutta la terra, a giudizio di
tutta la terra”, come la definı̀ De Amicis; “umme-dunia”, la madre
del mondo per arabi e Turchi; di fronte a lei

“il Perthusier balbetta, il Tournefort dice che la lingua umana è


impotente, il Pouqueville crede d’essere rapito in un altro mondo, il La
Croix è innebriato, il visconte di Marcellus rimane estatico, il Lamar-
tine ringrazia Iddio, il Gautier dubita della realtà di quello che vede
(...). Il solo Chateaubriand descrive la sua entrata in Costantinopoli
con un’apparenza di tranquillità d’animo che reca stupore; ma non
3
tralascia di dire che è il più bello spettacolo dell’universo (...)” .

Ma anche una città seduta su immani rovine, come fosse una


odalisca sopra un sepolcro che aspetta la sua ora.

a. Costantinopoli ottomana
Angelo Baratta, avvocato e “impiegato” del Consolato Generale del
Regno di Sardegna a Costantinopoli, in un libro del 1831 di piccolo
formato, con notizie, “esatte e recentissime” sulla città di Costanti-
nopoli (Costantinopoli nel 1831 ossia notizie esatte e recentissime intorno a
questa capitale ed agli usi e costumi de’ suoi abitanti), dette un ritratto
dei visitatori della capitale ottomana, ignoranti e numerosi4:

“mille penne hanno scritto sulla Capitale dell’Impero Ottomano. Una


nuvola di viaggiatori-scrittori attraversa giornalmente Costantinopoli.

2
C. Diehl, Ravenne. Études d’Archéologie byzantine (Paris, 1886), pp. 1-2.
3
E. De Amicis, Costantinopoli, 2 voll. (Milano, 1877-1878; edizione illustrata da Cesare
Biseo, Milano, 1912), pp. 3-4.
4
A. Baratta, Costantinopoli nel 1831 ossia notizie esatte e recentissime intorno a questa capitale
ed agli usi e costumi de’ suoi abitanti (Genova, 1831; La citazione riportata nel testo è tratta
dalle pagine vi-viii); id., Costantinopoli effigiata e descritta con una notizia su le celebri sette
Chiese dell’Asia Minore ed altri siti osservabili del Levante (Torino, 1840).
VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI 

Ma oltrecché queste erudite cavallette non posseggono le cognizioni


speciali necessarie per ben vedere, quali sarebbero almeno le lingue
locali, esse non hanno nè il tempo, nè la pazienza per vedere con
esattezza. (...). Pure ognuno di essi non manca mai, tosto giunto in
paese dove sia un torchio, di stampare un’opera in quattro o cinque
volumi sopra Costantinopoli (...). Novelli Vampiri, sono penetrati
nelle Moschee, in Santa Sofia, entro alle Sette Torri, ne’ pozzi del
Tesoro, e persino nei boudoirs delle Sultane del Serraglio Imperiale
(...).”.

Nel 1840, l’opera di Baratta fu ristampata come volume di


grande formato con un nuovo titolo (Costantinopoli effigiata e descritta
con una notizia su le celebri sette Chiese dell’Asia Minore ed altri siti
osservabili del Levante) e “adorna di cento eleganti intagli in acciaio”
(figg. 36-39). Precursore dell’edizione del 1840 è dichiarata la Co-
stantinopoli antica e moderna di Fischer, da poco apparsa a Londra e
poi a Parigi, la cui parte scritta, “incompleta e negletta”, non var-
rebbe però la pena di una traduzione italiana; altri libri usciti su
Costantinopoli sono poi brevi e superficiali e non considerano i
cambiamenti e le riforme introdotte nell’impero negli ultimi ven-
t’anni. Si decide cosı̀ di utilizzare solo le incisioni dal volume del
Fischer.
L’interesse librario del pubblico europeo per Costantinopoli è
spiegato dalle “attuali vertenze politiche le quali attraggono verso
l’Oriente l’animo d’ogni colta persona”; se una volta la Turchia
offriva soltanto “il consueto spettacolo del suo limpido cielo, delle
sue ridenti campagne delle sue peregrine e magnifiche pompe”, ora
l’Oriente, “fatto teatro delle più straordinarie vicende che abbiano,
da secoli, fissato gli sguardi degli uomimi, è prediletto argomento di
tutti i discorsi, scopo a cui tendono tutti gli occhi tutti i pensieri”. Il
sultanato ottomano era all’inizio dell’Ottocento al centro della poli-
tica internazionale e la capitale Costantinopoli era senz’altro meta di
viaggiatori attratti piuttosto dal suo fascino esotico, che dalle anti-
chità bizantine. Il libro di Baratta ha, cosı̀, non l’antica metropoli
bizantina come oggetto, ma la contemporanea capitale ottomana.
Quasi trecentocinquanta delle ottocento pagine del volume sono
dedicate alle vite degli imperatori ottomani, con ampia biografia del
sultano regnante, Mahomud, e con appendice sul Giannizzerato, i
cui “fasti (...) sono tanta parte delle cose turchesche”, e sulla sua
distruzione, evento quasi contemporaneo al libro del Baratta. Segue
il prospetto cronologico dei “principi che tennero il seggio di Costan-
tinopoli da Costantino il Grande sino alla caduta della città in mano
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

de’ Turchi”. La parte seconda è la descrizione della capitale e dei


dintorni con i monumenti antichi bizantini, ignorati dai Turchi e
depredati dagli Europei:

“Nasce qui, del resto, fra gli scrittori una seria e delicata quistione:
quella, cioè, di definire se alla conservazione degli antichi monumenti
più rescisse funesta la magnificata barbarie turca, o la svenevole
tenerezza europea. Poiché gli è un fatto doloroso bensı̀, ma incontra-
stabile che su cento monumenti distrutti o riformati, novantanove,
almeno, dovettero il loro sfacelo alla dotta rapacità degli scienziati
nostrani, i quali, purché arricchiscano i propri o gli altrui musei con
qualche capo recato dall’Asia o dall’Africa, poco badano ad ogni più
rispettabile avanzo.”5.

I monumenti bizantini sono descritti sommariamente in quaranta


pagine: mura, porti, le sette torri, colonne, cisterne, acquedotti,
tombe, il convento di Studius, l’ippodromo, l’obelisco di Teodosio,
la piramide murata, Santa Sofia, la Piccola Santa Sofia, Sant’Irene, il
palazzo detto di Costantino, il palazzo detto di Belisario. La descri-
zione dei monumenti turchi occupa invece il triplo di spazio, appros-
simativamente centoventi pagine: questo è l’interesse maggiore del-
l’autore e quello supposto del suo pubblico. Le descrizioni di
monumenti, cristiani e turchi, sono corredate da notizie conosciute
personalmente dal Baratta o ricavate da fonti antiche6.
Parallelamente, la maggior parte delle incisioni raffigurano Co-

5
Baratta, Costantinopoli, p. 391; il testo prosegue cosı̀:
“E se qualcuno volesse negarlo, noi lo proveremmo facilmente e colle sacrileghe rapine
dell’Elgin e coll’esempio dell’Oriente universo, divenuto omai vuota ed insipida landa, dopo
i crudeli spigolamenti fattivi da cento scientifiche arpie, sue degne seguaci. – Ma la
controversia è, grazie al Cielo, fuori affatto dal nostro assunto, e noi siam lieti di poterne
lasciare ad altri il franco e ragionato recidimento. Solo noteremo che il doloroso tema in
discorso fu svolto con nobile coraggio ed irresistibile potenza di argomenti dallo Slade nel
suo bellissimo viaggio in Levante: opera che teniamo in sommo pregio ed amore e che
inchiude quadri pieni di verità ed evidenza intorno alle cose ed alle persone, primeggianti,
attualmente, in quelle contrade.”
6
L’anno successivo Baratta pubblicò un volume gemello intitolato Bellezze del Bosforo.
Panorama del maraviglioso Canale di Costantinopoli dello Stretto dei Dardanelli e del Mar di
Marmara. Opera destinata a far seguito alla Costantinopoli effigiata e descritta, e nella quale, con
l’aiuto di ottanta finissimi intagli eseguiti dal vero dai migliori artisti dell’Inghilterra, offresi
l’impareggiabile quadro di luoghi unanimemente acclamati siccome capo-lavoro della natura, ...
(Torino, 1841). Le incisioni sono su disegni di W. H. Bartlett. Tra le incisioni ne
compaiono alcune di monumenti di Costantinopoli, anche bizantini, come lo Tchenberle o
colonna bruciata (tra p. 316 e p. 317); corrispondentemente, compaiono descrizioni di
monumenti bizantini, come Santa Sofia (pp. 464-467). Alcune delle incisioni pubblicate dal
Baratta furono ristampate nel 1928, senza indicarne la fonte, da G. A. Borgese, Autunno di
Costantinopoli. Pagine d’Atlante con 16 vecchie stampe (Milano, 1928).
VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI 

stantinopoli turca; anche quando il tema è un monumento bizantino,


come la antica cisterna di Yere’-Batan-Serai, l’obelisco di Teodosio
sull’ippodromo, o Santa Sofia, si tratta di vedute panoramiche con i
monumenti in lontananza; l’interesse, piuttosto che archeologico (i
rilievi dell’obelisco di Teodosio, ad esempio, sono appena tratteg-
giati) è etnografico, verso i costumi e le attività dei Turchi che
stanno lı̀ intorno. Santa Sofia fa la parte del leone tra i monumenti
cristiani: appare nello sfondo in più vedute dal Bosforo, ma c’è anche
una veduta dell’interno con i musulmani in preghiera. Baratta pre-
mette che sono tante le notizie e descrizioni del tempio che ripeterle
sarebbe noioso per il lettore. Santa Sofia, comunque, “esteticamente
considerata, non è capo che voglia darsi a modello”, anche se
andrebbe giudicata una volta rimossi i cento piccoli edifici che i
sultani hanno addossato all’originario. La smisurata cavità della
rotonda centrale e la tanta celebre cupola stupiscono il viaggiatore,
“con immenso e pittorico effetto”; quali fossero le preziosità interne
di Santa Sofia lo possiamo solo leggere nelle cronache antiche (qui
Baratta elenca le varietà dei marmi usati per le colonne) ed è
testimoniato dalla storia di Maometto II che, meravigliato della
bellezza e ricchezza dell’edificio, uccide il soldato che si accaniva a
rompere il lastricato di marmo della chiesa. Di questa ricchezza di
marmi e colonne molto è stato rimosso e le tessere dei mosaici alle
pareti sono state asportate come reliquie dai Cristiani con la compia-
cenza dei Turchi.

b. La Costantinopoli – Babilonia di De Amicis


Una quarantina di anni dopo il libro di Baratta, Costantinopoli
divenne popolare in Italia grazie a Edmondo De Amicis7. I resoconti
di viaggio di De Amicis uscivano a puntate in anteprima sulla rivista
Illustrazione Italiana dei Fratelli Treves di Milano ed erano poi
pubblicati dallo stesso editore come volumi a sé. I primi di questi
volumi ad uscire furono su Spagna, Olanda (entrambi nel 1873) e
Londra (1875); Marocco, annunciato come strenna natalizia nel
1876, uscı̀ in una edizione con incisioni di Stefano Ussi e Cesare
Biseo nel 1877. Su Turchia e Bulgaria, che erano teatro della guerra

7
De Amicis, Costantinopoli, citazioni nel testo dalle pagine 27, 31, 36-37, 57-58,
245-246, 258, nell’ordine.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

russo-turca del 1877-1878, apparvero resoconti di cruenti massacri


quasi su ogni numero della rivista di quegli anni, spesso accompa-
gnati da incisioni. Nel 1877 sulla rivista fu pubblicato in anteprima
un brano del libro Costantinopoli, il cui primo volume appare nello
stesso anno, mentre il secondo volume è del 1878. Costantinopoli fu
ristampato numerose volte, in più lingue, senza illustrazioni; solo nel
1912 apparve una edizione italiana con incisioni di Biseo.
Il resoconto di De Amicis su Costantinopoli è colorito ed entu-
siastico. La maggior parte del libro è a carattere etnografico, con
descrizioni della vita e dei tipi che popolano la città (il modello sono
i capitoli di Constantinople di Gautier, del 1853): il cimitero, il caffè,
il bazar, i cani, gli eunuchi, l’esercito, i teatri, la cucina, il bagno
turco, le moschee, le turche, i dervisci, i turchi. Etnie balcaniche e
asiatiche convivono a Costantinopoli (Turchi, Armeni, Greci, Ebrei,
Albanesi, Circassi, Siriani, Bulgari, Georgiani, oltre a missionari e
altre minoranze europee) e fanno della città una Babilonia:

“La visione di stamattina è svanita. Quella Costantinopoli tutta luce e


tutta bellezza è una città mostruosa, sparpagliata per un saliscendi
infinito di colline e di valli; è un labirinto di formicai umani, di
cimiteri, di rovine, di solitudini; una confusione non mai veduta di
civiltà e di barbarie, che presenta un’immagine di tutte le città della
terra e raccoglie in sè tutti gli aspetti della vita umana.”
“A chi ci domandasse improvvisamente che cos’è Costantinopoli, non
si saprebbe rispondere che mettendosi una mano sulla fronte per
quetare la tempesta dei pensieri. Costantinopoli è una Babilonia, un
mondo, un caos.”
“Le figure che dan più nell’occhio in quella folla, sono i Circassi che
vanno per lo più a tre, a cinque insieme, a passo lento; pezzi d’uomini
barbuti, dalla faccia terribile, che portano un grosso berrettone di pelo
alla foggia dell’antica guardia napoleonica, un lungo caffetano nero, un
pugnale alla cintura e un cartucciere d’argento sul petto; vere figure di
briganti, ognuno dei quali pare che sia venuto a Costantinopoli per
vendere una figliuola o una sorella, e debba avere le mani intrise di
sangue russo. Poi i siriani col loro vestito in forma di dalmatica
bizantina e il capo ravvolto in un fazzoletto rigato d’oro; i bulgari,
vestiti d’un saio grossolano, con un berretto incoronato di pelliccia; i
giorgiani con un caschetto di cuoio verniciato e la tunica stretta alla
vita da un cerchio metallico; i greci dell’arcipelago coperti da capo a
piedi di ricami, di nappine e di bottoncini luccicanti.”.

Come per Baratta, i monumenti antichi non sono il primo inte-


resse di De Amicis, né il suo libro è concepito come una guida alle
antichità; tra i monumenti prevalgono i luoghi musulmani e le
VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI 

bellezze naturali sui siti archeologici bizantini: in un elenco di mera-


viglie di Costantinopoli, che il visitatore è ansioso di vedere, De
Amicis fa figurare Santa Sofia, l’antico Serraglio, i palazzi del sul-
tano, il castello delle sette torri, Abdul-Aziz, il Bosforo. Le descri-
zioni di questi monumenti sono impressioni soggettive, con qualche
rievocazione da letture fatte, ma nessuna notizia storica. De Amicis
piange su quel che resta dei monumenti bizantini, su chiese, palazzi
di marmo, colossi equestri, terme, portici, cupole dorate scomparsi,
statue di bronzo fuse per fare cannoni, rivestimenti di rame degli
obelischi trasformati in monete, sarcofagi di imperatrici adibiti a
fontane, Sant’Irene ridotta ad arsenale, la cisterna di Costantino ad
officina, il piedestallo della colonna d’Arcadio a bottega di mani-
scalco, l’Ippodromo a mercato di cavalli:

“l’edera e le macerie coprono le fondamenta delle reggie, sul suolo


degli anfiteatri cresce l’erba dei cimiteri, e poche iscrizioni calcinate
dagli incendi o mutilate dalle scimitarre degl’invasori rammentano che
su quei colli vi fu la metropoli meravigliosa dell’impero d’Oriente. Su
questa immane rovina siede Stambul, come un’odalisca sopra un
sepolcro, aspettando la sua ora.”.

Santa Sofia prende, naturalmente, l’interesse maggiore di De


Amicis e ad essa, un misto di barbaro e di classico (come San Marco
per Gautier), si riservano alcune pagine di descrizione stupefatta:

“Il primo effetto, veramente, è grande e nuovo.


Si abbraccia con uno sguardo un vuoto enorme, un’architettura ardita
di mezze cupole che paion sospese nell’aria, di pilastri smisurati, di
archi giganteschi, di colonne colossali, di gallerie, di tribune, di portici,
su cui scende da mille grandi finestre un torrente di luce; un non so
che di teatrale e di principesco, più che di sacro; una ostentazione di
grandezza e di forza, un’aria d’eleganza mondana, una confusione di
classico, di barbaro, di capriccioso, di presuntuoso, di magnifico; una
grande armonia, in cui, alle note tonanti e formidabili dei pilastri e
degli archi ciclopici, che rammentano le cattedrali nordiche, si me-
scono gentili e sommesse cantilene orientali, musiche clamorose dei
conviti di Giustiniano e d’Eraclio, echi di canti pagani, voci fioche
d’un popolo effeminato e stanco, e grida lontane di Vandali, d’Avari e
di Goti; una grande maestà sfregiata, una nudità sinistra, una pace
profonda; un’idea della basilica di San Pietro raccorciata e intonacata,
e della basilica di San Marco ingigantita e deserta; un misto non mai
veduto di tempio, di chiesa e di moschea, d’aspetti severi e d’orna-
menti puerili, di cose antiche e di cose nuove, e di colori disparati, e
d’accessori sconosciuti e bizzarri; uno spettacolo, insomma, che desta
un sentimento di stupore insieme e di rammarico (...).”.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

La chiesa è ora ridotta a un immenso sepolcro, nel quale bisogna


reimmaginare il fasto delle cerimonie e dei riti che vi si svolgevano:

“fra i canti dei poeti e i clamori degli araldi che gridavano evviva in
tutte le lingue dell’impero, veniva innanzi l’Imperatore, colla tiara
sormontata da una croce, imperlato come un idolo, seduto sopra un
carro d’oro dalle tende di porpora, tirato da due mule bianche, e
circondato da un corteo di monarca persiano; e gli andava incontro il
clero pomposo nell’atrio della basilica; e tutta quella turba di corti-
giani, di scudieri, di logoteti, di protospatari, di drongarii, di conesta-
bili, di generali eunuchi, di governatori ladri, di magistrati venduti, di
patrizie spudorate, di senatori codardi, di schiavi, di buffoni, di casisti,
di mercenari d’ogni paese, tutta quella canaglia fastosa, tutto quel
putridume dorato irrompeva per ventisette porte nella navata illumi-
nata da seimila candelabri (...).”.

c. Un racconto sugli ultimi giorni di Costantinopoli


A differenza di Constantinopoli di De Amicis, Umme-Dunia (madre
del mondo), del 1884, di Alberto D. Furse, ufficiale britannico,è un
romanzo storico, con note ben documentate, sui luoghi e la società
di Costantinopoli (figg. 40-41). Il romanzo è ambientato nei giorni
precedenti la presa della città da parte di Maometto II nel 1453 e
nella trama si intrecciano vicende di più personaggi, greci e latini
venuti a difendere la capitale bizantina: l’epigrafe dopo il titolo del
libro (“Che il leggere le gloriose gesta degli antenati ispiri ai posteri
quegli alti sensi di virtù che servono a render grande la Patria!”) e
altre in testa ai capitoli (al Capitolo I i versi di Leopardi: “O patria
mia, vedo le mura e gli archi, / E le colonne e i simulacri e l’erme /
Torri degli avi nostri, / Ma la gloria non vedo, / Non vedo il lauro e il
ferro ond’eran carchi / I nostri padri antichi. Or fatta inerme / Nuda
la fronte e nudo il petto mostri”) si riferiscono ai Veneziani e
Genovesi che combattono eroicamente contro i Turchi8.
Ogni capitolo si svolge in una zona diversa della città, spesso con
nuovi personaggi e in occasioni storiche, cosı̀ da fornire motivo per
una descrizione accurata, attraverso le fonti, della società e della
storia bizantina e dei monumenti di Costantinopoli. Il Capitolo I
racconta di uno stilita e un vignaiolo che guidano il popolo dalla
colonna di porfido di Costantino alla porta aurea crollata; il Capitolo

8
A. D. Furse, Umme-Dunia (Roma, 1884).
VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI 

II, “Hebdomon”, racconta il ritorno della fallita ambasceria presso i


Turchi (con occasionale lamento in nota per il degrado dei mosaici
del palazzo imperiale che venivano asportati pezzo a pezzo al tempo
dell’autore) e contiene una lunga descrizione dei funzionari bizantini,
basata sul trattato dello pseudo-Codino; il Capitolo III, “La Peghe”,
racconta dell’arrivo di alcuni cavalieri latini e una leggiadra ragazza
per la porta aurea; poi i capitoli “Blacherne”, “Bucoleone”, “Ippo-
dromo”, con la gara tra la quadriga dei verdi e quella degli azzurri,
“Embolos”, “Il Foro di Teodosio”, “Santa Sofia”, con la descrizione
della chiesa all’ingresso stupefatto di Calliroe, mima del teatro di
Embolos (“muta, estatica, credevasi trasportata in Paradiso, ed am-
mirava con tutti i sensi di un’anima facilmente eccitabile le maravi-
glie accumulate da secoli nel gran santuario della Cristianità”), il 12
dicembre del 1452, al momento della cerimonia della messa in rito
latino per l’unione delle Chiese, con il popolo che insorge contro la
formula eretica del filioque; e, infine, la giornata del 24 maggio con
l’irruzione dei Turchi nella città, il saccheggio, la divisione delle
spoglie, l’uccisione dei prigionieri e l’orgia finale. Varie incisioni
originali di Santa Sofia e di altri monumenti bizantini abbandonati
accompagnano il testo.

d. Taine su Ravenna, una voce dissonante


I viaggiatori francesi settecenteschi dettero un giudizio a volte pes-
simo dei monumenti di Ravenna: i mosaici di Galla Placidia e San
Vitale sono detestabili, del peggior gusto; San Vitale è una costru-
zione bizzarra, un insieme confuso e barbaro, anche se prezioso nei
dettagli; le sue colonne di marmo greco sono sprecate per una
costruzione cosı̀ pesante e triste. Tuttavia, nell’Ottocento il giudizio
era mutato: i mosaici di San Vitale sono ora superbi, le figure
veramente vive. Negli anni 1820, Valery (già citato al capitolo prece-
dente) scrive di San Vitale che è un “magnifique et hardi monument
de l’architecture des Goths, monument capital pour l’histoire de
l’art, offre le style bysantin dans toute sa pureté, dans tout son éclat
oriental”; e che Ravenna è più Costantinopoli di Costantinopoli
stessa, “dont la barbarie et le fanatisme ottoman ont dû bien davan-
tage changer l’aspect”9. Fu stabilito definitivamente che i personaggi

9
Valery, Voyages historiques et littéraires en Italie, vol. 3, p. 240. Cf. R. Chevallier, “Quatre
siècles de voyageurs et d’antiquaires français à Ravenne (1500-1900)”, in XX Corso di
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

imperiali rappresentati nei due pannelli musivi di San Vitale sono


Giustiniano e Teodora, contro altre interpretazioni che vedevano
nella imperatrice Sofia, moglie di Giustino II, e vennero pubblicate
incisioni a volte non molto fedeli dei due pannelli10.
L’amore per Bisanzio e la sua arte non fu tuttavia universale.
Una voce dissonante su Ravenna in particolare, di un positivista, fu
quella di Hyppolite Taine (del quale è stato già riportato il giudizio
su Teodora al capitolo precedente), in questo continuatore del giudi-
zio negativo dell’illuminismo sulla decadenza di Bisanzio. Più volte
attaccato dalla critica italiana che si erge a difesa dei monumenti
ravennati, Taine pubblicò le sue impressioni sfavorevoli all’arte bi-
zantina vista durante un viaggio in Italia del 1864 in Voyage en Italie
(1866). Per Taine l’arte bizantina è arte da malato, inferma e
paradossale, con figure accosciate, scimmie idrocefale; Bisanzio offre
lo spettacolo di un mondo che trascina per mille anni la civiltà antica
sotto un cristianesimo guasto e tra importazioni orientali, un mo-
mento unico dell’anima e della cultura umana che non ha paralleli
nella storia: una degenerazione cosı̀ lunga e complicata, una muffa di
mille anni in un vaso chiuso, acido di fermenti di spezie numerose e
contrastanti. Nelle figure degli uomini e delle donne un po’ tristi nei
mosaici di Sant’Apollinare Nuovo è una dignità quasi antica; ma a
questo si limitano le reminescenze degli artisti che hanno disimpa-
rato l’osservazione del modello vivo; i Padri lo hanno loro proibito;
copiano tipi accettati, ripetono venti volte di seguito lo stesso gesto e
lo stesso abito e spesso i tratti del viso sono barbarici, come le prove
di disegno di un bambino; i colli sono diritti, le mani di legno, le
pieghe dei drappeggi meccaniche; i personaggi sono degli abbozzi di
uomini piuttosto che uomini; non vi è uno dei personaggi che non
sia un idiota inebetito, appiattito, malato, che non abbia una cera

cultura sull’arte ravennate e bizantina, Ravenna, 11-24 marzo 1973 (Ravenna, 1973), pp.
195-216, ristampato in E. e R. Chevallier, Iter italicum. Les voyageurs français à la découverte
de l’Italie ancienne (Paris – Geneve, 1984), pp. 200-217.
10
“Mosaiques de l’église de Sain-Vital de Ravenne”, Revue archéologique 7/1 (1850), pp.
351-353, con due incisioni di C. Saunier (tavv. 145-146); cf. J.-M. Spieser, “Hellénisme et
connaissance de l’art byzantin au XIXe siècle”, in ÎΛΛΕΝΙΣΜΟΣ. Quelques jalons pour
une histoire de l’identité grecque, Actes du Colloque de Strasbourg, 25-27 octobre 1989, a
cura di S. Saı̈d, (Leiden – New York, 1991), p. 350 e figg. 4-5.
VIAGGIATORI OTTOCENTESCHI 

smorta, una floscia rassegnazione, senza più azione, volontà, pen-


siero, anima: per quanto lo siano non sanno stare in piedi11.

11
H. Taine, Voyage en Italie, (Paris, 1866). I giudizi riportati nel testo sono presi dalla
introduzione alla traduzione italiana del 1915: Viaggio in Italia (Il paese – l’arte – la nazione),
pagine scelte a cura di P. Arcari (Lanciano, 1915), p. 10; qui sotto è il giudizio su Ravenna
nel testo francese pubblicato alle pp. 210-212 della seconda edizione del 1874 (cf. pp.
59-61 della traduzione italiana del 1915):
“(...) les figures de les femmes, régulières, un peu longues, calmes, quoique triste, ont
une dignité presque antique; les chevaux tombent en tresses et se relèvent au sommet du
front comme dans la coiffure des nymphes; leur stole descend en long plis graves. Aussi
grave se développe la file des grandes figures viriles, et près du Christ et de la Vierge, des
anges prient en grands vêtements blancs, le front ceint d’une bandelette blanche. Mais là
s’arrêtent les réminescences (...). Ils [les artistes] ont désappris l’observation du modèle
vivant, les Pères la leur ont interdite; ils copient des types acceptès (...). D’artistes ils sont
devenus ouvriers (...) ils répètent vingt fois de suit le même geste et le même vêtement (...).
Nulle physionomie; souvent les traits du visage sont aussi barbares que les dessins d’un
enfant qui s’essaye. Le col est roide, les mains sont en bois, les plis de la draperie sont
mécaniques. Les personnages sont des ébauches d’hommes plutôt que des hommes (...) En
effet, il n’y a pas un de ces personnages qui ne soit un idiot hébété, aplati, malade.”.
Giudizi di Taine sui mosaici di San Marco sono alle pp. 274-279 della seconda edizione
francese. Vedi inoltre i giudizi simili sull’arte bizantina espressi in Philosophie de l’art (Paris,
1864), quinta edizione (1890), pp. 351-352. Una sintesi dei giudizi su San Vitale di
Ravenna si trova in S. Foschi e C. Franzoni, “Artisti, eruditi, viaggiatori: le interpretazioni
di San Vitale”, in La basilica di San Vitale a Ravenna, a cura di P. Angiolini Martinelli
(Modena, 1997), pp. 135-155.
4

PRIMI STUDI IN ITALIA

La nascita degli studi bizantini si fa risalire alla pubblicazione della


cosiddetta ‘Bizantina del Louvre’. Questa serie di studi dei testi dei
Padri, della storia dei dogmi e della storia della Chiesa, curata
soprattutto da eruditi gesuiti, domenicani e benedettini francesi,
ebbe l’incoraggiamento di Luigi XIV e di Colbert, come risposta agli
studi sull’Antico e Nuovo Testamento promossi dalla Riforma prote-
stante. Il primo volume della serie apparve nel 1648. Nel Settecento,
diversamente, alcuni degli studiosi più acuti del secolo dei lumi
dettero un giudizio negativo senza appelli su Bisanzio: prima Monte-
squieu nelle Considérations sur les causes de la grandeur des Romaines et
de leur décadence, del 1734, poi Voltaire nell’Essai sur les mœurs, dove
della storia di Bisanzio si domandò “Quelle histoire de brigands
obscurs est plus horrible et plus dégoûtante?”, ed infine Edward
Gibbon in The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, del
1
1776. . Il moderno interesse per Bisanzio nacque nell’Ottocento,
frutto della espansione coloniale europea in Oriente e della afferma-
zione del Romanticismo. Pionieri ne furono nuovamente studiosi e
artisti francesi; ad essi vennero dietro gli inglesi ed i tedeschi. In
Grecia le spinte nazionalistiche furono determinanti per la crescita
dell’interesse per Bisanzio nella seconda metà dell’Ottocento. In
Russia furono piuttosto l’antibonapartismo, il nazionalismo slavofilo

1
Sulla nascita degli studi bizantini in Francia vedi A. Rambaud, Études sur l’histoire
byzantine, prefazione di C. Diehl (Paris, 1912), pp. xiii-xxiii; C. Diehl, “Introduction a
l’histoire de Byzance” e “Les études byzantines en France au XIXe siècle”, in C. D., Études
byzantines (Paris, 1905), pp. 1-20 e 21-37 rispettivamente (il primo già apparso in Byzanti-
nische Zeitschrift 9 [1900], pp. 20-37); P. Lemerle, “Présence de Byzance”, Journal des
Savants (1990), pp. 250-254.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

e l’espansionismo verso l’impero turco a fomentare la riscoperta


nazionalistica della storia nazionale della Russia come erede di Bi-
sanzio2. Il gusto romantico di Francesi ed Inglesi fece apprezzare
nella storia e nell’arte bizantina quanto vi è di non-classico, di
irrazionale e di gotico. Gautier e Ruskin assimilarono i monumenti
bizantini di Costantinopoli e Venezia all’arte barbarica. Al contrario,
la rivalutazione di Bisanzio in Grecia ed in Russia ricercò l’eredità
classica in quella civiltà. La Storia dell’arte e dell’iconografia bizantina
di Nikodim Kondakov, il primo trattato moderno complessivo sul-
l’arte bizantina, pubblicato nel 1877 in russo e poi tradotto in
francese nel 1886-1891, rivendicò ai bizantinisti russi una migliore
metodologia e comprensione dell’arte bizantina rispetto ai bizantini-
sti degli altri paesi (francesi e tedeschi, soprattutto), in quanto di essa
l’arte russa avrebbe conservato molti elementi; ma, insieme, Konda-
kov giudicò come età d’oro dell’arte bizantina i tre periodi in cui
prevalse il legame con l’arte antica: il periodo formativo fino a
Giustiniano, il periodo della dinastia macedone, il periodo della
dinastia paleologa3. Nello stesso tempo, dopo la fondazione della
Società Archeologica Russa (1846), si procedette al restauro delle
antiche icone di Novgorod e delle altre scuole russe; nel 1904 fu
restaurata la “Trinità” di Rublev; nel 1913 si aprı̀ l’esposizione di
arte antica russa a Mosca.
L’Italia partecipò marginalmente all’espansionismo coloniale e
alla rinascita di interessi eruditi verso Bisanzio. Il giudizio degli
studiosi italiani su Bisanzio nell’Ottocento e nei secoli precedenti
non fu univoco e andò quasi sempre parallelo al giudizio sui primitivi
e sul Medioevo. Da Giorgio Vasari, fazioso alfiere dei preconcetti

2
La storia delle origini della bizantinistica è ormai tracciata. Uno sguardo generale è in
D. T. Rice, The Appreciation of Byzantine Art (London, 1972), Capitolo II, “The Western
Attitude towards Byzantine Studies”, pp. 20-42; per l’atteggiamento prima ostile e poi
favorevole dei Greci verso Bisanzio nell’Ottocento vedi C. Mango, “Byzantinism and
Romantic Hellenism”, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes 28 (1965), pp. 24-43.
Una buona panoramica è nell’introduzione di Armando Saitta alla versione italiana di C.
2
Diehl, Les grandes problèmes de l’histoire byzantine (Paris, 1947 ): I grandi problemi della storia
bizantina (Bari, 1957), pp. 5-45. Al contrario, La storia della bizantinistica è ancora da
scrivere per Spieser, “Hellénisme et connaissance de l’art byzantin”, nota 9 p. 340.
3
Istoriia vizantiiskago iskusstva i ikonografii po miniatiuram’ grecheskikh’ rukopisei (Odessa,
1876); traduzione francese, Histoire de l’art byzantin considéré principalement dans les miniatu-
res, a cura di K. Travinskii e con una prefazione di A. Springer, 2 voll., (Paris – London,
1886 e 1891), pp. 49, 51-57. Su Kondakov vedi: W. E. Kleinbauer, “Nikodim Pavlovich
Kondakov: The First Byzantine Art Historian in Russia”, in Byzantine East, Latin West. Art
Historical Studies in Honor of Kurt Weitzmann, a cura di D. Mouriki et alii (Princeton, N.J.,
1995), pp. 637-643.
PRIMI STUDI IN ITALIA 

italiani verso l’arte bizantina, a Filippo Baldinucci e Luigi Lanzi


esisteva una ostilità ereditaria contro i bizantini ed i barbari nella
storiografia artistica italiana. A questo filone si contrapposero Giulio
Mancini e, più tardi, il muratoriano Giovanni Lami insieme ad un
gruppo di studiosi settecenteschi che espressero un giudizio favore-
vole sull’arte bizantina, superiore all’arte di Cimabue e di altri pittori
del Duecento. Sporadicamente, opere bizantine sono riprodotte ad
incisione come corredo di cataloghi di biblioteche (ad esempio il
catalogo del Bandini della Biblioteca Laurenziana), o come docu-
mentazione iconografica di soggetti antichi conosciuti attraverso co-
pie bizantine posteriori (i ritratti di farmacologi nel Dioscoride di
Vienna usati da Giovanni Pietro Bellori, nel 1685, nelle Veterum
illustrium philosophorum poetarum rhetorum et oratorum imagines)4. Non
interessano, tuttavia, né la lunga storia artistica bizantina, né l’esoti-
smo orientale o l’anticlassicismo di Bisanzio, ma la misura in cui
Cimabue, Giotto e contemporanei furono debitori dei maestri bizan-
tini del Duecento; a differenza di quanto avviene in Grecia e Russia,
il nazionalismo ottocentesco in Italia gioca contro l’apprezzamento
dell’arte bizantina: i versi del Carducci in testa alla Cronaca bizantina
(“Impronta Italia dimandava Roma: / Bisanzio essi le han dato”) e
quelli della prima strofa della stessa ode a Caldesi (“De’ subdoli e
de’ fiacchi oggi è l’istoria / E de i forti l’oblio”) riassumono perfetta-
mente la percezione comune ed il biasimo nei confronti di Bisanzio
in Italia. Le origini dell’arte cristiana, poi, sono poste nelle pitture
delle catacombe romane: il ruolo svolto dall’Oriente nelle origini
dell’arte cristiana, che fu riconosciuto dalla storiografia artistica
estera di fine Ottocento, è una scoperta ancora da venire, una spina,
appunto, con la quale gli studiosi italiani si confronteranno a lungo
nel Novecento5.

4
Cosı̀ la miniatura a piena pagina con il profeta Geremia nel cod. plut. 5.9 della
Biblioteca Laurenziana riprodotta in A. M. Bandini, Catalogus Codicum Manuscriptorum
Bibliothecae Mediceae Laurentianae varia continens opera Graecorum Patrum (Firenze, 1764),
vol. 1, incisione dopo p. 82. G. P. Bellori, Veterum illustrium philosophorum poetarum rhetorum
et oratorum imagines ex vetustis nummis, gemmis, hermis, marmoribus, aliisque antiquis monu-
mentis desumptae (Roma, 1635; 2a edizione Roma 1739), incisioni a pp. 91-92.
5
La fortuna critica dell’arte medievale prima di Giotto è stata esaurientemente studiata
da G. Previtali, La fortuna dei primitivi. Dal Vasari al Neo-classico (Torino, 1964); vedi in
particolare le pp. 88 sgg. sul ramo filo-bizantino della critica in Italia che va da Lami fino a
Lionello Venturi. Notizie dettagliate sulla valutazione dell’arte bizantina nel Sette e Otto-
cento in B. Pace, “Pensiero romantico ed arte bizantina”, in Università degli Studi di Pisa,
Istituto di Archeologia e di Storia Antica, Studi classici e orientali, vol. 2 (Pisa, 1953), pp.
85-99.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

a. Seroux D’Agincourt e Garrucci


Poco prima della descrizione di Costantinopoli e del Bosforo nei libri
del Baratta, un buon numero di immagini di monumenti bizantini
erano stati riprodotti in incisioni nella edizione italiana del 1826
della Storia dell’arte di Seroux D’Agincourt (figg. 42-43). Le incisioni
includevano avori (tra i quali il dittico d’avorio Barberini del Louvre
e placchette da cassette), bassorilievi (tra i quali la colonna di
Teodosio e le quattro facce della base dell’obelisco di Teodosio a
Costantinopoli), alcuni mosaici di San Vitale e Sant’Apollinare
Nuovo a Ravenna, una considerevole selezione di miniature in ma-
noscritti bizantini, una ventina di icone, tavole duecentesche italiane,
ecc.6.
Questa scelta di Seroux D’Agincourt era senz’altro ricca come
immagini di miniature, ma aveva solo pochi esempi di mosaici ed
alcuni non ben riprodotti; le incisioni dei pannelli di Ravenna (quello
di Giustiniano e la corte, il Sacrificio di Abramo e l’offerta di
Melchisedek) erano piccole, imprecise e poco leggibili. Nonostante il
gran numero di monumenti bizantini, mancavano i mosaici siciliani,
c’erano solo pochi particolari da Venezia e niente da fuori d’Italia;
Costantinopoli figurava solo come scultura tardoantica ed era as-
sente la chiesa di Santa Sofia. La scelta dei monumenti riprodotti
dipendé dal gusto neoclassico di Seroux d’Agincourt, che scrisse i
suoi volumi in pieno neoclassicismo, prima della rivoluzione fran-
cese, anche se poi essi uscirono nell’Ottocento; una traduzione
italiana fu pubblicata nel 1826, tre anni dopo l’edizione originale. Il
suo giudizio sull’arte bizantina è che si tratti di arte degenerata

6
J.-B.-L.-G. Seroux d’Agincourt, Histoire de l’art par les monuments, depuis sa décadence au
e
IVe siècle jusqu’à son renouvellement au XVI siècle (Paris, 1823), traduzione italiana, Storia
dell’arte dimostrata coi monumenti dalla sua decadenza nel IV secolo fino al suo risorgimento nel
XVI, a cura di S. Ticozzi, 8 voll. (Prato, 1826); un elenco abbreviato delle incisioni
comprende, secondo l’ordine di citazione nel testo, le tavole: scultura tavv. iii (dittico
Barberini dato come raffigurante Costantino e del IV secolo) , x (obelisco di Teodosio), xi
(colonna di Teodosio), xii (pannelli d’avorio di cassetta con Adamo ed Eva; Ariadne),
xiii-xx (porta di San Paolo f.l.m.); pittura tavv. xvi (mosaici ravennati), xviii (il Logos che
estrae la costola ad Adamo nella prima cupola dell’atrio di San Marco a Venezia), xix
(Genesi di Vienna), xxvi (Dioscoride di Vienna), xxvii (Evangeliario di Rabbula), xxviii-xxx
(Rotulo di Giosuè), xxxi-xxxiii (Menologio di Basilio II), xxxiv (Cosma Indicopleuste), xlvi
(Catena sui Profeti Maggiori, cod. Vat. gr. 755), xlvii (Salterio di Basilio II), xlviii (raccolta
ippocratica, Laur. plut. 74.7), l-li (Omelie di Giacomo Coccinobafo della Vaticana), lii
(Giovanni Climaco, cod. Vat. gr. 394), lviii (Panoplia dogmatica di Eutimio Zigabeno della
Vaticana), lix (Evangeliario, Urb. gr. 2 della Vaticana), lxii (Ottateuco, cod. Vat. gr. 746
della Vaticana), lxxxii-xciii, ic, cvi, cxi-cxiii (varie icone).
PRIMI STUDI IN ITALIA 

rispetto a quella antica. Parlando di un manoscritto miniato della


Biblioteca vaticana, l’Ottateuco Vat. gr. 746, da lui datato al secolo
XIV (oggi lo si ritiene della metà circa del XII), D’Agincourt cosı̀
spiega l’impossibilità di una rinascita dell’arte bizantina tarda:

“Se dietro questi indizj, per deboli che essi siano, si può credere che
verso il principio del decimoquinto secolo, il gusto era sul punto di
rinascere presso i Greci, ben si comprende per altra parte, che questi
nuovi progressi non potevano estendersi al di là del momento fatale,
che operò la distruzione dell’impero di Oriente colla presa di Costanti-
nopoli.
È dunque con quest’ultimo monumento che mi bisogna terminare la
storia di questa branca della Pittura, ed anche quella dell’arte in tutte
le sue diramazioni considerata della Grecia. Abbandoniamo questo
disgraziato paese ad esempio dei Greci occupati in arti, o di lettere,
che si trovarono obbligati in questa dolorosa epoca della storia, a
cercare in Italia un rifugio. Ritorniamo a Roma, e riprendiamo le
pitture dei manoscritti latini all’epoca in cui le abbiamo lasciate, vale a
dire nel duodecimo secolo. Noi vedremo come dopo aver continuato a
decadere questa branca dell’Arte si migliorò nel decimoquarto secolo,
e si perfezionò nel decimoquinto, nel tempo stesso della pittura in
grande; e noi acquisteremo egualmente la prova, che all’epoca del
rinascimento, l’arte di eseguire grandi quadri ebbe qualche obbliga-
zione alle pitture dei manoscritti, e che l’Italia in generale fu debitrice
di una parte dei suoi successi agli artisti greci, che essa aveva accolti,
non ostante la debolezza, e l’ignoranza di questi artisti degenerati.”7.

Cinquant’anni più tardi apparve la Storia dell’arte cristiana nei


primi otto secoli della Chiesa di Raffaele Garrucci, in sei volumi
pubblicati tra 1872 e 1881, l’altra enciclopedia ottocentesca di arte
medievale includente molte opere bizantine, insieme ai volumi sulla
Histoire des arts industriels au Moyen Age et à l’epoque de la Renaissance
di Jules Labarte del 1864-18668. A differenza di Seroux d’Agincourt,
Garrucci è un positivista: non esprime giudizi partendo da una idea
prefissata di bello – anche se è entusiasta di una opera classicheg-
giante quale il Rotulo di Giosuè della Biblioteca Vaticana –; elenca
piuttosto i monumenti, ripartendoli tra i volumi secondo criteri
oggettivi di luogo o di materiale di esecuzione; fornisce descrizioni e
notizie, ma non commenti, di ogni singola opera (figg. 44-46).

7
Seroux d’Agincourt, Storia dell’arte, pp. 256-257.
8
R. Garrucci, Storia della arte cristiana nei primi otto secoli della Chiesa, 6 voll. (Prato,
1872-1881). J. Labarte, Histoire des arts industriels au Moyen Age et à l’epoque de la
Renaissance, 4 voll. (Paris, 1864-1866).
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

Garrucci tende a presentare i cicli figurativi al completo, non fa


selezioni di immagini: nel terzo volume include le pitture cimiteriali,
nel quarto i mosaici cimiteriali e non cimiteriali. Dipendendo in
molto dalle scelte del materiale fatto conoscere da Seroux d’Agin-
court, Garrucci presenta tutte le miniature della Genesi di Vienna,
tutti i frammenti superstiti della Genesi Cotton di Londra e gli
acquerelli anteriori all’incendio da lui rintracciati a Parigi, tutti gli
spezzoni del Rotulo di Giosuè, molte miniature del Cosma Indico-
pleuste vaticano e dell’Evangeliario di Rabbula. Tra i mosaici molti-
plica il numero di quelli italiani e ravennati in particolare: appaiono
buone riproduzioni del Battistero Ursiano, del Mausoleo di Galla
Placidia, del Battistero degli Ariani, di Sant’Apollinare Nuovo, di
San Vitale (sia Giustiniano, sia Teodora), di Sant’Apollinare in
Classe; ed inoltre alcuni mosaici fuori d’Italia, come il mosaico
absidale della chiesa del Monastero di Santa Caterina al Sinai e
quelli della Cattedrale di Parenzo9.

b. Cristi improsciuttiti e Madonne color cioccolata


Mentre il neoclassico Seroux D’Agincourt ed il positivista Garrucci
aprivano la strada alla scoperta di Bisanzio nella storiografia artistica
in Italia, trattati meno dotti accennavano all’arte bizantina con luo-
ghi comuni vasariani e con espressioni che oggi fanno sorridere. Nel
1839 Giovanni Rosini, nei suoi sette volumi sulla storia della pittura
italiana, che hanno vari riferimenti a Seroux D’Agincourt, fa appena
degli accenni a Bisanzio, inserendo una unica riproduzione a inci-
sione di una miniatura con Eusebio e Carpiano in un manoscritto a
Lucca, testimonianza della perfezione delle miniature bizantine. Gio-
vanni Battista Toschi, in un saggio in quattro puntate sulla “Fisiolo-
gia della pittura trecentistica” apparso nella Nuova Antologia del
1878, fa partire dai Cosmati, Cimabue e Duccio la rinascita dell’arte
italiana, accusando i pittori bizantini di copiarsi servilmente l’uno
con l’altro, facendo delle Madonne identiche, piuttosto che somi-
glianti fra di loro, brutte e a volte “bruttissime sotto ogni aspetto” e

9
Nell’ordine del testo: vol. 3, tavv. 112-123 (Genesi di Vienna), 124-125 (Genesi
Cotton), 157-167 (Rotulo di Giosuè), 142-153 (Cosma Indicoleuste), 128-140 (Evangelia-
rio di Rabbula); volume 4, tavv. 226-228 (Battistero Ursiano), 229-233 (Galla Placidia),
241 (Battistero degli Ariani), 242-252 (Sant’Apollinare Nuovo), 258-264 (San Vitale),
265-267 (Sant’Apollinare Nuovo), 268 (Sinai), 276 (Parenzo).
PRIMI STUDI IN ITALIA 

dalle “carni color cioccolatte”; in questo giudizio, Toschi, che do-


veva amare la pittura accademica ottocentesca, accomuna autentiche
tavole bizantine (“la prima tavola della galleria degli Uffizi è una
Madonna di Rico di Candia color di rame, ma in fondo mesta,
maestosa, non sgradevole”) con tavole di primitivi del Duecento
toscano, come la Maddalena della Galleria dell’Accademia (“La
prima tavola della Galleria delle Belle Arti pure in Firenze è una
Santa Maria Maddalena col viso macchiato di bianco, turchino e
rosso proprio in natura, ma considerandone solo i contorni non
sarebbe brutta; ha una cert’aria che non dispiace. Intorno a lei sono
dipinte varie storiette della sua vita, nelle quali le scorrezioni raggiun-
gono il massimo grado”) ed i Berlinghieri (“Nella stessa galleria
[dell’Accademia] si vedono figure orribili di un tal Berlinghieri”).
Infine, Paolo Tedeschi, in un dialogo sulle belle arti tra il maestro ed
il giovane Giovannino, del 1872 (fig. 47), descrive Costantinopoli
come una città e una corte piena di servi, femmine e cortigiani, e
l’arte bizantina come un’arte alla base delle quali è la civiltà romana,
ma corrotta dalla abbondanza degli ornati e della ricchezza, e nella
quale i pittori, per volontà dei preti, facevano Cristi brutti e “impro-
sciuttiti” che fanno paura e Madonne nere come fossero donne
10
tartare o etiopiche .

10
G. Rosini, Storia della pittura italiana esposta coi monumenti, 7 voll. (Pisa, 1839-1848),
vol. 1, Epoca prima da Giunta a Masaccio (1839): le miniature di Eusebio e Carpiano
“adornano un Evangeliario del Secolo X, il quale dalla casa Bonvisi passò ad ornare la
Biblioteca Sovrana di Lucca” (p. 11); G. B. Toschi, “Fisiologia della pittura trecentista”,
Nuova Antologia, ser. 2, 9 (1878), pp. 453-476; 10 (1878), pp. 228-250, 617-637; 11
(1878), pp. 29-45, citazioni da p. 468 della prima puntata e p. 235 della seconda; il brano
di P. Tedeschi, Storia delle arti belle (architettura – pittura- scultura) raccontata ai giovinetti
(Milano, 1872), pp. 127-128, dice:
“Maestro: “(...) dall’epoca della caduta di Roma la pittura s’era andata sempre più
corrompendo. E nota bene, peggiori dei barbari furono i Greci. Questi, dopo essere stati ai
tempi di Pericle i maestri del buon gusto, erano caduti sempre più al basso; nè valse a
rialzarli la protezione di Costantino il grande. (...) Sorse quindi una questione della più alta
importanza per la pittura. I vescovi greci sostenevano che Gesù Cristo, per insegnarci con
suo esempio il disprezzo del mondo, era stato il più brutto degli uomini; i latini, invece, con
più buon senso, affermavano tutto il contrario. I pittori greci, cosı̀ ispirati dal clero
cominciarono quindi a dipingere certe brutte figure, certi Cristi improsciuttiti, che facevano
e fanno tuttora paura. Pigliando poi alla lettera le parole della Scrittura «Nigra sum sed
formosa» Sono nera, ma bella, presentavano alla venerazione dei fedeli madonne d’una tinta
olivastra o nera, come se Maria di Nazaret non fosse stata discendente del re di Giuda, ma
di qualche capo della razza tartara o etiopica. Cosı̀ sorse la cosı̀ detta scuola bizantina, con
la quale denominazione si comprendono tutti i quadri de’ pittori greci, o degli italiani loro
imitatori, che dipinsero santi e madonne nella detta maniera.”.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

c. Una fioritura effimera di studi


L’idea di Bisanzio come erede corrotta di Roma è un luogo comune
dei trattati d’arte italiani degli ultimi decenni del secolo. Nel 1878
Luigi Chirtani pubblica con la casa editrice Treves di Milano (la
stessa della Costantinopoli di De Amicis) L’arte attraverso i secoli, un
volume illustrato da alcune incisioni di monumenti bizantini, tra le
quali Santa Sofia, San Marco a Venezia ed i pannelli di Giustiniano e
Teodora a San Vitale (figg. 48-49). Per Costantinopoli Chirtani
riporta ampi passi dal libro di De Amicis e per l’arte bizantina in
generale riporta il giudizio di che Taine aveva dato per i mosaici di
Ravenna: Bisanzio fu una diga isolata contro i barbari, la quale, nel
mezzo della inondazione generale “divenne un centro di putrefazione
che si andò corrompendo per 1148 anni”, una deformità, un gon-
fiore, una pustola dell’umana natura. Bisanzio è “fantasma orientale
dell’impero romano”; in Santa Sofia alla semplicità greca è suben-
trata la profusione, l’ingombro disordinato; la magnificenza ha sosti-
tuito l’arte, il “fasto che abbarbaglia” ha sostituito il bello. Curiosa-
mente – ma, giustamente, vista l’impressione che ricava dalle opere
bizantine, che è la stessa dei viaggiatori romantici della prima metà
dell’Ottocento –, l’arte bizantina è orientale e “barbara”, aggettivi
che per Chirtani hanno valore negativo; gli Italiani, al contrario,
hanno la tendenza a restare nella tradizione classica: “Roma, corsa
dai barbari e impoverita, non potendo essere ricca, sembra si stu-
diasse di parer bella, colla parsimonia degli ornamenti e la semplicità
delle linee” e grazie alla “indole del genio italico portato alle cose
chiare evidenti, e che non potea rimanere offuscato dalla farraginosa
indole della decorazione bizantina”11. Moralmente, Bisanzio è perfida
rispetto alla virtuosa Roma (Chirtani la accusa di aver deviato le orde
barbariche verso Roma per salvarsi).
Anche se la visione di Bisanzio che certamente prevalse tra i
classicisti e i conservatori filoromani è quella di una civiltà in deca-
denza, dagli anni 1880 e fino al 1910 circa furono pubblicati in Italia
un buon numero di volumi con un approccio all’arte bizantina privi
di tali pregiudizi, aggiornati sui risultati della bizantinistica estera
contemporanea (Diehl, Kondakov, Krumbacher, Schlumberger); al-
tre volte, lavori di studiosi stranieri sono proposti in traduzione
italiana, come nel caso del secondo volume del manuale di storia

11
L. Chirtani, L’arte attraverso ai secoli (Milano, 1878), citazioni da pp. 202-203, 211.
PRIMI STUDI IN ITALIA 

dell’arte di Springer, curato nelle due edizioni italiane (1906 e 1911)


da due esperti di Bisanzio, rispettivamente Corrado Ricci (“certo il
più popolare degli scrittori d’arte italiana”), e Antonio Muñoz, ma
con notizie a volte clamorosamente errate (per Springer nella cupola
di Santa Sofia si sarebbe ancora trovato raffigurato Cristo tra apostoli
e santi)12. Da studiosi italiani appaiono la descrizione dei mosaici di
San Marco nella Basilica di San Marco in Venezia di Camillo Boito
(1888), aggiornatissima sulle origini iconografiche dei mosaici delle
cupole dell’atrio da un manoscritto della Genesi proposte dal finlan-
dese Johan Jakob Tikkanen, le pagine sulla architettura bizantina nel
primo volume delle Origini dell’architettura lombarda di Giovanni
Teresio Rivoira (1901) e le cento tavole fotografiche di grande
formato de L’arte bizantina in Italia di Arduino Colasanti (1912) con
poche pagine introduttive e una prefazione di Ricci (fig. 50)13. Que-
st’ultimo aveva pubblicato nel 1902 una monografia su Ravenna dal
carattere di guida turistica, che fu più volte ristampata e che contiene
in nuce la differenza, divenuta poi luogo comune, tra interesse per la
forma, proprio della tradizione artistica occidentale romana, per la
quale Ricci parteggia, e interesse per la decorazione, proprio del
gusto orientale bizantino. Esempio di questa “evidentissima” diffe-
renza, “sfuggita per tanto tempo agli storici ed ai critici dell’arte”, tra
valori antagonisti occidentali e orientali sono i mosaici della navata di
Sant’Apollinare Nuovo, che risalgono in parte (i profeti) al periodo
della dominazione gotica di Teodorico, che chiamò ad operare arte-
fici romani, e in parte al successivo periodo della dominazione
orientale bizantina:

“La differenza, ad esempio, che passa tra i musaici eseguiti in Ravenna


sotto i dominii occidentale e gotico, e quelli eseguiti dopo il ristabili-
mento del dominio orientale e la istituzione dell’Esarcato, è palese a

12
A. Springer, Manuale di storia dell’arte, vol. 2, Arte del Medio Evo, riveduto dal dr. G.
Neuwirth, 1a edizione italiana a cura di C. Ricci (Bergamo, 1906); 2aedizione, di nuovo
tradotta ed ampliata sulla 8a edizione tedesca a cura del dr. A. Muñoz (Bergamo, 1911). La
definizione di Ricci è da M. Pittaluga, “Arte e studi in Italia nel ’900. Gli storici dell’arte”,
La Nuova Italia 1 (1930), p. 413.
13
La basilica di San Marco in Venezia illustrata nella storia e nell’arte da scrittori veneziani, a
cura di C. Boito (Venezia, 1888) contenente P. Saccardo, “Mosaici e loro iscrizioni”, pp.
299-388. G. T. Rivoira, Le origini dell’architettura lombarda e delle sue principali derivazioni nei
paesi d’oltr’alpe, 2 voll. (Roma, 1901 e 1907). A. Colasanti, L’arte bizantina in Italia,
prefazione di C. Ricci (Milano, 1912). Su Corrado Ricci si è da poco tenuto un convegno:
Corrado Ricci storico dell’arte tra esperienza e progetto, Convegno di studi, Ravenna 27-28
settembre 2001.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

chi li consideri nelle forme, nel sentimento nella tecnica, nella stessa
sostanza materiale (...). Lascieremo per ora in disparte l’esame degli
altri monumenti ravennati nei quali le forme tradizionali romane
prevalgono su tutto, come nel Mausoleo di Galla Placidia, nel Batti-
stero della Cattedrale, ecc., per rimanerci al semplice confronto dei
due stili, quali si mostrano in Sant’Apollinare Nuovo. La parte, per
cosı̀ dire, romana sfugge a ogni ornamento e sembra derivare dalla
statuaria. Le figure de’ profeti, di prospetto ravvolti nel manto, col
libro o col rotolo in mano, sembrano vere e proprie riproduzioni di
statue (... ). Ben piantate sopra un piano prospettico, che ritrae la
base, variano l’atteggiamento delle mani e il giro del manto con gesti
che si hanno tutti nelle statue antiche. Le loro teste sono ben mosse
sui forti colli. Le pieghe, stupendamente ombreggiate, a varie grada-
zioni di toni, rivelano le forme, che ravvolgono con esattezza.”.

Diverso invece lo stile orientale delle teorie di martiri e vergini:

“Ben altri metodi e ideali d’arte dimostrano le due file (...) delle
Vergini e dei Martiri. Ogni amore per la forma sembra attutito dinanzi
alla preoccupazione dell’effetto decorativo. Le figure si succedono
senza varietà, come se fossero levate dallo stesso stampo. (...) Le mani
[dei martiri] sono tutte uguali; i piedi grevi, pesanti, talora deformi. Le
teste, mal costrutte, sono coperte di capelli che sembrano sottili
calotte. Le carni non hanno varietà cromatica (...).
Diverso effetto fanno certo le opposte Vergini, ma non perché le forme
siano migliori. Sorprendono, abbagliano per lo splendore delle stoffe
aurate e fiorate, dei diademi, dei monili, dei cinti, tutti fregiati d’oro e
di gemme. (...)
Ma è bellezza quasi unicamente decorativa, non di forma. Si direbbe
che, come gli artisti italici sentivano per le loro figure l’influenza della
severa scoltura classica, i bizantini sentissero invece quella delle sma-
glianti stoffe orientali.”.

Lo stile romano è, in conclusione, più bello, quello bizantino è


più fastoso e decorativo:

“Conviene però riconoscere che se, come disegno e, a cosı̀ dire, nella
sostanza, il musaico di tradizione romana è più solido e bello, quello
bizantino, con l’esaltazione d’un lusso sfrenato, è più fastoso e quindi
più decorativo.”14.

Alcuni dei contributi più all’avanguardia furono pubblicati nel-


l’Archivio storico dell’arte di Domenico Gnoli (poi divenuto L’arte),

14
Ricci, Ravenna, citazioni dalle pp. 18-20.
PRIMI STUDI IN ITALIA 

anche come riproposizione di articoli di contenuto simile già apparsi


altrove in lingua straniera; tra questi il lungo articolo di Tikkanen sui
rapporti iconografici tra i mosaici della Genesi nell’atrio di San
Marco e le miniature del manoscritto della Genesi Cotton, a cui si
faceva riferimento nel volume di Boito, e quelli di Hans Graeven sul
Rotulo di Giosuè e sulle cassette d’avorio bizantine15. Il più attivo
scrittore di cose bizantine sembra Muñoz, abile nel tener dietro ai
soggetti su cui dibatteva al momento la bizantinistica (i manoscritti
del Serraglio, i mosaici di San Salvatore in Chora a Costantinopoli,
gli Ottateuchi miniati, ecc.) e a riproporli al pubblico italiano. Nono-
stante l’eclettismo metodologico dei suoi testi, che variano da descri-
zioni tout court degli oggetti a pubblicazioni di fonti scritte di opere
bizantine ed a studi iconografici, va riconosciuta in ogni caso a
Muñoz la rilevanza del lavoro fatto con la riproduzione dell’Evange-
liario purpureo miniato di Rossano Calabro (che stava per essere
illegittimamente venduto nel 1889 dai canonici del capitolo di Ros-
sano) e la descrizione dei manoscritti nelle biblioteche minori di
Roma e delle icone vaticane16.

15
J. J. Tikkanen, “Le rappresentazioni della Genesi in S. Marco a Venezia e loro
relazione con la Bibbia Cottoniana”, Archivio storico dell’arte 1 (1888), pp. 212-23, 257-67,
348-63; cf. id., Die Genesismosaiken von S. Marco in Venedig und ihr Verhältnis zu den
Miniaturen der Cottonbibel nebst einer Untersuchung über den Ursprung der mittelalterlichen
Genesisdarstellung besonders in der byzantinischen und italienischen Kunst (Helsingfors, 1889).
H. Graeven, “Il Rotulo di Giosué”, L’Arte 1 (1898), pp. 221-230; id., “Adamo ed Eva nei
cofanetti d’avorio bizantini”, L’Arte 2 (1899), pp. 297-315; cf. “Antike Vorlagen byzantini-
scher Elfenbeinreliefs”, Jahrbuch der königlichen preussischen Kunstsammlungen 18 (1897), pp.
3-23. Sull’Archivio storico dell’arte e L’arte vedi G. Agosti, La nascita della storia dell’arte in
Italia. Adolfo Venturi: dal museo all’università 1880 – 1940 (Venezia, 1996), pp. 75-79 e
140-143. Notizie sui primi studiosi di arte italiani degli inizi del secolo si trovano in
Pittaluga, “Arte e studi in Italia nel ‘900”, e in L. Venturi, “Gli studi di storia dell’arte
medievale e moderna”, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore
di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, a cura di C. Antoni e R. Mattioli
(Napoli, 1950), 2, pp. 175-189. Quanto agli studi sull’arte in Italia visti dall’estero, Diehl
nel 1905 (“Les études byzantines en 1905”, in C. D., Études byzantines. Introduction a
l’histoire de Byzance. Les études d’histoire byzantine en 1905. La civilisation byzantine. L’empire
grec sous les Paléologues. Les mosaı̈ques de Nicée, Saint-Luc, Kahrié-Djami, etc. [Paris, 1905],
pp. 38-106) menziona solo Venturi e Rivoira. Una sintesi degli studi stranieri e italiani di
inizio Novecento è in Nicco, “Ravenna e i principi compositivi dell’arte bizantina”, pp.
195-203. Per lo studio delle antichità cristiane vedi G. Wataghin Cantino, “Roma sotterra-
nea. Appunti sulle origini dell’archeologia cristiana”, Ricerche di storia dell’arte 10 (1980),
pp. 5-14; R. Giordani, “Lo studio dell’antichità cristiana nell’Ottocento”, in Lo studio storico
del mondo antico nella cultura italiana dell’Ottocento, Acquasparta, Palazzo Cesi, 30 maggio –
1˚ giugno 1988, a cura di L. Polverini (Napoli, 1993), pp. 335-358.
16
Di Muñoz vedi: “Descrizioni di opere d’arte in un poeta bizantino del secolo XIV
(Manuel Philes)”, Repertorium für Kunstwissenschaft 27 (1904), pp. 390-400; I codici greci
miniati delle minori biblioteche di Roma (Firenze, 1905); “I musaici di Kahriè Giami”,
Rassegna Italiana, marzo 1906; Il codice purpureo di Rossano e il frammento Sinopense (Roma,
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

L’eclettismo di Muñoz ha le sue radici nei volumi della Storia


dell’arte italiana del suo maestro Adolfo Venturi, i cui due primi
volumi, che trattano l’arte medievale fino al romanico, uscirono nel
1901 e nel 1902 (figg. 51-57)17. Le lezioni romane di Venturi furono
seguite da molti dei protagonisti delle discussioni su Bisanzio e l’arte
contemporanea nella prima metà del Novecento; tra questi, oltre a
Muñoz, Pietro D’Achiardi, Giuseppe Fiocco, Gustavo Giovannoni,
Federico Hermanin, Mario Salmi, Pietro Toesca. Commemorandolo
nel 1942, Toesca sottolineò come Venturi cercasse le origini dell’arte
italiana nell’antichità, vedesse nell’arte etrusca il preludio dell’arte
toscana e asserisse la persistenza dell’eredità romana nell’arte medie-
vale, risalendo oltre Roma a cercare le radici dei caratteri della stirpe
italiana; nel Medioevo “ancòra non gli si affacciava distintamente
l’arte italiana, mentre intorno gli insistevano, quale più eletta, quale
più rude ma vigorosa, l’arte bizantina e la carolingia e la barbarica”18.
Venturi è il primo studioso italiano a cimentarsi in una esposi-
zione generale dell’arte bizantina, destinato a rimanere pressoché

1907); “Nella Biblioteca del Seraglio a Costantinopoli”, Nuova antologia 130 (1907), pp.
314-320; Le icone bizantine già nel Museo Cristiano della Biblioteca Vaticana (Roma, 1924);
“Alcuni dipinti bizantini di Firenze”, Rivista d’arte 6 (1907), pp. 113-120; “Alcune
osservazioni intorno al Rotulo di Giosuè e agli Ottateuchi illustrati”, Byzantion 1 (1924),
pp. 475-483. Quanto agli Ottateuchi Strzygowski aveva pubblicato uno studio su alcuni
Ottateuchi bizantini, tra i quali il codice 8 della Biblioteca del Serraglio presentato da
Muñoz (J. Strzygowski, Der Bilderkreis des griechischen Physiologus, des Kosmas Indicopleustes
und Oktateuch nach Handschriften der Bibliothek zu Smyrna [Byzantiniches Archiv, Heft 2.
Leipzig, 1899]) e pubblicato poi da F. Uspenskii (Konstantinopolskii Seral’skii kodeks
Vos’mikniziia (L’Octateuque de la Bibliothèque du Sérail à Constantinople) [Izvestiia Russkago
Arkheologicheskago Instituta v Konstantinopolie / Bulletin de l’Institut archéologique russe à
Constantinople, 12 1907], Sofia, 1907; Al’bom, Munich, 1907). Quanto al Rossanense erano
usciti O. von Gebhardt e A. Harnack, Evangeliorum Codex Graecus Purpureus Rossanensis
(Leipzig, 1880) e A. Haseloff, Codex Purpureus Rossanensis. Die Miniaturen der griechischen
Evangelien-Handschrift in Rossano (Berlin – Leipzig, 1898): Muñoz sottolinea inesattezze e
deficienze nelle tavole di entrambe le edizioni. La notizia del tentativo di vendita dell’evan-
geliario purpureo da parte dei canonici di Rossano Calabro è data in Archivio storico dell’arte
2 (1889), pp. 93-94.
17
A. Venturi, Storia dell’arte italiana, 11 voll. (Milano, 1901-1940); vol. 1, Dai primordi
dell’arte cristiana al tempo di Giustiniano (1901); vol. 2, Dall’arte barbarica alla romanica
(1902).
18
Cosı̀ nella commemorazione del 4 maggio 1942 al Reale Istituto d’Archeologia e Storia
dell’Arte: P. Toesca, Adolfo Venturi, commemorazione tenuta il 4 maggio 1942-XX al Reale
Istituto d’Archeologia e Storia dell’Arte (Roma, 1942-XX), p. 14. Invece, nella commemo-
razione di Venturi apparsa in Le arti, a proposito della Storia dell’arte italiana, Toesca scrive
soltanto (p. 311): “Superate le origini del Medioevo, in cui pure ricercò problemi fra le
tenebre dell’arte barbarica, riaffermando la sua convinzione nel sopravvivere dell’arte
discesa da Roma; quando fu giunto nell’età romanica al definirsi di un’arte italiana (...)”;
id., “Adolfo Venturi”, Le arti 3 (1940-1941), pp. 309-312.
PRIMI STUDI IN ITALIA 

l’unico. I suoi due volumi includono un buon numero di manoscritti


miniati tardoantichi e bizantini, tra i quali il Virgilio Vaticano della
Biblioteca Vaticana, l’Iliade Ambrosiana (questi tre manoscritti
erano rimasti fino ad allora quasi sconosciuti agli studiosi italiani), la
Genesi Cotton, la Genesi di Vienna, il Rossanense, il Dioscoride di
Vienna, un buon numero di salteri tra i quali il Salterio di Parigi (per
questi dipendendo molto da recenti studi di Tikkanen)19 e altri
manoscritti bizantini già noti. Venturi parte da un punto di vista
classico nel giudicare le opere e, di fatto, non ama le arti per lo più
decadenti del periodo barbarico e del periodo bizantino: si stupisce
della bellezza delle figure e della vivezza dei colori nelle miniature del
Dioscoride di Vienna, che “riflettono le forme classiche” ancora agli
inizi del VI secolo, “quantunque eseguite a Bisanzio”. Mentre la
presentazione del Virgilio Vaticano, che Venturi data al IV secolo,
occupa ben diciassette pagine del primo volume con le sue miniature
di tradizione antica, al contrario le miniature più medievali del
Virgilio Romano non sono considerate: “Non teniamo conto del
Virgilio romano (n. 3867) della Vaticana, perché le illustrazioni che
reca sono certo un esercizio di fanciullo barbaro, o di barbaro
ignorante quanto un fanciullo”. Non gli piace il Rotulo di Giosuè,
copia da opera del X secolo di mano di un “calligrafo” e “improvvi-
sato miniatore”, ma il Salterio di Parigi, copia anch’esso dall’antico,
mostra un “vero fiorire dell’arte classica (...) nella seconda età d’oro
bizantina”.
Altri giudizi di Venturi sono invece liberi da condizionamenti
classici, come nelle lodi delle miniature del Rossanense (fig. 52),
anticipatrici dell’arte di Giotto, e della Scala paradisiaca di Giovanni
Climaco della Vaticana (cod. Vat. gr. 394) (fig. 57) – “di una finezza
senza pari”, “non la decadenza di un’arte, ma un rinascimento” –
che restano uniche nella critica italiana:

“il miniatore vince le convenzioni, profonde sentimenti umani, sor-


prende la vita. Questo capolavoro della miniatura proclama la forza e
la grandezza dell’arte bizantina, che si considera già avvolta dal buio
alla fine dell’età d’oro: era quell’arte civile che si diffondeva nel secolo
XII sulle nostre coste, nelle nostre isole, fecondando l’arte occidenta-
le”20.

19
J. J. Tikkanen, Die Psalterillustration im Mittelalter (Helsingfors, 1903).
20
I giudizi dalla Storia dell’arte italiana di Venturi riportati nel testo sono dal vol. 1, pp.
309-328, 340-344, 379, e dal vol. 2, pp. 478-485.
 PARTE I: L’OTTOCENTO, D’ANNUNZIO, TEODORA E BASILIOLA

L’arte bizantina era quindi ben lontana dal sonno di morte;


anche Duccio doveva essersi ispirato a un evangeliario bizantino
simile al cod. Vat. gr. 1156 (che è datato alla seconda metà del
secolo XI).
La prima esposizione di oggetti d’arte bizantini in Italia fu alle-
stita a Grottaferrata nel 1905 in occasione del nono centenario dalla
fondazione dell’abbazia da parte di San Nilo; il catalogo fu curato da
Muñoz21. Nella mostra, caso unico in Italia che non avrà seguito per
almeno cinquant’anni, furono esposte miniature, icone, stoffe, orefi-
cerie provenienti per lo più dal Museo Cristiano della Biblioteca
Vaticana. Il materiale esposto era comunque eterogeneo ed ordinato
per tipologie, non era presentato alcun percorso storico dell’arte
bizantina. Erano esposti anche dipinti pregiotteschi toscani, attribuiti
a Duccio o Cimabue, manoscritti miniati italo-greci e latini da
Montecassino, oltre al Rossanense e due evangeliari di proprietà
dell’abbazia. La Biblioteca Vaticana aveva frattanto iniziato a pubbli-
care i cicli miniati completi dei propri manoscritti bizantini e slavi in
una serie in cui apparvero il Rotulo di Giosuè (1905), il Menologio
di Basilio II (1907), la Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste
(nel 1908) le Omelie del monaco Giacomo e l’Evangeliario Urbinate
gr. 2 (1910), la Cronaca di Manasse (1927). Contemporaneamente,
furono completamente pubblicati i fogli superstiti dell’Iliade Ambro-
siana con il commento di Antonio Maria Ceriani e Achille Ratti,
quest’ultimo poi divenuto papa Pio XI (1905)22. Dal 1890, i fotografi
Alinari cominciarono a documentare le opere d’arte in Italia, com-
prese le opere bizantine; Alinari non fece mai campagne fotografiche
su monumenti all’estero, salvo, per i possedimenti e le colonie
acquisiti dall’Italia in Istria (in particolare Parenzo) e in Dalmazia,
nel 1922, e nel Mare Egeo, nel 1936.

21
A. Muñoz, L’Art Byzantin à l’exposition de Grottaferrata (Roma, 1906).
22
Il Rotulo di Giosué, a cura di P. Franchi de’ Cavalieri (Codices e Vaticanis selecti, 5.
Milano, 1905); Il Menologio di Basilio II (cod. vat. gr. 1613) (Codices e Vaticanis selecti
phototypice expressi, 8. Torino, 1907); C. Stornajolo, Le miniature della Topografia Cristiana
di Cosma Indicopleuste. Codice Vaticano Greco 699 (Codices e Vaticanis selecti phototypice
expressi, 10. Milano, 1908); C. Stornajolo, Miniature delle Omilie di Giacomo Monaco (Cod.
Vatic. Gr. 1162) e dell’Evangeliario Greco Urbinate (Cod. Vatic. Urbin. Gr. 2) (Codices e
Vaticanis selecti phototypice expressi, Series Minor, 1. Roma, 1910); B. D. Filow, Les
miniatures de la Chronique de Manassès à la Bibliothèque du Vatican (cod. Vat. Slav. II)
(Codices e Vaticanis selecti, 17. Sofia, 1927). Homeri Iliadis pictae fragmenta ambrosiana
phototypice edita, a cura di A. M. Ceriani e A. Ratti (Milano, 1905).
PARTE II

ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI


5

L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO


ALL’ARTE ITALIANA

‘‘Fino all’anno 1200, la pittura in tutta Europa fu


costantinopolitana, come negli ultimi cent’anni, in cifra
tonda, è stata parigina’’.
Bernard Berenson, ‘‘Due dipinti’’, 1922

Tra l’inizio del Novecento e la seconda guerra mondiale la fortuna di


Bisanzio è in veloce ascesa e la bizantinistica, nata da una costola
dell’antichistica, si consolida come disciplina autonoma. La rivaluta-
zione di Bisanzio e della sua arte sono parallele, negli studi e nella
produzione artistica contemporanea, alla svalutazione dell’arte ro-
mana. Soprattutto in Francia, l’amore di impressionisti e postimpres-
sionisti per la natura ed i colori porta all’abbandono dell’arte accade-
mica e dell’arte classica suo modello ed al favore verso la spiritualità
ed il cromatismo di primitivi e bizantini. Nello stesso tempo, un
bizantinista, Strzygowski, cancella il ruolo di Roma come genitrice
dell’arte medievale e ne fa risalire i caratteri innovativi all’Oriente, in
un primo tempo alle metropoli del Mediterraneo orientale, poi alle
razze ariane dell’Iran e del Nord Europa.

a. L’apogeo novecentesco di Bisanzio


Alla fine dell’Ottocento ed agli inizi del Novecento le avanguardie
europee, soprattutto in Francia a partire dai simbolisti, si ispirarono
a mosaici bizantini e ad icone russe, quest’ultime rese famose dalla
esposizione Deux siècles d’art russe organizzata da Sergej Diaghilev al
Salon d’Automne di Parigi del 1906. Kandinsky, in Sullo spirituale
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

nell’arte del 1912, porta il mosaico di Teodora a San Vitale e le


bagnanti di Cézanne come esempio di composizione ‘‘melodica’’;
riproduzioni da un mosaico di Venezia apparirono nell’almanacco
del Cavaliere azzurro1. Bisanzio trionfò tra artisti e critici anglosassoni
(soprattutto Roger Fry, Matthew Stewart Prichard e William Morris,
per il quale Santa Sofia era ‘‘the crown of all the great buldings in
the world’’) negli anni immediatamente precedenti la prima guerra
mondiale, che sono anche gli anni in cui ebbero inizio indagini
archeologiche e grandi progetti di restauro di monumenti bizantini.
Boris Anrep, sostenuto da Fry, cercò di riproporre l’arte del mosaico
bizantino in Inghilterra. Nella undicesima edizione della Encyclopæ-
dia Britannica del 1910-1911, la voce ‘‘Byzantine Art’’, scritta dal-
l’architetto William Richard Lethaby ed illustrata solamente con
architetture (Santa Sofia, la Piccola Cattedrale di Atene, la chiesa del
monastero di Dafni, capitelli di Ravenna e Venezia), parlava entusia-
sticamente dell’arte bizantina e asseriva la sua enorme influenza
sull’arte dell’Europa e dell’Oriente durante il Medioevo; diversi edi-
fici in Italia sarebbero da chiamare propriamente bizantini. In Au-
stria, Alphonse Mucha e Gustav Klimt seguiti in Italia da Chini e
Vittorio Zecchin, imitarono l’arte bizantina nella giustapposizione e
nell’estetismo dei colori. Nei paesi occidentali furono erette chiese in
stile neobizantino; negli Stati Uniti, gli stili bizantino e romanico
erano sentiti più adatti che lo stile gotico alle chiese e cattedrali
nazionali cattoliche e ortodosse di Washington: il National Shrine of
the Immaculate Conception, la chiesa di Haghia Sophia e la Catte-
drale di San Matteo Apostolo, ebbero piante architettoniche model-
late su Santa Sofia di Costantinopoli e San Marco di Venezia e pareti
decorate con mosaici di stile bizantino. Di Carlo Wostry, pittore
triestino emigrato nel 1925 negli Stati Uniti, La Rivista illustrata del
‘‘Popolo d’Italia’’ fece un panegirico nazionalistico nel 1936 rico-
struendo la sua attività americana: dalla prima commissione di dieci
quadri con scene per la Vergine nella chiesa di Notre Dame di
Lourdes a New York al trasferimento a Hollywood, dove il parroco
di Sant’Andrea a Pasadena lo invita a decorare la sua chiesa, appena
eretta ‘‘in stile bizantino o neo-cristiano, ispirandosi precisamente
alla basilica di Santa Maria Sabina in Roma’’, con quattordici dipinti

1
W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst (München, 1912); traduzione italiana,
Della spiritualità nell’arte particolarmente nella pittura, prima versione italiana a cura di G. A.
Colonna di Cesarò (Roma, 1940), pp. 107-108 e tavv. 2 e 6. W. Kandinsky e F. Marc, Der
blaue Reiter (München, 1912), traduzione italiana, Il Cavaliere azzurro (Bari, 1967), p. 36.
L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA 

delle stazioni della Via Crucis ed altre dieci scene della vita di Gesù,
un Pantocrator con una teoria di santi e sante alternati alla maniera
di Sant’Apollinare di Ravenna nell’abside, scene della vita di San-
t’Andrea nell’arco trionfale, altre storie della Vergine e Santi nelle
cappelle (fig. 58)2.
Ai pionieri della bizantinistica ottocentesca successe una genera-
zione folta di studiosi, che si ramificò nei paesi europei e in America.
L’indagine delle radici ellenistiche e della continuità o delle rina-
scenze classiche dell’arte bizantina fu al centro degli studi in Francia
(Diehl), Russia (Dimitri V. Ainalov, scolaro di Kondakov), Austria e
Germania (Franz Wickhoff, Adolf Goldschmidt, Kurt Weitzmann),
dove i corsi di arte bizantina erano accoppiati nel curriculum studen-
tesco agli studi sull’archeologia classica. A Monaco fu fondata nel
1892 la Byzantinische Zeitschrift, la prima rivista di bizantinistica,
seguita in Russia da Vizantjskij Vremennik nel 1894 e a Bruxelles da
Byzantion nel 1925. L’impostazione filologica e archeologica germa-
nica improntò, come caratteristica costitutiva, la bizantinistica ameri-
cana (Howard Crosby Butler, Earl Baldwin Smith, Charles R. Mo-
rey, Albert M. Friend Jr) che si adoperò in questo periodo
soprattutto nella ricerca delle origini dell’arte bizantina in Siria, Asia
Minore e Alessandria. Quasi sempre, comunque, l’interesse si con-
centrò sui secoli formativi dell’arte bizantina, per la loro prossimità
con il mondo classico, o sul regno della dinastia macedone (IX-XI

2
R. Fry, “Modern Mosaic and Mr. Boris Anrep”, The Burlington Magazine 42 (1923),
pp. 272-278. W. R. Lethaby, “Byzantine Art”, in Enciclopædia Britannica (Cambridge,
191011), pp. 906-911. Sui rapporti tra artisti moderni e arte bizantina vedi C. Greenberg,
“Byzantine Parallels”, in C. G., Art and Culture: Critical Essays (Boston, 1965), pp. 169-171
(traduzione italiana Arte e cultura. Saggi critici [Torino, 1991], pp. 165-167). L’apprezza-
mento dell’arte bizantina in Francia, Inghilterra e Stati Uniti è sintetizzato in Rice, The
Appreciation of Byzantine Art, cap. 2, pp. 20-42, dal quale è presa la definizione di Santa
Sofia di Morris; J. B. Bullen, “Byzantinism and Modernism 1900-1914”, The Burlington
Magazine n 141, novembre 1999, pp. 665-675. Sulla fortuna di Bisanzio, la formazione
delle collezioni di oggetti e l’inizio degli studi di bizantinistica negli Stati Uniti vedi K.
Weitzmann, “Byzantine Art and Scholarship in America”, American Journal of Archaeology
51 (1947), pp. 394-418. Delle chiese di Washington, il progetto del National Shrine of the
Immaculate Conception (la cattedrale cattolica di America) risale al 1919, la chiesa di San
Matteo Apostolo fu consacrata nel 1913, la chiesa ortodossa di Haghia Sophia riproduce la
struttura ed i mosaici di San Marco di Venezia; agli esempi di questo revival neomedievale
va aggiunto il Monastero Francescano a Washington con decorazioni musive e repliche di
catacombe di Roma. Per Carlo Wostry: A. B., “Affermazioni italiane in America”, La
Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 14 n 3 (marzo 1936), pp. 33-35. Modelli di architet-
tura e decorazione bizantina in senso lato si trovano utilizzati in Italia, ad esempio, per
chiese ortodosse, come la chiesa russa di Firenze del 1902: G. Gobbi, Itinerario di Firenze
moderna. Architettura 1860-1975 (Firenze, 1976), p. 32.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

secolo), il periodo durante il quale avvenne una ripresa di modi


classici tale da meritare la definizione di ‘Rinascenza macedone’.
Apparvero in questi anni studi iconografici complessivi (le ricer-
che sulla iconografia del Vangelo di Gabriel Millet, 1916), studi
storico-artistici, compendi generali sull’arte bizantina (i manuali di
Diehl del 1910 e del 1928, di Ormond M. Dalton del 1911 e del
1925, di Oskar Wulff del 1914-1918 e del 1924, di Hayford Peirce e
Royall Tyler del 1926, di Jean Ebersolt sulle arti sontuarie e sulla
miniatura, rispettivamente del 1923 e 1926, di Weitzmann sulla
miniatura dei secoli X-XI, del 1935), repertori (di Goldschmidt e
Weitzmann sugli avori). In italiano uscirono i libri di Pavel Muratov
sulla pittura bizantina e sulla pittura russa nel 1925 e nel 1928, ma i
primi manuali di studiosi italiani (fatta eccezione per le pagine su
Bisanzio nella Storia dell’arte italiana di Adolfo Venturi) furono i
volumetti di Sergio Bettini sulla pittura, i mosaici e la scultura
bizantina rispettivamente del 1937, 1939, 19443
La fortuna di Bisanzio ebbe il suo apogeo con la prima esposi-
zione internazionale di arte bizantina a Parigi, aperta in maggio e
giugno del 1931 al Musée des Arts Decoratifs, nel Pavillon de
Marsan al Louvre. Il comitato scientifico era presieduto da Diehl ed
aveva Georges Duthuit come segretario generale; oltre ai maggiori
bizantinisti francesi (Louis Bréhier, Ebersolt, Millet), vi partecipa-
vano studiosi di Austria , Belgio, Germania, Gran Bretagna, Grecia,
Italia, Spagna, Stati Uniti; per l’Italia vennero Corrado Ricci, Carlo
Cecchelli, Giuseppe Mercati, Antonio Muñoz, Ugo Ojetti (senz’altro
di gusti più classici e accademici che bizantini)4, Pietro Toesca,

3
S. Bettini, La pittura bizantina, 1 (Firenze, 1937-XV); 2, I mosaici, 2 voll. (Firenze,
1939-XVII); id., La scultura bizantina, 2 voll. (Firenze, 1944). O. M. Dalton, Byzantine Art
and Archaeology (Oxford, 1911); id., East Christian Art (Oxford, 1925). C. Diehl, Manuel
d’art byzantine, 2 voll. (Paris, 1910; seconda edizione 1926); id., L’art chrétien primitif et l’art
byzantin (Paris e Brussels, 1928). H. Peirce e R. Tyler, Byzantine Art (London, 1926). J.
Ebersolt, La miniature byzantine (Paris – Brussels, 1926). A. Goldschmidt e K. Weitzmann,
Die byzantinischen Elfenbeinskulpturen des X.-XIII. Jahrhunderts, 1, Kästen, 2, Reliefs (Berlin,
1930 e 1934). G. Millet, Recherches sur l’iconographie de l’Évangile au XIVe, XVe et XVIe
siècles (Paris, 1916). P. Muratov, La pittura russa antica (Praga – Roma, 1925); id., La
pittura bizantina (Roma, 1928). K. Weitzmann, Die byzantinische Buchmalerei des 9. und 10.
Jahrhunderts (Berlin, 1935). O. Wulff, Altchristliche und Byzantinische Kunst, 1, Die altchristli-
che Kunst von ihren Anfängen bis zur Mitte des ersten Jahrtausends, 2, Die byzantinische Kunst
(Berlin – Neubabelsberg, 1914 e 1918); id., Die Byzantinische Kunst von der ersten Blüte bis
zu ihrem Ausgang: Handbuch der Kunstwissenschaft, a cura di F. Berger e A. E. Brinckmann
(Potsdam, 1924).
4
Ojetti, tuttavia, riconobbe il debito verso Bisanzio dell’arte italiana nella prefazione al
catalogo della mostra parigina di arte italiana da Cimabue a Tiepolo del 1925: U. Ojetti,
“Préface”, in Exposition de l’art italien de Cimabue a Tiepolo, Paris, Petit Palais, 1935,
L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA 

Adolfo Venturi e Roberto Paribeni (che di Bisanzio era un denigra-


tore; fu forse mandato a mo’ di capomanipolo a controllare Toesca e
Venturi che erano ostili al fascismo). Il catalogo ebbe introduzioni di
Diehl, decano degli studi su Bisanzio, e di Tyler, collezionista e
conoscitore di opere bizantine, che lamentarono il poco materiale
riprodotto di Bisanzio e il giudizio corrente dato con occhi occiden-
tali sulla sua arte di essere inumana, immobile, rigida nelle formule
espressive. Ebersolt sottolineò invece il gusto del colore nell’arte
bizantina, cosı̀ amato dagli artisti contemporanei. La mostra presentò
un insieme straordinario di opere bizantine; due sezioni espositive
con una quarantina di manoscritti furono aperte nello stesso Louvre
e nella Biblioteca Nazionale; ad esse l’Italia, alla ricerca di prestigio
internazionale (l’anno prima Mussolini aveva inviato alla mostra di
arte italiana di Londra alcuni dei più celebri capolavori dei musei
italiani), contribuı̀ con un piccolo gruppo dei più preziosi manoscritti
conservati nelle sue biblioteche, tra i quali il Giobbe di Napoli, il
Rossanense ed i Cinegetica di Venezia5.

b. Parigi, cioè Bisanzio


L’apoteosi dell’arte bizantina si svolse dunque in Francia. Non più
apprezzata soltanto per il suo esotismo e la sua ricchezza come
avevano fatto i simbolisti, l’arte bizantina era amata per la sua

catalogo della mostra, p. xiii:


“(...) l’influence byzantine qui, profonde et durable en France, s’exerça en Italie, de
Ravenne à Rome, de Palerme à Sienne, pendant plus de six cents ans, jusqu’à la deuxième
période d’or de l’art byzantin, et jusq’aux Toscans de l’époque de Duccio qui admira et prit
dans la sculpture française la sinuosité des plis, mais qui tira de l’art byzantin la musique
des lignes et l’éclat des couleurs.”
5
Exposition internationale d’art byzantin, Paris, Musée des Arts decoratifs, Palais du
Louvre, Pavillon de Marsan, 28 maggio – 9 luglio 1931, catalogo della mostra (Paris
[1931]); i testi di Diehl, Tyler e Ebersolt sono rispettivamente alle pp. 19-24, 25-29 e
45-53, 31-43. A seguito della mostra e basato sugli oggetti lı̀ esposti uscı̀ Art byzantin. Cent
planches reproduisant un grand nombre de pièces choisies permi le plus représentatives des diverses
tendances ..., a cura di F. Volbach e G. Duthuit, introduzione di G. Salle (Paris [1933]). Nel
1936, la Biblioteca Apostolica Vaticana aprı̀ una mostra di manoscritti bizantini, tra i quali
furono esposti gli Ottateuchi cod. Vat. gr. 746 e cod. Vat. gr. 747, il Giobbe cod. Vat. gr.
749, i Libri di Samuele e dei Re cod. Vat. gr. 333, il Cosma Indicopleuste cod. Vat. gr. 699,
il Menologio di Basilio II cod. Vat. gr. 1613, la Bibbia della Regina Cristina cod. Regin. gr.
1, le Omelie di Giacomo Monaco cod. Vat. gr. 1162: Catalogo della mostra di manoscritti e
documenti bizantini disposta dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e dall’Archivio Segreto in
occasione del V Congresso Internazionale di Studi bizantini, Roma, 20-26 settembre 1936
(Città del Vaticano, 1936).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

capacità di tradurre in immagini sentimenti mistici e conferire imma-


terialità alle figure. Maurice Denis proclamò che la pittura bizantina
aveva portato il linguaggio figurativo cristiano alla espressione più
alta6. Scrivendo nel 1926 su Bisanzio e l’arte del XII secolo, Duthuit
– che fu forse lo scrittore più bersagliato dalla critica italiana anti-
francese ed antibizantina a causa della sua antipatia per l’arte ita-
liana, che era provocata in massima parte dal disgusto per il cromati-
smo ‘‘sgraziato’’ e ‘‘cacofonico’’ dei dipinti italiani – fece notare
come Renoir, viaggiando in Italia, avesse lasciato precipitosamente
Roma e Firenze, per la tristezza degli edifici e la freddezza delle
chiese; annoiato dal nero e bianco del Rinascimento forentino, Re-
noir si fermò invece a Venezia a rendere omaggio alla cattedrale
bizantina di San Marco, vero tempio adorno di magnifici mosaici del
quale è impossibile supporre la bellezza finché non vi si entra al suo
interno:

‘‘Et la basilique de Saint-Marc, voilà qui m’a changé des froids églises
italiennes de la Renaissance, et surtout de cette cathédrale de Milano,
dont les Italiens sont si fiers, avec son toit en dentelle de marbre, des
bêtises, quoi! ... A Saint-Marc, et des l’entrée, on sent qu’on est dans
un véritable temple: cet air doux et tamisé, et ces magnifiques mosaı̈-
ques, ce grand Christ byzantin, avec un cerné gris! Impossible de
soupçonner, lorsqu’on n’est pas entré dans Saint-Marc, combien c’est
beau, les piliers lourds, les colonnes sans moulures! ...’’.

Il colore parla al cuore, scrisse Duthuit citando Ruskin. Duthuit


sposò le tesi orientaliste di Strzygowski (questo ‘‘vecchio professore’’
che lavora in maniera ‘‘prodigiosa’’ da più di vent’anni, ‘‘etnologo,
sociologo, architetto, esegeta a pretese profetiche’’): era giunto il
momento di rigettare l’‘‘ipotesi di propaganda’’ dell’archeologia eu-
ropea del predominio artistico dell’arte di Roma nell’antichità e
sostituirla con l’ipotesi del predominio delle componenti asiatiche
diffuse dalle grandi città del Mediterraneo orientale7.
Dai pittori delle avanguardie l’arte greco-romana era sentita
come fredda, ufficiale e falsa nel suo tentativo di simulare una
impossibile perfezione: la sosituı̀ come modello l’arte espressiva e

6
M. Denis, “Notes sur la peinture religieuse”, in Théories 1890-1910 (Paris, 1920), p. 37.
7
G. Duthuit, Byzance et l’art du XIIe siècle (Paris, 1926), p. 13; la citazione di Renoir,
ripresa da A. Vollard, La vie et l’œuvre de Pierre-Auguste Renoir (Paris, 1919), è alla nota 3 p.
104. Di Strzygowski Duthuit parla alle pp. 37 sgg.
L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA 

viva dei primitivi occidentali e dei bizantini8. Lo sciovinismo artistico


antitaliano ebbe un suo picco alla mostra dei primitivi francesi del
1904: qui gli Italiani del Medioevo, popoli e artisti, furono visti come
sottomessi alla tradizione antica ‘‘déformée et abı̂mée’’ e come cattivi
copisti dei neogreci di Bisanzio; al contrario, i Francesi, non avendo
che la natura ‘‘naı̈ve et sincère’’, s’ingegnano di imitarla (evidenta-
mente un punto di vista impressionistico), cercando un loro canone
originale: le vergini di Cimabue sono ‘‘mornes, rigides, sans âme’’,
quelle francesi esprimono la vita, trovano ‘‘la note sublime dans un
geste’’, con un ‘‘naturalisme exquis’’; lo stesso Giotto, ’’byzantin de
goûts et de pratique’’, avrebbe imparato la tecnica pittorica da
Étienne d’Auxerre, chiamato a Roma da Bonifacio VIII nel 12989.
La scelta dei pittori dell’avanguardia per una pittura senza terza
dimensione trova come antesignane le qualità pittoriche dell’arte
bizantina, in primo luogo il suo cromatismo e lo svolgersi dei soggetti
raffigurati su superfici piane; il cromatismo trionfò cosı̀ sul plastici-
smo della tradizione italiana. I Fauves, soprattutto Georges Rouault
e Henri Matisse, furono gli artisti più indebitati con il mondo
orientale. Matisse, secondo Duthuit, che di Matisse divenne genero,
era oggetto delle stesse critiche che gli Italiani del Rinascimento
avevano fatto alla maniera greca. Il senso che Matisse ha dei colori,
scrive Duthuit in Les Fauves del 1949, è lo stesso degli orafi bizan-
tini: nelle loro figure a smalti cloisonnée, se cessiamo di guardarle
nelle minuzie da archeologo, i verdi, i rossi, gli azzurri, i marroni e i

8
Cf. A. Clutton-Brock, “The ‘Primitive’ Tendency in Modern Art”, The Burlington
Magazine 19 (1911), pp. 226-228.
9
H. Bouchot, Les primitifs français (1252-1500). Complément documentaire au catalogue
officiel de l’exposition (Paris, 1904); i passi completi (pp. 9, 37-38, 41, 65 rispettivamente)
recitano:
“Les Italiens avaient sous les yeux les redites grecques ou romaines rencontrées partout;
les Français n’avaient que la nature naı̈ve et sincère, et s’ingéniaient à l’imiter de leur
mieux.” “Aussi tandis que les peuples de l’Italie, qui demeuraient soumis à la tradition
antique déformée et abı̂mée, se confinent dans la copie plus au moins adroite de néo-grecs
de Byzance, et, de décadence en décadence, aboutissent à Cimabué, les barbares du Nord,
livrés à eoux-mêmes, se cherchent un canon particulier, et prennent un rang individuel et
original.” “Dès avant Cimabué dont les vierges exclusivement orientales, figées et sans
grâce, n’ont d’étonnant que leur conservation, les vieux Français cherchent l’expression de
nature, la vérité.” “[A confronto con] les attitudes mornes, rigides, sans âme, le vieux
Français a voulu exprimer la vie; il a réellement trouvé la note sublime dans un geste, un
imple mouvement d’un naturalisme exquis.”. Cf. E. Castelnuovo, “«Primitifs» e «fin de
siècle»”, in Storia dell’arte e politica culturale intorno al 1900. La fondazione dell’Istituto
Germanico di Storia dell’Arte di Firenze. Per i cento anni dalla fondazione del Kunsthistorisches
Institut in Florenz, Convegno Internazionale, Firenze, 21-24 maggio 1997, a cura di M.
Seidel (Padova, 1999), p. 49.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

rosa perdono la loro funzione narrativa e compongono con il loro


supporto d’oro, proprio come in Matisse, una ‘‘orchestrazione colo-
rata’’; ‘‘questi timbri di smalto, infine, non sono che un accordo nel
coro liturgico, nelle icone, nei costumi, nel ciborio, nelle lampade,
ecc. e figure infine di una danza solenne’’:

‘‘Sur une croix chaque émail et, dans chaque émail chaque surface
cloisonnée ont été sentis et éprouvés à l’échelle de l’œuvre qui les
reçoit. Si elles peuvent encore rappeler la neige d’une robe de colombe
ou l’incarnat d’une joue d’archange, les teintes ne s’en apparient par
moins aux harmonies voisines, assez hardiment transposées pour qu’il
n’y ait dans cette union trace de mésalliance; pour qui cesse de scruter
les médaillons en archéologue, comme on trie des lentilles, les verts,
les rouges, les bleus, les bruns et les roses se délestent de leur fonction
narrative et composent avec les bras d’or, tojours comme chez Ma-
tisse, une «orchestration colorée». Cet timbres des émail enfin ne sont
eux-mëmes qu’un accord dans les chœur liturgique, édifice, iconogra-
phie, costumes, ciboire, lampadaires, etc., et figures enfin de la danse
solennelle’’10.

Ancora nel 1950, gli storici dell’arte italiani non avevano perdo-
nato questi giudizi a Duthuit: nella recensione a Les Fauves, Roberto
Longhi disse che Duthuit ‘‘giace sui vecchi testi fondamentali della
sua cultura, un generico orientalismo, uno specifico bizantinismo
rutilante nel quale è versatissimo’’; del museo immaginario di Du-
thuit resterebbe fuori tutto l’Occidente artistico e, come principale
responsabile, l’Italia11.
Matisse, è noto, si interessò a Bisanzio soprattutto stimolato dalla
amicizia con Prichard e con Thomas B. Whittemore, che stava
riportando alla luce i mosaici di Santa Sofia a Istanbul. Nell’autunno
1911 Matisse visitò la Russia su invito del mercante d’arte e suo
collezionista Sergej Sciukin; entusiasta delle icone russe, le descrisse
come le opere d’arte dove più è rivelato il sentimento mistico, ‘‘uno
dei più interessanti campioni della pittura primitiva’’: ‘‘Da nessuna
parte mai ho visto una tale ricchezza, una tale purezza di colori, una
tale spontaneità di rappresentazione’’:

10
G. Duthuit, Les Fauves. Braque Derain Van Dongen Dufy Friesz Manguin Marquet
Matisse Puy Vlaminck (Genève, 1949), p. 211 (citato anche in Matisse. “La révélation m’est
venue de l’Orient”, Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori, 20 settembre 1997 –
20 gennaio 1998, catalogo della mostra, a cura di C. Duthuit, A. Kostenevich, R. Labrusse,
J. Leymarie [Firenze, 1997], p. 108 n 6).
11
La recensione di Longhi apparve su Paragone 1 (1950), pp. 63-64.
L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA 

‘‘Les Russes ne soupçonnent même pas de quels trésors artistiques ils


disposent. Je connais l’art religieux de plusiers pays, mais nulle part je
n’ai vu une telle révélation du sentiment mystique, parfois même de
l’effroi religieux. (...) Les icônes, quant’à elles, sont un échantillon des
plus intéressants de la peinture primitive. (...) Je n’ai vu nulle part une
telle richesse, une telle pureté des couleurs, une telle spontanéité de la
représentation. C’est le meilleur patrimonie de Moscou. Il faut venir
ici pour s’istruire, car c’est chez les primitifs qu’il convient de chercher
12
l’inspiration’’ .

c. Strzygowski, moderno Attila


Le idee dell’austriaco, nativo della Slesia, Josef Strzygowski sulle
origini orientali e non occidentali di Bisanzio e del Medioevo latino
raccolsero entusiastici seguaci ed irriducibili avversari. Presentazioni
di suoi libri e necrologi (Strzygowski morı̀ nel gennaio del 1941)
concordano nel definirlo lo studioso che più scosse le certezze acqui-
site degli storici dell’arte antica e medievale13. Strzygowski studiò
archeologia classica e storia dell’arte a Vienna, Berlino e Monaco. La
sua tesi dottorale discusse l’iconografia del battesimo di Cristo. Le
sue prime pubblicazioni indagarono l’arte tardoantica, paleocristiana
e bizantina, con approccio filologico e iconografico. Sul Repertorium
für Kunstwissenschaf, sulla Byzantinische Zeitschrift, sulla serie di mo-
nografie a questa collegata del Byzantinische Archiv e su altre riviste
apparvero alla fine dell’Ottocento suoi studi sulla miniatura tardoan-
tica e bizantina: il Calendario del 354, il ciclo bizantino dei mesi, i

12
Il lungo rapporto tra Matisse e l’arte dell’Oriente è ricostruito in A. Kostenevich, “Un
dialogo lungo mezzo secolo: incontri con l’Oriente”, in Matisse. “La révélation m’est venue de
l’Orient”, pp. 23-79; e, nello stesso catalogo G. Duthuit, “Matisse e lo spazio bizantino”,
pp. 322-335. Inoltre: A. Chastel, L’Italie et Byzance, a cura di C. Lorgues-Lapouge (Paris,
1999), pp. 10-12 sulla Bisanzio di Duthuit e Matisse; P. Schneider, Matisse (Paris, 1984;
traduzione italiana, Milano, 1985), pp. 14-25, 155-185; A. G. Kostenevich e N. Semio-
nova, Matisse v Rossii (Moskva, 1993), traduzione francese Matisse et la Russie (Parigi,
1993). Da quest’ultimo, pp. 25-26, è la citazione di Matisse nel testo, tratta da una
intervista al pittore del corrispondente di Rousskié viédomosti, del 27 ottobre 1911.
13
Su Strzygowki vedi: F. W. F. von Bissing, Kunstforschung oder Kunstwissenschaft? Eine
Auseinandersetzung mit der Arbeitweise Josef Strzygowskis, 2 voll. (München, 1950-1951); H.
J. Spross, “Die Naturauffassung bei Alois Riegl und Josef Strzygowski”, Diss., Saarbrücken,
Universität des Saarlandes, Philosophische Fakultät, 1989, pp. 173-189. Il profilo dato nel
testo dipende ampiamente da: A. Kingsley Porter, “Strzygowski in English”, The Arts 7
(1925), pp. 139-140; E. Strong, “L’art romain et ses critiques”, Formes n 8, ottobre 1930,
pp. 2-4; M. S. Dimand, “In memoriam Josef Strzygowski (1862-1941)” Ars Islamica 7
(1940); E. E. Herzfeld, W. R. W. Koehler e C. R. Morey, “Josef Strzygowski”, Speculum 17
(1942), pp. 460-461.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

manoscritti miniati di Cosma Indicopleuste, del Fisiologo e dell’Ot-


tateuco conservati nella Biblioteca della Scuola Evangelica di Smir-
ne14.
Il libro che lo rese celebre fu Orient oder Rom. Beiträge zur
Geschichte der spätantiken und frühchristlichen Kunst del 1901 (figg.
59-60); qui, fino dalla introduzione, Strzygowski contestò la predo-
minanza di Roma sull’arte cristiana dei primi secoli che Wickhoff
aveva enfatizzato nella parte da lui scritta del libro sulla Genesi di
Vienna del 1895. Strzygowski fu cosı̀ il primo a richiamare l’atten-
zione sull’importanza del ruolo avuto dall’arte dell’Oriente nella
formazione dell’arte cristiana, fatto poi accettato da tutti gli studiosi:
l’arte paleocristiana e l’arte medievale, ritenute fino ad allora meta-
morfosi dell’arte romana, furono ripensate come derivazioni dell’arte
orientale. Nel 1920 Strzygowski scrisse che prima di Orient oder Rom
le ricerche sull’arte cristiana avevano creduto di trovarne le origini a
Roma; fino al 1880 l’orizzonte degli storici dell’arte antica non
superava l’Italia e si pensava che le catacombe fossero gli inizi
dell’arte cristiana. Tutto puntava a Roma e l’unico problema era se
la trasformazione dell’arte era dovuta alla decadenza interna della
cultura romana o alla vittoria della barbarità germanica da fuori. Con
Orient oder Rom Alessandria, Antiochia, Efeso vennero in prima fila
nella formazione dell’arte cristiana. La vecchia archeologia con la sua
visione romano-centrica – scrisse in una recensione Arthur Kingsley
Porter – era crollata come un castello di carte: il Mediterraneo
orientale divenne nettamente la moda archeologica e nessuno parlò
più di arte medievale senza connetterla a influssi orientali. Nono-
stante i tentativi di controbattere le sue tesi, la sua reputazione
crebbe velocemente ed i manuali di arte bizantina divennero di fatto
riepiloghi dei suoi scritti: dalle novità da essi introdotte dipesero,
come lo stesso Strzygowski fece notare, i manuali di Diehl, Dalton,

14
J. Strzygowski, “Die Monatscyclen in der byzantinischen Kunst”, Repertorium für
Kunstwissenschaft 11 (1888), pp. 23-46; Der Calenderbilder des Chronographia vom Jahre 354
(Berlin, 1888); Der Bilderkreis des griechischen Physiologus, des Kosmas Indicopleustes und
Oktateuch nach Handschriften der Bibliothek zu Smyrna (Byzantiniches Archiv, 2. Leipzig,
1899), seguito poco dopo da “Der illustrierte Physiologus in Smyrna, Byzantinische Zeit-
schrift 10 (1901), pp. 218-222; “Eine trapezuntische Bilderhandschrift vom Jahre 1346”,
Repertorium für Kunstwissenschaft 13 (1890), pp. 241-63. Gli interessi di Strzygowski per gli
influssi dell’arte bizantina su altre culture lo portarono a pubblicare nel 1906 Die Miniaturen
des serbischen Psalters der Königl. Hof- und Staatsbibliothek in München nach einer belgrader
Kopie ergänzt und im Zusammenhange mit der syrische Bilderredaktion des Psalters untersucht
(Denkschriften der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften in Wien. Philosophisch-
historische Klasse, 52. Wien, 1906).
L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA 

Kauffmann, Toesca, Wulff. Dai suoi contemporanei Strzygowski fu


definito ‘‘il più profetico, il più intuitivo, il più ispirato e il più
sconcertante degli archeologi’’15.
Dopo Orient oder Rom, Strzygowski spostò la sua attenzione
all’arte copta (1904) e soprattutto all’arte dell’Asia con i suoi lavori
sull’Asia Minore come nuova regione della storia dell’arte (1904), su
Mschatta (1904), su Amida (1910) e sull’architettura degli Armeni
(1918). Ulteriori campagne di esplorazione lo convinsero che il
Mediterraneo orientale era stato solo il canale attraverso il quale era
giunta in Occidente l’arte delle regioni interne dell’Asia Minore, in
particolare quella iranica. La sua idea guida divenne quella di una
decisa predominanza dell’arte dell’Iran, il ‘‘cuore dell’Asia’’, sull’arte
delle regioni limitrofe, Cina, India e Mediterraneo. Nel crogiolo
culturale iranico sarebbero stati recepiti i modi artistici dell’Asia
orientale, trasformati e ritrasmessi in specie al mondo ellenistico. La
popolazione iranica, inoltre, fu la seconda grande fonte dell’energia
ariana, che avrebbe unito le sue forze con gli abitanti del Nord e con
le tribù nomadi pastorali per sviluppare lo spirito medievale dell’arte
cristiana; il triangolo Edessa-Amida-Nisibi avrebbe rappresentato per
le nazioni dell’Asia interna (Siria, Armenia, Anatolia, Mesopotamia,
Persia, Iran) quello che il Mediterraneo fu per il mondo greco-
romano. Infine, la Cristianità ariana orientale avrebbe portato attra-
verso l’Armenia i suoi modi artistici al mondo mediterraneo. Tempo
dopo, Strzygowski definı̀ tre zone culturali dell’umanità corrispon-
denti a tre razze distinte: la zona calda meridionale, abitata dalla
razza negra, che non avrebbe contribuito in nulla all’arte, la zona
settentrionale fredda collegata alla cultura dell’Iran, abitata da popoli
di razza ariana, la quale avrebbe fecondato con la sua cultura pura la
zona mediana (mediterranea, dove l’arte era prostituita al servizio di
sovrani e chiesa) dando vita alle arti classica e gotica, vinte poi dal
Rinascimento16.

15
W. Rittel von Hartel e F. Wickhoff, Die Wiener Genesis (Prag – Wien – Leipzig, 1895).
J. Strzygowski, Orient oder Rom. Beiträge zur Geschichte der spätantiken und frühchristlichen
Kunst (Lepzig, 1901), introduzione pp. 1-10; Ursprung der christlichen Kirchenkunst. Neue
Tatsachen und Grundsätze der Kunstforschung (Leipzig, 1920), pp. 4 sgg. La definizione di
Strzygowski come il più profetico archeologo ed altre espressioni nel capoverso sono da
Kingsley Porter, “Strzygowski in English”, pp. 139-140.
16
Per le opere di Strzygowski vedi in bibliografia. Quanto alla dottrina del ‘ritorno al
Nord’ vedi la lettera di Strzygowski a Focillon del 1932 e la risposta di Focillon a
Strzygowski del 1934 entrambe pubblicate in Civilisations. Orient – Occident. Génie du Nord
– Latinité. Lettres de Henri Focillon, Gilbert Murray – Josef Strzygowski – Robindranath Tagore
(Société des Nations, Institut International de Coopération Intellectuelle, 1935).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Le dottrine di Strzygowski corrisposero bene e anticiparono


quelle del Nazionalsocialismo, come scrisse Berenson nel 1941:

‘‘This Attila of art history seems to have had in his last thirty years of
his life the same bitter hatred of all that Mediterranean civilization
implies which inspired the Hunnish barbarian whom his Christian
contemporaries called ‘the scourge of God’. He ended by persuading
his followers that nothing good could come from the Aegean and from
the South. Only in the North was there art, and that art was Aryan and
Germanic, owing nothing to races tainted with Negroid blood as were
Greeks and Semites. So with Professor Strzygowski racialism began to
preach its anti-humanistic Gospel, long before the word ’Nazism’ was
as much as imagined, and while its chiefs were still children’’17.

Autori italiani, comunque, emularono le sue dottrine razziste,


rovesciandole contro semiti e ‘‘semiasiatici’’ (classificazione che
comprendeva bizantini e orientali) nel periodo di gestazione e in
quello successivo all’emanazione delle leggi razziali del 1938 (vedi
Capitolo 9, paragrafo e). La tesi di Strzygowski del distacco da Roma
(la sua scuola archeologica fu chiamata del ‘‘Los von Rom’’), ne-
gando importanza formativa all’arte romana, fece di lui la bestia nera
degli studiosi italiani della prima metà del Novecento. Nel 1915
Giuseppe Galassi, uno degli studiosi italiani anti-Strzygowski, notò
che l’‘‘amletico dilemma dello Strzygowski Orient oder Rom’’ era
‘‘gravido di minaccia per la romanità’’. Delle tesi di Strzygowski fu
data a volte una versione edulcorata e accettabile in Italia, con parità
di ruoli tra Roma e l’Oriente nella formazione dell’arte bizantina: nel
1912 Colasanti, nella introduzione al suo album di fotografie di
opere bizantine in Italia, propose di mutare la domanda ‘‘Orient oder
Rom?’’ (il punto interrogativo è una aggiunta di Colasanti) nella
affermazione ‘‘Roma e Oriente’’. Soprattutto con il nazionalismo
culturale tra le due guerre mondiali negare validità alle tesi strzygow-

17
B. Berenson, Aestethics, Ethics and History in the Arts of Visual Representation (London,
1948), introduzione datata 1941, pp. 25-26; qui sotto la traduzione italiana:
“Questo Attila della storia dell’arte sembra aver avuto negli ultimi trenta anni della sua
vita lo stesso odio amaro di tutto ciò che la civiltà mediterranea implica che ispirò il barbaro
unno che i suoi contemporanei chiamarono ‘il flagello di Dio’. Egli finı̀ col persuadere i suoi
seguaci che niente di buono poteva giungere dall’Egeo e dal Sud. Solamente nel Nord c’era
arte, e quell’arte era ariana e germanica, senza debiti a razze contaminate con sangue
negroide, come i Greci e i Semiti. Cosı̀, col professor Strzygowski il razzismo cominciò a
predicare il suo vangelo antiumanistico, molto prima che la parola ‘Nazismo’ fosse nem-
meno immaginata, e mentre i suoi capi erano ancora bambini.”
L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA 

skiane divenne imperativo negli scritti italiani sull’arte romana e


medievale (vedi Capitolo 6, paragrafo c)18.

d. Bisanzio futurista e cubista


Ancora negli anni immediatamente precedenti e seguenti la guerra
1914-1918 l’atteggiamento in Italia verso l’arte bizantina non era
sfavorevole, nonostante l’idea di decadenza e corruzione di Bisanzio
divenuta luogo comune. Gli anni ‘bizantini’ di fine Ottocento furono
anzi ricordati in testimonianze di scrittori dell’epoca come periodo di
passione, spensieratezza e libertà morale e artistica rispetto al gri-
giume dominante dal secondo decennio del Novecento19. Come visto
prima, Soffici, uno dei più drastici antagonisti dell’arte filobizantina
negli anni decisivi del primo dopoguerra, criticando la Teodora
dipinta da Chini nella cupola della Biennale con la rappresentazione
di Bisanzio, sostenne che essa non rifletteva la ‘‘solennità e l’incanto
della divinissima arte di Bisanzio’’, che ha prodotto ‘‘capolavori
eterni, impregnati di realità e di spiritualità – di poesia entusiasmante
come la faccia del sole’’ (vedi Capitolo 2, paragrafo b). Nel 1911,
alla Esposizione Internazionale di Belle Arti a Valle Giulia a Roma,
allestita per celebrare il cinquantenario dell’unità d’Italia, i padiglioni
stranieri che riscossero più successo furono quello germanico e

18
G. Galassi, “Scultura romana e bizantina a Ravenna”, L’arte 18 (1915), p. 29. Sul ‘Los
von Rom’ e le apprensioni che suscitava vedi S. Muratori, “Il «Los von Rom» e l’arte
bizantina”, Felix Ravenna, n. s., 3, gennaio-aprile 1932, pp. 44-49. A. Colasanti, L’arte
bizantina in Italia, prefazione di C. Ricci (Milano, 1912). Un riassunto della questione
Strzygowski si trova in C. Cecchelli, “Le varie teorie sulle origini dell’arte bizantina”, 1,
“Oriente o Roma?”, 2, “Oriente, o Bisanzio?”, in Corsi di Cultura sull’Arte Ravennate e
Bizantina, Università degli Studi di Bologna, Ravenna, 31 marzo – 13 aprile 1957 (Ra-
venna, 1957), pp. 51-52, 53-55.
19
S. Slataper, “Quando Roma era bizantina”, La Voce 3 (1911), pp. 552-553, ristampato
in S. S., Scritti letterari e critici raccolti da G. Stuparich (Roma, 1920), pp. 158-171 e in
particolare la testimonianza riportata alle pp. 161-162:
“Oggi [1910] si accenna spesso con ammirazione e invidia all’epoca bizantina. Par epoca
d’arte, di passione, di libertà, di ricchezza, di spensieratezza in contrapposto storico alla
nostra che si raccoglie severamente per povertà, ed è critica, frigida, logica, vigile, bronto-
lona. Dicono. E si sdraiano sul deserto divano e sognano: – Cavalcavano allora! Uno se
n’andava per diporto al mare; c’era il plenilunio; montava in barca ed eccolo, senza neanche
una camicia di ricambio, in Sardegna. E s’amava! il braccio sinistro intorno alla colma Lalla
agreste, l’altro fra i capelli o sotto le gonne della nobildonna romana Livia. E intanto, agli
scocchi dei raddoppiati baci, si poetava. Si beveva vino rosso, e non caffè. Sommaruga
pagava. Eran tempi di Saturno, di Venere e di Plutone.”.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

soprattutto quello austriaco grazie alla presenza di alcune tra le più


famose opere di Klimt, in molto debitrici dell’arte bizantina, il quale
era già stato presentato con grande successo alla Biennale di Venezia
del 191020.
Umberto Boccioni, in uno schema riassuntivo dell’evoluzione
dell’arte in un breve articolo pubblicato su Lacerba del 1913 col
titolo ‘‘Sillabario pittorico’’, suddivise il cammino dell’arte in tre
grandi periodi che avrebbero precorso la ‘‘astrazione plastica futuri-
sta’’: la ‘‘astrazione plastica greca’’, con ‘‘l’esterno fisico centro
dell’universo’’, suddivisa in quattro fasi dagli Egizi all’arte bizantina,
che ne rappresenterebbe lo stadio ultimo; la ‘‘astrazione plastica
cristiana’’, con il ‘‘passaggio dall’esterno all’interno’’, con quattro
stadi, dagli inizi nell’arte romana e bizantina ai Gotici, a Michelan-
gelo, ai Veneziani, allo stadio ultimo con Rembrandt; la ‘‘astrazione
plastica naturalista’’, con la ‘‘esteriorizzazione dell’interno’’, da Rem-
brandt al cubismo. I futuristi (Boccioni, Russolo, Carrà, Severini,
Balla, Soffici), sintetizzarono nella loro arte le coppie antagoniste
colore e forma, sensazione ed intelletto, della pittura moderna (dove
colore e sensazione sono rappresentati da impressionisti, divisionisti
e Matisse, e forma e intelletto da Cézanne, Degas, Gauguin, Van
Gogh, Picasso, Braque e i cubisti)21.
La stessa contrapposizione tra plasticismo e colorismo – un luogo
comune delle discussioni postbelliche su arte romana e arte bizantina
– fu proposta da Galassi in un curioso articolo sulla scultura del
basso Impero nel 1915, nel quale la scultura tardoantica e bizantina
è letta in termini cubisti e descritta con termini e stile di scrittura
futuristi. In particolare, la lettura attualizzata è condotta su un
gruppo di teste del VI secolo (figg. 61-62); le piccole riproduzioni
fotografiche fanno apparire quasi novecentesche (cubiste) le teste,
che sono descritte con le espressioni ‘‘materia organica disfatta che
ha compiuto la rielaborazione organica’’ ‘‘senza moto e senza vita’’,
‘‘atomi liberi dall’energia vitale assestatisi nelle armonie metriche di
cristalli’’, ‘‘sfere dei volti, precisione di curve, raccordi che addolci-
scono l’acutezza delle congiunzioni’’, ‘‘tubi che rientrano gli uni
negli altri, sfere ed anelli che intercidono a vicenda’’. Una testa
femminile, conservata al Civico Museo d’Arte Antica al Castello

20
G. Piantoni, “Nell’ideale città dell’arte”, in Roma 1911, Roma, Galleria d’Arte Mo-
derna, Valle Giulia, 4 giugno – 15 luglio 1980, catalogo della mostra, a cura di G. P.
(Roma, 1980), pp. 77, 80-81.
21
U. Boccioni, “Per l’ignoranza italiana. Sillabario pittorico”, Lacerba 1 (1913), p. 179.
L’APOGEO DI BISANZIO E L’ASSALTO ALL’ARTE ITALIANA 

Sforzesco di Milano, considerata un ritratto di Teodora seguendo


Diehl (una identificazione accettata anche dalla critica recente, per la
quale la testa è databile agli anni 530-540), è cosı̀ descritta:

‘‘Altissima la mitra bicorne, lunghissimo il viso incassato della impera-


trice Teodora, nel ritratto del Museo Archeologico di Milano: angusto
cono rovescio che si addentra in un cono grandioso svettato, ricinto
alla base come da lingue assiderate, ripetute intorno con matematica
uguaglianza. Due calotte sfuggono dietro e lasciano immaginare una
moltiplicazione nascosta di globi. Non un moto, non un brivido, non
un segno di vita: materia rigida e inerte, freddo impero della norma
geometrica’’22.

22
G. Galassi, “Dall’antico Egitto ai Bassi Tempi (A proposito di un monumento artistico
del sec. VI)”, L’Arte 18 (1915), pp. 286-295, 321-342; le citazioni sono da pp. 286-288; la
testa di Teodora a Milano è descritta a p. 289 e riprodotta alla fig. 5. Galassi aveva
pubblicato sullo stesso fascicolo de L’arte “Scultura romana e bizantina a Ravenna”, pp.
29-57. Per la testa del Castello Sforzesco vedi ora Age of Spirituality: Late Antique and Early
Christian Art, Third to Seventh Century, New York, Metropolitan Museum of Art, Novembre
1977 – Febbraio 1978, catalogo della mostra, a cura di K. Weitzmann (New York, 1979), n
27 p. 33.
6

LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA

Lo scoppio della guerra contro Germania e Austria, il nazionalismo e


l’antagonismo con la Francia negli anni successivi all’armistizio ed al
trattato di pace di Versailles travolgono le aperture verso l’apprezza-
mento e lo studio dell’arte di Bisanzio i cui semi erano stati gettati
nei primi anni del Novecento. Stare al passo della bizantinistica
internazionale significava ammettere la bontà delle ricerche contenu-
tistiche impostate sulla filologia germanica, della quale si erano
nutriti gli studi bizantini; attribuire importanza e apprezzare l’arte
bizantina significava essere additato come antipatriottico e filofran-
cese. Le indagini filologiche vennero giudicate pedanti e saccenti,
inutili ai fini dell’apprezzamento del valore dell’opera d’arte, compito
primo della critica. L’estetica crociana provvide i presupposti ideali
per l’estromissione dalle fila degli storici dell’arte degli studiosi di
iconografia, che si occupano del contenuto delle rappresentazioni
1
artistiche e astraggono da forma ed espressione . Con poche ecce-
zioni di grande prestigio, i critici italiani di Bisanzio, artisti e storici
dell’arte, avevano una conoscenza dell’arte bizantina approssimativa,
limitata quasi ai soli mosaici ravennati del tempo di Giustiniano e
pregiudicata dai luoghi comuni vasariani e ottocenteschi: bello in
arte è ciò che è naturalistico e plastico e tali sono le opere della
classicità e del Rinascimento; la bellezza non si trova, invece, nel-
l’arte bizantina, i cui valori sarebbero dati piuttosto da astrazione,

1
Per la sentenza sugli iconografi non storici dell’arte vedi R. Longhi, Recensione a A.
Muñoz, “La scultura barocca a Roma: Iconografia – Rapporti col teatro”, Rassegna d’Arte,
ottobre 1916, L’Arte 1917, pp. 60-61. Per la critica di Croce alle interpretazioni contenuti-
stiche degli storici dell’arte vedi, ad esempio, La critica e la storia delle arti figurative.
Questioni di metodo (Bari, 1934), p. 8.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

cromatismo, linearismo. Di un’arte bizantina espressiva e delle sue


varie rinascenza classiche non si conosceva pressoché nulla.
L’allineamento degli studi sugli orientamenti ideologici del fasci-
smo produsse una demonizzazione acritica di Bisanzio, vista come
l’anti-Roma dell’antichità; mentre Parigi fu definita la nuova Bisan-
zio artistica, la moderna anti-Roma. Le teorie artistiche dell’impres-
sionismo e delle avanguardie novecentesche contenevano una espli-
cita svalutazione dell’arte accademica, classica e italiana. La contesa
per il primato artistico tra Italia e Francia fu il riflesso nella cultura
del conflitto nazionalistico tra l’Italia fascista, che cercava una affer-
mazione internazionale come grande potenza, e la Francia democra-
tica sua antagonista. In Italia, questo periodo di reazione antifrancese
in arte si svolse parallelo al periodo della repressione antioperaia, del
ritorno all’’ordine e del colpo di stato fascista e faceva parte del clima
generale di vittoria mutilata degli anni successivi alla pace di Versail-
les e all’impresa di Fiume. La contesa artistica con la Francia ebbe
tre campi principali di battaglia, tutti coinvolgenti Bisanzio: le origini
romane o bizantine dell’arte cristiana e medievale nei termini propo-
sti da Strzygowski; le origini italiane o bizantine dell’arte del Due-
cento e di Giotto; la superiorità del plasticismo virile dell’arte ro-
mana e dell’arte contemporanea italiana o del cromatismo sensuale
dell’arte bizantina e dell’arte contemporanea francese.

a. La reazione antigermanica e antifrancese


La reazione italiana alle tesi di Strzygowski fu preceduta dalla rea-
zione al primato germanico negli studi durante gli anni della grande
guerra. In un pamphlet nazionalistico intitolato L’Italia e la civiltà
tedesca del 1915, Ojetti lamentò il poco patriottismo della subordina-
zione culturale degli studi alle metodologie germaniche:

‘‘Quasi tutti i popoli d’Europa sono in piedi, coperti d’arme e di


sangue, tesi a difendere o a riconquistare con uno sforzo supremo i
loro confini politici e forse a raggiungere i loro confini etnici o naturali.
È lecito a noi italiani definire almeno i confini ideali dell’arte nostra e
della nostra civiltà?’’.

Dunque, dopo l’invasione del romanticismo tedesco e la reazione


classica ‘‘calda, franca e convinta’’ è il momento di respingere le altre
mode filogermaniche: persino i classici latini ed il greco vengono fatti
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

imparare sulle edizioni e le grammatiche tedesche (tipo Curtius).


Seguendo i colleghi tedeschi, i professori universitari espongono, non
giudicano, gli scolari credono inutile e pericoloso il giudizio, cioè il
gusto, l’arte è un documento non opera dello spirito:

‘‘Anzi, spesso odiano l’arte, stanchi, ché nessuno ha mai detto loro che
una poesia o un quadro sono individui vivi, prossimo loro, spirito del
loro spirito. L’arte è tutt’al più un documento, e i documenti sono
un’opportuna materia di tesi. Testi senza errori, bibliografie senza
lacune, monografie senza divagazioni: ecco le norme. (...) L’università
italiana è oggi una colonia tedesca.’’2.

Gli intellettuali più legati alla cultura tedesca, come Benedetto


Croce, Gaetano De Sanctis e Giorgio Pasquali, non seguirono Ojetti
e gli altri né nell’interventismo né nelle forme antigermaniche del
nazionalismo culturale postbellico. Reazioni alle indagini filologiche
delle opere d’arte non erano comunque una novità di Ojetti3. Soffici,
pure definito da Croce ‘‘in fondo, un bravo giovane, facile all’entu-
siasmo e al controentusiasmo’’, è esempio di sciovinismo e protoraz-
zismo; in ‘‘Relativismo e politica’’ del 1922 mette in guardia dal
‘‘subdolo lavorio che si sta facendo dall’armistizio in qua presso di
noi ed in alcuni paesi stranieri, da sedicenti letterati ed artisti per
ricondurre in onore teorie e forme letterarie e pittoriche di pura
derivazione germanica’’; una offensiva filosofica complementare alla
palese offensiva industriale, della quale la punta sarebbe rappresen-
tata dall’introduzione e diffusione rapida della ‘‘dottrina del relativi-
smo, fondata da un gruppo di tedeschi e d’ebrei, o d’ebrei tedeschi,

2
U. Ojetti, L’Italia e la civiltà tedesca (Milano, 1915); i brani riportati sono alle pp. 5 e
25.
3
Su Paquali e De Sanctis vedi G. Mastromarco, “Il neutralismo di Pasquali e De
Sanctis”, in Matrici culturali del fascismo (Bari, 1977), pp. 125-141. Sulle posizioni degli
intellettuali, soprattutto degli antichisti, negli anni prima e durante la grande guerra e nel
periodo del fascismo: M. Pavan, “Gli antichisti e l’intervento dell’Italia nella prima guerra
mondiale”, Rassegna Storica del Risorgimento 51 (1964), pp. 71-78; L. Canfora, “Classicismo
e fascismo”, in Matrici culturali del fascismo, pp. 85-111; M. Cagnetta, Antichisti e impero
fascista (Bari, 1979). Un’altra reazione alla filologia germanica nella critica d’arte è in P.
Mastri, “Le due critiche”, Il Marzocco 1, n 14 (3 maggio 1896), p. 1, citato da E. Garin, La
cultura italiana tra ‘800 e ‘900 (Bari, 1962):
“La vera indiscutibile superiorità della critica soggettiva [sulla critica oggettiva o storica] è
data da un’altra differenza anche più sostanziale – questa: che essa è immensamente più
sincera, quindi più sicura. Il critico che si limita a descrivere se stesso in contatto con
l’opera d’arte è molto meno soggetto ad errori, per la ragione che noi siamo molto più sicuri
delle nostre impressioni che non dei nostri giudizi.”.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

con a capo Einstein’’4. Ancora nel 1921, tuttavia, Londra, Parigi e


Vienna erano considerate le città dalle quali dipende l’arte italiana
contemporanea, la capitale austriaca soprattutto per via di Klimt.
Pochi anni prima della guerra, anche il primato parigino era stato
messo in discussione dagli artisti italiani, in primo luogo da Marinetti
e futuristi, Carrà e Soffici; Boccioni ammetteva invece il disprezzo
con cui si parlava dell’arte italiana all’estero:

‘‘Da troppo tempo l’Europa si rifiuta di considerarci come contempo-


ranei. Confessiamo il disprezzo con cui si parla dell’arte italiana
all’estero. Quattro secoli di oscurità politica ed estetica ci hanno reso
completamente estranei ad ogni evoluzione artistica.’’5.

Avversione per la Francia e per i movimenti artistici prodotti da


Parigi, nuova Babilonia, nuova Babele, moderna Bisanzio, fu provata
da Carrà subito dopo la fine della guerra:

‘‘Dall’altra parte, lasciando da parte ogni altro discorso, riteniamo che,


per quanto riguarda i suddetti attributi [dolcezza, soavità e profondità
di costruzione], l’ideologia francese e quella germanica abbiano non
poco abusato putrefacendosi, la prima nel «joli», che si potrebbe
definire la degenerazione della grazia, e l’altra nella mania di fare
profondo – cose del resto comuni anche agli artisti italiani. (...)
Non occorre dilungarsi sui contrasti di gusto che esistono fra noi e i
francesi, ancorché ci potesse sembrare giusta la calata dei Fauves e
degli altri ottentotti di Montmartre, ma non possiamo non riconoscere

4
A. Soffici, “Relativismo e politica”, Gerarchia 1 n 1 (1922), p. 29. Per il giudizio di
Croce su Soffici, vedi La critica e la storia delle arti figurative, pp. 164-166.
5
A. Maraini, “Influenze straniere sull’arte italiana d’oggi”, Bollettino d’Arte del Ministero
della Pubblica Istruzione 1 (1921-1922), pp. 511-527. Della relativamente ricca bibliografia
su questo periodo artistico vedi: C. Maltese, Storia dell’arte in Italia 1785-1943 (Torino,
1960), Parte III, pp. 319 sgg. ; R. Bossaglia, Il Novecento Italiano. Storia, documenti,
iconografia (Milano, 1979. 2a ediz., Milano, 1995); P. Fossati, “Pittura e scultura fra le due
guerre”, in Storia dell’arte italiana, Parte seconda, Dal Medioevo al Novecento, 3, Il Novecento
(Torino, 1979), pp. 173-259 e “Intorno al 1920”, Prospettiva nn 57-60 (aprile 1989 –
ottobre 1990), pp. 468-484; i saggi che accompagnano il catalogo della mostra Il futuro alle
spalle. Italia Francia – L’arte tra le due guerre, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 22 aprile – 22
giugno 1998, a cura di Federica Pirani (Roma, 1998) e in particolare M. G. Messina,
“Valori plastici, il confronto con la Francia e la questione dell’arcaismo nel primo dopo-
guerra”, pp. 19-25; inoltre: G. Armellini, “Fascismo e pittura italiana. I: Carrà, Sironi,
Rosai”, Paragone 23, n 271 (settembre 1972), pp. 51-68; E. Pontiggia, “L’idea del classico.
Il dibattito sulla classicità tra pittori, critici e riviste”, in L’idea del classico 1916 – 1932,
Milano, Padiglione d’arte contemporanea, 8 ottobre – 31 dicembre 1992, catalogo della
mostra (Milano, 1992), pp. 9-43, spec. pp. 10-11; F. Tempesti, Arte dell’Italia fascista
(Milano, 1976), pp. 11-28. La citazione di Boccioni è da “Per l’ignoranza italiana.
Sillabario pittorico”, p. 179.
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

che opinioni mal fondate trovano sempre grande seguito nella Bisanzio
moderna, per cui addimostrano soverchia ingenuità coloro che da noi
continuano a dare importanza a certi movimenti che colà sorgono
periodicamente per ragioni mercantili.’’6.

Questa avversione per Parigi e l’affermazione che l’arte francese


era ormai in decadenza divenne un topos tra gli italiani, tanto che
Bruno Corra, un futurista, scrisse controcorrente nel 1918 che

‘‘Esiste uno schema fatto, indubbiamente noto ad ogni lettore di gior-


nali, per un articolo sulla Francia. Parte prima: descrizione di Parigi,
città dissoluta e babelica; (...); parte quarta: Parigi non è che un
7
prodotto della corruzione internazionale (...).’’ .

Dopo l’iniziale innamoramento per la pittura francese, Soffici si


unı̀ al gruppo dei più accaniti e rozzi critici della Francia contempo-
ranea. Il suo Periplo dell’arte. Richiamo all’ordine, del 1928, ha un
capitolo sul ‘‘Decadimento dell’arte francese’’:

‘‘la Francia, custoditrice gelosa per tutto il XIX secolo della immortale
fiamma del genio latino, per non avere, come è detto, saputo poi
attenersi alla propria essenza spirituale, trovasi ad essere in piena
soggezione di una forza nemica. (...) Invasa da intere legioni di pittori
metechi-tedeschi, scandinavi, svizzeri, russi, polacchi, balcanici, ar-
meni, americani, giapponesi, affricani, in gran parte ebrei, dominata
dal ciarlatanismo universale, percorsa da tutte le correnti dell’errore
barbarico, come un paese di conquista fatto crogiolo per le esperienze
più stolide e disperate, essa non ci presenta ormai se non lo spettacolo
8
di una piena e totale decadenza creativa.’’ .

6
C. Carrà, “L’arte parigina. Rousseau, Matisse, Derain”, La ronda 1, n 7 (novembre
1919), p. 86. Vedi anche la lettera di Carrà a Soffici del 7 febbraio del 1918 (“La lettera che
ti avevo scritto voleva appunto affermare il nostro bisogno di italianità. Abbasso il cosmopo-
litismo artistico! abbasso il mal francioso! (...) Abbasso i giovani alla francese con tutte le
loro imbecillità provinciali!.”) e quella di Soffici a Carrà del 6 dicembre successivo (“La
Francia, incomprensibilmente per me, si comporta malissimo verso l’Italia (che l’ha salvata)
in questo momento. Avrai saputo qualcosa circa alle loro trame con i serbi per crearci dei
pasticci e darci dei gatti a pelare.”), pubblicate in C. Carra e A. Soffici, Lettere 1913 / 1929,
a cura di M. Carrà e V. Fagone (Milano, 1983), pp. 110 e 122 rispettivamente.
7
Corra elencò poi le dissolutezze di Parigi nella critica dei moralisti e ben pensanti e
passò alle lodi della città: B. Corra, Per l’arte nuova della nuova Italia (Milano, 1918),
citazione da p. 105. Tra i critici della Francia è anche A. Savinio, “Fini dell’arte”, Valori
plastici 1, nn 6-10 (giugno-ottobre 1919), pp. 17-21.
8
Soffici, Periplo dell’arte, pp. 27-33; brani nel testo da pp. 32-33.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

In Ritratto delle cose di Francia, del 1934, Soffici ripeté nei con-
fronti dei Francesi l’accusa di popolo bastardo (qui i metechi francesi
sono ‘‘l’ebreo levantino, il pellirossa, il cafro’’, oltre a vari popoli
europei); ossessionato dal dimostrare la decadenza morale dei Fran-
cesi dopo la guerra, Soffici li definı̀ freddi, crudeli, brutali, corrotti,
maneschi, crapuloni. Più capitoli sono dedicati agli omosessuali, alle
prostitute, ‘‘insensibili ed utilitaristiche’’, ed alle donne in genere,
che, perverse eroticamente, praticano il tribadismo, abusano di afro-
disiaci e stupefacenti; abbondano le coppie lesbiche, le eteromani, le
fumatrici d’oppio e la mangiatrici d’haschisch; le donne usano anche
la coca; mentre tra gli uomini ‘‘sono legione i pederasti, i sodomiti’’.
Un capitolo è poi dedicato alla ‘‘Trafila del meretricio’’, un altro allo
‘‘Sfruttamento del meretricio’’. In conclusione, ‘‘quel che di meglio
realizza l’arte francese non è una pura espressione del genio nazio-
nale, sibbene il riflesso, il prodotto dello studio (sagacissimo, intelli-
gentissimo, fecondissimo, invero) delle manifestazioni del genio stra-
niero’’, come si può vedere in David, Delacroix, Daumier, Cézanne,
Degas, Rodin, tutta gente d’ispirazione aliena e remota dalla naturale
francese (e tutti artisti non della generazione contemporanea)9.

b. La definizione di un’arte nazionale


L’avvento del fascismo portò al trionfo il nazionalismo culturale. Il
‘‘Convegno per le istituzioni fasciste di cultura’’ o ‘‘Convegno per la
Cultura Fascista’’ di Bologna, del 27-30 marzo 1925, fu presieduto
da Giovanni Gentile ed ebbe interventi dell’archeologo Giulio Qui-
rino Giglioli (‘‘Sviluppi e tendenze delle ricerche in relazione alle
finalità storiche e nazionali del Fascismo’’), della giornalista e critica
d’arte Margherita Sarfatti, fascista della prim’ora e futura autrice
10
della popolare biografia di Mussolini Dux , (‘‘L’arte nell’economia

9
A. Soffici, Ritratto delle cose di Francia (Roma, 1934-XII), p. 103:
“Al francese di Francia si mescola cosı̀ nel crogiuolo parigino, oltre che il russo, il
tedesco, l’inglese, l’italiano, lo spagnuolo, ecc., l’immigrato dall’estremo Oriente, dall’Ame-
rica del Nord e del Sud, dalla Patagonia, l’ebreo levantino, il pellirossa, il cafro, genı̀a
composita che l’ospite battezza col nome spregiativo di metechi senza peraltro evitarne la
contaminazione, e magari l’ascendente”. Le altre citazioni nel testo sono dalle pp. 11 e 93. I
capitoli “Trafila del meretricio” e “Sfruttamento del meretricio” sono alle pp. 67-71 e
72-78 rispettivamente.
10
M. Sarfatti, Dux (Milano, 1926). Sulla Sarfatti: R. Lambarelli, “Margherita Sarfatti e
la supremazia dell’arte italiana”, in Il futuro alle spalle, pp. 71-74; Da Boccioni a Sironi: il
mondo di Margherita Sarfatti, Brescia, Palazzo Martinengo, 13 luglio – 12 ottobre 1997,
catalogo della mostra, a cura di E. Pontiggia (Milano, 1997).
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

nazionale’’), di Ardengo Soffici (‘‘Il fascismo e l’avvenire dell’arte’’),


di Giuseppe Bottai, il futuro ministro fascista (‘‘Sulla funzione e
finalità dei centri nazionali di cultura’’), di Filippo Tommaso Mari-
netti (che propose la creazione di un sistema di credito finanziario
per gli artisti), di Ojetti e del grecista Ettore Romagnoli, personaggi
la maggior parte dei quali parteciparono alla polemica su Bisanzio e
Roma degli anni Venti e Trenta. Tra gli studiosi che aderirono al
convegno furono Pericle Ducati, Lionello Venturi e Gioacchino
Volpe; aderı̀ anche Giovanni Treccani il futuro patrono della Enciclo-
pedia Italiana.
Varie adesioni di antichisti e storici dell’arte ebbe il ‘‘Manifesto
degli intellettuali fascisti’’ che uscı̀ dal convegno. Molti più intellet-
tuali e maggiormente titolati, come riconobbe la stessa stampa filofa-
scista, seguirono invece Croce e aderirono al ‘‘Manifesto degli intel-
lettuali antifascisti’’ da lui promosso, che fu pubblicato su Il Mondo il
primo maggio 1925; tra questi figurarono Pasquali ed Emilio Cec-
11
chi . Per il suo neutralismo, antifascismo e germanofilia, Croce
divenne uno dei bersagli preferiti degli artisti nazionalistici; in questa
denigrazione Marinetti si distinse per epiteti villani, quali ‘‘stonato
filofesso e germanofilo’’:

‘‘Benedetto Croce fu neutralista e germanofilo, consacrò dei pomposi


articoli inutili a Goethe, mentre noi ci battevamo al fronte contro i
tedeschi. Fu e rimane lo stonato filofesso senza fiuto carico di libri e
povero d’idee.’’12.

Lo stesso Marinetti, tuttavia, che cercava di porre il futurismo


come arte del fascismo fu a sua volta ripetutamente contestato e
ingiuriato dagli artisti fascisti: Marinetti ‘‘faceva colazione a Milano
ma cenava a Parigi’’; la svolta italiana non era certo iniziata col
‘‘parolibero futurista’’, ma con l’impresa libica, con la ‘‘marcia dei
bersaglieri verso la morte gloriosa di Sciara Sciat’’; l’Europa invidiò e
insidiò allora l’Italia:

11
Gli elenchi delle adesioni al Convegno di Bologna e al Manifesto crociano sono in E.
R. Papa, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura italiana, con un saggio di F. Flora
(Milano, 1958), pp. 45-47 e 97, rispettivamente.
12
Marinetti et alii, Arte fascista. Elementi per la battaglia artistica (Torino [dopo il 1927]),
sopratutto pp. 13-15. Lo stesso scritto apparve col titolo “L’arte fascista sarà futurismo più
o meno audace”, L’arte fascista 2 (1927), pp. 5-6.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

‘‘Il fascismo nell’Uomo che lo ha plasmato – puro spirito umanistico,


quasi dalla rinascita trasferito ai nostri giorni – (...) è classicismo, l’arte
nuova non sarà che classica.’’.
‘‘Il Fascismo è ordine, chiarezza, forza e virilità. L’arte futurista è
13
disordine, oscurità espressiva, quindi debolezza, femminilità.’’ .

Nell’ideale di un’arte fascista nuova, classica e virile, antifemmi-


nile, la Bisanzio di Teodora e Basiliola diveniva uno dei nemici
naturali. Il convegno fascista, tuttavia, non produsse che alcune
indicazioni generiche di rivalsa nazionalistica nella cultura, nono-
stante la stampa fascista lo propagandasse come ‘‘solenne afferma-
zione di fede e di intellettualità’’ e usasse titoli promettenti e retorici,
quali ‘‘Tempus edificandi’’, per i resoconti. Lo stesso Mussolini nel
telegramma inviato al convegno si augurava semplicemente che l’ini-
ziativa smentisse ‘‘in pieno e per sempre la stolta leggenda di una
pretesa incompatibilità fra intelligenza e Fascismo’’. Gentile ri-
chiamò i fascisti alla consapevolezza della forza e della necessità della
patria in tutti i campi della cultura. Fu promessa una enciclopedia
italiana che soppiantasse il primato del Larousse francese. Emilio
Bodrero, storico della filosofia e deputato fascista, lamentò che nel
passato fosse stata scritta e insegnata una storia che abbassava se non
addirittura denigrava la romanità:

‘‘La nostra alta cultura alla vigilia della guerra’’ – come documentato,
fu detto, da un libro memorabile di Romagnoli – ‘‘non è altro che un
pallido riflesso della «kultur» germanica, la quale era essenzialmente
nazionalistica e imperialistica e contribuı̀ non poco a stringere il
popolo tedesco intorno alle bandiere della Patria e a rafforzare in Italia
il movimento neutralista e germanofilo. (...) Bisogna dunque fascistiz-
zare la cultura, cioè nazionalizzarla, cioè sottrarla alle influenze e alle
14
sudditanze straniere.’’ .

Come simbolo di vergogna nazionale, Giglioli, allora rettore


dell’Università di Pisa, ricordò la tristissima condizione di avere il
catalogo dei musei capitolini affidato a un inglese e quello dei musei
vaticani a dei tedeschi, quando gli studiosi italiani non mancano:

13
Le frasi, due fra molte simili pubblicate in questo periodo, sono tratte da G. Manzella
Frontini, “L’arte fascista non sarà l’arte futurista”, L’arte fascista 1 (1926), pp. 116-117, e
C. Bonavia, “Padri del fascismo”, L’arte fascista 1 (1926), pp. 76-77.
14
Il telegramma di Mussolini, le adesioni, i resoconti dei discorsi e dei lavori del
convegno si trovano in forma estesa in Il Popolo d’Italia del 29 e 31 marzo e La Nazione del
2 aprile 1925.
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

Romagnoli, ad esempio, ‘‘uno dei più insigni rappresentanti che


onora questo congresso’’.
Al Convegno di Bologna seguirono i primi passi del fascismo nel
campo della cultura, la fondazione dell’Istituto Nazionale di Cultura
Fascista nel 1925, della Accademia Italiana, dell’Opera Nazionale
Balilla e della rivista Critica fascista nel 192615. In questo stesso anno,
Mussolini lodò la nuova arte italiana che appariva dalla Mostra del
Novecento a Milano nel suo discorso inaugurale riferito su Il Popolo
d’Italia del 16 febbraio (‘‘Il segno degli eventi c’è. Basta saperlo
trovare’’). Il Popolo d’Italia riportò poi anche la ottimistica nota
editoriale del filofascista Il Tevere dello stesso giorno:

‘‘(...) Ma è proprio vero che traccia non vi sia di Fascismo nella vita
artistica nazionale? (...) Ma questo ritorno alla classicità questo sforzo
verso un linguaggio italiano, questa nausea della moda forestiera e
tutte le crisi che abbiamo visto vivere e gli esami di coscienza che
artisti maturi hanno compiuto strappandosi poi di dosso ricchissime
esperienze per ridursi poveri e semplici, non è questo Fascismo,
almeno Fascismo come noi lo intendiamo? Se non altro per la volontà
di essere italiani, esclusivamente italiani, a costo di apparire provin-
ciali, il che ieri era colpa da far arrossire una statua.’’16.

Una definizione dei principi di un’arte fascista fu tentata ancora


da Soffici nel già citato Periplo dell’arte, che ebbe due edizioni nello
stesso anno (1928), la seconda raddoppiata di pagine. Nel capitolo
‘‘Arte fascista’’ Soffici propose un decalogo che contenesse ‘‘i prin-
cipi fondamentali, sostanziali e i caratteri spirituali propri di questo
grandioso moto spirituale che si chiama Fascismo’’; basterà per
individuarli ‘‘riferirsi ai discorsi ed alle norme fondamentali del
Duce, i quali e le quali insomma costituiscono i testi e le genuine
espressioni della dottrina fascista’’, che sono: la realtà imprescindi-
bile della Patria; lo spirito di religione da opporre al materialismo,
che per gli italiani deve essere il cattolicesimo; la tradizione che
significa anche orgoglio di stirpe e continuità di storia; il Fascismo
come ritrovamento dell’ordine del popolo italiano quale creato da

15
Cf. J. T. Schnapp, “Epic Demonstrations. Fascist Modernity and the 1932 Exhibition
of the Fascist Revolution”, in Fascism, Aesthetics, and Culture, a cura di R. J. Golsan
(Hanover, 1992), pp. 1-37.
16
Mostra del Novecento italiano (1923 – 1933), Milano, Palazzo della Permanente, 12
gennaio – 27 marzo 1983, Catalogo della mostra (Milano, 1983). B. Mussolini, Discorso
sul Novecento, in Il Popolo d’Italia, 16 febbraio 1926, p. 3 (“La Mostra del «Novecento
Italiano» inaugurata a Roma dall’on. Mussolini”).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

latinità e cattolicesimo; il Fascismo come realismo e non misticismo


visionario, chiarezza e non barbarica infatuazione; il Fascismo come
ruralismo nemico del panindustrialismo. Poste queste premesse mus-
soliniane, stilò la lista dei principi dell’estetica fascista:
1) l’arte fascista è arte nazionale italiana, non internazionalista,
distinta da quella che si ispira a forme estetiche straniere e
che è fondata su astrattezze (estranee alla mentalità naziona-
le);
2) l’arte fascista è animata da religiosità e austerità spirituale;
del cattolicesimo rispecchia grandiosità, nobiltà morale, bel-
lezza di forme, equilibrio e misura nell’espressione plastica; le
è estraneo il materialismo, cioè il sensualismo cromatico;
3) l’arte fascista è fedele alla tradizione italiana e non si trastulla
in arcaismi, primitivismi, bubbole accademiche;
4) l’arte fascista ritrova i caratteri propri dell’italianità quali
permangono dall’epoca dell’arte greco-romana al secolo
XIX.
Seguono altri punti che qui non interessano17. Vista come orto-
dossa (non cattolica), forestiera, sensuale e cromatica, primitiva,
mistica e visionaria, l’arte bizantina non poteva corrispondere ai
requisiti estetici di Mussolini e Soffici.

c. Contro l’Oriente, contro i barbari, contro Strzygowski


Subito dopo l’incendio di Smirne del 1922, ultimo episodio della
disfatta del corpo di spedizione greco nella guerra greco-turca, Mus-
solini commentò la vittoria kemalista su Gerarchia, la rivista politica
da lui fondata, accostando Russia e Grecia all’impero di Costantino-
poli, sinonimo di caos, crudeltà, paradosso, squilibri e rassegnazione.
Nella stessa rivista, sulla scia dell’annessione del Dodecanneso, altri
articolisti inneggiavano alla via italiana verso l’Oriente. Tuttavia,
l’ostilità verso la Grecia non fu il motivo primo della ostilità culturale

17 2
A. Soffici, Periplo dell’arte. Richiamo all’ordine (Firenze, 1928-VII ), citazioni nel testo
dalle pp. v-vi, 151-154; i capitoli “Del colore” e “Arte fascista” sono alle pp. 211-218 e
237-245 rispettivamente; alcune pagine di “Arte fascista sono ristampate in P. Barocchi,
Storia moderna dell’arte in Italia. Manifesti polemiche documenti, 3/1, Dal Novecento ai dibattiti
sulla figura e sul monumentale 1925 – 1945 (Torino, 1990), pp. 26-29.
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

verso Bisanzio e l’Oriente: il motivo fu l’affermazione della suprema-


zia sull’Oriente di Roma antica, della quale i fascisti proclamavano
l’Italia moderna emula ed erede; uno sbandieramento di patriottismo
che offendeva la verità della critica storica, come ribadı̀ Croce18.
Il primo gennaio del 1930 fu inaugurata a Londra, alla Royal
Academy, la grande mostra Exhibition of Italian Art 1200-1900, per
la quale Mussolini, alla ricerca di prestigio internazionale per il
fascismo, inviò alcuni tra i più celebri capolavori delle gallerie italia-
ne19. Il Giornale d’Italia pubblicò ampi resoconti della mostra tra
gennaio e febbraio e, contemporaneamente, sfruttò il successo mon-
diale che la mostra stava riscuotendo per lanciare una campagna di
stampa a sostegno dell’arte italiana antica e moderna e contro i suoi
denigratori interni ed esterni. Questi denigratori furono indicati in
Strzygowski, Toesca, Lionello Venturi e la redazione di Documents,
una rivista di etnografia, musica e arti, dalla africana a quelle sumera,
cinese, popolare e contemporanea di impressionisti e postimpressio-
nisti, alla quale collaboravano studiosi e artisti di varia estrazione e
interessi: oltre a Strzygowski e Toesca, Georges Bataille, Carlo
Carrà, Jean Ebersolt, Carl Einstein, Erwin Panofsky, André Malraux,
Fritz Saxl, Royall Tyler, Georges Wildenstein20. L’archeologo Ro-
berto Paribeni (che fu forse l’ispiratore degli attacchi su Il Giornale

18
B. Mussolini, “La luna crescente”, Gerarchia 1 (1922), p. 477 e 479: “Nemmeno il più
fantasioso ed estremista fra gli imperialisti greci può, ora [cioè dopo la presa di Smirne da
parte delle truppe kemaliste], pensare a un ritorno della Grecia a Smirne, o, come si
vagheggiava, a Costantinopoli. (...) Dietro la Russia dei Romanoff, affiorava Bisanzio – con
il caos, la crudeltà, il paradosso, gli squilibri, la rassegnazione di Bisanzio – dietro la Russia
di Oulianoff [Lenin], spunta la grinta senza baffi del capitano d’industria occidentale.”. La
via italiana a Oriente è auspicata, ad esempio, sullo stesso fascicolo di settembre di
Gerarchia da A. Signorelli, “La guerra nell’Asia Minore”, p. 488 e da F. Di Pretoro, “L’Asia
Minore e l’Italia attraverso la storia”, sul fascicolo di novembre della rivista, p. 613. Il
giudizio di Croce è dai Marginalia alla terza edizione di B. Croce, Teoria e storia della
storiografia (Bari, 1927), pp. 313-314: “Alla critica storica accade spesso d’apparire non
abbastanza amica del patriottismo o nazionalismo, e di ricevere però cattive accoglienze e
maltrattamenti. Per non andar lontano, se alcuno volesse provarsi oggi, in Italia, a
rammentare che la storia di Roma non è la storia d’Italia, che gl’italiani odierni non sono i
figli di Roma, che la Roma dell’Impero non può fungere da ideale di forza e di grandezza
perché rappresenta invece la lenta e indarno infrenata decadenza di una società e di un
organismo statale, e simili ovvie verità della critica storica, si sentirebbe subito attorniato e
avvolto da un coro musicale tutt’altro che di lieto suono.”.
19
Exhibition of Italian Art 1200-1900, London, Royal Academy of Arts, Burlington
House, Piccadilly, 1 gennaio – 8 marzo 1930, catalogo della mostra (London, 1930); F.
Haskell, “Botticelli, Fascism and Burlington House. The ‘Italian Exhibition’ of 1930”, The
Burlington Magazine 141 (1999), pp. 462-472.
20
Il primo numero di Documents. Doctrines Archéologie Beaux-arts Ethnographie uscı̀
nell’aprile 1929.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

d’Italia) è invece promosso ad esempio di studioso ’’coraggioso,


antimaniaco, dalla fine arguzia’’ da opporre a Strzygowski ed ai
’’maniaci nostrali’’. Le accuse di antiitalianità rivolte ai denigratori
espongono i capisaldi della critica nazionalistica antiorientalista e
antifrancese, che possono essere cosı̀ riassunti:
1) da alcuni decenni Strzygowski ed i sostenitori dell’impressio-
nismo e postimpressionismo conducono una guerra a Roma
e all’Italia che vorrebbe togliere ad esse un primato ricono-
sciuto da secoli;
2) secondo costoro, i Romani non avrebbero avuto alcuna origi-
nalità, ma avrebbero preso dai Greci, dagli Alessandrini e dai
popoli dell’Asia Minore, della Siria e della Mesopotamia e in
particolare dagli Armeni tutte le loro diverse forme di archi-
tettura scultura o pittura;
3) costoro sostengono anche che gli Italiani del Medioevo sa-
rebbero stati gli allievi provinciali dei bizantini, dei barbari ed
infine dei «gotici» di Francia;
4) invece: la Francia moderna non è maestra all’Italia in arte;
5) una quinta colonna interna, che ha i suoi rappresentanti più
noti in Toesca e Lionello Venturi ha adottato l’orientalismo e
le tesi di Strzygowski e considera l’arte moderna francese
come modello da seguire21.

21
La serie di articoli pubblicati sul Giornale d’Italia sono: G. Bellonci, “L’arte italiana
assalita e difesa”, 21 gennaio, p. 3, dal quale sono tratti i seguenti due brani:
“Uno storico inglese, pochi giorni innanzi che fosse aperta al pubblico la Mostra di
Londra, credette necessario ricordare ai suoi lettori che «la pittura non era un’arte perduta
prima del secolo XII» quando i toscani si vantarono d’averla riscoperta. E soggiunse le lodi
dell’arte bizantina, la forza della quale, egli diceva, dovrebbe essere compresa facilmente
«oggi che assistiamo a Parigi e altrove alla rinascita di un’arte non naturalista, di conven-
zione, e di origine senza dubbio orientale». E a Parigi, infatti, vede la luce da qualce mese
una rivistuola di archeologia e di arte – Les documents – che ha per direttori e collaboratori
tutti i più illustri studiosi dell’oriente bizantino, del mezzogiorno affricano, e di quanti altri
punti cardinali abbia l’arte non romana e non italiana antica e moderna. E questi uomini di
buona volontà, dallo Strzygowski al Contenau, dall’Einstein ai critici dell’impressionismo e
del postimpressionismo continuano concordi quella guerra a Roma e all’Italia che dura
ormai da alcuni decenni e che vorrebbe toglierci un primato riconosciutoci da molti secoli.
Alti, su le loro cattedre, vigilate dalla dea Scienza, gridano al mondo che i romani non
ebbero nessuna originalità, bensı̀ presero dai greci e poi dagli alessandrini e finalmente dai
popoli dell’Asia Minore, della Siria e della Mesopotamia tutte le loro diverse forme di
architettura scultura o pittura; che gli italiani del Medioevo furono gli allievi provinciali dei
bizantini dei barbari e poi dei «gotici» di Francia (...). Via via, cancellate dalla storia i
capitoli su l’arte romana e su l’arte italiana medievale e sostituiteli con altrettanti capitoli su
l’ellenismo, l’arte cristiana d’oriente, il bizantinismo, il gotico, e, se volete esser proprio
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

Al tempo della mostra e della campagna di stampa Lionello Venturi


si era ormai trasferito a Parigi. Scrivendo a Berenson, Toesca com-
mentò:

‘‘C’è stata nel Giornale d’Italia, una serie di articoli in cui ero presen-
tato come un denigratore di Roma a beneficio di ... Bisanzio; e questa
campagna scientifica – di liberazione dallo straniero – ha trovato la sua
più alta espressione in un volume di un certo Galassi (Roma o Bisan-
zio) edito dalla ... Libreria dello Stato. Sarei forse già messo al confino
se ciò fosse in podestà di questi messeri che trascinano cosı̀ vilmente
gli studi nella politica, e a un certo punto sembrano far opera di agenti
provocatori. Per fortuna queste provocazioni, come i latrati dietro il
cancello, mi lasciano indifferente sebbene non favoriscano di certo il
mio desiderio di serenità. Né, d’altra parte, io posso entrare in polemi-
22
che con persone di mala fede e di nessuno studio.’’ .

precisi, gli stili sassanide copto mazdaista anticocroato (...). La piccola Armenia ebbe una
potenza di creazione artistica che Roma non ebbe.”. “L’arte «non naturalista, di conven-
zione, e di origine orientale», che fanno a Parigi, e che dovrebbe diventare, per forza di
moda, l’arte di tutto il mondo contemporaneo, ha una propria estetica, una propria critica,
una propria storia: se l’accettate dovete accettare anche le teorie del signor Strzygowski sui
romani antichi e su gli italiani del medioevo; e d’altra parte se riconoscete giuste queste
teorie dovete necessariamente dare alla Parigi dei nostri giorni la dignità di maestra. ” U.
Antonielli, “Dàlli all’arte italiana”, 24 gennaio, p. 3, dal quale è tratto il seguente brano:
“Dunque, lo strzygowskianismo è un male di più larga vibrazione. Quanto alla persona
dell’austriaco-slavo, o che so io, non preoccupiamoci, Roberto Paribeni, uno dei più
coraggiosi ... antimaniaci, con fine arguzia ha detto che c’è da sperare bene; siccome quel
signore in caccia del berceau sta da tempo compiendo un affannoso viaggio, dalla Siria alla
Persia, dall’Egitto alla Cappadocia, all’Armenia, all’altopiano del Tibet..., considerando la
longitudine del suo viaggio, c’è da sperare che attraverso altre terre estreme esso finisca per
ritornare nel nostro Occidente! Non è il messianico orientalista che ci fa paura; ma sono i
maniaci di casa che ci fanno pena, e non per le loro corporali figure, ma per quel che ne
risulta, chè più delittuoso «disfattismo» io non saprei concepire.”. G. Bellonci, “Scienza
storica e spirito nazionale (L’arte italiana assalita e difesa)”, 25 gennaio, p. 3; C. Tridenti,
“L’arte italiana non va a scuola a Parigi”, 5 febbraio, p. 3 (quest’ultimo contro l’idea di
Venturi che gli artisti italiani dovessero soggiornare a Parigi come una volta facevano gli
artisti francesi a Roma). La campagna lanciata dal Giornale d’Italia è discussa estesamente
in M. Bernabò, “Un episodio della demonizzazione dell’arte bizantina in Italia: la campagna
contro Strzygowski, Toesca e Lionello Venturi sulla stampa fascista del 1930”, Byzantini-
sche Zeitschrift 93/2 (2001), pp. 1-10.
22
La lettera è del 24 novembre 1930 ed è conservata nella Biblioteca Berenson di Villa I
Tatti, Settignano (Firenze).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

d. Il nemico è a Oriente: conformismi, idiozie e


vergogne bizantine

‘‘Erodoto parla dell’usanza di certi Sciti, che cavavano gli


occhi agli schiavi perché nulla potesse distrarli dal battere il
loro latte. Noi siamo come quelli schiavi, ai quali un
miracolo avesse ridonato la vista. Nè la frase sembri troppo
retorica o eccessiva: giacché non è da valutarsi mai troppo
alto il danno che la costrizione e il conformismo hanno
fatto in questi anni allo sviluppo intellettuale e spirituale.
Danno tanto più grave, male tanto più profondo, se chi lo
subisce perde per atrofia la facoltà di rendersene conto e di
misurarlo. Ed è con amarezza che bisogna riconoscere con
quanta supina acquiescenza l’Università abbia contribuito a
questo male. L’Università ha una colpa ben più profonda di
quanto non si possa riparare con isolati atti di epurazione e
io non esito a dire che vedo con preoccupazione quanti
nell’Università non sembrano avere altra aspirazione che
riprendere la loro consueta vita, riannodare le fila del
passato, ritessere la vecchia trama, solo con qualche colore
diverso.’’.
Ranuccio Bianchi Bandinelli, ‘‘A che cosa serve la storia
dell’arte antica?’’, 1945, pp. 10-11.

In breve, Il Giornale d’Italia ribadı̀ soltanto alcuni assiomi della critica


fascista, conosciuti da tempo e che vennero ora gridati a gran voce
cercando di imporli ai recalcitranti critici italiani, grazie al buon
vento che spirava dopo il successo espositivo di Londra: Roma
antica, madre dell’Occidente, incarnò ogni valore positivo; l’Oriente
(Bisanzio per prima) ed il Nord ogni valore negativo; Oriente e
protestantesimo nordico si contendono il titolo di anti-Roma. Com-
memorando, nell’ottobre del 1932, i fascisti del Gruppo Sciesa
caduti durante l’assalto alla sede dell’Avanti!, Mussolini affermò:

“Siamo circondati da nemici: ci sono i nemici palesi e quelli occulti.


(...) Ci vogliono gli italiani ed in genere gli occidentali a bucare con gli
spilli della loro logica e della loro critica le grottesche vesciche del
socialismo internazionale. Forse, viste le cose sotto l’aspetto storico, è
una lotta fra l’Oriente e l’Occidente: fra l’Oriente famoso [= fumoso],
caotico, rassegnato (vedi la Russia) e noi, popolo occidentale, che non
ci lasciamo trasportare eccessivamente dai voli della metafisica e che
siamo assetati di concreta, dura realtà. Gli italiani non possono essere
a lungo mistificati da dottrine asiatiche, assurde e criminose nella loro
applicazione pratica e concreta. Questo è il senso del fascismo italia-
no.”.

Le polemiche però degenerarono. Qualche pensatore fascista si


LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 101

spinse a proclamare l’ebraismo come malattia originaria dell’Oriente


e l’illuminismo, il positivismo, la socialdemocrazia ed il comunismo
come progenie del protestantesimo nordico. I ragionamenti con cui
si argomentano queste tesi appaiono oggi servilismo intellettuale,
propaganda estranea ad ogni critica seria, deliri di pochi fanatici; in
verità, questi deliri sono costanti e frequenti nelle pubblicazioni
dell’epoca. L’albero genealogico riportato qui sotto fu tracciato da
Carlo Galassi Paluzzi, direttore della rivista Roma dal 1925 e diret-
23
tore ed animatore dell’Istituto di Studi Romani :

Strzygowski, il campione dell’Oriente contro Roma e dello spirito


dei popoli barbari del Nord che avrebbe fecondato i popoli mediter-
ranei divenne il nemico per eccellenza, il diavolo da esorcizzare.
Monotona dichiarazione d’apertura, la ricusazione di Orient oder Rom
è posta in testa alle trattazioni sulla romanità, l’Oriente e le invasioni
barbariche da ogni autore che voglia mostrare la propria condivisione
24
del decalogo culturale nazionalistico . Binomi alternativi furono pro-
posti in sostituzione a quello strzygowskiano Oriente o Roma: Roma

23
C. Galassi Paluzzi “Roma e antiroma”, Roma 5 (1927), pp. 437-441; l’albero genealo-
gico è a p. 441. L’attività propagandistica della cultura fascista promossa dell’Istituto di
Studi Romani appare anche solo dall’elenco delle sue pubblicazioni (per il quale sono
debitore a Luciano Canfora): Istituto di Studi Romani, Catalogo delle pubblicazioni. Indice
2
analitico (Roma, 1941-XIX ). La frase di Mussolini è da: B. Mussolini, “Il discorso della
vigilia alla «Sciesa» di Milano”, La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 10 n 10, ottobre
1932, pp. 8-11.
24
Più volte si tentò di superare il conflitto tra Romanità e Germanesimo dopo la
proclamazione dell’asse Roma-Berlino; vedi, ad esempio, Romanità e Germanesimo. Letture
tenute per il Lyceum di Firenze, a cura di J. De Blasi (Firenze, 1941); con un farneticante
intervento della curatrice (“Romanità e Germanesimo”, pp. 391-400); tra gli altri interventi
quello di R. Longhi, “Le arti”, pp. 209-239. Vedi inoltre: J. von Schlosser, Magistra
Latinitas und Magistra Barbaritas (Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissen-
schaften, Philosophisch-historische Abteilung, 1937/2. München, 1937).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

o Bisanzio, Roma e Oriente, Oriente e Ellenismo, Oriente e Bisanzio;


italo-bizantino e italo-greco furono suggeriti in sostituzione di neoel-
lenistico per l’arte duecentesca. Molta colpa dell’attacco alla roma-
nità poteva essere attribuita a un qualche complotto giudaico-
sionista, bolscevico o protestante. La mancanza di valore critico di
queste trattazioni potrebbe farle ignorare, ma una succinta antologia
di esse serve a documentazione del provincialismo e in più casi del
servilismo culturale degli studiosi del tempo. Va notato che la quasi
totalità delle trattazioni non cita passi dai libri di Strzygowski, i cui
testi sembrano conosciuti solo indirettamente:
- Gustavo Giovannoni, La tecnica della costruzione presso i Romani,
1925, uno dei suoi primi scritti sull’architettura romana ed in parti-
colare sulla tecnica di costruzione delle volte e cupole, esaltanti il
genio architettonico dei Romani, che ‘‘non si arresta a criteri astratti
e a quisquilie sofistiche, non fa filosofia per la filosofia e l’arte per
l’arte, ma tende sempre a scopi pratici e positivi’’, con rivendicazione
a Roma della invenzione degli schemi costruttivi degli edifici raven-
nati, bizantini, romanici, ecc. Le visioni romaniste in architettura di
Giovannoni, in particolare sulla origine romana degli edifici a cupola
in Oriente e nel Medioevo occidentale, sono riprese da vicino da
Guglielmo De Angelis D’Ossat. Nel 1938 Giovannoni, come presi-
dente del Primo Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura in
Firenze, renderà omaggio ‘‘al sentimento di italianità che mai come
ora, al risorgere dell’Impero, vibra nei nostri animi’’, dileggiando il
‘‘gracchiare dei partigiani studiosi stranieri di origini ultramontane’’
come Gillet, Frey, Schlosser ed il farneticante Strzygowski. Giovan-
noni entrò alla fine degli anni Trenta nelle file dei sostenitori del
genio della razza romana e italica e del razzismo in arte25.
- Pietro D’Achiardi, ‘‘Roma e Oriente’’, 1926: ‘‘A questa impo-
stazione, errata, a nostro parere [di Oriente o Roma] noi sostituiamo
l’altra meno esclusivista Roma e Oriente, già proposta dal nostro
illustre direttore alle Belle Arti Arduino Colasanti nella prefazione
alla sua grande opera sull’Arte Bizantina pubblicata nel 1912 [cioè
L’arte bizantina in Italia]’’. ‘‘Dall’Oriente pervennero a Roma ele-

25
G. Giovannoni, La tecnica della costruzione presso i Romani (Roma [1925]); L’architettura
come volontà costruttiva del genio romano e italico (Quaderni di Studi Romani. La Civiltà di
Roma e i problemi della razza. [Roma] 1939-XVIII); discorso inaugurale in Atti del I˚
Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura, [Firenze, Palazzo Vecchio,] 29-31 ottobre
1936-XV (Firenze, 1938-XVI), p. ix; G. De Angelis D’Ossat, “Sugli edifici ottagonali a
cupola nell’antichità e nel Medio Evo”, ivi, pp. 13-24.
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

menti di altissimo valor decorativo, che portarono soprattutto ad una


grande preziosità di stile e ad un grande raffinamento nella policro-
mia. (...) Ma dall’Oriente vennero anche quei principi di immobilità,
di fissità, di esteriorità formale’’ che non avrebbero permesso la
fioritura del Duecento in Italia. ‘‘Fortunatamente, le infiltrazioni di
orientalismo nel mondo latino (...) troppo esteriori e sensuali, non
hanno mai modificato a fondo i caratteri peculiari della romanità’’.
Ora gli studiosi tedeschi pretendono di dimostrare che ‘‘dalle razze
barbariche deriva tutta la forza rigeneratrice e rinnovatrice di tutta
l’arte medievale’’. ‘‘Questa dell’Orientalismo era una delle teorie ri-
nunciatarie più mortificanti, inventata dai dotti stranieri ad umilia-
zione della nostra romanità’’. Oggi purtroppo l’Italia è assente in
Oriente, mentre le altre nazioni vi hanno scuole archeologiche. ‘‘E
tutto ciò in nome di una civiltà nuova, di un nuovissimo orientalismo
anglicano-protestante, giudaico-sionista e greco-scismatico’’; dob-
biamo far risorgere i valori della nostra stirpe in nome della Roma-
nità; dobbiamo ‘‘porre un argine al bolscevismo della cultura e
dell’arte’’26.
- Carlo Galassi Paluzzi, ‘‘Roma e antiroma’’, 1927: è il testo dal
quale è stato tratto l’albero genealogico riprodotto sopra; Galassi
Paluzzi dà l’allarme di fronte al pericolo rappresentato dalla potenza
dell’oro ebraico; ‘‘che oggi, concretamente, il movimento giudaico
sia un caposaldo del più vasto movimento «antiromano» è cosa
palese’’; ‘‘l’antiromanità è degli ebrei e non dell’ebraismo’’; ‘‘gli ebrei
si sono affiancati, ed hanno favorito il più vero movimento antiro-
mano rappresentato dall’individualismo protestante’’27.
- Roberto Papini, ‘‘L’Italia, l’arte e la critica’’, 1927: ’’Curiose
intromissioni politiche a fondo nazionalistico avevano finito per do-
minare nella storia dell’arte. Parallela al tentativo germanico d’espan-
sione verso Oriente era stata la svalutazione sistematica del ruolo di
Roma nell’età imperiale e nel Medio Evo in favore dei centri artistici
d’Oriente, dall’Ellade alla Persia. L’arte romana e l’arte italica non
dovevano esistere se non come propaggini provinciali o pallidi riflessi
di quella dell’Oriente da cui veniva una luce obbligatoria’’. Ora
l’Italia, fatta di studiosi umanisti, non è caduta nell’eccesso opposto,
ma ‘‘ogni giorno contrappone la serietà e la pacatezza dell’indagine e
dell’osservazione alle intemperanze straniere nell’intento di rivalutare

26
P. D’Achiardi, “Roma e Oriente”, Roma 4 (1926), citazioni dalle pp. 3, 11-13.
27
Galassi Paluzzi “Roma e antiroma”, citazioni dalle pp. 439, 441.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

ciò che era stato con ingiustizia mortificato’’. Strzygowski non fa


archeologia, ma ‘‘scienza politica’’. Seguono lodi a Pericle Ducati,
Alessandro Della Seta e Gustavo Giovannoni e critiche a Toesca e
Lionello Venturi28.
- Giuseppe Galassi, Roma o Bisanzio, 1929. Questo fu forse il
lavoro più impegnato nel ridimensionamento e nella romanizzazione
delle tesi di Strzygowski, citato in seguito, anche dopo la seconda
guerra mondiale, come manuale antistrzygowskiano di riferimento. Il
fatto che il libro di Galassi sia stato pubblicato dalla Libreria dello
Stato conferisce anche un crisma di ufficialità alle sue idee, come ben
chiaro a Toesca. Il libro fu stampato nel 1929-1930 (è datato solo
col computo fascista all’anno VIII e. f.), col sottotitolo I musaici di
Ravenna e le origini dell’arte italiana. Galassi individuò due correnti
contrapposte a Ravenna, una romana l’altra bizantina; da Giusti-
niano a oltre il Mille si sarebbe consolidata gradualmente la corrente
romana, ‘‘che divenne poi tutt’una cosa con l’arte romanica’’; dopo
Giustiniano l’arte dei Romani volse sempre più al concreto e rimase
figurativa, mentre quella dei Bizantini trascese sempre più l’espres-
sione visiva a vantaggio di un linguaggio ‘‘metafisico’’ (qui Galassi
allude senz’altro all’arte moderna: contro la pittura metafisica, a
favore del ritorno alla tradizione italiana); Roma assorbe il bizantini-
smo e continua il gusto dell’arte antica romana, cosı̀ da costituire il
fondamento del linguaggio di Giotto e Dante (le letture di Galassi
dell’arte bizantina sono frutto di palese ignoranza o travisamento dei
fatti artistici fatto al fine di controbattere ogni interpretazione del
Medioevo artistico come periodo dominato da Bisanzio, tesi che è
frutto della ‘‘stranezza mentale del Toesca’’); il romanesimo dell’arte
romana e occidentale è dunque esaltazione della forma, volontà
costruttiva, gravitazione verso il concreto, ricerca di un mondo sta-
bilmente determinato (più che una descrizione dell’arte romana,
sembra un ritratto degli ideali del fascismo); l’arte di Bisanzio e
dell’Oriente, invece, è esaltazione del colore, aspirazione decorativa,
gravitazione verso il sogno, ricerca di apparenze favolosamente e
musicalmente irreali. Un capitolo finale dal titolo ‘‘Roma o Bisanzio?
Conclusione: origini dell’arte italiana’’ riassume il problema della
italianità dell’arte medievale, cercandone i caratteri etnografici e
culturali e religiosi; sono indicati come italiani i caratteri della civiltà

28
R. Papini, “L’Italia, l’arte e la critica”, Nuova Antologia 62, n 1316 (1927), citazioni
dalle pp. 144-145.
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

della forma e della tradizione cattolico-umanistica incarnati in


Giotto, Masaccio e Michelangelo e presenti in nuce nell’arte del
Medioevo; non è da dubitare, comunque, che ‘‘i modi costanti della
tradizione italiana’’ avessero avuto la loro origine in Roma, dove essi
furono ‘‘simbolicamente magnificati’’ dalle figure di Bruto, Scipione,
Catone e Cesare:

‘‘un mondo emerse [tra il Trecento e il Seicento] che aveva leggi


organiche non confondibili e severe. Precisione ed ordine; distinzione e
articolazione; isolamento e compendio: definizione e gerarchia delle
esistenze individuali: tali i modi costanti della tradizione italiana.
[Questi caratteri erano già apparsi in Roma] simbolicamente magnifi-
cati in alcune figure d’uomini eminenti, diversi fra loro ma comple-
mentari nella costituzione della «romanità», come quelle di Bruto e di
Scipione, di Catone e di Cesare. Basterebbe una tale identità, concessa
in sede teorica, per ravvisare in Roma la vera generatrice dell’arte
italiana.’’29.

- Pirro Marconi, La pittura dei Romani, 1929: ‘‘È di molti il


lamento della posizione di dipendenza in cui è tenuta l’arte romana e
della sua sistematica svalutazione; e molti esprimono il desiderio che
si possa fissarne decisamente i valori ed i tanto alti risultati. Non
possiamo attendere che altri lo faccia; di noi italiani deve essere
questa opera di rivalutazione, la creazione di una base indipendente
agli studi della Romanità (...), noi italiani, che finora siamo stati
troppo reverenti di opinioni negatrici e volutamente denigratrici’’.
Seguono le lodi della genialità di Wickhoff e della sua (obsoleta)
valutazione dell’arte romana30.
- Il I Congresso Nazionale di Studi Romani, 1929, con segretario
Carlo Galassi Paluzzi, ora Preside dei Corsi Superiori di Studi
Romani, con un intervento di Carlo Cecchelli su ‘‘Il problema
dell’«Oriente o Roma» alla luce delle scoperte e degli studi attuali’’:
uno studioso di archeologia cristiana e bizantina che, caso singolare,
disprezza l’arte di Bisanzio negando alcun valore a quella civiltà,
‘‘grande emporio di residui’’, ‘‘fantasmagoria di luce che non illumi-

29
G. Galassi, Roma o Bisanzio, 1, I musaici di Ravenna e le origini dell’arte italiana (Roma,
a. VIII e.f. [1929-1930]), citazioni dalla Prefazione, da p. 264, da nota 12 p. 297 e passim.
Nel 1915 Galassi aveva invece usato per l’arte bizantina i termini spazio bidimensionale,
discentramento compositivo, effetto pittorico, visione antiplastica; la visione romana era
definita plastico-costruttiva (“Scultura romana e bizantina a Ravenna”, p. 29). Per il
giudizio di Toesca su Galassi vedi al Capitolo 7, paragrafo b.
30
P. Marconi, La pittura dei Romani (Roma, 1929).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

na’’: ‘‘Bisanzio può tutt’al più ridistribuire i favori ricevuti dall’O-


riente e da Roma’’; alla fine degli anni Trenta, anche Cecchelli
scriverà volumi razzisti per esaltare la stirpe romana31.
- Il II Congresso Nazionale di Studi Romani, 1930: tra gli inter-
venti quello di Nilo Borgia, monaco della Badia greca di Grottafer-
rata, dal titolo ‘‘La romanità di una badia greca’’, nel quale viene
garantita la fede romana dei monaci della Badia32.
- Il III Congresso Nazionale di Studi Romani, 1934, con inter-
vento di D’Achiardi su ‘‘Neoellenismo e neoromanità nella pittura
medievale italiana’’: da ‘‘Roma o Oriente?’’ si è passati a ‘‘Roma e
Oriente’’ ed anche a ‘‘Oriente o Ellenismo?’’ e meglio a ‘‘Oriente o
Bisanzio?’’ e ‘‘Ellenismo o Romanità?’’; si è dato nome di ellenistica
a tanta arte romana del periodo imperiale ed ora si vuole qualificare
come neoellenistica, da parte di Muratov, l’arte verso il secolo XII,
che è invece emancipazione dall’arte bizantina e prima arte italiana:
‘‘si vuol cacciare l’arte romana fuori di casa con i gendarmi del
prebizantino e del neoellenistico’’; per l’arte del secolo XII meglio
dire italo-greca o italo-bizantina, piuttosto che neoellenistica)33.
- Il IV Congresso Nazionale di Studi Romani, del 1935, un
congresso oceanico, i cui atti occupano cinque volumi, intitolato ‘‘I
rapporti intercorsi nei secoli tra Roma e l’Oriente’’ fu dedicato per lo
più al problema strzygowskiano ‘‘Orient oder Rom’’, con interventi

31
C. Cecchelli, “Il problema dell’«Oriente o Roma» alla luce delle scoperte e degli studi
attuali (sunto di comunicazione)”, in Atti del I˚ Congresso Nazionale di Studi Romani (Roma,
1928-VII), 1, pp. 669-682, in particolare, p. 672:
Veramente, chi bene osservi la civiltà bizantina, s’accorge che essa è una civiltà di riflessi e
d’artificio. Roma sorge quando erano ancora intatti i valori delle civiltà primitive. Bisanzio si
elevò a grande centro quando le antiche civiltà sono nella parabola discendente ed hanno
maturato i loro frutti migliori. Bisanzio è un grande emporio di residui, una fantasmagoria
di luci che non illumina, un insieme originale per sè stesso (dato il suo aspetto poliedrico)
ma non depositario di fermenti nuovi. Bisanzio tutt’al più ridistribuisce i favori ricevuti
dall’Oriente e da Roma. Sotto questo aspetto potrebbero avere ragione quanti parlano di
un’arte cristiana orientale, anziché di arte bizantina.”.
Inoltre: Roma segnacolo di reazione della stirpe alle invasioni barbariche (Quaderni di Studi
Romani. La Civiltà di Roma e i problemi della razza. [Roma] 1939-XVIII). La questione
ebraica e il sionismo (Quaderni di Studi Romani. La civiltà di Roma e i Problemi della Razza
[Roma: Istituto Nazionale di Cultura Fascista, 1939-XVII]).
32
N. Borgia, “La romanità di una badia greca”, in Istituto di Studi Romani, Atti del II˚
Congresso Nazionale di Studi Romani (aprile 1930), a cura di C. Galassi Paluzzi (Roma,
1931-IX), 2, pp. 79-86. Cf. G. M. Croce, La Badia Greca di Grottaferrata e la rivista “Roma
e l’Oriente”. Cattolicesimo e ortodossia tra unionismo ed ecumenismo (1799-1923) (Città del
Vaticano, 1990).
33
P. D’Achiardi, “Neoellenismo e neoromanità nella pittura medievale italiana”, in
Istituto di Studi Romani, Atti del III Congresso Nazionale di Studi Romani, a cura di C.
Galassi Paluzzi (Bologna, 1935-XIII), 2, pp. 30-38.
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

di Giglioli (divenuto nel frattempo ordinario a La Sapienza), ‘‘L’arte


di Roma e l’arte dell’Oriente nell’Antichità’’ (Costantinopoli eretta
sul modello di Roma; la chiesa di Santa Sofia come sintesi di Oriente
e Occidente; Giustiniano emana in latino il Corpus juris, che è un
compendio di leggi romane; la civiltà di Costantinopoli era pretta-
mente romana), Muñoz, ‘‘L’arte di Roma e l’arte dell’Oriente nel
periodo paleo-cristiano e medievale’’ (discussione del problema ‘‘O-
rient oder Rom?’’; carrellata di opere medievali per asserire che nella
maggior parte dei casi non sono bizantine, che le opere bizantine si
distinguono facilmente dalle altre, che è meglio dire Oriente e Roma
piuttosto che Oriente o Roma per la formazione dell’arte bizantina
medievale – una soluzione già nota –, che anche nel Duecento gli
influssi bizantini sono limitati ad alcune opere, che non si può
parlare di bizantino per Duccio e Cavallini, che dei crocifissi toscani
non ce ne è uno che possa essere definito bizantino – rispetto ai suoi
scritti anteguerra pro-Bisanzio, anteriori agli incarichi ufficiali avuti
sotto il fascismo, Muñoz appare uno dei casi più palesi di apostasia,
oltre che di entusiasmo mussoliniano, come espresso nel libro Roma
di Mussolini del 1935 e nella rivista L’Urbe, da lui diretta dal 1936,
che vantava nel fascicolo inaugurale foto e dedica di Mussolini e
34
articolo di apertura scritto da Bottai –; infine ‘‘in ogni modo è da
compiacersi che il nostro amato Presidente abbia voluto porre questo
problema a base del nostro congresso’’), Galassi Paluzzi, ‘‘Per l’orga-
nizzazione metodica e per l’incremento degli studi riguardanti i
rapporti intercorsi nei secoli tra Roma e l’Oriente’’ (’’il nostro atteg-
giamento [verso gli studi sui rapporti tra Roma e l’Oriente] può
riassumersi nella formula «Roma e l’Oriente» e non già in quella che
antiscientificamente si è voluta creare di «Roma o l’Oriente»’’, che è
una formula antiromana dettata da ‘‘astiosi e partigiani apriorismi’’
che vuole negare a Roma il contributo dato all’umanità)35.

34
A. Muñoz, Roma di Mussolini (Milano, 1935-XII); L’Urbe, 1 (1936).
35
Istituto di Studi Romani, Atti del IV Congresso Nazionale di Studi Romani (I rapporti
intercorsi nei secoli tra Roma e l’Oriente) (Roma, 1935-XIII), 5 voll., a cura di C. Galassi
Paluzzi (Roma, 1938-XVI): G. Q. Giglioli, “L’arte di Roma e l’arte dell’Oriente nell’Anti-
chità”, 1, pp. 9-16; A. Muñoz, “L’arte di Roma e l’arte dell’Oriente nel periodo paleo-
cristiano e medievale”, 1, pp. 18-25; P. D’Achiardi, “Neoellenismo e neoromanità nella
pittura medievale italiana”,, 2, pp. 30-38; C. Galassi Paluzzi, “Per l’organizzazione meto-
dica e per l’incremento degli studi riguardanti i rapporti intercorsi nei secoli tra Roma e
l’Oriente”, 2, pp. 54-59. Di Galassi Paluzzi vedi anche, pubblicato l’anno successivo al
congresso, “Gli studi romani e i rapporti tra Roma e l’Oriente”, Roma 14 (1936-XIV), pp.
303-316. Cito soltanto in nota, per la loro marginalità, alcune frasi da Cornelio Di Marzio,
“Il concetto romano nell’ordinamento delle professioni”, Roma 14 (1936-XIV), pp.
397-416:
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

e. Soffici, Vasari moderno

‘‘[Soffici] Vasari moderno (...) interventista intervenuto


(...), è certo l’artista, il maestro, cui si deve il rinnovamento
delle arti e della loro comprensione in Italia’’.
La Nazione, 1 marzo 1933-XI, p. 5

Ardengo Soffici è l’artista che più incarnò gli ideali artistici del
fascismo, o almeno di una delle sue anime, per tutto il ventennio.
Soffici fu il maestro e il precursore, il più mussoliniano dei pittori
italiani, di cui la stampa fascista lodò la ‘‘dirittura di mente vigile, la
forza di carattere’’; oltre a proporre basi teoriche e decaloghi di
principi per l’arte fascista, ispirati alla pittura toscana, come un
Vasari della storiografia artistica contemporanea, Soffici fu l’artista
militante, l’interventista intervenuto; aveva aderito al fascismo fin dal
1918, scriveva sul giornale di Mussolini, Il Popolo d’Italia, ed aveva
ricevuto il Premio Mussolini dell’Accademia d’Italia. I suoi dipinti
erano esempio di naturalezza che Soffici oppone all’artificio ed all’ar-
bitrio. Fu il campione della rinascita della pittura italiana ed esem-
pio, con la toscanità della sua pittura, di ‘‘quella fedeltà espressiva
che per intenderci con una frase d’obbligo, è chiamata italiana’’;
‘‘l’esperienze parigine di Soffici, come le esperienze di Carrà, sono
una riconquista di elementi italiani, nell’orbita del gusto «europeo»’’;
dopo gli anni in cui la salvezza per l’arte pareva venire dalla Francia
‘‘venne la guerra a mettere un fermo nell’ordine temporale allo
sbandamento’’ e Soffici ritrovò nelle sue radici contadine toscane la
via alla pittura; ‘‘Don Chisciotte in Toscana’’ che combatte ‘‘contro i
mulini paesani che macinano farina forestiera’’, mostrando ‘‘un se-

“Non bisogna pensare che la storia di Roma, come Impero, finisca in quel famoso anno
in cui Romolo Augustolo scomparve. C’è, dopo, Giustiniano e tutto l’Impero bizantino.
Nelle nostre scuole, quando si studia l’Impero bizantino, si bada solo alle lotte degli
Iconoclasti e a quelle contro i Macedoni [sic]; mentre che tutto l’Impero bizantino è di
religione cristiana, spesso cattolica [sic], e di legislazione completamente romana. L’arte
bizantina è un’arte che deriva strettamente dai Romani”. Seguono critiche a Strzygowski; il
destino aveva voluto che le corporazioni bizantine istituite da Leone il Saggio [cioè il Libro
del Prefetto] corrispondessero non come terminologia, né come attribuzioni, ma almeno
significativamente come numero (ventidue) alle ventidue corporazioni fasciste. Per quanto
possa apparire incredibile le analogie numeriche tra corporazioni bizantine e fasciste sono
riproposte tre anni dopo Di Marzio da A. P. Torri, “Corporazioni romane e corporazioni
bizantine”, Roma 17 (1939-XVII), p. 255: “Le corporazioni bizantine elencate nel «Libro
del Prefetto» sono ventidue – per strana coincidenza anche le corporazioni fasciste sono
ventidue”.
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

vero impegno di fedeltà alla razza in cui affiorano antichi motivi


etruschi e mediterranei’’36.
In Periplo dell’arte Soffici lamentò il progressivo decadere dell’Eu-
ropa verso l’imbarbarimento ‘‘balcanico’’, elevò per dovere d’artista
e di cittadino un ‘‘richiamo all’ordine, all’ordine italiano’’, ed attaccò
il primitivismo in arte, rappresentato da ‘‘le pitture tombali egiziane,
le miniature persiane, i pannelli cinesi e giapponesi, le grandi compo-
sizioni dei bizantini’’, composizioni emancipate dal realismo, nelle
quali si usano campi di colore uniformi delimitati da linee’’, con
‘‘esaltazione cromatica, musicalità, liricità’’:

‘‘il primitivismo (...) è nella totalità delle sue manifestazioni più carat-
teristiche, arte orientale, nata nel più profondo oriente, continuata
nell’oriente più prossimo a noi, e importata nel nostro occidente solo
in un periodo di decadenza, di transizione, di travaglio e lotta fra due
mondi – il barbaro e il latino – quale fu l’alto medioevo.’’

Il primitivismo è ‘‘mera ornamentazione, ‘‘strumento di fasto, di


superstizione e di magia sepolcrale’’, ‘‘specchio di misticismo e di
simbologia teologica’’. Il primitivismo è di origine orientale ed oppo-
sto alla pittura italiana: ‘‘la pittura occidentale (ed in ispecie quella
italiana) comincia dove quello finisce, ed anzi ha origine proprio
dalla sua negazione.’’.
Quanto al colore, al quale è dedicato un capitolo a sé, solo con il
crollo del mondo antico

‘‘l’esuberanza e la smaglianza coloristica fu introdotta dall’Oriente


bacchico nella decadente Bisanzio, e di qui nel nostro Occidente
travagliato dalla barbarie e deromanizzato dal Cristianesimo.’’.

Seguendo Vasari, Soffici pensava che Cimabue avesse dato i


primi lumi alla pittura:

‘‘la sua originalità ed italianità consistono in qualcosa che è in perfetto


contrasto, ed anzi in opposizione, con le caratteristiche dell’arte bizan-
tina e dei suoi maestri.’’.

Dopo Cimabue, Giotto lasciò ‘‘le formule ieratiche e lo stilismo


fantastico della pittura bizantina’’: ‘‘il realismo, la plasticità, la verità,

36
Le citazioni sono tratte da L. Dami, “Il pittore Ardengo Soffici”, Dedalo 1 (1920), pp.
209, 212, G. Cioli, “Carrà, Soffici e la rinascita della pittura italiana”, Il Giornale d’Italia, 6
febbraio 1930, p. 3, e “Ardengo Soffici. Vasari moderno”, La Nazione, 1 marzo 1935-XI, p. 5.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

naturale, l’oggettivismo inteso in senso latino e classico, ecco quello


che Giotto introdusse d’un colpo nella pittura’’; questi sono ‘‘i valori
dello spirito della nostra stirpe’’. Contadino d’origine, radicato nella
nostra razza millenaria, Giotto si riallaccia ‘‘per disopra la barbarie
occidentale’’ alla civiltà greco-latina sommersa: ‘‘rigetta il bizantini-
smo e la sua barbarica pompa’’, restaura lo spirito e le forme
dell’antichità autoctona. Gli artisti che si richiamano ai primitivi
‘‘barattano l’anima e la tradizione occidentale per l’orientale’’, coo-
perano

‘‘a quello smantellamento dell’unità ideale europea, che è in atto da


circa un secolo e che rappresenta il delitto storico della nostra epoca.
Ma se questa cosa è ammissibile per taluni popoli bastardi, inammissi-
bilissima è, certo, e persino mostruosa per gli artisti italiani.’’.

Soffici gettò cosı̀ le basi ideologiche e storiche dei valori che


avrebbero dovuto perseguire gli artisti contemporanei per perpetuare
i valori della razza italiana di fronte all’imbastardimento di altri
popoli stranieri (in prima fila, chiaramente, i Francesi): antiprimitivi-
smo e antiorientalismo (soprattutto antibizantinismo, per via del
ruolo e delle responsabilità rivestite da Bisanzio nei confronti del-
l’arte occidentale), ritorno alla pittura contadina di Giotto (anche
questa come linguaggio latino che rigetta il bizantinismo), naturali-
smo e plasticismo opposti a ornamentazione, misticismo, ecc.
Ancora nel 1943 i valori reazionari della pittura di Soffici furono
additati come esemplari in un articolo firmato da Aniceto Del Massa
pubblicato sulla rivista Domus; sullo stesso numero della rivista
apparve anche, in contrapposizione, un panegirico dell’arte bizantina
come fonte dell’arte moderna francese sul quale si tornerà più avanti
(vedi Capitolo 9, paragrafo a). Nell’articolo (fig. 63) la toscanità
della pittura di Soffici è descritta come ispirata da schiettezza, spon-
taneità, rigetto delle ‘‘componenti ibride a tipo intellettualistico’’ che
fanno da surrogati dell’originalità; lode ai macchiaioli italiani che non
hanno da invidiare nulla agli impressionisti francesi nonostante certa
critica ‘‘sopraffina e miope’’ (probabilmente si allude tra gli altri
all’antipatriottico Lionello Venturi); fedeltà al reale, ‘‘fedeltà agli
spiriti e alle forme della tradizione italiana (intesa in senso vivo e non
libresco); in una parola: classicismo’’:

‘‘Niente di più falso della fama di reazionario che gli hanno creato
alcuni settatori di un modernismo non soltanto internazionalizzante
nel senso più meschino, ma devirilizzato e straccione. A ridurre le
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

anarchie artistiche che mandano in estasi gli snobs aderenti a tutte le


avanguardie, ai loro equivalenti morali, apparirebbe chiaro il sudi-
ciume che si nasconde sotto i belletti, il marcio che si occulta sotto le
37
apparenze più seducenti’’ .

Tra i quadri di Soffici riprodotti nell’articolo è Cucina toscana, un


piccolo poema con odor casalingo, ‘‘un altro buon pezzo di pittura,
(...) il povero contadino che ritorna alla terra dalla trincea con l’unica
ricchezza costituita dalla sua mantellina grigioverde al tempo in cui si
sfogava la canaglieria disfattista e bolscevica’’38.

f. Cézanne italiano, Matisse bizantino: plasticismo


contro colorismo

‘‘Siamo nella provincia italiana: un pittore (Costetti)


consiglia un altro di disegnare, come fa lui da qualche
tempo, con la sinistra, perché il segno venga più incerto, il
disegno meno convenzionale e meno puro, creando errori,
«si avvicini di più ai primitivi».
(...) La storiella del disegno fatto con la sinistra dà ragione al
cafonismo critico di Ugo Ojetti. Ma perché in Italia nessuno
capisce o, meglio, vuol capire, che le cosiddette
‘deformazioni’, il ‘primitivismo’, ecc. dell’arte moderna
europea nascono da uno dei più profondi tormenti spirituali,
da una delle più sofferte esperienze umane che la storia
registri (...)? È mai possibile che in Italia tutto ciò sia stato
spento dal conformismo tridentino perpetuatore, fino ad
oggi, dei languori alla Guido Reni e degli idilli alla Palizzi e
soffocato dalle imbecillità che si seguitano a dire, e adesso
con marchio ufficiale, sulla ‘tradizione’, sulla ‘stirpe’,
ripetendo fino all’ottusità un repertorio dannunziano, del
quale le nostre classi dirigenti non hanno ancora avvertito il
lezzo di cafone sudato, profumato di acqua di Colonia e
d’incenso?’’
Ranuccio Bianchi Bandinelli, Dal diario di un borghese, p. 31
(febbraio 1929).

Mentre Cézanne fu sempre elogiato in Italia per i valori plastici della


sua pittura, Matisse, i Fauves, Van Gogh, Picasso, e quasi tutti i

37
A. Del Massa, “Ardengo Soffici”, Domus n 184 (aprile 1943-XXI), pp. 189-191; la
citazione nel testo è da pp. 190-191. Il panegirico dell’arte bizantina è nell’articolo di R.
Giolli, “Espressionismo dei bizantini”, pp. 182-188. Su questi due articoli vedi M. Bernabò,
“L’arte bizantina e la critica in Italia tra le due guerre mondiali”, Römische Historische
Mitteilungen 41 (1999), pp. 42-44.
38
A. Del Massa, “Ardengo Soffici”, Domus n 184, aprile 1943-XXI, pp. 189-191. Del
Massa era un critico nazionalista che, ad esempio, aveva scritto su La Nazione del 24 aprile
1937 un articolo dal titolo “Giotto e l’età nuova” in cui lodava la classicità del pittore.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

pittori dell’avanguardia europea furono invece oggetto di denigra-


zione. I giudizi più articolati sui pittori dell’avanguardia furono dati
su Cézanne e Matisse. La faziosità antifrancese portò a liquidare gli
altri pittori novecenteschi con ottusità di giudizio quasi incredibile:
di Van Gogh, ‘‘pittore mediocre’’, Soffici, in un ‘‘Bilancio dell’arte
francese contemporanea’’ del 1920 apparso sulla sua rivista Rete
mediterranea, profetizzò che sarebbe restato, ‘‘forse, tra i fenomeni
interessanti della decadenza artistica; ma la storia non lo metterà mai
neanche alla coda di qualche gruppo di veri maestri moderni. E, se
ce lo metterà, avrà torto’’; Gauguin gli parve invece ‘‘il più spiace-
vole equivoco’’, e Matisse ‘‘un delizioso, elegante decoratore’’ come
’’Benozzo Gozzoli rispetto a Giotto e a Michelangiolo’’, rimanendo
infine incerto su Picasso. Al contrario, Soffici ammira Cézanne e il
suo essere erede della ‘‘maschia solidità e succosità della pittura di
Poussin, di Courbet, di Millet, di Daumier e di Chardin, e che, con
termine generico ma abbastanza significativo, e perciò comodo, si è
39
detta italiana’’ . Le ottusità di Soffici furono condivise da altri;
Francesco Arcangeli si distinse per inadeguatezza critica e presun-
zione: Van Gogh, Gauguin e Picasso ‘‘non sono grandi pittori’’; per
fortuna, continua, oltre a lui stesso anche altri (cioè un tale Piero
Torriano) avanzano

‘‘dubbi assai fondati sulla portata dell’opera di Gauguin; ma, che io


sappia, nessuno ha colto l’occasione per segnalare l’inconsistenza arti-
stica di Van Gogh. (...) Egli resta il primo e maggiore responsabile dei
fenomeni di questo momento: la più tenace, la più dannosa radice
malata della giovane pittura italiana’’

I quadri di Van Gogh sono ‘‘incroci pressoché mostruosi tra


naturalismo e fantasia’’:

Chi buttasse all’aria il piumaggio di un volatile spennato otterebbe,


all’incirca, l’effetto del ‘Boschetto dei cipressi’ del 1889. (...) Varrà la
pena, ancora, di infierire sul ‘Caffé ad Arles’, in alcune parti non più
commovente delle paglie intrecciate d’una seggiola?
La sincerità più alta, quella dell’opera, Van Gogh l’ebbe in misura
troppo scarsa per essere annoverato fra i grandi’’.

39
A. Soffici, “Bilancio dell’arte francese contemporanea”, Rete mediterranea 1, n 3
(settembre 1920), pp. 261-272; 1, n 4 (dicembre 1920), pp. 364-371; i giudizi riportati nel
testo sono alle pp. 272, 364, 368, 268.
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

Lo stesso andrebbe detto per Gauguin e Picasso:

‘‘Un’altra volta, per la penna mia o di altri, dovrà pur essere vuotato il
sacco anche su di lui [Picasso]. (...) nient’altro che il più rapido
coniatore di cifre e di mode che per ora abbia veduto il nostro secolo.
Un artigiano metafisico; un simulatore di genio’’40.

Dopo la conclusione della guerra, Arcangeli tornò davvero a


vuotare il sacco su Van Gogh in Paragone (la rivista di Longhi) del
1952 e su Picasso, ‘‘voce recitante’’, in Paragone del 1953, con
osservazioni che non vale la pena riportare nel testo, ma compiendo
un voltafaccia suggerito dalla mutata situazione dopo la disfatta del
fascismo: Van Gogh fu allora elogiato, mentre su Picasso rimase
‘‘una grave insoddisfazione, ancor più che estetica, morale’’ (che
significa: sarebbe bravo, ma è comunista)41. Anche se altri critici
espressero simili denigrazioni verso i pittori dell’avanguardia, le
opere di Cézanne e Matisse furono quelle più problematiche e
meditate, come detto sopra. Severini giudicava Matisse artista di
tradizione bizantina, forse il più grande pittore del suo tempo:

‘‘(...) il suo costante sforzo di mantenersi in unione di spirito e di


‘mezzi’ con una lontana tradizione (che potrebbe essere quella di
Bisanzio) e la sua ‘qualità’ profonda francese, fanno di lui forse il più
grande pittore del nostro tempo, senza dubbio il più ricco di sano
insegnamento’’42.

Quello che si detestava nell’arte bizantina come antiitaliano (o lo


si apprezzava) era soprattutto la sua astrazione, il suo cromatismo, il
suo antiplasticismo, che appaiono simili nelle opere di Matisse. I
critici nazionalistici giudicarono questi valori negativi; positivi, in-
vece, erano in primo luogo plasticismo e naturalismo. Le caratteristi-
che negative dell’arte orientale sono, per Soffici, luminosità, linee
soavi, calligrafiche e melodiose, vaporosità elegante, finezza, eleganza
di tratti, ricchezza cromatica; le caratteristiche positive in arte sono

40
F. Arcangeli, “Della giovane pittura italiana e di una sua radice malata”, Proporzioni 1
(1943), pp. 85-98; citazioni dalle pp. 94, 96-98.
41
F. Arcangeli, “L’alfabeto di Van Gogh”, Paragone 3, n 29 (maggio 1952), pp. 21-51;
“Picasso, ‘voce recitante’“, Paragone 4, n 47 (novembre 1953), pp. 45-77. Longhi, maestro
di Arcangeli, nel 1954 giudicò invece Matisse genio unico come Picasso in “Matisse”,
L’Europeo 14 novembre 1954.
42
G. Severini, Ragionamenti sulle arti figurative (Milano, 1936, 2a edizione aumentata,
1942), il brano riportato è a p. 215.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

all’opposto sodezza di corpi e oggetti, peso, chiaroscuro, tragicità.


Per Carrà, i Bizantini si limitarono al concetto di pure zone cromati-
che entro forme geometriche43. Le caratteristiche positive in arte
sono realizzate da Cézanne, del quale si rivendica – necessariamente
– una genealogia italiana; la Sarfatti ne ufficializzò la italianità,
definendolo ‘‘un francese del Sud, di sangue semi-italiano (il nonno,
emigrando, aveva mutato in «Cézanne» il nome del suo paese d’ori-
gine, Cesena) inspirato dalle voci ataviche e dagli aspetti della sua
Provenza ellenica e romana’’. La stessa Sarfatti decretò l’italianità
anche di Picasso: ‘‘pittore dalla ascendenza latina curiosamente ve-
nata: Pablo Picasso, nato in Spagna di famiglia italiana e cresciuto a
Parigi’’, cosı̀ da poter concludere che i migliori rappresentanti della
pittura moderna erano l’italo-francese Cézanne e l’italo-spagnolo
Picasso. Se non il cognome di Cézanne, comunque, la plasticità delle
figure, l’architettonicità e concretezza dei volumi, le espressioni eroi-
che e severe dei personaggi, venne fatta risalire all’Italia e alla grande
tradizione di Giotto Masaccio e Michelangelo. Cézanne è, insomma,
l’erede di Giotto e della migliore (più plastica) pittura italiana; la
discussione su di lui va di pari passo in quegli anni con quella su
Giotto stesso. Cézanne, inoltre, fu detto cattolico di fede, non
panteista, ateo o materialista come gli impressionisti44.
La polemica di stampa contro Toesca e Venturi sul Giornale
d’Italia su arte italiana e arte francese ed orientale, si svolse contem-
poranea ad una discussione sull’arte contemporanea tra Lionello
Venturi e Ugo Ojetti45. Fu quest’ultimo ad aprirla con una ‘‘Lettera a
Lionello Venturi’’ pubblicata sulla rivista da lui diretta, Pègaso, nel
fascicolo del 1929. Ojetti, che aveva in mente gli interventi di
Venturi sull’arte contemporanea, tra i quali Pretesti di critica, uscito
nello stesso 1929, e Il gusto dei primitivi, uscito nel 1926 – riportò le
lodi di Venturi per Cézanne e la sua affermazione che, invece,

43
A. Soffici, “Cubismo e oltre”, Lacerba 1 (1913), pp. 10-11, 18-19, 30-32, specialmente
pp. 10 e 18. C. Carrà, “Da Cézanne a noi futuristi”, Lacerba 1 (1913), pp. 99-101,
specialmente p. 100.
44
M. Tinti, “Italianismo di Cézanne”, Pinacotheca 1 (1928-1929), p. 349. M. G[rassini]
Sarfatti, Storia della pittura moderna (Collezione “Prisma”, diretta da M. Sarfatti. Roma,
1930-VIII), citazioni da pp. 28, 31-32. Sull’apprezzamento di Cézanne in Italia: Longhi,
“L’Impressionismo e il gusto degli Italiani”, prefazione a J. Rewald, Storia dell’Impressioni-
smo (Firenze, 1949), pp. v-xxix.
45
U. Ojetti, “Lettera a Lionello Venturi”, Pègaso 1/2 (1929), pp. 728-732. L. Venturi,
“Risposta a Ugo Ojetti”, L’arte 33, n. s. 1 (1930), pp. 93-97. Per Lionello Venturi vedi al
capitolo 8.
LA DIFESA DELL’ARTE PATRIA 

‘‘cubismo e futurismo non hanno prodotto un’opera d’arte’’; Ven-


turi, inoltre, si sarebbe lamentato che ‘‘noi [italiani] non ci si sia
francamente messi alla scuola dei francesi, cioè degli Impressionisti
francesi; e che in Italia non vi sieno «né l’interesse né l’ammirazione
per l’arte francese, a causa dell’orgoglio che noi sentiamo per la
nostra grande arte passata»’’. Ojetti, a cui piacciono le masse definite
e i contorni netti di Cézanne, prosegue:

‘‘Io invece sono convinto che l’Impressionismo francese è oggi la


peggiore delle scuole cui un pittore italiano possa attendere; (...) che
Cézanne è (...) non un impressionista ma il primo e saldo oppositore
dell’Impressionismo di Monet, di Renoir, di Pizzarro, di Sisley, e dello
stesso Manet (...).
‘‘Il mondo degli Impressionisti è un mondo tutto aria e luce, senza
peso è il mondo dell’accidentale; il mondo invece della pittura italiana
è un mondo fatto di volume e di peso, di piani definiti e di ritmi
equilibrati.’’.

Ojetti espresse più ampiamente le sue idee sull’arte in Bello e


brutto del 193046. Venturi ebbe facile gioco a citare alcuni tra i più
ascoltati critici contemporanei (tra cui Roger Fry) per demolire l’idea
di Ojetti delle masse definite e dei contorni netti di Cézanne: nei suoi
quadri manca il disegno, mancanza che lo stesso artista persegue.
L’errore di Ojetti era, secondo Venturi, di carattere generale: Ojetti
pone volume e peso come concetti eterni (quindi come arte) e l’aria
e la luce come caratteri accidentali (quindi come non arte), concetti
che corrispondono alla opposizione stigmatizzata ne Il gusto dei primi-
tivi tra costruzione dei Greci e Romani (arte) e decorazione dei
Bizantini (non arte). Dunque:

‘‘Ci sono due modi di essere buoni italiani: l’uno è di parlar bene di
tutte le cose nostre e male di tutte le cose straniere; l’altro è di
assimilare tutto quello che si può delle cose straniere per divenire
migliori di prima e migliori degli altri. Preferisco il secondo’’47.

Nel frattempo Venturi si era rifugiato in Francia.

46
U. Ojetti, Bello e brutto (Milano, 1930).
47
U. Ojetti, “Lettera a Lionello Venturi”, Pègaso 1/2 (1929), pp. 728-732, citazioni dalle
pp. 728 e 731; L. Venturi, “Risposta a Ugo Ojetti”, L’arte 33, n. s. 1 (1930), pp. 93-97,
citazioni dalle pp. 94-95 e 97. Di Venturi vedi inoltre: “Paesaggio e figura. Un problema
della mostra del Novecento”, Il secolo, 2 marzo 1926; Pretesti di critica (Milano, 1929); “Per
una critica dell’arte contemporanea”, Solaria 7, n 3 (marzo 1932), pp. 36-40.
7

IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO:


PIETRO TOESCA

Mentre sul piano pubblico della retorica e delle grandi manifesta-


zioni la grande maggioranza degli storici dell’arte proclamavano il
loro sostegno alla politica culturale del regime, alcune personalità
espressero la loro opposizione nei loro scritti. Tra gli storici dell’arte i
più coraggiosi a rifiutare compromessi e acquiscenza furono Toesca,
Berenson e Lionello Venturi. Sul piano della ricerca scientifica que-
sta opposizione si manifestò appunto nel negare a Roma la suprema-
zia artistica sull’Oriente nel Medioevo e sulla Francia nell’età con-
temporanea. È necessario, in questo capitolo e nel successivo,
addentrarsi quindi in dettaglio nel contenuto dei loro scritti.
Dopo la prima guerra mondiale, con il periodo del ritorno all’or-
dine e l’avvento del fascismo, l’arte bizantina passò i suoi giorni più
neri in Italia, relegata a modello di spiritualità artistica quasi solo per
edifici religiosi, privati e marginali: la manifattura Chini di Borgo San
Lorenzo realizzò mosaici in stile bizantino nei cimiteri nei dintorni di
Firenze; in Romagna, per le cappelle religiose divennero di moda
decorazioni nello stile dei mosaici di Ravenna; in Terra Santa, Pietro
D’Achiardi fornı̀ disegni per il mosaico pavimentale con vasi e tralci
ispirati alle composizioni paleocristiane per la basilica del Tabor (fig.
1
64) . Dalla crescente adesione e a volte entusiastica adulazione verso
il fascismo restarono indenni pochi critici d’arte; di essi Pietro

1
Per le opere della manifattura Chini nel fiorentino vedi D. Salvadori Guidi, Guida alla
scoperta delle opere d’arte del ‘900 nella Provincia di Firenze (Firenze [1999?]) e S. Guerrini, I
Chini all’Antella. Opere di Dario, Galileo, Leto, Tito Chini e Manifattura Fornaci di San
Lorenzo nel Cimitero monumentale della Confraternita di Misericordia ([Firenze,] 2001). Sul
mosaico di D’Achiardi: C. Cecchelli, “Un mosaico”, Roma 3 (1925), pp. 23-24.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Toesca, ‘‘uomo tanto modesto nella vita quanto eminente negli


studi, devoto e pur originale continuatore dell’opera di Adolfo Ven-
turi’’, fu quello che ricoprı̀ le cariche di maggior prestigio e detenne
la massima autorevolezza (fig. 65)2. Toesca fu coerente assertore del
primato dell’arte bizantina sull’arte occidentale nel medioevo. La sua
autorevolezza e la sua assenza dalle polemiche artistiche del tempo lo
resero difficilmente attaccabile da parte dei critici nazionalisti. Ebbe
un atteggiamento riservato verso la società artistica del tempo e non
si espose in polemiche pubbliche, nonostante le cariche indubbia-
mente prestigiose che ricopriva. L’orientalismo dei suoi studi sul
medioevo dovette essere sopportato a malapena dai fascisti più
integralisti e fu attaccato allusivamente o garbatamente (salvo l’epi-
sodio del Giornale d’Italia) in più occasioni dai vari piaggiatori acca-
demici del potere3, per i quali la sua visione orientalistica di Bisanzio,
che giudicava il modello dell’arte medievale dell’occidente, fu sentita
come uno svilimento delle radici romane dell’arte europea.

a. Pietro Toesca
Scolaro di Adolfo Venturi a Roma, Toesca insegnò Storia dell’Arte
Medievale e Moderna all’Università di Torino da dove passò a
Firenze; poi, dal 1926, ricoprı̀ la cattedra di Storia dell’Arte Medie-
vale all’Università di Roma e dal 1931 tenne anche quella di Storia
dell’Arte del Rinascimento e Moderna. Dal 1929 successe a Ugo
Ojetti nella direzione della sezione Storia dell’Arte dell’Enciclopedia
Italiana. Con lui si formò la parte più autorevole degli storici dell’arte
italiana che tennero campo negli anni del fascismo e del dopoguerra
e che saranno coinvolti nelle polemiche su Bisanzio e Roma. Lionello
Venturi e Roberto Longhi furono tra i primi suoi studenti torinesi;
Emilio Cecchi e Paolo D’Ancona parteciparono alla discussione su
Giotto e i primitivi; Géza De Francovich e Giulio Carlo Argan,
scolaro quest’ultimo di Lionello Venturi, lavorarono con lui all’Uni-
versità di Roma ed all’Enciclopedia Italiana. Oltre che dai suoi scritti,
molte informazioni sulle idee di Toesca, soprattutto in merito a
questioni storico-artistiche, ai rapporti con colleghi e scolari e all’as-

2
La definizione di Toesca è dall’annuncio della morte apparso negli Atti della Accademia
Nazionale dei Lincei 359 (1962), ser. 8, Rendiconti. Classe di Scienze Morali, Storiche e
Filologiche, 17, fasc. 3-4 (marzo-aprile 1962), p. 186.
3
Vedi il Capitolo 6, paragrafo c.
IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA 

servimento della critica alle mode del tempo ed alla ideologia del
fascismo, sono contenute nel suo fitto epistolario: solo quello con
Bernard Berenson, suo ‘‘socio’’ in arte, consta di oltre 300 lettere
dagli anni Venti alla fine degli anni Cinquanta.
Toesca è indignato dalla immoralità e dalla povertà critica della
generazione più giovane di storici dell’arte. Non apprezza Croce:
‘‘S’Ella – scrive a Berenson – deplora lo stato degli studi tra noi, che
dovrei dire io che sono per forza a contatto di gomiti con questa
gente? Il Croce di certo ha guastato i cervelli’’; tantomeno, chi ha
abbracciato il fascismo, come Gentile, il ‘‘piccolo satrapo’’, o Cor-
rado Ricci e Roberto Paribeni, gli ‘‘eunuchi dell’arte’’, come li
definisce in una lettera a Berenson del 25 maggio 1931, nella quale
fa invece le lodi di Lionello Venturi, incontrato esule a Parigi,
‘‘mirabile’’ davvero nella sua infaticabilità:

‘‘Ed io ebbi a dirglielo pubblicamente quando gli presentai in quella


ultima lezione un ricordo dei suoi vecchi scolari: e lo dissi con tanto
maggior calore poiché erano presenti gli eunuchi dell’arte, Ricci e
Paribeni. Di quest’ultimo dovrò poi dirle lungamente’’4.

È convinto della mediocrità della critica italiana patriottica del


periodo fascista:

‘‘Ora se l’imparzialità corrispondesse a indifferenza non ci sarebbe


nello studio dell’arte un difetto peggiore; ma per me essa dovrebbe
essere quella serenità che lascia scoprire anche le cose lontane, e
impreviste: ed è una qualità invidiabile, che si fa sempre più rara, tra
noi specialmente per un malinteso patriottismo. Bisognerebbe a questo
proposito vedere il numero di ottobre [1930] della ‘‘revue’’ ‘‘Formes’’
con un articolo ‘‘Ex Roma lux’’ [di Waldemar George] in mezzo a
molti altri della mediocrità culturale italiana e forestiera.’’

Spesso è ‘‘disgustato’’ dalle manovre che si svolgono alle sue


spalle. Per il Premio Mussolini, al quale pensava di partecipare con Il
Medioevo rinuncia a ‘‘muovere un dito o spendere una parola: altri-
menti ci rimetterei ancora qualcosa’’. Di una voce di una sua promo-
zione alla Accademia d’Italia nel 1932 lamenta l’origine calunniosa e
malevola e l’atmosfera di sospetti, simile a quella di uno che si trovi
tra ‘‘banditi in una boscaglia’’:

4
Una biografia di Paribeni è stata scritta da Gugliemo De Angelis D’Ossat negli Studi in
onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni (Milano, 1956), 1, pp. lxiii-lxvi.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

‘‘La nostra [casa] avrebbe dovuto essere devastata da una specie di


tifone di calunnie, d’insinuazioni e di malvagità scatenatosi in questi
giorni contro di me quando si seppe che qualcuno pensava alla mia
candidatura all’Accad. reale. Io l’ignoravo: me ne portò iersera una
ventata l’amico Farinelli portandomi una delle tante insidiose lettere
anonime ricevute da lui e dai suoi colleghi nei giorni scorsi. È già
passata una notte; ci ho dormito sopra: e non ci penso più. Ma quella
lettera avrebbe potuto portare l’intestazione della Direz. Gen. delle B.
Arti [cioè di Paribeni]. Intanto, com’è naturale, di me non si è parlato:
e i pochi amici non hanno potuto far nulla. Ojetti di certo Le sarà largo
di particolari al suo ritorno. Ma qui è peggio che stare tra i banditi in
una boscaglia!’’

La figura di Toesca è stata finora studiata solo per gli anni della
formazione e del primo insegnamento a Torino. Un suo apprezza-
mento benevolo dei due focosi scolari Longhi e Lionello Venturi è
dato per scontato nelle rievocazioni di Toesca e, soprattutto, nelle
rievocazioni degli anni giovanili di Longhi fatte dagli scolari di
quest’ultimo; questa agiografia longhiana con ricostruzioni idilliache
dei rapporti Longhi-Toesca (ed anche Longhi-Berenson) è smentita
dall’epistolario di Toesca, almeno per tutto il periodo del fascismo.
Di Longhi Toesca non critica il suo contributo storico, ma ha in
fastidio i suoi modi arrivistici: il rinnegare i vecchi maestri per
opportunità di carriera, l’essere diventato ‘‘la ninfa Egeria’’ del mini-
stro Bottai, avere una presenza accentratrice nella rivista Le arti, una
creatura di Bottai5. Per la cattedra vacante di Storia dell’Arte del
Rinascimento di Roma, per la quale era stato posto dal governo

5
La bibliografia su Toesca, raccolta dalla moglie Elena Berti, è pubblicata nel fascicolo di
necrologio di E. Lavagnino, Pietro Toesca (Atti dell’Accademia Nazionale di San Luca, n. s.,
Note commemorative di accademici defunti, 3. Roma, 1962). Su Toesca vedi: E. Castel-
nuovo, “Introduzione”, in Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia, pp. xxiii-lv; G.
Romano, “Pietro Toesca a Torino”, Ricerche di Storia dell’arte n 59, 1996, pp. 5-16 (alla
nota 1 p. 12 bibliografia su Toesca); id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali
(Roma, 1998); M. Aldi, “Pietro Toesca: tra cultura tardo-positivista e simbolismo. Dagli
interessi letterari alla storia dell’arte”, Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di
Lettere e Filosofia, ser. 4, 2/1 (1997), pp. 145-191. Le lettere di Toesca a Berenson sono
conservate nella Biblioteca Berenson di Villa I Tatti, Settignano (Firenze); le notizie ed i
brani riportati nel testo sono in lettere datate 17.1.1928, 7.11.1928, 16. 1.1929, 3.4.1929,
26.6.1929, 29.12.1930, 4.2.1931, 19.2.1931, 25.5.1931, 8.5. 1931, 16.11.1931,
10.3.1932, 22.7.1934, 16.10.1934, 11.3.1935, 4.8.1935, 8.9. 1935, 10.11.1935, 2.9.1937,
29.1.1938, 17.10.1938, 1.11.1939, 25.3.1945, 12.5.1945, 11.8.1945, 30.7.1945, 8.4.1946,
7.6.1946, 19.12.1947, 26.9.1949, 26.11.1949. Quanto a Bottai e Longhi, va ricordato che
Bottai volle come collaboratori al ministero alcuni tra i migliori critici d’arte del momento,
anche se non devotamente allineati sulle posizioni del fascismo, oltre a Longhi, Cesare
Brandi e Giulio Carlo Argan: A. J. De Grand, Bottai e la cultura fascista (Bari, 1978), p. 263.
IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA 

fascista un veto alla candidatura di Lionello Venturi per via, fu detto,


dei rapporti di quest’ultimo con l’industriale antifascista Gualino,
piuttosto che esporla alle ambizioni di Longhi, Muñoz o Colasanti,
Toesca preferisce passarvi lui stesso ricoprendo per incarico la sua
vecchia cattedra di Storia dell’Arte Medievale. Solo dopo la fine della
seconda guerra mondiale Toesca accetta le avances di Longhi per un
riavvicinamento. Ma anche di Lionello Venturi Toesca è poco soddi-
sfatto, nonostante abbia sostenuto ‘‘il figlio di Adolfo’’ per la catte-
dra romana. Toesca ha un giudizio negativo anche verso tutti quegli
studiosi emersi dopo la liberazione e di poco valore ai suoi occhi,
soprattutto Ragghianti; apprezza dichiaratamente solo due giovani
studiosi: Giulio Carlo Argan, che gli pare ‘‘un giovane intelligente, di
tempra assai diversa dagli altri ragghianti («fama mia ti raccomando –
al somier che va ragghiando» Jacopone), ma è stato guastato dalle
influenze lionellesche, a Torino, che ora si vanno dissolvendo’’; e
‘‘l’amico’’ Ranuccio Bianchi Bandinelli, del quale dice di avere
‘‘molta fiducia in lui, sperando che non lo abbia guastato la condire-
zione di «La critica d’arte» con il famigerato Ragghianti’’ (che poi
farà ‘‘sloggiare’’ Bianchi Bandinelli dalle stanze al Ministero con
disappunto di Toesca).

b. Toesca orientalista
Lo spirito filobizantino di Toesca salta subito agli occhi nei suoi
scritti e nell’epistolario con Berenson, che condivideva con lui l’inte-
resse per Bisanzio. Toesca mette a parte Berenson di letture, mostre,
congressi e restauri che toccano Bisanzio6. Consiglia Berenson di
vedere i manoscritti bizantini miniati della biblioteca delle Missioni
Urbane a Genova; desidera leggere La miniature byzantine di Eber-
solt; parla della Pittura bizantina di Muratov; non trova alcuni dei
manoscritti miniati visti ad Atene nel catalogo di Paul Buberl; rac-
conta dei codici bizantini portati dall’Asia Minore e in particolare da
Smirne da profughi greci ed esposti al Musée des Arts Décoratifs di
Parigi; menziona l’evangeliario bizantino della Biblioteca Palatina di
Parma (cod. 5) le cui foto ha rifiutato ‘‘al caro Lazarev’’; parla di un

6
Le citazioni sono da lettere di Toesca a Berenson conservate nella Biblioteca Berenson
di Villa I Tatti e datate 21.2.1928, 28.8.1928, 14.10.1928, 20.12.1928, 22.1.1930,
27.1.1931, 26.4.1931, 17.8.1931, 23.8.1933, 26.1.1934, 2.8.1936, 17.11.1937, 22.7.1947,
19.2.1948, 7.6.1948, 25.2.1949, 12.12.1949, 13.5.1950.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

volume dello Strzygowski sull’arte in Asia (probabilmente Asiens


bildende Kunst in Stichproben del 1930); è entusiasta della mostra di
fotografie della Grande Moschea di Damasco allestita a Ravenna e di
ciò che quei mosaici provano per le influenze orientali sull’arte
occidentale; è disgustato dal volume Roma o Bisanzio? ‘‘di un certo
Galassi’’ che ha l’imprimatur della Libreria dello Stato; racconta di
essere salito sulle impalcature di Santa Maria Maggiore a vedere i
mosaici; visita la mostra di arte bizantina a Parigi nel 1931; è colpito
dalla bellezza dei manoscritti armeni di San Lazzaro a Venezia (‘‘dei
capolavori’’, ‘‘tra le cose più belle della maniera aulica bizantina’’); si
lamenta dei ‘‘pessimi restauri’’ fatti dal Ricci nel duomo di Torcello;
non è convinto che il rapporto sui restauri dei mosaici di Santa Sofia
di Costantinopoli contenga delle novità; chiede a Berenson, che è a
Sarajevo, di procurargli fotografie di affreschi bizantini; si preoccupa
dei lavori di restauro nella chiesa di San Vitale e nel mausoleo di
Galla Placidia di Ravenna; segue appassionatamente la scoperta degli
affreschi di Castelseprio che a prima vista gli ricordano Mistra, ma
sono senz’altro più antichi, forse del VI-VII secolo, e costantinopoli-
tani tranne il Cristo che è di altra tradizione; menziona un incontro
con André Grabar a Roma per il congresso bizantino nel 1948 al
quale non potrà partecipare; richiede e poi riceve il libro di Otto
Demus Byzantine Mosaics Decoration del 1948 (‘‘abbastanza interes-
sante’’); compra Les peintures de l’Evangéliaire de Sinope di Grabar; si
emoziona nello sfogliare pagina per pagina l’Evangeliario di Rossano
(‘‘dove sarà stato immaginato, con tanta raffinatezza, questo capola-
voro? ’’, un giudizio simile a quello del suo maestro Adolfo Venturi);
legge la monografia di Weitzmann su Castelseprio, ma non ne
condivide le tesi (‘‘per me punto persuasivo’’).
L’interesse per Bisanzio fu trasmesso a Toesca da Adolfo Ven-
turi. Su L’arte, diretta appunto da Venturi, dove appaiono in quegli
stessi anni altri articoli su Bisanzio, Toesca scrisse nel 1906 un
articolo dal titolo ‘‘Cimeli bizantini’’, nel quale sono discussi un
calamaio metallico sbalzato con figure di divinità pagane nel Tesoro
del Santo a Padova (fig. 66), che l’epigrafe alla base dice donato a un
certo Leone scriba e che Toesca data al IX-X secolo, e una cassetta
eburnea ad Anagni con scene mitologiche, che Venturi vorrebbe del
IV-V secolo, mentre Toesca propone una data molto distante, il XIII
secolo. Caso singolare tra gli storici dell’arte italiani del suo tempo,
Toesca utilizza insieme analisi tecnica, lettura stilistica e studio
paleografico dell’iscrizione greca; agli sbalzi del calamaio, inoltre,
IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA 

collega stilisticamente miniature bizantine in manoscritti quasi sco-


nosciuti a quel tempo (i Cinegetica di pseudo-Oppiano alla Marciana
di Venezia, ad esempio). I riferimenti bibliografici sono aggiornati
sulle pubblicazioni recenti di Kondakov, Schlumberger, Tikkanen. Il
giudizio sul ruolo di Bisanzio nel medioevo, col quale Toesca chiude
l’articolo, è apologetico:

‘‘Coscientemente, e non per vano gioco di decoratore, l’artefice ri-


trasse immagini classiche intorno al calamaio di uno di quei calligrafi
bizantini ormai oscuri, ma per sempre benemeriti, trasmettitori a noi
del pensiero e della bellezza antica.’’7.

Ancora prima di ‘‘Cimeli bizantini’’, Toesca aveva mostrato di


recepire quanto la bizantinistica estera stava costruendo in quegli
anni ed aveva espresso la sua inclinazione per una interpretazione
orientalistica dell’arte medievale italiana in un lungo lavoro del 1902
sugli affreschi medievali di Anagni (figg. 67-68). Qui, Toesca intro-
duce nuovamente manoscritti miniati bizantini per confronto (il
Dioscoride di Vienna, l’Evangeliario di Rabbula della Laurenziana, il
Cosma Indicopleuste della Vaticana). Tra la bibliografia citata com-
paiono i lavori di Strzygowski. Toesca si lamenta che fino ad allora si
è voluto ‘‘adunare in poche linee la storia dell’arte di tutto un impero
che dall’Asia Minore giungeva sino all’Italia’’ e si sono volute met-
tere insieme nel giudizio ‘‘opere create a dilettare gli ozi dei porfiro-
geniti e iconi riprodotte a soddisfare la folla dei credenti’’. Proce-
dendo parallelo alla tesi di Krumbacher dei tre tipi della letteratura
bizantina – ‘‘una produzione per dotti che sognavano antiche bellez-
ze’’, ‘‘una letteratura popolare (...) la quale non risentiva che di
lontano l’influenza di tanti studi’’, ed infine ‘‘il parlare volgare [che]
andava sempre più diversificandosi e diventando estraneo alla lingua
fittizia delle persone più colte’’ –, Toesca propone tre diversi maestri
per gli affreschi della cripta di Anagni: un Frater Romanus di Su-
biaco, il più colto dei tre, che è forse un bizantino (avrebbe latiniz-
zato il nome greco Romanos), che probabilmente copiò le sue pitture
da un manoscritto miniato e lavorò anche in altri monumenti laziali,
tra i quali il Sacro Speco di Subiaco; il ‘Pittore delle Traslazioni’, che
usa una ‘‘tecnica’’ bizantina, ma con alcuni caratteri che lo fanno
supporre un artista campano, bizantineggiante, che operò alla corte

7
P. Toesca, “Cimeli bizantini”, L’Arte 9 (1906), pp. 35-44.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

di Federico II; il ‘Pittore ornatista’, il più debole del gruppo, che


tentò invano di animare i suoi modelli bizantini e che doveva essere
un pittore attivo a Roma o Subiaco8.

c. Il Medioevo bizantino: le origini dell’arte


cristiana ed i mosaici di Ravenna
Il Medioevo di Toesca, che uscı̀ in dispense tra il 1913 e il 1924 (figg.
69-74), contiene un articolato giudizio su Bisanzio basato su di un
corpus di monumenti ben più ampio di quello fatto conoscere dalla
Storia dell’arte italiana di Adolfo Venturi, i cui tre volumi sull’arte
paleocristiana e medioevale erano usciti tra il 1901 e il 19049.
Rispetto a Venturi, Toesca include un alto numero di manoscritti
miniati bizantini suddividendoli tra un esiguo gruppo della ‘‘maniera
classicheggiante’’ (fig. 70), un secondo gruppo, il più numeroso,
della ‘‘maniera propriamente bizantina su fondo classico’’, un terzo
gruppo della ‘‘maniera volgente a modi sempre più tormentati’’, e un
quarto della ‘‘maniera dalle forme più popolari e trasandate’’10. Il

8
P. Toesca, “Gli affreschi nella Cattedrale di Anagni”, Le Gallerie Nazionali Italiane.
Notizie e documenti 5 (1902), pp. 116-187, citazioni sono da pp. 151, 155, 157.
9
Una bella e giusta definizione de Il Medioevo è stata data da Carlo Bertelli in “Traccia
allo studio delle fondazioni medievali dell’arte italiana”, in Storia dell’arte italiana, parte II,
Dal Medioevo al Novecento, vol. 1, Dal Medioevo al Quattrocento (Torino, 1983), p. 13:
“All’estrema soggettività della storiografia risorgimentale, la storiografia del Novecento ha
opposto un mondo di certezze, costruito su analogie stilistiche evidenti e su documenti
esterni accertati. La mappa di questo mondo di verità è Il Medioevo di Pietro Toesca,
grande e inarrivabile monumento che un uomo solo e solitario, attraverso l’esame diretto di
ognuno degli infiniti oggetti commentati, ha dato alla propria patria, scavalcando in uno
sforzo senza eguali ritardi pluridecennali di studi e di istituzioni. Se, a distanza di decenni e
malgrado correzioni di molti particolari, Il Medioevo resta il punto di riferimento più sicuro,
un quadro generale di valutazioni sostanzialmente intatto, è perché non sono stati messi in
discussione, se non in maniera arbitraria – per esempio, nel trasferimento da noi della
polemica strzygowskiana su Oriente e Occidente – i fondamenti stessi della storia dell’arte
come scienza di fatti verificabili.”.
10
Toesca, Il Medioevo. A nota 3 pp. 1021-1022, Toesca elenca una quarantina di
manoscritti miniati bizantini: 3 della maniera classicheggiante (tra cui il Salterio Vat. gr.
381, il Giobbe Marciano gr. 540 [538]), 27 della maniera propriamente bizantina su fondo
classico (tra cui la Catena sui Profeti, plut. 5.9, e l’Ottateuco plut. 5.38 della Laurenziana; i
due Ottateuchi vaticani, Vat. gr. 746 e Vat. gr. 747; l’evangeliario Urb. gr. 2; il Menologio
di Basilio II, Vat. gr. 1613, ed il Salterio di Basilio II, Marc. gr. 18; l’evangeliario di Parma,
Palat. 5); 8 della maniera tormentata (tra cui il Giovanni Climaco Vat. gr. 394, gli
evangeliari vaticani Vat. gr. 1156, Vat. gr. 1158 e Vat. gr. 1208, le Vite dei Padri del deserto
Vat. lat. 375); 3 della maniera popolare (l’Ambrosiano D 67 sup., il Vat. gr. 1754, il
Marciano cl. I, XXII).
IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA 

giudizio di Toesca sull’arte bizantina non era sempre entusiastico,


ma era vicino a quello di Berenson e filobizantino senza ambiguità
nei tre punti caldi della polemica sul primato di Roma o di Bisanzio e
l’Oriente che si svolgerà negli anni Venti e Trenta in Italia: le origini
dell’arte cristiana, l’arte dell’alto medioevo in Italia, la pittura del
Duecento e le origini artistiche di Giotto.
Per le origini dell’arte cristiana Toesca respinge la visione del-
l’arte antica a primato romano espressa dai due caposcuola viennesi
Franz Wickhoff e Alois Riegl. In Die Wiener Genesis del 1895,
Wickhoff aveva proposto l’idea di un’arte romana che estende la sua
area di influenza in tutto il mondo antico e dalla quale nacque l’arte
cristiana; Alois Riegl, invece, analizzando in Spätrömische Kunstindu-
strie del 1927 la scultura del periodo tardoromano ed in particolare i
rilievi dell’arco di Costantino, vi aveva visto non una decadenza, ma
la ricerca di effetti coloristici intesi a dare una impressione di superfi-
cie ottica ai rilievi, piuttosto che di superficie tattile come nel periodo
classico, preludendo cosı̀ all’arte medievale11. Toesca propose una
versione moderata della interpretazione orientalista di Strzygowski,
più volte citato nelle note, di un’arte romana dipendente dall’arte
dell’Oriente ellenistico, una idea che fu uno dei bersagli polemici dei
critici italiani schierati con il fascismo. Il Medioevo inizia cosı̀ con la
dichiarazione esplicita che nella trasformazione dell’arte nel periodo
delle origini cristiane, le regioni orientali ebbero ‘‘un’azione assai più
viva e preponderante’’ che le occidentali; Asia Minore, Egitto e Siria
‘‘ebbero parte prevalente nell’elaborazione di un’arte nuova, prepara-
rono i procedimenti tecnici, le tendenze stilistiche, l’iconografia al-
l’arte bizantina, che doveva svolgersi, e predominare dovunque essa
fu nota, durante tutto il Medioevo’’. Fino al IX secolo le regioni
orientali ebbero quindi il primato nella formazione e nello svolgi-
mento dello stile e della iconografia cristiane. Distinguendosi da
Strzygowski, Toesca affermò tuttavia che Bisanzio ed i centri artistici
più orientali dell’impero, come i conventi della Mesopotamia dove a
quel tempo si credeva realizzato l’Evangeliario di Rabbula, furono
largamente influenzati dalle tradizioni ellenistiche di Egitto ed Asia
Minore; l’azione dell’arte orientale, anteriore e diversa da quella
ellenistica, non sarebbe invece determinabile con uguale chiarezza:

11
W. R. von Hartel e F. Wickhoff, Die Wiener Genesis (Prag – Wien – Leipzig, 1895); A.
Riegl, Spätrömische Kunstindustrie (Wien, 1927), traduzione italiana Arte tardoromana, a cura
di L. Collobi Ragghianti (Torino,1959), spec. pp. 73 sgg.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

da essa probabilmente derivarono alcuni dei caratteri principali del-


l’arte bizantina che la differenziano da quella ellenistica, come ‘‘la
tendenza a figurazioni trascendenti della realtà’’, ‘‘la semplificazione
del tutto convenzionale di molti modi di espressione’’, ‘‘la predile-
zione di composizioni simmetriche’’, ‘‘la fredda severità ieratica delle
rappresentazioni tanto lontana dall’umano realismo dell’arte classi-
ca’’. Come esempi, Toesca portò l’Evangeliario di Rabbula e l’Evan-
geliario di Rossano12.
Toesca fu parimenti perentorio sulla paternità bizantina dei mo-
saici di Ravenna, relativamente ai quali focalizzò le differenze stilisti-
che tra opere di secoli differenti. I mosaici di Galla Placidia non
trascendono né nell’astratto né nel convenzionale, il paesaggio ha un
sentimento pittoresco che proviene dall’arte classica; il colorito è
impressionistico. A Sant’Apollinare Nuovo i soggetti narrativi la-
sciano il campo a figurazioni ideali: nella teoria di martiri sulla parete
destra della navata la realtà è immiserita, le forme sono prive di vita,
povere, senza rilievo, struttura e movimenti, ed il colore impressioni-
stico è scomparso; nella teoria delle vergini, di qualità molto più alta,
sulla parete sinistra, le figure hanno caratteri personali e sono variate
con finezza; qui si procede verso l’ascetismo allontanandosi dalla
realtà. Quanto a San Vitale, i mosaici di Giustiniano e Teodora non
hanno carattere naturalistico, come quelli di Sant’Apollinare Nuovo,
ma decorativo; il colorito non è impressionistico ed i ricordi classici
si sono attenuati13.
Toesca individuò nei mosaici di San Vitale l’affermazione del
primato di Bisanzio su Roma: in un secolo in cui andava risolvendosi
l’unità di cultura e arte del Mediterraneo a favore dell’Oriente, questi
mosaici

‘‘piuttosto che lo scadimento di concezioni e forme antiche dell’arte, il


loro vivace tramutarsi nelle nuove che nella pittura bizantina matura-
rono sempre più, delle quali non i due mosaici di Giustiniano e
Teodora, ma gli altri [a San Vitale stessa] rivelano la grandezza
monumentale, il senso del colore e già il formarsi di certe stilizzazioni
poi lungamente mantenute.’’14.

Cosı̀, per Toesca, lo stile bizantino che dominerà il medioevo è

12
Toesca, Il Medioevo, pp. 14, 156-157, 159-162 e figg. 91-92.
13
Ivi, pp. 181-198.
14
Toesca, S. Vitale, p. 20.
IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA 

quello che mantiene la plasticità e il naturalismo dell’antichità e li


proporrà come modelli agli artisti del medioevo occidentale. L’indi-
pendenza e determinatezza del giudizio di Toesca sulle qualità dei
mosaici di San Vitale risalta al confronto con le interpretazioni date
nei manuali italiani di storia dell’arte in uso negli anni Venti e
Trenta. Nel più diffuso tra questi, il Compendio di storia dell’arte di
Goffredo Bendinelli, professore di archeologia all’Università di To-
rino, sono annotati difetti, bizzarie, stucchevolezze dei mosaici giudi-
cati secondo i criteri classici della verosimiglianza. Le teorie dei santi
danno a Bendinelli ‘‘una impressione di monotonia che sostanzial-
mente si riceve dalla ripetizione stucchevole, già annunziatasi in
monumenti precedenti, di schemi figurativi, in cui gli aspetti della
realtà sono ridotti a geometriche combinazioni di linee’’; se si vo-
gliono riconoscere in questo le impronte di un’arte nuova, detta
bizantina (qui è probabilmente una polemica con Toesca), quest’arte
si presenta ‘‘priva di vitalità e di avvenire, incapace di lottare con i
residui della grande arte classica’’; insomma, siamo di fronte all’ul-
timo capitolo della gloriosa arte antica piuttosto che al preludio di
un’arte nuova, che si sarebbe ‘‘cristallizzata e fossilizzata al suo
primo apparire’’. Negata, di fatto, l’esistenza di un’arte bizantina,
Bendinelli liquida anche i mosaici dei cortei imperiali di San Vitale,
dove le figure sono semplicemente disegnate da incompetenti, inebe-
tite e con gli occhi sbarrati, fantasmi sospesi a mezz’aria che si
pestano i piedi:

‘‘contro alle più elementari leggi prospettiche e naturali, le figure sono


disegnate esattamente tutte di fronte e sopra un medesimo piano, prive
di espressione in quei vôlti dagli occhi sbarrati e prive affatto di rilievo
nel contorno piatto delle membra e delle vesti, prive di reale consi-
stenza nella mancanza pressoché completa delle ombre. Sembrano
quasi fantasmi sospesi a mezz’aria, poiché l’artista ha collocato uno
sull’altro i piedi delle figure, come per insufficienza di spazio.’’15.

Questi commenti di Bendinelli, che possono oggi far sorridere,


erano condivisi dagli storici dell’arte con idee più conservatrici o
accademiche. Luigi Serra, ad esempio, ripete giudizi negativi del
repertorio ottocentesco sulla pompa orientale nei mosaici di Ra-
venna, dove il lusso bizantino avrebbe corrotto l’arte romana, sottoli-

15
G. Bendinelli, Compendio di storia dell’arte dal Quattrocento ai tempi nostri (Milano –
Roma – Napoli, 1926), citazioni da p. 54 e pp. 51-52.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

neando la insensibilità e mancanza di espressioni e di affetti delle


figure bizantine e l’’aspetto mostruoso e terrificante della divinità nei
mosaici di Ravenna:

‘‘[A Ravenna] Nel secolo VI le grandiose forme romane si decompon-


gono a contatto del lusso e della rigidità jeratica delle figurazioni
bizantine, spoglie di ogni grazia corporea, insensibili ad ogni espres-
sione di affetti. Per esprimere appieno l’essenza del divino se ne
rinnega ogni carattere umano, lo si rende terrificante e quasi mo-
struoso, lo si avvolge in una spettacolosa ricchezza intesa con alti spiriti
ornamentali. Nella Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, in sostituzione
de’ musaici del tempo di Teodorico, si dispiega un ciclo in cui le
ultime manifestazioni musive improntate di classicità si accompagnano
alle prime espressioni dell’’abbagliante decorativa pompa orientale.’’.

‘‘Abbagliante pompa orientale’’ è una delle frasi fatte che veni-


vano usate per l’arte bizantina in questi anni; la terribilità della
divinità, invece, non si capisce dove sia a Ravenna: è possibile che
Serra forse confonda le immagini divine dei mosaici ravennati con i
pantocratori delle chiese siciliane16.
Le conclusioni della discussione di Toesca sui mosaici di Ra-
venna ne Il Medioevo furono che essi sono tutti bizantini, dai più
antichi del Mausoleo di Galla Placidia del secolo V, che erano
comunemente collegati all’arte romana o dati di scuola ravennate,
fino a quelli del secolo VI di San Vitale, che erano collegati a
Costantinopoli. La schematizzazione vigente nella critica del primo
Novecento e del periodo fascista intendeva bizantino come astratto e
incorporeo e romano come plastico; Longhi, ad esempio, pur allievo
di Toesca, scrive senza animosità, nel 1914, dei mosaici di San Vitale
come capolavoro del colorismo bizantino, con figure su di un solo
piano, senza forma né spazio, da contrapporre allo stile plastico dei
mosaici romani17. Non solo i due pannelli imperiali di San Vitale
sono bizantini e gli altri occidentali, ma, al contrario, Toesca dichiara
che ‘‘non si può concludere che soltanto quei due mosaici apparten-
gano all’’orbita dell’arte orientale e bizantina, tutti gli altri invece ad
una tradizione classicheggiante, nostra, in contrasto con quell’arte’’.
Le differenze tra i mosaici di Ravenna, che pure sono grandi, non

16
L. Serra, Storia dell’arte italiana, 1 (Milano, 1924), p. 94.
17
R. Longhi, “Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana”, L’Arte 17
(1914), pp. 198-221, 241-256 (ristampato in R. L., Scritti giovanili. 1912 – 1922 [Firenze,
1961], pp. 61-106).
IL FRONTE INTERNO FILOBIZANTINO: PIETRO TOESCA 

permettono di rintracciare lo svolgimento di una tradizione locale,


ma riflettono tendenze diverse nell’arte bizantina; questi mosaici
mostrano una continua importazione di forme artistiche dall’esterno
e sono dovuti ad artisti venuti da Costantinopoli o educati all’arte
orientale18.

d. Il Medioevo bizantino: dai mosaici romani a Giotto


La pittura bizantina è stata cosı̀ multiforme da accogliere insieme la
tradizione del naturalismo ellenistico e forme del tutto opposte.
Come a Ravenna, anche negli affreschi di Santa Maria Antiqua a
Roma, la varietà di maniere che si susseguono cronologicamente va
collegata alle tendenze di stile che l’arte bizantina accolse in sé –
anche se alcune di quelle pitture furono opera di artisti romani. Una
scuola artistica romana con proprie caratteristiche unitarie fiorirà
solamente nel secolo IX e realizzerà i mosaici dei Santi Nereo ed
Achilleo, Santa Maria in Domnica, Santa Prassede (fig. 71), Santa
Cecilia, San Marco. Anche in questo caso, però, non si trattò di un
rinnovamento dell’arte paragonabile a quanto avvenne contempora-
neamente nella pittura carolingia, ma di una variante secondaria
della pittura medievale, una imitazione del tutto superficiale di forme
più antiche: questi artisti di scuola romana appiattirono il modellato,
tolsero al colorito ogni valore plastico, ridussero l’arte a intenti di
decorazione. La stessa definizione di stile, insomma, che altri critici
usavano per le opere d’arte bizantina, Toesca usa per l’arte romana
altomedievale: l’arte di Roma come negazione della tradizione pla-
stica antica che Bisanzio conservò e che quei critici attribuivano
propagandisticamente a Roma19.
La capacità dell’arte bizantina di mantenere e rinnovare la classi-
cità nella sua arte ed il suo primato sull’arte occidentale sono temi
ripetuti ne Il Medioevo per i monumenti più discussi e qualitativa-
mente più alti, come le figure a stucco del tempietto di Santa Maria
in Valle a Cividale. La pittura dei secoli XI e XII in Italia è giudicata
da Toesca ‘‘aliena quasi in tutto ai concetti ornamentali d’oltralpe’’ e
‘‘più intimamente consona ai bizantini’’; le Bibbie romane del secolo
XI e XII, come la Bibbia di Perugia (fig. 72), hanno iconografia e

18
Toesca, Il Medioevo, pp. 193-199.
19
Toesca, Il Medioevo, pp. 394-401.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

manierismi stilistici bizantini; le pitture murali del periodo ‘‘si pos-


sono classificare, più ordinatamente che con altri criteri, secondo il
vario grado dell’influsso bizantino’’, che cresce con l’inoltrarsi nel
secolo XII; in Toscana l’azione bizantina fu profonda e crescente e
variata più che altrove per molteplicità di temperamento20. Una
lettura simile dà Toesca per il Duecento in Toscana (figg. 73-74),
dove ‘‘operò a fondo il fattore bizantino’’ in tutti i centri artistici e la
cui ‘‘azione crescente fu accompagnata da un crescente potere degli
artisti nostri, prima nel comprenderlo e modificarlo, poi in proprie
individualità, liberandosene’’; l’influsso bizantino ebbe la massima
intensità nel periodo che precedette Giotto, ‘‘quasi fosse necessario
elevarsi a possedere le forme bizantine (come un Cimabue, Duccio,
Torriti e Cavallini) prima di sorpassarle per una pittura tutta no-
stra’’:

‘‘Altri, troppo impazienti di questa – scrive polemicamente Toesca –,


non riconosce appieno quel fatto, e si trattiene a osservare tra noi i
divari dello stile bizantino e le tradizioni locali. Ma quell’influsso, già
avviato e perenne nei secoli anteriori, si può accertare in modo oggetti-
vo.’’21.

La posizione di Toesca non mutò negli anni seguenti, sia nelle


voci da lui redatte per l’Enciclopedia italiana, sia nella monografia su
22
Giotto del 1941, sia infine nel volume Il Trecento del 1951 .

20
Toesca, Il Medioevo, pp. 918-919, 927-928, 989. Sulle Bibbie romane vedi anche P.
Toesca, “Miniature romane dei secoli XI e XII. Bibbie miniate”, Rivista del R. Istituto di
Archeologia e Storia dell’Arte 1 (1919), pp. 69-96.
21
Toesca, Il Medioevo, pp. 969-1005.
22
Vedi il Capitolo 11.
8

GLI ALTRI FILOBIZANTINI


(BERENSON, LIONELLO VENTURI),
GLI ALLINEATI, I MANUALI

Berenson intervenne solo una volta negli anni Venti nella discussione
su Bisanzio e l’Italia con posizioni vicine a quelle di Toesca. Citta-
dino americano, Berenson restò defilato rispetto allo scontro sulla
romanità dell’arte medievale; tuttavia, per la sua autorevolezza inter-
nazionale, la sua raccolta di opere d’arte e la sua biblioteca di Villa I
Tatti a Settignano, sulle colline nei dintorni di Firenze, che fu punto
di riferimento per le ricerche per molti storici dell’arte, soprattutto
quelli non allineati con i facinorosi romanisti, Berenson risultò una
seconda spina nel fianco, accanto a Toesca, per i critici nazionalisti;
con la dichiarazione di guerra tra Italia e Stati Uniti i suoi nemici
fiorentini richiesero inutilmente il suo arresto come spia e la confisca
di Villa I Tatti e degli altri suoi beni.
Lionello Venturi fu il critico filofrancese e filobizantino più esposto
negli anni del fascismo, perché in prima linea nella fondazione dei fasci
torinesi e per via del prestigio del padre, Adolfo; fu anche il più coin-
volto nelle polemiche figurative in corso, soprattutto a motivo della sua
idea del primato dell’arte francese contemporanea su quella italiana, e
per questo fu ripetutamente attaccato da futuristi, nazionalisti e fascisti
sulla stampa, sulle riviste d’arte e durante le sue lezioni universitarie,
un copione già sperimentato con altri accademici oppositori della dit-
tatura, intimiditi e percossi insieme ai loro studenti dai manganellatori
del Partito Nazionale Fascista. La perdita della cattedra universitaria
per il rifiuto al giuramento richiesto nel 1931 ai docenti universitari di
formare cittadini “devoti alla patria e al Regime Fascista” e l’emigra-
zione dall’Italia furono l’esito della sua apostasia del fascismo.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Sergio Bettini fu il primo studioso italiano a fornire un panorama


complessivo dell’arte bizantina; a differenza di Berenson e Venturi
dette brutta prova di coerenza e morale scientifica: aderı̀ alla retorica
romanista del regime e screditò l’immagine di Bisanzio come centro
artistico.

a. Bernard Berenson, filobizantino


Berenson è conosciuto principalmente come storico dell’arte del
Rinascimento fiorentino (fig. 75). Negli anni Venti, discutendo due
tavole con immagini della Madonna da Costantinopoli, Berenson
dichiarò che la pittura bizantina non faceva parte del suo mestiere e
ne parlava solamente sulla base della intuizione derivata dalla sua
esperienza pluridecennale con l’arte: “negli studi medievali sono un
neofita”1. La sua formazione internazionale fece di Berenson, tutta-
via, un grande estimatore dell’arte dei primitivi, dell’arte bizantina e
russa e dell’arte dell’estremo Oriente. Weitzmann, nelle sue memo-
rie, ricorda lo stupore per le sue conoscenze bibliografiche su Bisan-
zio, quando i due si conobbero durante una visita in anteprima alla
Mostra Storica Nazionale della Miniatura2. Anche i viaggi di Berenson
testimoniano l’interesse per l’Oriente: nell’autunno del 1928 passò
un lungo periodo a Costantinopoli, si spostò poi nell’Anatolia e
quindi andò a Salonicco a vedere chiese e mosaici bizantini (rimase
entusiasta del Cristo di Hosios David); nel 1936 visitò Sarajevo e le
chiese ed i monasteri serbi (tra i quali Peć, Dećani, Mileševa,
Studenica); nel 1937 visitò i monumenti bizantini nelle isole egee
occupate dall’Italia (tra le quali Rodi e Cipro). Più volte, nelle lettere
di Toesca, Berenson si mostra appassionato di opere bizantine; nel
1928, in preparazione del viaggio in Turchia, cercò di procurarsi con
l’aiuto di Toesca un permesso per visitare la Biblioteca del Serraglio

1
Le notizie riportate sulla vita di Berenson sono tratte dalle biografia scritta dalla sua
segretaria Nicky Mariano, Forty Years with Berenson, con una introduzione di K. Clark
(New York, 1966); altre notizie in E. Samuels, con la collaborazione di J. N. Samuels,
Bernard Berenson. The Making of a Legend (Cambridge, Mass. – London, 1987).
2
K. Weitzmann, Sailing with Byzantium from Europe to America. The memoirs of an art
historian (München, 1994), p. 237:
“This was the only time I would meet Berenson, who impressed me with his acquain-
tance with my writings, though they hardly touched his special fields of interests. He
graciously invited me to visit him at I Tatti, but I never had the chance to accept this
tempting offer.”.
GLI ALTRI FILOBIZANTINI 

a Costantinopoli e vedere l’Ottateuco miniato lı̀ conservato, cosa che


finalmente gli riuscı̀; cosı̀ Berenson rievocò la visita anni dopo:

“(...) il più famoso di tutti gli harem, quello annesso al Yildiz Kiosk, la
vecchia residenza dei sultani a Costantinopoli. Anelavo di vedere un
octateuco bizantino custodito nella sua biblioteca ... Alla fine il Soprin-
tendente alle Belle Arti si scomodò di persona di mostrarmi il prezio-
sissimo libro, sı̀, ma anche a garantirsi che nessuno dei meravigliosi
codici islamici e tanto meno alcuni tizianeschi ritratti di antichi sultani
mi venissero fatti vedere.”.

Anche la visione dell’Evangeliario di Rossano fu per Berenson,


cosı̀ come per Toesca, un sogno raggiunto; Berenson si recò a
Rossano Calabro in macchina, superando grandi difficoltà di sposta-
mento da Cosenza a quello che era, secondo i suoi accompagnatori,
un “covo di briganti”:

“Un codice che io ho per anni desiderato di aver sott’occhio è il


«Codex Purpureus Rossanensis». Insieme col frammentario «Codex
Sinopensis» di Parigi va posto tra le più belle e rivelatrici produzioni
della tarda arte antica, non ancor bizantina. Ne eistono riproduzioni
abbastanza buone, è vero, la mia biblioteca le possiede.”3.

L’immagine di Berenson come dedito esclusivamente al Rinasci-


mento è un limite tracciato postumo che non dà conto dell’orizzonte
geografico e cronologico degli interessi da lui coltivati in vita. La sua
raccolta di libri, fotografie e opere d’arte del medio ed estremo
Oriente rappresentò un caso senza confronti in Italia agli inizi del
secolo. Nella sua corrispondenza, un buon numero di lettere arrivano
da bizantinisti. Oltre a Toesca, con il quale scambiava informazioni
con frequenza, gli scrivono il francese Gustave Schlumberger, gli
italiani Bettini e De Francovich, gli americani Ernest T. De Wald e
Charles R. Morey, i russi Mikhail Alpatov, Pavlov Muratov e Viktor
Lazarev, che gli chiese aiuto nella ricerca di un editore per la sua
Storia della pittura bizantina, pronta dal 1925 e ferma presso la
Pantheon dal 1932 (sarà poi stampata in russo in due volumi nel
1947-1948)4.

3
B. Berenson, Valutazioni 1945 – 1956, a cura di A. Loria (Milano, 1957), citazioni da
pp. 102-103, 100-101.
4
P. P. Muratov, La pittura russa antica (Praga – Roma, 1925); id., La pittura bizantina
(Roma, 1928); V. Lazarev, Istoriia vizantiiskoi zhivopisi, 2 voll. (Moskva, 1947-1948;
seconda edizione 1986) , traduzione italiana Storia della pittura bizantina (Torino, 1967).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Americano, antifascista ed ebreo, Berenson non ebbe vita facile


durante il fascismo. Anche con i critici italiani i rapporti furono tesi
ed alterni; Longhi, ad esempio, che Berenson non sopportava (come
si legge nella corrispondenza tra Berenson e Toesca) e che pure
tradusse The Italian Painters of the Renaissance di Berenson (“una
famosa, anzi famigerata traduzione”, come fu definita da Ojetti),
doveva avere proprio Berenson in mente quando ironizzò nel “Giudi-
zio sul Duecento” sulla “estrema squisitezza del miliardario che non
farà mancare alla propria raccolta una Madonna dei Berlinghieri o
del Rubliev, un Crocefisso romanico spoletino o uno scortecciato
antependio di Catalogna” ed imputò la provocazione di “spasimi
artificiali” per quelle pitture a “certi studiosi da transatlantico di
lusso”5. La riconciliazione tra Longhi e Berenson avvenne solo in età
avanzata, con i ripensamenti di Longhi dopo il crollo del fascismo.
Come Toesca, Berenson non nutrı̀ alcuna simpatia per il regime; le
velleità italiane di superpotenza e le pretese di ingrandimenti territo-
riali gli erano odiose. Dopo il colpo di stato fascista divennero tesi i
suoi rapporti con gli intellettuali sostenitori del regime e questi lo
evitarono (anche Ojetti, dopo le sviolinature degli anni precedenti,
non si fece più vedere ai Tatti). Ospitando il rappresentante della
Banca Morgan venuto a negoziare un prestito all’Italia, Berenson
fece del suo meglio per metterlo in contatto con antifascisti e convin-
cerlo a non finanziare Mussolini. Amici di Berenson furono Gaetano
Salvemini, al quale consigliò di lasciare l’Italia (Salvemini, poi, fuggı̀
effettivamente all’estero), e Giovanni Amendola (che fu ucciso dai
fascisti nel 1926); Bianchi Bandinelli fu suo compagno di viaggio e
corrispondente. Con la dichiarazione di guerra italiana agli Stati
Uniti arrivarono minacce di requisizione di Villa I Tatti e manifesta-
zioni di fascisti fiorentini che reclamavano l’arresto di Berenson
come spia americana.
L’ingresso di Berenson nella polemica bizantina avvenne nel
1920, quando Ojetti lo invitò a mandare un suo scritto per Dedalo, la
rivista da lui diretta. Berenson consegnò un testo inglese (“un gran

5
R. Longhi, “Giudizio sul Duecento”, Proporzioni 2 (1948). Il giudizio di Ojetti è tratto
da una lettera a Berenson datata 10.8.1921. Una ricostruzione più rosea dei rapporti
Berenson – Longhi è data in F. Bellini, “Una passione giovanile di Roberto Longhi:
Bernard Berenson”, in L’arte di scrivere sull’arte. Roberto Longhi nella cultura del nostro tempo,
a cura di G. Previtali (Roma, 1982), pp. 9-26. Longhi aveva dato giudizi entusiastici su
Berenson: R. Longhi, Recensione a B. Berenson, The Study and Criticism of Italian Art
(London, 1916), L’Arte 1917, p. 297.
GLI ALTRI FILOBIZANTINI 

bell’articolo,” – gli scrisse Ojetti – “esempio d’equilibrio perfetto tra


la sensibilità e la logica, tra la dottrina e il gusto”); tradotto in
italiano in modo pedestre, il testo apparve sulla seconda annata di
Dedalo (1921-1922) con il titolo goffo e cacofonico “Due dipinti del
decimosecondo secolo venuti da Costantinopoli”6. Nell’articolo Be-
renson discusse due tavole con la Madonna col Bambino allora in
possesso dei collezionisti americani Otto Kahn e Carl Hamilton di
New York, passate poi entrambe alla National Gallery di Washing-
ton (figg. 76-77); Berenson giudicò costantinopolitane le tavole e le
datò non più tardi dell’anno 1200 (entrambe le Madonne sono ora
datate alla seconda metà del XIII secolo).
L’articolo su Dedalo comincia proclamando il primato di Bisanzio
per tutto il Medioevo: “fino all’anno 1200, la pittura in tutta Europa
fu costantinopolitana, come negli ultimi cent’anni, in cifra tonda, è
stata parigina”. Gli studiosi di arte medievale, scrive Berenson, dopo
aver reagito alla tradizione vasariana per la quale tutto prima di
Giotto era bizantino, sono ora tornati a pensare che Vasari avesse
ragione: i molti tentativi fatti per provare che l’arte medievale deriva
da fonti indigene – italiane, nordiche o altro – hanno provato sola-
mente che queste energie provinciali riuscirono a impedire la diffu-
sione della autorità e delle maniere della capitale Costantinopoli.
L’arte bizantina non è unitaria ed il termine “bizantino” è ormai
insoddisfacente allo stato delle conoscenze: nel mondo orientale si
distinguono, oggi, provincia da provincia, epoca da epoca. Una
difficoltà enorme per gli studiosi è data dal fatto che di Bisanzio è
sopravvissuto molto poco ed in cattive condizioni; è come se tutti i
quadri francesi dell’Ottocento fossero scomparsi e dovessimo accon-
tentarci delle imitazioni; fanno eccezione le due Madonne newyor-
kesi che sono rare testimonianze di altissima qualità dell’arte della
capitale bizantina:

“Immaginate che tutti i quadri dipinti da francesi a Parigi fossero


scomparsi e che noi per tentar d’indovinare i loro caratteri non
avessimo niente di meglio che le tele superstiti di imitatori (per
nominare i più famosi), come Sargent o Zorn o Libermann o Sickert o

6
B. Berenson, “Due dipinti del decimosecondo secolo venuti da Costantinopoli”, Dedalo
2 (1921-1922), pp. 285-304; ristampato in inglese come “Two Twelfth-Century Paintings
from Constantinople”, in B. B., Studies in Medieval Paintings (New Haven, 1930), pp. 1-16.
La citazione di Ojetti è da una sua lettera a Berenson del 15.8.1921; dalle lettere di Ojetti
risulta che più volte furono discussi problemi sorti nella traduzione italiana di alcune
espressioni inglesi del testo di Berenson.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Mancini o Sorolla. Che rivelazione sarebbe scoprire un capolavoro di


Manet o di Degas! Una rivelazione altrettanto grande sarebbe, per
l’arte medievale, se oggi venisse in luce qualche capolavoro realmente
eseguito in Costantinopoli.”

La sentenza era doppiamente irritante per la critica italiana,


perchè dava per indubbia la preminenza degli artisti orientali su
qualunque occidentale nel Medioevo; e perché ricordava il dominio
artistico francese nell’arte moderna, che critici e pittori italiani cerca-
vano di demolire in quegli anni. Berenson, dunque, presenta le due
Madonne come opera di uno stesso artista di Costantinopoli, ne
descrive la innegabile qualità estetica, superiore senza confronti a
quella delle opere contemporanee dell’Occidente; nelle Madonne
non è “nessun punto in cui voi possiate dire, come spesso vi cápita
davanti a pitture occidentali prima di Giotto: Vedo quel che l’artista
intende dire, ma mi fa pensare che egli non riesca a dirlo meglio”. E
poco più avanti:

“Niente prima di Giotto, conosco in Italia di paragonabile alla bellezza


di forma e di colore e alla perfetta tecnica di questo pittore.
Sarebbe assurdo tentare di confrontargli qualunque artista italiano,
anche Cimabue e Duccio, lasciando da parte Margaritone, Guido, i
Berlinghieri, Giunta e Coppo. La loro capacità del disegno è, come
linea, troppo meno ferma, meno rapida, e meno sicura; e, per la
minore efficacia della tecnica pittorica, il loro colore appare, al con-
fronto, o sporco o superficiale o sbiadito.”

In conclusione, nella scuola alla quale appartiene il maestro che


dipinse le due Madonne troviamo gli antenati di Cavallini e di
Giotto. Se intendeva provocare i fanatici della supremazia dell’arte
italiana, Berenson era senz’altro riuscito nell’intento7.
Berenson aveva scritto una sola volta in precedenza di opere di
un periodo cosı̀ alto (e non vi ritornerà più sopra), quando sull’an-
nata 1919-1920 di Art in America discusse tre pannelli raffiguranti
Cristo, San Pietro e San Giovanni nella collezione Hamilton, per i
quali alla attribuzione originaria a Margaritone d’Arezzo sostituı̀
quella, in seguito anch’essa contestata, a Cimabue (i tre pannelli, che
facevano parte di un polittico comprendente anche un San Giovanni
Battista e una Sant’Orsola, sono passati poi nella collezione Duveen

7
Le citazioni sono dalle pp. 285, 286, 292-293, 304.
GLI ALTRI FILOBIZANTINI 

di New York)8. Berenson esaminò la possibilità di attribuzione a


pittori romani, che però escluse: non rimanevano cosı̀ che la Toscana
o Bisanzio (“‘the Byzantine question’”); esclusa anche quest’ultima,
l’autore dei pannelli non poteva essere quindi che un pittore cosı̀
bizantineggiante come Cimabue. La datazione proposta per i pan-
nelli fu il 1272 circa.
Nonostante la sua passione per l’Oriente cristiano, posto come
modello del Medioevo occidentale, e la sua attenzione verso i libri di
Strzygowski, Berenson non fu mai, tuttavia, strzygowskiano. Anzi.
Nel 1941 Berenson portò a conclusione Estetica, etica e storia nelle arti
della rappresentazione visiva, uno scritto la cui pubblicazione fu ri-
mandata per la dichiarazione di guerra italiana agli Stati Uniti (ap-
parve nel 1948) e che era stato inteso come introduzione a L’arco di
Costantino (apparso nel 1952)9; Berenson riprende qui da Strzygow-
ski l’idea di un’area culturale eccezionalmente fertile nel Medio
Oriente del IV-VI secolo costituita dal triangolo geografico delle
regioni di Edessa e Nisibi, città entrambe sedi di università. Dopo
questo periodo d’oro intervengono per Berenson le “follie metafisi-
che” del governo bizantino, che antepose la teologia alla politica:
“sfondano sassanidi, arabi, selgiuchidi e ottomani”. Un’arte propria-
mente medievale non comincia prima di Giustiniano: mentre a
Occidente le soldatesche barbare ridussero la civiltà a uno stadio
troppo basso perché le arti visive potessero prosperare, Costantino-
poli, grazie alla corte ed alla Chiesa, conservò un tono di vita che
altrove scomparve ed influenzò l’arte dell’Occidente fino al tardo
Duecento. Seguono le lodi della tecnica ingegneristica delle chiese di
Santa Sofia, Sant’Irene, Santi Sergio e Bacco e San Vitale, alla quale
non è confrontabile quella della Cappella Palatina di Aquisgrana e
degli altri edifici occidentali. Berenson ama Bisanzio come continua-
trice della civiltà antica, idea che risale ai primordi ottocenteschi
della bizantinistica, ha la sua prosecuzione tra gli studiosi russi ed è
egemone tra gli americani: Costantinopoli attrae artigiani da Antio-
chia, Alessandria, Damasco, Efeso, Tralles, cosı̀ come Parigi attrae

8
B. Berenson, “A Newly Discovered Cimabue”, Art in America 8 (1919-1920), pp.
251-271; ristampato in B. B., Studies in Medieval Paintings, pp. 17-31.
9
B. Berenson, Aestethics, Ethics and History in the Arts of Visual Representation (London,
3
1948); poi ristampato come Aesthetics and History (London, 1955 ); traduzione italiana
Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva (Firenze, 1948); id., L’arco di
Costantino o della decadenza della forma (Milano – Firenze, 1952); edizione inglese The Arch
of Constantine or the Decline of Form (London, 1954).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

artisti da tutto il mondo. L’arte dell’impero d’Oriente andrebbe


allora chiamata “arte ellenistica medievale”, piuttosto che “arte bi-
zantina”, un termine pieno di pregiudizi:

“D’altra parte, se si lasciasse fare a me, abolirei la parola «bizantina» e


la sostituirei con «ellenistico medievale» per designare l’arte del mondo
di lingua greca, almeno fino alla presa di Costantinopoli da parte dei
barbari di razza latina.”.

Quanto al panorientalismo ariano di Strzygowski, il giudizio di


Berenson è già stato riportato10. L’ultima volta che Berenson inter-
venne sull’arte bizantina fu in un articolo su due colonne in terza
pagina del Corriere della Sera, nel settembre del 1954, dal titolo “San
Marco Tempio e Museo Bizantino”11.

b. Lionello Venturi, anticlassico


Poche persone sembrano essere state legate a Toesca negli anni del
fascismo e averne condiviso la visione controcorrente dell’arte me-
dievale. Dei suoi allievi, Paolo D’Ancona seguı̀ Toesca nel libro sui
primitivi italiani dall’XI al XIII secolo, pubblicato in francese a
Parigi nel 1935, dove D’Ancona affermò la necessità di rimuovere gli
ostacoli al riconoscimento del valore dell’arte bizantina e dei primi-
tivi, dovuti al predominio della dottrina di fede classica e realista
vasariana, e lodò la nuova base estetica data all’arte medievale da
Lionello Venturi con Il gusto dei primitivi. Anche Emilio Cecchi fu
sostanzialmente con Toesca e Venturi su Giotto (“bizantino – tosca-
no”) nella monografia del 1937; e Mario Sironi, uno degli artisti più
attivi a favore del fascismo, fece dell’arte bizantina lo stelo da cui
fiorirono Giotto e l’arte del Trecento italiano in “Racemi d’oro” del
193512.
Lionello Venturi, figlio di Adolfo, fu una delle bestie nere dei
fascisti, attaccato alla pari dell’austriaco Strzygowski. Nel 1930, Il
Giornale d’Italia pubblicò una serie di articoli contro quelli che

10
Vedi Capitolo 5 paragrafo c.
11
Vedi Capitolo 12 paragrafo a.
12 e e
P. D’Ancona, Les primitifs italiens du XI au XIII siècle (Paris, 1935), prefazione pp.
9-10; sui rapporti tra arte italiana ed arte bizantina vedi soprattutto il Capitolo 1, pp. 11-39.
Per Sironi vedi Capitolo 9 paragrafo a.
GLI ALTRI FILOBIZANTINI 

considerava i denigratori antipatriottici dell’arte italiana: Toesca,


Strzygowski e, appunto, Venturi (fig. 78)13. Partito volontario per il
fronte nella prima guerra mondiale, Venturi divenne, tornato dalla
guerra, uno dei fondatori dei fasci di Torino. Figura nell’elenco dei
partecipanti al Convegno per la Cultura Fascista del 1925; aderı̀ al
Manifesto degli intellettuali fascisti (Cecchi invece aderı̀ al manifesto
degli intellettuali antifascisti di Croce). Venturi si avvicinò in seguito
a Riccardo Gualino, l’industriale antifascista della SNIA – Viscosa.
Probabilmente a seguito dell’assassinio di Matteotti nel 1925 e della
successiva sterzata dittatoriale data dal regime fascista dal 1926 ed
influenzato dalle posizioni prese da Croce, Venturi passò tra gli
antifascisti. A Torino, il 28 novembre 1925, un gruppo di futuristi,
tra i quali Fillia (pseudonimo di Luigi Colombo), attaccò Venturi
verbalmente durante una sua lezione universitaria alla Pinacoteca e
venne alle mani con i custodi: il motivo, secondo i futuristi, che
erano fascisti, era il rifiuto opposto da Venturi a una studentessa
nella sua pretesa di sostenere un esame con programma sul futuri-
smo italiano. Cosı̀ La Stampa di Torino riferı̀ l’evento nella cronaca
cittadina del 29 novembre:

“Ieri mattina un piccolo gruppo di pittori futuristi ha fatto una dimo-


strazione di protesta contro il prof. Lionello Venturi, nelle sale stesse
della Pinacoteca, al termine della sua lezione. Il prof. Lionello Venturi
ha rifiutato ad una studentessa un argomento d’esame sopra l’arte
futurista (...). La discussione si accalorò rapidamente, data la presenza
di un grande numero di studenti e generò ben presto in una vivace
colluttazione tra i futuristi ed i custodi accorsi. Il pittore Fillia, che in
un primo tempo era stato trattenuto per ribellione alla forza pubblica,
è stato in seguito rilasciato.”.

Il giorno successivo, 30 novembre, ancora la cronaca cittadina de


La Stampa, che aveva deplorato l’atto dei futuristi, ospitò una lettera
di Venturi che si concludeva dicendo “altri può credere che basti
studiare la pittura futurista per imparare la storia dell’arte. Io non lo
credo. E la mia opinione vale almeno quella degli altri”. Infine, il
primo dicembre apparve una replica di Fillia, con il succo della
polemica futuristi-Venturi:

“Noi crediamo che si debba anche studiare la pittura futurista per


conoscere la storia dell’arte. Quest’incompetenza è in poca armonia

13
Vedi Capitolo 6 paragrafo c.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

con la sua carica di professore. Inoltro con piena responsabilità l’ac-


cusa di incompetenza perché Lionello Venturi, durante l’incidente, si è
espresso in termini ben diversi da quelli ora adottati a sua difesa. Egli
sostenne che impediva un argomento di esami sull’arte futurista per-
ché non vi era ancora in merito sufficiente possibilità di preparazione
critica. Non abbiamo dunque colpa alcuna se Lionello Venturi ignora
le infinite e importanti pubblicazioni nazionali ed estere sul futurismo
italiano. Egli, in ogni modo accettando argomenti di esame su pittori
viventi e moderni, ma non futuristi (e sui quali vi sono molto meno
14
possibilità di preparazione critica), contraddice le proprie parole.” .

Venturi, dunque, negava valore al futurismo ed invece, secondo


Fillia, accettava di far sostenere esami su altre correnti contemporanee
(presumibilmente francesi). Nello stesso tempo il conservatore Ojetti
accusava Venturi di tenere lezione sui pittori francesi e non sugli
italiani e di non capire che Cézanne, il pittore francese più amato ed
inattaccabile, era tornato al gusto plastico della pittura italiana (Ojetti,
comunque, riteneva solo Venturi e Toesca affidabili come storici
dell’arte in Italia)15. Venturi era sostenitore del Gruppo dei Sei, i
pittori torinesi antifascisti allievi di Felice Casorati, vicino anche lui a
Gualino e che Piero Gobetti aveva sostenuto in più scritti16. Dopo il
processo sommario a Gualino voluto dal regime con la scusa del
fallimento della SNIA – Viscosa nel 1931, che si concluse con la
condanna a cinque anni di confino a Lipari, Venturi rifiutò di firmare
l’adesione al fascismo richiesta dal regime ai docenti universitari
(solamente in dodici scelsero di non giurare) e lasciò la cattedra di
Torino, emigrando prima in Francia, dove già era fuggito il figlio
Franco, aderente a “Giustizia e Libertà”, poi negli Stati Uniti; qui,

14
I brani riportati nel testo sono dalle pagine della cronaca cittadina de La Stampa dei
giorni 29 novembre, 30 novembre e 1 dicembre 1929.
15
L. Venturi, “Polemica con Ugo Ojetti sul «gusto francese»”, L’arte 33, n.s. 1 (1930), pp.
93-97. Ojetti scrisse a Venturi una lettera aperta pubblicata sulla rivista Pègaso del 1929 alla
quale Venturi rispose su L’Arte del 1930. Su questi punti vedi Capitolo 11 paragrafo a e
Capitolo 6 paragrafi f e c.
16
A. Dragone, “Lionello Venturi a Torino: Gualino e i «Sei»”, in Da Cézanne all’Arte
Astratta. Omaggio a Lionello Venturi, Verona, Galleria Comunale d’Arte Moderna, Palazzo
Forti, marzo – aprile 1992; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, giugno – settembre
1992, catalogo della mostra (Milano, 1992), pp. 88-94. Su Casorati e Gobetti: P. Gobetti,
“Un artista moderno: Felice Casorati”, L’ordine nuovo 19 giugno 1921 e Il popolo romano 19
giugno 1921, ristampato in Per Gobetti. Politica arte cultura a Torino 1918 / 1926 (Firenze,
1976), pp. 85-89 e in Opere complete di Piero Gobetti, vol. 2, Scritti storici, 1969, pp. 627-631;
P. Gobetti, Felice Casorati pittore (Torino [1923]), ristampato in Per Gobetti, pp. 90-104 e in
Opere complete di Piero Gobetti, vol. 2, pp. 634-647; vedi inoltre L. Carluccio, “Gobetti e
Casorati”, in Per Gobetti, pp. 105-113; A. Dragone, “Gobetti critico d’arte”, ivi, pp. 121-134.
L. Venturi, “Il pittore Felice Casorati”, Dedalo 4 (1923-1924), pp. 238-261.
GLI ALTRI FILOBIZANTINI 

con Salvemini (che aveva lasciato già anni prima la cattedra di Storia
Moderna all’Università di Firenze, denunziando la mancanza di
dignità e “la servile adulazione del partito dominante” che il fascismo
voleva imporre ai docenti), Cantarella e altri, fondò l’organizzazione
antifascista Mazzini Society. Negli Stati Uniti, tuttavia, ebbe grosse
difficoltà a trovare una posizione, come risulta dalle sue lettere con
richieste di aiuto a Berenson, finendo poi ad insegnare alla Johns
Hopkins University di Baltimora. Infine, nel 1945, subito dopo la
17
liberazione, tornò in Italia dove insegnò all’Università di Roma .
Lionello Venturi fu spesso in rotta con Longhi: Il gusto dei
primitivi (1926) sembrò a quest’ultimo una raccolta di errori metodo-
logici nella lettura delle opere d’arte medievali, tra i quali il peso dato
da Venturi alla spiritualità, alla religione ed alla interpretazione del
Medioevo come trionfo dello stato mistico. Longhi, nella introdu-
zione alla Storia dell’impressionismo di John Rewald, che uscı̀ in
traduzione italiana nel 1949, con un titolo, “L’Impressionismo e il
gusto degli Italiani”, che richiamava quello del libro di Venturi,
accusò “Venturi junior nel suo libro di principı̂ sul Gusto dei primitivi,
fondato sulla speciosa unificazione dei fatti artistici più varı̂ sotto
l’impresa di un eterno primitivismo che ha qui sapore di mistica
rivelazione”, di aver confuso insieme macchiaioli e impressionisti e di
aver inserito Fattori tra gli ultimi18. Venturi fu anche consulente di
Gualino negli acquisti per la sua collezione; nel catalogo di questa,
del 1926, da lui curato, figuravano una Madonna di Cimabue (fig.
79), una Madonna attribuita a Guido da Siena, una tavola con
quattro santi di arte toscana del Duecento, una Ascensione di
Giotto, oggetti di oreficeria medievale dalla collezione Stroganov,

17
Per queste notizie vedi G. C. Argan, “Le polemiche di Venturi”, Studi Piemontesi 1, n 1
(1972), pp. 118-124; id., “L’impegno politico per la libertà della cultura”, in Da Cézanne
all’Arte Astratta, pp. 11-12; H. Goetz, Der freie Geist und seine Widersacher (Frankfurt am
Main, 1993), traduzione italiana Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista
(Milano, 2000), pp. 155-166, con bibliografia alla nota 536 p. 166; G. Boatti, Preferirei di no.
La storia dei dodici professori che si opposero a Mussolini (Torino, 2001), pp. 153-171; ed inoltre,
S. Lodovici [Samek Ludovici], Storici, teorici e critici delle arti figurative (1800 – 1940) (Roma,
1946). La corrispondenza di Lionello Venturi con Berenson è conservata a Villa I Tatti. Sulla
storia della cattedra romana vedi al Capitolo 7 paragrafo a.
18
Secondo Giovanni Previtali, “Roberto Longhi, profilo biografico”, in L’arte di scrivere
sull’arte, pp. 141-170, Il gusto dei primitivi rappresentò per Longhi una sintesi di tutti gli
idola polemici della sua gioventù: rozzo contenutismo, misticismo estetico, snobismo
primitivistico (pp. 160-161). R. Longhi, “L’Impressionismo e il gusto degli Italiani”,
prefazione a J. Rewald, Storia dell’Impressionismo (Firenze, 1949), pp. v-xxix. Sul libro di
Venturi vedi anche il giudizio contemporaneo di Pittaluga, “Arte e studi in Italia nel ‘900”,
pp. 460-461.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

oggetti di arte cinese e giapponese, una placchetta di un dittico


d’avorio bizantino raffigurante Cristo (fig. 80) e un cofanetto d’avo-
rio italo-bizantino anch’esso dalla collezione Stroganov, oltre a qua-
dri di impressionisti francesi. Con il fallimento di Gualino la colle-
zione fu presa in pegno e confiscata e poi venduta; fu rimessa
insieme solo in parte dopo la guerra. Longhi era invece consulente
dell’altra notissima collezione privata di Alessandro Contini Bona-
cossi, il nobile fiorentino grande sostenitore del fascismo19.
Nel 1932, in un commento alla prima Quadriennale di Roma
organizzata a suo parere per contrastare la tendenza impressionistica
in arte, Lionello Venturi sostenne, come poi Sironi, che la tradizione
artistica italiana ha vari aspetti, da Wiligelmo a Michelangelo, non è
solo classicità (una affermazione già fatta da Croce); l’arte classica
antica non è romana: il contributo romano all’arte antica fu, in
reaaltà, anticlassico e impressionistico; gli artisti italiani hanno preso
da greci, bizantini, borgognoni, fiamminghi, ecc.20:

“La Quadriennale romana è stata indetta come una affermazione


vittoriosa della tradizione italiana nell’arte e per opporsi al gusto
impressionistico d’origine estera, come esempio del nuovo freno intel-
lettuale nell’arte, per correggere il libero abbandono alla sensibilità e
alla fantasia. (...)
L’uomo della strada chiede a questo punto: di grazia che cosa è la
tradizione italiana? (...)
La tradizione italiana è cosı̀ ricca e complessa che comprende in sé i
gusti più opposti; e però nessuno ha il diritto di esaurire la tradizione
italiana. Si pensi a Viligelmo e a Giovanni Pisano, a Cimabue e a
Simone Martini, a Paolo Uccello e a Donato, a Pollaiuolo e a Tinto-
retto, a Tiepolo e a Guardi, perfino ai più profondi capolavori di
Michelangelo e di Tiziano: è difficile comprenderli sotto lo schema di
arte classica nel suo significato consueto. Ché se poi classico vuol
significare arte perfetta, si può fare a meno di citarlo, per evitare gli
equivoci.”.

Il plasticismo come motivo costitutivo e ideale dell’arte italiana


era stato già preso di mira da Venturi nel 1926 in un articolo
intitolato “Paesaggio e figura. Un problema della mostra del Nove-
cento”, pubblicato sul quotidiano Il Secolo il 2 marzo (cioè due

19
L. Venturi, La Collezione Gualino (Torino – Roma, 1926); M. M. Lamberti, “Riccardo
Gualino: una collezione e molti progetti”, Ricerche di storia dell’arte 12 (1980), pp. 5-18.
20
L. Venturi, “Per una critica dell’arte contemporanea”, Solaria 7, n 3 (marzo 1932), pp.
36-40, citazione nel testo da pp. 37-39.
GLI ALTRI FILOBIZANTINI 

settimane dopo che Il Popolo d’Italia aveva pubblicato il discorso di


Mussolini sulla riscossa artistica italiana provata dalla Mostra del
Novecento di Milano ed Il Tevere aveva incensato i nuovi artisti
italiani che tornavano al classicismo. Venturi giudica il plasticismo
solo come una strada dell’arte italiana che viene imposta come la
migliore e l’unica dal dopoguerra:

“(...) la moda trionfante si basa sul volume, sul rilievo e sulla terza
dimensione. È una strada non migliore né peggiore di tante altre; ma i
pittori che vi camminano sopra devono credere appieno che essa è la
migliore, perfettissima e unica, divina più che umana, capace di ogni
prodigio. Cosı̀ hanno creduto gli artisti italiani di dopo la guerra, per
l’interpretazione classica sopraggiunta (...).”.

Questa strada del classicismo, tra l’altro, lascia irrisolto il pro-


blema della raffigurazione del paesaggio; questa si origina col senti-
mento cristiano della natura che è specchio del valore infinito di Dio;
il mosaico absidale di Sant’Apollinare in Classe rappresenta allora la
“prima, meravigliosa e perfetta pagina paesistica” in arte (fig. 81):

“L’origine dell’arte del paesaggio si deve dunque rintracciare semplice-


mente nel sentimento cristiano, nella necessità cristiana d’intendere il
valore infinito di Dio. E a chi obiettasse che, quando la pittura di
paesaggio si è diffusa, il cristianesimo esisteva da molto tempo ed era
anzi invecchiato, risponderei che tale innegabile contingenza non im-
pedisce che la prima meravigliosa e perfetta pagina paesistica risalga al
VI secolo: e se non ci credete, andate a vederla in S. Apollinare in
Classe presso Ravenna.”21.

Nello stesso 1926 uscı̀ Il gusto dei primitivi, il lavoro metodologi-


camente più complesso e più criticato di Venturi, un libro che si rifà
ampiamente a Croce, il quale, tuttavia, se aveva apprezzato il primo
Venturi degli anni Dieci (dove – dice Croce –si era “avvicinato alla
schietta forma di critica che veniamo definendo”), aveva poi preso le
distanze dal metodo di Venturi (che si era lasciato “allettare, come
egli stesso dichiara, dai concetti del Berenson e del Longhi”) e da Il
gusto dei primitivi. Questo libro costituı̀ una summa del pensiero di
Venturi su medioevo e classicità, anche qui considerata come uno

21
L. Venturi, “Paesaggio e figura. Un problema della mostra del Novecento”, Il secolo, 2
marzo 1926, ristampato in L. V., Pretesti di critica (Milano, 1929), pp. 191-196, citazioni nel
testo da p. 194.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

stadio dell’arte, non la perfezione (“se si crede che greci e romani


abbiano raggiunta «la» perfezione dell’arte, anzi che «una» loro perfe-
zione, si disconosce il valore della personalità in arte”). Venturi
oppone l’antichità come trionfo della ragione al medioevo come
trionfo dello stato mistico. L’arte è “colloquio tra l’uomo e Dio” e
c’è analogia tra creazione artistica e processo mistico. L’affermazione
su Santa Sofia di Costantinopoli di Procopio di Cesarea (qui “Dio
non è lontano”) e la descrizione di Paolo Silenziario dei colori e delle
luci, nei quali consiste la divinità che si sente presente nella chiesa,
sono brani apologetici sull’arte bizantina. Venturi mise due sole
riproduzioni etichettate come opere bizantine: il mosaico absidale di
Sant’Apollinare in Classe (fig. 81), che aveva usato come esempio di
pittura di paesaggio cristiana, e il mosaico absidale della Vergine
orante nella chiesa di Murano22. Le sue affermazioni contro il gusto
corrente romano nell’arte antica e nell’arte moderna furono davvero
coraggiose. Venturi pose in antitesi, senza prendere appunto posi-
zione a favore dei valori romani, i valori artistici della classicità con
quelli bizantini (costruzione contro decorazione, forma contro colo-
re); per lui si doveva rinunciare a “Roma madre” per “Parigi amica”,
al classicismo romano per la pittura moderna francese anticlassica,
alla costruzione e alla forma degli artisti greci per la decorazione e il
colore degli artisti bizantini. La nostra cultura è satura di cultura
greco-romana; di qui il classico storico della civiltà antica sentito
come classico filosofico universale: se l’arte antica è perfetta, si
spinge alla imitazione e si mortifica la creatività; nasce il ragazzino
che veste da soldato romano, che è alla pari dell’artista che copia
marmi antichi.

22
L. Venturi, Il gusto dei primitivi (Bologna, 1926; ristampa Torino, 1972, con prefazione
di Giulio Carlo Argan); la descrizione di Santa Sofia di Costantinopoli e le citazioni nel
testo sono alle pp. 39-40, 7, 9, 10, 34-35 della ristampa. Sul significato de Il gusto dei
primitivi e sulla accoglienza datagli dalla critica italiana vedi l’introduzione di Argan alla
seconda edizione del libro e brani, note e bibliografia raccolti in P. Barocchi, Storia moderna
dell’arte in Italia. Manifesti polemiche documenti, vol. 3/1, Dal Novecento ai dibattiti sulla figura
e sul monumentale 1925 – 1945 (Torino, 1990), pp. 37-59. Il commento di Croce è in La
critica e la storia delle arti figurative. Questioni di metodo (Bari, 1934), pp. 183-187; Croce
parla delle teorie e delle opere di Venturi in varie altre parti del libro: pp. 17-18, 29-34,
139-146, 169-172. Per una critica alla individuazione di un cambiamento di gusto come
causa della rottura nella tradizione artistica dell’ellenismo e della nascita della nuova
tradizione formale del medioevo, vedi R. Bianchi Bandinelli, “L’archeologia come scienza
storica”, Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e
filologiche. Rendiconti delle adunanze solenni 8, fasc. 9 (1973), ristampato in R. B. B.
Introduzione all’archeologia classica come storia dell’arte antica, a cura di L. Franchi dell’Orto
(Bari, 1976), p. xviii.
GLI ALTRI FILOBIZANTINI 

c. Programmi scolastici ed altri studiosi allineati


L’interpretazione data da Toesca dell’arte bizantina e del suo in-
flusso sull’arte medievale dell’occidente era troppo orientalistica e
non si ritrova in altri lavori su Bisanzio pubblicati in Italia. D’An-
cona, che dette una lettura dei rapporti tra Bisanzio e l’Italia derivata
da Toesca, pubblicò in Francia. L’interpretazione di regime dell’arte
bizantina è sostanzialmente quella di Galassi apparsa per i tipi della
Libreria dello Stato. Nel programma di storia dell’arte del liceo
classico secondo la riforma Gentile del 1923, il cui insegnamento
Adolfo Venturi era riuscito faticosamente a rendere obbligatorio,
tutta l’arte dell’altomedioevo e l’arte bizantina si riducevano a capi-
toli del periodo paleocristiano: “L’influenza bizantina e i suoi carat-
teri – Monumenti ravennati dei secoli V e VI – Le pitture delle
catacombe – I mosaici a Roma e a Ravenna nei secoli V e VI”. Dopo
i mosaici di Roma e Ravenna era un salto di circa 400 anni di storia
artistica ed il programma riprendeva dal periodo romanico con i
“Caratteri della scultura romanica in Italia – Il fantastico e geniale
senso plastico-decorativo – I Cosmati – Le porte di bronzo – Mosaici
nell’Italia meridionale e in Sicilia – Jacopo Torriti – Pietro Cavallini
– Cimabue – Duccio”, per poi passare al gotico. Nelle avvertenze
premesse ai programmi d’esame del liceo classico si istruivano i
docenti a riferirsi ai cenni di storia dell’estetica dati per il programma
di italiano; l’approccio alle opere d’arte doveva essere formale, lo
scolaro doveva conoscere la storia del gusto delle varie epoche, senza
preoccuparsi di altro che non fosse il valore estetico delle opere:

“le opere d’arte devono essere guardate con animo sgombro da ogni
preoccupazione che non sia quella del valore estetico, del valore
umano dell’opera stessa.”
“(...) Gli scopi che si propone l’insegnamento della storia dell’arte
sono la conoscenza delle grandi civiltà artistiche e il raffinamento della
conoscenza estetica. L’esaminatore si accerterà quindi se lo scolaro ha
conoscenza della storia del gusto comune agli artisti (architetti, scul-
tori, pittori, tessitori, vetrai, miniatori, incisori) d’una data epoca
(...).”23.

23
I programmi per l’esame di maturità secondo la Legge Gentile sono pubblicati sul
Supplemento della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n 267 del 14 novembre 1923,
“Approvazione degli orari e dei programmi per le Regie scuole medie”; i brani riportati dalle
Avvertenze per l’esame di maturità del Liceo Classico sono alle pp. 14-15. Cf. M. Cagnetta,
“Le letture controllate”, in Lo spazio letterario di Roma antica (Roma, 1991), 4, pp. 399-427,
spec. pp. 406 sgg. L’intervento di Adolfo Venturi per l’inserimento della storia dell’arte
come materia d’insegnamento è riferito da L. Grassi, “Insegnamento di Storia dell’Arte nei
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Nei manuali scolastici di storia dell’arte l’arte bizantina fu de-


scritta nei termini galassiani: l’Atlante di storia dell’arte italiana di Ugo
Ojetti e Luigi Dami – entrambi sostenitori dell’arte italiana alla
Soffici – usa per l’arte bizantina i luoghi comuni di rinunzia alle
forme plastiche e realistiche, forme appiattite contro le superfici,
senso del colore astratto, figure assorte, gesti fissi; ma, pure, con il
riconoscimento che “con le supreme e raffinate armonie delle sue
linee e delle sue zone di colore essa ha toccato, per certi lati, uno dei
culmini della pittura”24.
Bettini si era occupato inizialmente di Jacopo Bassano, di arte
moderna, di Giusto de’ Menabuoi e arte veneta del Trecento; poi, a
seguito degli incarichi a Creta per l’Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti, era passato alla pittura cretese-veneziana e ai rap-
porti tra Padova, Romagna e Bisanzio25. Con i volumi su pittura e

Licei”, in Atti del Primo Convegno Internazionale per le arti figurative, Firenze, Studio Italiano
di Storia dell’Arte, Palazzo Strozzi, 20-26 giugno 1948 (Firenze, 1948), pp. 201-203.
24
U. Ojetti e L. Dami, Atlante di storia dell’arte italiana, 1, Dalle origini dell’arte cristiana
alla fine del Trecento (Milano – Roma [1925]), citazione da p. 17. L’opposizione tra senso
della forma e dello spazio (plasticismo) dell’arte classica, romana, e senso del colore
(colorismo) dell’arte bizantina è accettata come distintiva dell’antichità e di Bisanzio in
storici dell’arte ben più avveduti come Longhi e da lui risolta a favore del primo: il
colorismo dei Bizantini a San Vitale (che però è qualità apprezzata: “capolavoro di stile
puramente coloristico”) fu “puro tappeto”; a superare questo stadio rudimentale fondendo
colore e forma servirono i senesi, mentre fu Paolo Uccello che raggiunse il “sintetismo
prospettico di forma e colore”: R. Longhi, “Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura
veneziana”, L’Arte 17 (1914), p. 199: “La larghezza di un grande riposo coloristico era stata
raggiunta una volta dai bizantini del VI secolo, a San Vitale. (...) Il colorismo bizantino
negli esempi di San Vitale aveva raggiunto un delizioso accostamento di superficie late di
colore, ma ciò era avvenuto a tutto detrimento del senso per la forma e per lo spazio: era il
colorismo più genuino ma anche più rudimentale: il puro tappeto’’.
E p. 201: “Paolo Uccello giungeva di nuovo all’intarsio che nel colore equivale al tappeto;
ma non era più il tappeto bizantino stesso [steso?] su forme incorporee e superficiali, ma il
tappeto che zonava di colore le superfici di forme vieppiù lontane riportate a galla dalla
prospettiva. Era per la prima volta, per quanto segmentato, frammentato e toppato il
sincretismo prospettico di forma-colore.”.
Osservazioni simili sul colore nell’arte bizantina si trovano nelle dispense del corso del
1914, raccolte e pubblicate col titolo Breve ma veridica storia della pittura italiana (Firenze,
1980), pp. 16-17: “Vi esorto a considerare come capolavoro di stile puramente coloristico i
musaici di San Vitale a Ravenna: dove l’artista bizantino, mirabilmente noncurante della
convenzione plastica, ha immaginato Giustiniano e i suoi cortigiani, Teodora e le sue dame,
come semplici accostamenti di late stole rettangolari fasciate largamente di croci, placcate di
borchie e di gemme, sovra un sol piano’’. E inoltre, pp. 42-44, San Vitale rappresenta “lo
stile coloristico puro”, “un mondo artistico affatto nuovo ed opposto al precedente”, cioè lo
stile plastico dei mosaici romani, che si vede anche nel Buon Pastore di Galla Placidia; “lo
spazio è abolito, o almeno è uno spazio a due dimensioni”, i corpi “non sono forma ma
fantasma appiattito e superficiale”.
25
S. Bettini, “Padova e l’arte cristiana d’Oriente”, Atti del Reale Istituto Veneto di scienze,
lettere ed arti. Parte seconda (scienze morali e lettere) 96 (1936-1937), pp. 203-297.
GLI ALTRI FILOBIZANTINI 

scultura bizantine usciti negli anni 1937, 1939 e 1944, fornı̀ la prima
storia generale di quell’arte, che arriva fino al periodo paleologo e
comprende anche l’arte russa, greca, serba e cretese, scritta da un
italiano e aggiornata sui risultati della bizantistica internazionale del
periodo. Pavel Muratov nel 1925 e 1928 e Wolfang Fritz Volbach
nel 1935 avevano già pubblicato in italiano storie generali, rispettiva-
mente, della pittura bizantina e russa e dell’arte bizantina. All’arte
bizantina, “opposta per senso alla classica” – una banalità che Bettini
avrebbe potuto evitare –, viene riconosciuto un primato nel raggiun-
gimento di una “nuova, perfetta unità di costruzione e decorazione”,
fondata “non sopra un’obiettiva rappresentazione di spazio, ma so-
pra una radicale negazione dello spazio obiettivamente rappresenta-
to”.
Scrivendo a Berenson nel 1942, quando era Direttore del Museo
Civico di Padova, Bettini confessò di sentirsi isolato in Italia nei suoi
studi sull’arte bizantina, “da noi in genere negletta”, mentre altrove
essa è coltivata in ambienti “troppo a fondo ammalati del morbo
strzygowskiano”, e di aver trovato “aderenze mentali” solo a Vienna
in Julius von Schlosser:

“tanto più che, come sapete, quest’argomento [dell’arte bizantina] è


da noi in genere negletto; e perciò io finora ho dovuto lavorare
piuttosto in solitudine – senza trovare vera comprensione in quegli
ambienti che, come Voi giustamente dite, sono troppo a fondo amma-
lati del morbo strzygowskiano. Aderenze mentali trovai soltanto alla
scuola di Vienna, e sopra tutto nell’amico e mai abbastanza compianto
Giulio Schlosser.”.

Bettini, che già nei primi lavori su Bisanzio aveva considerato


l’arte bizantina con occhio romanista (“non bisogna dimenticare che,
dicendo Oriente, si dice una parte dell’Impero di Roma”), negli
scritti più tardi si scagliò contro l’originalità dell’arte bizantina,
facendo dei suoi più noti conseguimenti nella archittetura e nel
mosaico (ad esempio, lo stile coloristico dei mosaici ravennati del
tempo di Giustiniano) solo una derivazione da Roma e da altri centri
dell’Italia tardoantica26. Passata la guerra, nuovamente con Beren-

26
Vedi Capitolo 9 paragrafo d. Nel 1936, in “Padova e l’arte cristiana d’Oriente”, da cui
è presa la citazione riportata nel testo tra parentesi, Bettini cercò di tenersi in equilibrio tra
Bisanzio e Roma quanto al problema del primato della due città nelle origini dell’arte
cristiana (p. 213):
“Concludendo: un fatto allo stato attuale delle ricerche appare, secondo me, certo, a chi
non abbia la visione viziata da preconcetti: ed è questo. I procedimenti costruttivi esaminati
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

son, nel 1948, Bettini si lamentò che l’Italia non avesse istituti
specializzati di ricerca sull’arte bizantina, all’estero sostenuta invece
da “fiorenti e ben avviati” istituti specializzati universitari, soprat-
tutto americani:

“È davvero vergognoso che, mentre tutte le Università straniere, e le


americane in particolare, hanno istituti fiorenti e ben avviati per lo
studio dell’arte bizantina (...), solo in Italia, cioè nel paese che do-
vrebbe avere maggiore interesse a questo studio, non se ne sia ancora
capita l’importanza, anzi la necessità. (...) in questo campo da noi chi
vuol lavorare fa tutto da sé.”.

L’istituzione della cattedra padovana di Archeologia Cristiana


alla Facoltà di Lettere di Padova gli aveva tuttavia permesso di
rimanere a Padova per mettere su una biblioteca specializzata sul-
l’arte bizantina. La non avvenuta nascita di una bizantinistica ita-
liana, comunque, non era attribuibile certamente solo alla mancanza
di fiorenti finanze disponibili27.

dianzi [relativi alla impostazione di una cupola su una base quadrangolare] si trovano in
tutti i paesi del tardo Impero romano (...). Il senso obbiettivo della giustizia storica deve
tuttavia far riconoscere anche a noi che furono Oriente e Bisanzio ad appropriarsi di essi
con piena coscienza, a svilupparli dando loro un significato tecnicamente ed esteticamente
pieno, a sfuttarne fino alle ultime conseguenze l’importanza nella risoluzione del problema
d’impostare la cupola su base quadrangolare, soluzione che poi trasmisero all’Occidente.
Bisogna rendere giustizia all’Oriente; ma non bisogna dimenticare che, dicendo Oriente, si
dice una parte dell’Impero di Roma.”.
27
S. Bettini, La pittura di icone cretese-veneziana e i madonneri (Padova, 1933-XI); La
pittura bizantina, 1 (Firenze, 1937), da cui, a p. 7, le citazioni; 2, I mosaici, 2 voll. (Firenze,
1939-XVII); Pittura delle origini cristiane (Novara, 1942-XX); La scultura bizantina, 2 voll.
(Firenze, 1944). P. P. Muratov, La pittura russa antica (Praga – Roma, 1925) e La pittura
bizantina (Roma, 1928); W. F. Volbach, L’arte bizantina nel Medioevo (Biblioteca Apostolica
Vaticana, Museo Sacro. Guida 1. Roma, 1935). Le lettere di Bettini a Berenson sono
conservate presso la Biblioteca Berenson di Villa I Tatti, Settignano, Firenze; le citazioni
sono prese da due lettere del 10 dicembre 1942, del 21 gennaio e del 26 maggio 1948.
Notizie su Bettini sono ricavate dal necrologio scritto da Giovanni Mariacher ed apparso su
Archivio veneto 130 (1988), pp. 169-171. Cf. E. Bordignon Favero, Sergio Bettini. Docenza
universitaria e attività museale (Loreggia, PD, 1997).
9

BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA


DELLE ARTI

Oltre a Toesca, Berenson e Lionello Venturi, in Italia ci fu una parte


filofrancese e filobizantina, che contava tra i suoi personalità del
regime (Sarfatti) e artisti (Sironi, De Chirico, Severini) aderenti o
vicini al fascismo. Questa parte ebbe il suo trionfo intorno alla metà
degli anni Trenta, con la fortuna riscossa dal muralismo, la cui
estetica era vicina piuttosto a Bisanzio che a Roma, e con l’effimero
riavvicinamento tra Italia e Francia sancita dagli accordi del 7 gen-
naio 1935 siglati come argine alle mire hitleriane su Austria e
Oriente. Anche l’impresa dell’Enciclopedia italiana, nelle voci artisti-
che del Medioevo, non rispecchiò affatto alcun nazionalismo romani-
sta e antiorientalista. La mostra della romanità e la mostra giottesca
agli Uffizi, entrambe aperte nel 1937, furono invece due decisivi
punti a favore degli antibizantini. Sepolto il riavvicinamento alla
Francia, anche la primavera bizantina prodotta dal muralismo è
spazzata via. Archeologia e storia dell’arte si adattarono alla retorica
imperiale, soprattutto dopo lo scoppio della guerra contro l’Etiopia,
le sanzioni internazionali che seguirono e la proclamazione dell’Im-
pero dopo la vittoria italiana.
L’arte italiana andava difesa da positivismo, materialismo, cubi-
smo, surrealismo, espressionismo, ebraismo internazionale; e la ro-
manità delle sue radici andava potata della asserita componente
bizantina. Il crollo di serietà nell’approccio a Bisanzio negli studi
della seconda metà degli anni Trenta è impressionante1.

1
Vedi L. Malvano [-Bechelloni], Fascismo e politica dell’immagine (Torino, 1988), Capi-
tolo 4, pp. 175-195.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

a. L’ala filobizantina del regime


Il più grande patrocinatore dell’ala esterofila, in arte, del regime fu
probabilmente Bottai, che sotto il fascismo ricoprı̀ alcune delle più
alte cariche politiche e governative (Ministro delle Corporazioni,
Governatore di Roma e Ministro dell’Educazione Nazionale), oltre
ad essere professore ordinario all’Università di Pisa dal 1930. Le sue
aperture moderniste non mitigarono il suo zelo nella proscrizione dei
docenti ebrei dalle università italiane nel 1938. Bottai tentò nel 1939
di tenere insieme razzismo in arte, pluralità di tradizioni artistiche
italiane, ostilità verso la cultura artistica francese moderna e classici-
smo come unica vera tradizione italiana (come sosteneva Ojetti):

“Il postulato più recente della dottrina fascista è, come è noto, quello
di razza” [che implica] “tutte le definizioni che, con progressiva
chiarezza, dal Comune all’Impero, la civiltà italiana ha dato della
forma politica della società (...).
Il placido fiume dell’estetica è stato deviato in mille rigagnoli a irrigare
orticelli privati; si è inaridito e non corre più al mare, mediterraneo,
della politica fascista; mentre dal cielo pieno di nembi altri vedevano
scendere minacciosi sulle ordinate culture dell’arte italiana gli apocalit-
tici cavalieri del cubismo, del surrealismo, dell’espressionismo, dell’e-
braismo internazionali. (...)
Attaccarsi alla tradizione per definire il contenuto artistico del com-
plesso raz[z]iale italiano era, certo, il consiglio più a buon mercato.
Non il più giusto. (...) è assurdo tipizzare la tradizione, circoscriverla a
determinate categorie formali. Quando si dice che la tradizione arti-
stica italiana è quella classica, si è solo parzialmente nel vero. Anche
Giotto, Donatello, Masaccio, Michelangelo e Caravaggio, con cento
altri, appartengono alla nostra esperienza storica, cioè compongono e
qualificano la tradizione.”.

Che l’arte classica si incroci a un certo punto con la potenza


politica nel primo impero romano, concluse Bottai, non giustifica che
quella situazione zenitale sia la stella polare buona per tutte le rotte
artistiche. La dichiarazione aveva la massima autorevolezza, rico-
prendo Bottai in quel periodo, dal 1936 al 1943, la carica di Ministro
dell’Educazione Nazionale. Ojetti pubblicò nel 1942 In Italia, l’arte ha
da essere italiana?, nella cui prefazione sostenne che doti dell’arte
italiana sono la romanità, la continuità, l’umanità (il termine romanità
era stato preferito a classicità per escludere l’arte greca); Bottai rispose
a Ojetti nello stesso 1942, presentando su Le arti (Rassegna bimestrale
d’arte antica e moderna a cura della Direzione Generale delle Arti, che
aveva cominciato a uscire nel 1938) la nuova legge sulle arti figurative,
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

che lo Stato non poteva scegliere come sua propria arte ufficiale tra una
tendenza artistica e l’altra2. Le posizioni di Bottai erano vicine a quelle
per le quali si era battuto Sironi descrivendo le varie tradizioni dell’arte
italiana testimoniate nei monumenti della penisola in una serie di
articoli su La rivista illustrata del “Popolo d’Italia”, tra i quali: “Arte
ignorata”, “Racemi d’oro” e “Antellami”, pubblicati tra il 1934 e il
1936. In “Arte ignorata”, che è illustrato con dettagli di affreschi di
Giotto a Padova, Sironi pose come “maestri giganteschi della nostra
arte maggiore” le opere di Pompei, Ravenna, Assisi, Padova, Firenze,
avvicinandosi in questo punto a quanto sosteneva Lionello Venturi.
“Dobbiamo credere che quest’arte sia sorpassata e valga solo per
snobistiche contemplazioni? [l’accusa di snobismo, come già visto, era
gettata ripetutamente contro gli esterofili, ad esempio da Longhi].
Dobbiamo compiangerla perché ignora il fotografismo della pittura
moderna, e il «trompe l’oeil» dell’impressionismo? Impariamo a cono-
scerla. È facile sbirciare una pittura primitiva e dichiararla fuori
3
concorso per i tempi moderni” . Ancora su “Arte ignorata”,poche
pagine prima, Sironi aveva scritto:

“Lasceremo noi latini dalle maschere d’oro, dall’anima apollinea che i


russi, i soli bolscevichi tentino audaci commenti scultorei e pittorici
alla loro rivoluzione? Ci lasceremo imporre una fredda bardatura
protestante e internazionale che teme dell’arte, il calore aperto della
vita, il tumulto, il colore, l’ornato, per crearci una veste snobistica,

2
Di Bottai vedi: “Modernità e tradizione nell’arte italiana d’oggi”, Le arti 1
(1938-1939-XVII), pp. 230-234, dalle cui pp. 230-231 sono le citazioni; Politica fascista delle
arti (Roma, 1940-XVIII); “Fronte dell’arte”, Primato 2, n 4, (15 febbraio 1941-XIX), pp. 3-5;
“Presenza della cultura”, Primato 2, n 24 (15 dicembre 1941-XX), pp. 1-2; “La legge sulle arti
figurative”, Le arti 4 (1942-XX), pp. 243-249. U. Ojetti, In Italia, l’arte ha da essere italiana?
(Milano – Verona, 1942), pp. 14-15:
“Diciamo romanità e non classicità perché questa seconda parola comprende l’arte greca e
il suo soprumano idealismo nel cui fulgore abbagliante si rifugiano i deformatori (...) del
vero.”. La risposta di Bottai fu (“La legge sulle arti figurative”, p. 245) : “Quando, dopo
vent’anni di rivoluzione nè univoca nè equivoca, si sente chiedere se l’arte in Italia abbia da
essere italiana, non è più il caso di discutere sul piano teorico e di ripetere per la centesima
volta che non soltanto è l’Italia a far l’arte italiana, ma anche l’arte italiana a fare l’Italia: e che,
insomma, a voler storicamente pensare bisogna risalire dai fatti all’idea e non dall’idea
discendere all’esame pregiudicato dei fatti. (...) Ma le tendenze? In linea di principio
potremmo rispondere che una politica, la quale facesse propria l’una o l’altra tendenza,
sarebbe una politica di opzione e non di giudizio. (...) Tutte le tendenze hanno lo stesso
limitato valore: nè alcuna di esse può, più degnamente dell’altre, rappresentare lo Stato.”.
3
Usciti su La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 12, n 3 (marzo 1934), pp. 27-34 (“Arte
ignorata”), 13, n 3 (marzo 1935), pp. 33-41 (“Racemi d’oro”), 14, n 2 (febbraio 1936), pp.
39-47 (“Antellami”). Le citazioni da “Arte ignorata” sono a p. 34 e p. 32 rispettivamente.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

corretta e triste sotto le lucidature banali ed eleganti, i cristalli gelidi, i


muri clinici, lo sfarzo feroce del lusso elementare? Il salotto dell’Otto-
cento e la critica razionalista! Due sfere che minacciano di toccarsi nel
filesteismo comodo e confortevole, nell’odio per l’arte, per il suo sole,
per la sua musica, per la sua anima.”.

Un’altra citazione da Sironi, che conviene riportare per esteso,


riguarda nuovamente la sua posizione vicina a Bottai sulla moltepli-
cità di componenti che costituiscono la tradizione artistica italiana
(comprese le opere del periodo “che si dice bizantino”) e sulla
necessità di difendere l’arte etrusca e quella romana dalla soggezione
all’arte greca e dalle mode francesi; è presa dal commento alla III
Quadriennale romana del 1939 e fu pubblicata anch’essa su La
Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”:

“(...) il neotradizionalismo, la volontà cioè di ritrovare nel nostro


grande passato le sorgenti stesse di un nuovo vastissimo sperare non
per via di imitazioni e di plagio, ma per una comprensione che era
stata abilmente addormentata dal prevalere dell’arte e del movimento
artistico d’oltralpe. Le mode francesi si arrestano infatti ai confini
dell’arte italiana. Si fermano a Teotocopulos [El Greco], mentre
l’entusiasmo del principio dell’ottocento per gli italiani, sparisce e si
dissolve senza lasciar traccia (...). Si vede oggi che la conoscenza del
nostro passato, oltre i noti cliché del turismo, ha ancora moltissima
strada da fare. Rimettere in onore la scultura romana ed etrusca,
liberandole dal fantasma di una soggezione alla Grecia, riaffermare la
grandezza dei mosaicisti italiani del periodo che si dice bizantino, ma
che fu anche una grande e essenziale affermazione del genio italiano,
rivedere le posizioni dell’arte romanica, genialissima e completa affer-
mazione dopo i romani (...), tutte queste tappe, che sono necessarie
perché l’arte italiana si riveli nella sua vera grandezza e nella sua
immensa estensione, sono in parte già percorse.”.

“Racemi d’oro” è lo scritto più elogiativo dell’arte bizantina


apparso in Italia negli anni Trenta (fig. 82-83). Le riproduzioni che
lo accompagnano sono dettagli dei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo
e San Vitale a Ravenna e delle chiese veneziane di Torcello e San
Marco. Sironi ha cura di attaccare le regole imposte dalla critica
accademica, nazionalista, che pregiudicano l’apprezzamento della
bellezza di queste opere bizantine. Il loro valore è in elementi che
Soffici ed i critici nazionalisti avevano messo all’indice; quella bizan-
tina è un’arte che “sdegna le calligrafie realistiche che si vanno
sostenendo indispensabili alla nostra pittura contemporanea”. Sironi
ammira audacia e splendore degli accostamenti coloristici, cromati-
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

smo, ermetismo, inaccessibilità, grandezza misteriosa ed ardua ele-


mentarità del mosaico bizantino, “cosı̀ al di là delle buone regole
veristiche ottocentesche, cosı̀ antica, e quindi per i nostri fabbricanti
di calcomanie, arbitraria”. In quei mosaici è corruzione e decadenti-
smo, ma anche eternità. È dall’arte bizantina che dipende tutta la
pittura moderna: Cézanne, i divisionisti, Van Gogh, Seurat, fino alla
musica e la linea ritmica di Kandinsky. I Bizantini, diversi dai Latini,
sono gli elementi modernisti dell’arte antica, una sentenza che suona
eretica per quei tempi:

“Si rimane stupefatti a contemplare l’audacia, lo splendore degli acco-


stamenti coloristici [dei mosaici bizantini].
La maggior parte dei visitatori si sente più imtimidita che rispettosa,
più sbalordita che ammirata ed esaltata, più oppressa che confidente
sotto ai catini smaglianti. È cosı̀ difficile, questa lontana meraviglia,
cosı̀ ermetica e inaccessibile nella sua ardua elementarità, cosı̀ al di là
delle buone regole veristiche ottocentesche, cosı̀ antica, e quindi per i
nostri fabbricanti di calcomanie, arbitraria, e «per quei tempi»!.
La splendente creazione del mosaico bizantino ebbe le sue premesse
nell’arte ellenistica e romana, ma fu espressione non solo di un mondo
orientale contrapposto all’occidentalismo di Roma [riferimento a Strzy-
gowski], ma pure di una nuova epoca colma di vita e di movimento.”.

È pure eretico l’accostamento di Cézanne ai Bizantini, la cui


pittura, in quanto plastica, la si sarebbe aspettata piuttosto contrap-
posta alla bizantina; ma a Sironi lo sforzo di allineare tessere di vetro
in mosaici faceva pensare a Cézanne che impiegava giorni e giorni a
ripassare una pennellata.
In precedenza, anche la Sarfatti aveva espresso il suo amore per
l’arte bizantina tentando l’italianizzazione di un altro pittore, El
Greco, all’apice della sua fortuna critica già da tempo, ma in quegli
anni particolarmente amato per la sua espressività anche in Italia,
soprattutto da Scipione e Osvaldo Licini. Sarfatti scrisse di El Greco
sul primo numero de La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”, del
gennaio 1925, un articolo intitolato “Spagna mistica” (fig. 84). Le
figure di El Greco, “lunghe, allampanate sono figure di mosaico
bizantino, per le vôlte delle chiese nello sfondo d’oro sopra l’altare”:

“Il più celebre dei suoi quadri, L’inumazione del conte d’Orgaz, è
nettamente diviso in due parti, come i mosaici nelle lunghe nicchie
bizantine, senza fuoco centrale unico. I colori del Greco sono colori di
mosaico bizantino, brillanti, vitrei, gemmati, opalescenti e iridati,
come le tessere di prezioso smaltato vetro; senza calore e tono.”
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

El Greco è un “mosaicista bizantino in ritardo, che si innamorò


della figlia del mosaico bizantino, la pittura veneziana”, dunque
semiitaliano. A parte il giudizio della Sarfatti, un bizantinista avvici-
nerebbe senz’altro El Greco all’ultima fase dell’arte bizantina, l’arte
del periodo paleologo, che né lei né quasi nessuno in quel momento
in Italia sembra conoscere4.
Nel 1943, nel fascicolo di Domus contenente l’elogio di Soffici
pittore toscano, fu pubblicato “Espressionismo dei bizantini” (figg.
85-86), un articolo di Raffello Giolli, un critico che in precedenza
aveva usato parole di lode per il pittore antifascista Felice Casorati,
sulla scia di quanto scriveva Lionello Venturi. Giolli dopo aver
partecipato a molte discussioni sull’architettura a l’arte negli anni
Trenta con scritti su Casabella, Domus e altre riviste, passò all’antifa-
scismo; fu arrestato una prima volta, poi, liberato, continuò a scri-
vere per riviste clandestine della resistenza milanese; arrestato nuova-
mente e torturato dai fascisti a San Vittore, fu spedito al campo di
concentramento di Mauthausen dove si ammalò di polmonite ed
insieme ad altri prigionieri malati fu finito dai nazisti col gas nel
gennaio 19455. Mentre l’articolo su Soffici di Del Massa riassumeva
vent’anni di apprezzamento del pittore da parte dell’ala più conserva-
trice della critica fascista, l’articolo di elogio verso l’arte bizantina
riassumeva i motivi del favore verso Bisanzio e l’arte moderna fran-

4
B. Bandini, “El Greco e l’arte italiana contemporanea: 1930 – 1950”, in El Greco of
Crete. ΠρακτικÀ του διεθνοà̋ επιστεηµονικοà συνεδρÝου που οργανñθηκε µε αφορµÜ τα 450
χρÞνια απÞ τη γÛννησε του ζωγρÀφου. ΗρÀκλειο 1-5 ΣεπτεµβρÝου 1990 / Proceedings of the
International Symposium held on the occasion of the 450th anniversary of the artist’s birth,
Iraklion, Crete, 1-5 September 1990, a cura di N. Hadjinicolaou ([Iraklion] 1995), pp.
499-505. Una mostra di pittori spagnoli nella Collezione Contini – Bonacossi, con molte
tele di El Greco fu aperta nel 1930; alla redazione del catalogo partecipò anche Longhi che
era consulente prediletto del collezionista e amante dell’arte di El Greco: Gli antichi pittori
spagnoli della Collezione Contini – Bonacossi, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna a
Valle Giulia, maggio – luglio 1930, catalogo della mostra, a cura di R. Longhi e A. C.
Mayer (Milano-Roma, 1930-VIII). M. G[rassini] Sarfatti, “Spagna mistica. Dal Monsal-
vato a Toledo”, La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 1, n 1 (gennaio 1925), pp. 45-49; le
citazioni riportate nel testo sono da p. 48. Sulla Sarfatti vedi: Da Boccioni a Sironi: il mondo
di Margherita Sarfatti, Brescia, Palazzo Martinengo, 13 luglio – 12 ottobre 1997, catalogo
della mostra, a cura di E. Pontiggia (Milano, 1997).
5
R. Giolli, Felice Casorati (Milano, 1925); cf. L. Venturi, “Il pittore Felice Casorati”,
Dedalo 4 (1923-1924), pp. 238-261. A Giolli è dedicato il volume Arte italiana del nostro
tempo, a cura di S. Cairola (Bergamo, 1946), che ha la dedica: “Raffaello Giolli che, artista e
critico, difese e sostenne apertamente l’arte italiana contemporanea come un movimento
rivoluzionario della cultura, nella storia di quella rivoluzione sociale per la quale sacrificò la
vita.” Le notizie su Giolli sono raccolte in R. Giolli, L’architettura razionale, a cura di C. De
Seta (Bari, 1972), prefazione pp. xi-lxvii.
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

cese dell’ala più esterofila. L’articolo sembra quasi una diretta conti-
nuazione di “Racemi d’oro” di Sironi. Giolli l’aprı̀ con tre riprodu-
zioni di quadri di pittori francesi accompagnate da didascalie:
- Cristo e la folla di Georges Rouault, con la didascalia: “Ad
abbandonare ogni plasticismo ottocentesco l’espressionismo è stato
anche persuaso dalla meditazione dei bizantini: come in questo
«Cristo e la folla» di G. Rouault”;
- un modello per arazzo di Rouault, con la didascalia: “Un altro
evidente ricordo bizantino: un modello per arazzo di Rouault”;
- Mme Matisse: madras rouge di Matisse, del 1907, che era stato
esposto al Salon d’Automne del 1907 (ora Merion, Pennsylvania,
The Barnes Foundation): un dettaglio delle mani incrociate della
donna, con la didascalia “Particolare di un ritratto di Matisse del
1907; qui il fauve ha già abbandonato la terza dimensione”.
In accordo con Sironi, Giolli provò a convincere i lettori che
Bisanzio aveva ispirato Rouault, Matisse e Kandinsky. Per confronto,
mise foto di dettagli degli smalti della Pala d’Oro di Venezia in modo
da mostrare figure dal contorno mosso, espressive, fornendo una
immagine inconsueta rispetto a quelle trasmesse dai manuali di storia
dell’arte tipo Bendinelli, dove Bisanzio era santi su fondi oro, gesti
ripetuti nella “inevitabile cadenza gregoriana”, “vita imperturbabile
in un paradiso ritmato” (due allusioni ai mosaici della navata di
Sant’Apollinare Nuovo), “immagini scorporate” di un’arte “immo-
ta”, un mondo “incantato e disumanato”. Grazie all’impressionismo
francese, per Giolli questa immgine di Bisanzio era stata riletta al
Salon del 1906 dai Fauves Matisse, Rouault e Vlaminck, “scambiati
da selvaggi dall’istinto belluino”, ed era stata tradotta in espressioni-
smo moderno, in “colorazioni splendenti oltre ogni inquietudine
plastica”, in un “mondo a due dimensioni” dove “la linea, non più
descrittiva, tornava ad avere il suo liberato linguaggio di ritmo” e
dove “il colore si frange in placche immobili, estatiche, allusive”: “la
piattaforma bizantina d’una pittura senza peso era appunto la piatta-
forma necessaria all’estrema mobilità del brivido espressionista”.
Una lettura senz’altro innovativa: guardati da vicino, corpi e volti
delle figure a smalto della Pala d’Oro rivelano “pupille inquiete”,
“angelicità morbose”, asimmetrie, arabeschi, ritmi astratti, “un
espressionismo già teso alla allucinazione”6.

6
R. Giolli, “Espressionismo dei bizantini”, Domus n 184 (aprile 1943-XXI), pp.
182-188. Sul quadro La signora Matisse in madras rosso di Matisse vedi Kostenevich, “Un
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

b. Severini, il muralismo ed i mosaici bizantini


Gino Severini (il più bizantino degli artisti italiani secondo Guttuso)
scrisse nel 1927 di preferire Ravenna alla Cappella Sistina, perché la
pittura murale deve far corpo con l’architettura, non deve impiegare
la prospettiva, né simulare il rilievo:

“J’estime donc qu’entre la chapelle Sistine ou les églises italiennes des


XVIe et XVIIe siècles, dont les fausses perspectives enlèvent les
plafonds, et les églises de Ravenne, il y a intérêt à prèférer, comme
example et comme base, l’esprit des celles-ci. Cet art ornamental est
vraiment le plus pur et le plus grandiose que je connaisse.”7.

Severini amava i mosaici bizantini anche perché vi vedeva uniti


maestria tecnica e valori poetici e metafisici:

“l’umiltà operaia che non esclude affatto il dono di poesia e trascen-


denza, come si vede appunto chiaramente negli anonimi mosaicisti di
Ravenna, del Battistero di Venezia, o del Duomo di Torcello.”8.

Argomentazioni contrarie alla prospettiva e al rilievo nella pittura


murale sono riproposte nel Capitolo XII dei Ragionamenti sulle arti
figurative che Severini pubblicò nel 1936 (figg. 87-88). I confronti tra
mosaici bizantini ed arte moderna sono uno dei motivi guida del
libro; Severini accostò Cézanne, usato come garanzia inoppugnabile
di qualità artistica, ai mosaici di Ravenna – un’idea singolare per
quei tempi –, riproducendo uno di seguito all’altro la testa dell’arci-
vescovo Massimiano del corteo di Giustiniano a San Vitale (con la
didascalia: “Come tutti i volti dei mosaici ravennati, questo esempio,
malgrado le degradazioni del tempo e del restauratore, mostra il
modo largamente pittorico e costruttivo caro a Cézanne”) e l’autori-
tratto di Cézanne ora alla Tate Gallery di Londra (con la didascalia:
“E questa testa di Cézanne potrebbe essere un mosaico di Raven-
na’’); ed inserı̀ Matisse nella tradizione di Bisanzio (“costante sforzo

dialogo lungo mezzo secolo”, p. 44 e nota 50 p. 77. La discussione sull’articolo di Giolli


riprende quanto espresso in Bernabò, “L’arte bizantina e la critica in Italia”, p. 43.
7
G. Severini, “La peinture murale. Son esthétique et son moyens”, in Nova et vetera
(Freiburg, 1927), ristampato in G. Severini, Ecrits sur l’art (Paris, 1987), pp. 184-191,
citazione nel testo da p. 184. Il giudizio di Guttuso è dalla critica alla XXII Biennale di
Venezia: “Pittori italiani alla XXII Biennale”, Le arti 2 (1939-1940-XVIII), pp. 366-370.
8
G. Severini, “Lettera a «Quadrante»: Sul mosaico come modo di espressione e di
tecnica”, Quadrante 1 n 2 (1933), p. 31.
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

di mantenersi in unione di spirito e di ‘mezzi’ con una tradizione che


potrebbe essere quella di Bisanzio”) – un luogo comune, ormai,
come abbiamo visto. Aggiunse che il migliore modo di rappresentare
il volume pittoricamente è

“quello dei mosaicisti dal IV al VI secolo, i quali risolvono il problema


col colore, e cioè con contrasti audaci e sapientissimi. (...) Però
anch’essi non disdegnano di ricorrere talvolta ad una descrizione del
volume per mezzo di un cerchio o arco di cerchio (...). Secondo me, è
questa l’epoca nella quale l’arte pittorica esprime una più grande unità
ontologica.
Il secondo modo [di rappresentare il volume pittoricamente] è quello
più lineare, più astratto, adottato dai Bizantini, che domandano la
forza espressiva all’idea religiosa, al contenuto, più che ad una potenza
propriamente pittorica. Per i Bizantini le linee che racchiudono le
forme, prima di ‘rappresentare’ le cose, sono ‘segni’, invece dopo di
loro, e gradatamente, le linee sono prima ‘rappresentazione’ e poi
‘segno’.
(...) Non succede spesso ai Bizantini di raccontare avvenimenti e
storie, ma se li raccontano, lo fanno in modo cosı̀ anti-descrittivo, con
una elevatezza e perfezione di ‘mezzi’ cosı̀ propriamente integra che
non sarà mai più ritrovata.”.

Come esempi, Severini mise tavole commentate dei mosaici


dell’abside di Sant’Apollinare in Classe – del quale aveva discusso
Venturi ne Il gusto dei primitivi –, di San Vitale (la testa dell’arcive-
scovo Massimiano), di Sant’Apollinare Nuovo (la Madonna tra an-
geli), dell’abside di Santa Pudenziana a Roma, di volte barocche e
delle pitture delle chiese elvetiche che Severini stesso era stato
chiamato a dipingere dal 1924: la chiesa parrocchiale di Semsales e
la chiesa di Notre Dame di Valentin (Lausanne). Nel 1933, Severini
scrisse poi una lettera sul mosaico pubblicata sulla rivista Quadrante
contenente lodi della trascendenza dei mosaici di Ravenna, Torcello,
San Marco9.

9
G. Severini, Ragionamenti sulle arti figurative (Milano, 1936; seconda edizione aumen-
tata 1942); il Capitolo XII, “Pittura murale: sua estetica e suoi mezzi”, è alle pp. 77-93; su
Cézanne vedi il Capitolo XX, “Cézanne”, pp. 197-213 e il commento alla tav. xxiii; su
Matisse vedi il Capitolo XXI, “Henri Matisse”, pp. 215-217; le citazioni nel testo sono alle
pp. 277-278, 281. Valutazioni simili sulla pittura murale, ma meno favorevoli su Bisanzio,
sono ripetute in G. Severini, Discussione sulla relazione di Gustavo Giovannoni, “I rapporti
tra l’architettura e le arti della pittura e della scultura nei vari periodi dell’arte italiana”, in
Reale Accademia d’Italia, Fondazione Alessandro Volta, Atti dei Convegni, 6, Convegno di
Arti. 25-31 ottobre 1936-XIV. Tema: Rapporti dell’architettura con le arti figurative (Roma,
1937-XV), pp. 37-38. Una scelta dai numerosi testi di Severini sul mosaico è in bibliografia.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Negli anni Trenta la fortuna di Bisanzio fu legata a quella del


muralismo, che ebbe il suo manifesto nell’articolo di Sironi “Pittura
murale” del 1932 e la sua consacrazione alla V Mostra Triennale
delle Arti Decorative di Milano del 1933:

“La «pittura murale», che orna l’interno del «Palazzo dell’arte», intende
reagire contro le prevalenti tendenze della costruzione «razionalista»; la
quale, ormai ridotta senza volto e carattere, si è irrigidita, senza
possibilità di ulteriori sviluppi, in un punto morto. La «pittura murale»
vuol umanizzare, riscaldare le squallide mura utilitarie della corrente
materialista derivata dal positivismo del nord e tende a riallacciare le
arti figurative italiane alla nostra decorativa tradizione latina.
Ma la parola «decorazione», durante il basso ottocento, stava ad
indicare un’arte superficiale tutt’al più abile e virtuosa. I suoi svolazzi
floreali, le sue leziosità ed esteriorità ornative avevano cosı̀ fatto dege-
nerare una delle nostre maggiori espressioni. Ora la Triennale intende
riportare la decorazione murale all’altezza della grande arte umana che
in passato ha dato fantasia e spiritualità ai nudi e grandi spazi delle
pareti costruttive.”10.

Il muralismo in pittura e in mosaico, “tecnica italianissima”,


dominò l’esposizione milanese, alla cui presidenza erano Giò Ponti e
lo stesso Sironi. Tra le pitture murali Massimo Campigli espose “Le
madri, le contadine, le lavoratrici”, Carlo Carrà “L’Italia romana”
(fig. 89), Achille Funi “Giochi atletici italiani” (fig. 90), Sironi “Il
lavoro” (fig. 91); tra i mosaici Leonora Fini espose “Cavalcata di
amazzoni” su cartone di Funi (rimasto in situ), Severini una natura
morta con maschera tragica ispirata ai mosaici pompeiani e “Le
arti”, un mosaico (anch’esso ancora in situ) eseguito su suo disegno
dalla bottega Salviati di Murano che fu inserito come riquadro
centrale de “La cultura italiana” di Giorgio De Chirico (fig. 92)11.

10
”Pittura murale scultura e decorazione alla Quinta Triennale”, in La Quinta Triennale
di Milano, numero speciale de La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 11 (agosto 1933 –
XI), citazione da p. 25.
11
M. Sironi, “Pittura murale”, Il Popolo d’Italia 1 gennaio 1932, ristampato su L’arca 3,
n 1 (aprile 1932) e su Domus 5, n 1 (gennaio 1932), pp. 248-249 (con presentazione di Gio
Ponti). Sulla Triennale vedi il fascicolo monografico La Quinta Triennale di Milano de La
Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”; L. Vitali, “Le pitture murali alla Triennale”, Domus n
66 (giugno 1933), pp. 286-291. La definizione del mosaico come arte italianissima è da
“L’arte del mosaico alla Triennale”, Domus n 65 (maggio 1933), pp. 228-229; sulla stessa
rivista, alle figg. a pp. 228 e 229, sono riprodotti i murali esposti alla Triennale. Sul
muralismo: 1935. Gli artisti nell’Università e la questione della pittura murale. Università degli
Studi di Roma «La Sapienza», [Roma,] Palazzo del Rettorato, 28 giugno – 31 ottobre 1985,
Catalogo della mostra, a cura di S. Lux e E. Coen (Roma, 1985); Avanguardia, tradizione,
ideologia: itinerario attraverso un ventennio di dibattito sulla pittura plastica murale, a cura di S.
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

Nel 1935 Severini espose “Natura morta” alla II Quadriennale


d’Arte Nazionale di Roma, presentata da Sironi su La Rivista illu-
strata del “Popolo d’Italia” (fig. 93); l’anno seguente, 1936, Severini
espose altri mosaici alla XX Biennale di Venezia, che furono attac-
cati per la “oggettiva, fotografica rappresentazione del vero”, per
“l’intellettualistico amore per le decorazioni bizantine”. Altre opere
filobizantine di Severini furono esposte alla XXII Biennale del 1940,
ma non piacquero a Renato Guttuso, che notò che Severini s’era
fatto più chiuso nella sua torre d’avorio; le sue premesse andrebbero
dai bizantini a Van Gogh. Nella stessa Biennale furono esposte opere
di Carrà, il più elogiato nel commento di Guttuso, tra cui Ragazzi al
mare (“mirabile equilibrio del piccolo poema pittorico”), e due
donne a mosaico di Campigli (fig. 94). Carrà fu anche autore de
“L’imperatore Giustiniano che libera uno schiavo” nel Palazzo di
Giustizia di Milano, dell’architetto Marcello Piacentini, una opera
realizzata a seguito della legge del due per cento, che imponeva la
destinazione di tale quota dell’importo previsto per il progetto di
edifici pubbliche allo loro ornamentazione artistica (quanto al tema
del murale, Giustiniano ed il suo codice di leggi erano stati definiti
ufficialmente come appartenenti alla civiltà romana)12.
Anche Campigli fu dichiarato bizantino per il ritmo dei suoi
affreschi nell’atrio del Liviano a Padova (fig. 95). Sul fascicolo del
1939-1940 de Le Arti, la rivista di Bottai il cui gruppo di redazione
era guidato da Longhi, lo storico dell’arte Rodolfo Pallucchini criticò
l’aspetto decorativo delle grandi composizioni padovane di Campigli
(le scene della erezione della colonna, dei costruttori, degli studenti,
degli eroi antichi sepolti, degli archeologi) in quanto mancanti di
dramma (sentenziò: Campigli non è Carrà), ma vi vide, retorica-
mente, “l’antichità classica, o meglio la coscienza della romanità,
[che] nutre la vita e la civiltà del nostro tempo. Su di essa si

Lux (Roma, 1990); A. Monferini, “Mario Sironi e Margherita Sarfatti. Alle origini della
pittura murale”, in Mario Sironi 1885 – 1961, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 9
dicembre 1993 – 27 febbraio 1994, Catalogo della mostra (Milano, 1993), pp. 66-71; Muri
ai pittori. Pittura murale e decorazione in Italia 1930-1950, Milano, Museo della Permanente,
16 ottobre 1999 – 3 gennaio 2000, catalogo della mostra (Milano, 1999).
12 A
M. Sironi, “II Quadriennale d’Arte Nazionale”, La Rivista illustrata del “Popolo
d’Italia”, 13, n 2 (febbraio 1935), pp. 31-39. V. Guzzi, “La XX Biennale di Venezia”,
Nuova Antologia 71, n 4 (1936-XIV), pp. 65-73. Sulla XXII Biennale: Guttuso, “Pittori
italiani alla XXII Biennale”, pp. 366-370. “Il Palazzo di Giustizia di Milano. Architetto
Marcello Piacentini / Der Mailander Justitzpalast”. Architettura. Rassegna di architettura, 1,
gennaio-febbraio 1942-XX, p. 42.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

innalzano i valori della civiltà contemporanea”. Continuità della


civiltà romana in quella moderna e attuale; esaltazione di simboli di
vita, di virtù eroica, di studio e di lavoro: continuità espressa nel
racconto di Campigli, pittore nutrito di un umanesimo non tanto
classico quanto mediterraneo:

“(...) trasposizione di un mondo d’immagini arcaiche, generalizzate


nell’esasperazione di motivi ripetuti, in un ritmo il quale assume lo
stesso còmpito che già aveva avuto per i bizantini (...). Ciò non vuol
dire che la personalità del Campigli non abbia i suoi limiti: certo il suo
atteggiamento dinnanzi al problema figurativo manca di dramma,
rimane cioè essenzialmente decorativo [bizantino?]. Ma saremmo in-
giusti chiedendo a Campigli ciò che è di Carrà: poiché si rischierebbe
di fraintenderlo in pieno.”13.

Alla VI Triennale di Milano, nello stesso 1936, fu esposto il


mosaico di Sironi “Italia costruttrice”, eseguito da Salviati, che fu
chiamato anche “Il lavoro fascista” e trovò poi sede nell’allora
Palazzo de Il Popolo d’Italia a Milano (fig. 96). Il mosaico è una
allegoria del regime, dove la personificazione seduta dell’Italia è
attorniata dalle personificazioni del lavoro, della famiglia (Adamo ed
Eva), del governo e dell’impero. Cosı̀ fu presentata ne La rivista
illustrata del “Popolo d’Italia”:

“[Sironi è] artista veramente «nostro», del nostro tempo, esprimente


nelle sue figurazioni il travaglio costruttivo di una generazione in una
compostezza rude e arcaica e dalla quale si disserrano le spirali del
sogno e l’ansito avvampante delle conquiste. Questa «Nuova Italia
costruttrice» più che ai grandi modelli bizantini del mosaico, smaglianti
e policromi, s’accosta a quelli nudi e drammatici del primo Cristiane-
simo, di cui si ha un esempio classico nel «Catino absidale di Santa
Pudenziana» in Roma. Quella del mosaico è un’arte annunziatrice di
civiltà, e Sironi interpreta la nostra come forse pochi artisti hanno
saputo fare.”.

13
R. Pallucchini, “Affreschi padovani di Massimo Campigli”, Le arti 2
(1939-1940-XVIII), pp. 346-350, citazioni da pp. 346-347 e 348. A proposito di Longhi
direttore redazionale de Le Arti, Toesca scrisse a Berenson il 17 ottobre del 1938: “Siamo in
piena fissazione di unità delle arti, e temo che la nuova rivista “Le Arti” ne esca molto
confusa e pletorica. Il gruppo di redazione è guidato dal Longhi; e s’intende che il Consiglio
direttivo del quale faccio parte, non ha funzione che nominale.”. La frase sulla unità delle
arti si riferisce a dibattiti in corso a metà degli anni Trenta, suscitati da esposizioni come la
Triennale di arti decorative e applicate all’industria di Milano, sulla quale vedi, tra gli altri, il
commento di M. G[rassini] Sarfatti, “Onestà delle arti applicate”, La Stampa 4 luglio
1936-XIV, p. 3, e, della stessa, “Arti decorative, ovvero: L’oggetto corre dietro alla propria
ombra”, Nuova Antologia 71, n 4 (1936-XIV), pp. 57-64.
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

Dell’opera di Sironi scrisse entusiasta anche la Sarfatti avvicinan-


dolo ai mosaici del mausoleo di Galla Placidia (oltre che alle Tombe
Medicee di Michelangelo e all’Incendio di Borgo di Raffello nelle
Stanze Vaticane): “Il lavoro fascista di Sironi” è “colossale e stu-
pendo, allucinante e robusto”, eseguito in “modo solenne e sempli-
ce”, con “nostalgia di fondi d’oro bizantini tradotti in bruni e
d’intonazione dorata”. La Sarfatti invece attaccò il mosaico di Caso-
rati “Maternità”, perché imitazione della pittura “nelle tinte e nelle
prospettive” (fig. 97):

“Il mosaico non può, non deve aspirare alla creazione della terza
dimensione di profondità e di spazio; deve avere valori di tappezzeria e
di superficie piana. (...) [I mosaici di Tiziano e di Tintoretto a San
Marco a Venezia] sono antimusivi e brutti; mancano anch’essi al
rispetto della natura; perciò appaiono insinceri, superficiali e persino
goffi a furia di scioltezza, accanto agli ieratici bizantini, i quali sape-
vano disporre le composizioni con apparente arcaismo, ma con so-
stanza sapiente, frontalmente e in primo piano, abolendo gli effetti di
lontananza e di movimento.”14.

Il lavoro di Casorati non era dunque riuscito, un giudizio influen-


15
zato verosimilmente dal passato antifascista del pittore .
Quanto ai riferimenti a Galla Placidia, la lettura della Sarfatti è
dilettantesca: i mosaici di Casorati piuttosto che quelli di Sironi
sembrano ispirati dall’impressionismo del pastore di Galla Placidia; a
Sironi interessano modelli musivi con figure più plastiche, con ombre
e contrasti cromatici più forti. In generale, l’ispirazione di tutte
queste opere murali non furono il pannello di Teodora a San Vitale,
la teoria delle Vergini nella navata di Sant’Apollinare Nuovo o il
mosaico absidale di Sant’Apollinare in Classe; piuttosto, il plastici-
smo e la monumentalità delle figure della pittura murale degli anni
Trenta imita i mosaici pregiustinianei ravennati e romani. È interes-
sante osservare che l’asserzione dei valori cromatici e decorativi, che,
secondo la Sarfatti, il mosaico deve avere a differenza dei valori

14
F. F., “L’arte della nuova Italia alla Sesta Triennale”, La Rivista illustrata del “Popolo
d’Italia” 14, n 6 (giugno 1936), pp. 37-45, citazione da p. 38. M. G[rassini] Sarfatti, “Arti
decorative”, citazioni da pp. 62 e 64. La Sarfatti parlò negli stessi termini entusiastici del
mosaico di Sironi in “Onestà delle arti applicate”, p. 3. Sul mosaico di Sironi, nell’odierno
Palazzo dei Giornali in piazza Cavour a Milano, vedi Racemi d’oro: il mosaico di Sironi nel
Palazzo dell’Informazione, a cura di E. Braun (s. l., 1992).
15
Sironi aveva parlato in maniera apparentemente provocatoria dell’adesione di Casorati
alle esposizioni artistiche fasciste in “IIA Quadriennale d’Arte Nazionale”, pp. 31-39.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

plastici e naturalistici propri di altre forme d’arte, è in sintonia con il


testo della voce “Musaico” scritta da Toesca per il volume 34
dell’Enciclopedia Italiana, appena pubblicato (1934)16.

c. La Mostra Augustea della Romanità


L’esaltazione della romanità propagandata dal regime ebbe il suo
apogeo nella Mostra Augustea della Romanità, esposizione celebrativa
del bimillenario della nascita di Augusto, che fu aperta a Roma nel
1937, contemporaneamente alla Mostra giottesca degli Uffizi, e che
tenne dietro alla Mostra della Rivoluzione Fascista, allestita a Roma
nel Palazzo della Quadriennale nel 1932, decennale della marcia su
17
Roma . La mostra augustea (figg. 98-99) fu il terzo bimillenario
celebrato negli anni Trenta: nel 1930 era stata la volta di Virgilio, nel
1935 di Orazio. Massimo Pallottino vi vide “il sentimento della
continuità e della grandezza della nostra stirpe”; una mostra che,
attraverso la documentazione della grandezza della Roma antica,
della Roma dell’antico impero e di quella Roma “onde Cristo è
romano”, arrivava alla sua continuatrice, l’Italia del nuovo impero; lo
spirito ed il programma della mostra erano quelli “compendiati nelle
parole del Duce: «Fate che le glorie del passato siano superate dalle
glorie dell’avvenire»”. Giulio Quirino Giglioli, uno degli oratori al
Convegno per la Cultura Fascista di Bologna e il presidente dell’Isti-
tuto di Studi Romani, lesse il discorso di apertura, nel quale per

16
Vedi Capitolo 11, paragrafo c.
17
Mostra della Rivoluzione Fascista. I˚ Decennale della Marcia su Roma, Roma, Palazzo
della Quadriennale 1932, a cura di D. Alfieri e L. Freddi (Bergamo, 1933). Mostra augustea
della Romanità (Bimillenario della nascita di Augusto), 23 settembre 1937-XV – 23 settembre
1938-XVI, catalogo della mostra (Roma, 1937); M. Pallottino, “La Mostra Augustea della
Romanità”, Capitolium. Rassegna mensile del Governatorato 12 (1937-XV), pp. 519-528; A.
M. Liberati Silverio, “La Mostra Augustea della Romanità”, in Roma Capitale 1870 – 1911.
Dalla mostra al museo. Dalla Mostra archeologica del 1911 al Museo della Civiltà Romana,
Roma, Museo della Civiltà Romana, giugno – dicembre 1983, catalogo della mostra, pp.
77-80; E. Braun, “Political Rhetoric and Poetic Irony: The Uses of Classicism in the Art of
Fascist Italy”, in On Classic Ground. Picasso, Léger, De Chirico and the New Classicism 1910 –
1930, London, Tate Gallery, 6 giugno – 2 settembre 1990, catalogo della mostra, pp.
345-354; G. Pisani Sartorio, “La Mostra Augustea della Romanità (1937-1938), il Palazzo
delle Esposizioni e l’ideologia della romanità”, in Il Palazzo delle Esposizioni. Urbanistica e
architettura. L’esposizione inaugurale del 1883. Le acquisizioni pubbliche. Le attività espositive,
Roma, Palazzo delle Esposizioni, 12 dicembre 1990 – 14 gennaio 1991, catalogo della
mostra; G. Bandelli, “Le lettere mirate”, in Lo spazio letterario di Roma antica (Roma, 1991),
4, pp. 361-397.
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

prima cosa ringraziò il duce che aveva “ordinato” di allestire la


mostra in onore di Augusto; ad essa si era atteso “con il massimo
rigore scientifico e ardore fascista”. Per merito del Duce era stato
raccolto “tutto il più insigne patrimonio di memorie d’arte e di storia
a noi giunto col tempo Romano”, cosa che “non poteva farsi che in
Roma e dall’Italia Fascista”. La mostra proponeva duecento plastici,
più di tremila calchi di opere, fotografie, piante, iscrizioni, che
provavano come “fin nelle più lontane regioni del mondo allora
conosciuto” giungesse il “benefico impulso di Roma, come tutto
l’Occidente e il Settentrione europeo debbano a lei l’origine del loro
viver civile”. Le sale erano dedicate alla storia dell’impero romano,
alle “ferree legioni”, alla “Marina dominatrice del «mare nostrum»”,
al diritto, agli edifici pubblici e privati, alle opere di bonifica e di
igiene, all’artigianato, al commercio, alle lettere, scienze, arti, scuola,
istituzioni giovanili, opere assistenziali (il confronto col presente
dell’impero fascista e delle sue opere è evidente). Sessanta sezioni in
tutto. Poi l’oratore aggiunse:

“Due sezioni voglio ancora ricordare: una è quella della Chiesa Cri-
stiana studiata nei primi cinque secoli, quando a Roma ebbe il suggello
della sua universalità; l’altra è quella che ricorda il tramandarsi dell’i-
dea imperiale romana attraverso gli spiriti magni, fino alla risurrezione
dell’Italia come Nazione unita e indipendente e alla risurrezione, dopo
quindici secoli, dell’impero stesso di Roma, per opera Vostra, o Du-
ce.”.

Le azioni del Duce, “civis romanus”, vanno spontaneamente e


inevitabilmente riavvicinate a quelle dei più grandi Romani: la stessa
sua regione natale, la Romagna, come testimonia il nome, conserva
“più di altre inalterati il sangue e lo spirito” dei Romani.
Nella presentazione nel catalogo, Giglioli (che si attribuisce il
merito di aver proposto al Duce l’idea della mostra) riprende dalla
orazione al Duce la definizione degli scopi e dei confini della mostra
e ne specifica i limiti cronologici, definendo l’arco di tempo della
civiltà romana nella visione del fascismo:

“La Mostra ha pertanto il nome di Augustea: essa è però anche della


Romanità, di tutta la Romanità, dalle umili origini leggendarie del-
l’VIII secolo av. Cr., fino alla codificazione del diritto romano e
all’affermazione della Chiesa trionfante come erede spirituale di Roma,
nella prima metà del VI secolo di nostra èra.”.

Nella introduzione alla sala XXV, poi, “Cristianesimo e Roma-


 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

nità finiscono, nel tramonto dell’Impero, per costituire un elemento


solo di resistenza contro la pressione dei barbari”. Sulla parete di
fondo della sala era disegnata una carta dell’Impero, “sulla quale una
croce getta un fascio di vivida luce”. Nella sala erano esposte ripro-
duzioni e fotografie di opere dal IV al VI secolo: sarcofagi e iscrizioni
da più parti dell’Impero, una scena graffita al Museo di Algeri con
una riproduzione del Ponte Milvio portata in trionfo degli inizi del
IV secolo, un ritratto di papa Silvestro, la basilica ed il monastero di
Tebessa, altre basiliche e battisteri cristiani, una donna orante, ri-
tratti di Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, un plastico della basilica di
San Salvatore a Spoleto, rilievi di sarcofago con il Passaggio del Mar
Rosso e l’Arca di Noè, il mosaico della basilica di Teodoro ad
Aquileia, “trenta denari” d’argento dalla Palestina, pissidi eburnee e
argenterie con scene cristiane, le lipsanoteche di Brescia e di Pola.
Sulla balaustra della sala era data, a lettere in rilievo, la traduzione
dell’Editto di Milano, che “chiude l’êra delle persecuzioni e inaugura
quella della pace tra la Chiesa e l’Impero – 13 giugno 313 d. Cr.”.
La successiva e ultima sala XXVI era dedicata alla immortalità
dell’idea di Roma ed alla rinascita dell’impero nell’Italia fascista e
mostrava, tra l’altro, tre archi di trionfo: quello di Costantino, quello
dell’architetto e accademico d’Italia Marcello Piacentini a Bolzano
(“il primo dell’Italia risorta”), quello dell’Ara dei Fileni in Cirenaica,
dell’architetto F. Di Fausto, “ricordante il trionfale viaggio del Duce
in Libia e l’inaugurazione della strada litoranea, opera di romana
grandezza”. Concludono il catalogo i testi delle iscrizioni inneggianti
alla gloria dell’Italia (da Dante in poi) e al Duce, con molte citazioni
da D’Annunzio e tra di esse “Arma la prora e salpa verso il mondo”,
il celebre verso de La Nave. Con il discorso di Giglioli, la mostra
augustea sanzionò ufficialmente il prolungamento della cività romana
al VI secolo, recuperando Ravenna e Giustiniano all’Italia (senz’al-
tro, non c’era interesse nel recupero della bizantina Teodora). Que-
sto recupero era stato posto da Giorgio Pasquali come fulcro della
sua voce “Letteratura bizantina” nella Enciclopedia Italiana18 – Gi-
glioli sembra riprendere più concetti da Pasquali – e la sua ufficializ-
zazione si rifletté sugli studi bizantini contemporanei.
La retorica romanista e colonialista del regime si propagò ad
archeologi e storici dell’arte e da questi fu sostenuta. Gli antichisti
furono in prima fila nell’applaudire la politica coloniale del fascismo

18
Vedi Capitolo 11, paragrafo e.
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

e ne diventarono portavoce qualificati; la componente romana di-


venne l’anima ideale dell’Italia fascista19. Con la vittoria nella guerra
etiopica e la proclamazione del ritorno all’impero fatta dal Duce dal
balcone di Palazzo Venezia, il 9 maggio del 1936, retorica e simboli
imperiali di Roma pervasero ideologia e propaganda. La compenetra-
zione tra fascismo, tradizione romana e tradizione cattolica, che era
stata soggetto di una delle sale della mostra della romanità, fu
ribadita l’anno successivo della mostra, 1937, in una serie di confe-
renze radiotrasmesse dell’Istituto di Studi Romani dal titolo Roma
“Onde Cristo è romano”, con interventi di vari cardinali (tra i quali
Eugenio Pacelli, poi papa Pio XII) e del solito Galassi Paluzzi20.
Anche la pubblicità si adeguò alla proclamazione dell’impero: statue
di Augusto e Traiano, da foto riprese dai servizi della Rivista illustrata
del “Popolo d’Italia” per la Mostra della Romanità, garantivano quali
“tessuti dell’impero” fibre sintetiche autarchiche della SNIA Viscosa,
la fabbrica già di Gualino, in occasione della XVIII Fiera Campiona-
ria di Milano dell’aprile 1937 (fig. 100); sullo sfondo di una imma-
gine di Traiano ed una di un gruppo di soldati italiani la Banca
Commerciale Italiana (fig. 101) faceva stampare le parole del suo
presidente inneggianti all’impresa di Etiopia con l’esercito e le cami-
cie nere marcianti al comando del Capo a ripulire da predoni e
mercanti di schiavi l’incorreggibile Etiopia, nella quale ora, con
l’alloro della vittoria intrecciato alla corona imperiale, è tutto un
fervore di cantieri e nuove strade; un senatore ed una giovinetta
pubblcizzavano la Montecatini; un soldato romano le Aziende Car-
boni Italiane; la FIAT, al servizio della patria in armi in Africa
orientale, faceva vedere il passaggio della nuova “1500” sotto l’arco
trionfale della Sirte (l’arco dei Fileni) della litoranea libica, appena
inaugurata. Alla presenza di Mussolini si giravano le riprese del film
Scipione l’Africano di Carmine Gallone. Contemporaneamente, La

19
Le considerazioni sono di Mariella Cagnetta, della quale vedi il già citato “Appunti su
guerra coloniale e ideologia imperiale «romana»”, in Antichisti e impero fascista (Bari, 1979),
specialmente pp. 9-11, e “Il mito di Augusto e la ‘rivoluzione’ fascista”,in Matrici culturali
del fascismo (Bari, 1977), pp. 153-184. Inoltre di Luciano Canfora: “Classicismo e fasci-
smo”, in ivi, pp. 85-111, Ideologie del classicismo (Torino, 1980) e Le vie del classicismo (Bari,
1989), qui specialmente i Capitoli 14 e 15, “Cultura classica e «usurpazione moderna»” e
“Sul posto del classicismo tra le matrici culturali del fascismo”, pp. 237-252 e 253-277
rispettivamente. R. Visser, “Fascist Doctrine and the Cult of the Romanità”, Journal of
Contemporary History 27 (1992), pp. 5-22; i contributi nel volume Fascist Visions. Art and
Ideology in France and Italy, a cura di M. Affron e M. Antliff (Princeton, N.J., 1997).
20
Roma “Onde Cristo è romano”. Conferenze radiotrasmesse tenute nell’Anno Accademico
1936-XIV dei Corsi Superiori di Studi Romani (Roma, 1937).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

rivista illustrata del “Popolo d’Italia” si riempiva di articoli di archeolo-


gia dai titoli e dal contenuto imperiali, accompagnati dai rilievi
dell’Ara Pacis, da statue di Germanico, Livia e altri personaggi della
casa Giulio-Claudia, e di servizi sulla Mostra Augustea della Roma-
nità e sulla riapertura della Mostra del Fascismo per il decennale
della Marcia su Roma; ed infine stampava un fascicolo speciale Italia
imperiale21.

d. La colonizzazione romanista dell’Adriatico


e della Sicilia
Nel 1936 si svolse a Roma il quinto Congresso Internazionale di
Studi Bizantini, organizzato dall’Istituto per l’Europa Orientale che
pubblicava la rivista Studi bizantini dal 1924, oltre a Studi albanesi,
Studi baltici, Studi romeni, Ricerche slavistiche. L’Istituto non ebbe vita
facile: prefazioni in testa ai suoi volumi bizantini menzionano diffi-
coltà economiche; la rivista Studi bizantini di fatto non decollò mai22.
Il quadrumviro e ministro dell’Educazione Nazionale Cesare Maria
De Vecchi, nel discorso inaugurale del Congresso del 1936 (che fu
pubblicato insieme ad altri suoi testi nel volume Bonifica fascista della
cultura), cercò uno spazio di sopravvivenza per Bisanzio nell’onda
vincitrice della romanità imperiale, giocando a suo favore alcune
carte romane: l’appellativo di ‘Nuova Roma’ dato alla nuova capitale
inaugurata da Costantino, la definizione di Bisanzio come erede di
Roma, “lo spirito romano che rivive nella romanità universale di
Giustiniano che eterna nei documenti sapienti del diritto la sapienza
millenaria dell’antica patria”23. Nello stesso anno della mostra della

21
”La Fiera di Milano”, La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 15 n 4 (aprile 1937), pp.
79-105; le pubblicità dei tessuti della SNIA Viscosa alle pp. 102 e 104. Tra gli articoli
imperiali pubblicati sulla medesima rivista vedi, ad esempio, S. Aurigemma, “Romanità di
Velleia”, 15 n 2, febbraio 1937, pp. 33-41; e C. Pertile, “Orme di Roma nell’Egeo italiano”,
15, n 1, gennaio 1937, pp. 31-35; il fascicolo speciale su Italia imperiale è del marzo 1937.
22
Come, del resto, Cronache bizantine di letteratura e di arte, quindicinale dell’Università
di Napoli, direttore R. De Gerardis, che cominciò ad uscire a Napoli nel 1907.
23
Studı̂ bizantini (Pubblicazioni dell’ “Istituto per l’Europa Orientale” in Roma. Istituto
di Studi Bizantini e Neoellenici); nei pochi volumi pubblicati vedi A. Muñoz, “Studi di arte
bizantina in Italia”, Studi bizantini, ser. 2, 5 (1924), pp. 207-216; inoltre: A. Giannini, “Gli
studi bizantini a Roma”, in Istituto di Studi Romani, Atti del IV Congresso Nazionale di Studi
Romani, vol. 1, pp. 361-364. C. M. De Vecchi di Val Cismon, Bonifica fascista della cultura
(Milano, 1937), pp. 126-127. Contemporaneamente al congresso, la Biblioteca Vaticana
allestı̀ una mostra di manoscritti e documenti bizantini: Catalogo della mostra di manoscritti e
documenti bizantini disposta dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e dall’Archivio Segreto in
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

romanità, dopo la romanizzazione di Giustiniano e Ravenna, nel


volume 35 della Enciclopedia Italiana Venezia è definita figlia di
Ravenna e di radice romana anch’essa24. Della romanità dei mosaici
di Ravenna, di Parenzo e di Venezia si disse convinto anche Bettini
nel 1939, che scrisse con ardore romanista contro il panbizantinismo
dell’arte medievale, del quale Toesca era il campione. Era necessario,
proclamò Bettini, rivedere sotto nuova luce il problema delle in-
fluenze bizantine in Italia: un nuovo studio farebbe probabilmente
limitare alquanto la loro portata. Oltre a queste sorprendenti affer-
mazioni antitoeschiane e antibizantine, Bettini vide a Bisanzio

“risolvere la rappresentazione artistica sopra una superficie sempre


meno spaziale e invece (...) sempre più cromatica. Quella superficie
aspaziale cromatica che sarà, con estrema evidenza, il fondamento
25
assoluto di tutta l’arte del Medioevo”

soprattutto a Bisanzio. Il cromatismo bizantino è opposto alla spazia-


lità romana. In altri studi degli anni Quaranta Bettini proclamò che
la ceramica bizantina è di origine ravennate, che l’architettura cri-
stiana non è nata in Oriente, ma a Roma, che gli edifici a volte e
cupole nelle regioni orientali sono d’importazione romana, che gli
edifici di Giustiniano a Costantinopoli sono occidentali, che il cro-
matismo dei mosaici giustinianei di Ravenna si era originato a Mi-
lano e Ravenna. Perché Bettini, che pure aveva già scritto i suoi
compendi dell’arte bizantina, desse triste prova di serietà di studioso
svendendo Bisanzio per Roma negli anni della retorica imperiale
mussoliniana, potremmo forse ricostruirlo, se fosse negli interessi di
questo libro26.
L’appartenenza di Ravenna a Roma e la superiorità dell’arte
romana a confronto della intontita, compassata e fredda arte bizan-
tina, fase finale del classicismo, è anche il pensiero di Pericle Ducati,
nel volume della Storia di Roma dell’Istituto di Studi Romani L’arte

occasione del V Congresso Internazionale di Studi bizantini, Roma, 20-26 settembre 1936
(Città del Vaticano, 1936).
24
Vedi Capitolo 11, paragrafo b.
25
S. Bettini, “Rapporti tra l’arte bizantina e l’arte italiana prima di Giotto”, in Istituto
Nazionale per le relazioni culturali con l’estero, Italia e Grecia. Saggio su le due civiltà e i loro
rapporti attraverso i secoli (Firenze, 1939), pp. 273-295, citazioni nel testo da pp. 276-277,
280, 288, 291.
26
Queste sentenze di Bettini sono state sottolineate da P. Lemerle, “L’archéologie
paleochrétienne en Italie. Milano et Castelseprio, «Orient ou Rome», Byzantion 22 (1952),
pp. 203-204, che dà una bibliografia degli scritti di Bettini a nota 2 p. 203.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

in Roma dalle origini al sec. VIII, pubblicato nel 1938: il Medioevo è


“letargo della romanità”, il bizantinismo è antitesi del classicismo; in
esso al carattere plastico si sostituisce la piattezza delle forme. Men-
tre a Roma la vigoria non è mai annullata

“in Bisanzio essa vigoria dà luogo ad un intontimento espressivo nella


pompa dell’oro e dei colori e tutto acquista un carattere di superba
decorazione, e le formule plastiche divengono formule decorative e
ornamentali, preannunciando infine quanto si designa col nome di
arabesco.”.

Il bizantinismo, che pure è evidente a Roma, Ravenna e Parenzo,


non annulla interamente, tuttavia, la tradizione romana: magnanime-
mente, consente Ducati, continuano a sopravvivere “tracce sempre
più pallide del tramontato mondo romano” a San Vitale a Ravenna,
dove, nei mosaici romani del presbiterio, è vigoria e movimento, ma,
si badi, nei mosaici della tribuna è “raffinata compostezza” e “solen-
nità fredda”: una contrapposizione tra l’elemento romano-barbarico
non ancora spento e l’elemento “curiale-bizantino” (lo sposalizio tra
romano e barbarico, che non sappiamo dove scorgere a San Vitale, è
frutto, probabilmente, della nuova politica di allineamento tra Roma
e Berlino). Insomma, per il trionfo del bizantinismo fu decisiva la
conquista di Roma da parte di Totila e la distruzione e strage che ne
seguı̀: “l’anno 546 segna uno degli ultimi crolli di Roma imperiale,
ma è nel tempo stesso il punto di partenza per un rinnovato ardore
nella affermazione della Roma papale”27.
Nel 1940, Giuseppe Fiocco, in un articolo su Aquileia nostra,
replicò alla definizione coniata da Giuseppe Gerola di “arte esarcale
deuterobizantina” (nella discussione entrò poi anche Mario Salmi),
sentenziando che non poteva essere avvenuta una seconda fioritura
dell’arte bizantina nella romana Ravenna; la città

“rimase sempre nell’ambito della tarda antichità romana, anche sotto


la dominazione bizantina sino alla metà dell’VIII secolo. La critica
sostituisce la romanità del basso impero, che aveva fatto di Ravenna la
sua capitale, alla bizantinità; le incursioni di Bisanzio vanno restrinte
nei limiti di un episodio, non di un predominio.”28.

27
P. Ducati, L’arte in Roma dalle origini al sec. VIII (Istituto di Studi Romani. Storia di
Roma, vol. 26. Bologna, 1938-XVII), citazioni nel testo dalle pp. 390, 401.
28
G. Fiocco, “L’architettura esarcale di Aquileia”, Aquileia nostra 11 (1940), coll. 3-18; la
citazione nel testo è da col. 3. Nell’articolo Fiocco contestava la definizione di “arte esarcale
deuterobizantina” data da Giuseppe Gerola (I monumenti di Ravenna bizantina [Milano, s.
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

“Di arte deuterobizantina si dovrà, se mai, far parola per Costan-


tinopoli e per i Balcani, non già per Ravenna e per l’Esarcato”:
Venezia è la nuova Ravenna, proprio come Ravenna era stata la
nuova Roma. Aquileia, poi, ebbe una sua rivista di studi patrii,
appunto la già citata Aquileia nostra, del cui consiglio facevano parte
Gentile e Paribeni. Nel programma presentato sul primo numero
della rivista del gennaio 1930, la città era definita “romana e patriar-
cale”, popolata di uomini che hanno lavorato e lavorano con purità
di cuore per il proprio paese, posta sotto le ali d’Italia della cui
tradizione è parte (definizioni che ricordano la Aquileia de La nave di
D’Annunzio), con un suo museo italianamente rinnovato e con una
basilica riconsacrata alla pietà degli avi.
Per ultimo, Luigi Coletti tentò la riconquista, sulla base delle
polverose idee antistrzygowskiane, anche dei manoscritti miniati bi-
zantini normalmente attribuiti alla Siria: “cosa c’è di più romano,
nella radice, dell’Evangeliario siriaco di Rabula, o di quelli greci di
Sinope o Rossano?”. L’arte paleocristiana, non quella orientale è la
fonte dell’arte italica, la quale è lontana

“dalle allucinazioni che in una sorta di surrealismo tentano di svinco-


lare l’espressione figurativa da ogni servitù semantica, facendo del
colore e della linea allegorie di stati d’animo.”29.

La critica d’arte cedeva alla retorica del regime, cadendo in deliri


panromanisti e antibizantini e partorendo frasi, come questa di
Coletti, di nessun significato.
Curiosamente, i mosaici siciliani sfuggono alla colonizzazione
romanista fino agli anni Quaranta. Restano marginali nelle discus-
sioni su Italia e Bisanzio, come se viaggi e studi nella lontana Sicilia
non fossero agevoli o non fossero inclusi nel curriculum del critico
d’arte. I più antichi studi monografici su di essi sono di Roberto
Salvini, il primo dei quali, sui mosaici di Monreale, uscı̀ sul volume
de Le arti del 1941 – 1942. Salvini introdusse i mosaici monrealesi

d.]); Fiocco ritornò sull’argomento in “A proposito di arte esarcale”, Le arti 3


(1940-1941-XIX), pp. 373-375. Il primo articolo di Fiocco fu contestato da Salmi in una
recensione (Recensione a Giuseppe Fiocco, “L’architettura esarcale di Aquileia”, Aquileia
nostra 11, 1940, coll. 3-18, Palladio 5 [1941-XIX], pp. 94-95), alla quale Fiocco replicò
(Replica a Mario Salmi, Le arti 4 [1941-1942-XX], pp. 46-47); una messa a punto
accomodante di Salmi fu pubblicata accanto alla replica di Fiocco (“A proposito di arte
«esarcale»”, Le arti 4 [1941-1942-XX], pp. 45-46).
29
L. Coletti, I primitivi, 1 (Novara, 1941-XX), citazione da p. vi.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

come capolavori sconosciuti, nonostante fossero citati in tutti i ma-


nuali (stranieri) di arte bizantina, “a meno che non si voglia gabellare
per conoscenza di essi la consueta sommaria descrizione dell’organi-
smo iconografico e la loro quasi adiaforica attribuzione al mondo
bizantino”. I cicli musivi di Monreale, Palermo e Cefalù sono consi-
derati rappresentanti della pittura bizantina del XII secolo; ma “in
tempi recentissimi la critica ha mostrato che non si può parlare di
pittura bizantina per Monreale” e Bettini ha recisamente affermato
che i mosaici monrealesi sono opera di mosaicisti veneziani “facendo
piazza pulita e della tradizionale opinione della bizantinità dei mo-
saici monrealesi e dell’ozioso problema della partecipazione al lavoro
di elementi locali”. Mentre nemmeno nei mosaici di Palermo si può
riconoscere uno stile schiettamente bizantino, quelli di Monreale
vanno inseriti decisamente nella storia della pittura romanica del-
l’Occidente30.

e. Epiloghi razzisti
Nell’intervento del 1939 contro Ojetti e quella che lui considerava la
tradizione artistica italiana, Bottai respinse il riferimento alla tradi-
zione come criterio per definire il contenuto artistico del complesso
razziale italiano. La menzione da parte del Ministro dell’Educazione
Nazionale di un’arte della razza italiana è connessa con la dichiara-
zione del Gran Consiglio fascista del 6 ottobre 1938 sul “migliora-
mento qualitativo e quantitativo della razza italiana, miglioramento
che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze
politiche incalcolabili da incroci e imbastardimenti”; il Gran Consi-
glio stabilı̀ quindi norme antiebraiche che furono trasformate in legge
con i decreti regii del 15 e 17 novembre; la conseguente espulsione
dei docenti ebrei dall’università avvenne con decreto di Bottai del 30
novembre 1938. I riflessi della politica razziale sulla critica d’arte in
Italia sono ben evidenti negli ultimi anni del fascismo: l’attribuzione
alla sola Germania hitleriana di un razzismo in arte è un’illusione o
un travisamento smentiti dalla lettura dei martellanti articoli antise-

30
R. Salvini, “I mosaici del Duomo di Monreale”, Le arti 4 (1941-1942-XX), pp.
311-321. Più tardi, Salvini scrisse “I mosaici della Cappella Palatina”, preparato per la
Rivista del Regio Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte 9 (1943) e mai apparso per
l’interruzione del periodico durante la guerra e negli anni immediatamente successivi.
Infine, dopo la guerra, Salvini pubblicò Mosaici medievali in Sicilia (Firenze, 1949).
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

miti su Quadrivio, Il Tevere e Difesa della razza e degli scritti di


Telesio Interlandi, Giuseppe Pensabene e loro colleghi negli anni
intorno al 1938.
Anche se gli sviluppi della politica razzista in arte non possono
essere seguiti qui, alcuni riflessi coinvolsero la valutazione dell’arte
bizantina e devono essere accennati anche sommariamente. Molte
pagine di Soffici sui Francesi avevano anticipato dagli anni Venti il
razzismo in arte; dopo le leggi razziali, Gioacchino Volpe – lo storico
che in Parlamento denigrò Salvemini che aveva denunziato come il
fascismo negava la libertà di insegnamento ed era poi fuggito all’e-
stero – affermò che i Bizantini non appartenevano alla razza ariana,
come i semiti di Cartagine, ma facevano parte dei semiasiatici in-
sieme ad Arabi e Turchi31. La rivista Quadrivio ospitò i discorsi di
Hitler sull’arte degenerata e trentotto articoli a sostegno del razzismo
e dell’antisemitismo tra gennaio e ottobre scritti da Pensabene e da
un secondo autore che si firmò sempre con le sole iniziali G. H. La
serie era intitolata “La composizione razzista del popolo italiano” ed
al capitolo VI su “Il Marxismo e i Preasiatici” (uscito sul fascicolo
del 21 febbraio 1937) si riporta la “verità profonda” di Hein, che
Roma fu “consumata dal veleno ebraico”; i Bizantini sono qui invece
“preasiatici” (che come caratteristica sono diabolici, demogoghi,
bravi in politica e nel commercio, ipocriti, plutocrati):

“Tutta la lenta gradazione da Roma a Costantinopoli, dai Consoli agli


Esarchi, dal Senato alla burocrazia bizantina non fu che l’aspetto
esterno d’un fatto sostanziale: il passaggio della ricchezza, della cul-
tura, del potere religioso e politico, da una razza all’altra. I Preasiatici
si sostituirono lentamente ai Mediterranei. Questa sostituzione sotter-
ranea ed astuta, era cominciata dapprima nei culti e nelle idee: poi finı̀,
com’era inevitabile, nelle persone. Anatolici ed Armeni sedettero su
quel seggio ch’era stato occupato da principio dai Flavii e dai Giulii.”.

Con le invasioni barbariche, “i Preasiatici e gli Orientali riflui-


rono da Roma, invasa da tempo, a Bisanzio, Antiochia e altre città
dell’Oriente: lato benefico di tanti mali.” Con la riscossa delle popo-
lazioni romane il plasticismo, supremo valore nell’arte, soppiantò il
gusto bizantino:

31
G. Volpe, “Su la soglia del nuovo Impero mediterraneo”, Le arti 2 (1940-XVIII), pp.
293-298.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

“Non fu certamente un caso che l’autonomia politica riconquistata


dopo il Mille, dalle popolazioni romane delle città, portasse alla
scomparsa del gusto bizantino, e al ritorno del senso plastico della
pittura, perduto otto secoli prima, per la prevalenza che avevano preso
nelle alte gerarchie dell’Impero, gli uomini originari del Caucaso.”.

La pittura giottesca fu il prodotto di una rivoluzione di razza:

“L’affermarsi di Giotto e della sua tendenza, oltre che un fatto arti-


stico, fu l’indice di un fatto politico, e d’una grande rivoluzione di
32
razza.” .

Su Difesa della razza del 5 agosto 1940, un tale Dell’Isola si


scagliò minacciosamente contro la dipendenza dei mosaici ravennati
e siciliani dalla Siria e da Bisanzio, “di cui abbiamo sentito discorrere
assai spesso i nostri”33. Opere d’arte sono utilizzate come esempi
figurativi per sostenere tesi razzistiche; Difesa della razza, nel fasci-
colo del 20 agosto 1938, pubblicò affrontati su due pagine una testa
nel Palazzo dei Conservatori ed il cosiddetto Colosso di Barletta
(oggi ritenuto una statua dell’imperatore Marciano fatta a Costanti-
nopoli tra il 450 e il 457), ponendo sotto il ritratto romano la
didascalia “La nobile e chiara fisionomia di un console romano” e
sotto la statua bizantina “L’ottuso volto dell’Imperatore Valentiniano
I, di oscura famiglia della Pannonia” (fig. 102)34

f. Folklore bizantino
La presenza italiana nelle isole del Dodecaneso e nelle altre isole
dell’Egeo che furono occupate militarmente nel maggio 1912, poi
assegnate all’Italia col trattato di Sèvres nel 1920, dette impulso agli
studi italiani di documenti archeologici e artistici bizantini, soprat-
tutto a Rodi e Patmo, sotto la direzione della Missione Archeologica
esistente dal 1914: “I lavori compiuti dall’Italia sono di tale grandio-
sità e importanza da far pensare a opera di più decenni. (...) I
monumenti sono stati studiati e restaurati con tutta cura; a Rodi

32
I brani nel testo sono presi da Quadrivio 5, n 17 (21 febbraio 1937-XV) e 5, n 19 (7
marzo 1937-XV), p. 2.
33
G. Dell’Isola, “Storia senza astrazioni”, La difesa della razza 3, n 19, 5 agosto XVIII
[1940], pp. 33-35.
34
Difesa della razza, 1 n 2 (20 agosto XVI [1938]), pp. 32 e 33.
BISANZIO E LA POLITICA FASCISTA DELLE ARTI 

sono stati fondati un importantissimo Museo Archeologico e un


pregevole Museo Etnografico e un Istituto Storico Archeologico, e a
Coo un locale Museo Archeologico, mentre tanto a Rodi che a Coo
continuano con ogni attività gli scavi archeologici” (cosı̀ il volume
Possedimenti e Colonie del Touring Club Italiano del 1929). La rivista
Clara Rhodos pubblicò descrizioni e riproduzioni di pitture, ricami,
paramenti e altri oggetti artistici del Monastero di San Giovanni
Teologo a Patmo; soprattutto, ad opera di Giulio Jacopi, furono
descritti i manoscritti miniati della biblioteca, tra i quali la Catena su
Giobbe, cod. 171, uno dei manoscritti miniati bizantini più antichi
pervenutici, rimasto fino ad allora pressoché sconosciuto, della quale
furono riprodotte tutte le miniature, alcune in tavole a colori. Lo
stesso Jacopi curò nel 1938 il volume Patmo, Coo e le minori isole
italiane dell’Egeo di taglio etnografico, con ritratti di donne in costumi
tradizionali e pose ‘bizantine’ (figg. 103-104). Tra il 1934 e il 1938,
La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” pubblicò una serie di corri-
spondenze che descrivevano curiosità etnografiche ed esotiche di
Istanbul, monumenti bizantini da visitare (Santa Sofia trasformata in
museo, Sant’Irene, le mura per le quali esisteva un progetto di
demolizione, San Salvatore in Chora), ed aberrazioni della locale
comunità greca (il baciamano al cadavere del patriarca ortodosso e la
zuffa tra i sostenitori di due patriarchi antagonisti)35.

35
L. V. Bertarelli, Possedimenti e Colonie. Isole Egee, Tripolitánia, Cirenáica,Eritréa, Somália
(Guida d’Italia del Touring Club Italiano. Milano, 1929-VII); la citazione nel testo è da p.
33; altre notizie generali a p. 49. G. Jacopi, “Le miniature dei codici di Patmo”, Clara
Rhodos 6-7 (1932-1933), pp. 573-591; id., Patmo, Coo e le minori isole italiane dell’Egeo
(Bergamo, 1938-XVI). Le corrispondenze su La rivista illustrata del “Popolo d’Italia”,
firmate S. B., una sigla che non sono stato in grado di sciogliere, sono, in ordine
cronologico: “Progetto d’inutile saccheggio”, 16 n 3 (marzo 1934), pp. 65-67; “«Megalis
ecclisias»”, 12, n 10 (ottobre 1934), pp. 78-81; “Dove entrarono gli Ottomani”, 13, n 4
(aprile 1935), pp. 42-47; “Sopravvivenze bizantine”, 14, n 2 (febbraio 1936), pp. 29-31;
“Sceker bayram”, 16, n 1 (febbraio 1938), pp. 71-73.
10

GIOTTO: BISANZIO O ITALIA

Anche per l’opera di Giotto e soprattutto per le sue origini artistiche


si ripeté la contrapposizione tra i due fronti antagonisti dei romanisti,
che videro riemergere nel pittore la tradizione italiana dopo il buio
del Medioevo, e dei filobizantini che videro in lui l’erede di una
tradizione dominata da Bisanzio. L’apice della fortuna critica di
Giotto arrivò nel 1937, in occasione della mostra giottesca di Fi-
renze. Tra la fioritura di recensioni alla mostra e di pubblicazioni su
Giotto, Longhi scrisse il suo celebre “Giudizio sul Duecento”, che
rappresentò una sorta di manifesto contro l’arte bizantina, una con-
danna senza attenuanti (e senza scienza) che fu presa come modello
interpretativo da numerosi dei suoi allievi.

a. Prima del 1937

“[la veduta di Arezzo negli affreschi di Assisi] potrebbe


essere il vangelo di un pittore cubista.”
P. Toesca, “Gioventù di Giotto”, 1942, p. 30

Il giudizio dato da Toesca nel 1942 di Giotto come precursore dei


pittori cubisti non fu sua invenzione. Fin dagli anni Dieci, insieme a
Masaccio, Paolo Uccello e altri primitivi e preraffaelliti, Giotto fu la
musa ispiratrice del cosiddetto ‘ritorno all’ordine’ ed alla ‘tradizione
italiana’. Tutti amano Michelangelo e Raffaello nelle aule della
accademie, scrisse Carrà su La voce nel 1916, ed ignorano la bellezza
costruttiva dell’Adamo ed Eva del Carmine e dell’Adamo di Paolo
Uccello a Santa Maria Novella. Di Giotto, Carrà lodò l’unità co-
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

struttiva, la realtà, la concretezza della forma, i valori puri della sua


arte, “ossatura cubista” dei dipinti che prende come insiemi plastici:

“Oggi si parla di costruzione di valori puri (...). In Giotto, io, ammiro


l’ossatura cubista dei suoi dipinti che io prendo come insiemi plastici.
Le teologie le abbandono ai metafisici”1.

Nuovamente nel 1924, Carrà elogiò di Giotto valori opposti a


quelli bizantini, come il dolore concentrato, cosı̀ lontano da quello
egoistico e barbarico dei bizantini:

“In quelle pitture [scilicet: gli affreschi a Padova] non si manifestano


più i segni della caparbietà, rozzezza e durezza bizantine. Ma le forme
corporee rivelano tuttavia la resistenza tenace che i lineamenti e i segni
opposero prima di piegarsi all’espressione della pietà. Il dolore [negli
artisti pregiotteschi] si chiude e si concentra nelle regioni dello spirito,
senza trascendere nella maniaca violenza dei bizantini, radicati nell’e-
goismo indurito e nella barbarie, ma ancora non acquista quel valore
di sostanziosa realtà e di umanità che ritroviamo nelle opere di Giot-
to.”.

La pittura bizantina avrebbe avuto un peso crescente in Italia nel


Duecento; Carrà tolse però dal suo alveo i più bei dipinti toscani del
periodo, tra i quali la tavola di San Francesco a Pescia. Per allonta-
nare ancor più Giotto da Bisanzio, Carrà insistette che “nella pittura
bizantina non si scorge neppure l’ombra dell’osservazione diretta
della realtà, mentre Giotto proprio da questa ricava la materia della
sua arte”. Sembrava assurdo a Carrà che “critici occhialuti senza
paura del ridicolo” avessero potuto sostenere che Giotto dovesse
molto a Cavallini, “uno dei tanti mediocri artisti romani”; casomai la
2
verità inversa è che Cavallini si provò ad imitare Giotto . Infine, nel
1930, Carrà usò Giotto contro l’idea di bello che Ojetti aveva
provato a imporre in Bello e brutto uscito quell’anno: se l’anatomia e
la prospettiva sono le basi dell’arte, si dica che Giotto è inferiore a un
qualunque cinquecentista3.

1
C. Carrà, “Parlata su Giotto”, La voce 8 (1916), pp. 162-174, citazione nel testo da p.
168. Alcuni critici contemporanei misero mettere in guardia da una interpretazione cubista
di Giotto: M. Marangoni, Giotto. La Cappella degli Scrovegni (Bergamo, 1937-XVI), p. 3; V.
Mariani, Giotto (Roma, XVI [1937]), pp. 9-11.
2
C. Carrà, Giotto (Roma, 1924), citazioni nel testo da pp. 22 e 23. Sul San Francesco di
Pescia: C. Carrà, “Il San Francesco di Berlinghieri a Pescia”, L’Ambrosiano 26 luglio 1933.
3
C. Carrà, “Difesa della mia generazione”, [1930] ristampato in C. Carrà, Segreto
professionale, a cura di M. Carrà (Firenze, 1962), p. 86. U. Ojetti, Bello e brutto (Milano,
1930).
GIOTTO: BISANZIO O ITALIA 

Giotto è il campione della pittura italiana, nuova e originale, che


nasce portandosi fuori dalla tradizione bizantina: quest’idea di Va-
sari, alla quale aderı̀ Carrà, fu fatta propria da vari critici, come
scrisse anche Berenson in “Due dipinti del decimosecondo secolo
venuti da Costantinopoli” nel 1920-1921, da Carlo Gamba a Soffici,
il “Vasari moderno”. La Sarfatti fu su questa linea interpretativa
nella sua Storia della pittura moderna del 19304. Soffici, in “Romanità
della pittura italiana”, insisté che l’Oriente “ripudia l’imitazione, odia
la attuale rappresentazione di qualunque oggetto in natura, e lo
spirito imitativo dell’Occidente” (Soffici dice di citare qui Oscar
Wilde), e che – riprendendo Vasari – l’arte italiana nasce dalla
reazione al manierismo e al convenzionalismo orientale (bizantino),
dallo studio della natura fondato sulla realtà plastica e poetica del
mondo; Cimabue e Giotto ad Assisi si ricollegano e si ispirano cosı̀
alla romanità passando sopra ai secoli barbari ed aberranti. Concluse
Soffici bellicosamente, additando i non pochi nemici dell’Italia arti-
stica:

“(...) ripudiare lo spirito animatore della civiltà romana e latina del-


l’Occidente europeo (...). Chi lo fa è nostro nemico. Tragicamente
curioso è però che non pochi italiani si trovino, anche oggi, nel
numero di costoro.”5.

Altri critici si astennero da schierarsi su Giotto con l’uno o l’altro


partito; Salmi citò di passaggio il bizantinismo degli artisti dei mo-
saici del Battistero fiorentino di San Giovanni6. Sul fronte opposto,
filobizantino, quello dei nemici della patria secondo Soffici, figurano
anche questa volta Toesca e Lionello Venturi. Quest’ultimo, nella
“Introduzione all’arte di Giotto”, uscito su L’arte del 1919 e poi
ristampato in Pretesti di critica nel 1929, osservò che il maggior
problema di Giotto era stato adattare e subordinare il colore alla

4
C. Gamba, Giotto (L’arte per tutti, Istituto Italiano L.U.C.E., Roma, 1930), special-
mente p. 4: “Giotto crea un tipo d’arte nuova e originale e italiana perché fuori dalla
tradizione bizantina e dall’influenza gotica.”. “Ardengo Soffici. Vasari moderno”, p. 5. M.
G[rassini] Sarfatti, Storia della pittura moderna (Collezione “Prisma”, diretta da M. S. Roma,
1930-VIII), p. 14.
5
A. Soffici, “Romanità della pittura italiana”, L’illustrazione del medico, n 26 (marzo
1936), pp. 27-30, citazioni nel testo da pp. 29-30.
6
M. Salmi, “I mosaici del «Bel San Giovanni» e la pittura del secolo XIII a Firenze”,
Dedalo 11 (1930-1931), pp. 543-570.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

forma, essendo il colore la maggior gloria e la qualità centrale della


civiltà artistica bizantina che egli andava distruggendo7.
Le pagine su Giotto negli scritti di Toesca (Il Medioevo, del 1927,
La pittura fiorentina del Trecento del 1929, le voci redatte per la
Enciclopedia Italiana, specialmente “Giotto” sul volume 17 del 1933,
Giotto del 1941, “Gioventù di Giotto” del 1942 e Il Trecento del
1951), definirono implacabilmente il Duecento italiano come un
periodo dominato dall’arte bizantina, dalla quale derivano, emanci-
pandosene, sia i pittori romani – Cavallini, Torriti e gli altri –, sia i
pittori toscani – Duccio, Cimabue e, appunto, Giotto. Quest’ultimo
prese la modellazione delle sue figure non dalla pittura gotica, ma
dalla bizantina o bizantineggiante; dipinse capolavori che “sorgono
da un complesso storico nel quale occupano, come il poema di
Dante, il nodo principale tra l’antico e il moderno”; nel formarsi,
Giotto dovette rimuovere le convenzioni pittoriche del periodo pre-
cedente, derivando dalla pittura bizantineggiante, ma recandovi
grandi variazioni per giungere a un risultato del tutto nuovo. Tutti i
pittori del tempo di Giotto vengono considerati da Toesca nell’orbita
bizantineggiante, chi “in umili modi popolari” e chi “tentando sfere
più alte”; mentre Cimabue traeva dagli esemplari bizantini “l’accento
più appassionato e la nobiltà classica”, Giotto, che riprese da Bisan-
zio l’utilizzazione delle lumeggiature, ebbe da smuovere in gioventù
“il cumulo delle tradizioni bizantineggianti, grave di esperienze seco-
lari, imponente per altezza di concetti”8.
In “Gioventù di Giotto” del 1942, Toesca lascia in sospeso il
problema della paternità degli affreschi di Assisi (è qui che la veduta
di Roma di Cimabue gli pare fatta di profili ritagliati, mentre la
veduta di Arezzo di Giotto potrebbe essere il vangelo di un pittore
cubista) (fig. 105). Giotto, drammaturgo e bizantineggiante, viene
fuori da una tradizione senza salti: Cavallini, Maestro di Isacco,
affreschi delle storie di San Francesco ad Assisi:

“È palese che il pittore [delle storie di San Francesco] non conosceva
affatto, né s’immaginava, il tormento critico degli artisti odierni sul
valore del «contenuto» e su quello della forma pura: nella sua arte
contenuto e forma sono una sola cosa, fusi insieme nell’atto creativo

7
L. Venturi, “Introduzione all’arte di Giotto”, L’arte 22 (1919), pp. 49-56 (ristampato in
L. V., Pretesti di critica [Milano, 1929]), citazione nel testo da p. 53.
8
P. Toesca, Storia dell’arte italiana, vol. 2, Il Trecento, (Torino, 1951), pp. 442, 455, 444.
Vedi inoltre P. Toesca, La pittura fiorentina del Trecento (Verona, 1929).
GIOTTO: BISANZIO O ITALIA 

che alla figura e alle azioni del Santo dà la grave e potente umanità
ch’è la sola conveniente al modo di vedere del pittore, cioè alla sua
forma, grave, raccolta, di potente rilievo.
Sia Giotto, o non lo sia, il pittore della Vita di S. Francesco è maestro
grandissimo. A riguardare nella pittura italiana tra il Dugento e il
Trecento il suo posto non può essere che tra la vecchia maniera
bizantineggiante, di Cimabue e dei suoi compagni, della quale mantiene
9
qualche ricordo, e la nuova che Giotto tenne nell’Arena di Padova.” .

A Toesca, inoltre, non piace affatto il giudizio di Carrà; scrive a


Berenson nel 1945:

“Un editore milanese ha ora pubblicato un fascicolo di tricomie della


Cappella degli Scrovegni con 10 pagine di Carrà – che non si sapreb-
bero immaginare più sciocche.”10.

b. La mostra giottesca del 1937


Nel 1937, fu allestita a Firenze alla Galleria degli Uffizi una esposi-
zione celebrativa del sesto centenario della morte di Giotto, che
rimase aperta da aprile ad ottobre. Le opere elencate nel catalogo
erano 316, in stragrande maggioranza pitture, con l’aggiunta di un
piccolo gruppo di sculture e di oggetti di arte minore (figg. 106-109),
e ripartite per scuole locali: mentre per il Trecento figuravano solo
dipinti della scuola di Giotto, gli esempi duecenteschi erano ripartiti
come scuola lucchese, pisana, senese, aretina, umbra, giuntesca,
fiorentina, e quest’ultima era suddivisa in scuole dei singoli artisti.
Sembra che la mostra avesse poco successo di pubblico; scrivendo a
Berenson, Toesca la disse “deserta a tutte le ore”11. Il catalogo del
1937 riportava solo notizie schematiche sulle opere senza commenti
(autore, titolo, luogo di conservazione, dimensioni, due parole sulla
attribuzione e da chi era stata fatta); in apertura dichiarava che la
mostra era una rassegna della pittura toscana prima di Giotto,

9
P. Toesca, “Gioventù di Giotto”, Civiltà. Rivista trimestrale della Esposizione Universale di
Roma, gennaio 1942-XX, pp. 29-50.
10
I giudizi di Toesca su Giotto sono dalla voce “Giotto” della Enciclopedia Italiana, vol.
17 (1933), p. 212, e da Giotto (I Grandi Italiani. Collana di biografie diretta da Luigi
Federzoni, 18. Torino, 1941-XIX), pp. 13, 41, 49; vedi inoltre, su Giotto, La pittura
fiorentina del Trecento (Verona, 1929), pp. 5-40. La lettera di Toesca a Berenson è
conservata nella Biblioteca Berenson, Villa I Tatti, Settignano (Firenze).
11
La lettera di Toesca a Berenson è del 7 giugno 1937 ed è conservata nella Biblioteca
Berenson, Villa I Tatti, Settignano (Firenze).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

comprendente sia maestri della corrente nella quale Giotto si formò,


sia maestri delle correnti bizantineggianti alle quali Giotto reagı̀:

“Questa mostra è fatta per celebrare Giotto e l’arte sua; ed è fatta in


un momento in cui maggiormente fervono gli studi sulle scuole to-
scane del sec. XIII e sulla giottesca nella sua più larga espansione.
Onde questa mostra vuole essere una adeguata rassegna della pittura
toscana prima di Giotto, e offrire anzitutto i capolavori dei maestri
lucchesi pisani senesi aretini umbri fiorentini, rappresentanti tanto la
corrente artistica nella quale, attraverso Cimabue, Giotto si formò,
quanto le correnti bisantineggianti, a cui Giotto reagı̀ (...).”.

Una seconda edizione del catalogo, molto arricchito di pagine e


di dettagli fotografici delle opere, uscı̀ nel 1943 a cura di Giulia
Sinibaldi e Giulia Brunetti; questa volta le schede discutevano lunga-
mente la fortuna critica delle opere e le attribuzioni avanzate dagli
studiosi. La lettura della pittura duecentesca presentata dalla mostra
abbracciò la tesi dell’interpretazione di Giotto come antibizantino;
nel gruppo dei precursori di Giotto mise, tra gli altri, Giunta Pisano
del Crocifisso di San Domenico di Bologna (fig. 106); nel gruppo dei
bizantineggianti Enrico di Tedice del Crocifisso di San Martino di
Pisa (fig. 107). Non sono negati e sono discussi con competenza gli
elementi bizantini nei dipinti duecenteschi: allo stile di Berlinghiero
Berlinghieri (Crocifisso della Pinacoteca di Lucca, n 2 del catalogo),
ad esempio, si dà il nome di romanico per via del suo carattere
plastico e coloristico, ma il suo colore costruttivo è ispirato da una
raffinata conoscenza dell’arte bizantina, nella quale, però, la linea e
la forma sono più mobili e ritmiche12.
Indipendentemente dall’insuccesso o meno di pubblico, la mo-
stra degli Uffizi suscitò un fiume di saggi e commenti su Giotto e la
sua italianità. Ancora prima della apertura, la rivista Quadrivio, una
delle più squallide riviste del fascismo, bandı̀ un “referendum” tra gli
artisti contemporanei dal titolo “Giotto 1937: Omaggio al Padre
della pittura italiana”; si chiedeva di rispondere alla domanda “Come
vedono Giotto, a sei secoli dalla sua morte i pittori che vivono e
lavorano nel 1937?”. Risposero Severini (“Giotto 1937”, 31 gen-

12
Mostra giottesca, Palazzo degli Uffizi, aprile – ottobre 1937-XV, catalogo della mostra
(Città di Firenze, onoranze a Giotto nel VI centenario della morte. Bergamo, 1937); Pittura
italiana del Duecento e Trecento. Catalogo della mostra giottesca di Firenze del 1937, a cura di G.
Sinibaldi e G. Brunetti (Firenze, 1943), citazione da p. 7; i dipinti citati sono riprodotti alle
figg. 13 e 14.
GIOTTO: BISANZIO O ITALIA 

naio), Mario Tozzi (“Il più vivo di tutti i pittori”, 7 febbraio), Carlo
Socrate (“W Giotto, ma abbasso il Giottismo”, 14 febbraio). L’Illu-
strazione toscana pubblicò in aprile un numero speciale “A Giotto”, al
quale contribuirono Salmi (“Giotto pittore”), il giovane Salvini
(“Giotto architetto”) e Odoardo H. Giglioli (“La mostra giottesca in
Firenze”). Quanto alla stampa quotidiana, La Nazione pubblicò un
articolo di Del Massa che definiva la classicità una forza vitale e
risorgente in Giotto, corrispondente al concetto di Giotto imitatore
della natura tramandato dalla critica d’arte antica13.
Recensioni della mostra furono scritte da Salmi e da Coletti.
Quest’ultimo, con accenti patriottici e propagandistici, parlò di affol-
lamenti del pubblico nelle sale, esaltò il maschio e popolano Giotto
(in contrasto, come simbolo di Bisanzio in quel periodo potrebbe
essere presa Teodora, femmina e cortigiana) e si scagliò contro l’idea
che “questa nostra terra non debba essere stata altro che il campo
delle contrastanti ondate d’oltralpe e d’oltre mare”; vale a dire,
iconografia, schemi morfologici e vocabolario di quest’arte di Giotto
sono “bizantini, carolingi, ottoniani, francesi e tedeschi”, ma “lo
spirito di quest’arte”, “la poetica di questa gente” è cosa tutta diversa

“una schiettezza maschia e popolana, una serietà che impegna nella


espressione artistica tutta integra la personalità umana.”14.

Più spazio dedicò a Giotto l’immancabile Ojetti nella prolusione


in Palazzo Vecchio per la mostra giottesca; narrativo e poetico, Ojetti
inaspettatamente non negò il primato di Bisanzio nel Duecento:

“Anche dopo la metà del dugento la pittura bizantina solenne e


impassibile, dai gesti e dagli attributi regolati su canoni fissi, dalle
rigide pieghe a ventaglio lineate d’oro, continuò a tenere il campo. La
sua tecnica smaltata e lucente aggiungeva anche alle Madonne un che

13
A Giotto, numero speciale della Illustrazione toscana, 15, n 4 (aprile 1937): M. Salmi,
“Giotto pittore”, pp. 1-21; R. Salvini, “Giotto architetto”, pp. 33-35; O. H. Giglioli, “La
mostra giottesca in Firenze”, pp. 36-42. “Giotto 1937. Come vedono Giotto, a sei secoli dalla
sua morte, i pittori che vivono e lavorano nel 1937? ... Omaggio al Padre della pittura
italiana”, in Quadrivio, gennaio-febbraio 1937-XV: G. Severini, “Giotto 1937”, 31 gennaio,
p. 1; M. Tozzi, “Il più vivo di tutti i pittori”, 7 febbraio, p. 1; C. Socrate, “W Giotto ma
abbasso il Giottismo”, 14 febbraio, p. 1. A. Del Massa, “Giotto e l’età nuova”, La Nazione, 24
aprile 1937, p. 3.
14
M. Salmi, “La mostra giottesca”, Emporium 43 (1937-XV), p. 349. L. Coletti, “La
Mostra Giottesca”, Bollettino d’arte, ser. 3, 31 (1937-XV), pp. 49-72, citazioni nel testo da
pp. 49 e 55.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

di metallico e di gemmato che agli occhi della folla ne aumentava il


15
pregio, il prestigio e la maestà.” .

Sempre nel 1937 uscirono una monografia di Cecchi di ascen-


denze toeschiane (Giotto di formazione bizantino-toscana, con i
profeti di Assisi che mostrano la più drammatica aderenza al bizanti-
nismo di Cimabue), un articolo di Toesca su San Francesco inter-
pretato da Giotto e dai pittori bizantineggianti, un articolo di Salmi
sulle origini di Giotto. L’anno successivo, Salvini pubblicò la biblio-
grafia su Giotto e nel 1939 Bettini scrisse “Rapporti tra l’arte
bizantina e l’arte italiana prima di Giotto”16.

c. Il “Giudizio” antibizantino di Longhi


Inviso ai non allineati con il regime, in primis Toesca e Berenson,
l’uno suo maestro a Roma, l’altro suo maestro ideale, per via delle
sue compromissioni con il gruppo di Bottai e le sue riviste, Longhi fu
lo scrittore che più influenzò la critica artistica italiana degli anni
Trenta. Cosı̀ Croce ne riconobbe il fascino nel 1934:

“(...) gli scritti finora dati in luce dai nuovi critici e storici, dei quali
ricorderò tra i più recenti e audaci il Longhi, che per le sue molte
conoscenze di arte, e soprattutto per essere uno scrittore (per dirla alla
tedesca) temperamentvoll, esercita una notevole efficacia sui recenti
studı̂ italiani di storia dell’arte.”17.

E Toesca, più tardi, nel 1945, in una lettera a Berenson usò per
Longhi espressioni simili a quelle di Croce:

15
U. Ojetti, Giotto. Discorso letto il 27 aprile 1937-XV a Firenze in Palazzo Vecchio ...
(Reale Accademia d’Italia. Celebrazioni e Commemorazioni, 23. Roma, 1937-XV), ristam-
pato in Nuova Antologia 72 (1937-XV), pp. 137-145, citazione nel testo da p. 138.
16
E. Cecchi, Giotto (Collezione Valori Plastici. Milano, 1937-XV). P. Toesca, “Giotto
pittore e San Francesco”, Frate Francesco 10 (1937-XV), p. 145. M. Salmi, “Le origini
dell’arte di Giotto”, Rivista d’arte 19 (1937-XV), pp. 193-220. R. Salvini, Giotto. Bibliografia
(Roma, 1938-XVII); Salvini aveva già pubblicato “Medioevo e Rinascimento nell’arte di
Giotto”, Civiltà moderna 7 (1935-XIII), pp. 3-17. S. Bettini, “Rapporti tra l’arte bizantina e
l’arte italiana prima di Giotto”, in Istituto Nazionale per le relazioni culturali con l’estero,
Italia e Grecia. Saggio su le due civiltà e i loro rapporti attraverso i secoli (Firenze, 1939-XVIII),
pp. 273-295.
17
Croce, La critica e la storia delle arti figurative, p. 8. Sul libro di Croce e Longhi vedi L.
Grassi, “Benedetto Croce e la critica d’arte”, Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e
Storia dell’Arte, n. s., 1 (1952), pp. 328-335.
GIOTTO: BISANZIO O ITALIA 

“mi son trovato costretto a rileggere lo scritto del Longhi su Masaccio e


Masolino, petulante e ingegnoso, ma inzuppato anche di falsità, e.g.:
rapporti di Giovanni da Milano con Masolino; Giusto Menabuoi in
Lombardia ecc. Pure, bisogna riconoscere che Longhi ha per i giovani la
qualità di un seduttore: e non soltanto per i giovani se si pensa che il bar-
bogio Coletti è giunto a paragonare il Redentore di Tivoli al «bolero» di
Ravel.”18.

Longhi scrisse un esteso commento alla Mostra giottesca degli


Uffizi, che abbraccia tutta la pittura duecentesca italiana, dal titolo
“Giudizio sul Duecento”, il quale venne pubblicato, con la data 1939,
solo nel 1948 su Proporzioni con un Corollario datato quest’ultimo
194719. Longhi appose accanto al titolo la dedica, riferita all’anno di
pubblicazione, “Al mio maestro Pietro Toesca per il suo 70˚ anno e per
il termine del Suo insegnamento”. Forse influenzato dalle sentenze
antibizantine di Pasquali, Longhi nel “Giudizio” e nel Corollario
mostrò per Bisanzio una repulsione generale come se l’arte bizantina
fosse il demone che assomma in sé tutti i valori da lui ritenuti negativi
20
nell’arte. Longhi definı̀ Pasquali, che era annoiato da Bisanzio , “vero
studioso”; ai bizantinisti, invece, furono appiccicate definizioni nega-
tive e ironiche, cosı̀ che il Corollario appare non un pezzo di critica
d’arte, ma una dichiarazione di fede, uno sfogo acido contro tutti di chi
vede rientrare in campo i suoi avversari di un tempo: Duthuit è un
estetista decadente, il suo apprezzamento di Bisanzio è un manifesto
dell’automatismo surrealistico; Diehl, Dalton e Millet sono solenni
eruditi; per Schlumberger e Prichard crea l’espressione “misticismo
prichardiano”; Bettini viene attaccato ed anche di Toesca non è
passato sotto silenzio il suo amore per il Salterio di Parigi; per De
Chirico parla di “similarte” e di “origine levantina delle contraffazioni
tecniche” della sua pittura; i pochi soggetti dei quadri dei pittori
moderni – natura morta astratta, chitarrista, ecc. – gli sembrano frutto
di un annebbiamento linguistico comune con il Duecento.
La valutazione negativa di Longhi su Bisanzio era già apparsa in
“Viatico per la mostra veneziana dei cinque secoli”, del 1946:

“Che il primo letto della cultura dei trecentisti veneti sia l’arte conge-
lata e autocratica del tardo bizantinismo, non par dubbio. Deferentis-

18
Lettera di Toesca a Berenson del 30 luglio 1945, conservata nella Biblioteca Berenson,
Villa I Tatti, Settignano (Firenze).
19
R. Longhi, “Giudizio sul Duecento”, Proporzioni 2 (1948), pp. 5-54 (“Giudizio sul
Duecento 1939”, pp. 5-22; Corollario 1947, pp. 23-29; Note, pp. 30-54).
20
Vedi Capitolo 11, paragrafo e.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

simi al pregio delle più lussuose materie adoperabili, tecnologi perfetti,


artigiani aristocratici che sembrano lavorare i loro dipinti in tartaruga,
pelle di ramarro e oro, difettano di tenerezza come difettano di
energia. Poco umani, consegnano all’arte locale una severità di con-
trolli tecnici che non sarà, moralmente, dimenticata, ma che non
potrebbe da sola stabilire una tradizione sensibile di valori poetici.”

L’espressione “poco umani” sembra riadattata dalla definizione


“forma di governo disumana” riferita da Pasquali a Bisanzio in
“Medioevo bizantino”; il richiamo ai valori poetici fa gruppo con
molte altre espressioni crociane usate nel “Giudizio” e soprattutto
nel Corollario. Poco oltre in “Viatico”, Longhi aggiunge un collega-
mento ironico tra aspirazioni imperiali di Mussolini e studi italiani su
Bisanzio e Venezia, che è la prima frecciata di Longhi sulla critica
d’arte al servizio del fascismo, dal quale Longhi sembra prendere ora
le distanze (“Viatico” esce dopo la caduta del fascismo):

“Piuttosto che farne [dei trecentisti veneti] soltanto i fondatori della


scuola cretese-veneziana (e anche questo è stato fatto quando piaceva
dimostrare che Venezia con la pittura, sia pur meccanica e nulla, dei
‘madonneri’, aveva mantenuto per secoli, poco meno che da Minosse
a Mussolini, l’impero culturale dell’oriente mediterraneo), meglio avvi-
sare quando, fra le peripezie di un ornato quasi mussulmano, un
fianco insolitamente greve, una manica squadrata a piombo, oppure
un’intrecciatura più fluida dei ritmi, dimostrino, in codesti artisti, un
desiderio di trarre dall’arnia dorata e polverosa del bizantinismo una
smelatura, se non d’italiano vero, almeno di franco-veneto.”21.

Il “Giudizio” fu pubblicato due anni dopo il “Viatico”. Il punto


di partenza fu la dichiarazione d’intenti del catalogo della mostra
giottesca che separava in due correnti la pittura duecentesca, la
corrente in cui si formò Giotto attraverso Cimabue e la corrente
bizantineggiante; esisterebbe, dunque, un gruppo di opere che gli
studiosi mettono tra i capolavori ed esiste un percorso storico della
pittura che porta a Giotto. Longhi, quindi, va alla ricerca dei capola-
vori promessi tra le opere esposte in mostra palesando il suo giudizio
estetico. Il colorito prontuario longhiano del “Giudizio” di espres-
sioni demolitorie sulla pittura bizantina e bizantineggiante ha fatto da

21
R. Longhi, “Viatico per la mostra veneziana dei cinque secoli”, La Rassegna d’Italia 1 n
1 (gennaio 1946), pp. 66-81; 1 n 4 (aprile 1946), pp. 32-49; le citazioni sono dalla prima
parte, p. 66. Per buona parte questo paragrafo sul “Giudizio” di Longhi ripete quanto
scritto in Bernabò, “L’arte bizantina e la critica in Italia”, pp. 58-60.
GIOTTO: BISANZIO O ITALIA 

modello di prosa a studiosi più recenti: “sottigliezze neoattiche” per


il Crocifisso del Museo Civico di Pisa; “bacata squisitezza” per il
Crocifisso del Museo di Villa Guinigi di Lucca; “fuorviate acutezze
dell’artigianato di fonte palatina orientale” e gesti di manichino
classico per il San Francesco della chiesa di San Francesco di Pisa;
“grammatica metallizzata, ora classicista, ora geroglificamente deco-
rativa”, “aridi gherigli delle luci incassulate”, “riflessi mimici del
sentimento [che] si scompongono come in lettere di un alfabeto
congelato, in cifre di un abbaco meccanico” per i Berlinghieri ed il
San Francesco di Pescia di Bonaventura in particolare; “invasori
artigiani «greci» o addirittura «balcanici» e «greco-asiatici»”, “bizanti-
nismo congelato e testuale”, “plasticità meccanizzata dell’accademi-
smo orientale”, “bizantineggiarsi con aliossi di un sentimento nume-
rato in un’indifferenza quasi fachirica”, “«burocratica» sintassi
orientale”, “bizantinismi esanimi”, “pedanteria bizantina”, “Ma-
donne costantinopolitane sott’aceto” per altre opere. Principale ad-
debito alla pittura bizantina è avere “sterilizzato” la pittura italiana,
estraniandola dal contemporaneo risveglio della scultura e della ar-
chitettura duecentesca, con il “maleficio” della sua diffusione in
Italia; la scultura lombarda ed emiliana parlava già da tempo un
buon volgare: a distanza di un secolo dall’Antelami, il Battistero di
Parma è decorato da un “balcanico” che non stabilisce alcun ac-
cordo di fantasia con l’architettura e la scultura dell’edificio. Il
maggior pittore del Duecento è per Longhi il pittore della cripta di
Anagni “molto bene già apprezzato dal Toesca”, nonostante la spie-
gazione esclusivamente orientale data da quest’ultimo. Il “Giudizio”
è, insomma, una valutazione complessiva del Duecento avversa a
quella di Toesca del primato in Italia della pittura bizantina, dalla
quale Giotto avrebbe preso la modellazione delle sue figure.
Compito dello storico dell’arte, secondo Longhi, è potare dal
tronco italiano questo ramo bizantino della pittura duecentesca:

“Se questa è pittura fatta da italiani vorrà dire che parecchi dei nostri
s’erano «balcanizzati» a un bel segno; se l’opera è di un immigrato, il
giudizio non cambia: sempre un inserto alieno e sforzato nel corpo
dell’arte nostra.
Il cómpito dello storico è perciò di potare dal tronco italiano questo
ramo, non perché alieno, ma perché arrivato secco e senza capacità
d’innesto.”22.

22
Le citazioni nel testo dal “Giudizio sul Duecento” sono dalle pp. 10, 6, 6-7, 24, 29, 7.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Longhi ha in mente critici suoi avversari quando fa ironia sugli


studi su Bisanzio ed i primitivi:

“l’ammirazione si avvolge nel manto dell’incomprensibilità e si pro-


fuma di quel misticismo estetico che non può che aborrire dalle
spiegazioni nette. È un fatto che oggi l’estrema squisitezza del miliar-
dario sarà nel non far mancare alla propria raccolta una Madonna dei
Berlinghieri o del Rubliev, un Crocefisso romanico spoletino o uno
scortecciato antependio di Catalogna; e più l’opera somiglierà a una
vecchia zattera ai rinforzi di metallo rugginoso, più terrà del relitto,
altro che esoterico; e meglio sarà. Che alla provocazione di codesti
spasimi artificiali abbiano collaborato negli ultimi tempi certi studiosi
da transatlantico di lusso, non ci meraviglia.”.

Come detto altrove, l’allusione allo snobismo di critici e collezio-


nisti potrebbe riguardare Berenson, Venturi e Gualino23.
C’è poi, per Longhi

“(...) l’altra forma di confusione che accomuna nelle chiacchiere del


gran mondo i dugentisti e le forme streme del decadentismo pittorico
dell’ultimo trentennio: nessun dubbio che, da Bloomsbury a Montpar-
nasse, Enrico di Tedice e Matisse, Coppo di Marcovaldo e Rouault,
gli antependia catalani e Picasso si pronunzino d’un fiato. La ragione
di questa curiosa combutta sta probabilmente nell’annebbiamento
linguistico comune ai due periodi; nel loro analogo uso di un gergo
convenzionale; nella stessa incapacità di risalire per forza di entusia-
smo etimologico al seme espressivo di una forma; nella loro analoga
povertà iconografica. Non è forse vero che il restringersi di quei
moderni ai pochi motivi della natura morta astratta, del chitarrista, del
ritmo d’oggetti, è straordinariamente simile, anche per fissità quasi
idoleggiata e, poco manca, di pretesa acheropitica, alla insistenza del
Duecento sui tre o cinque tipi di Madonna, o di Cristo vivo o morto?”.

Nessuna riproduzione di dipinti bizantini accompagna il “Giudi-


zio” di Longhi; nel Corollario, invece, Longhi pubblica la foto di una
icona in una collezione privata fiorentina, per mostrare come il

23
Cf. Barocchi, Storia, 3/1, p. 390 nota 8. I commenti di Longhi andrebbero messi a
confronto con quanto pensava un altro crociano, Bianchi Bandinelli, protagonista della
questione bizantina nel secondo dopoguerra: “Oggi una decorazione lineare è indubbia-
mente più sentita di un rabesco a fogliami o di una grottesca piena di figure (...). La ricerca
di una semplicità primitiva, che porta spesso a imitare l’analfabetismo artistico dei selvaggi,
non è dunque una artificiosità snobistica, ma il modo più facile di seguire una profonda
aspirazione del nostro tempo verso la semplicità e la schiettezza.”. Il brano è da R. Bianchi
Bandinelli, Dal diario di un borghese e altri scritti (Verona, 1948), p. 19, ed è datato 5 maggio
1921.
GIOTTO: BISANZIO O ITALIA 

rianimarsi dell’arte bizantina, che lui vi vede, sia avvenuto “in collu-
sione con lo spirito dell’Occidente italiano”; il Cristo e il San France-
sco nell’icona dipenderebbero dalla pittura riminese. L’icona fu di-
pinta probabilmente in una delle zone di Bisanzio limitrofe
all’Occidente e dell’arte bizantina rappresenta solo una delle maniere
provinciali24.
Con espressioni che hanno per matrice l’estetica di Croce (“l’i-
dealismo in cui tutti crescemmo”), nel Corollario Longhi definı̀ l’arte
bizantina come “disvalore” e “similarte”, ovvero “il paradigma più
illustre di produzione «similare» che però all’arte non appartiene”;
una similarte inferiore come valore artistico alla pittura delle caverne,
fomentata dall’arte islamica e la cui produzione fu “tutto limite”,
“illimitatamente asservita”:

“Quanto più libero il pittore delle caverne preistoriche assediato dai


bisonti che li dipinge tuttavia senza che noi possiamo intendere lo
scopo (magico? rituale?) della sua attività, in confronto al pittore
bizantino che, erede di una tecnica impeccabile, la costringe nel
polmone meccanico delle prescrizioni dell’ortodossia, applicandole
come un automa che non può sgarrare!”.

Le icone veneto-cretesi sono “tonnellate di cadaveri congelati da


non valere il legno su cui pure furono dipinti”. I manoscritti bizantini
sono “facsimili”, le miniature sono “poco meno di una riproduzione
fotomeccanica” di originali; aggiunge poi che la ripetizione iconogra-
fica è segno di mancanza di libertà e che gli iconografi non sono che
dei compilatori di “tabelle di concordanza” che trovano pascolo
abbondante in secoli di decadenza:

“(...) è impossibile negare che l’irretimento iconografico [della Ma-


donne e dei Cristi duecenteschi bizantineggianti] non sarà mai segno
di quella autonomia fantastica che è buona premessa d’ogni epoca
liberamente operante. Ma che i puri iconografi abbian trovato nel
Duecento pascolo cosı̀ abbondante per le loro tabelle di concordanza
significa qualcos’altro in più: che cioè all’irretimento tematico va del
pari un irretimento tecnico, che è un’altra prova di insufficienza
espressiva.”.

24
Per il commento al “Giudizio” di Longhi vedi Capitolo 12, paragrafo b. Nel “Giudi-
zio” e nel Corollario Longhi ha anche alcune sortite prive di senso sull’arte bizantina:
Margaritone d’Arezzo, ad esempio, avrebbe ripreso dagli “antichissimi modelli copto-
siriaci” (S. Bettini, “Studi recenti sull’arte bizantina”, La critica d’arte, ser. 3, 8
[1949-1950], p. 147).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Quanto alla Pala d’Oro di San Marco a Venezia, la ricchezza del


materiale fa sorgere a Longhi “una diffidenza di principio”: “il critico
d’arte non è un esperto di preziosi” e la Pala d’Oro ha un valore
venale, ma non un valore artistico. El Greco, “convertitosi all’Occi-
dente”, “uno dei più grandi poeti della pittura occidentale”, è l’unico
a essere salvato da Longhi (giudizi che demoliscono l’interpretazione
di El Greco come figlio di Bisanzio data dalla Sarfatti nel 1925). Il
motivo di tanto veleno di Longhi verso Bisanzio resta ancora oscuro.
Forse il rientro in Italia dopo la guerra dell’odiato rivale Lionello
Venturi, amante dell’arte bizantina, è una spiegazione. La sua lettura
ostentatamente crociana delle opere d’arte va invece interpretata
come candidatura a porsi sotto le bandiere ideologiche del filosofo,
cosı̀ come fece la quasi totalità degli storici dell’arte italiani dopo la
sconfitta del fascismo.
11

L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA

Per le voci artistiche l’Enciclopedia Italiana non fu allineata con la


riscossa nazionalistica del fascismo. La direzione di Pietro Toesca
delle voci artistiche medievali ne fece anzi un punto dolente per i
romanisti e la pubblicazione sull’arte più indipendente di quegli anni.
Le voci sull’arte medievale dettero a Bisanzio il primato sull’Occi-
dente latino e le voci sui pittori duecenteschi non accettarono l’idea
dell’antitesi Giotto-Bisanzio. La maggior parte di queste voci sono
firmate da Toesca stesso. Nei volumi dell’Enciclopedia usciti dopo la
metà degli anni Trenta trovò spazio la retorica romanista del regime.

a. Ojetti alla direzione della Sezione Arte


Come anticipato da Gentile al convegno per la cultura fascista del
1925, una delle imprese culturali su cui si impegnarono di più il
fascismo e Gentile in prima persona fu la realizzazione della Enciclo-
pedia Italiana, la cui prima edizione fu pubblicata in trentasei volumi
tra il 1929 ed il 1936. Tentativi anteriori fatti da Gentile di pubbli-
care una enciclopedia nazionale erano falliti; solo con l’intervento
dell’industriale tessile e conte Giovanni Treccani degli Alfieri (fig.
110), uno dei personaggi di maggior spicco partecipanti al Convegno
per la Cultura Fascista di Bologna, fu disponibile il capitale necessa-
rio all’impresa. Nel 1923 Treccani sottopose a Mussolini, capo del
governo, il progetto per l’enciclopedia, ma Mussolini spinse Treccani
a utilizzare la somma messa da parte, con una cospicua aggiunta, per
l’acquisto della Bibbia di Borso d’Este, che costò cinque milioni di
lire. L’inizio dei lavori per l’Enciclopedia fu di conseguenza ritardato.
L’atto costitutivo dell’Istituto Treccani per l’Enciclopedia Italiana e
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

le presentazioni ufficiali dei volumi dell’Enciclopedia furono poi pub-


blicati, insieme con foto dedicatorie al camerata Treccani di Musso-
lini, Guglielmo Marconi, Gabriele D’Annunzio – che era stato desi-
gnato come presidente dell’Istituto Treccani, ma morı̀ prima di
assumere la carica – e altri gerarchi fascisti, nel volume Enciclopedia
Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento, che Treccani inviò come
omaggio agli abbonati sottoscrittori della Enciclopedia (fig. 111).
L’atto costitutivo del 1925 prevedeva trentadue volumi, quattro in
meno rispetto a quelli poi pubblicati, ed il completamento dell’opera
nel 1936, data che fu rispettata. Suo modello furono l’autorevole e
antica Encyclopædia Britannica inglese (la prima edizione di questa è
del 1768-1781), con le sue voci a carattere di saggio monografico
che si intendeva riprendere solo per alcune voci della Enciclopedia, ed
il più recente Dictionnaire Larousse francese (la prima edizione è del
1864); è lecito immaginare che quest’ultimo fosse anche l’antagoni-
sta diretto dell’Enciclopedia.
Gentile tenne la direzione scientifica fin dall’atto costitutivo del
1925; fu affiancato per i compiti editoriali da Calogero Tumminelli.
Al comitato tecnico, come direttori di sezioni connesse in qualche
maniera con Bisanzio, parteciparono Alessandro Della Seta e Ro-
berto Paribeni (archeologia), Gustavo Giovannoni (architettura), Sil-
vio Giuseppe Mercati (letteratura bizantina e neoellenica), Tammaro
De Marinis (libro e manoscritto), Ugo Ojetti e Pietro Toesca (arte
medievale e moderna), Arduino Colasanti (arte contemporanea).
Nella redazione, alla storia dell’arte fu preposto dal 1928 Géza De
Francovich, che firmò anche una parte della voce “Armeni” e che da
comparsa divenne uno dei primi attori delle discussioni postbelliche
sull’arte bizantina. Della Seta e Giovannoni sono due degli studiosi
opposti per il loro spirito nazionalistico a Toesca nella campagna di
stampa del Giornale d’Italia del 1930; Paribeni è l’archeologo fascista
che Toesca riteneva ordisse trame contro di lui dalla sua posizione
governativa alla direzione delle belle arti1.
Direttore iniziale della Sezione Arte, fino al dicembre 1928, cioè
fino a quando ancora non era stato pubblicato alcun volume, fu Ugo

1
Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, 36 volumi (Roma: Istituto Giovanni
Treccani, poi Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani,
1929-1936); Appendice I, 4 volumi (Roma, 1938). Appendice II 1938 / 1948, 2 volumi
(Roma, 1948-1949). Appendice III 1950 / 1961, 2 volumi (Roma, 1961). Enciclopedia
Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento (Milano [1939-XVII]). Per la campagna sul
Giornale d’Italia vedi Capitolo 6, paragrafo c.
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

Ojetti, al quale venne dato il merito di aver preparato gli elenchi di


tutte le voci e i materiali sull’arte dei primi volumi. Ojetti cominciò
compilando l’elenco provvisorio di tutte le voci artistiche dell’Enciclo-
pedia e quello definitivo per le lettere A-C, si adoperò per reperire i
collaboratori, superando insieme a Gentile un gran numero di diffi-
coltà incontrate e redasse anche alcune voci di artisti minori2. A
marzo del 1928 Ojetti scrisse a Gentile inviandogli un elenco di
artisti stranieri da inserire nell’Enciclopedia, gli chiese se inserire l’arte
in Abissinia sotto l’Etiopia, gli comunicò i nomi dei redattori di varie
voci sull’arte orientale e aggiunse che aveva sperato di convincere
Lionello Venturi ad assumersi la direzione della Sezione Arte per
l’Asia, ma non vi era riuscito (Venturi era già stato incaricato della
voce Antonello da Messina):

“Speravo di convincere Lionello Venturi che in questi ultimi anno ha


molto studiato l’arte dell’Estremo Oriente ad assumersi la direzione
della Sezione d’arte per l’Asia. Ma non sono riuscito nel mio intento.
Egli sta lavorando per noi alla voce Antonello da Messina, non so se te
l’ho scritto. Ora ti chiedo di sollevarmi da questo peso e di affidare ad
altri la direzione della Sezione d’arte per l’Asia e anche per l’Africa,
meno, s’intende, nell’Africa l’arte musulmana dall’Egitto al Marocco.
È necessario, si capisce, rispettare i nostri impegni con egregi scienziati
come Victor Goloubeff per l’arte in Birmania, nel Cambodge, nel
Siam, nella Malesia; col Sarre per l’Arte Persiana; col Binyon per l’arte
Cinese e l’arte Giapponese.
L’arte in Abissinia va sotto Etiopia?”.

Nel luglio del 1928 appaiono nella corrispondenza i primi dissa-


pori tra Ojetti e Gentile su scelta dei collaboratori e stesura delle

2
Le minute delle lettere di Ojetti a Gentile e le lettere di Gentile ad Ojetti citate nel testo
sono conservate presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (manoscritti da ordinare 250,
cartella “Partecipazione alla vita pubblica” 3, 19 II). Tra le difficoltà incontrate fu,
nell’aprile del 1926, il divieto papale rivolto ai prelati cattolici di firmare articoli per
l’Enciclopedia. In data 5 aprile 1926 Ojetti esterna a Gentile le sue preoccupazioni per
“l’attacco, diremo, vaticano all’Enciclopedia” pubblicato sulla stampa; due note de L’osser-
vatore romano e del Corriere della Sera davano infatti notizia del veto papale e della futura
pubblicazione della Enciclopedia cattolica; Ojetti suggerisce a Gentile di parlarne col Ponte-
fice. Il 15 aprile Gentile risponde che “l’incidente col Vaticano” poteva considerarsi chiuso:
“I prelati che si erano personalmente impegnati a collaborare, e che intendono infatti
collaborare, hanno insistito presso il Pontefice perché li sciogliesse dall’obbligo, che io non
potevo accettare, di non firmare. E il pontefice, malgrado la sua ostinatezza, ha finito con
l’arrendersi all’evidenza delle ragioni che gli erano addotte.”. Su questo episodio vedi M.
Bernabò e R. Tarasconi, “L’epistolario Gentile-Ojetti ed un attacco vaticano all’Enciclopedia
Italiana”, Quaderni di storia 53 (gennaio-giugno 2001), pp. 155-167. Tra le voci redatte da
Ojetti è, ad esempio, “Appiani, Andrea”, in E. I., vol. 3 (1929), pp. 757-759.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

voci. Gentile, il 7 luglio 1928, scrive giudicando troppo povero,


spropositato e breve l’articolo “Arte figurativa” di Eva Tea e chie-
dendo a Ojetti di affidare gli articoli di carattere generale a studiosi
sicuri; chiede anche di ritoccare o meglio sostituire l’articolo di
Giulio Chiarugi sull’anatomia nell’arte. Il giorno successivo Ojetti
risponde di rimandargli indietro gli articoli in questione, ricordando
a Gentile che in Italia, comunque, gli unici storici dell’arte affidabili
sono Toesca e Lionello Venturi, curiosamente i meno allineati tra gli
storici dell’arte del momento:

“Ma quando tu mi consigli «di affidare questi articoli di carattere


generale a studiosi sicuri e che conoscano a fondo l’argomento», tu
immagini che in Italia ne esistano tanti da poter scegliere e che io
abbia, al solito, trascurato di farlo. Tra gli insegnanti universitari di
Storia dell’Arte non v’è da fidarsi, in argomenti generali, che di
Lionello Venturi e di Pietro Toesca. Ora il mio carteggio è qui a
provarti la mia fatica per convincere L. Venturi a scrivere di Antonello
(e ho dovuto rimandargli due volte il ms. che era troppo breve e, come
dire?, distratto) e per convincere P. Toesca ad accettare le biografie di
Giotto, Masaccio e Michelangelo.
Per indurre Mario Salmi e Giuseppe Fiocco, tra i più giovani e valenti
di questi insegnanti, a far le poche voci dell’A e del B che avevo loro
assegnato ho lottato fino a ieri; e il Fiocco aveva finito, senza scrupoli,
a tradurre per Bellotto il Thieme e Becker. La voce è stata rifatta dal
Tarchiani e da me. Posso continuare per dieci pagine gli esempi.
Hai tu nomi da proporre? Dammeli o scrivi loro direttamente e
avvertimi. Restituirò io i mss.”.

Ojetti difende poi calorosamente Chiarugi e ricorda a Gentile di


avere solo per le lettere A e B 550 e 800 voci rispettivamente, “che
non è un’inezia”: si sforza “lavorando talvolta per voialtri otto o dieci
ore al giorno”, avvedendosi della “fiacchezza, svogliatezza e spesso
incapacità dei collaboratori”. Allora, conclude, se Gentile ha dubbi
non esiti: “mi sembra inevitabile la conclusione cui ero giunto,
s’intende, per altre ragioni: sostituirmi”.
Gentile, il 9 luglio, rassicurò Ojetti, gli espresse il suo rammarico
per l’impressione data, con “assoluta innocenza”, con la sua ultima
lettera e lo pregò di continuare nell’incarico all’Enciclopedia:

“Quello che non potrei in alcun modo ammettere, è che essi potessero
comunque dar motivo alle tue dimissioni; sulle quali spero bene che
non vorrai insistere. Intendo che la fatica, che ti è stata addossata, è
troppo grande; intendo che i fastidi che noi ti diamo, per necessità,
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

colla nostra quotidiana corrispondenza, vanno oltre il limite del tolle-


rabile; ma ci sarà modo d’intendersi.”.

Il 13 luglio Gentile riprese il problema dei collaboratori e pro-


pone di sostituire alla Tea (“che mi ha, ti dico la verità fatto cascare
le braccia”) Longhi (“Potrei pregarlo io stesso, che ricevo non di
rado preghiere sue”). Longhi potrebbe anche entrare per “Anatomia
nell’arte”; la voce “Anatomia artistica” fu poi redatta da Chiarugi,
mentre Longhi ebbe l’incarico per due artisti secondari, Marcantonio
Andreucci e Giovanni Baglione, ben poco a confronto dell’odiato
Lionello Venturi che scrisse, prima dell’esilio, la voce Antonello da
Messina e la parte “Il concetto di arte figurativa” della voce “Arte”3.
Quanto al peso del lavoro, Gentile suggerı̀ a Ojetti di ridurre la sua
direzione a solo una parte della Sezione Arte (Ojetti propose un
incarico a Emilio Cecchi per la revisone dei testi, in data 9 dicem-
bre). Il 10 ed il 21 dicembre Gentile rinnovò il rammarico per il
troppo peso sulle spalle di Ojetti (le sezioni arte e archeologia erano
rimaste indietro nei tempi di consegna del materiale) e insisté per la
condivisione del peso tra Ojetti ed una seconda persona, che non
può essere però, purtroppo, Lionello Venturi che si è già fatto
“troppo pregare per l’articoletto sulle “Arti figurative” (un diploma-
tico rifiuto, presumibilmente, a ulteriori coinvolgimenti di Venturi
nella Enciclopedia); Gentile propose Colasanti. Lamentele sui colla-
boratori (soprattutto De Francovich) e sullo sperpero di denaro per
le illustrazioni, proposte di dimissioni, suggerimenti per condirettori
di sezione da affiancare a Ojetti (Colasanti) sono riportati in un gran
numero di lettere dell’epistolario Gentile-Ojetti del 1928-1929.
Nel gennaio del 1929 avvenne l’incidente definitivo tra Gentile e
Ojetti, o, forse, meglio sarebbe dire, il fatto che Ojetti prese come
scusa per ritirarsi dall’impresa dell’Enciclopedia. Il 3 gennaio Gentile
si lamentò di due pagine in Pègaso, una rivista diretta da Ojetti,

“la prima insolente nel modo più intollerabile, e la seconda scema fino
all’inverosimile. Possibile che tu mi stampi di queste sciocchezze?”

Ojetti rispose il 4 gennaio difendendo le pagine in questione e


ritenendosi offeso dal tono e linguaggio inammissibili di Gentile e
della sua voluta e insolente dimenticanza di quanto lui aveva scritto

3
R. Longhi, “Marcantonio Andreucci”, in E. I., vol. 3 (1929), p. 215, e “Giovanni
Baglioni”, in E. I., vol. 5 (1930), pp. 851-853.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

altrove sullo stesso fascicolo della rivista; concluse rassegnando le


dimissioni da direttore di sezione della Enciclopedia e lamentandosi
delle ingiurie subdolamente insinuate a lui da parte dei dirigenti della
Enciclopedia e della “impossibilità in Italia di noi scrittori liberi di
collaborare con la cosı̀ detta scienza ufficiale”. Gentile provò a
ricucire i rapporti il 5 gennaio, ma Ojetti si mostrò intransigente
nuovamente il 6; inutili anche gli interventi epistolari di Treccani. Il
9 gennaio Gentile rinuncia a convincere Ojetti e prende atto delle
sue dimissioni4.

b. L’incarico a Toesca
Ad Ojetti subentrarono, dunque, Toesca e Colasanti, dividendosi i
compiti rispettivamente per l’arte medievale e moderna e per l’arte
contemporanea e valendosi a loro volta di collaboratori, come, ad
esempio, per tutte le voci sull’arte veneta. Il coinvolgimento nella
impresa dell’Enciclopedia Italiana non fu cercato da Toesca, nono-
stante Ojetti lo dicesse molto indaffarato a lavorare per le voci:

“Non mi meraviglio della tesi grottesca di Ojetti: lui, e Gamba, e gli


altri rinnegherebbero la luce del sole, tanto sono cuciti insieme con il
piccolo satrapo. Mi meraviglio, invece, che Ojetti creda ch’io sia molto
occupato per l’Enciclopedia Treccani! Per accontentarlo, mi assunsi
tre voci soltanto – Giotto, Masaccio, Michelangiolo (...).”.

Ma nel 1929 Toesca fu messo nelle condizioni di non poter


rifiutare di succedere al dimissionario Ojetti nella direzione della
Sezione Arte Medievale e Moderna della Enciclopedia dopo l’inci-
dente degli articoli su Pègaso. Scrive a Berenson il 16 gennaio di
quell’anno:

“La terza novità (e non piacevole) l’ho avuta iersera. Mi è stato offerto
con molta insistenza e con larghezze ... economiche di sostituire
appunto Ojetti nel dirigere la sezione di storia dell’arte medioevale e
moderna nella Enciclopedia Treccani. Ho accettato soltanto quando
son stato certo che Ojetti s’era ormai dimesso in modo irrevocabile.
Forse Ojetti potrà credere ch’io abbia, in qualche modo, desiderato di
sostituirlo: invece (ed io prego Lei di dirglielo) ho veduto con grande

4
Sul rapporto tra Gentile e Ojetti nell’impresa dell’Enciclopedia vedi Bernabò e Tara-
sconi, “L’epistolario Gentile-Ojetti”, pp. 155-167.
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

affanno il suo ritiro poiché mi poneva nella inevitabile necessità di


negare la mia opera, creandomi perciò delle ostilità, oppure di conce-
derla, ponendomi sulle spalle un duro peso che soltanto le spalle
quadrate di Ojetti potevano sostenere. Intanto io ho diminuito il peso
chiedendo che sia assegnato a Colasanti – un disoccupato [Colasanti
era in pensione] – tutta la parte contemporanea, dal 1850 in poi. Il
motivo delle dimissioni di Ojetti è stato un contrasto personale con
l’on. Gentile dopo la pubblicazione del primo numero di “Pégaso”,
dove Papini non aveva risparmiato il Gentile mentre un altro collabo-
ratore aveva riportato qualcosa che non favoriva l’“Enciclopedia”. Io
suppongo che Ojetti cosı̀ avveduto, abbia proprio procurato di avere
un’occasione per quel contrasto e per togliersi di dosso il peso – che
purtroppo ricadrà su di me.”5.

Toesca fu cosı̀ cooptato da Gentile alla direzione di una delle


sezioni della Enciclopedia Italiana, pur non essendo studioso organico
al fascismo e non amando satrapi e studiosi organici al fascismo; una
vicenda parallela a quella dell’antichista Gaetano De Sanctis, diret-
tore della Sezione Antichità Classiche e dal 1947 direttore scientifico
dell’Enciclopedia, che fu tra i pochissimi che rifiutarono il giuramento
di fedeltà al fascismo e persero la cattedra universitaria, e che pure
restò direttore di sezione nell’Enciclopedia6. Toesca si sobbarcò molte
impegnative voci: alcune voci generali come “Iconografia” e, in
parte, “Musaico”, tutte le voci più significative per la esposizione dei
caratteri dell’alto Medioevo (“Civate”, “Normanna. Arte”, “Roma-
nica. Arte”, “Sant’Angelo in Formis”, “San Vincenzo al Volturno”,
“Wiligelmo”), del Duecento e del Trecento (“Cavallini”, “Cima-
bue”, “Duccio di Buoninsegna”, “Giotto”, “Giunta Capitini detto
Pisano”, “Guido da Siena”, “Nicola Pisano”)7, le voci di alcuni dei

5
I brani riportati nel testo sono da due lettere di Toesca a Berenson del 17 gennaio del
1928 e del 16 gennaio 1929, conservate entrambe nella Biblioteca Berenson di Villa I Tatti,
Settignano (Firenze).
6
Su De Sanctis, gli antichisti, il fascismo e l’Enciclopedia Italiana vedi Cagnetta,
Antichisti e impero fascista; ead., Antichità classiche nell’Enciclopedia Italiana (Roma, 1990).
7
P. Toesca, “Cavallini, Pietro”, vol. 9 (1931), pp. 546-547; “Cimabue”, vol. 10 (1931),
pp. 245-246; “Civate”, vol. 10 (1931), p. 509; “Duccio di Buoninsegna”, vol. 13 (11932),
pp. 245-247; “Guido da Siena”, vol. 18 (1933), pp. 255-256; “Giotto”, vol. 17 (1933), pp.
211-219; “Giunta Capitini detto Pisano”, vol. 17 (1933), p. 331; “Iconografia. Arte
medievale e moderna”, vol. 18 (1933), pp. 699-700; “Musaico”, vol. 24 (1934), pp. 80-85;
“Nicola Pisano”, vol. 24 (1934), pp. 784-786; “Normanna. Arte”, vol. 24 (1934), p. 932;
“Romanica. Arte”, vol. 30 (1936), pp. 41-55; “Sant’Angelo in Formis”, vol. 30 (1936), p.
774; “San Vincenzo al Volturno”, vol. 30 (1936), pp. 803-804; “Wiligelmo”, vol. 35
(1937), p. 749. La voce “Torriti, Jacopo”, vol. 34 (1937), p. 71 è anonima. Cf. G.
Ragionieri, “Pietro Toesca nell’Enciclopedia Italiana”, Prospettiva nn 57-60 (aprile 1989 –
ottobre 1990), pp. 485-488, dove, in appendice, è riportato un elenco delle voci scritte da
Toesca per l’Enciclopedia.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

maggiori artisti del Rinascimento (Masaccio, Masolino, Michelan-


gelo, Piero della Francesca, Antonio e Piero del Pollaiolo), e la stessa
voce Rinascimento. Affidata la sezione Arte contemporanea a Cola-
santi e tenuta per sé Arte medievale e moderna, Toesca fu comun-
que in difficoltà a reperire esperti italiani per le voci orientali,
soprattutto per le regioni ed epoche musulmane, per l’Egitto cri-
stiano e la Palestina (pure Ojetti era stato in difficoltà per voci
extraeuropee, come “Africana, Arte”, per la quale aveva contattato
Carl Einstein, lo studioso bersagliato nel 1930 in uno degli articoli
de Il Giornale d’Italia, che poi non redasse la voce8: per quest’ultime,
come scrisse a Berenson, aveva pensato di ricorrere ai padri domeni-
cani di Gerusalemme9.

c. Il debole spirito romanista dell’Enciclopedia Italiana


Nella dichiarazione d’intenti e di metodo contenuta nella prefazione
al primo volume, l’opera è definita “una enciclopedia italiana, tutta
italiana, nata dalla stessa scienza e dalla stessa letteratura nostra,
originale insomma e da potersi paragonare a quelle che dal secolo
XVIII in poi hanno avute le altre grandi nazioni di Europa e di
America”. Il merito dell’impresa è attribuito alla rinascita nazionale
esplosa col fascismo:

“Il clima che ha reso possibile un’opera come questa, alla quale non
parve in passato possibile in Italia pensare, è il nuovo spirito esploso
con l’avvento del Fascismo, che scosse idee e sentimenti e accese una
passione inestinguibile di rinnovamento e di affermazione della po-
tenza dell’Italia nel mondo.”10.

La riforma della scuola, gentiliana, prosegue la prefazione, va


vista come impresa nazionale parallela. Per la scelta dei collaboratori
si è ricorso agli studiosi italiani salvo casi particolari. Le voci rispec-
chieranno “un ragionevole eclettismo e una scrupolosa imparzialità”.
Questa “concordia discors”, “discorde concordia”, implica “nessuna

8
Vedi le lettere di Ojetti a Gentile del 9 giugno 1928.
9
O, se fosse stata disponibile ad accettare, aggiunse per lusinga, a Nicky Mariano, la
segretaria di Berenson. Le lettere di Toesca a Berenson sono del 3 aprile e del 26 giugno del
1929 e sono conservate nella Biblioteca Berenson di Villa I Tatti, Settignano (Firenze).
10
E. I., vol. 1 (1929), pp. xi-xv.
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

intolleranza, nessuna ombrosa angustia di menti”; le voci avranno


una “esposizione obiettiva e pacata”. Nelle avvertenze e norme
redazionali ai collaboratori si dichiara che “sono bandite dall’Enci-
clopedia le polemiche”; Treccani più volte ribadı̀ in atti formali che
la politica è bandita dall’Enciclopedia.
Nel 1937, su Nuova Antologia lo storico Gioacchino Volpe,
direttore della Sezione Storia Medievale e Moderna e uno degli
intellettuali fascisti che parteciparono al convegno di Bologna e che
dopo le leggi razziali caccerà i Bizantini dal gruppo dei popoli di
razza ariana, scrisse del compimento dell’Enciclopedia Italiana, soste-
nendo l’italianità per nove decimi dell’impresa: solo pochi studiosi
stranieri erano stati chiamati a collaborarvi “pur non togliendole
nulla della sua italianità”, affermazione non vera per i primi volumi
le cui voci artistiche erano state decise da Ojetti; tra gli stranieri
Volpe cita Charles Diehl “maestro di fatto di arte bizantina”, Julius
von Schlosser e Fritz Volbach, l’autore della voce arte copta. Non è,
dice Volpe, l’enciclopedia del fascismo; ogni voce non è coordinata e
subordinata a una determinata filosofia. Tra i contributi di cui tutti
parlerebbero con lode, curiosamente Volpe mette “Letteratura bizan-
tina” di Giorgio Pasquali della voce “Bizantina, Civiltà”; cita poi
come opera di italiani anche “Storia dell’impero bizantino” della
stessa voce, firmata da Angelo Pernice docente a Firenze11. Questa
dichiarazione di panitalianità della Enciclopedia non calza in realtà per
le voci artistiche orientali, per l’archeologia e le arti figurative: lo
stesso accento posto da Volpe nella citazione di esse come italiane
lascia sospettosi. Va aggiunto che la voce “Arte. Il concetto di arte
figurativa” nel volume 4 è dell’eretico Lionello Venturi, ma, va
notato, il volume fu pubblicato nel 1929 prima della fuga di Venturi
in Francia12.
Toesca non fu toccato dalla retorica imperiale degli anni Trenta
e non romanizzò le voci dell’Enciclopedia di arte medievale e mo-
derna, né ricorse a studiosi italiani e di fede fascista, come avrebbero

11
G. Volpe, “L’«Enciclopedia Italiana» è compiuta”, Nuova Antologia, ser. 8, n 394
(1937-XVI), pp. 5-18.
12
Volpe trasferı̀ nella cultura la politica razziale del fascismo: nel suo “Su la soglia del
nuovo Impero mediterraneo”, apparso in Le arti 2 (1940-XVIII), pp. 293-298, inneggiò alla
grandezza di Roma antica, che aveva dato unità spirituale e politica alle genti del Mediterra-
neo, e degli Italiani che avevano conservato a quello il carattere di mare europeo contro “i
semiti di Cartagine, i semiasiatici di Bisanzio, gli Arabi e Turchi d’Asia e d’Africa” (citazioni
da p. 293).
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

voluto suoi colleghi, l’allineato Paribeni o Volpe, ad esempio13. In


linea di massima, le voci di Toesca ripetono tesi sue già note:
l’affermazione del primato di Bisanzio nella produzione artistica
medievale non è attenuata nell’Enciclopedia rispetto a Il Medioevo del
1927. Questo infastidı̀ gli ortodossi romanisti: lo storico dell’arte
Federico Hermanin nella parte “Roma. Roma medievale. Arti figura-
tive”, nel volume 29 del 1936, inserı̀ una sorprendente premessa che
sembra un proclama contro Il Medioevo; Hermanin dichiara infatti
che l’arte medievale di Roma è filiazione naturale dell’arte classica
romana, ribadendo il concetto in due frasi quasi consecutive, e di
essa conserva le qualità pittoriche impressionistiche anche in quei
periodi, come l’VIII secolo, che Toesca dichiarava più bizantini:

“L’arte medievale a Roma si distingue da quella delle altre città


italiane per essere una diretta e spontanea filiazione dell’arte romana,
uno svolgimento naturale delle forme che questa aveva acquistate
durante i primi secoli cristiani; e tale fenomeno si palesa specialmente
nella pittura, che è la vera e grande arte di Roma durante il Medioevo.
In essa per molto tempo resta viva la maniera impressionistica, che fu
il carattere più chiaro della pittura delle catacombe, figlia diretta di
quella classica, rinnovata nello spirito, ma uguale ad essa nelle forme.
Da quest’arte profondamente cristiana nasce la pittura medievale
romana e cosı̀ gli affreschi del tempo di Giovanni VII (705-707) si
collegano strettamente alla pittura cemeteriale e attraverso questa alla
pittura classica romana, e non diversi sono quelli del tempo dei suoi
successori.”.

A questo punto Hermanin avverte i lettori delle divergenze inter-


pretative tra lui e altri critici, in primis, cioè, il direttore della Sezione
Arte Medievale dell’Enciclopedia; la gravità del fatto o il desiderio di
rendere pubblica la propria fede ideologica giustificava evidente-
mente l’eccezione al bando alle polemiche che le norme redazionali
per i collaboratori prescrivevano:

“È giusto nondimeno avvertire che una parte della critica vede le
vicende della pittura a Roma in continue e complesse relazioni con la
pittura bizantina e dell’Oriente cristiano, pur ammettendo che qui la
continuata attività abbia sviluppato tradizioni proprie, risorgenti più
forti nei periodi di più alta originalità. Gli affreschi del tempo di

13
Sulla retorica romana e gli studiosi vedi M. Cagnetta, “Appunti su guerra coloniale e
ideologia imperiale romana”, in Matrici culturali del fascismo, pp. 185-207, specialmente pp.
202-204.
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

Giovanni VII in Santa Maria Antiqua, secondo alcuni [scilicet: Toe-


sca], mostrerebbero forte l’influsso delle forme bizantine più classi-
cheggianti: e cosı̀ i musaici di S. Agnese fuori le Mura, di S. Lorenzo
fuori le Mura, ecc.”.

Nonostante la disfatta fascista, nel volume su Roma medievale


della Storia di Roma pubblicata dall’Istituto di Studi Romani, uscito
nel 1945, Hermanin non demorse sulle lodi ai pittori medievali
romani che continuavano eroicamente la tradizione classica contro
bizantini e barbari, base “di quella nuova arte italiana, che è gloria
immortale della nostra patria”14.
Scorrono invece piane, con “esposizione obiettiva e pacata”
come richiesto ai collaboratori nella prefazione nel primo volume
dell’Enciclopedia, non faziose e affidate in buona parte a stranieri le
voci “Armeni” (Giorgio Rosi, De Francovich e altri), “Arte” (Gen-
tile, Lionello Venturi, Emanuel Loewy e Julius von Schlosser dell’U-
niversità di Vienna, con l’ultimo che discute ampiamente dell’este-
tica e dell’arte bizantine), “Athos” (Georges A. Sotiriou), “Bibbia”
(De Marinis e Louis Bréhier su codici miniati e Bibbia nell’arte),
“Bizantina, Civiltà” (che sarà discussa oltre) “Cézanne” (Jean Ala-
zard) , “Colore”, con panegirico del colore nell’arte bizantina (Carlo
Alberto Petrucci), “Copti” (Volbach per l’arte), “Costantinopoli”
(Diehl), “Dura-Europo” (René Mouterde di Beirut, che però non
parla dei nuovi ritrovamenti che sono descritti e discussi nell’Appen-
dice del 1938 da Michael Rostovzev, allora alla Yale University di
New Haven), “Ebrei” (senza parte sull’arte), “Edessa” (Guillaume
De Jerphanion, Giorgio Levi Della Vida), “Kiev” (Miron Malkiel-
Jirmounski), “Matisse”, pittore che si ispira all’arte orientale e cerca
di restaurare “selvaggiamente” la grande tradizione classica francese
(Andrée R. Schneider), “Mesopotamia”, con citazione dei ritrova-
menti di Dura-Europo ed esaltazione della grande missione della
potenza romana di avvicinare e propagare civiltà diverse e gettare le
basi della civiltà moderna (Pietro Romanelli), “Miniatura” (Paolo
D’Ancona ed Ernst Kühnel direttore dei musei di Stato di Berlino, il

14
F. Hermanin, “Roma. Roma medievale. Arti figurative”, in E. I., vol. 29 (1936), pp.
774-777; citazioni nel testo da p. 774; id., L’arte in Roma dal sec. VIII al XIV (Istituto di
Studi Romani. Storia di Roma, vol. 27. Bologna, 1945), pp. 177-178:
“[dalle pitture delle catacombe a Cavallini abbiamo a Roma monumenti] che dettero ai
nostri maestri la forza per resistere, spesso vittoriosamente, all’invasione artistica bizantina
da prima e a quella barbarica in seguito e per gettare le basi di quella nuova arte italiana,
che è gloria immortale della nostra patria.”.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

quale ultimo è autore di tutte le voci di arte islamica), “Musaico”


(Carlo Cecchelli, Toesca), “Novgorod” (Malkiel-Jirmounsky), “O-
riente cristiano” (Michelangelo Guidi), “Persia” (Kühnel), “Russia.
Arte”, con la parte antica che sottolinea i rapporti con Bisanzio
(Malkiel-Jirmounski), “Siria”, con appendice su Dura-Europo (De
Jerphanion), “Studenica”, con elementi bizantini e occidentali in-
sieme (Vojeslav Molé). Invece, per “Catacombe. Arte”, Cecchelli
cita due volte con reverenza Toesca, ma non rinuncia a una desueta
dichiarazione ottocentesca e antistrzygowskiana che nell’arte della
catacombe “si deve ricercare la radice dell’arte bizantina”15.
A metà degli anni Trenta, nel clima della Mostra Augustea della
Romanità che affermò l’appartenenza di Giustiniano e di Ravenna
alla tradizione romana, il tono di alcune voci si fece nazionalistico e
la politica entrò apertamente nelle pagine artistiche della Enciclope-
dia, nonostante le dichiarazioni contenute nella prefazione del 1929.
I centri artistici adriatici vengono riconquistati alla storia patria, cosı̀
come avviene in altre pubblicazioni di questi ultimi anni del fasci-
smo. Le voci “Aquileia”, “Parenzo” e “Ravenna”, rispettivamente
nei volumi 3 del 1929, 26 e 28 del 1935, contengono esposizioni
descrittive dei monumenti, con una vena filobizantina probabilmente
campanilistica: ad Aquileia gli affreschi nella cripta della basilica si
dice ripetano vivamente i modi bizantini, a Parenzo capitelli, stucchi
e mosaici “riflettono l’agile fantasia decorativa dell’Oriente, piena di

15
G. De Francovich, “Armeni. Pittura e scultura” e G. Rosi, “Armeni. Architettura”,
vol. 4 (1929), pp. 435-440 e pp. 440-443; G. Gentile, “Arte”, L. Venturi, “Arte. Il concetto
di arte”, E. Loewy, “Arte. L’arte greco-romana”, J. von Schlosser, “Arte. L’arte medievale e
moderna”, vol. 4 (1929), pp. 631-633, 633-634, 639-643, 643-660; G. A. Sotiriou,
“Athos”, vol. 5 (1930), pp. 204-205; L. Bréhier, “Bibbia. La Bibbia nell’arte” e T. De
Marinis, “Bibbia. Codici ed edizioni”, vol. 6 (1930), pp. 919-922 e 922-925; J. Alazard,
““Cézanne”, vol. 9 (1931), p. 910; C. A. Petrucci, “Colore”, vol. 10 (1931), p. 882; F.
Volbach, “Copti. Arte copta”, vol. 11 (1931), pp. 335-339; C. Diehl, “Costantinopoli. I
monumenti”, vol. 11 (1931), pp. 616-620; R. Mouterde, “Dura-Europo”, vol. 13 (1932),
p. 290; G. De Jerphanion e G. Levi Della Vida, “Edessa”, vol. 13 (1932), p. 457; M.
Malkiel-Jirmounski, “Kiev. Monumenti”, vol. 20 (1933), p. 195; A. R. Schneider, “Matis-
se”, vol. 22 (1934), pp. 569-570; P. Romanelli, “Mesopotamia”, vol. 22 (1934), pp.
937-938; P. D’Ancona, “Miniatura. La miniatura nei codici” e E. Kühnel, “Miniatura. La
miniatura nell’arte islamica”, vol. 23 (1934), pp. 363-371, 374-376; C. Cecchelli e P.
Toesca, “Musaico”, vol. 24 (1934), pp. 76-80 (Cecchelli, “Il musaico nell’arte antica”, pp.
76-80; Toesca, “Il musaico nell’arte medievale e moderna”, pp. 80-85); M. Malkiel-
Jirmounski, “Novgorod”, vol. 25 (1935), pp. 1-2; M. Guidi, “Oriente cristiano”, vol. 25
(1935), pp. 550-552; E. Kühnel, “Persia. Arte”, vol. 26 (1935), pp. 834-839; M. Malkiel-
Jirmounski, “Russia. Arte”, vol. 30 (1936), pp. 314-319; G. De Jerphanion, “Siria”, vol. 31
(1936), pp. 903-906; V. Molé, “Studenica”, vol. 32 (1936), p. 889; C. Cecchelli, “Cata-
combe. Arte”, vol. 9 (1931), pp. 399-400.
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

slancio e di colore”16. Nella voce “Venezia”, invece, contenuta nel


volume 35 pubblicato nel 1937 l’arte altomedievale veneziana viene
romanizzata da Gino Fogolari, il cui testo cosı̀ comincia:

“Venezia non nacque bizantina come si ripete generalmente, ma


bizantina diventa quando più da povera diventa ricca e potente. Come
il Tribuno delle isole dipende da Bisanzio non direttamente, ma
attraverso l’Esarca, cosı̀ anche in arte Venezia dipende da Ravenna,
almeno fino al secolo XI, con quel tanto e non più di bizantino che
attraverso quest’ultima è comune a tutta l’architettura dell’Alto Adria-
tico, da Parenzo ad Aquileia e a Grado.”.

Seguono le prove archeologiche:

“L’altare a mensa su colonne, scoperto nella basilica di Torcello, è di


carattere piuttosto romano che orientale. All’infuori dei mosaici pavi-
mentali, che si credono del secolo IX, nessuna rivelazione bizantina
hanno dato gli scavi a S. Zaccaria, vantata fondazione imperiale di
Leone X l’Armeno; e la primitiva S. Marco dei Partecipazio, compiuta
nell’832, finita di decorare nell’883, risulta, dalle fondazioni rimaste,
in tutto simile alla chiesa di Pomposa, sorta in quei tempi su esempi
ravennati (...).”.

L’immaginario de La nave col tribuno di romano-veneto Marco


Gratico, che prima è sedotto da Basiliola, poi si libera di lei e del suo
partito filobizantino, a vent’anni di distanza è ancora parte delle
fantasie fasciste. L’arte bizantina appare come un’arte da popoli
ricchi e decadenti, l’arte sana è quella italica. Se per le arti figurative
i dogi si rivolgono a maestri bizantini, per l’architettura quello che di
antico rimane a Sant’Eufemia della Giudecca, a San Giovanni De-
collato e a San Giacometto di Rialto dimostra che poco dipende da
Bisanzio nei primi secoli. Anche per San Marco, per la quale c’è la
tradizione antica di maestri e disegni bizantini impiegati per ripro-
durre la chiesa costantinopolitana dei SS. Apostoli, “bisogna inda-
gare l’essenza architettonica, prescindendo dai rivestimenti marmo-
rei, dai musaici, da tutta l’immensa pompa orientale bizantina”. Il
“sagacissimo odierno proto della Basilica Luigi Marangoni afferma
che la struttura è romanica”; i Bizantini non potevano ispirare la
novità e la bellezza della chiesa, che debbono venire necessariamente

16
G. Brusin, “Aquileia. Monumenti artistici”, in E. I., vol. 3 (1929), pp. 803-804; F.
Forlati, “Parenzo. Monumenti”, in E. I., vol. 26 (1935), p. 324.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

dall’antichità e in particolare dall’epoca di Costantino: lo schema di


San Marco è cosı̀ nuovo anche rispetto alla architettura latina che

“solamente l’esempio dell’antichità poteva ispirarlo. Non chiese edifi-


cate dal sec. X all’XI a Costantinopoli e nell’Ellade, che pur con le
cinque cupole hanno tutt’altro carattere; ma opere costantiniane e
giustinianee di tanti secoli prima e di tanta gloria, servirono all’archi-
tetto di S. Marco d’incitamento per raggiungere coi suoi mezzi quella
perfezione architettonica. Certo, se non avesse dominato l’Oriente,
Venezia non avrebbe S. Marco.”17.

Della voce “Roma”, che è del 1936, si è detto sopra a proposito


della opposizione ideologica dichiarata dal romanista Hermanin
verso il suo direttore di sezione orientalista, Toesca. Va aggiunto, che
anche per la scultura del IV e V secolo a Roma, all’irrigidimento
dell’ideale umano nel dogma e nel protocollo, che sono mostrati dai
volti della statuaria bizantina e alla successiva trasformazione della
figura umana in icona, sono contrapposti lo spirito e il libero volere
dell’uomo di Roma e dell’ambiente italico, che ancora apparirà nei
mosaici di Ravenna; inaspettatamente, questa parte della voce è
firmata da Bianchi Bandinelli (forse bisogna pensare a un ritocco del
testo da parte della redazione o del direttore di sezione Paribeni):

“(...) nel ritratto si può trovare ancora una volta un rivivere delle
caratteristiche romane. Se infatti il classicismo costantiniano e le
sopraggiunte influenze orientali hanno definitivamente portato a un
irrigidirsi dei corpi, rendendoli inorganici, lignei, scarsi di ritmo e
concepiti con funzione essenzialmente decorativa (il che fu sempre in
ogni tempo l’effetto precipuo dell’influsso orientale), ancora una volta
torna questa rigidità a dissolversi almeno nei volti, per darci una serie
ben individuata di ritratti. (...) Abbiamo qui veri precedenti di quel
bizantinismo che trasformerà la figura umana in icone, la forma
corporea in geometria, secondo un preciso ideale morale ed estetico
(...). [Dopo il 476] abbiamo ancora esempi di ritratti i quali, pur
avendo assunto in parte il geometrismo canonico di Bisanzio, riman-
gono più ricchi di modellato e di elementi espressivi individualistici. E
mentre in Oriente l’ideale umano andava sempre più irrigidendosi e
ugualmente andava irrigidendosi nel dogma e nel protocollo lo spirito
e il libero volere dell’uomo, da Roma e dall’ambiente italico partiva
sempre qualche scintilla di individualità, che si manifesta appunto
nell’arte sotto forma di espressione caratteristica e di colorismo e

17
S. Muratori, “Ravenna. Monumenti e arti”, vol. 28 (1935), pp. 870-874; G. Fogolari,
“Venezia. Arti figurative”, vol. 35 (1937), pp. 60-67, citazioni nel testo da p. 60.
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

coopererà a produrre i meravigliosi ritratti musivi di Ravenna, che in


mezzo a tante reminiscenze classiche fioriranno sulla rigidità bizantina
18
dei corpi geometrizzati.” .

d. “Iconografia”, “Musaico”: due voci metodologiche


In due voci, “Iconografia” e “Musaico”, Toesca è determinato a
fornire un testo controcorrente rispetto alla interpretazione di moda.
Sull’approccio iconografico alle opere d’arte medievali e moderne il
suo giudizio positivo è senza titubanze; l’iconografia è parte inte-
grante degli studi che considerano l’opera d’arte in ogni aspetto e
soprattutto nell’interezza del suo stile (Toesca stesso aveva dato
interpretazioni iconografiche di opere d’arte nei suoi lavori); un
procedimento d’indagine legittimo e necessario, perché introduce a
conoscere i fattori spirituali della concezione artistica non avvertiti in
altra maniera:

“Questi studi iconografici non si identificano con quelli che conside-


rano le opere d’arte in ogni aspetto e soprattutto nell’interezza del loro
stile; ne sono tuttavia parte integrante. Essi hanno un oggetto partico-
lare – i modi e gli elementi figurativi derivati da tradizioni – che isolano
nelle opere d’arte, considerandole analiticamente: procedimento legit-
timo d’indagine, a cui non si possono negare nemmeno i prodotti
d’arte, e necessario perché esso introduce a conoscere fattori spirituali,
altrimenti inavvertiti, della concezione artistica.

Le ripetizioni di schemi iconografici prestabiliti implicano una


tradizione iconografica che viene trasmessa e rispettata dagli artisti
medievali ed anche rinascimentali, non solamente in prodotti artistici
meccanici, privi di ispirazione viva, ma perfino in altissime creazioni
come gli affreschi di Giotto a Padova (ad esempio nella scena della
Resurrezione di Lazzaro), nella Sant’Anna di Leonardo e nella Pietà
vaticana di Michelangelo:

“A chi, osservando in codesto modo parziale, ricerchi nelle opere


d’arte certi tratti generici nel rappresentare le immagini (composizione
generale delle figure, gesti e loro espressione; particolarità di vestiario,
di sfondi, ecc.) si presenta ovvio un fatto importante: quando un
soggetto ricorra di frequente nell’arte, le sue rappresentazioni, se pur

18
R. Bianchi Bandinelli, “Roma. Arti figurative. Da Teodosio alla fine dell’Impero
d’Occidente (476 d. C.)”, vol. 29 (1936), pp. 729-745, citazione è da p. 744.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

di tempi, di luoghi, di artisti diversi, mostrano somiglianze e ripeti-


zioni, ora limitate ad alcune parti, ora più vaste, spesso cosı̀ estese da
dimostrare l’accettazione di uno schema iconografico prestabilito. Né
questo si vede soltanto in quei prodotti inferiori d’arte dove si po-
trebbe spiegare come ripetizione meccanica, fuori d’ogni ispirazione
viva; si verifica perfino in altissime creazioni: per esempio gli affreschi
di Giotto a Padova (p. es.: Resurrezione di Lazzaro, il cui schema
iconografico è già in una miniatura del secolo VI nel codice purpureo
di Rossano); nella S. Anna di Leonardo, con una sovrapposizione di
figure già usata da un secolo; nella Pietà vaticana di Michelangelo, che
ha precedenti di composizione fin dal Trecento.
Da ciò si potrebbe dedurre che a nulla giovino gli studı̂ iconografici nel
definire il carattere e il valore delle opere d’arte, anzi che essi lo
avversino, tutte eguagliandole in somiglianze di soggetto e di tratti
generici; e per contrario, col porre in evidenza ciò che vi è di tradizio-
nale nelle opere d’arte, quegli studı̂ fanno risaltare quanto esse hanno
di più individuale, in altre parti a cui gli artisti stessi, ideandole,
intesero assai più che all’invenzione iconografica.
In questa, per diversi motivi gli artisti non rifuggirono da quelle
ripetizioni, e spesso si adattarono a vere tradizioni iconografiche.
Motivo non raro furono la scarsa facoltà o l’inerzia dell’immaginare,
favorite dall’uso frequente delle copie e di serbar memoria di composi-
zioni e di particolari d’opere d’arte in taccuini di disegni. Ma un
motivo assai più forte, e d’arte, fu che i soggetti ripetutamente e a
lungo trattati, dopo essere giunti, anche attraverso una lenta elabora-
zione, a comporsi in un insieme estremamente chiaro, o soddisfacente,
o decifrabile subito da tutti, furon poi mantenuti appunto perciò in
quelle loro compiute linee iconografiche (...).”

Risultato “non trascurabile” degli studi iconografici è il decifra-


mento dei soggetti, che, se può apparire indifferente alla più pura
contemplazione dei valori più profondi e universali dei capolavori,
porta a uno dei risultati più notevoli nello studio delle opere d’arte:
trovare tra opere e cultura del tempo relazioni altrimenti sconosciute,
dalle quali l’opera è spiegata ed acquista nuovo valore per la storia
del pensiero:

Risultato non trascurabile degli studı̂ iconografici è spesso il sicuro


deciframento dei soggetti, anche se possa essere indifferente alla più
pura contemplazione dei capolavori, intenta a ciò ch’essi hanno di più
profondo e universale. Quel deciframento può condurre l’iconografia a
uno dei suoi risultati più notevoli: a ritrovare tra le opere d’arte e la
cultura del loro tempo relazioni altrimenti non sospettate, o non bene
accertate, dalle quali l’opera d’arte è chiarita e acquista nuovo valore
per la storia del pensiero (...).”.
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

Asserzioni esemplari, coraggiose e solitarie in Italia, molto attente


a procurare risposte inoppugnabili a critiche aspettate, niente affatto
scontate nel clima antigermanico e crociano del tempo, che scaval-
cano qualche decennio, dagli inizi del secolo al secondo dopoguerra,
di ostilità e sufficienza in Italia verso i contributi iconografici alla
storia dell’arte: la ostilità nei confronti delle metodologie connesse
con la filologia germanica, e in particolare contro gli iconografi, il cui
campo di interesse è il contenuto, non la forma dell’arte, era stata
mostrata da intellettuali nazionalisti come Ojetti e storici dell’arte,
come Longhi, seppure allievo di Toesca, che aveva proposto di
depennare gli iconografi dalla categoria degli storici dell’arte19.
Nella voce “Musaico” Toesca afferma il valore non normativo
della classicità in arte. Il mosaico è la forma con cui il Medioevo
meglio espresse i concetti religiosi in uno stile sempre più “purifi-
cato” da quanto restava della classicità, intento ora ad astrazioni e
simboli:

“Ma l’arte cristiana del Medioevo, e fino dal sec. IV al VI, diede nuovi
sviluppi al musaico murale, formandone la più insigne veste delle
chiese soprattutto nelle absidi, in cui essa doveva adombrare in forma
più schietta le nuove credenze sotto specie di visibile rivelazione. Per
esprimere i nuovi concetti religiosi l’arte trovò allora uno stile sempre
più purificato dai residui della classicità, intento ognora più ad astra-
zioni e simboli (...).”.

La specifica citazione dei mosaici absidali è parallelo alla defini-


zione di Lionello Venturi del mosaico absidale di Sant’Apollinare in
Classe come “prima, meravigliosa e perfetta pagina paesistica” in
arte20. Il messaggio trasmesso al lettore dal concetto di purificazione
dall’arte classica, che conferisce pari valore artistico alla astrazione e
simbolismo del Medioevo ed al naturalismo della classicità, era una
eresia nell’Italia quegli anni.
Nelle opere musive il Medioevo raggiunse la maggiore altezza,
rispettando la natura del materiale impiegato nei mosaici, traendone
cosı̀ effetti di trascendente semplificazione della forma. Nel mosaico
bizantino di Sant’Apollinare in Classe sono pienamente sviluppati gli
intenti dell’arte medievale; ogni riflesso classico vi perde vigore e vi si
vedono le concezioni più nuove in una forma simbolica che dà al

19
I brani riportati nel testo sono dal vol. 18, del 1933, della E. I., pp. 699-700.
20
Vedi Capitolo 8, paragrafo b.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

mosaico l’aspetto di prezioso tappeto: le “schematiche semplifica-


zioni” ed i “moltiplicati splendori cromatici (...) affascinano l’occhio
e liberano dal sensibile la fantasia”. Infine, un’opera musiva è riuscita
quando tende a effetti decorativi e cromatici ed evita di simulare con
il plasticismo ed il naturalismo delle figure i modi di affreschi e
dipinti a olio. Toesca sembra tener conto del dibattito sul muralismo
– il manifesto sul muralismo di Sironi è del 1932 –21, quando esprime
il suo giudizio sulle caratteristiche che debbano avere, per essere
considerati riusciti, i mosaici antichi e, appunto, quelli moderni:

“Questa [scilicet: la tecnica musivaria], scindendo il colorito in staccate


unità cromatiche, doveva favorire il semplificare la forma plastica, il
trasporla in modi lineari, il prevalere delle schematizzazioni decorative
sugl’intenti di rappresentazione naturalistica. E per vero, senza volere
limitare nessuna possibilità all’arte e alla tecnica dinnanzi ai numerosi
monumenti dell’arte musivaria del Medioevo e moderna, bisogna
riconoscere che le opere in cui essa raggiunse una propria maggiore
altezza sono quelle in cui più rispettò la natura del proprio materiale
pittorico senza forzarne la capacità di fusione cromatica, anzi valendosi
appunto del frazionamento del colore nelle tessere, della loro diversa
inclinazione sulla superficie muraria e del conseguente vario rifrangersi
della luce nella materia vitrea, per trarne suoi particolari effetti di
leggerezza, di vibrazione, di trascendente semplificazione della forma.
Le pareti a musaico degli altari della basilica Vaticana, condotte
levigatamente con innumerevoli gradazioni di tinte per simulare e
sostituire dipinti a olio o affreschi, sono monumento d’ingrata laborio-
sità; i musaici del sec. IX nelle basiliche romane, apparentemente rozzi
entro i loro limiti di veste decorativa, sono invece improntati a sottile
senso d’arte.”22.

e. Le voci altomedievali e duecentesche


Nelle voci altomedievali, Toesca ripropose l’interpretazione filobi-
zantina del Medioevo. Gli stucchi di Civate sono “finemente bizanti-
neggianti” e i pittori degli affreschi si rivolgono ai modi bizantini; a
Sant’Angelo in Formis, gli affreschi sul portale sono da attribuire a
pittore bizantino o a qualche immediato discepolo degli artisti bizan-
tini chiamati a Montecassino dall’abate Desiderio, gli affreschi con le
storie degli eremiti sono forse di un pittore bizantineggiante del

21
Vedi Capitolo 9, paragrafo b.
22
Le citazioni sono dal volume 24 del 1934, pp. 80 e 81.
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

secolo XIII, gli affreschi dell’interno derivano dall’arte bizantina


modifcata con accenti propri nel colore e nelle espressioni. Per il
Duecento, Cimabue “osserva la maniera bizantina nella composi-
zione, nella fattura pittorica e nell’effetto totale”, possiede a fondo le
formule bizantine, modifica, “ma non altera lo stile bizantino intera-
mente posseduto” e ne ricrea la grandezza e l’attrazione religiosa; la
pittura romana del Duecento è sempre più penetrata di influssi
bizantini, Cavallini e Torriti scelgono dalla pittura bizantina le forme
più classicheggianti; Giunta accetta “i canoni idealistici della pittura
bizantina, che allora esprimeva una sua tensione patetica” in modi
astratti e convenzionali; Duccio riesce a intendere con nuova fre-
schezza i modi più eletti dell’arte bizantina ed i suoi colori rammen-
tano la gamma delle miniature bizantine più delicate, liberata dalle
lumeggiature frastagliate; e anche Giotto, che pure piega le formule
bizantineggianti a esprimere il suo senso plastico,

“a guardare intorno, non dalla pittura gotica, che attenuava all’estremo


o sopprimeva ogni valore plastico, e nemmeno dalla scultura – troppo
diversa nei suoi mezzi – poteva avere avviamento, ma sı̀ dalla pittura
bizantina, o bizantineggiante, che insisteva nella modellazione, anche
se mediante formule.”23.

f. La voce romanista “Bizantina, Civiltà” ed il


“Medioevo bizantino” di Pasquali
L’affidamento delle parti della voce “Bizantina, Civiltà” cadde, dun-
que, sotto il periodo di direzione di Ojetti. Scrivendo a Gentile il 20
ottobre del 1925 della parte “Arte bizantina”, Ojetti dice di non
avere, come Gentile, una grande stima di Diehl; l’ideale redattore
della parte sarebbe stato per lui Dalton, che, per ragioni di anzianità,
aveva però rifiutato nonostante calorosi inviti. Quanto a Millet, un
altro dei nomi fatti, non era riuscito a vederlo a Parigi. Dunque, a
Diehl aveva raccomandato di scrivere solo di arte bizantina fuori
d’Italia e di

“non seguire la moda recente che forma l’arte bizantina quasi solo
sugli stampi orientali, perché sarebbe strano che proprio l’Enciclopedia
Italiana accettasse questa diminuzione della incontrastabile origine
romana dell’architettura bizantina.”.

23
La citazione su Giotto è presa dal volume 17 del 1933, p. 212.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Diehl aveva accettato le due condizioni poste da Ojetti. La data


prevista per la conclusione del lavoro della voce era il 1926, ma non
fu rispettata. Il 21 novembre 1927 Ojetti informò Gentile che l’archi-
tettura bizantina era rientrata nella parte “Arte” di Diehl, dopo una
prima idea di affidarla a Ugo Monneret de Villard, sul quale fu
messo un veto da Giovannoni in quanto “ultra-strzygowskiano”; per
“Arte bizantina” era previsto Muñoz che dava fiducia in quanto
ormai convertito al romanesimo; in ogni caso, rammenta Giovan-
noni, teniamo conto che “noi romanisti affermiamo derivata dall’Im-
pero” e non dall’Oriente l’architettura bizantina:

“A Milano il Tumminelli purtroppo non m’ha mostrato i contratti


preparati dal Giovannoni per l’architettura armena con lo Zurabian,
per l’architettura bizantina con il Monneret de Villard. Io darei allo
Zurabian tutta l’arte armena [redatta poi, con la direzione di Toesca,
da De Francovich]. Se siamo d’accordo, fagli mandare pure il con-
tratto. Ma prima ti prego di meditare questo passo d’una lettera che il
Giovannoni mi scriveva il 25 d’ottobre:
«Per la Enciclopedia trovo che il nome di Munoz come titolare del-
l’arte bizantina può andar molto bene, se egli esca dal torpore per cui
oggi conclude poco o nulla. Non certo la coltura gli manca, e quanto
alle tendenze orientalistiche parmi che recentemente le abbia molto
attenuate per rivolgersi al romanesimo.
Ma sarà il caso di trattare anche l’Architettura? I monumenti bizantini
sono, più ancora dei romani, organismi costruttivi ideati con grande
sapienza statica e frutto di una grande tradizione tecnica (che noi
romanisti affermiamo derivata dall’Impero), su cui si è sovrapposta la
ricchissima decorazione, come un arazzo. Tutto un primo capitolo
deve quindi essere tecnico, come ad es. sono stati tecnici gli studi dello
Choisy, del Rivoira, dello Zurabian pilota dello Strzygowski. Per
questa parte dunque Munoz non è a posto.
Con chi sostituirlo? Proprio non saprei tanto sono indietro questi studi
tra noi. Il Monneret de Villard lo potrebbe se avesse la testa a posto e
non fosse ultra-strzygowskiano (bella parola!). Forse meglio ricorrere a
qualche giovanotto serio e colto, come ad esempio il Reggiori, che
lavori un po’ di ricompilazione.».”.

Ojetti, dunque, escluse lo Zurabian, perché più ostinato dello


Strzygowski nel vedere nell’architettura romanica e bizantina una
derivazione da quella armena,

“invece che dall’architettura nostra, cioè romana. E proprio noi dob-


biamo lasciarglielo dire nell’Enciclopedia Italiana?”.

Giovannoni, da parte sua, ebbe comunque a recriminare ancora


L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

nel 1938 sulla lesa romanità di alcuni autori di voci: Schlosser


afferma, “purtroppo nella Enciclopedia Italiana, che la cupola di S.
Maria del Fiore è di derivazione orientale”24.
Ojetti propose di tornare a una sua proposta del 1925 e di
assegnare l’arte bizantina fuori d’Italia a Diehl, “che è ancora tra i
più moderati nel favorire la tesi anti-romana dello Strzygowski e che
ho già ‘ammonito’” al riguardo, e l’arte bizantina in Italia al Muñoz;
e poi vedere se aggiungere architettura bizantina come tecnica co-
struttiva dandola allo stesso Giovannoni25.
Conclusa la purga antiorientalista di Ojetti-Gentile, la voce “Bi-
zantina, civiltà” apparve alla fine suddivisa in cinque parti, redatte da
tre studiosi italiani e due stranieri: Angelo Pernice, libero docente
della Università di Firenze e autore di altre voci bizantine per
l’Enciclopedia, scrisse “Storia dell’impero bizantino”; Giannino Fer-
rari, rettore della Università di Padova, “Diritto”; Giorgio Pasquali,
professore all’Università di Firenze, “Letteratura”; Charles Diehl,
“Arte”; Egon Wellesz, storico della musica e compositore viennese,
“Musica”. La voce “Bizantina, Civiltà” occupa quasi cinquanta pa-
gine del settimo volume del 1930, un’estensione che è testimonianza
di una insolita preoccupazione. Delle cinquanta pagine dodici sono
dedicate all’arte; a confronto, “Arte carolingia”, nel volume 9, ne
occupa tre, “Egitto. Arte”, nel volume 13, ne occupa sei, “Roma.
Arte” (dalle origini alla tardoantichità), nel volume 29, ne occupa
trentadue, “Roma. Roma medievale. Arti figurative”, nello stesso
volume 29, ne occupa quattro26. I due studiosi stranieri erano ben
autorevoli: l’anziano Diehl era ormai un decano degli storici dell’arte
bizantina; Wellesz, invece, era conosciuto come studioso di storia del
canto, dell’innografia, delle sacre rappresentazioni e, soprattutto,
della musica bizantina; su quest’ultima aveva pubblicato nel 1927 un
manuale in tedesco; nel 1936, Wellesz partecipò con un contributo
sulla musica al V Congresso di Studi Bizantini di Roma27.

24
Discorso inaugurale in Atti del I˚ Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura, [Firenze,
Palazzo Vecchio] 29-31 ottobre 1936-XV (Firenze, 1938-XVI), p. ix.
25
La lettera di Ojetti a Gentile è conservata alla Biblioteca Nazionale di Firenze come le
precedenti dell’epistolario Gentile-Ojetti.
26
”Bizantina, civiltà”, in E. I., vol. 7 (1930), pp. 120-167: A. Pernice, “Storia dell’im-
pero bizantino”, pp. 120-141; G. Ferrari, “Diritto”, pp. 141-148; G. Pasquali, “Letteratu-
ra”, pp. 148-154; C. Diehl, “Arte”, pp. 154-165; E. Wellesz, “Musica”, pp. 165-167. M.
Aubert, “Carolingia, Arte”, vol. 9 (1931), pp. 119-121; G. Farina, “Egitto. Arte”, vol. 13
(1932), pp. 565-570; G. Giovannoni e R. Bianchi Bandinelli, “Roma. Roma Antica.
Architettura classica, Architettura cristiana, Arti figurative”, vol. 29 (1936), pp. 714-745.
27
E. Wellesz, Byzantinische Musik (Leipzig, 1927); “Lo stato attuale delle ricerche nel
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

Diehl comincia la sua parte dichiarando l’arte bizantina mal


compresa e giudicata; “organismo vivo”, l’arte bizantina è stata
giudicata come continuazione e decadenza dell’arte romana fino a
cinquant’anni prima e come arte immobile e statica nel tempo:

“L’arte bizantina – che forse converrebbe chiamare arte cristiana


d’Oriente – è stata per lungo tempo mal compresa e mal giudicata.
Fino a cinquant’anni fa’ era considerata spesso come continuazione e
decadenza dell’arte romana classica; soprattutto, era rappresentata
come un’arte immobile, incapace di progressi e di cambiamenti, e che
si sarebbe limitata, per secoli, a ripetere servilmente le formule e i temi
creati nel sec. VI da qualche artista di genio. Oggi sull’arte bizantina ci
sono idee più esatte e più giuste.”.

Diehl assegnò all’arte bizantina una precoce data di nascita nel


IV secolo e propose un periodo di formazione dal IV al VI secolo:
per questo periodo “per lungo tempo è stata attribuita a Roma una
influenza preponderante e quasi esclusiva; ma oggi, senza voler
negare assolutamente questa influenza, molti inclinano, dopo gli
studı̂ dello Strzygowski, nel risolvere la questione delle origini del-
l’arte bizantina nell’Oriente” (quell’inciso del non negare assoluta-
mente l’influenza romana non si sa se pensarlo una concessione alla
direzione dell’Enciclopedia o una inserzione spuria). Diehl accettò
però la tesi di Ainalov e altri di tradizioni dell’antichità classica
ancora vive nelle metropoli del Mediterraneo orientale. Segue una
prima età d’oro con Giustiniano, poi un periodo di crisi con la lotta
iconoclastica, una seconda età d’oro, “forse la più brillante che abbia
mai avuta la storia bizantina”, dal X al XII secolo, nella quale
diviene “l’arte regolatrice d’Europa”; infine, una ultima rinascenza
con i Paleologi dal XIV al XVI secolo. Diehl fornı̀ anche un pano-
rama della miniatura bizantina, in questo ampiamente indebitato con
la divisione, che era stata data da Ainalov e poi da Millet, Morey e
Friend Jr, tra arte alessandrina, “tutta penetrata di spirito antico”, e
“tradizione orientale, più realistica, più drammatica e anche più
infatuata dell’ornamentazione elegante e ricca”. Anche nella icono-
grafia degli episodi del Vangelo si vedono contrapposte la tradizione
alessandrina e quella antiochena. Toesca stesso, sembra aver parteci-
pato alla scelta delle illustrazioni, alcune anche a colori, per la parte

campo della musica bizantina”, Estratto dal V Congresso Internazionale di Studi Bizantini,
Roma, 20-26 settembre 1936, Studi bizantini e neoellenici 6 (1936) (Roma, 1939).
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

sull’arte: tra di esse sono una raffinata serie di architetture poco


conosciute (Arta, Dafnı̀, San Luca in Focide, Meteora, Mistrà,
Salonicco, Stilo, il Palazzo di Costantino Porfirogenito e le mura di
Costantinopoli: quasi tutte queste foto sono dalle Staatliche Bild-
stelle di Berlino), inevitabili dettagli dei mosaici ravennati di Teo-
dora (Teodora e figure del seguito) e Giustiniano (solo figure del
seguito), i mosaici di Monreale e Dafnı̀, un buon gruppo di minia-
ture (la Bibbia Regin. gr. 1, le Omelie di Giacomo Coccinobafo, il
Cosma Indicopleuste ed il Menologio di Basilio II della Biblioteca
Vaticana; la Genesi di Vienna), oggetti di oreficeria dal tesoro di San
Marco e avori, tra i quali ultimi sono due riproduzioni del calamaio
del tesoro del Duomo di Padova che Toesca aveva analizzato in
“Cimeli bizantini” del 190628.
L’arte bizantina fu la sola parte della voce “Bizantina, civiltà” ad
avere un aggiornamento nella Appendice I del 1938 dell’Enciclopedia
Italiana, la cui stesura fu affidata a Cecchelli che si era convertito da
denigratore della civiltà bizantina, ai tempi del Primo Convegno
Nazionale di Studi romani del 1929, a suo studioso. Cecchelli si
limitò nell’aggiornamento a citare l’approfondito esame che le nuove
scoperte di opere bizantine in quegli anni imponevano per l’arte del
tardo impero, cosı̀ da obbligare a riconsiderare con più organici e
documentati orientamenti il problema formativo dell’arte bizantina29.
La parte storica di Ferrari sulla civiltà bizantina è una trattazione
“obiettiva e pacata”, che parte dalla inaugurazione della nuova Roma
nel 330 e si conclude con la conquista ottomana nel 1453. La parte
letteraria di Pasquali è invece polemica30. In una premessa nella
quale divaga dal suo tema dando un giudizio complessivo su Bisanzio
e specialmente sulla sua forma politica (che sarebbe spettato piutto-
sto alla parte storica di Ferrari), Pasquali rifiutò l’idea che la storia
bizantina cominci con la fondazione di Costantinopoli (come scrive
Diehl nel suo pezzo sull’arte) e rivendicò alla latinità i secoli IV-VI,
facendo di Giustiniano l’ultimo sovrano della romanità; Pasquali
anticipò di qualche anno con questa posizione quanto fu stabilito
dalla Mostra della Romanità del 1937:

28
Citazioni da p. 154.
29
C. Cecchelli, “Bizantina, civiltà. Arte”, in E. I. Appendice I (1938), pp. 281-284; vedi
Capitolo 11, paragrafo a.
30
Sui contributi di Pasquali alla Enciclopedia Italiana vedi Cagnetta, Antichità classiche
nell’Enciclopedia Italiana, Capitolo II, “Pasquali, i filologi e il ‘vestito di Arlecchino’, pp.
29-89, e p. 70 sulla voce “Bizantina, Civiltà”.
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

“Si suol chiamare bizantino quel periodo della letteratura greca che si
estende dall’ascesa al trono di Giustiniano (527 d.C.) alla caduta di
Costantinopoli in mano dei Turchi Osmanli.”.

Il termine di letteratura alessandrina, al posto di letteratura


bizantina, che è usato da alcuni, sembra a Pasquali inadeguato:
“mentre durante il periodo ellenistico riescono a mantenersi in vita e
a esercitare forte influsso centri di cultura indipendenti da Alessan-
dria”, tra i quali, sottolinea Pasquali (polemicamente), “da un certo
punto in poi anche e principalmente Roma”, durante l’era bizantina
tutta la vita culturale gravita verso Costantinopoli e la corte impe-
riale. Se il limite cronologico inferiore della civiltà bizantina è indi-
cato senza esitazione nel 1453, il limite superiore è invece dubbio.
Krumbacher lo pose all’età di Costantino, una idea “teoricamente
legittima”. Eppure il secolo IV è dominio indiscusso della filologia
classica, gli spiriti classici sono ancora rigogliosi, la letteratura è
congiunta con quella del passato con continuità e buona parte dei
letterati sono pagani. “Al tempo di Costantino lo stato è ancora
puramente romano; la lingua della stato è la latina”. Il confine tra
l’antichità e l’epoca bizantina è posto all’anno 529, che segna la
vittoria del Cristianesimo con la decisione di Giustiniano di chiudere
le scuole ateniesi dei filosofi,

“stabilendo cioè che la sola scienza riconosciuta dallo stato è quella


cristiana e che scienza non cristiana non può essere tollerata. Quest’av-
venimento segna per davvero un rivolgimento di tempi, ed è quindi
singolarmente atto a essere considerato come un confine tra due età.”.

L’opera più grandiosa di Giustiniano, però, il Corpus è in latino


ed accoglie e codifica tutto il diritto romano precedente. Romani
sono stati sempre gli imperatori che lo precedettero: solo dopo
Giustiniano gli imperatori saranno tutti greci o orientali grecizzati e
l’elemento greco cresce “con rapidità di valanga” nella legislazione
posteriore al Corpus.
Cominciano ora le note di disprezzo per la decadenza di Bisan-
zio, regno di un dominio assoluto monarchico dove il sovrano non è
più princeps, ma basileus, con il popolo “sempre più rigorosamente
escluso da ogni partecipazione alla vita statale, ridotto sempre più
alla mercé degl’impiegati, i quali sono essi stessi alla mercé dei
superiori, cioè della corte”; dominio assoluto di un unico e potere
preponderante di coloro che gli stanno vicino, elementi che ricor-
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

dano gli imperi orientali: velate critiche e allusioni alla Roma musso-
liniana? Certamente, le lodi di Gioacchino Volpe del pezzo di Pa-
squali allontanano questa possibilità. Quanto alla Chiesa, quella
bizantina discute per secoli e secoli sulla natura umana e divina di
Cristo e resta impantanata in controversie che in Occidente erano
state superate; il monachesimo è fatto di monaci contemplativi e
intriganti che niente hanno a che spartire con i monaci e frati attivi e
popolari dell’Occidente:

“la Chiesa greca chiama sé stessa «ortodossa»; ma questo nome di cui
essa va superba, non è, chi ben guardi, se non un testimonium pauperta-
tis. (...) La devozione greca rimane rivolta verso il di là, rimane
meramente contemplativa; mentre già i benedettini, i soli monaci
dell’Occidente, operano per l’agricoltura e per la cultura; mentre i
nuovi ordini non più di monaci ma di frati, i domenicani e i france-
scani, si rimescolano al popolo da cui sono usciti, operando e benefi-
cando, il monachesimo greco cerca di guadagnarsi la vita eterna con
l’ascesi e la preghiera, alle quali viene attribuito un potere quasi
magico. I monaci bizantini sono stati spesso fior d’intriganti (... ).”.

Da queste considerazioni scaturiscono il giudizio di inferiorità


sulla civiltà bizantina ed una domanda di fondo: “Merita ora questa
civiltà rigida e arcaistica, questa civiltà, diciamo pure inferiore, che
uno si affatichi a studiarla?” Pasquali decide che vale la fatica in
quanto la civiltà bizantina è madre di tutte le civiltà dell’Europa
orientale; essa ha invece solo

“venato leggermente di colori greci l’umanesimo, in origine tutto


latino, degl’Italiani, che era allora già a buon punto; e ha specialmente,
trasportandoli tra noi, salvato dalla distruzione i testi classici dei greci,
rendendo cosı̀ possibile il nuovo umanesimo, questo sı̀, veramente
greco, che incomincia col principio del sec. XIX e dà alla cultura di
questo secolo la sua impronta.”.

Corollario della penetrazione della cultura bizantina nella Europa


orientale è il fatto che le civiltà slave e dei Balcani sono erette su base
bizantina, cosa che spiega l’abisso tra Russia e Occidente, “che il
bolscevismo ha in questo ultimi anni scavato ancor più profondo”.
Quanto alla letteratura bizantina – ora Pasquali viene alla esposi-
zione letteraria che sarebbe stata propriamente il suo tema –, non
vale la pena studiarla come “complesso di valori estetici, o come
espressione, documento di una cultura”, “nonostante le proteste
isolate di qualche bizantinista più appassionato che giudizioso”. La
 PARTE II: ROMA O BISANZIO, ROMA O PARIGI

letteratura bizantina manca di elementi personali, lirici, è rivolta


verso il passato: se vi è penetrato qualche cosa di moderno, ciò è
avvenuto “contro le intenzioni dell’autore, un felice errore”31.
Nel 1941, Pasquali pubblicò su Civiltà moderna un lungo articolo
intitolato “Medioevo bizantino”, che rievoca i tempi ‘bizantini’ di
fine Ottocento e la visione di Bisanzio come lussuria, fasto e crudeltà
messa in scena da La nave dannunziana. Pasquali si giovò di letture
di testi da poco pubblicati, come La carne, la morte e il diavolo nella
letteratura romantica di Mario Praz, del 1930, dell’articolo di France-
sco Flora sulla Cronaca Bizantina, anch’esso del 1930, e, forse, del
libro di memorie di Sommaruga del medesimo anno 1941 del suo
articolo32. In “Medioevo bizantino” Pasquali non mutò il giudizio su
Bisanzio dato nella Enciclopedia Italiana, anche se lo espresse in
maniera più narrativa e blanda, mitigata anche dalla constatazione
del sorgere in quegli anni di cattedre e centri di studio bizantini in
molte nazioni. La letteratura bizantina è detta da Pasquali “fra le più
noiose del mondo”, sentenza divenuta celebre: ogni volta che noi
leggiamo uno scrittore bizantino, vi sentiamo “qualcosa di stantio”.
Lo studio di Bisanzio, che ebbe come madre la politica di espansione
dei paesi europei verso Oriente, ebbe come compare di battesimo il
positivismo, che nega il concetto di valore, che per Pasquali) Bisan-
zio non possiede. Il solo periodo della letteratura bizantina che
costituisce una eccezione è il XII secolo, l’età dei Comneni (e in
particolare il periodo del regno di Manuele II), che rappresentano
proprio la dinastia di imperatori bizantini più occidentalizzata. Bisan-
zio fu città orientale, salvata nel giudizio di Pasquali solo per la
missione storica, “assolta prodigiosamente”, di baluardo militare per
l’Europa dall’assalto dall’Oriente di Persia e Islam; la sua forma di
governo “disumana” era la sola possibile in una fortezza assediata:

“A Bisanzio, almeno da Giustiniano in qua il cittadino è sostituito dal


suddito, il quale verso il sovrano e i suoi rappresentanti, i magistrati,
ha soltanto il dovere dell’ubbidienza e non ha nessun diritto, cosı̀ come
gli stessi magistrati, onnipotenti di fronte al popolo, sono meri stru-
menti della mano dell’autocrate. Questi a suo arbitrio sceglie i fini
della propria politica e determina i mezzi per raggiungerli.

31
Citazioni nel testo da pp. 148-150.
32
M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (Milano – Roma, 1930;
seconda edizione accresciuta, Torino, 1942). F. Flora, “La «Cronaca Bizantina»”, Pègaso 2
(1930-VIII), pp. 681-698. A. Sommaruga, Cronaca Bizantina (1881-1885). Note e ricordi
(Milano – Verona, 1941).
L’ENCICLOPEDIA ORIENTALISTA 

Una tale forma di governo è disumana, ma è la sola possibile in una


fortezza assediata da tutti i lati.

Riferimenti all’attualità del 1941? La discussione su Bisanzio fa,


comunque, con Pasquali un tonfo all’indietro, almeno al tempo della
formazione accademica del filologo: gli studiosi francesi sostenitori
della civiltà bizantina della secondà metà dell’Ottocento avrebbero
legittimamente domandato quale sistema democratico e umano
avesse in mente Pasquali per l’altomedioevo occidentale da porre
come modello di democrazia e umanesimo non raggiunto dalla
33
civiltà bizantina da lui giudicata cosı̀ negativamente .

33
Pasquali introdusse anche considerazioni di critica figurativa: citò il Salterio di Parigi
come un prodotto del Monastero di Studio, confondendo questo manoscritto con i salteri a
illustrazioni marginali che erano stati effettivamente considerati collegati da più studiosi allo
Studio, e lo ritenne “un tentativo di arte realistica”, “un fatto che rimane isolato”: giudizi
privi di competenza. G. Pasquali, “Medioevo bizantino”, Civiltà moderna 13 (1941-XX),
pp. 289-320; ristampato in G. P., Stravaganze quarte e supreme (Venezia, 1951), pp. 93-129,
citazioni da pp. 99, 101, 104-105, 123-124.
PARTE III

CROCIANI, COMUNISTI E
RAVVEDUTI
12

IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO

“(...) tanti altri, veramente colpevoli di piaggeria, di


volgare procacciantismo, ora tornano a vita, e rientrano
all’Università”
Pietro Toesca, da una lettera a Bernard Berenson
datata 11 novembre 1945

“Pasquali aveva avuto, in passato, delle debolezze;


infantili debolezze, che, senza dubbio, non gli fecero
onore. Ma che il suo non fosse vero fascismo, lo ha
dimostrato meglio di tutto il fatto che oggi egli era
tenuto in disparte dagli organismi ufficiali delle scuole
italiane, dove tutti i mestatori e corruttori di ieri sono
ritornati ai loro posti.”
Ranuccio Bianchi Bandinelli, Necrologio di Giorgio
Pasquali, 1952, p. 566.

Con l’avvicinarsi della guerra in Italia ed il pericolo di bombarda-


menti si cominciò a mettere al riparo le opere d’arte trasportabili e a
ridurre in assetto di guerra, proteggendoli con impacchettature di
sacchetti di sabbia, i monumenti. A Roma, Monreale, Ravenna,
Venezia colonne romane e mosaici medievali sparirono ricoperti
dalle protezioni (figg. 112-113). Nessuno dei più celebri monumenti
1
bizantini subı̀ danni particolarmente gravi . Con la caduta del Fasci-
smo, la Liberazione e gli alleati in Italia cessò la denigrazione della
Francia. Cessò anche la retorica romanista che aveva viziato la
discussione su Bisanzio, salvo alcune appendici che i nostalgici ali-

1
F. Pertile, “Le opere d’arte in assetto di guerra”, La Rivista illustrata del “Popolo
d’Italia” 21, n 11 (novembre 1942), pp. 70-77. Cinquanta monumenti italiani danneggiati
dalla guerra, a cura di E. Lavagnino, prefazioni di B. Croce, C. R. Morey, R. Bianchi
Bandinelli (Roma, 1947).
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

mentarono. Le dichiarazioni di appartenenza alla civiltà occidentale


dei monumenti bizantini in Italia non comparvero più nelle pubblica-
zioni postbelliche e furono annullate nei nuovi studi. Gli scrittori
continuarono a usare figure bizantine come stereotipi di donne
italiane; cosı̀ fece Malaparte ne La pelle del 1949 descrivendo una
ragazza napoletana nell’episodio de “La vergine di Napoli”, come
aveva fatto Gadda nell’Adalgisa del 1944 paragonando a quello di
Teodora l’atteggiamento delle aristocratiche milanesi:

“Sedeva con le gambe penzoloni dal letto, e fumava assorta, in silen-


zio, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il viso raccolto fra le
mani. Pareva giovanissima, ma gli occhi aveva antichi, e un po’ sfatti.
Era pettinata con quell’arte barocca delle capere dei quartieri popolari,
inspirata all’acconciatura delle Madonne napoletane del diciassette-
simo secolo: i neri capelli, crespi e lucidi, gonfi di crine, di nastri, e
imbottiti di stoppa, si alzavano a guisa di castello, quasi reggesse sulla
fronte un’alta mitra nera. Qualcosa di bizantino era nel suo viso
pallido, stretto e lungo, il cui pallore traspariva sotto lo spesso strato di
belletto, e bizantino era il taglio dei grandi occhi obliqui e nerissimi
nella fronte alta e piatta. Ma le labbra carnose, ingrandite da un
violento sfregio di rossetto, mettevano un che di sensuale e d’insolente
nella delicata tristezza d’icona del viso.”2.

Mentre alcuni artisti e critici, come Giolli, sostenitore del valore


dell’arte bizantina, si schierarono con l’antifascismo e persero la vita
per questa scelta, rimasero invece ai loro posti, come si lamentò
appunto Toesca, persone che si erano fatte portavoce delle stupidag-
gini nazionaliste del fascismo e che avevano denigrato Bisanzio per
politica, colludendo moralmente con un regime infame colpevole di
tanti lutti anche tra i loro colleghi; si ritessé la vecchia trama, scrisse
Bianchi Bandinelli, solo con qualche colore diverso3. Parallelamente,
per quanto riguarda la nostra narrazione, restarono in piedi due
questioni sull’arte bizantina; la prima derivava dalle affermazioni
autorevoli di Pasquali e Longhi: l’arte bizantina è arte o no e vale la
pena di studiarla? La seconda riguardava gli strumenti di indagine:
gli studi iconografici con le loro “tabelle di concordanza” hanno

2
C. Malaparte, La pelle. Storia e racconto (Roma – Milano, 1949), pp. 59-60.
3
La frase di Bianchi Bandinelli, da “A che cosa serve la storia dell’arte antica”, pp.
10-11, del 1945, è riportata per esteso in epigrafe al Capitolo 6, paragrafo d. La frase su
Pasquali, messa in epigrafe al presente capitolo, continua, concludendo il necrologio, cosı̀:
“E che la stampa borghese quasi non ha preso nota della sua morte, e, se mai, ha posto in
evidenza le esteriori singolarità, non le qualità sostanziali che erano nella sua persona.”.
IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO 

validità o l’unico approccio valido è quello stilistico indicato da


Croce, l’intuizione estetica prediletta da quasi tutti gli storici del-
l’arte?
Frattanto, Lionello Venturi tornò dall’esilio, lesse conferenze a
Firenze (salutato dal rettore Piero Calamandrei come esule che
ritorna finalmente in patria) ed andò ad insegnare a “La Sapienza”,
appoggiato da Toesca, che cosı̀ si giustificò con Berenson: “Nè si
meravigli di questo! Devo pensare alla mia successione per il 1947, e
preferisco lasciarla a L. V. [Lionello Venturi] che a R. L. [Roberto
Longhi]”. Venturi succedette cosı̀ a Toesca; poi, quando Venturi
passò a Storia dell’Arte Moderna, De Francovich succedette a Ven-
turi (anche Toesca lo preferı̀ a Coletti e altri). In seguito, anche
Salmi entrò a “La Sapienza”, con l’appoggio di Venturi, nonostante
che Toesca gli preferisse Longhi “come antidoto al cosidetto ‘me-
todo’ di L. Venturi” e “per la troppo evidente superiorità del Longhi,
e la sua virtuale capacità di trattare del Medioevo, fin qui da lui poco
studiato”; tuttavia, Salmi, prosegue Toesca, ha vinto, ma la presenza
di Longhi, rimasto a Firenze, avrebbe giovato molto agli studenti per
il suo metodo che essi avrebbero messo a confronto con quello di
Venturi4.
Sfidano l’autarchia accademica italiana il ritorno di metodologie
d’indagine nate dalla archeologia e dalla filologia germaniche e riela-
borate soprattutto nelle università americane, dove molti studiosi
antinazisti si erano rifugiati.

a. La restituzione a Bisanzio delle conquiste romaniste


Van Gogh, Cézanne, Matisse e Picasso, dopo le sciocchezze di
giudizio prebelliche loro indirizzate, furono riabilitati dalla critica
italiana; da non grandi pittori, dannosi, inconsistenti, mostruosi,
simulatori, come li aveva definiti l’Arcangeli fascista, divennero mae-
stri geniali per l’Arcangeli postbellico, salvo il problema morale con
Picasso che era comunista, come già citato. Di Matisse in particolare
si parlò, finalmente, come di un genio che amava Bisanzio, citando

4
Le frasi di Toesca sono da lettere a Berenson del 25 marzo 1945, del 19 dicembre 1947
e del 26 settembre e 26 novembre 1949, conservate nella Biblioteca Berenson, Villa I Tatti,
Settignano (Firenze). La conferenza di Venturi all’Università di Firenze fu pubblicata su Il
Mondo del 5 maggio 1945, col titolo “Le origini della pittura contemporanea” e con una
premessa nella quale si riportava il saluto di Calamandrei.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

benignamente anche il malfamato Duthuit5. Quanto alla Enciclopedia


Italiana, già nella Prima Appendice del 1938 la voce “Bizantina
civiltà” era stata aggiornata per la sola sezione arte da Cecchelli che
premetté che “il più approfondito esame che da pochi anni si va
facendo dell’arte del tardo impero (secoli III-IV) obbliga a vedere
sotto nuove luci il problema formativo dell’arte bizantina. Vi sono
anche varie scoperte che concorrono a questi più organici e docu-
mentati orientamenti”. Tra i nuovi studi e scoperte Cecchelli men-
zionò i lavori di De Jerphanion sulle chiese rupestri della Cappado-
cia, i restauri dei mosaici di Santa Sofia di Whittemore, i mosaici di
San Salvatore in Chora, Dafnı̀ e Hosios Lucas, i lavori di Demus e
Monneret de Villard, la nuova edizione della Genesi di Vienna, i libri
di Ebersolt e Weitzmann sulla miniatura bizantina. Nella Seconda
Appendice, poi, uscita nel 1948 con Gaetano De Sanctis nuovo
direttore della Enciclopedia, alla voce “Bizantina, Civiltà” Agostino
Pertusi fornı̀ un repertorio di aggiornamenti bibliografici dichiarando
che l’evoluzione della civiltà bizantina era stata in quegli anni
(1930-1947) oggetto di studio “intenso e proficuo” e che erano ora
disponibili delle sintesi per arte e musica. Bettini, unico italiano che
si occupava principalmente di arte bizantina, scrisse la voce “Bizan-
tina, Arte” per l’Enciclopedia cattolica, nel 1949. Nonostante il nuovo
fervore di studi, nella Enciclopedia Universale dell’Arte la voce “Bizan-
tino”, del 1958, fu redatta da due stranieri, Viktor Lazarev e David
Talbot Rice, e da un solo italiano, Paolo Verzone, mentre la voce
“Bizantina, Arte” nella Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale,
del 1959, diretta da Bianchi Bandinelli, fu compilata dalla redazio-
6
ne . I monumenti bizantini dell’Adriatico, annessi a Roma dalla
storiografia fascista, vennero restituiti a Bisanzio.
Passata la retorica nazionalistica che aveva dichiarato San Marco
opera di cultura completamente italiana, Berenson, nel 1954, scrisse
per Il Corriere della Sera “San Marco Tempio e Museo Bizantino”,
affermando l’integrale bizantinità del monumento:

5
Longhi, “Matisse”. Vedi Capitolo 6, paragrafo f.
6
A. Pertusi, “Bizantina, civiltà”, in E. I. Appendice II 1938 / 1948 (1948), pp. 414-415. S.
Bettini, “Bizantina arte”, in Enciclopedia Cattolica, vol. 2 (Città del Vaticano, 1949), coll.
1685-1696; la voce su Bisanzio, oltre ad arte, comprende nello stesso volume della
Enciclopedia cattolica: “Bizantina letteratura” di Martino Jugie (coll. 1696-1699), “Bizantina
liturgia” di Placido de Meester, “Bizantina musica” di Giuseppe Ferrari (coll. 1704-1709),
“Bizantino, diritto canonico” di Acacio Coussa (coll. 1709-1712). P. Verzone, V. Lazarev,
D. Talbot-Rice, “Bizantino”, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. 2 (Venezia – Roma,
1958), coll. 623-712. “Bizantina, arte”, in Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, vol.
2 (Roma, 1959), pp. 108-114.
IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO 

“Nelle opere di Storia dell’Arte e in attendibili [l’aggettivo originale


inglese è “serious”] libri di guida si parla di San Marco di Venezia
come di un edificio a caratteri prevalentemente bizantini, e non po-
trebbe essere altrimenti. Tuttavia non saprei stabilire in quale misura il
pubblico colto, il pubblico cui sono destinati i seguenti paragrafi, abbia
preso cognizione di ciò”.

San Marco è “il più tipico, il più completo e godibile edifizio


bizantino che ancora esista”, al cui confronto Santa Sofia di Costan-
tinopoli è “angosciosamente vuota”, un freddo museo “abbandonato
da Dio”. All’interno di San Marco “non v’è colonna, capitello,
rivestimento, pulpito, figura che non sia bizantina o, in rari casi,
bizantineggiante”. La Pala d’oro, che Longhi nel suo “Giudizio sul
Duecento” aveva disdegnato in quanto opera di valore venale, ma
non opera d’arte, è per Berenson la più ricca e splendida opera di
smalto e la più alta e raffinata illustrazione che in tale genere ci abbia
tramandato l’arte bizantina, di gran lunga superiore a tutti gli altri
smalti medievali7.
Sui mosaici siciliani uscirono nel 1949 il libro del bizantinista
austriaco Demus e un articolo di Ernst Kitzinger. Tra gli studiosi
italiani, Salvini, lodando più volte i lavori di Bettini su Bisanzio, in
Mosaici medievali in Sicilia del 1949 mitigò l’appartenenza di quei
mosaici all’Occidente e la loro realizzazione da parte di maestranze
locali da lui sostenuta anni addietro8; alla civiltà romanica lasciò i
mosaici di Monreale, ma considerò la Martorana, Cefalù e la Cap-
pella Palatina dominati dall’arte bizantina “nelle sue molteplici for-
me”; sarebbe quindi erroneo il diffuso concetto “alimentato da
meschino campanilismo” di uno “svolgimento del mosaico siciliano
da uno stile prettamente bizantino verso una maniera sempre più
italo-bizantina o magari addirittura siculo-bizantina, ossia in sostanza
verso uno stile fortemente colorato di occidentalismo”9.
Toesca riconfermò la sua convinzione della paternità bizantina

7
B. Berenson, “San Marco Tempio e Museo Bizantino”, Corriere della Sera, 2 settembre
1954, p. 3.
8
Vedi Capitolo 9, paragrafo d.
9
O. Demus, The Mosaics of Norman Sicily (London, 1949); Die Mosaiken von San Marco
in Venedig, 1100-1300 (Baden bei Wien, 1935); Byzantine Mosaics Decoration. Aspects of
Monumental Art in Byzantium (London, 1948). E. Kitzinger, “The Mosaics of the Cappella
Palatina in Palermo: An Essay on the Choice and Arrangement of Subjects”, The Art
Bulletin 31 (1949), pp. 269-292; su Monreale Kitzinger pubblicò poi la monografia I mosaici
di Monreale (Palermo, 1960). R. Salvini, Mosaici medievali in Sicilia, citazioni da pp. 10 e
71-77.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

dei mosaici della Cappella Palatina nella introduzione ad una pubbli-


cazione con gran numero di riproduzioni del 1955. La monografia
era già stata pubblicata in edizione fuori commercio l’anno prece-
dente con introduzione di Filippo Di Pietro, che lamentava espressa-
mente come certi scrittori avessero cambiato velocemente opinioni
sui mosaici siciliani10. Per Toesca, le differenze stilistiche all’interno
dei mosaici o in rapporto agli altri mosaici siciliani del periodo, che
potrebbero far supporre maestranze di estrazione diversa, si ritrovano
ugualmente nella miniatura bizantina:

“(...) che l’opera e non soltanto da principio, sia stata condotta da


maestri bizantini non sembra dubbio: è dimostrato dalla presenza di
fondamentali qualità stilistiche; né questa è contraddetta dalla varietà
di fattura, d’interpretazione e anche di iconografia nei mosaici stessi, o
in rispetto degli altri mosaici di Palermo di Cefalù di Monreale,
mentre varietà anche maggiori si ritrovano nelle miniature bizantine.”.

Questi maestri dovevano provenire dai centri artistici bizantini


più attivi, “non certamente da Roma”, i cui mosaici hanno maniere
diverse anche se bizantineggianti, e “nemmeno da Venezia, dove non
si trova alcun mosaici che abbia con i mosaici siciliani più che le
affinità derivate dal ceppo comune” bizantino. La frase finale della
monografia è una dichiarazione di bizantinità dei mosaici e di gran-
dezza dell’arte bizantina:

“nei mosaici della Cappella Palatina quella varietà di maniere che vi si


trova, profondamente concordi nel loro essere, non sembra che il
11
diramarsi, nell’opera di diversi maestri, della grande Arte bizantina.” .

b. Il giudizio italiano su Longhi


Nel dopoguerra Salvini scrisse anche “Coralità dell’arte bizantina”
per Il Mondo, nel 1946, e “Apologia di Bisanzio” per La Rassegna
d’Italia, nel 1948, scritti che sono i migliori e più documentati
tentativi di interpretazione di Bisanzio di quel decennio in Italia; in

10
F. Di Pietro, La Cappella Palatina di Palermo. I mosaici (Milano, 1954), nota 26 pp.
66-67: i veloci cambiamenti di opinione contro i quali protesta l’autore per lo più
riguardano la datazione dei mosaici.
11
P. Toesca, La Cappella Palatina di Palermo. I mosaici (Milano, 1955), citazioni da pp.
22 e 23.
IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO 

essi Salvini difese l’arte bizantina dai pregiudizi sul suo valore
espressi a chiare lettere da Longhi e Pasquali. Di fronte alla scomu-
nica pronunciata per secoli dalla storiografia umanistica, si trattava di
demolire per Salvini due capisaldi critici su Bisanzio: quello della
mancanza di immaginazione degli artisti e quello della tradizione
classica presa come metro su cui giudicare il valore dell’arte bizan-
tina (Salvini cita Italienische Forschungen di Carl Friedrich von Rum-
hor, del 1827-1830, poi Byron, Duthuit, Rice e Berenson); dal
secondo discendeva che solo i periodi di rinascita classica a Bisanzio
erano apprezzati:

“Si trattava [per quei critici] di condurre una battaglia su due fronti;
sia contro la tradizionale negazione d’ogni capacità artistica al pittore
bizantino – già assurto ad esponente dell’indigenza immaginativa e
della carenza e della barbarie artistica dell’«oscuro» Medioevo –, sia
contro l’apprezzamento di maniera e gli attestati d’obbligo che l’ar-
cheologia bizantina era avvezza ormai a rilasciare (...) a tutto ciò che
apparisse resurrezione – o magari riesumazione – dell’ellenismo.”.

Salvini è uno dei pochi studiosi italiani che si scaglia apertamente


contro il “Giudizio” di Longhi su Bisanzio: “un critico della misura
di Roberto Longhi” propone oggi “di fare «retroso calle» postulando
poco meno che un ritorno alle posizioni totalmente negative della
critica degli umanisti”; per Longhi l’arte bizantina finisce con il
trionfo dell’iconoclastia, alla proibizione seguendo la prescrizione
delle ricette; di qui, l’arte bizantina è per lui similarte, in perfetta
analogia, conclude Salvini, con il giudizio di Pasquali sulla letteratura
artificiosa e pedantesca di Bisanzio12.
Bettini, più volte citato da Salvini come autorità nel campo
dell’arte bizantina, scrisse nel 1949-1950 e poi nel 1953 due reso-
conti sugli studi bizantini in Italia. Nel secondo lodò in particolare
l’attività dei centri di ricerca su Bisanzio negli Stati Uniti, il Dumbar-
ton Oaks Center for Byzantine Studies e il Department of Art and
Archaeology della Princeton University: “in ogni paese ci si occupa
di arte bizantina più che in Italia”13. L’attenzione del primo reso-

12
R. Salvini, “Coralità dell’arte bizantina”, Il Mondo, n 19, 5 gennaio 1946, p. 10;
“Apologia di Bisanzio”, La Rassegna d’Italia 3 (1948), pp. 1132-1141, citazioni da pp.
1132, 1133, 1135-1136.
13
S. Bettini, “Studi recenti sull’arte bizantina”, La critica d’arte, ser. 3, 8 (1949-1950),
pp. 135-147, citazioni dalle pp. 146-147; “Gli studi sull’arte bizantina”, in Università degli
Studi di Pisa, Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna, Atti del Seminario di Storia
dell’Arte, Pisa – Viareggio, 1-15 luglio 1953 (Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

conto, invece, era andata in buona parte a ribattere il “Giudizio” di


Longhi e quello di Pasquali; Bettini sembra comunque molto timo-
roso, a differenza di Salvini, ad attaccare Longhi:

“Qualche esagerazione [nel giudicare l’arte bizantina similarte] non


manca in queste parole: se dovessimo prenderle alla lettera, dovremmo
concludere che la civiltà bizantina non ebbe addirittura arte (come del
resto, dicesi, non ebbe vera poesia). (...)
Il prof. Longhi declassa quest’opera famosa [scilicet: i mosaici di San
Salvatore in Chora] a favore d’una tavola con una crocefissione deri-
vata dai giotteschi romagnoli [scilicet: il Cristo e San Francesco della
collezione privata fiorentina], forse per il tramite di maestro Paolo
Veneziano: opera la cui provincialità e occidentalità, probabilmente
dalmatica, è attestata se non altro dalla scritta in caratteri cirilliani (che
tradisce quindi l’ambiente slavo) ancora in buona parte leggibile sul
braccio trasversale della croce.”.

Bettini, che si era occupato molti anni prima degli influssi roma-
gnoli sull’arte bizantina, invita cortesemente Longhi a fare un viaggio
a San Salvatore in Chora per vedere la bellezza di quei mosaici. Poi
una sviolinata inaspettata verso Longhi: la sua critica è geniale ed
esemplare per gli studiosi della generazione di Bettini, che prosegue
ricordando gli studiosi che non si sono lasciati offuscare né dai miti
di Strzygowski, né da quello “russo-princetoniano” (sic!) ed attac-
cando Duthuit, il fine delle cui pubblicazioni sull’arte orientale
sarebbe rivalutare l’aspetto economico della sua collezione di opere
copte (un argomento che Bettini avrebbe fatto meglio a lasciar
perdere). Bettini è il solo bizantinista a dedicare tanta benevola
attenzione alla critica di Longhi, non certamente, comunque, il solo
storico dell’arte: al Primo Convegno Internazionale per le Arti Figu-
rative tenuto a Firenze nel 1948 con organizzazione di Ragghianti,
dove fu reso omaggio all’opera di Berenson, due sezioni furono
dedicate a problemi di estetica e metodologia e Longhi emerse in
esse come il critico più di grido del momento14.

Classe di Lettere e Filosofia, 1-2 [1954]), pp. 13-32. Su Bisanzio e la pittura romagnola
Bettini aveva letto un intervento dal titolo “Il rinnovamento dell’iconografia bizantina nel
suo ultimo periodo, anche per influenza della pittura romagnola” alla Decade Bizantina di
Ravenna, 27 aprile – 8 maggio 1937: A. A. Bernardy, “Studi bizantini a Ravenna nei Corsi
dell’Istituto Interuniversitario Italiano dal 1932 al 1937”, in Atti del V Congresso Internazio-
nale di Studi Bizantini, p. 21.
14
Atti del Primo Convegno Internazionale per le arti figurative, Firenze, Studio Italiano di
Storia dell’Arte, Palazzo Strozzi, 20-26 giugno 1948 (Firenze, 1948), che contengono, fra
gli altri contributi: C. Savonuzzi, “Roberto Longhi critico d’arte”, pp. 25-29; P. Meller,
“Iconologia e critica d’arte”, pp. 29-32; W. Weidlé, “Critique d’art et histoire de l’art”, pp.
IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO 

c. Contini e Garrison su Longhi


A parte la confusione generata da Salvini che attaccò Longhi e lodò
Bettini e da Bettini che lodò Longhi, due altre recensioni al “Giudi-
zio” vanno riferite: quella di Gianfranco Contini del 1949, che fu la
più acuta e apologetica, e quella di Edward B. Garrison, che fu la più
aspra. Contini elencò quattro punti del “Giudizio” che avevano
sconvolto teorie precedenti:
- “il blocco della pittura bizantina, almeno consecutiva alla di-
sputa iconoclastica, sottratto alla poesia e devoluto alla non-poesia”;
- “le infrazioni italiane alla giurisdizione costantinopolitana ricon-
dotte a cultura antica”;
- l’antitesi Firenze – Siena con Duccio derivato da Cimabue;
- “l’ipostasi di Siena (cioè proprio della Bisanzio in partibus)”
radicalmente eliminata “con la soggezione dei suoi inizi al fiorentino,
prigioniero di Montaperti, Coppo di Marcovaldo”.
Posizioni rivoluzionarie nei confronti del “corredo di erudizione
che si allestisce nei ginnası̂”. Alla domanda perché Longhi non
capisca l’arte bizantina, Contini trovò la risposta più calzante nel
metodo stesso di Longhi, crociano, che è inapplicabile all’arte bizan-
tina:

“Se Longhi repelle la cultura bizantina non sarà perché non le può
applicare (e nessuno potrebbe) quella misurazione serrata dello «spa-
zio» storico che durante tutta la sua carriera provoca i leggendari
giudizı̂ del tipo: questa è cultura del 1280, o del 1520, o del 1610? La
risposta potrà essere solo affermativa, sulla giustificazione che quella
cultura si pone fuori della storia.”15.

32-34; G. Nicco Fasola, “Precisazione sulla critica d’arte attuale”, pp. 40-43; M. L.
Gengaro, “Metodo per una storia dell’arte”, pp. 45-48. Su Longhi vedi anche O. Morisani,
“Gli studi di storia dell’arte in Italia”, in Università degli Studi di Pisa, Istituto di Storia
dell’Arte Medievale e Moderna, Atti del Seminario di Storia dell’Arte, Pisa – Viareggio, 1-15
luglio 1953 (Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia 1-2
[1954]), pp. 82-85; e, più in generale, su Longhi e la questione del Duecento italiano: P. J.
Nordhagen, “Roberto Longhi (1890-1970) and His Method”, Konsthistorisk Tidsckrift 68/2
(1999), pp. 99-116; id., “Byzantium and the Duecento: Remarks on a Story with No End”,
in Kairos. Studies in Art History and Literature in Honour of Professor Gunilla Ükerström-
Hougen, a cura di E. Piltz e P. Üström (Jousered, 1998), pp. 66-77; una valutazione
distaccata sul “Giudizio sul Duecento” è in G. Castelnuovo, “Mille vie della pittura
italiana”, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, a cura di E. C. (Milano, 1986), vol.
1, pp. 8-9.
15
G. Contini, “Sul metodo di Roberto Longhi”, Belfagor 4 (1949), pp. 205-210, citazioni
da pp. 205-206 e 207; vedi inoltre: Roberto Longhi. Discorso commemorativo pronunciato dal
Linceo Gianfranco Contini nella Seduta ordinaria del 13 gennaio 1973 (Roma, 1973).
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

Longhi aveva posto in dubbio la validità degli studi iconografici,


cioè sul contenuto, come metodo di indagine sulle opere d’arte, alla
pari degli studi sullo stile, cioè sulla forma. Garrison, verso i cui studi
era indirizzata l’espressione “tabelle di concordanza” del “Giudizio”,
fu ben deciso nel collegare le chiusure metodologiche di Longhi al
nazionalismo fascista. Scolaro di Richard Offner e un ammiratore di
Toesca, Garrison stava allora lavorando a Italian Romanesque Panel
Painting, uscito nel 1949, un inventario di 705 dipinti romanici
formato da succinte schede, con una essenziale proposta di datazione
senza discussione critica, ciascuna delle quali corredata di una foto-
grafia di pochi centimetri quadrati di dimensione, certamente utile ai
fini della catalogazione completa propostasi da Garrison, ma inutiliz-
zabile ai fini di una lettura formale delle opere presentate. L’ondata
di piena delle attribuzioni, delle induzioni storiche, che dall’analisi di
una singola opera risalivano a giudizi generali, e dei giudizi estetici
era stata senza fine; è chiaro, premette Garrison al suo libro, che
molte delle attribuzioni erano state un mero giocare con lo scarso
materiale disponibile; e tentare una valutazione estetica di un pittore
senza conoscere precisamente quali pitture siano sue è patente inani-
tà16. Pochi anni più tardi, attaccando Longhi in “The Role of Criti-
cism in the Historiography of Painting” uscito nel 1950-1951, Garri-
son sostenne che il danno maggiore alla critica storica era stato fatto
dalla critica idealistica: Croce vuole determinare se un oggetto A è
un’opera d’arte, se ha valore estetico lo è, se no, non lo è; Longhi
attacca il filologismo in maniera crociana; entrambi dimenticano
fatica e risultati degli studi filologici (come quelli del suo maestro
Offner ed i suoi). Conseguenza di quell’approccio idealistico sono
l’inconsistenza, gli sbagli clamorosi e le attribuzioni cosı̀ cattive (“so
bad”) fatti su Cimabue e altri artisti dalla critica italiana e soprattutto
da Longhi, il più volatile di tutti, il quale, dopo aver sparato contro i

16
E. B. Garrison, Italian Romanesque Panel Painting. An Illustrated Index (Firenze, 1949);
il testo originale della prefazione dice (p. 1):
“The present Illustrated Index of Italian Romanesque Panel Painting has been compiled
with the conviction that, at our present stage of knowledge, progress toward a correct
history of painting in Italy will best be served through concentration upon the elementary
problems of attribution and dating (. ..). The spate of attribution, historical inductions and
aesthetic judgement has been unending. But it is obvious that many of the attributions have
been mere play with the scarse material, and that many of the inductions have been, from
the very standpoint of logic, weak, since the instances from which they derived have been so
few. And to attempt an aesthetic evaluation of a painter without knowing precisely which
painting are his is a patent inanity.”.
IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO 

collezionisti miliardari, con le sue attribuzioni di opere mediocri


rende loro oggettivamente un servizio:

“This inconsistency is not alone in this most volatile of all writers.


After railing against the «collezionisti miliardari», he proceeds by his
exaltory attributions of several mediocre works to render the most
object servitude to them.”.

I critici alla Longhi debbono rifarsi necessariamente ai lavori dei


filologi. Le esortazioni di Croce a considerare l’artista, ma a non
perdere tempo in attribuzioni, hanno condotto i critici idealisti a
scrivere contro pittori dei quali hanno solo una vaga idea di quali
opere siano effettivamente da attribuire loro. Tutta questa scuola di
critica idealistica è oggi in stato caotico: il concetto di pura esteticità
di Croce è vuoto di contenuto come quello di dovere morale di
Kant; è mera espressione di gusti personali. I bizzarri, personali
criteri di giudizio applicati da Longhi nella sua diatriba contro il
Duecento ne sono esempio eccellente. Poi, Garrison puntò il dito
sulle collusioni di Longhi con il fascismo: il “Giudizio” va inteso
riferendolo al razzismo autarchico-idealista che prevaleva in politica
nel 1939, l’anno nel quale fu scritto; esso prova che anche nella
critica d’arte era penetrato qualcosa di razzistico; dato che in questa
critica, nonostante Longhi protesti esplicitamente il contrario, la
principale obiezione all’arte bizantina è proprio il suo bizantinismo,
al quale Longhi dà gli epiteti più scurrili:

“It attests that something similar had penetrated even unto the sancta
of art history, for its chief critical objection to Byzantine artistic
expression in Italy is, I believe, in spite of his explicit protest to the
contrary, its very Byzantinism, to which he affixes all manner of
scurrilous epithets.”.

Cosı̀, Longhi aveva trionfato in Italia grazie alla capacità di


incantare propria dei suoi scritti (“the genius and eloquence of the
judge may enchant us”); la critica di Longhi prefigura una “Dark
Age”, è una triste testimonianza delle qualità della storia e della
critica dei nostri tempi17.
Punto sul vivo, Longhi dette a Garrison una acida e risentita

17
E. B. Garrison, “The Role of Criticism in the Historiography of Painting”, College Art
Journal 10 (1950-1951), pp. 110-120, citazioni da pp. 110, 112 nota 15, 115, 117, 119.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

risposta, quasi immediata, in “Prima Cimabue, poi Duccio” del


1951:

“[Garrison] nega al mio metodo, perché (a sua detta) crociano e


idealistico, la facoltà di raggiungere risultati effettivi di «storia descrit-
tiva» (...); (...) da parte mia, non negherò mai che anche con quel suo
‘metodo del sagomaio’ non possano ritrovarsi nuovi maestri o almeno
nuovi artigiani del peso di un pittore di Montajone o di quello di
Castellare. Ad ognuno i suoi.”.

E spiega come allusione politica al presente il suo attacco a


Bisanzio nel “Giudizio”: l’arte bizantina, cioè, come paradigma anti-
mussoliniano di un’arte che si lascia asservire a un regime totalitario:

“Ma, ripeto, non è per tanto poco che occorre far cenno di codesto
storiografo ‘descrittivo’. Egli merita ben altra citazione per un diverso
punto del suo saggio, quello dove intende spiegare agli americani il
significato, per nessuno incondito, della mia cosiddetta ‘stroncatura’
dell’arte bizantina tarda. Qualcuno forse ha in mente che quel mio
attacco recava un giudizio, inevitablmente anche etico-politico sul caso
storicamente più illustre di un’arte che si lascia vessare e totalmente
asservire dai dettami di un regime totalitario, cosı̀ da ridursi in breve a
mero automatismo tecnico. (...)
Che dire? la mia difesa di un’arte che sappia conquistarsi e conservarsi
il margine necessario di libertà creativa, la mia esaltazione, pertanto,
della grande cultura d’occidente in confronto al ‘polmone meccanico’
del tardo artigianato orientale, e, nello stesso tempo, il riconoscimento
che i maggiori dugentisti italiani amarono semmai di rifarsi diretta-
mente dai tempi in cui l’oriente artistico era stato di lievito anche per
Roma, diviene, poco manca, l’espressione di un mio odio personale
contro le razze del Mediterraneo orientale. E perché non addirittura
un parallelo fiancheggiante dell’impresa di Mussolini contro la Grecia.
Ora, è pur vero, noi contiamo in Italia, nel nostro campo di studı̂, su
taluni ipocriti, parecchi sopracciò, molti sufficienti, o sgonfiori, o
dulcamara, o venditori di fumo, ecc.; ma, neppure fra di essi, ci è mai
avvenuto di dover scansare un simile spurgo di luridume morale. E ci
conforta, almeno, che non si tratti di un esempio italiano.”18.

Longhi giustificò cosı̀ i suoi giudizi antibizantini e rivelò accenti


critici verso il regime contenuti nei suoi scritti, dei quali, comunque,
né Toesca né altri oppositori del regime si erano accorti. Anche in

18
R. Longhi, “Prima Cimabue, poi Duccio”, Paragone 2, n 23 (novembre 1951), pp.
8-13, citazioni da pp. 11-12.
IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO 

“Omaggio a Benedetto Croce”, uscito l’anno seguente (1952) su


Paragone, Longhi vantò la critica verso l’ideologia fascista, scoppiata
soprattutto dopo le leggi razziali, che era contenuta nel suo saggio
pubblicato in Romanità e Germanesimo e citò come testimone a suo
favore proprio Croce, che questa critica avrebbe recepito e apprezza-
to19. Longhi, comunque, cercò il riavvicinamento sia a Toesca, per
primo (a lui dedicò, oltre al “Giudizio”, l’intero terzo volume del
1950 di Proporzioni, una delle riviste dirette da Longhi, per l’occa-
sione del ritiro di Toesca dall’insegnamento e per i cinquant’anni dal
suo primo scritto pubblicato a stampa), sia, più tardi, a Berenson,
con la mediazione di Toesca, sia infine a Croce, dopo la morte, con
l’“Omaggio” del 1952. Agli scritti per Croce, del 1950, era stato
però invitato a contribuire, come storico dell’arte, Lionello Venturi e
non Longhi. In Proporzioni Longhi raccolse una trentina di saggi per
Toesca, tra gli autori dei quali, oltre che lui stesso, compaiono
medievalisti (Gugliemo Matthiae), bizantinisti (Kitzinger) e storici
dell’arte rinascimentale e moderna20. Nell’introduzione di omaggio al
maestro, Longhi rimarcò l’atteggiamento di Toesca di tranquilla di-
gnità, mai di acquiescenza verso il fascismo:

“E, perché si parla qui di anni difficili, non è da tacere che al Suo
sentire schiettamente italiano, perché inteso in accezione altamente
culturale e non di vano nazionalismo, fu sempre congiunto un atteg-
giamento di tranquilla dignità, mai di acquiescenza. Piace cosı̀ ricor-
dare, fra i tanti casi, che si deve alle Sue dichiarazioni autorevolissime
se poté frustrarsi il desiderio «fascistico» di spedire all’estero la «Pietà»
palestrinese di Michelangelo, oggi a Firenze.
Questo, in breve, l’uomo, il conoscitore e lo storico al quale, dopo il
termine della Sua lunga attività d’insegnante, e a cinquant’anni precisi
dal Suo primo scritto a stampa, si rende omaggio con questo volu-
me.”21.

19
R. Longhi, “Le arti”, in Romanità e Germanesimo, pp. 209-239; “Omaggio a Benedetto
Croce”, Paragone 3, n 35 (novembre 1952), pp. 3-9, specialmente p. 5, dove Longhi
afferma di aver respinto “tutti i conati di estetiche a fondamento climaterico, ambientale e,
soprattutto, razzistico (si noti che ciò avveniva in un volume quasi ufficioso di fiancheggia-
mento dell’‘Asse’)” L. Venturi, “Gli studi di storia dell’arte medievale e moderna”, in
Cinquant’anni di vita intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il
suo ottantesimo anniversario, a cura di C. Antoni e R. Mattioli (Napoli, 1950), vol. 2, pp.
175-189.
20
R. Longhi, “Omaggio a Pietro Toesca” e “Un ignoto corrispondente del Lanzi sulla
Galleria di Pommersfelden”, Proporzioni 3 (1950), pp. v-ix e 216-230 rispettivamente; G.
Matthiae, “Tradizione e reazione nei mosaici romani dei secc. VI e VII”, pp. 10-15; E.
Kitzinger, “On the Portrait of Roger II in the Martorana in Palermo”, pp. 30-35.
21
Longhi, “Omaggio a Pietro Toesca” citazione da p. IX.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

Toesca aveva scritto a Berenson: i giovani vogliono seppellire gli


anziani loro maestri, salvo qualche resipiscenza quando invecchiano
anche loro; “cosı̀ è avvenuto a me, giorni fa, quando ho ricevuto una
affettuosissima lettera da Roberto Longhi (ma perché? e c’è da
fidarsene?)”. Toesca perdonò Longhi ed invitò Berenson a un riavvi-
cinamento:

“Di quest’ultimo [scilicet: Longhi] io non Le scrissi mai, sapendo che


l’argomento Le era molesto; ma intanto anche per Longhi gli anni
sono passati e alla acerbità ha fatto seguito – mi sembra – una certa
equanimità: e a me egli si è riaccostato, e io molte cose ingrate gli ho
perdonato.”
“Nè ella si meravigli della mia parzialità per il Longhi. Gli anni sono
passati, e molti: anche il Longhi ha perduto la sua acerbità; dopo molti
screzi e dispetti, si è riavvicinato anche a me; nè io posso dimenticare
che lo ebbi primo tra i miei studenti. E a questo proposito, perchè non
si dovrebbe ora, il Longhi, riavvicinare anche a B. B.? So ch’egli, pur
avendone colpa, non sa darsi ragione delle relazioni punto cordiali in
cui si trova con Lei: ed io mi auguro ch’egli trovi modo di riavvicinarsi
anche a Lei.”22.

Anche se la valutazione data nel “Giudizio” su Bisanzio risultò


opposta a quella data da Toesca, a dispetto dei tentativi che scolari
di Longhi fecero poi per smussare i contrasti, quel testo costituı̀ il più
incisivo ed influente scritto di uno studioso italiano sull’arte del
Duecento e sull’arte bizantina di quegli anni e fu preso come deca-
logo dagli scolari di Longhi e da altri studiosi che a lui si avvicina-
rono. Ferdinando Bologna, in La pittura italiana delle origini del 1962,
demolı̀ con espressioni longhiane l’apprezzamento per i primitivi di
Lionello Venturi, unico critico italiano che Bologna si dilunga a
screditare, e la “filologia descrittiva” di Garrison:

“Abbiamo avuto cosı̀, recentemente, da un lato un «corpus» di pitture


medievali italiane, quello del Garrison, che è a suo modo un «master-
piece» di filologia distaccatamente descrittiva, un capolavoro di indiffe-
renza per altro che non sia pura classificazione sulla scia dell’insegna-
mento di Richard Offner; dall’altro, invece, un puro elogio mistico,
quello di Lionello Venturi, che, mosso dal folle amore per un principio
poco circostanziato, anzi addirittura astratto, di partecipazione inte-

22
I brani di Toesca riportati sono da tre lettere a Berenson, datate 8 aprile 1946, 26
settembre 1949 e 26 novembre 1949, conservate nella Biblioteca Berenson, Villa I Tatti,
Settignano (Firenze).
IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO 

grale all’ora corrente, ha finito col rifugiarsi in un esoterismo ambiguo


e profondamente antistorico, di vecchia marca ruskiniana.”.

Vide poi la luce il “Giudizio sul Duecento”, che fece giustizia di


questi errori metodologici. Più volte Bologna trova il modo di rivol-
gere elogi a Toesca. De Francovich è invece introdotto da Bologna
per le intuizioni sul presunto monopolio siriaco sull’arte medievale:
Bologna fa cosı̀ risalire a influssi siriaci quanto di espressionistico
incontra nell’arte dell’Occidente, come gli affreschi di Santa Sofia a
Benevento o di San Vincenzo al Volturno. Viceversa, ripetendo
Longhi, Bologna dichiara la sua fede sulla nullità del valore dell’arte
bizantina posticonoclastica, coniando per essa espressioni senza spes-
sore: “intima sterilità”, “aulicità vuota e formalmente rituale”, “arti-
ficiale disumanizzazione che caratterizza si può dire per intero la
produzionedi questa particolare orbita della civiltà medievale”.
Come era nelle premesse – ed il lettore non avrebbe certamente
dubitato –:

“la posizione più feconda è certamente quella assunta ripetutamente


23
da Longhi tra il 1937 e il 1947.” .

Sul fascicolo Arte del 1954 di Paragone, la rivista diretta da


Longhi, Carlo Volpe negò poi il “retroterra comune” di natura
bizantina di Cimabue e Duccio. Al contrario, Cesare Brandi, che
non aveva da accattivarsi Longhi, echeggiando la definizione di
Berenson “fino all’anno 1200 la pittura in tutta Europa fu costanti-
nopolitana”, cominciò la sua monografia su Duccio del 1951 dichia-
rando che “fino a tutta la metà del Duecento la pittura in Europa fu
pittura bizantina”24.

d. Bianchi Bandinelli ed i Princetoniani


Giuseppe Bovini sulla Rivista di archeologia cristiana del 1947-1948 e
Cecchelli su Doxa del 1951 recensirono Illustrations in Roll and Codex,
un libro di metodologia sulla illustrazione dei testi nell’antichità e nel
medioevo, scritto da Weitzmann, lo studioso tedesco che durante il

23
F. Bologna, La pittura italiana delle origini (Roma, 1962), citazioni da pp. 6-7, 55-56.
24
C. Brandi, Duccio (Firenze, 1951), citazione da p. 7. C. Volpe, “Preistoria di Duccio”,
Paragone 5, n 49 (gennaio 1954), pp. 4-22, citazione da p. 8.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

nazismo si era rifugiato a Princeton su invito di Morey25. La metodo-


logia del libro di Weitzmann, riconosciuto come la base per gli studi
di storia dell’illustrazione dei testi medievali, bizantini e occidentali,
codificava la tradizione dell’archeologia e della filologia germaniche a
cavallo del 1900 e l’enorme lavoro sulla nascita e sviluppo della
illustrazione cristiana che veniva svolto a Princeton da Morey, Friend
Jr e lo stesso Weitzmann per il Corpus of the Illustrations in the
Manuscripts of the Septuagint, varato negli anni Venti, e per l’Index
26
of Christian Art, fondato nel 1917 . Bovini riassunse il libro di
Weitzmann sottolineando come il lavoro fosse “una indagine sui vari
metodi e principi che possa permettere in seguito di scrivere una
storia sistematica della miniatura”; in realtà, Bovini non concepiva il
lavoro di Weitzmann, che aveva già dedicato e dedicherà in seguito
gran parte dei suoi oltre sessanta anni di ricerca alla miniatura, come
una storia sistematica della miniatura, dato che la sua era una storia
iconografica e non stilistica. Cecchelli sollevò riserve sulla “costru-
zione dottissima e ammirevole” di Weitzmann e in particolare sulla
sua ricostruzione della storia della illustrazione dei testi; l’arte cri-
stiana non è un “mediocre ricalco dell’arte classica” – idea che
Cecchelli attribuisce erroneamente a Weitzmann –, “ma veramente
una creazione che si avvale di parecchie scaturigini” – cioè, per
Cecchelli, ellenismo, romanità, Oriente – “per esprimere una idea
nuova. E c’è un segno distintivo assolutamente suo di cui gli storici
dell’arte non si sono mai accorti: la composizione di due storie
umane, quella del popolo ebraico e quella del popolo nuovo uscito
27
dalle acque del Battesimo” .

25
K. Weitzmann, Illustrations in Roll and Codex. A Study of the Origin and Method of Text
Illustration (Princeton, N.J., 1947). G. Bovini, Recensione a Kurt Weitzmann, Illustrations in
Roll and Codex. A Study of the Origin and Method of Text Illustration (Princeton, N.J.:
Princeton University Press, 1947), Rivista di Archeologia Cristiana 23-24 (1947-1948), pp.
389-392. C. Cecchelli, “Archeologia ed arte cristiana dell’antichità e dell’alto medioevo”,
Doxa 4 (1951), pp. 5-10. La discussione su Weitzmann e Bianchi Bandinelli in questo
paragrafo ricalca quanto da me già scritto nella “Introduzione al testo” in K. Weitzmann,
Le illustrazioni nei rotoli e nei codici. Studio della origine e del metodo della illustrazione dei testi
(Scritti di Kurt Weitzmann, 1: Illustrations in Roll and Codex. A Study of the Origin and Method
of Text Illustration), a cura di M. B. (Firenze, 1983), pp. i-xlii. Su Bianchi Bandinelli vedi
Ranuccio Bianchi Bandinelli e il suo mondo, [Roma] Università degli Studi “La Sapienza”,
Museo dell’Arte Classica, 5 dicembre 2000 – 20 febbraio 2001, catalogo della mostra, a
cura di M. Barbanera (Bari, 2000).
26
Su questi punti, vedi M. Bernabò, “Lo studio dell’illustrazione dei manoscritti greci del
Vecchio Testamento ca. 1820-1990”, Medioevo e Rinascimento 9, n. s. 6 (1995), pp. 278
sgg.
27
In particolare, Cecchelli non accettò la ricostruzione dell’aspetto dell’archetipo della
Genesi di Vienna proposta da Weitzmann, introdusse una classificazione di schemi illustra-
IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO 

Diverso fu l’atteggiamento di alcuni archeologi e soprattutto di


Bianchi Bandinelli verso gli studi di Weitzmann e del gruppo di
Princeton. Il confronto tra gli approcci metodologici dei due studiosi
avvenne sulle miniature dell’Iliade Ambrosiana, le malridotte pitture
sui fogli superstiti del codice F. 205 inf. della Biblioteca Ambrosiana
di Milano. Nel 1955 Bianchi Bandinelli pubblicò Hellenistic-
Byzantine Miniatures of the Iliad (Ilias Ambrosiana). Il libro era stato
preceduto dalla pubblicazione del facsimile dell’Iliade Ambrosiana
nel 1953 e da tre saggi in italiano di Bianchi Bandinelli che, in
versione inglese, costituirono altrettante sezioni del libro del 1955,
cioè “Schemi iconografici della miniature dell’Iliade Ambrosiana”
(1951), “Continuità ellenistica nella pittura di età medio- e tardo-
romana” (1953) , “Recensione e ricostruzione del codice dell’Iliade
Ambrosiana” (1953)28. Scrivendo il 21 gennaio 1955 a Berenson,
Toesca giudicò “interessante” il lavoro di Bianchi Bandinelli sull’I-
liade Ambrosiana – Bianchi Bandinelli era uno dei pochi studiosi
stimati da Toesca per la sua serietà e capacità – e commentò:

“Sembra che, mutato il momento politico, ora la pittura ‘romana’ vada


ritornando ‘ellenistico-romana’ come diceva il nostro povero G. E.
Rizzo. Ma bisognerà attendere ancora.”29.

Toesca, d’altra parte, si era già espresso, quanto alla storia della
illustrazione dei testi, alla copiatura dei cicli miniati da un modello a
una nuova edizione e a metodologia di studio, a favore di un
approccio simile a quello dei princetoniani (o degli archeologi e
storici dell’arte medievale di formazione germanica) nella voce “Ico-
nografia” dell’Enciclopedia Italiana e ne Il Medioevo:

tivi per i dipinti della sinagoga di Dura Europos e infine anche una classificazione – di
scarso spessore – delle illustrazioni di rotoli e codici suddividendole in decorazioni episodi-
che marginali, decorazioni episodiche centrali, narrazioni continue, composizioni di più
episodi in uno o due ordini sovrapposti, grandi scene di soggetto unico.
28
R. Bianchi Bandinelli, “Schemi iconografici della miniature dell’Iliade Ambrosiana”,
Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche.
Rendiconti, ser. 8, 6 (1951), pp. 421-453; “Continuità ellenistica nella pittura di età medio-
e tardo-romana”, Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, n. s., 2 (1953),
pp. 77-161; “Recensione e ricostruzione del codice dell’Iliade Ambrosiana”, Atti della
Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Rendiconti, ser. 8,
8 (1953), pp. 466-484; Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad (Ilias Ambrosiana) (Olten,
1955).
29
La lettera è conservata nella Biblioteca Berenson, Villa I Tatti, Settignano (Firenze).
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

“(...) sebbene finora non sia noto alcun libro miniato, classico, che
risalga oltre il secolo IV d.C., è da credere che in molti codici più
recenti le miniature ripetono quelle di esemplari ellenistici: poiché
mentre i calligrafi trascrivevano da codici antichi i testi classici, era
ovvio che i miniatori esemplassero sulle miniature di quelli le loro
illustrazioni, seguendo il procedimento di ripetizione di tipi iconogra-
fici, comune ad ogni periodo dell’arte, normale nell’età classica. Anzi,
le miniature di alcuni testi classici persino nel Medioevo inoltrato
ripeterono quelle di codici di età assai remota, quantunque con altera-
zioni, cagionate dal divario dello stile o anche di false interpretazioni
30
dei particolari dei loro modelli.” .

Valutazioni che potrebbero figurare in scritti di Weitzmann. Di


Bianchi Bandinelli, oltre agli articoli poi tradotti in inglese come
capitoli del libro sull’Iliade Ambrosiana, apparvero un articolo su
Iliade Ambrosiana e Virgilio Vaticano (cod. Vat lat. 3225), “Discus-
sione sull’Iliade Ambrosiana”(1961) e “Conclusioni sull’origine e la
composizione dell’Iliade Ambrosiana” (1973). Nel 1957 Weitzmann e
Carlo Bertelli pubblicarono le loro recensioni a Hellenistic-Byzantine
Miniatures of the Iliad31.
In precedenza Bianchi Bandinelli si era occupato degli ultimi
secoli dell’arte romana, ma a spingerlo verso l’illustrazione dei testi e
in particolare verso problemi metodologici dell’origine e la trasmis-
sione dei cicli illustrativi dei testi dovette essere stato quasi certa-
mente l’incontro con i princetoniani Morey e Teodoro (Doro) Levi.
Le metodologie sbarcate in Italia dopo la liberazione dovettero appa-
rirgli come uno strumento di emancipazione da Croce, del quale
Bianchi Bandinelli riconobbe il ruolo di faro morale negli anni del
fascismo, ma del quale nello stesso tempo capı̀ anche la apparte-
nenza al passato:

“L’unica luce che in questi anni ha sorretto e guidato gli intellettuali


italiani, e specialmente i cultori di scienze morali, non è partita

30
Toesca, Il Medioevo, p. 297.
31
R. Bianchi Bandinelli, “Virgilio Vaticano 3225 e Iliade Ambrosiana”, Nederlands
Kunsthistorisch Jaarboek 5 (1954), pp. 225-240; “Discussione sull’Iliade Ambrosiana”, in
Seminario di Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana dell’Università di Roma, Studi
miscellanei, 1 (Roma, 1961), pp. 1-9; “Conclusioni sull’origine e la composizione dell’Iliade
Ambrosiana”, Dialoghi di archeologia 7 (1973), pp. 86-96. K. Weitzmann, Recensione a R.
Bianchi Bandinelli, Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad (Ilias Ambrosiana), Olten: Urs
Graf-Verlag, 1955”, Gnomon 29 (1957), pp. 606-616. C. Bertelli e V. Bartoletti, Recen-
sione a R. Bianchi Bandinelli, Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad (Ilias Ambrosiana),
Olten-Lausanne, Urs Graf-Verlag, 1951, La parola del passato 12 (1957), pp. 459-474
(Bertelli, pp. 459-472; Bartoletti, pp. 472-474).
IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO 

dall’Università: è stata quella della parola e del pensiero di Benedetto


Croce. Noi tutti gli siano debitori, se non abbiamo disperato e se non
abbiamo abbandonato il nostro posto: questo debito non possiamo
dimenticarlo. Ma anche quello del Croce è stato, in certo modo e per
necessità di circostanza, un monopolio, un assolutismo intellettuale.
Oggi che siamo usciti da quel carcere, nel quale la sua era la sola luce
che polarizzava i nostri sguardi, essa ci è apparsa meno intensa, meno
viva. Noi la vediamo ancora brillare nel fondo dell’oscurità dalla quale
uscimmo; ma intorno a noi la vita e il sole son tornati a fremere con
rinnovata potenza e il grande vecchio non sta più dinanzi a noi come
una mèta o un faro. Se lo scorgiamo ancora, con uno sguardo di
32
affetto, è quando ci rivolgiamo indietro.” .

Morey aveva riassunto la sua interpretazione delle origini del-


l’arte bizantina, della continuità dell’arte ellenistica in essa e della
Rinascenza Macedone in un intervento al Convegno Internazionale
per le Arti Figurative di Firenze del 1948. Levi, dopo l’esonero dalla
cattedra di Archeologia e Storia dell’Arte Classica a Cagliari in
seguito al decreto di proscrizione razziale di Bottai, era stato fatto
venire su raccomandazione di Morey all’Institute for Advanced
Study di Princeton, come era avvenuto con lo stesso Weitzmann, ed
era stato poi invitato da Morey a scrivere uno studio generale sui
mosaici portati alla luce ad Antiochia negli anni Trenta, che apparve
nel 194733.
Come anticipato sopra, Morey aveva raccolto a Princeton, in-
sieme a Weitzmann e Friend Jr, una vastissima collezione di mate-
riale fotografico sui manoscritti bizantini e sull’arte cristiana fino
all’anno 1400. A differenza delle raccolte fotografiche d’arte in Italia
basate sulla storia stilistica, arrangiate cioè per periodi, scuole e
singoli artisti, l’Index di Morey, che nel 1942 possedeva circa 50.000
fotografie, per le quali erano state redatte 261.000 schede, è un
catalogo iconografico, arrangiato secondo il soggetto dell’opera
d’arte, che segue come ordine, dove possibile, la successione degli
eventi come narrati nei libri biblici, indipendentemente da luogo,
data e materiale di esecuzione. Il Corpus of the Illustrations in the
Manuscript of the Septuagint, l’altro progetto di Morey sui mano-

32
Il riconoscimento di Bianchi Bandinelli a Croce, ben noto, apparve in “A che serve la
storia dell’arte antica?”, la prolusione tenuta nel riassumere la cattedra di Archeologia e
Storia dell’Arte Antica all’Università di Firenze, il 13 novembre 1944, e poi pubblicata su
Società 1, nn 1-2, (gennaio-giugno 1945), p. 11.
33
C. R. Morey, “Il Rinascimento bizantino”, in Atti del Primo Convegno Internazionale per
le arti figurative, pp. 90-100. D. Levi, Antioch Mosaics Pavements (Princeton, N.J., 1947).
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

scritti, era una serie di volumi che voleva fornire un repertorio


iconografico dalle illustrazioni nei manoscritti biblici (nell’idea origi-
naria doveva avere per oggetto sia i manoscritti dell’Antico Testa-
mento sia quelli del Nuovo Testamento, greci e latini), anche questo
non basato su criteri di raggruppamento per stile in periodi o scuole;
ciascuno dei volumi previsti doveva fornire la riproduzione completa
di un libro o gruppo di libri biblici: Genesi, Ottateuco, Libri Storici,
Salmi e Odi, Profeti, Giobbe e Libri Sapienzali34.
A dispetto delle opposte ideologie (l’uno funzionario d’amba-
sciata americano, l’altro dirigente comunista), ci furono tra Morey e
Bianchi Bandinelli grande stima e collaborazione. Bianchi Bandinelli
celebrò l’attività in Italia e le ricerche di Morey nel necrologio dopo
la morte avvenuta nel 1955. Finita la guerra, Bianchi Bandinelli fu
nominato Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti ed ebbe cosı̀
più occasioni di lavorare con Morey che era presidente del Comitato
Americano per il Restauro dei Monumenti Italiani35 Morey, inoltre,
aveva ricoperto per sette anni la carica di addetto culturale presso
l’ambasciata statunitense in una situazione, scrive Bianchi Bandinelli
nel necrologio,

“per la quale occorreva molto tatto, molta umanità ed un senso


equilibrato per giudicare uomini e cose in un paese, l’Italia, sconvolto
da una crisi politica profonda, e che anelava, nella appena riconqui-
stata libertà civile ad aggiornare la propria cultura dopo anni di
isolamento e di controllo autoritario, ma anche a riprendere una
propria autonoma via di ricerca e di progresso.”.

Morey si era adoperato anche per far riconoscere all’Italia il


diritto di restituzione delle opere d’arte trafugate. Riassumendo il
contributo scientifico di Morey, Bianchi Bandinelli rammentò anche
la vicenda del conflitto ideologico del ventennio trascorso imperniato
su Orient oder Rom:

“il suo campo preferito fu l’indagine sul trapasso tra arte ellenistica e
arte medievale bizantina: un campo nel quale egli ha contribuito a
sradicare vecchi pregiudizi (come quello che separava in due discipline

34
Le notizie sull’Index si trovano in H. Woodruff, The Index of Christian Art, con una
prefazione di C. R. Morey (Princeton, 1942). L’attività di Morey e in generale la fortuna di
Bisanzio negli Stati Uniti furono discussi da Weitzmann nel 1947 in “Byzantine Art and
Scholarship in America”.
35
Vedi, ad esempio, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra.
IL RIASSETTO DOPO IL CONFLITTO 

distinte l’arte tardoromana pagana e l’arte paleocristiana). (...) La sua


divisione in due correnti, neo-attica e alessandrina, dell’arte ellenistico-
tardoromana potrà apparire troppo schematica e forse i due termini
potranno apparire piuttosto dei simbolici termini tecnici, che delle vere
entità storiche. Ciò non toglie nulla alla utilità che hanno avuto e
hanno tuttora per articolare e condurre innanzi la ricerca in un campo
cosı̀ pieno di incertezze e cosı̀ tenacemente ostruito da tesi precon-
cette, incrostatesi attorno all’antistorica polemica “Oriente o Roma”
che non avrebbe dovuto sorgere se il metodo di una concreta indagine
36
storica fosse stato più adeguatamente usato dagli studiosi d’arte.” .

Alle iniziative menzionate da Bianchi Bandinelli, andrebbe ag-


giunto il supporto a pubblicazioni su soggetti d’arte orientale; fu
Morey che raccolse i fondi, provenienti per lo più da università
americane (tra le quali la sua stessa università di Princeton), per la
monografia di Monneret de Villard su Le pitture musulmane al soffitto
della Cappella Palatina di Palermo, del 1950. Nella prefazione Monne-
ret de Villard lamentò la scarsità di sussidi librari per lo studio
dell’archeologia e della storia dell’arte orientale di cui disponevano le
biblioteche italiane; ringraziamenti, oltre a Morey, furono rivolti a
Toesca, presidente dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia
dell’Arte, per il patrocinio del lavoro presso l’editore, la Libreria
dello Stato37.

36
R. Bianchi Bandinelli, “Charles Rufus Morey”, in Atti della Accademia Nazionale dei
Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Appendice. Necrologi di soci defunti nel
decennio dicembre 1945 – dicembre 1955, fasc. 1 (Roma, 1956), citazioni da pp. 52, 53-54.
37
U. Monneret de Villard, Le pitture musulmane al soffitto della Cappella Palatina di
Palermo (Roma, 1950).
13

STILE CONTRO ICONOGRAFIA

“In Italia non ho potuto vedere che tali minacce siano


effettivamente evidenti, e quel paese mi sembra meno
nervoso del nostro di fronte alla minaccia comunista
(...). Davvero, riguardo a Croce, e se un significato più
gioviale potesse essere accordato alla parola ‘minaccia’,
si potrebbe includere lui nei fattori che condizionano e,
in un certo senso, pongono limiti alla produzione di
scritti italiani nel campo della storia dell’arte al tempo
presente.”
C. R. Morey, “Art and the History of Art in Italy”,
1950, pp. 219-220.

Negli anni Trenta e subito dopo la seconda guerra mondiale, una


serie eccezionale di scoperte e restauri di opere d’arte tardoantiche,
bizantine ed altomedievali costrinsero gli storici dell’arte italiani a
misurarsi con l’arte bizantina su nuovi terreni di studio. Tra le opere
entrate nella discussione, la cui presenza divenne poi abituale nei
manuali di storia dell’arte, sono gli affreschi di Castelseprio, i mo-
saici di Antiochia, di Piazza Armerina, di Santa Sofia e del Gran
Palazzo degli imperatori a Costantinopoli, le icone ed i mosaici del
monastero di Santa Caterina al Sinai, i dipinti della sinagoga di Dura
Europos, i piatti d’argento dell’Hermitage: questi ritrovamenti, molti
dei quali, come i mosaici del Gran Palazzo ed i piatti d’argento, sono
opere che mostrano una persistenza dello stile ellenistico ancora
almeno nel VII secolo, distolsero l’attenzione dal problema delle
origini orientali dell’arte bizantina e la trasferirono sulla tradizione
ellenistica nell’arte bizantina e in particolare sul ruolo avuto da
Costantinopoli come centro artistico e come custode della cultura
antica; suscitarono, inoltre, il problema della genesi dell’iconografia
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

cristiana e del suo debito verso la iconografia ebraica1. In Italia, il


vecchio problema delle origini orientali dell’arte bizantina ebbe una
fortuna tardiva ed effimera negli anni Cinquanta nella interpreta-
zione pansiriaca dell’arte bizantina e occidentale sostenuta da De
Francovich, mentre il problema della esistenza di un’arte figurativa
ebraica e del contributo dato da questa alla nascente arte cristiana –
un problema di iconografia piuttosto che di stile – fu ignorato dagli
studiosi. Al fervore di studi che questi nuovi materiali provocarono
va aggiunta la fioritura di ricerche sui manoscritti miniati, favorita
dalla mostra sulla miniatura italiana di Palazzo Venezia del
1953-1954 e dalla pubblicazione dei facsimile dell’Iliade Ambrosiana
e dell’Evangeliario di Rabbula della Laurenziana. La metodologia,
stilistica o iconografica, con cui affrontare le opere d’arte, ora che
erano finita l’autarchia fascista e i deliri panromanisti, emerse come
problema primario; la discussione, da opposizione politica di princi-
pio tra romanisti filoregime ed orientalisti afascisti, rientrò nei confini
di un confronto interno alla disciplina e si spostò sui temi specifici
delle opere d’arte medievale.

a. Il pericolo crociano
In La critica e la storia delle arti figurative del 1934, dove aveva
esaminato le tendenze della critica d’arte contemporanea, discutendo
in dettaglio scritti di Soffici, Longhi, Berenson e soprattutto Lionello
Venturi, Croce aveva cosı̀ riassunto la sua lettura delle opere d’arte
figurativa:

1
Alcuni dei ritrovamente qui citati sono discussi più avanti in questo capitolo; per gli
altri vedi: L. Matzulewitsch, Byzantinische Antike. Studien auf Grund der Silbergefässe der
Ermitage (Archäologische Mitteilungen aus Russischen Sammlungen, 2. Berlin – Leipzig,
1929); i resoconti dei lavori a Santa Sofia di Thomas Whittemore furono pubblicati da
Oxford University Press nel 1933, 1936 e 1942 ( The Mosaics of Haghia Sophia at Istanbul.
First Preliminary Report. The Mosaics of the Nartex; Second Preliminary Report. The Mosaics of
the Southern Vestibule; Third Preliminary Report. The Imperial Portraits of the South Gallery);
per i mosaici del Gran Palazzo: The Great Palace of the Byzantine Emperors, Being a First
Report on Excavations Carried out in Istanbul on Behalf of the Walker Trust (The University of
St. Andrews) 1935-1938 (Oxford – London, 1947); The Great Palace of the Byzantine
Emperors. First Report, a cura di G. Brett, W. S. Macaulay e R. B. K. Stevenson (Oxford,
1947); Second Report, a cura di D. T. Rice (Edinburgh, 1958); sulla sinagoga di Dura
Europos: C. H Kraeling, “The Synagogue,” in The Excavations at Dura-Europos. Preliminary
Report of the Sixth Season of Work. October 1932 – March 1933, a cura di M. I. Rostovtzeff, A.
R. Bellingen, C. Hopkins, C. B. Welles (New Haven, 1936), pp. 337-383, e C. Kraeling,
The Synagogue (The Excavations at Dura-Europos. Final Report, a cura di A. R. Bellinger, F.
E. Brown, A. Perkins e C. B. Welles, Vol. 8/1. New Haven, 1956).
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

“nella pittura e nelle arti figurative bisogna cercare, gustare e intendere


solo ciò che è veramente artistico, solo la forma estetica, e non già la
materia variamente interessante che nella forma è stata risoluta e
oltrepassata. Donde la polemica contro le interpretazioni filosofiche e
simboliche e storiche della pittura, e contro quelle passionali ed
oratorie. Chi innanzi a una pittura ripensa ai concetti adombrati,
ricorda la storia commemorata (...) non è giunto ancora ad accogliere
2
in sé la pittura in quanto pittura, ossia in quanto arte” .

Gran parte degli studiosi del dopoguerra si ritrovarono intorno


all’appello per la rinascita morale italiana e contro il marxismo,
comunismo ecc. scritto da Croce a Sorrento nel 19443. Tra gli storici
dell’arte l’adesione fu quasi plebiscitaria. Frederick Antal, nell’edi-
zione italiana de La pittura fiorentina ed il suo ambiente sociale nel
Trecento e nel primo Quattrocento del 1960, di fronte a quella che lui
definı̀ la tirannia dell’approccio esclusivamente formalistico all’arte
vigente tra gli studiosi italiani, dedicò quasi integralmente la prefa-
zione a difendersi dalle aspettate critiche e incomprensioni che
avrebbe incontrato in Italia il suo lavoro che “cercava di spiegare
l’arte di un periodo, ed i diversi stili di essa, in stretta connessione
con la storia, il pensiero, il gusto di quello stesso periodo”:

“Non credo infatti che la storia dell’arte debba eternamente soggia-


cere, sia pure inconsciamente, alla tirannia, tuttora cosı̀ forte della
concezione dell’arte per l’arte: una concezione, com’è noto, che fu
elaborata più di un secolo fa’ da un gruppo di poeti e romantici
francesi e che isola l’arte dalle idee del tempo, esaltandone i valori
meramente formali (o, come si usava dire, assoluti ed eterni).”4.

Il contendere tra gli storici dell’arte italiani postbellici sembra


quasi sia stato su a chi doveva spettare il ruolo di autentico tradut-
tore del pensiero di Croce nella critica d’arte; e, parallelamente, su
chi dovesse essere considerato il vero erede di Toesca tra le progenie
antagoniste dei suoi primi discepoli, Longhi e Lionello Venturi. In
questa lotta per una autorevolezza, un peso ed anche il primato tra

2
Croce, La critica e la storia delle arti figurative, p. 8.
3
L’appello di Croce, scritto a Sorrento il 15 dicembre 1944, fu pubblicato col titolo
“Considerazioni sul problema morale del tempo nostro”, in Quaderni della “Critica” 1,
marzo 1945, pp. 1-15.
4
La frase è una parafrasi dalla prefazione alla edizione italiana del libro di Frederick
Antal, Florentine Painting and Its Social Background, pubblicata da Einaudi nel 1960 col
titolo La pittura fiorentina ed il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento (p.
xxii).
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

gli storici dell’arte, sembra non conti che Croce e Toesca, nel
ventennio mussoliniano, fossero stati schierati su una trincea diversa
da quella di molti loro neoseguaci e contendenti di ora.
Longhi dette la sua adesione ideale a Croce nel Corollario al
“Giudizio sul Duecento” del 1947; ugualmente fecero Lionello Ven-
turi nel contributo per gli scritti in onore di Croce del 1950 e nel
panegirico del filosofo su Commentari del 1953; De Francovich nei
suoi scritti sull’arte siriaca del 1951; Salmi nei suoi scritti sulla
miniatura; De Capitan d’Arzago discutendo degli affreschi di Castel-
seprio nel 1948; Ragghianti in Profilo della critica d’arte in Italia (che
scrisse mentre si trovava nel carcere delle Murate di Firenze nel
maggio-giugno del 1942) e in L’arte e la critica del 1951; Luigi Grassi
recensendo quest’ultimo libro di Ragghianti; buona parte degli ora-
tori delle sezioni introduttive su estetica e metodologia del “Primo
Convegno Internazionale per le arti figurative” tenuto a Firenze, a
Palazzo Strozzi, dal 20 al 26 giugno 1948, e presieduto da Rag-
ghianti; Salvini, in parte, nella sua difesa dei valori spirituali ed
estetici dell’arte bizantina e nella affermazione dell’autonomia del-
l’arte dai totalitarismi politici, ecc.5. Anche chi era stato ampiamente
compromesso col fascismo ed era stato quindi apertamente o implici-
tamente avverso a Croce nell’anteguerra, aderı̀ ora al partito cro-
ciano. Galassi, che aveva licenziato il suo manuale antistrzygow-
skiano Roma o Bisanzio nel 1929-1930, fu un esempio di conversione
senza rossori dallo spirito romanista del fascismo al crocianesimo;
nella premessa alla seconda edizione del libro del 1953, che ebbe un
secondo volume di aggiornamenti sui nuovi ritrovamenti artistici dal
sottotitolo Il congedo classico e l’arte nell’alto Medio Evo, Galassi di-
chiarò la sua fede nella ricerca della bellezza delle opere d’arte, fine

5
L. Venturi, “Gli studi di storia dell’arte medievale e moderna”, in Cinquant’anni di vita
intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo
anniversario, a cura di C. Antoni e R. Mattioli (Napoli, 1950), vol. 2, pp. 175-189; id.,
“Croce e la storia dell’arte”, Commentari 4 (1953), pp. 3-6. C. L. Ragghianti, Profilo della
critica d’arte in Italia (Firenze, 1942) e L’arte e la critica. Connessioni e problemi: discorso
estetico (Firenze, 1951). L. Grassi, “Benedetto Croce e la critica d’arte”, Rivista dell’Istituto
Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, n. s., 1 (1952), pp. 328-335; id., “Dommatismo di
un ‘discorso estetico’”, Paragone n 21 (settembre 1951), pp. 56-64. Nelle sezioni IA e IB
degli Atti del Primo Convegno Internazionale per le arti figurative sono pubblicati interventi
degli italiani C. Savonuzzi (“Roberto Longhi critico d’arte”, pp. 25-29), G. Nicco Fasola
(“Precisazione sulla critica d’arte attuale”, pp. 40-43), M. L. Gengaro (Metodo per una
storia dell’arte”, pp. 45-48), L. Grassi (“Insegnamento della storia dell’arte nei Licei”, pp.
201-203. R. Salvini, “Coralità dell’arte bizantina” e “Arte e socialismo”, Il Mondo n 23 (2
marzo 1946), p. 8. Saggi di altri autori sono discussi più avanti in questo stesso capitolo.
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

supremo della critica, parafrasando Croce e pontificando senza auto-


revolezza sulla sterilità delle ricerche filologiche sul loro significato:

“mi sono tuttavia sforzato di non dimenticare che il mio campo di


studio era e resta quello dell’arte, convinto che tutte le investigazioni
cosı̀ dette «filologiche» siano destinate a rimanere sterili nel dominio
storico-artistico, se mai non trovino lo sbocco naturale nel riconosci-
mento della bellezza, fine supremo della critica.”6.

Le interpretazioni di singole opere proposte da Galassi nel libro,


come gli influssi dell’arte dell’India sui mosaici del Sinai o il ruolo
preminente di Alessandria sull’arte del VI secolo – interpretazioni
prive di spessore o desuete –, furono irrise da De Francovich, che
proveniva dalla scuola di Toesca e Lionello Venturi ed era probabil-
mente memore del passato filofascista e antitoeschiano di Galassi;
anche le critiche di De Francovich erano basate su letture delle opere
esclusivamente stilistiche7.
La scelta crociana di tanti studiosi avvenne in contrasto alle
lezioni metodologiche di Adolfo Venturi e di Toesca e proprio da
parte della generazione che stava succedendo alla Sapienza alle
cattedre ricoperte dai due fondatori della storia dell’arte italiana, loro
maestri. In pochi cercarono strade nuove, distanti dalla ricerca esclu-
siva della forma estetica e della sua evoluzione indicata dalla critica
crociana. Il caso più famoso, Bianchi Bandinelli, uscı̀ dalle file degli
archeologi. Cosı̀, nel 1955, Bianchi Bandinelli liquidò la questione
“Oriente o Roma”, rifiutando di vedere la storia dell’arte come storia
di contatti e influssi artistici e riportandola ai termini marxisti (Bian-
chi Bandinelli era divenuto comunista) di emergenza di una nuova
classe sociale dominante nella tarda antichità:

“Resterebbero forse, da dire alcune parole sulla dibattuta questione


«Oriente-Roma», la quale sembra che ancora costituisca il filo condut-
tore per molti studiosi intenti a decidere se la trasformazione dell’arte
antica fu dovuta in prevalenza agli elementi orientali penetrati in essa,
oppure se essa si maturò per sviluppo di elementi tipicamente romani.
La questione è, come ho detto, essenzialmente una questione mal
posta. Essa presume che lo svolgimento dell’arte avvenga solo per

6
G. Galassi, Roma o Bisanzio, vol. 2, Il congedo classico e l’arte nell’alto Medio Evo (Roma,
1953), p. vi.
7
G. De Francovich, “I mosaici del bema della chiesa della Dormizione a Nicea (Consi-
derazioni sul problema: Costantinopoli, Ravenna, Roma)”, in Scritti di Storia dell’Arte in
onore di Lionello Venturi, con premessa di M. Salmi (Roma, 1956), pp. 173-197.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

contatti o per influenze di una civiltà artistica sull’altra, di un artista


sull’altro. Tre quarti delle monografie artistiche che si sono scritte e
che si scrivono non hanno altro scopo alla loro ricerca che di stabilire
tali influenze. Senza contare che influenze e imprestiti formali avven-
gono solo quando un determinato problema, che nell’imprestito trova
un modo più facile alla sua soluzione, è già nato (...); se siamo
d’accordo che il mutamento della forma artistica e del suo contenuto è
strettamente legato alle vicende della società della quale è espressione,
una questione come quella Oriente-Roma non ha motivo di esistere.
(...) Quello che diviene primario e fondamentale è rendersi conto delle
forze che agitano e trasformano la società e che si esprimono in un
linguaggio nuovo. Non sono tanto i contatti delle scuole artistiche
orientali, che valgono, quanto la situazione dell’impero romano e la
sua profonda trasformazione strutturale, a determinare la crisi e la
trasformazione. Elementi tradizionali ellenistici agiscono accanto a
elementi «nazionali» romani (...); concezioni mistiche, filosofiche e
religiose di provenienza orientale trovano terreno favorevole e gettano
nuove radici in occidente, motivi ornamentali e forme strutturali
orientali penetrano nella cultura artistica romana. (...) ma l’elemento
determinante in seno alla crisi resta il rivolgimento sociale, il giungere
al potere di una classe nuova, che si accentra sui coloni e sui soldati, e
che non è sostanzialmente diversa in occidente e in oriente.”.

In Occidente si ha il fenomeno stilistico della tarda antichità che


rompe la tradizione classica; in Oriente continua con più coerenza lo
svolgimento dal naturalismo ellenistico al raffinato formalismo bizan-
tino senza l’impatto di correnti popolari. Dunque, la questione
“Oriente o Roma”, che deriva da una lettura esclusivamente formale
dello svolgimento artistico, diviene irrilevante per interpretare la
nascita dell’arte postclassica:

“Dobbiamo pertanto scartare anche la questione «Oriente o Roma»


come irrilevante alla comprensione e determinazione del processo
storico che abbiamo qui cercato di delineare, cosı̀ come abbiamo
dovuto scartare le soluzioni puramente formalistiche, ancora correnti
8
nella storiografia artistica.” .

Più che “ancora correnti”, come diceva Bianchi Bandinelli, le


soluzioni formalistiche erano ben vitali e divennero egemoniche nella
storia dell’arte. Qualunque valutazione sia data dell’estetica crociana,
l’idea del primato dello stile sul contenuto è estranea al mondo

8
R. Bianchi Bandinelli, “La crisi artistica della fine del mondo antico”, Società 1 (1952),
pp. 427 sgg., citazioni da pp. 452-454.
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

bizantino, essendo casomai lo stile usato dagli artisti una scelta


dipendente dal contenuto da raffigurare o dai modelli da riprodurre.
A Bisanzio, preoccupazione dei pittori era il soggetto, che doveva
seguire la tradizione antica stabilita dai padri della Chiesa, mentre il
pittore era libero soltanto nella pratica dell’arte; in breve, per princi-
pio l’interesse primario dei committenti di opere d’arte e degli artisti
bizantini (ma anche di quelli del medioevo occidentale) era il conte-
nuto delle opere; i problemi dello stile con cui rappresentare il
contenuto venivano dopo. La ricerca dei modi propri e originali
dell’arte, degli elementi formali, della creatività, di geni artistici nel
mondo bizantino nella quale si affannavano storici dell’arte italiani
era destinata a finire in vicoli ciechi.
L’estetica crociana rappresentò uno dei maggiori pregiudizi alla
comprensione in Italia dell’arte bizantina. Garrison, come visto al
capitolo precedente, attribuı̀ proprio alla vuotezza di contenuto del-
l’estetica di Croce l’incapacità interpretativa dell’arte bizantina che
Longhi aveva mostrato nel “Giudizio”: il nostro interesse è la storia e
la filologia; Croce può sentenziare che bisogna considerare l’artista e
lasciar perdere le attribuzioni, ma senza le indagini filologiche delle
opere d’arte le valutazioni dei critici idealistici non potrebbero aver
luogo.
Anche Morey, decano degli storici dell’arte medievale americani,
imputava amichevolmente all’estetica di Croce le angustie della cri-
tica d’arte italiana. Il brano di Morey messo in epigrafe a questo
capitolo è tratto da una conferenza dello storico dell’arte di Prince-
ton letta a un convegno negli Stati Uniti, la quale rappresenta una
lucida spiegazione, non partigiana, dei nuovi percorsi della critica
artistica italiana, data da un testimone esterno, non certo marxista,
che aveva una esperienza privilegiata di anni di servizio come attaché
culturale americano nell’Italia della ricostruzione postbellica. Morey
era stato invitato a spiegare a un pubblico americano quali fossero “i
problemi, le minacce e le possibilità nel campo internazionale della
storia dell’arte” e, avendo confessato di conoscere bene solamente la
situazione italiana, aveva dedicato il suo intervento unicamente a
questa. In Italia, dunque, non si respirava nervosismo di fronte alla
minaccia comunista, sebbene essa fosse molto più specifica e ovvia
che negli Stati Uniti. L’atteggiamento generale al riguardo poteva
essere illustrato dal caso di Bianchi Bandinelli, descritto come un
aristocratico senese che aveva abbandonato il titolo di conte e aveva
trasformato le sue tenute in una cooperativa agricola per confermare
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

la sua fede comunista, ricevendo cosı̀ l’appellativo di “Conte Rosso”.

“Professor Bianchi Bandinelli, well known over here for his writings in
the ancient field, and especially for his recent book on the Historicity
of Ancient Art. He is a Sienese aristocrat, quite the last person that
one would expect to see in Communist ranks, but he dropped his title
of count and converted his estate into a cooperative farm to confirm
his complete adhesion to the Communist faith, acquiring in the pro-
cess the soubriquet of «Red Count».”.

Seguono poi le lodi della tolleranza politica del governo italiano:


il governo italiano non ha in realtà tolleranza con il comunismo, ma
ha nozioni antiche sulla distinzione tra professione politica e profes-
sione accademica; grazie a ciò, Bianchi Bandinelli mantiene ancora il
suo posto di professore all’Università di Firenze. Quindi la constata-
zione che Croce è la minaccia più grande per i buoni rapporti tra
storici dell’arte italiani e americani, la persona che con il suo influsso
condiziona in senso negativo i rapporti tra le due scuole di studi:

“Indeed as regards Croce, and if a more genial meaning be accorded


to the word «threat», one might include him in the factors conditioning
and restricting, in a certain sense, Italian writing in the field of
art-history at the present time.”.

Quasi ogni scrittore d’arte italiano si sente obbligato a identifi-


carsi come scolaro di Croce o, se è anticrociano, si sente obbligato a
giustificare la sua posizione non ortodossa. Il risultato è l’enfasi che
gli scrittori italiani pongono sull’atto creativo in arte secondo le
teorie di Croce e una corrispondente tendenza a minimizzare l’im-
portanza di contenuto, ambiente ed evoluzione storica. Questo atteg-
giamento nella critica d’arte è definito propriamente italiano dagli
Italiani, in contrasto con la disposizione americana a cercare nel
materiale e nelle condizioni storiche i fattori determinanti della
creazione artistica. Come conseguenza è difficile trovare nei giovani
studiosi italiani i successori di Adolfo Venturi e Pietro Toesca:

“Nearly every Italian who writes on art seems to feel himself in the
necessity of identifying himself as a pupil of Croce, or, if he is to any
extent anti-Croceian, he seems to feel the obligation of justifying first
of all his unorthodox position. In any case, the results is a prevalent
emphasis in Italian writing on the creative act in the work of art in
accordance with Croce’s theory that therein lies the essential artistic
fact, and a corresponding tendency to minimize the importance of
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

content, environment and historical evolution. In fact I have heard this


attitude defined by Italians as the characteristic Italian approach to
art-criticism, in contrast to the «American» disposition to seek in
material and historical conditions the determinants of artistic creation.
As a consequence, the History of Art as we conceive it, is likely to
prosper better here than in Italy. It is difficult to find among the
younger Italian scholars the successors of Adolfo Venturi and Pietro
9
Toesca.” .

b. La Mostra Storica Nazionale della Miniatura


Rispetto alla situazione dell’anteguerra l’interesse verso la miniatura
era ingigantito; con la ripresa della circolazione in Italia degli studiosi
stranieri dei paesi alleati gli anni Quaranta videro la pubblicazione di
nuovi studi e riproduzioni complete di manoscritti miniati conservati
in biblioteche italiane: Grabar, ad esempio, riprodusse il Gregorio
Nazianzeno della Biblioteca Ambrosiana di Milano, Weitzmann il
Rotulo di Giosuè della Vaticana10. L’evento maggiore fu certamente
l’apertura a Palazzo Venezia a Roma, dal novembre 1953 al luglio
1954, della Mostra Storica Nazionale della Miniatura, organizzata da
Salmi, che può essere presa come inizio degli studi sulla miniatura in
Italia. Come scopo della mostra Salmi pose, nella premessa al cata-
logo,

“promuovere e potenziare gli studi di storia della miniatura, non


attraverso indagini contenutistiche ed erudite come si fece in passato,
o non solo attraverso queste, bensı̀ soprattutto mediante approfondi-
menti storico-artistici volti a porre in evidenza i valori dello stile e
pertanto le personalità di primo piano che attesero alla decorazione del
libro, a somiglianza di quanto si è fatto e si fa per la pittura ma non si è
fatto nè si fa abbastanza per la miniatura.”11.

9
C. R. Morey, “Art and the History of Art in Italy”, College Art Journal 10 (1950-1951),
pp. 219-222, citazioni da pp. 219-220.
10
A. Grabar, Les miniatures du Grégoire de Nazianze de l’Ambrosienne (Ambrosianus 49-50),
vol. 1, Album (Paris, 1943) ; il previsto secondo volume di commentario non è mai uscito.
K. Weitzmann, The Joshua Roll. A Work of the Macedonian Renaissance (Princeton, 1948).
11
Mostra Storica Nazionale della Miniatura, Palazzo di Venezia, Roma [novembre 1953 –
luglio 1954], catalogo, a cura di G. Muzzioli (Firenze, 1953). La premessa di Salmi è alle
pp. xii-xvii ed il brano riportato nel testo è a p. xii. Su Salmi, vedi: Mario Salmi storico
dell’arte e umanista, Atti della giornata di studio, Roma, Palazzo Corsini, 30 novembre 1990
(Spoleto, 1991), ed in particolare sulla mostra di Palazzo Venezia e le sue finalità riflesse
nelle scelte espositive: M. G. Ciardi Dupré Dal Poggetto, “Il contributo di Mario Salmi alla
storia della miniatura: la Mostra Storica Nazionale della Miniatura”, pp. 45-64.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

Crocianamente, Salmi spinse la ricerca sulla miniatura verso lo


stile, piuttosto che verso il contenuto iconografico. Toesca com-
mentò scrivendo a Berenson nel dicembre del 1953:

“Il Salmi si propone di «potenziare» (vocabolo mussolinino) gli studi


sulla miniatura e di volgerli dalle ricerche «contenutistiche» alle inda-
gini stilistiche, ignorando che da quasi un secolo gli studi sui codici
miniati (dal Wickhoff all’Haseloff all’Hermann ecc.) sono stati uno dei
rami più vivi, fruttuosi e ammirevoli della storia dell’arte. Non si tratta
di «potenziare» o di dar nuovi indirizzi ma di augurare che il séguito
non disdica il passato!”12.

La mostra del 1953-1954 raccolse tanti dei tesori delle bibliote-


che italiane (furono esposti 748 manoscritti) nel tentativo di mo-
strare le connessioni della miniatura italiana sia con l’arte degli altri
paesi d’Europa, sia con quella dell’Oriente. Tra i manoscritti, una
trentina i manoscritti di area bizantina dal VI al XV secolo13. Le
schede del catalogo, redatte da un paleografo, Giovanni Muzzioli,
riprendevano frasi in uso nella bizantinistica di fine Ottocento ed
inizi Novecento, con scarsa professionalità e con l’aggiunta di qual-
che definizione inventata ad hoc, come “stile bizantino del cosid-
detto secondo periodo aureo”, “corrente aulica della miniatura bi-
zantina del secolo XIV”, “arte tardo-bizantina adriatica del secolo
XV”. Dopo la mostra parigina del 1931, era comunque la prima
volta che un cosı̀ grande numero di preziosi manoscritti bizantini
veniva presentato al pubblico; in questo l’esposizione fu eguagliata
solo da quella di Parigi Byzance et la France médiévale del 1958-1959
e da quella di Atene del 1964 Art byzantin art européen14. In Italia, la
mostra di Palazzo Venezia aveva avuto come predecessori la mostra
degli Acquisti e Doni delle Biblioteche Italiane (Roma, 1934), la

12
La lettera, datata 29 dicembre 1953, è conservata nella Biblioteca Berenson, Villa I
Tatti, Settignano (Firenze).
13
Tra questi l’Evangeliario siriaco di Rabbula, la raccolta ippocratica cod. plut. 74.7, i
Vangeli cod. plut. 6.23, i Vangeli cod. 6.28 ed il Cosma Indicopleuste cod. plut. 9.28 della
Biblioteca Laurenziana di Firenze; il frammento copto-sahidico di Giobbe (allora datato al
V secolo) ed il Dioscoride di Napoli; i Vangeli della Biblioteca Palatina di Parma, cod. 5;
l’Evangeliario purpureo di Rossano Calabro; il codice dei Profeti di Torino; la Catena su
Giobbe, il Salterio di Basilio II ed i Cinegetica di pseudo-Oppiano della Biblioteca Marciana
di Venezia.
14
L’art byzantin art européen, Athènes, Palais du Zappeion, 1964, catalogo della mostra
(Neuvième Exposition sous l’égide du Conseil de l’Europe. Athènes, 1964). Le espressioni
dal catalogo della mostra di Palazzo Venezia si leggono nelle schede per i nn 10 a p. 10, 25
a p. 18, 27 a p. 19.
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

mostra della biblioteca di Lorenzo il Magnifico (Firenze, 1949), la


mostra di codici miniati del Rinascimento della Biblioteca Trivul-
ziana (Milano, 1952), la mostra dei codici del SS. Salvatore dell’A-
croterio, appartenenti alla Biblioteca Universitaria di Messina (Mes-
sina, aprile 1953), la mostra della Biblioteca Malatestiana (Cesena,
1953)15.
Sul Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica Istruzione uscı̀
una recesione encomiastica della mostra, definita rara e imponente,
che solo la sapienza e la pazienza di Salmi avevano potuto allestire,
accompagnata da un catalogo “sontuoso e severo”, “magnifico sag-
gio” di ricerche e studi (l’autore della recensione si dichiara uno degli
allestitori della mostra). Il recensore-allestitore negava una specificità
metodologica alle indagini sulla miniatura rispetto a quella sulla
pittura; ripetuto che scopo della mostra era promuovere e potenziare
gli studi sulla miniatura, attribuiva a questi valore “solo se fondati su
basi storico-estetiche” ed arrivava retorico ed entusiasta alla conclu-
sione, metodologicamente per noi sconsolante: “quante, in verità, di
queste miniature, non parrebbero proiettate su uno schermo, grandi
tavole o affreschi di gran taglio? ”. In tutte le altre recensioni, pur
apparse su riviste di tendenze ben diverse, come, ad esempio, Para-
gone di Longhi e Società di Bianchi Bandinelli, la mostra fu giudicata
un fiasco16. I difetti principali imputati agli ideatori riguardarono la
scelta dei pezzi esposti – che rendevano la mostra una lacunosa
esposizione di tesori delle biblioteche italiane, incapace di fornire un
percorso storico della miniatura –, l’equivocità della attribuzione di
un carattere “nazionale” alla mostra, l’assenza di alcune biblioteche
nazionali e di tutte quelle estere tra i prestatori dei manoscritti, la
preminenza data all’arte di alcune regioni, come la Toscana, e le
lacune negli esempi di altre, come il Veneto. Infine, fu criticata

15
L’elenco di queste mostre è fornito da Carlo Bertelli nella recensione alla mostra di
Palazzo Venezia (“La mostra della miniatura”, Società 10 [1954], nota 4 p. 297). A questo
elenco va aggiunta la mostra di manoscritti bizantini del 1936 alla Vaticana: Catalogo della
mostra di manoscritti e documenti bizantini disposta dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e
dall’Archivio Segreto in occasione del V Congresso Internazionale di Studi bizantini, Roma, 20-26
settembre 1936.
16
R. Frattarolo, “La mostra della miniatura a Palazzo Venezia”, Bollettino d’arte, ser. 4,
39 (1954), pp. 341-347. A. A. [I. Toesca], “La Mostra storica nazionale della miniatura”,
Paragone n 51 (marzo 1954), pp. 32-38. Bertelli, “La mostra della miniatura”, pp. 296-303.
I. Toesca, “La mostra della miniatura a Palazzo Venezia”, Arte veneta 7 (1953), pp.
192-194; ead., “L’exposition de Rome”, Scriptorium 8 (1954), pp. 318-322; ead., “Miniatu-
res at the Palazzo Venezia”, The Burlington Magazine 96 (1954), pp. 22-23.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

l’assenza di didascalie e pannelli esplicativi cosı̀ che l’obiettivo di far


nascere nel pubblico l’interesse per la miniatura era fallito.
Soprattutto furono le scelte metodologiche ad apparire inade-
guate e ignare della strada percorsa dalla studi all’estero sulla minia-
tura. La dichiarazione iniziale sui valori dello stile e contro le inda-
gini contenutistiche fu bersagliata per la sua faciloneria e
presunzione: tra gli studiosi ignorati dai curatori della mostra si
elencarono Wickhoff, Schlosser, Dvořák, Laborde, Durrien, Winkler,
Hermann, Goldschmidt, Swarzenski, A. Venturi, P. D’Ancona, Ger-
stinger, Buchthal, Pächt. Le ricerche di questi studiosi – scrisse il
recensore di Paragone – erano state condotte con metodo di lavoro
tanto esatto e comprensivo da trovare difficilmente riscontro altrove
e non erano liquidabili con la semplicistica definizione di indagini
contenutistiche che il catalogo dava ad esse; lı̀ si erano unite in
maniera assolutamente esemplare ricerca stilistica e filologica, cosı̀ da
produrre una storiografia eccezionalmente attuale, includente un’in-
dagine vasta e complessa sui problemi della cultura nel senso più
lato, senza la quale la sola indagine stilistica poteva risultare priva di
base, puramente formale. La mostra cercava cosı̀ le personalità di
primo piano dell’arte della miniatura, piuttosto che il valore delle
relazioni tra immagine, testo e cultura di una società.
La recensione di Carlo Bertelli apparsa su Società si aprı̀ con
l’affermazione che la mostra rischiava di non offrire neppure ele-
menti di giudizio, dato che ne apparivano confusi scopo, criteri e
consistenza: mancavano le ragioni di una esibizione cosı̀ grandiosa e
costosa in patria, della quale sia il pubblico medio sia gli studiosi non
potevano ricevere vantaggi. Le schede del catalogo suggerivano una
subordinazione gerarchica della miniatura alla pittura e alla scultura,
con la prima che era considerata come una pittura in piccole dimen-
sioni capace nei casi più felici di raggiungere la sorella maggiore.
Anche Bertelli lamentava la mancanza di bibliografia aggiornata e
soprattutto che non si tenesse conto degli studi iconografici e filolo-
gici condotti a Princeton da Weitzmann e Friend Jr; l’affermazione,
fatta nella premessa del catalogo da Salmi, sulla necessità del poten-
ziamento degli studi sulla miniatura in Italia non attraverso le inda-
gini contenutistiche ed erudite, ma attraverso le indagini formali è
“dichiarazione perentoria e troppo limitatrice, nella sua pretesa di
innovazione, di una tradizione di studi altissima”:

“Ora, a parte la considerazione, che pure è indicativa, che questi criteri


«formali» – meglio diremmo formalistici – non sono serviti ad evitare
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

errori gravi, né hanno risparmiato la presentazione di un buon numero


di opere di qualità assai bassa, e di qualcuna di non provata autenti-
cità, essi si rivelano inadeguati ad uno studio serio della miniatura,
poiché non ne considerano i caratteri peculiari.”.

La miniatura non aveva necessità di rendersi intelligibile a un


pubblico indeterminato, cosı̀ da mantenere in sé un sempre maggiore
retaggio di cultura rispetto alla pittura monumentale, contribuendo
alla trasmissione per tutto il Medioevo di moduli e iconografie
classiche. La storia della miniatura non è dunque storia del libro
bello:

“Per tali ragioni la storia della miniatura, come non sempre coincide
con la storia della pittura, cosı̀ non si presenta quale storia del «libro
bello» o dell’ «amore» per esso, ammesso che ciò possa mai divenire
argomento di storia, ma come concreta ricerca di storia della cultura.”.

Stile, personalità artistiche e tradizioni di cultura e di ambiente


possono essere separate solo astrattamente nella miniatura:

“Cosı̀ è stato possibile, per il Weitzmann, dimostrare che il miniatore


bizantino si comportava dinanzi alla tradizione pittorica manoscritta
non diversamente dal sapiente bibliotecario, collazionando, emen-
dando e ricercando i lineamenti del prototitpo originario; al Friend è
riuscito, dall’analisi stilistica e iconografica dei ritratti degli evangelisti
e del loro inquadramento architettonico, non solo di precisare l’attività
di diversi scriptoria, ma anche di stabilire alcuni anelli della tradizione
dei Vangeli, per altra via irreperibili.”.

c. L’entrata ed uscita di scena della Siria


Alla mostra del 1953 Salmi fece seguire nel 1955 la Storia della
miniatura italiana. Salmi stesso ricordò che dalla mostra romana era
venuta l’idea della pubblicazione del facsimile dell’Evangeliario di
Rabbula, un codice datato al 586 ed eseguito nel Convento di San
Giovanni di Zagba, a quel tempo erroneamente localizzata in Meso-
potamia, che apparve nel 1959 con commentari di Giuseppe Furlani
(sul manoscritto in generale), Cecchelli (sui particolari iconografici
delle miniature) e Salmi (sullo stile). Cecchelli confermò la sua
conversione da disprezzatore giovanile della civiltà bizantina, nei
convegni dell’Istituto di Studi Romani, a suo studioso; la sua analisi
iconografica, però, si limita a puntigliose notazioni prive di fonda-
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

menti metodologici generali. Salmi si concentrò sulla distinzione tra


più mani delle miniature, individuando quattro miniatori all’opera,
rappresentanti di due correnti stilistiche differenti, una più elleni-
stica, l’altra più astratta17.
L’exploit dell’arte siriaca negli studi italiani era comunque già
avvenuto nel 1951, per opera di De Francovich, che era stato
redattore all’Enciclopedia italiana alla fine degli anni Venti, poi stu-
dioso di scultura romanica, ed aveva pubblicato nel 1951 un lungo
saggio in tre parti “L’arte siriaca e il suo influsso sulla pittura
medievale nell’Oriente e nell’Occidente” in Commentari, la rivista
diretta da Venturi e Salmi18. De Francovich fece della Siria il luogo
di origine e di diffusione per secoli di una corrente espressionistica di
origine microasiatica in seno all’arte ellenistica che sarebbe stata
determinante per Bisanzio e l’Occidente medievale (figg. 114-115).
Scrittore “temperamentvoll” di piglio longhiano, De Francovich era
insoddisfatto dei lavori princetoniani sui mosaici di Antiochia; man-
cava, a suo dire, una trattazione della storia stilistica dell’arte della
metropoli siriana. Cosı̀ comincia il suo saggio in Commentari:

“I problemi cui accennerò rapidamente in questo studio sull’arte


siriaca mi si sono affacciati durante la lenta e laboriosa stesura di un
lavoro sulle origini dell’arte medioevale, sull’arte cioè di quell’oscuro e
complesso periodo che si estende dalla fine del sec. III e principio del
IV fino all’epoca carolingia. Sono forzatamente accenni brevi e succinti
che condensano in una forma assai sommaria i risultati cui credo di
essere giunto nei riguardi della fisionomia artistica della Siria paleocri-
stiana, che riveste, assieme a Costantinopoli, un’importanza fonda-
mentale sia per lo svolgimento dell’arte paleocristiana in genere che
per le ulteriori vicende della pittura medioevale nell’Oriente e nell’Oc-
cidente.”.

Anche De Francovich era convinto che l’approccio corretto alle


opere d’arte fosse unicamente quello stilistico; di fatto, i suoi scritti
oscillano tra presunzione e insulti verso ogni voce discorde dalla sua;

17
The Rabbula Gospels. Facsimile Edition of the Miniatures of the Syriac Manuscript Plut. I,
56 in the Medicaean-Laurentian Library / Evangeliarii Syriaci, vulgo Rabbulae, in Bibliotheca
Medicea-Laurentiana (Plut. I,56) (Olten – Lausanne, 1959): G. Furlani, “The Manuscript
of Rabbula”, pp. 8-21; C. Cecchelli, “The Iconography of the Laurentiana Syriac Gospels”,
pp. 23-82; M. Salmi, “Problems of Style”, pp. 83-89.
18
G. De Francovich, “L’arte siriaca e il suo influsso sulla pittura medievale nell’Oriente e
nell’Occidente”, Commentari 2 (1951), pp. 3-16, 75-92, 143-152. La bibliografia e un
profilo dell’opera di De Francovich si trovano in G. De F., Persia, Siria, Bisanzio nel
Medioevo artistico europeo (Napoli, 1984), a cura di V. Pace, pp. xi-xiii e xv-xvii.
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

da un punto di vista metodologico, comunque, sono un tentativo di


applicare l’estetica crociana alle opere d’arte dei primi secoli del
Cristianesimo in Oriente. Negli scritti in onore di Lionello Venturi,
del 1956, discutendo dei perduti mosaici nel bema della chiesa della
Dormizione a Nicea, De Francovich fissò la diversità di valore che
separa l’elemento stilistico nelle opere d’arte dagli aspetti esterni
iconografici, paleografici e storici; nella mancanza del riconosci-
mento del diverso valore di questi approcci stava il principale difetto
delle trattazioni sull’arte paleocristiana e bizantina:

“Ma la storia dei mosaici absidali della chiesa della Dormizione di


Nicea, oltre a rivelare la veramente incomprensibile trascuranza da
parte degli studiosi di una delle più importanti testimonianze della
civiltà pittorica bizantina dell’epoca paleocristiana, mette pure in ri-
lievo il principale difetto di cui soffre buona parte delle trattazioni
d’arte di questo periodo: la mancanza cioè di un metodo che ponga
l’accento principale sull’elemento stilistico dell’opera d’arte anziché
sugli aspetti esterni di essa quali l’iconografia, la paleografia e via
dicendo. Il lettore avrà infatti osservato che tutti gli studiosi, ad
eccezione del Delbrück, che si sono pronunciati contro o in favore
della tesi dello Schmit, sono ricorsi esclusivamente a considerazioni di
carattere iconografico, paleografico ed anche storico, che sono servite,
a secondo dei casi, a confermare o ad escludere la data del secolo VI,
assegnata dallo Schmit agli angeli della chiesa della Koimesis di Nicea,
dimostrando in tal modo ad evidenza la scarsa attendibilità di siffatti
ragionamenti.
Eppure è evidentissimo, a mio avviso, che l’impronta stilistica di questi
mosaici preclude perentoriamente la loro datazione ai secoli VIII-IX,
sostenuta dal Wulff e dalla stragrande maggioranza degli studiosi.”.

Anche per i mosaici di Antiochia, la critica, in particolare in


questo caso Morey e Levi, aveva mancato di definire tendenze e
“gusto” (un termine che viene probabilmente da Lionello Venturi,
che insegnava a Roma come De Francovich) degli artisti antiocheni.
Andava colmata la lacuna dell’indagine stilistica dei mosaici, che non
era interessata ai due princetoniani, Morey e Levi, almeno nei
termini in cui De Francovich la intendeva. Per lui peculiare dello
stile della scuola antiochena era la “plasticità salda e forte dei corpi
contraddistinti da proporzioni massicce, atticciate ed avvolti in ampi
e grevi paludamenti”. Questa variante antiochena dell’arte ellenistica
perdurerebbe fino ad almeno il VI secolo, come provato dalle minia-
ture nel codice dei Vangeli syr. 33 della Biblioteca Nazionale di
Parigi e, soprattutto, in alcune delle miniature dell’Evangeliario di
Rabbula:
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

“Pure le miniature principali dell’evangeliario del monaco Rabula della


Laurenziana di Firenze, redatto nel 586 nel monastero di San Gio-
vanni di Zagba in Mesopotamia, sono eseguite in un linguaggio figura-
tivo tutto impregnato di suggestioni classicheggianti che si riflettono
nel muoversi e gestire delle figure, nel loro panneggiare, nella vigorosa
plasticità dei corpi, nella ricerca, sia pur sporadica, di profondità
spaziali, nel fluido illusionismo pittorico delle miniature a piena pagi-
na.”.

È, comunque, l’altra corrente siriaca, quella espressionistica, il


principale interesse di De Francovich; ad essa sono legate le minia-
ture del codice di Rabbula dallo stile più innovativo:

“in altre miniature – e sono la maggioranza – si nota un intenso


dinamismo di movimenti che efficacemente si esprime, ad esempio,
nella scena dell’Ascensione nel rapido accorrere dei due angeli verso il
Cristo entro la mandorla sollevata da cherubini, nell’agitato gesticolare
degli apostoli, nel contorno, tormentato da risentite sporgenze e rien-
tranze, delle figure.”.

Lo “spirito fortemente drammatico” ed il “veemente espressioni-


smo” di questa corrente artistica hanno la loro origine in Asia
Minore, nel mosso ed appassionato pathos espressivo affermatosi in
quelle zone già con l’altare di Pergamo, nel vivace colorismo chiaro-
scurale dei rilievi dei sarcofagi di Sidamara e della scultura di Afrodi-
sia e di Efeso; poi, nel IV-VI secolo questa corrente artistica si
diffonde in Siria e diventa la caratteristica distintiva dell’arte siriaca,
come confermato da una serie di oggetti di argenteria rinvenuti nella
Siria settentrionale e dispersi in vari musei (specialmente le patene
d’argento di Stûmâ e di Riha del VI-VII secolo ed il cosiddetto calice
di Antiochia) e dai principali codici assegnati a quell’area, come la
Bibbia siriaca di Parigi (Bibliothèque Nationale, cod. syr. 341), il
Rossanense, il Sinopense, la Genesi di Vienna.
L’esame stilistico degli oggetti sicuramente della capitale Costan-
tinopoli porta invece a indicare due correnti caratteristiche dell’arte
della capitale bizantina – De Francovich esamina la miniatura dedi-
catoria con Anicia Juliana e altre miniature nel Dioscoride di Vienna,
i rilievi della base dell’obelisco di Teodosio a Costantinopoli ed altre
opere: la corrente classica ellenistica che si mostra particolarmente
viva proprio nelle miniature del Dioscoride viennese, nella “maniera
pittorica schiettamente impressionistica dai colori chiari, brillanti,
pastosi”, e “il fattore astratto trascendentale di origine orientale”,
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

visibile nell’oro degli sfondi, “che abolisce ogni accenno a uno spazio
realistico, sı̀ che le figure sembrano librate nell’aria”, come nella
miniatura dedicatoria dello stesso codice. Anche altre opere costanti-
nopolitane presentano lo stesso contrasto tra elementi classico-
naturalistici ed elementi astratto-orientali, i quali ultimi derivano
dallo stile solenne e ieratico di origine orientale già visto nel tempio
delle divinità palmirene di Dura Europos. Dunque, da elementi
attinti al mondo ellenistico di Alessandria, alla civiltà orientale-
iranica e alla tradizione figurativa dell’Asia Minore sorge l’arte di
Costantinopoli, il cui gusto precipuo sarebbe da cercarsi nella “eurit-
mia che permea e pervade le opere più schiettamente costantinopoli-
tane dell’epoca paleocristiana e che rimarrà anche in seguito una
delle principali caratteristiche degli artisti bizantini”. De Francovich
tentò cosı̀ una sintesi delle idee orientaliste di Strzygowski (sulle
orme dell’austriaco, annunciò un articolo o un libro in cui promette
di dimostrare la decisiva influenza dell’arte iranica sull’arte copta) e
della idea dell’origine dell’arte bizantina dai centri ellenistici orientali
proposta da Ainalov e ripresa dal biasimato Morey.
De Francovich attaccò focosamente nei suoi scritti studiosi in
disaccordo con lui sia quanto a letture stilistiche sia quanto a ap-
procci metodologici: Morey, Levi, Rice, Diehl e l’italiano Bettini
finiscono all’indice19. Le espressioni di De Francovich sono frequen-
temente invettive polemiche, al limite dell’ingiuria, nei confronti di
altri studiosi quasi tutti giudicati incompetenti. Bettini, che fu tra i
suoi principali bersagli, rispondendo a De Francovich l’anno succes-
sivo in “Di San Marco e di altre cose” fece un elenco degli studiosi
dileggiati da De Francovich (a cui diede l’epiteto di “oracolo romano
in cose bizantine, orientali e meridionali”) nell’articolo in Commen-
tari: Bréhier, Buberl, Buchthal, Dalton, Heisenberg, Morey, Norden-
falk, Rice, Swarzenski, Whittemore, Weigand, Weitzmann, Wulff tra
gli stranieri, cioè quasi tutta la bizantinistica, con la significativa
eccezione di Strzygowski; Bottari, Doro Levi, Fiocco, Morisani,
Ortolani, Salvini tra gli italiani. La polemica tra i due studiosi
decadde nelle offese tout court: Bettini stilò anche una lista di
stupidaggini scritte da De Francovich (la colonna invece che l’obeli-

19
De Francovich, “L’arte siriaca e il suo influsso”, citazioni nel testo da pp. 3 e 6-7. In “I
mosaici del bema della chiesa della Dormizione a Nicea”, p. 20 nota 39, De Francovich
dice che “il problema dell’arte alessandrina sarà da me esaminato più a fondo nel mio
saggio: L’arte iranica e l’origine del linguaggio figurativo bizantino e medievale, di prossima
pubblicazione nella Rivista dell’Istituto naz. d’archeologia e storia dell’arte.”.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

sco di Teodosio, ad esempio), definı̀ De Francovich uno studentello


appena laureato che ha bisogno per le sue tesi “di appoggi autorevoli:
l’ha detto il babbo!”; sottolineò il livore morale di essere etichettato
da lui tra i romanisti (accusa che irritava Bettini per la sua coda di
paglia nella questione); colpito nel segno, De Francovich replicò in
“Della Siria e di altre cose” apparso nello stesso 1953, un articolo in
cui premetteva varie offese iniziali a Bettini, riconduceva a suo favore
una citazione da Weitzmann che Bettini aveva riadattato troncandola
a bella posta, riportava le recensioni ai libri di Bettini uscite all’estero
che davano al padovano dell’incompetente, si difendeva dall’accusa
che lui conoscesse la Storia della pittura bizantina di Lazarev solo da
riassunti apparsi su riviste tedesche ammettendo che – Bettini aveva
ragione – lui non conosceva il libro di Lazarev perché uscito nel
1951, cioè dopo il suo articolo su Commentari (una bugia, perché il
libro di Lazarev era uscito nel 1947-1948), e via dicendo su questo
tono20. La polemica tra i due è cosı̀ velenosa e piena di falsità
reciproche che non vale la pena di essere seguita oltre. Va detto che
il clima tra gli storici dell’arte in quegli anni era segnato da feroci e
rozze accuse. Lionello Venturi, di fronte a quello che la rivista Il
Mondo aveva definito cannibalismo critico, aprı̀ il fascicolo di luglio-
settembre 1954 di Commentari con un corsivo in cui denunciava
l’impossibilità di proseguire nelle accuse reciproche tra storici del-
l’arte di essere imbroglioni, meretrici, falsari, truffatori, al quale pose
il grande titolo cubitale in mezzo alla pagina, a mo’ di manifesto
murale “Si propone una tregua”21:

SI PROPONE UNA TREGUA

Alcuni colleghi stanno polemizzando tra loro con ferocia e si rinfac-


ciano non solo di essere incompetenti ma persino imbroglioni, mere-
trici, falsari, truffatori.
L’atmosfera di questa nostra aiuola è diventata irrespirabile. Il Mondo
ci accusa di essere cannibali, e non abbiamo nemmeno più la forza di
protestare.
Si propone una tregua di un anno. Naturalmente le discussioni sui fatti
e sulle idee debbono continuare. Ma se per un anno si mettessero da
parte gl’insulti personali, l’animo più calmo e il cervello schiarito
polemizzerebbero in un modo più decente.

20
S. Bettini, “Di San Marco e di altre cose”, Arte veneta 6 (1952), pp. 196-208. G. De
Francovich, “Della Siria e di altre cose”, Commentari 4 (1953), pp. 318-334.
21
L. Venturi, “Si propone una tregua”, Commentari 5 (1954), p. 167.
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

LIONELLO VENTURI

De Francovich ribadı̀ con fervore le sue tesi sull’espressionismo


siriaco e sul suo ruolo determinante nella formazine dell’arte bizan-
tina e altomedievale dell’Occidente in vari articoli posteriori; e deter-
minò una ‘corrente pansiriaca’ all’interno degli studiosi italiani del-
l’arte medievale alla quale aderirono suoi allievi e collaboratori.22
Come Strzygowski, De Francovich cercò sempre più in Oriente
l’origine delle correnti artistiche del Medioevo ed anche lui finı̀ con
l’attribuire importanza nella trasmissione di modi artistici alle regioni
del Mediterraneo occidentale (in particolare la Spagna visigotica e
l’Italia longobarda) all’arte armeno-georgiana, discendente da quella
siro-mesopotamica, dove il retaggio classico era stato, secondo De
Francovich, sopraffatto dagli stilemi iranici dei Parti e dei Sasanidi;
un’area dove “dovettero incrociarsi e coesistere contemporanea-
mente, nei secoli VII e VIII, forme e stili di diversa origine –
siro-palestinese, ellenistica, persiana, bizantina”. L’idea di De Fran-
covich ricalca quella di Strzygowski dell’altopiano iranico come cro-
giolo dove sarebbero stati assorbiti e rielaborati gli influssi asiatici e
poi ritrasmessi al mondo ellenistico.
Le idee di De Francovich sulla Siria antica non sono considerate
dagli archeologi, i quali hanno una visione dell’arte della Siria omo-
genea a quella degli altri centri ellenistici del Mediterraneo orienta-
23
le . Anche l’insistenza sul determinante ruolo dell’espressionismo

22
Per altri studi di De Francovich sull’arte orientale vedi in bibliografia. Chi scrive ha
sottolineato più volte l’importanza della cristianità di Siria nella formazione della cultura
figurativa bizantina, ma, a differenza di De Francovich, l’ha ritrovata nel campo della
formazione dell’iconografia biblica: vedi, tra gli altri, M. Bernabò, “Miniatura bizantina e
letteratura siriaca: la ricostruzione di un ciclo di miniature con una storia vicina alla Caverna
dei Tesori”, Studi Medievali, ser. 3, 34 (1993), pp. 717-737, e le pagine sul ruolo delle fonti
siriache nella formazione del ciclo degli Ottateuchi bizantini in K. Weitzmann e M.
Bernabò, con la collaborazione di R. Tarasconi, The Byzantine Octateuchs (Princeton, N.J.,
1999), pp. 317-318.
23
G. De Francovich, “Osservazioni sull’altare di Ratchis a Cividale e sui rapporti tra
Occidente e Oriente nei secc. VII e VIII d.C.”, in Scritti di storia dell’arte in onore di Mario
Salmi, (Roma, 1961), vol. 1, pp. 173-236, citazioni da pp. 201 e 204. Anche la differenzia-
zione comune nella critica fascista tra arte romana plastica e arte bizantina ritorna nella
affermazione della struttura plastica e dei valori lineari dell’arte romana che reagisce alla
sensibilità cromatica e all’euritmia che contraddistinguono in sommo grado l’arte di
Costantinopoli (De Francovich, “I mosaici del bema della chiesa della Dormizione a
Nicea”, pp. 20-21). Altrove (ivi, p. 13), De Francovich definisce l’arte bizantina dopo il VI
secolo come caratterizzata da “un sempre più accentuato processo di astrazione, basato sul
graduale prevalere del sistema lineare stilizzato”, una definizione che non corrisponde
all’arte bizantina di quel periodo. M. Mundell Mango, “Where was Beth Zagba?”, in
Okeanos. Essays presented to Ihor Ševčenko on his Sixtieth Birthday by his Collegues and
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

siriaco non ha avuto mai grande eco nella bizantinistica internazio-


nale, indebolita dai rinvenimenti archeologici in Siria e recentemente
dalla localizzazione di San Giovanni di Zagba, il monastero dove fu
realizzato l’Evangeliario di Rabbula, che è uno dei caposaldi delle
tesi di De Francovich, non lontano da Antiochia e da Apamea invece
che in Mesopotamia come creduto negli anni Cinquanta.

d. L’Iliade Ambrosiana come problema metodologico


Come raccontato al capitolo precedente, Bianchi Bandinelli (fig.
116) collaborò a Roma con Morey nell’immediato dopoguerra. Bian-
chi Bandinelli ringraziò Morey insieme al prefetto dell’Ambrosiana,
monsignor Giovanni Galbiati, Berenson e, soprattutto, Weitzmann
per suggerimenti e aiuto nel fornirgli fotografie per il suo libro
sull’Iliade Ambrosiana. Lo stesso Bianchi Bandinelli riferı̀ a Berenson,
in una lettera del 6 gennaio 1946, di star lavorando con Morey e con
Levi, mentre è a Roma al Ministero per organizzare gli istituti di
archeologia. Ancora nel 1946, Bianchi Bandinelli scrisse a Berenson
di voler fare un libro sulla Colonna Traiana e aggiunse:

“E poi spero ancora di fare l’edizione facsimile della Ilias Ambrosiana


forse con un editore svizzero. I due argomenti, per quanto diversi sono
meno lontani di quanto possa sembrare, perché sono sempre più
persuaso della derivazione degli schemi del rilievo storico romano (e
particolarmente della colonna trajana) dalle illustrazioni pittoriche
ellenistiche.”24.

Anche Weitzmann in Illustrations in Roll and Codex del 1947 si


occupò dei rilievi della Colonna Traiana e dei loro rapporti con la
illustrazione dei testi classici, formulando però ipotesi diverse da
Bianchi Bandinelli25. Ben più della maggioranza dei colleghi archeo-

Students, a cura di C. Mango e O. Pritsak (Harvard Ukrainian Studies 7 [1983]), pp.


405-430; ead., Silver from Early Byzantium. The Kaper Koraon and Later Treasures (Balti-
more, 1986). Per una confutazione generale delle tesi di De Francovich e in particolare del
ruolo della Siria nello sviluppo dell’arte altomedievale italiana vedi P. J. Nordhagen,
“Italo-Byzantine Wall Painting of the Early Middle Ages: An 80-Year Old Enigma in
Scholarship”, in Bisanzio, Roma e l’Italia nell’Alto Medioevo, Settimane di Studio del Centro
Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 34, Spoleto, 3-9 aprile 1986 (Spoleto, 1988), pp.
622-623.
24
Le due lettere di Bianchi Bandinelli a Berenson sono conservate presso la Biblioteca
Berenson, Villa I Tatti, Settignano (Firenze).
25
Weitzmann, Illustrations in Roll and Codex, pp. 123 sgg.
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

logi europei Bianchi Bandinelli apprezzò i risultati degli scavi di


Antiochia, come ricorda Weitzmann nelle sue memorie26. Il libro di
Bianchi Bandinelli sull’Iliade Ambrosiana fu pubblicato nel 1955, in
ritardo rispetto ai tempi di completamento dell’autore, a causa del
veto posto dal cardinale Mercati su Bianchi Bandinelli, in quanto
comunista; questo veto portò anche alla defenestrazione di Galbiati
da prefetto dell’Ambrosiana, come Bianchi Bandinelli stesso rac-
contò scrivendo a Berenson il 15 settembre 1951:

“Caro B.B.,
sono molto contento che Lei sia d’accordo con la datazione fine V –
inizio VI secolo che io propongo per le miniature dell’Iliade Ambro-
siana. (La mia tendenza è sempre più per la seconda data). Quella dei
precedenti editori al III, è assurda.
Ma nella Sua lettera, per la quale La ringrazio molto, mi ha particolar-
mente colpito l’accenno a pitture del Nord-Africa. Io ho trovato molta
somiglianza “di famiglia” con frammenti di vasi dipinti trovati a
Wadi-Sarga da R. Campbell Thomson, databili da monete che vanno
da Giustiniano a Maurizio, cioè dal 530 al 602.
Queste connessioni con il N. Africa, e altre cose, indicano Costantino-
poli come luogo d’origine del codice. Credo di aver trovato sufficienti
spiegazioni al perché l’unico miniatore si sia ispirato a modelli icono-
grafici diversi e di tempi diversi: ci dovevano essere edizioni separate
libro per libro, come per la Bibbia.
Dove invece purtroppo, caro B. B., Lei non ha ragione, è quando
crede che il veto di Mercati contro di me non sia di ragione politica: il
Cardinal Mercati ha avuto la franchezza (della quale gli sono grato) di
dirlo personalmente a me in un colloquio concessomi nel luglio scorso;
lo ha poi ripetuto all’editore; e l’accordo fatto da Galbiati con me gli è
sembrato cosı̀ grave, che il povero Galbiati, che si preparava a festeg-
giare il proprio giubileo, è stato deposto dalla carica di Prefetto
dell’Ambrosiana. (Tutto questo, del resto, è in linea con lo spirito di
«crociata» del recente messaggio pontificio). Io cerco, per il momento,
di salvare il mio lavoro scientifico, che mi interessa molto e che ho,
praticamente, già pronto. Ma politicamente questi Signori Reverendis-
simi mi hanno dato in mano delle carte contro di loro, che non
mancherò di usare, se non altro per mio divertimento.
27
Grazie per l’invito a usare la Sua biblioteca anche in Sua assenza.” .

26
Weitzmann, Sailing with Byzantium from Europe to America, p. 101.
27
La lettera è conservata nella Biblioteca Berenson, Villa I Tatti, Settignano (Firenze).
Sul comunismo di Bianchi Bandinelli scrisse Toesca a Berenson il 20 dicembre 1945:
“(...) il povero Bianchi Bandinelli. Il quale, a proposito, qualche tempo fa si lamentava
meco di una certa freddezza di B.B., che da un pezzo non gli scriveva. Sarà perchè Bianchi
Bandinelli è ... comunista?”.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

La discussione sull’Iliade Ambrosiana (figg. 117-118) toccò


aspetti diversi, da quelli interni al manoscritto (datazione e luogo di
origine), a quelli storici generali (la storia della illustrazione dei testi
in età romana e bizantina), a quelli metodologici (la definizione di
una metodologia con la quale affrontare lo studio dei manoscritti
miniati). Bianchi Bandinelli concluse che il manoscritto va datato
alla fine del V od agli inizi del VI secolo; quanto al luogo di
esecuzione, dopo la proposta di Costantinopoli avanzata nel libro,
Bianchi Bandinelli accettò in seguito quella di Alessandria fatta da
Weitzmann e confermata su base paleografica da Guglielmo Caval-
lo28.
Bianchi Bandinelli aveva suddiviso le miniature dell’Iliade Am-
brosiana in quattro gruppi principali secondo il loro schema
iconografico-compositivo: un Gruppo A o ‘maniera del rotulo’, con
miniature a schemi compositivi “a figure isolate, quasi tratte una per
una da un repertorio e giustapposte senza intima connessione tra di
loro, e allineate senza alcun accenno a sfondo o ambiente” (che è
quasi la stessa definizione che Weitzmann dà per le illustrazioni in
quello che chiama ‘stile del papiro’); un Gruppo B, o ‘maniera del
fregio dipinto o maniera delle grandi pitture e fregi del periodo
ellenistico’, con miniature a composizioni a “carattere più com-
plesso, spiccatamente ellenistico” derivate da composizioni pittoriche
(fig. 117); un Gruppo C, o ‘maniera della pittura di tradizione
ellenistica in rielaborazione del III secolo in centro del Mediterraneo
orientale’ (probabilmente Alessandria) (fig. 118); un Gruppo D, o
‘maniera dei mosaici della navata di Santa Maria Maggiore a Roma’,
con miniature risalenti a composizioni della fine del IV – inizi del V
secolo. Un sottogruppo CE comprende le miniature dove appare la
prosecuzione bizantina della tradizione ellenistica: dato che le minia-
ture dell’Iliade Ambrosiana stanno ai confini tra l’arte antica e quella
bizantina, la cui arte si costituı̀ a partire dal VI secolo con Giusti-
niano o al più tardi con Eraclio dal VII secolo, alcune delle sue
miniature sono fuori dell’ellenismo, pur derivandone, ed apparten-
gono ad un mondo artistico diverso che sarà quello bizantino.
Bianchi Bandinelli concluse che più cicli di illustrazioni omeriche
erano confluiti nel codice milanese e che i nuclei più importanti di

28
Bianchi Bandinelli, “Discussione sull’Iliade Ambrosiana”, pp. 1-2. G. Cavallo, “Osser-
vazioni di un paleografo per la data e l’origine dell’Iliade Ambrosiana”, Dialoghi di
archeologia 7 (1973), pp. 70-85.
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

questi cicli si erano originati come pitture, non come illustrazioni di


testi, e vennero in seguito trasferiti nella illustrazione dei libri ome-
rici. Quindi:

“In tesi generale noi sappiamo che nell’età carolingia e durante tutta
l’età medievale le miniature dei codici sono state un importante
veicolo di diffusione di iconografie e anche di modi artistici, e che da
esse dipendono talora anche opere d’arte di grande formato e pitture
(questa circostanza ha contribuito a far consistere le ricerche degli
specialisti soprattutto in raccolte iconografiche). Invece per il mondo
antico dovremo concludere per il procedimento inverso: le miniature si
dimostrano dipendenti iconograficamente dalla grande arte, e solo
relativamente tardi esse palesano lo svilupparsi di un gusto artistico
proprio e di regole coloristiche e compositive particolari. (...) Il codice
ambrosiano sta, con le sue illustrazioni, a metà strada fra la miniatura
che è riduzione e adattamento di pitture e la miniatura autonoma; con
prevalenza tuttavia della prima.”29.

Bianchi Bandinelli più volte rimarcò la sua distanza dalle propo-


ste di Weitzmann. Scrisse nella “Dicussione sull’Iliade Ambrosiana”
del 1961:

“la differenza fondamentale nel modo di considerare i vari problemi,


che è stato tenuto dal Weitzmann e da me, è che per il Weitzmann le
miniature dell’Iliade Ambrosiana sono considerate esclusivamente un
capitolo di storia della illustrazione del libro, mentre per me sono in
primo luogo un documento della civiltà artistica ellenistica e della sua
continuità in epoca cosı̀ tarda, seconda metà del V o inizi del VI
secolo.”.

e nelle “Conclusioni sull’origine e la composizione dell’Iliade Ambro-


siana” del 1973:

“Si potrebbe rafforzare, perciò, l’ipotesi che questo codice rappresentò


una impresa isolata nella sua completezza, per la quale, come ci si
ispirava a modelli antichi per le forme della scrittura, si andarono
ricercando modelli illustrativi, ma anche pittorici, di età precedenti.
(...) Il valore dell’Iliade Ambrosiana come documento per la storia della
pittura che io avevo cercato di porre in evidenza contro la tendenza a
vedervi solo un documento per la storia della illustrazione, acquista
importanza. Viene confermato il processo dal modello pittorico all’illu-
strazione nella tarda antichità, mentre poi in età bizantina si avrà il

29
Bianchi Bandinelli, “Continuità ellenistica”, p. 149.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

processo inverso, dall’illustrazione alla pittura o al mosaico. Ed è


l’abitudine a quest’ordine di derivazioni che rende spesso gli specialisti
30
di miniature meno sensibili ai problemi storico-artistici generali.” .

Weitzmann pose varie obiezioni alla proposta di più cicli di


illustrazioni omeriche come fonti delle miniature del codice mila-
nese; meglio pensare a un modello unico il cui ciclo avesse subito nel
corso dei secoli modifiche della struttura compositiva delle sue illu-
strazioni. Le tesi generali di Weitzmann sulla storia della illustrazione
dei testi in età classica e medievale sono state confermate da molte
indagini posteriori su cicli miniati, ma non riguardano più la nostra
narrazione; tuttavia, va detto che la collazione di più cicli al fine di
produrre un nuovo ciclo miniato per la nuova edizione di un testo in
un codice – l’idea di Bianchi Bandinelli osteggiata da Weitzmann per
l’Iliade Ambrosiana – deve essere presa come metodo diffuso nella
produzione di nuove edizioni di manoscritti miniati – un processo
che è normale nella produzione di nuove edizioni di testi. Weitz-
mann stesso la ammise per molti cicli miniati medievali (i casi di
manoscritti miniati da lui definiti policiclici).
Bianchi Bandinelli sostenne nuovamente l’idea di una fusione in
un unico ciclo di illustrazioni provenienti da cicli diversi per la
Genesi di Vienna (fig. 119), un altro dei più famosi manoscritti
bizantini, al quale dedicò un saggio nel 1955 in molto basato sull’ap-
proccio alle illustrazioni bibliche medievali elaborato da Morey e
Weitzmann31. La Genesi di Vienna era stato uno dei codici più
discussi quanto a datazione e luogo di origine sin dalla fine dell’Otto-
cento; ad essa avevano dedicato studi dettagliati Wickhoff (1895),
Morey (1929), Buberl (1936 e 1937-1938) e Hans Gerstinger
(1931)32. Bianchi Bandinelli si associò alla proposta di Buberl: il

30
Bianchi Bandinelli, “Discussione sull’Iliade Ambrosiana”, pp. 3; id., “Conclusioni”,
ristampa p. 176.
31
Per le idee di Weitzmann sui manoscritti policiclici vedi Illustrations in Roll and Codex,
pp. 193-199. R. Bianchi Bandinelli, “La composizione del diluvio nella Genesi di Vienna”,
Mitteilungen des Deutsches Archäologischen Instituts. Römische Abteilung 62 (1955), p. 66-77.
32
W. Rittel von Hartel e F. Wickhoff, Die Wiener Genesis (Prag – Wien – Leipzig, 1895);
C. R. Morey, “Notes on East Christian Miniatures. Cotton Genesis, Gospel of Etschmiad-
zin, Vienna Genesis, Paris Psalter, Bible of Leo, Vatican Psalter, Joshua Roll, Petropolita-
nus XXI, Paris gr. 510, Menologion of Basil II”, The Art Bulletin 11 (1929), pp. 5-103; H.
Gerstinger, Die Wiener Genesis (Wien, 1931); P. Buberl, “Das Problem der Wiener Gene-
sis”, Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien, n. s., 10 (1936), pp. 9-58, e Die
byzantinischen Handschriften, vol. 1, Der Wiener Dioskurides. Die Wiener Genesis, 2 voll.
(Illuminierten Handschriften in Österreich, 8, 4. Leipzig, 1937-1938).
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

codice di Vienna è una copia eseguita ad Antiochia nell’ultimo


quarto del VI secolo di un codice di età giustinianea, che a sua volta
risaliva a un codice illustrato del IV secolo. Lo stile del codice, che è
rivolto all’astrazione e nega consapevolmente il rapporto realistico tra
figura e spazio, rappresenta la nuova arte aulica costantinopolitana,
espressione aristocratica della società cristiana formatasi nella capi-
tale dell’impero d’Oriente. Nel modello del IV secolo, secondo
Bianchi Bandinelli, doveva essere un ciclo di illustrazioni della storia
di Noè, delle quali ci restano solo quattro miniature contenenti sei
scene nella Genesi di Vienna33; di queste, la scena del diluvio univer-
sale ha una composizione prospettica e uno stile espressionistico che
devono riflettere la composizione grandiosa di una pittura murale del
III secolo elaborata in un qualche centro ellenistico che resta da
individuare34.
Le relazioni tra pittura e miniatura e tra studiosi della pittura e
studiosi della illustrazione dei testi e dell’iconografia furono i princi-
pali problemi storici e metodologici sui quali l’Iliade Ambrosiana
costrinse Bianchi Bandinelli a prendere posizione contro le tesi dei
princetoniani e in particolare di Weitzmann. Bianchi Bandinelli insi-
sté ripetutamente contro la ricostruzione di Weitzmann dei processi
di trasmissione dei cicli illustrativi da modello a copia, che il filologo
figurativo di Princeton immaginava alla stregua del processo di
copiatura di un testo da un codice a un altro. Molte obiezioni a
Bianchi Bandinelli furono fatte da Bertelli nella sua recensione a
Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad. In particolare, Bertelli
respinse due dei capisaldi di Bianchi Bandinelli: il pregiudizio di un
livello qualitativo basso delle illustrazioni nei rotoli e l’idea della
derivazione delle miniature (arte minore) dalle pitture (arte mag-
giore) cosı̀ come posta dall’archeologo:

33
Bianchi Bandinelli accettò le conclusioni degli studiosi di Princeton sulla nascita della
illustrazione narrativa della Bibbia con cicli molto estesi e dettagliati che furono poi
abbreviati in successive edizioni durante il medioevo: anche nell’Iliade Ambrosiana le
miniature che apparivano originatesi in epoca più antica contengono più episodi consecu-
tivi.
34
La conclusione di un modello monumentale per il Diluvio parve a Bianchi Bandinelli
confermata dal confronto con altre illustrazioni del diluvio o dell’episodio simile dell’attra-
versamento del Mar Rosso nell’arte bizantina, in particolare nei manoscritti delle Omelie di
Gregorio Nazianzeno di Parigi (Biblohtèque Nationale, cod. gr. 510) e del Salterio di Parigi
(cod. gr. 139 della medesima biblioteca). Inoltre, per Bianchi Bandinelli, la lettura stilistica
condotta sulle prime due miniature della Genesi di Vienna, che raffigurano il peccato
originale e la cacciata dal Paradiso e sembrano “quadri” piuttosto che “illustrazioni”, fa
ugualmente pensare, come per il diluvio universale, ad un modello antico costituito da un
ciclo di affreschi o di pitture su tavola.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

“qualche dubbio potrebbe sorgere sulla attendibilità di una visione


unilaterale della relazione tra pittura parietale e miniatura nell’‘illustra-
zione’ omerica. Ritorna qui il presupposto che la miniatura non abbia
raggiunto, se non relativamente tardi, agli inizi del medioevo, livello
d’arte, restando in età ellenistica non soltanto nei limiti di un genere
inferiore, il cui livello artistico potrebbe essere tuttavia altissimo, ma
anche in quelli di una qualità scadente, o al più artigiana.”.

Bertelli portò gli esempi delle Imagines di Varrone con i ritratti di


uomini illustri e di bibliofili citati da Seneca:

“Insomma non si vedrebbe la ragione di ritenere che libri di cui si


faceva gran conto, e che venivano custoditi in “armaria e citro atque
ebore”, non potessero essere illustrati da grandi pittori: in particolare
non mi sentirei di sostenere, con il Bianchi Bandinelli, che finché le
arti ‘fiorirono’ la miniatura, come “lesser artistic manifestation”, do-
vette dipendere dalle arti maggiori, per emanciparsi soltanto con il
venir meno di quelle e dei “social elements” che le avevano sostenu-
35
te.” .

Le tesi di Bianchi Bandinelli sui rapporti tra pittura monumen-


tale e miniatura e sulla storia della illustrazione dei testi classici si
prestano a molteplici e sostanziali obiezioni; di fatto, esse non si
adattano alla storia della illustrazione dei testi e sono state accanto-
nate. Nella recensione a Bianchi Bandinelli, Bertelli espresse critiche
generali anche alle teorie di Weitzmann, perché troppe rigide nel
delineare la storia dell’illustrazione antica atraverso i pochi fram-
menti di rotoli illustrati sopravvissuti36.

e. I Bizantini a Castelseprio
La scoperta degli affreschi di Santa Maria foris Portas di Castelseprio
avvenne nel 1944 con la rimozione di uno strato d’intonaco quattro-
centesco nell’abside della chiesa. La scoperta seguı̀ un decennio di
ricerche archeologiche condotte sul sito da Gian Piero Bognetti, che,

35
Bertelli, Recensione a Bianchi Bandinelli, Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad,
pp. 463-464; per le critiche a Weitzmann vedi pp. 465-466 e 467 nota 1.
36
Sull’arte bizantina Bertelli ritornò recensendo la mostra Byzance et la France médiévale.
e e
Manuscrits à peintures du II au XVI siècle, Paris, Bibliothèque Nationale [1958-1959],
catalogo della mostra (Paris, 1958): C. Bertelli, “Riflessioni sulla mostra della miniatura
bizantina a Parigi”, Bollettino d’arte 44 (1959), pp. 85-91.
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

con la Fondazione Treccani per la Storia di Milano, pubblicò nel


1948 una monografia sulla chiesa (figg. 120-121); qui, Gino Chierici
scrisse il capitolo sull’architettura, Alberto De Capitani d’Arzago
quello sugli affreschi, mentre Bognetti si riservò l’introduzione sto-
rica che occupa la gran parte del libro37. La qualità degli affreschi e il
loro carattere ancora cosı̀ ellenistico a una data che comunque
doveva essere compresa tra il VI e la prima metà del X secolo (due
termini cronologici forniti dai dati costruttivi della chiesa e dai
graffiti sugli affreschi) costituirono il problema interpretativo prima-
rio sollevato dalla scoperta. De Capitani, deceduto appena prima di
presentare gli affreschi al congresso di studi bizantini di Parigi del
1948, cercò di destreggiarsi nel suo capitolo del libro su Castelseprio
tra l’unicità degli affreschi all’interno del panorama dell’altome-
dioevo italiano e l’ignoranza degli sviluppi dell’arte bizantina nelle
regioni orientali durante i secoli VI-X. De Capitani scelse come
approccio la lettura formale e recitò anche lui la sua professione di
fede contro la validità degli studi sul contenuto: gli studi iconografici
possono solamente “rafforzare con una conferma, oppure svalutare,
non mai negare, con una palese contraddizione” quanto emerso
dall’indagine stilistica, “perché l’elemento stilistico sovrasta sempre
quello iconografico”: un artista può mutare la sua tradizione icono-
grafica, ma, al contrario, non può mai avvenire che l’artista “muti
l’arte sua”, cioè il suo stile. La scarsa conoscenza nell’Italia del
periodo fascista e dei primi anni del dopoguerra delle vie percorse
dalla ricerca all’estero è la causa probabile di queste debolissime
asserzioni metodologiche: perchè lo stile sia al di sopra delle terrene
mutazioni dell’iconografia De Capitani non lo spiegò e può essere
preso solo come dogma, lo stile presumibilmente corrispondendo
38
all’anima dell’artista . Tagliatasi cosı̀ la strada per utilizzare nuove

37
G. P. Bognetti, G. Chierici e A. De Capitani d’Arzago, Santa Maria di Castelseprio
(Milano, 1948): Bognetti, “S. Maria foris Portas di Castelseprio e la storia religiosa dei
Longobardi”, pp. 11-511; Chierici, “L’architettura di S. Maria di Castelseprio”, pp.
513-535; De Capitani d’Arzago, “Gli affreschi di S. Maria di Castelseprio”, pp. 537-711.
38
De Capitani d’Arzago, “Gli affreschi di S. Maria di Castelseprio”, pp. 655-656:
“Ma non chiediamo altro per ora all’iconografia: ad essa torneremo unicamente quando
l’esame stilistico avrà condotto ad ipotesi cui il ricorso in sede iconografica potrà rafforzare
con una conferma oppure svalutare, non mai negare, con una palese contraddizione: non
mai negare, perché l’elemento stilistico sovrasta quello iconografico. Prescindendo infatti
dall’estrema ed indiscutibile abitudine all’emigrazione insita nella materia iconografica,
osservo che se è ammissibile che l’artista appartenente ad una determinata corrente, mosso
da una o più ragioni contingenti, abbandoni per una volta o addirittura per un lunga serie
di opere, la sua tradizione iconografica, non è per contro possibile che egli, si mantenga o
non si mantenga fedele a quest’ultima, muti l’arte sua: comunque: in tale teorico caso la sua
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

interpretazioni e strumenti aggiornati di indagine su Bisanzio, De


Capitani cercò di barcamenarsi tra confronti con opere orientali e
con opere in Italia, affogando in citazioni di monumenti sparsi qua e
là nel Mediterraneo orientale; riemerse approdando all’idea di artisti
orientali in fuga dalle invasioni arabe, che si sarebbero rifugiati in
Occidente dando prova qui e altrove della loro arte di tradizione
ellenistica, idea che era stata di Morey39. In conclusione, De Capitani
suggerı̀ confronti iconografici con la Palestina e stilistici con la Siria;
esclusa Costantinopoli come patria dell’autore delle pitture, questo
sarebbe stato un profugo giunto in Occidente agli inizi del VII
secolo, attivo agli affreschi nello stesso periodo in cui si innalzava la
chiesa, cioè la prima metà di quel secolo.
Le conclusioni di De Capitani non ressero alle prime critiche dei
bizantinisti: i confronti con Siria e Palestina furono dimostrati infon-
dati con facilità dai vari studiosi intervenuti successivamente sugli
affreschi, fossero o no d’accordo con la sua datazione al VII secolo.
Nel 1951 Weitzmann pubblicò una monografia sugli affreschi, le
conclusioni della quale furono anticipate da un articolo in italiano
sulla Rassegna Storica del Seprio del 1949-1950. Weitzmann puntò
senza tentennamenti al X secolo per la datazione e indicò l’autore in
uno dei pittori all’opera nelle miniature dei più famosi manoscritti
classicheggianti (il Rotulo di Giosué e il Salterio di Parigi) di quel
periodo dell’arte bizantina che lui denominò Rinascenza Macedo-
ne40. Weitzmann mise a frutto per la datazione tarda degli affreschi le

opera non rientrerebbe ai nostri occhi nel clima cui solo storicamente, se mai, appartenne;
ma andrebbe a schierarsi con quelle dell’ambiente cui l’artista avrebbe saputo uniformarsi:
il che del resto, non può darsi mai. Tale predominio dello stile sull’iconografia intendo poi
come perentorio soprattutto quando, come nel nostro caso, non si tratta di un’opera stanca
uscita dalla mano di un artista fiacco e pedissequo, ma di un’opera fervidamente creata da
chi si dimostra padrone dei propri mezzi e sa esprimere ogni schema come suo riportandoci
comunque non mai ai margini ma nel vivo della sua corrente e della sua scuola.”.
39
L’esempio più celebre di questa tesi alessandrina di Morey erano gli affreschi di Santa
Maria Antiqua. Le idee di Morey sul ruolo di Alessandria come continuatrice della
tradizione artistica dell’ellenismo nel Medioevo non hanno più seguito. Esse vennero
riassunte in C. R. Morey, Early Christian Art. An Outline of the Evolution of Style and
Iconography in Sculpture and Painting from Antiquity to the Eighth Century (Princeton, 1942)
ed in forma riassuntiva nell’intervento al convegno di storici dell’arte di Firenze del 1948:
“Il Rinascimento bizantino”, in Atti del Primo Convegno Internazionale per le arti figurative,
pp. 90-100. A sostegno di questo panalessandrinismo erano usciti in precedenza: C. R.
Morey, “The Sources of Mediaeval Style”, The Art Bulletin 7 (1924-1925), pp. 35-50; id.,
“Notes on East Christian Miniatures”; M. Avery, “The Alexandrian Style at Santa Maria
Antiqua, Rome”, The Art Bulletin 7 (1924-1925), pp. 131-149.
40
Weitzmann aveva da poco pubblicato una monografia sul Rotulo di Giosuè dimo-
strando la sua appartenenza all’arte della corte di Costantinopoli del X secolo, appunto,
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

sue vastissime conoscenze iconografiche, ma rilevò anche, da una


parte, le loro affinità stilistiche con le miniature bizantine del X
secolo e, dall’altra, le loro differenze con gli affreschi romani di Santa
Maria Antiqua41.

f. La reazione italiana e l’intervento


sovietico su Castelseprio
Sullo stesso fascicolo della Rassegna Storica del Seprio nel quale aveva
invitato Weitzmann ad anticipare il contenuto della sua monografia
inglese, Bognetti mise in discussione le conclusioni dello studioso di
Princeton; anche Cecchelli contestò la datazione al X secolo in una
recensione del libro di Weitzmann; altri recensori ricondussero all’I-
talia la paternità degli affreschi, supponendo, per spiegarne l’attacca-
mento alla tradizione pittorica ellenistica, una continuità dell’arte
romana da Roma alle nuove capitali d’Occidente, Milano e Ravenna.
Ancora una volta si riaffacciò l’idea della difesa del ruolo di Roma
nei confronti dell’Oriente nell’arte medievale42. Anche Toesca, che
aveva scritto un colorito resoconto del suo viaggio a Castelseprio alla
scoperta degli affreschi per Il Nuovo Giornale d’Italia ed era poi
ritornato su di essi con un articolo sul volume de L’Arte del
1948-1951, non accettò, comuque, la datazione di Weitzmann. Nel
resoconto giornalistico Toesca rimase stupefatto dallo stile insolito
degli affreschi, dall’“impasto vigoroso del colore”, dalle vivaci espres-
sioni drammatiche e dall’insolito senso di profondità: in queste
pitture dai richiami pompeiani “ci si smarrisce a cercar confronti fra

contro una datazione suggerita da una parte della critica, tra cui Morey, al VII secolo, che
fu da allora accantonata: Weitzmann, The Joshua Roll.
41
K. Weitzmann, “Gli affreschi di S. Maria di Castelseprio”, Rassegna Storica del Seprio,
fasc. 9-10, 1949-1950, pp. 12-27; The Fresco Cycle of S. Maria di Castelseprio (Princeton,
1951).
42
G. P. Bognetti, “Aggiornamenti su Castelseprio”, Rassegna Storica del Seprio, fasc.
9-10, 1949-1950, pp. 28-66. C. Cecchelli, Recensione a K. Weitzmann, The Fresco Cycle of
S. Maria di Castelseprio, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1951, id. , “Gli
affreschi di S. Maria di Castelseprio”, Rassegna Storica del Seprio, 1949-1950, fasc. IX-X,
pp. 12-27, A. De Capitani d’Arzago, “La scoperta di Castelseprio”, ivi, pp. 5-11, G.
Bognetti, “Aggiornamenti su Castelseprio”, ivi, pp. 28-66, Byzantinische Zeitschrift 45
(1952), pp. 97-104. G. Giacomelli, Recensione a G. P. Bognetti, G. Chierici, A. De
Capitani d’Arzago, Santa Maria di Castelseprio, Milano 1948, Felix Ravenna, ser. 3, fasc. 2
(agosto 1950), pp. 58-76. Il conflitto ideologico Roma – Oriente per il caso di Castelseprio
fu portato allo scoperto fin dal 1952 da P. Lemerle, “L’archéologie paleochrétienne en
Italie. Milano et Castelseprio, «Orient ou Rome», Byzantion 22 (1952), pp. 165-206.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

quanto si ricordi di pittura medievale”. Toesca negò richiami alla


miniatura carolingia e ottoniana; la freschezza della fattura gli fece
escludere come raffronti i manoscritti miniati bizantini del X secolo e
lo condusse alla proposta di un artista costantinopolitano del VI o
VII secolo. Su L’Arte, Toesca ripropose gli inizi del VII secolo come
datazione ed un pittore orientale come autore, negando ancora una
volta che il vigore classico degli affreschi potesse essere ricondotto
all’Occidente43.
Non tutti gli storici dell’arte italiani degli anni Cinquanta furono
in disaccordo con Weitzmann. Edoardo Arslan nella Storia di Milano,
riconoscendo l’autorità ed il peso delle sue argomentazioni, rinunciò
alla sua precedente idea di una datazione degli affreschi al VII secolo
e, nonostante i pronunciamenti di critici italiani e stranieri, accettò le
opinioni “solidissime” di Weitzmann a favore dei contatti con il
Rotulo di Giosué, il Salterio di Parigi e altri manoscritti della Rina-
scenza Macedone: la ricerca di un monumento del VII secolo che si
ricongiungesse stilisticamente agli affreschi di Castelseprio parve ad
Arslan disperata; salomonicamente concluse per un datazione al IX
secolo con qualche dubbio44. Al solito, il più brusco degli italiani fu
De Francovich, che, nel suo saggio sull’arte siriaca in Commentari del
1951, in uno dei tanti sconfinamenti dal suo argomento, bocciò,
sulla base di argomentazioni di principio contro la metodologia di
Weitzmann, la datazione degli affreschi di Castelseprio al X secolo;
la bocciatura cosı̀ fu espressa:

“Non c’è dunque da meravigliarsi se qualche studioso come il Weitz-


mann, intento generalmente a minuziose indagini di marca pretta-
mente filologica (i cui risultati peraltro non sono sempre attendibili
[...]), abbia assegnato gli affreschi di Castelseprio, per le concordanze
meramente esteriori con le miniature del Salterio di Parigi, del rotulo
di Giosuè e della cosiddetta Bibbia di Leone nella biblioteca vaticana,
ad un artefice costantinopolitano della prima metà del secolo X (...). Il
Weitzmann ha qui commesso lo stesso errore di valutazione qualitativa
ed estetica in cui incorse nei riguardi dell’autore dell’illustrazioni del
rotulo di Giosuè, non accorgendosi cioè del modesto valore di questo

43
P. Toesca, “Castel Seprio. Una nuova pagina della pittura medioevale”, Il Nuovo
Giornale d’Italia, 46, n 188 (10 agosto 1947); “Gli affreschi di Castelseprio”, L’arte 51, n. s.
18, (1948-1951), pp. 12-19. Toesca giudicò punto convincenti le conclusioni della mono-
grafia di Weitzmann in una lettera a Berenson già citata al Capitolo 7, paragrafo b.
44
E. Arslan, “La pittura dalla conquista longobarda al Mille”, in Storia di Milano, vol. 2,
Dall’invasione dei barbari all’apogeo del governo vescovile (493-1002) ([Milano] 1954), pp.
631-654, specialmente pp. 638 sgg.
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

miniatore e traendo quindi da questa errata premessa conclusioni


45
inaccettabili. ” .

Se la discussione su Castelseprio restava aperta, sul Rotulo di


Giosuè De Francovich aveva sentenziato senza adeguato sapere. Nel
1953, su Sibrium, Bognetti riuscı̀ a pubblicare in traduzione italiana
un articolo di Viktor Lazarev, del Presidium dell’Accademia delle
Scienze di Mosca, apparso originariamente in russo su Vizantijskij
Vremennik dello stesso anno. L’articolo voleva provare la datazione
alta, al VI-VII secolo, degli affreschi di Castelseprio, ma fu soprat-
tutto una invettiva contro Weitzmann e il suo metodo, come dichia-
rato senza velature nel sottotitolo “Critica alla teoria di Weitzmann
sulla Rinascenza Macedone”. Davvero, il tono fu dogmatico, le
espressioni usate furono offese personali: la scomunica idelogica
sovietica di uno studioso di parte americana nel periodo della guerra
fredda. Lazarev mise in luce l’alta qualità dello stile classico degli
affreschi e li attribuı̀ ad un maestro orientale di passaggio; nel
contempo, il testo di Lazarev si dilungò in ripetitivi attacchi contro la
arbitrarietà e la pedanteria delle ricerche iconografiche di Weitz-
mann, basate su “comparazioni assurde e sforzate”; il suo metodo è
“puramente superficiale e meccanico”, “impoverisce infinitamente il
concetto di iconografia” ed “ha un’aria talmente artificiosa e poco
naturale, da sembrare una caricatura del metodo storico-
comparativo”; la sua datazione al X secolo non solo è inattendibile,
ma “frutto di un’errata interpretazione di tutto il processo di svi-
luppo della pittura bizantina”; “la sua teoria appare campata per
aria, dato che la sua infondatezza storica è subito evidente a ogni
studioso non dominato da preconcetto”; i suoi errori sono grosso-
lani, le sue affermazioni assurde, la sua teoria “alquanto «sui generis»
(per non dire di più!)”; Weitzmann,

“che vuole a tutti i costi dare i dipinti di Castelseprio al X sec., rifiuta


categoricamente la loro affinità con gli affreschi di S. Maria Antiqua.
Tuttavia tale affinità non va neppur messa in discussione per chiunque
affronti questo particolare problema senza preconcetti.”
“Non si può basare un’analisi iconografica solo sulla comparazione di
pose e di gesti delle singole figure, esulando dal contenuto ideologico
di questa o di quella scena. Ma questo è quanto fa precisamente
Weitzmann.”.

45
De Francovich, “L’arte siriaca e il suo influsso”, citazione da p. 6 nota 1.
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

Lazarev lanciò anatemi contro tutta la scuola americana di Prin-


ceton prendendo come esempio le teorie di Weitzmann sul Rotulo di
Giosuè come rielaborazione del X secolo di precedenti cicli icono-
grafici prodotta ad hoc nell’ambiente culturale della Rinascenza Ma-
cedone:

“È mai possibile pensare seriamente che il maestro del centro scritto-
rio di corte del X sec. abbia seguito effettivamente quella via tortuosa e
astrusa, escogitata con tanta leggerezza dalla ardente fantasia del
professore di Princeton? (...). È chiaro che questa supposizione è una
tipica espressione del modo in cui viene effettuato lo studio dell’arte
medievale a Princeton, ma essa non regge affatto.”.

Seguono altri esempi dell’assurdità delle conclusioni di Weitz-


mann. Per Lazarev, la causa della straordinaria vitalità della tradi-
zione classica a Costantinopoli, testimoniata dai mosaici del Gran
Palazzo imperiale, dai perduti mosaici di Nicea, dagli affreschi di
Santa Maria Antiqua e di Castelseprio, è nella corrispondenza tra
classicismo in arte e struttura schiavistica della società, che ancora
permaneva a Bisanzio:

“La causa di ciò va ricercata nella lentezza del dissolversi dei rapporti
schiavistici a Bisanzio. In quel tempo, mentre in Occidente il processo
di feudalizzazione si sviluppava abbastanza rapidamente, a Bisanzio
esso si arrestò per la relativa stabilità delle consuetudini schiavistiche,
che Giustiniano in particolare si proponeva di consolidare in ogni
modo. In base a vecchi rapporti schiavistici, la vecchia aristocrazia
senatoriale conservò per lungo tempo a Bisanzio le sue posizioni
economiche e politiche. (...) In questa atmosfera l’arte classica conti-
nuò a trovare i suoi amatori, mentre che in occidente trionfavano già i
gusti barbarici. E la famigerata «Rinascenza Macedone», che si costi-
tuiva sulla nuova base feudale, non era altro che un debole e non
originale riflesso di quella corrente classicheggiante che nel VI-VII
secolo aveva radici sociali abbastanza salde sul suolo di Costantinopo-
li.”46.

Il tono e gli argomenti di Lazarev, come accademico delle scienze


di Mosca, erano davvero la manifestazione dei riflessi del confronto
postbellico tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Perché sia stato richie-

46
V. Lazarev, “Gli affreschi di Castelseprio (Critica alla teoria di Weitmann sulla
Rinascenza Macedone)”, Sibrium 3 (1957), pp. 85-102; citazioni nel testo da pp. 91, 92,
94, 95, 97, 99 e da nota 8 p. 100.
STILE CONTRO ICONOGRAFIA 

sto quell’articolo per la traduzione e perché Lazarev lo abbia scritto e


concesso resta ignoto; ma, affinché non si equivochi, va detto che tra
Lazarev e Weitzmann intercorreva dal 1931 una calorosa amicizia.
Weitzmann, oltre a essere americano, aveva probabilmente la colpa
agli occhi sovietici di aver dato suoi articoli a Seminarium Kondako-
vianum, la rivista di bizantinistica che veniva pubblicata a Praga dal-
l’esule russo Kondakov. Per un articolo apparso su quella rivista,
Leonid Matzulevitch, il bizantinista russo che aveva scritto il famoso
volume Byzantinische Antike sui piatti d’argento dell’Hermitage e
sulla sopravvivenza dell’arte classica a Costantinopoli, era stato eso-
nerato dal suo incarico di direttore del dipartimento bizantino del
museo di Leningrado. Weitzmann contribuı̀ agli scritti in onore di
Lazarev e rimase in buoni rapporti con i suoi scolari anche dopo la
sua morte. Lazarev, in occasione del congresso di bizantinistica di
Istanbul del 1955, aveva ostentatamente evitato Weitzmann, ma nel
1967, al congresso di bizantinistica di Oxford, Lazarev lo avvicinò
per invitarlo a farsi vivo a Mosca al suo indirizzo privato, con la
preghiera di evitare di cercarlo alla Accademia delle Scienze del-
l’URSS di cui era appunto membro47.

47
Le notizie su Lazarev e Weitzmann sono tratte da Weitzmann, Sailing with Byzantium,
pp. 74, 134 e 382. K. Weitzmann, “Sinaiskaya Psaltir’s illyustratsiyami na polyakh”, in
Vyzantiya, Yuzhnye Slavyane i Drevnyaya Rus’, Zapadnava Evropa. Sbornik statei v chest’ N.
V. Lazareva (Mosca, 1973).
EPILOGO:
STUDI SULL’ARTE BIZANTINA 1960-2000

La valutazione dell’arte bizantina in Italia nella seconda metà del


Novecento richiederebbe una trattazione che esula dai confini di
questo libro. Qui è solamente proposta una scelta di pubblicazioni
apparse dopo il 1960, una semplice scorsa alle quali mostra che
l’interesse per Bisanzio non è fiorito anche in tempi più vicini.
Nessun saggio generale sull’arte bizantina è stato pubblicato da parte
di uno studioso italiano ed i nuovi approcci metodologici e le nuove
interpretazioni elaborate dalla bizantinistica all’estero sono stati ac-
colti di norma solo passivamente. L’unico tentativo di aggiorna-
mento sistematico appare quello delle Settimane di Studio del Cen-
tro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo di Spoleto, dove in vari anni
sono stati trattati temi comuni ad Occidente latino e Bisanzio; in
grande maggioranza sono stati stranieri i relatori su argomenti bizan-
tini di queste Settimane1. Quanto a Giotto ed al Duecento, la
discussione è proseguita con l’egemonia dei pasticciati termini lon-
ghiani del “Giudizio sul Duecento”; le divergenze tra epigoni di
Longhi e di Toesca sono culminate nelle due antitetiche interpreta-
zioni delle origini dell’arte italiane proposte da Giovanni Previtali e
Carlo Bertelli nella Storia dell’arte italiana pubblicata da Einaudi dal
1979; il primo, portabandiera della idea di una contrapposizione tra
due mondi, latino e occidentale, nei secoli XII e XIII sul territorio
italiano, e della idea del periodo di Giotto come momento iniziale
dell’arte italiana; l’altro, accanito sostenitore dell’esistenza di istitu-
zioni artistiche inconfondibilmente italiane già in età altomedievale2.

1
Ad esempio: Bisanzio, Roma e l’Italia nell’Alto Medioevo, Settimane di Studio del Centro
Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 34, Spoleto, 1988).
2
Giotto. Bilancio critico di sessant’anni di studi e ricerche, a cura di A. Tartuferi, catalogo
della mostra, Firenze, Galleria dell’Accademia, 3 giugno – 30 settembre 2000 (Firenze,
2000). G. Previtali, “La periodizzazione dell’arte italiana”, in Storia dell’arte italiana, Parte I,
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

L’approccio formalistico, minoritario in campo internazionale


durante il periodo trattato in questo libro, è rimasto tale anche dopo.
Il compendio più celebre sulla pittura bizantina, la Storia della pittura
bizantina di Lazarev, del quale Einaudi nel 1967 pubblicò una
traduzione italiana, l’unica in una lingua occidentale, lamenta nella
premessa che “ancor oggi nello studio della pittura bizantina ci si
limita generalmente all’analisi del contenuto iconografico, trascu-
rando il lato artistico delle opere”. Nel torno di quei medesimi anni
la fortuna delle traduzioni italiane di opere su Bisanzio ha conosciuto
l’apice: nel 1966 Sansoni ha pubblicato L’arte bizantina di David
Talbot Rice, traduzione di Art of the Byzantine Era del 1963; di
nuovo Einaudi e nello stesso anno della Storia di Lazarev, il 1967, ha
pubblicato la traduzione de L’arte di Costantinopoli di John Beckwith.
Più recentemente, nel 1986, UTET ha pubblicato il compendio
inedito di Anthony Cutler e John W. Nesbitt L’arte bizantina e il suo
pubblico, purtroppo in una versione italiana con grotteschi errori. Dei
grandi cantieri bizantini in Italia, i mosaici di San Marco a Venezia
sono stati interamente pubblicati da Demus, mentre Kitzinger ha
avuto appaltato il corpus dei mosaici siciliani del periodo normanno3.
Anche l’Enciclopedia dell’arte medievale dell’Istituto per l’Enciclo-
pedia Italiana di Treccani, ha affidato singole voci a studiosi italiani;
la voce “Bizantina, arte”, però, contenuta nel volume terzo uscito nel
1992, è ancora di Kitzinger4. Quest’ultimo è emerso come il bizanti-

Materiali e problemi, Vol. 1, Questioni e metodi (Torino, 1979), pp. 3-95; C. Bertelli, “Traccia
allo studio delle fondazioni medievali dell’arte italiana”, in Storia dell’arte italiana, Parte II,
Dal Medioevo al Novecento, Vol. 1, Dal Medioevo al Quattrocento (Torino, 1983), pp. 3-163.
3
O. Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, Parte I, The Eleventh and Twelfth
Century, con un contributo di R. M. Kloos, 2 voll.; Parte II, The Thirteenth Century, con un
contributo di K. Weitzmann, 2 voll. (Chicago e London, 1984). E. Kitzinger, The Mosaics
of St. Mary of the Admiral in Palermo, with a Chapter on the Architecture of the Church by
Slobodan Čurčić (Washington, D.C., 1990), traduzione italiana, I mosaici di Santa Maria
dell’Ammiraglio a Palermo (Bologna, 1990); I mosaici del periodo normanno in Sicilia, 1, La
Cappella Palatina di Palermo. I mosaici del presbiterio (Palermo, 1992), 2, La Cappella Palatina
di Palermo. I mosaici della navata (Palermo, 1993), 3, Il Duomo di Monreale. I mosaici
dell’abside, della solea e delle cappelle laterali (Palermo, 1994), 4, Il Duomo di Monreale. I
mosaici del transetto (Palermo, 1995), 5, Il Duomo di Monreale. I mosaici della navata
(Palermo, 1996).
4
V. Lazarev, Istoriia vizantiiskoi zhivopisi, 2 voll. (Moskva, 1947-1948; seconda edizione
1986), traduzione italiana Storia della pittura bizantina (Torino, 1967), citazione da p. 3. D.
Talbot Rice, Art of the Byzantine Era (London, 1963), traduzione italiana, L’arte bizantina
(Firenze, 1966). J. Beckwith, The Art of Constantinople. An Introduction to Byzantine Art
(330-1453) (London, 1961), traduzione italiana, L’arte di Costantinopoli. Introduzione all’arte
bizantina (Torino, 1967). A. Cutler e J. W. Nesbitt, L’arte bizantina e il suo pubblico (Torino,
1986). E. Kitzinger, “Bizantina, arte”, in Enciclopedia dell’arte medievale, vol. 3 (Roma,
1992), pp. 517-534.
EPILOGO 

nista straniero più corteggiato in Italia; di lui in traduzione italiana


sono apparsi L’arte bizantina. Correnti stilistiche nell’arte mediterranea
dal III al VII secolo nel 1989 e Il culto delle immagini. L’arte bizantina
dal cristianesimo delle origini all’Iconoclastia nel 1992. Questo quasi
monopolio italiano di Kitzinger sull’arte bizantina, esagerato rispetto
al peso goduto dai suoi lavori all’estero, appare dovuto alla facile
digeribilità della lettura formale che lo studioso applica alla produ-
zione artistica a Bisanzio, descrivendola, per i secoli trattati nei due
libri italiani, come sviluppo generale da una maniera naturalistica di
stampo ellenistico a una maniera sempre astratta, tipicamente bizan-
tina: una schematizzazione che molti documenti figurativi bizantini
del periodo invalidano; una analoga schematizzazione che interpre-
tasse tre o quattro secoli dell’arte dell’Occidente come evoluzione
una maniera stilistica al suo opposto non verrebbe nemmeno consi-
derata nella storiografia artistica moderna5. Invece, anche se studiosi
italiani si lamentano della indifferenza verso Belting, Buchthal, De-
mus e Weitzmann, interpretazioni che discutano l’iconografia alla
pari dello stile sono occasionali negli studi italiani del settore. Come
al tempo di Bianchi Bandinelli, a prendere in considerazione stru-
menti specifici di approccio alla illustrazione dei testi sono gli ar-
cheologi, come Antonio Giuliano, ad esempio, dipendendo ampia-
mente da Weitzmann per la sua traccia storica della illustrazione dei
testi classici, ed insieme a questi una frazione non maggioritaria degli
storici della miniatura6. Da parte di paleografi e storici della produ-
zione libraria è venuto il contributo più originale su Bisanzio, che

5
E. Kitzinger, L’arte bizantina. Correnti stilistiche nell’arte mediterranea dal III al VII secolo
(Milano, 1989), traduzione italiana di Byzantine Art in the Making. Main lines of stylistic
development in Mediterranean art 3rd – 7th century (London, 1977); Il culto delle immagini.
L’arte bizantina dal cristianesimo delle origini all’Iconoclastia (Scandicci, 1992), traduzione
italiana di “The Cult of Images in the Age Before Iconoclasm”, Dumbarton Oaks Papers 8
(1954), pp. 83-150, e “Byzantine Art in the Period Between Justinian and Iconoclasm”, in
Berichte zum XI. Internationalen Byzantinisten-Kongress, München 1958 (München, 1958),
pp. 1-50.
6
A lamentarsi della indifferenza verso i maggiori esponenti della bizantinistica iternazio-
nale sono, tra altri, G. Romano, “Per i maestri del Battistero di Parma e della Rocca di
Angera”, Paragone nn 419-423, 1985, p. 11; A. Tartuferi, La pittura a Firenze nel Duecento
(Firenze, 1990), p. 5. A. Giuliano, “L’illustrazione libraria di età ellenistica e romana e i
suoi riflessi medievali”, in Vedere i classici. L’illustrazione dei testi antichi dall’età romana al
tardo medioevo, catalogo della mostra, Salone Sistino, Musei Vaticani, 9 ottobre 1996 – 19
aprile 1997, a cura di M. Buonocore (s.l., 1996), pp. 39-50. Tre edizioni di una traduzione
italiana di Illustrations in Roll and Codex di Weitzmann hanno goduto di una discreta
fortuna: Le illustrazioni nei rotoli e nei codici. Studio della origine e del metodo della illustrazione
2 3
dei testi, a cura di M. Bernabò (Firenze, 1983, 1985 e 1991 ).
 PARTE III: CROCIANI, COMUNISTI E RAVVEDUTI

coinvolge anche la produzione artistica, cioè la individuazione di una


produzione di manoscritti italo-greci, alcuni di essi miniati, nelle
zone bizantine dell’Italia meridionale7.

7
Vedi soprattutto i lavori di Guglielmo Cavallo, tra i quali “La cultura italo-greca nella
produzione libraria,” in I Bizantini in Italia (Milano, 1982; 2a edizione, Milano, 1986), pp.
497-614; “Italia bizantina e Occidente latino nell’alto medioevo. Una contrapposizione
irrisolta”, in Bisanzio fuori di Bisanzio, a cura di G. C. (Palermo, 1991), pp. 105-120; “I
fondamenti culturali della trasmissione dei testi antichi a Bisanzio”, in Lo spazio letterario
della Grecia antica, 2, La ricezione e l’attualizzazione del testo, a cura di G. Cambiano, L.
Canfora, D. Lanza (Roma, 1995), pp. 265-306. Allo stesso si deve anche, in parte, la nuova
edizione del facsimile e del commentario dell’Evangeliario di Rossano Calabro: Codex
Purpureus Rossanensis, a cura di G. Cavallo, J. Gribomont, W. C. Loerke (Roma, 1987).
Tavole
BIBLIOGRAFIA
con le abbreviazioni delle opere citate frequentemente

A., A. [Toesca, Ilaria]. “La Mostra storica nazionale della miniatura”. Paragone n 51
(marzo 1954), pp. 32-38.
Adam, Paul. Irène et les eunuques. Illustrazioni di Manuel Orazi. Paris: Societè
d’éditions littéraires et artistiques, 1906.
Adamson, Walter L. Avant-Garde Florence: From Modernism to Fascism. Cambridge,
Mass.: Harvard University Press, 1993.
A Giotto. Numero speciale della Illustrazione toscana, 15, n 4 (aprile 1937).
Agosti, Giacomo. La nascita della storia dell’arte in Italia. Adolfo Venturi: dal museo
all’università 1880 – 1940. Venezia: Marsilio, 1996.
Ainalov, Dimitri V. Ellinisticheskie osnovy vizantiiskogo iskusstva. Zapiski Imper.
Russkogo Arkheol. Obshchestva, n. s. 12; Trudy Otdeleniia arkheol. drevne-
klassicheskoi, vzantiiskoi i zapadno-evropeiskoi, 5. Traduzione inglese, The
Hellenistic Origins of Byzantine Art, traduzione di Elizabeth Sobolevitch e Serge
Sobolevitch, a cura di Cyril Mango. New Brunswick, N.J.: Rutgers University
Press, 1961.
Aldi, Monica. “Pietro Toesca: tra cultura tardo-positivista e simbolismo. Dagli
interessi letterari alla storia dell’arte”. Annali della Scuola Normale Superiore di
Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, 2/1 (1997), pp. 145-191.
Amato, Domenico. Teodora imperatrice di Bisanzio. Biblioteca dei curiosi, 17. Roma:
Edoardo Tinto editore, 1927.
Andaloro, Maria. “Bisanzio e il Novecento”. In Splendori di Bisanzio. Testimonianze e
riflessi d’arte e cultura bizantina nelle chiese d’Italia. Catalogo della mostra,
Ravenna 1990, pp. 55-67. Milano: Fabbri Editori, 1990.
Angeli, Diego. “Lo scenografo della ‘Nave’: Duilio Cambellotti”. Il Marzocco 12, n
52, 29 dicembre 1907, p. 2.
Angelucci, Angelo. Sulla mostra dell’arte antica in Torino nel MDCCCLXXX. Osserva-
zioni di A. A. Torino: Stabilimento Artistico-Letterario, 1880.
Gli anni Trenta. Arte e cultura in Italia. Catalogo della mostra, Milano 17 gennaio –
30 aprile 1982 (in quattro sedi staccate). Milano: Comune di Milano –
Mazzotta editore, 1982.
Ansaldo, Giovanni. “Il caso Soffici (ossia la lirica pura sacrificata sull’altare della
patria”. Rivoluzione liberale 2 (1923). Ristampato in Le riviste di Piero Gobetti,
pp. 558-564.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Antal, Frederick. Florentine Painting and Its Social Background. London: Kegan Paul,
Trench, Trubner & Co., 1948. Traduzione italiana, La pittura fiorentina ed il
suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento. Torino: Giulio Einaudi
editore, 1960.
Gli antichi pittori spagnoli della Collezione Contini – Bonacossi, Roma, Galleria Nazio-
nale d’Arte Moderna a Valle Giulia, maggio – luglio 1930. Catalogo della
mostra, a cura di Roberto Longhi e Augusto C. Mayer. Milano-Roma: Casa
Editrice Bestetti e Tumminelli, 1930-VIII.
Antliff, Mark. “The Jew as Anti-Artist. Georges Sorel, Antisemitism and the Aesthe-
tics of Class Consciousness”. Oxford Art Journal 20/1 (1997), pp. 50-67.
Antonielli, Ugo. “Dàlli all’Arte italiana”. Il Giornale d’Italia, 24 gennaio 1930, p. 3.
“Approvazione degli orari e dei programmi per le Regie scuole medie”. Supplemento
della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n 267 del 14 novembre 1923.
Aquileia nostra. Bollettino dell’Associazione Nazionale di Aquileia, sotto gli auspici di
S.A.R. il Duca d’Aosta. Anno 1, n 1, gennaio 1930.
Arcangeli, Francesco. “L’alfabeto di Van Gogh”. Paragone 3, n 29 (maggio 1952),
pp. 21-51.
— “Della giovane pittura italiana e di una sua radice malata”. Proporzioni 1 (1943),
pp. 85-98.
— “Picasso, ‘voce recitante’”. Paragone 4, n 47 (novembre 1953), pp. 45-77.
Archivio storico dell’arte. Diretto da Domenico Gnoli. Anno 1, 1888. Roma: Loreto
Pasqualucci editore, 1889.
“Ardengo Soffici. Vasari moderno”. La Nazione, 1 marzo 1933-XI, p. 5.
Argan, Giulio Carlo. “L’impegno politico per la libertà della cultura”. In Da Cézanne
all’Arte Astratta, pp. 11-12.
— “Lionello Venturi”. Accademia Nazionale di San Luca, Atti. Necrologio. Roma,
Tipografia della Pace, 1961.
— “Le polemiche di Venturi”. Studi Piemontesi 1, n 1 (1972), pp. 118-124.
— Prefazione a Lionello Venturi, Il gusto dei primitivi, 2a edizione, pp. xv-xxviii.
Torino: Giulio Einaudi editore, 1972.
— “Venturi”. Belfagor 1948, n 5.
Armellini, Guido. “Fascismo e pittura italiana”, 1, “Carrà, Sironi, Rosai”. Paragone
23, n 271 (settembre 1972), pp. 51-68. 2, “Il primo dopoguerra, metafisica e
‘valori plastici’”. Paragone 23, n 273 (novembre 1972), pp. 36-51; 3, “La
cultura fascista”, Paragone 24, n 285 (novembre, 1973), pp. 34-68.
Armeni Ariani. Roma: Edizioni “Him”, 1939-XVII.
Arslan, Edoardo. “La pittura dalla conquista longobarda al Mille”. In Storia di
Milano. Vol. 2, Dall’invasione dei barbari all’apogeo del governo vescovile
(493-1002), pp. 623-661. [Milano] Fondazione Treccani degli Alfieri per la
Storia di Milano, 1954.
L’art byzantin art européen. Athènes, Palais du Zappeion, 1964. Catalogo della
mostra. Athènes: Ministere de la Présidence du Conseil, Service des Antiqui-
tés et de l’Anastylose, 1964.
Art byzantin. Cent planches reproduisant un grand nombre de pièces choisies permi le plus
représentatives des diverses tendances ... . A cura di Fritz Volbach e George
Duthuit, introduzione di George Salle. Paris: Les Éditions Albert Levy [1933].
BIBLIOGRAFIA 

Art et fascisme. Totalitarisme et résistance au totalitarisme dans les arts en Italie, Allema-
gne et France des années 30 à la défaite de l’Axe. A cura di Pierre Milza e Fanette
Roche-Pézard. Bruxelles: Éditions Complexe, 1989.
L’arte antica alla IVa Esposizione Nazionale di Belle Arti in Torino nel 1880. Torino:
Fratelli Doyen, 1882.
“L’arte del mosaico alla Triennale”. Domus n 65 (maggio 1933), pp. 228-229.
L’arte di scrivere sull’arte. Roberto Longhi nella cultura del nostro tempo. A cura di
Giovanni Previtali. Roma: Editori Riuniti, 1982.
Arte italiana del nostro tempo. A cura di Stefano Cairola. Bergamo: Istituto Italiano
d’Arti Grafiche Editore, 1946.
Arte moderna in Italia 1915-1935, Firenze, Palazzo Strozzi, 26 febbraio – 28 maggio
1967. Catalogo della mostra, a cura di Carlo Ludovico Ragghianti. Firenze:
Marchi e Bertolli editori, 1967.
Le arti. Rassegna bimestrale dell’arte antica e moderna. A cura della Direzione Generale
delle Arti. 1 (1938-1939-XVII) – IV (1941-1942-XX) .
Atti del I˚ Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura. [Firenze, Palazzo Vecchio,]
29-31 ottobre 1936-XV. Firenze: G. C. Sansoni, 1938-XVI.
Atti del Primo Convegno Internazionale per le arti figurative. Firenze, Studio Italiano di
Storia dell’Arte, Palazzo Strozzi, 20-26 giugno 1948. Firenze: Edizioni U,
1948.
Aurigemma, Salvatore. “Romanità di Velleia”. La rivista illustrata del “Popolo d’Ita-
lia” 15, n 2 (febbraio 1937), pp. 33-41.
Avanguardia, tradizione, ideologia: itinerario attraverso un ventennio di dibattito sulla
pittura plastica murale. A cura di Simonetta Lux. Roma: Bagatta Libri, 1990.
Avery, Myrtilla. “The Alexandrian Style at Santa Maria Antiqua, Rome”, The Art
Bulletin 7 (1924-1925), pp. 131-149.
B., A. “Affermazioni italiane in America”. La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 14
n 3 (marzo 1936), pp. 33-35.
B., S. “Dove entrarono gli Ottomani”. Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”, 13, n 4
(aprile 1935), pp. 42-47.
— “«Megalis ecclisias»”. Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”, 12, n 10 (ottobre
1934) , pp. 78-81.
— “Progetto d’inutile saccheggio”. Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”, 16 (marzo
1934), pp. 65-67.
— “Sceker bayram”. Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”, 16, n 1 (febbraio 1938),
pp. 71-73.
—“Sopravvivenze bizantine”. Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”, 14, n 2 (febbraio
1936), pp. 29-31.
Bairati, Eleonora. Salomè. Immagini di un mito. Nuoro: Ilisso Edizioni, 1998.
Bandelli, Gino, “Le lettere mirate”. In Lo spazio letterario di Roma antica. Roma:
Salerno editrice, 1991), 4, pp. 361-397.
Bandini, Angelo Maria. Catalogus Codicum Manuscriptorum Bibliothecae Mediceae
Laurentianae varia continens opera Graecorum Patrum. Florentiae: Typis Caesa-
reis, 1764; ristampa, Lipsiae, 1961.
Bandini, Bruno. “El Greco e l’arte italiana contemporanea: 1930 – 1950”. In El
Greco of Crete. ΠρακτικÀ του διεθνοà̋ επιστεηµνικοà συνεδρÝου που οργανñβηκε
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

µε αφορµÜ τα 450 χρÞνια απÞ τη γÛννησε του ζωγρÀφου. ΗρÀκλειο 1-5 ΣεπτεµβρÝου
1990 / Proceedings of the International Symposium held on the occasion of the 450th
anniversary of the artist’s birth. Iraklion, Crete, 1-5 September 1990, a cura di
Nocos Hadjinicolaou. [Iraklion:] Municipality of Iraklion, 1995), pp. 499-505.
Baratta, Antonio. Bellezze del Bosforo. Panorama del maraviglioso Canale di Costantino-
poli dello Stretto dei Dardanelli e del Mar di Marmara. Opera destinata a far seguito
alla Costantinopoli effigiata e descritta, e nella quale, con l’aiuto di ottanta finissimi
intagli eseguiti dal vero dai migliori artisti dell’Inghilterra, offresi l’impareggiabile
quadro di luoghi unanimemente acclamati siccome capo-lavoro della natura, ... .
Torino: Stabilimento Tipografico Fontana, 1841.
— Costantinopoli nel 1831 ossia notizie esatte e recentissime intorno a questa capitale ed
agli usi e costumi de’ suoi abitanti. Genova: Tipografia Pellas, 1831.
— Costantinopoli effigiata e descritta con una notizia su le celebri sette Chiese dell’Asia
Minore ed altri siti osservabili del Levante. Torino: Alessandro Fontana, 1840.
Barbiera, Raffaello. “Teodora”. L’illustrazione italiana 12, n 20, 17 maggio 1885, pp.
307-310.
Barduzzi, Carlo. “Il numero degli ebrei in Italia e nel mondo”. Il Tevere, 2-3
novembre 1938-XVII, p. 3.
Barocchi, Paola. “Firenze 1880-1903: cultura figurativa e conservazione”. In Storia
dell’arte e politica culturale intorno al 1900, pp. 297-311.
— Storia moderna dell’arte in Italia. Manifesti polemiche documenti. Parte III, Vol. 1,
Dal Novecento ai dibattiti sulla figura e sul monumentale 1925 – 1945. Torino:
Giulio Einaudi editore, 1990.
— “Storiografia e collezionismo dal Vasari al Lanzi”. In Storia dell’arte italiana. Parte
1, Materiali e problemi. Vol. 2, L’artista e il pubblico. Torino: Giulio Einaudi
Editore, 1979, pp. 5-82.
— Testimonianze e polemiche figurative in Italia. Dal Divisionismo al Novecento.
Messina-Firenze: G. D’Anna, 1974. L’Ottocento. Dal Bello ideale al Preraffaelli-
smo. Messina-Firenze: G. D’Anna, 1972.
Baronius, Caesar. Annales ecclesiastici, a cura di Agostino Theiner. Vol. 9, 500-545.
Ludovicus Guerin et Socii, 1867.
Bartolini, Luigi. “Discorso a Marinetti”, Il Tevere 25-26 novembre 1938-XVII, pp.
1, 3.
La basilica di San Marco in Venezia illustrata nella storia e nell’arte da scrittori veneziani,
a cura di Camillo Boito. Venezia: Ferdinando Ongania, 1888.
Becatti, Giovanni. “Un decennio di critica d’arte classica”. Le arti 5 (1943-XXI), pp.
152-158.
Beck, Hans-Georg. Kaiserin Theodora und Prokop. Der Historiker und sein Opfer.
München: Piper, 1986. Traduzione italiana, Lo storico e la sua vittima. Teodora
e Procopio. Bari: Laterza, 1988.
Beckwith, John. The Art of Constantinople. An Introduction to Byzantine Art
(330-1453). London: Phaidon Press, 1961. Traduzione italiana, L’arte di
Costantinopoli. Introduzione all’arte bizantina, Torino: Einaudi, 1967.
Bellini, Fiora. “Lettere di Roberto Longhi a Bernard Berenson”. Prospettiva nn
57-60, aprile 1989 – ottobre 1990, pp. 457-467.
— “Una passione giovanile di Roberto Longhi: Bernard Berenson”. In L’arte di
BIBLIOGRAFIA 

scrivere sull’arte. Roberto Longhi nella cultura del nostro tempo, a cura di Giovanni
Previtali. Roma: Editori Riuniti, 1982), pp. 9-26.
Bellonci, Goffredo. “L’arte italiana assalita e difesa”. Il Giornale d’Italia, 21 gennaio
1930, p. 3.
— “Scienza storica e spirito nazionale (L’arte italiana assalita e difesa)”. Il Giornale
d’Italia, 25 gennaio 1930, p. 3.
Bendinelli, Goffredo. Compendio di storia dell’arte dalle origini del Cristianesimo al
Quattrocento. Milano – Roma – Napoli: Casa Editrice Dante Alighieri, 1926.
— Compendio di storia dell’arte dal Quattrocento ai tempi nostri. Milano – Roma –
Napoli: Casa Editrice Dante Alighieri, 1926.
Bentivoglio, M. “Un mosaico di Severini a Padova”. Arte e poesia n 1, gennaio –
febbraio 1969, pp. 82-92.
Benzi, Fabio. “La cupola di Galileo Chini alla biennale di Venezia del 1909”. In
Galileo Chini e l’Oriente. Venezia Bangkok Salsomaggiore. Salsomaggiore, Terme
Berzini, 20 maggio – 20 giugno 1995. Catalogo della mostra, a cura di
Maurizia Bonatti Bacchini, introduzione di Rossana Bossaglia, pp. 41-61.
Parma: P.P.S. Editrice, 1995.
— “Galileo Chini affreschista e decoratore”. In Galileo Chini. Dipinti Decorazioni
Ceramiche opere 1895-1952, Montecatini Terme, 5 agosto – 31 ottobre 1988.
Catalogo della mostra, a cura di Fabio Benzi e Gilda Cefariello Grosso, pp.
67-82. Milano: Electa, 1988.
— “Mario Sironi: il percorso della pittura”. In Mario Sironi 1885-1961. Roma,
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 9 dicembre 1993 – 27 febbraio 1994.
Catalogo della mostra, pp. 13-37. Milano: Electa, 1993.
Berenson, Bernard, Aestethics, Ethics and History in the Arts of Visual Representation.
London: Constable Publishers, 1948. Ristampato come: Aesthetics and History.
3
London: Constable Publishers, 1955 . Traduzione italiana, Estetica, etica e
storia nelle arti della rappresentazione visiva. Firenze: Electa Editrice, 1948.
— L’arco di Costantino o della decadenza della forma. Milano – Firenze: Electa
Editrice, 1952. Edizione inglese.: The Arch of Constantine or the Decline of Form.
London: Chapman and Hall, 1954.
— “Due dipinti del decimosecondo secolo venuti da Costantinopoli”. Dedalo 2
(1921-1922), pp. 285-304. Ristampato in inglese, “Two Twelfth-Century
Paintings from Constantinople”, in B. B., Studies in Medieval Paintings, pp.
1-16.
— “Due illustratori italiani dello Speculum Humanae Salvationis”. Bollettino d’arte
del Ministero della Pubblica Istruzione, ser. 2, 5 (1925-1926), pp. 289-319,
353-384.
— “A Newly Discovered Cimabue”. Art in America 8 (1919-1920), pp. 251-271.
Ristampato in B. B., Studies in Medieval Paintings, pp. 17-31.
— “San Marco Tempio e Museo Bizantino”. Corriere della Sera, 2 settembre 1954,
p. 3.
— Studies in Medieval Painting. New Haven: Yale University Press, 1930. Ristampa,
New York, 1975.
— Valutazioni 1945 – 1956, a cura di Antonio Loria. Milano: Electa Editrice, 1957.
Berenson, Bernard e Roberto Longhi. Lettere e scartafacci 1912 – 1957. A cura di
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Cesare Garboli e Cristina Montagnani, con un saggio di Giacomo Agosti.


Milano: Adelphi Edizioni, 1993.
Bernabò, Massimo. “L’arte bizantina e la critica in Italia tra le due guerre mondiali”.
Römische Historische Mitteilungen 41 (1999), pp. 41-62.
— “Un episodio della demonizzazione dell’arte bizantina in Italia: la campagna
contro Strzygowski, Toesca e Lionello Venturi sulla stampa fascista del 1930”.
Byzantinische Zeitschrift 93/2 (2001), pp. 1-10.
— “Introduzione al testo”. In Le illustrazioni nei rotoli e nei codici. Studio della origine e
del metodo della illustrazione dei testi (Scritti di Kurt Weitzmann, 1: Illustrations in
Roll and Codex. A Study of the Origin and Method of Text Illustration), a cura di
M. B. Firenze: CUSL, 1983), pp. i-xlii.
— “Lo studio dell’illustrazione dei manoscritti greci del Vecchio Testamento ca.
1820-1990”. Medioevo e Rinascimento 9, n. s. 6 (1995), pp. 261-299.
Bernabò, Massimo e Rita Tarasconi. “L’epistolario Gentile-Ojetti ed un attacco
vaticano all’Enciclopedia Italiana”. Quaderni di storia 53 (gennaio-giugno 2001),
pp. 155-167.
Bernardini, Aldo. Il cinema muto italiano. I film dei primi anni 1905-1909. Biblioteca di
Bianco e Nero, Centro Sperimentale di Cinematografia. Torino: Nuova ERI,
Edizioni RAI, 1996.
— Il cinema muto italiano. I film dei primi anni 1910. Biblioteca di Bianco e Nero,
Centro Sperimentale di Cinematografia. Torino: Nuova ERI, Edizioni RAI,
1996.
Bernardini, Aldo e Vittorio Martinelli, Il cinema muto italiano. I film degli anni d’oro.
1911. 2 voll. Biblioteca di Bianco e Nero, Centro Sperimentale di Cinemato-
grafia. Torino: Nuova Eri, Edizioni RAI, 1995, 1996.
— Il cinema muto italiano. I film degli anni d’oro. 1912. 2 voll. Biblioteca di Bianco e
Nero, Centro Sperimentale di Cinematografia. Torino: Nuova Eri, Edizioni
RAI, 1995.
— Il cinema muto italiano. I film degli anni d’oro. 1913. 2 voll. Biblioteca di Bianco e
Nero, Centro Sperimentale di Cinematografia. Torino: Nuova Eri, Edizioni
RAI, 1994.
Bertarelli, L. V. Possedimenti e Colonie. Isole Egee, Tripolitánia, Cirenáica, Eritréa,
Somália. Guida d’Italia del Touring Club Italiano. Milano, 1929-VII.
Bertaux, Émile. L’art dans l’Italie méridionale. Paris: Fontemoing, 1904.
Bertelli, Carlo. “Bibbia”. In Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale. Vol. 2, pp.
80-93. Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1959.
— “La mostra della miniatura”. Società 10 (1954), pp. 296-303.
— Riflessioni sulla mostra della miniatura bizantina a Parigi”. Bollettino d’arte 44
(1959), pp. 85-91.
— “Traccia allo studio delle fondazioni medievali dell’arte italiana”. In Storia
dell’arte italiana, Parte II, Dal Medioevo al Novecento. Vol. 1, Dal Medioevo al
Quattrocento, pp. 3-163. Torino: Giulio Einaudi editore, 1983.
Bertelli, Carlo e V. Bartoletti. Recensione di R. Bianchi Bandinelli, Hellenistic-
Byzantine Miniatures of the Iliad (Ilias Ambrosiana), Olten-Lausanne, Urs
Graf-Verlag, 1951. La parola del passato 12 (1957), pp. 459-474.
Bettini, Sergio. “Bizantina, arte”. In Enciclopedia Cattolica. Vol. 2, coll. 1685-1696.
BIBLIOGRAFIA 

Città del Vaticano: Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico,
1949.
— “Di San Marco e di altre cose”. Arte veneta 6 (1952), pp. 196-208.
— “Padova e l’arte cristiana d’Oriente”. Atti del Reale Istituto Veneto di scienze, lettere
ed arti. Parte seconda (scienze morali e lettere) 96 (1936-1937), pp. 203-297.
— La pittura bizantina. Vol. 1. Firenze: “NEMI”, 1937. Vol. 2, I mosaici. 2 voll.
Firenze: “NEMI”, 1939-XVII.
— Pittura delle origini cristiane. Novara: Istituto Geografico De Agostini, 1942-XX.
— La pittura di icone cretese-veneziana e i madonneri. Padova: CEDAM, 1933-XI.
— “Rapporti tra l’arte bizantina e l’arte italiana prima di Giotto”. In Istituto
Nazionale per le relazioni culturali con l’estero, Italia e Grecia, pp. 273-295.
— La scultura bizantina. 2 voll. Firenze: “NEMI”, 1944.
— “Studi recenti sull’arte bizantina”. La critica d’arte, ser. 3, 8 (1949-1950), pp.
135-147.
— “Gli studi sull’arte bizantina”. In Università degli Studi di Pisa, Istituto di Storia
dell’Arte Medievale e Moderna, Atti del Seminario di Storia dell’Arte. Pisa –
Viareggio, 1-15 luglio 1953 (Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe
di Lettere e Filosofia, 1-2 [1954]), pp. 13-32.
Bianchi Bandinelli, Ranuccio. “A che serve la storia dell’arte antica?”. Società 1, nn
1-2 (gennaio-giugno 1945), pp. 8-26. Ristampato in Archeologia e cultura, pp.
98-114.
— Archaeologia e cultura. Milano – Napoli: Riccardo Ricciardi Editore, 1961.
— “Charles Rufus Morey”. In Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di
Scienze morali, storiche e filologiche. Appendice. Necrologi di soci defunti nel
decennio dicembre 1945 – dicembre 1955. Fasc. 1, pp. 52-54. Roma: Accademia
Nazionale dei Lincei, 1956.
— “La composizione del diluvio nella Genesi di Vienna”. Mitteilungen des Deutsches
Archäologischen Instituts. Römische Abteilung 62 (1955), p. 66-77. Ristampato in
Archeologia e cultura, pp. 343-359.
— Dall’ellenismo al Medioevo. A cura di Luisa Franchi Dell’Orto. Torino: Editori
Riuniti, 1978.
— “Conclusioni sull’origine e la composizione dell’Iliade Ambrosiana”. Dialoghi di
archeologia 7 (1973), pp. 86-96. Ristampato in Dall’ellenismo al Medioevo, pp.
167-176.
— “Continuità ellenistica nella pittura di età medio- e tardo-romana”. Rivista
dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, n. s., 2 (1953), pp.
77-161. Ristampato in Archeologia e cultura, pp. 360-443.
— “La crisi artistica della fine del mondo antico”. Società 8 (1952), pp. 427-454.
Ristampato in Archeologia e cultura, pp. 189-233.
— Dal diario di un borghese e altri scritti. Verona: Arnoldo Mondadori, 1948.
— “Discussione sull’Iliade Ambrosiana”. In Seminario di Archeologia e Storia
dell’Arte Greca e Romana dell’Università di Roma, Studi miscellanei. Vol. 1,
pp. 1-9. Roma: L’Erma di Bretschneider, 1961.
— Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad (Ilias Ambrosiana). Olten: Urs Graf-
Verlag, 1955.
— “L’archeologia come scienza storica”. Atti della Accademia Nazionale dei Lincei.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Rendiconti delle adunanze solenni, 8,


9 (1973), pp. 717 sgg. Ristampato in Introduzione all’archeologia classica come
storia dell’arte antica. A cura di Luisa Franchi dell’Orto, pp. xiii-xxvii. Bari:
Editori Laterza, 1976.
— Recensione di Giorgio Pasquali, Vecchie e nuove pagine stravaganti di un filologo,
Torino, De Silva, 1952. Giorgio Pasquali, Stravaganze quarte e supreme, Vene-
zia, Neri Pozza, 1951 (con necrologio in appendice). Società 8 (1952), pp.
564-566.
— “Recensione e ricostruzione del codice dell’Iliade Ambrosiana”. Atti della Accade-
mia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Rendiconti,
ser. 8, 8 (1953), pp. 466-484.
— “Roma. Roma antica. Arti figurative”. In E. I. Vol. 29 (1936), pp. 729-745.
— “Schemi iconografici della miniature dell’Iliade Ambrosiana”. Atti della Accade-
mia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Rendiconti,
ser. 8, 6 (1951), pp. 421-453.
— Storicità dell’arte classica. Firenze: Sansoni, 1943. 2a edizione, Firenze: Electa,
1950.
— “Virgilio Vaticano 3225 e Iliade Ambrosiana”. Nederlands Kunsthistorisch Jaarboek
5 (1954), pp. 225-240.
Bibliografia di Bernard Berenson. A cura di William Mastyn-Owen. Milano: Electa
Editrice, 1955.
Bissing, Friedrich Wilhelm Freiherrn von. Kunstforschung oder Kunstwissenschaft? Eine
Auseinandersetzung mit der Arbetiweise Josef Strzygowskis. 2 voll. Abhandlunggen
der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische
Klasse, n. F., 31-32. München: Verlag der Bayerische Akademie der Wissen-
schaften, 1950-1951.
“Bizantina, arte”. In Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale. Vol. 2, pp.
108-114. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana, 1959.
“Bizantina, civiltà”. In E. I. Vol. 7 (1930), pp. 120-167.
Boatti, Giorgio, Preferirei di no. La storia dei dodici professori che si opposero a Mussolini.
Torino: Einaudi, 2001.
Boccioni, Umberto. “Per l’ignoranza italiana. Sillabario pittorico”. Lacerba 1 (1913),
pp. 179-180.
Bognetti, Gian Piero. “Aggiornamenti su Castelseprio”. Rassegna Storica del Seprio,
fasc. 9-10, 1949-1950, pp. 28-66.
Bognetti, Gian Piero, Gino Chierici, e Alberto De Capitani d’Arzago. Santa Maria di
Castelseprio. Milano: Fondazione Treccani degli Alfieri per la Storia di Milano,
1948.
Bologna, Ferdinando. La pittura italiana delle origini. Roma: Editori Riuniti, 1962.
Bollettino d’arte del Ministero della P. Istruzione. Notizie dei musei, delle gallerie e dei
monumenti, 1 (1907). Roma: Editore E. Calzon.
Bonavia, Calogero. “Padri del fascismo”. L’arte fascista 1 (1926), pp. 76-77.
Bordignon Favero, Elia. Sergio Bettini. Docenza universitaria e attività museale. Loreg-
gia, PD: Grafiche TP, 1997.
Borgese, G. A. Autunno di Costantinopoli. Pagine d’Atlante con 16 vecchie stampe.
Milano: Fratelli Treves Editori, 1928.
BIBLIOGRAFIA 

Borgia, Nilo. “La romanità di una badia greca”. In Istituto di Studi Romani, Atti del
II˚ Congresso Nazionale di Studi Romani. Vol. 2, pp. 79-86.
Bortolatto, Luigina. “E Icaro torna a volare”. Art e dossier, n 4, luglio – agosto 1986,
pp. 24-26.
— “L’immaginario di Galileo Chini”. In XLII Esposizione Internazionale d’Arte La
Biennale di Venezia, pp. 33-35.
— “Sulla cupola «ridonata alla luce» come Galileo Chini «la donò a Venezia» nel
1909”. In XLII Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, p.
21-30.
Bossaglia, Rossana. “Il Novecento di Sironi, il muralismo, il clima novecentista”. In
Gli anni Trenta. Arte e cultura in Italia, Milano 17 gennaio – 30 aprile 1982 (in
quattro sedi staccate). Catalogo della mostra, pp. 79-85. Milano: Comune di
Milano – Mazzotta editore, 1982.
— Il Novecento Italiano. Storia, documenti, iconografia. Milano: Feltrinelli, 1979. 2a
edizione, Milano: Edizioni Charta, 1995.
— “Il Palazzo dell’Informazione e l’architettura milanese del Novecento”. In Racemi
d’oro: il mosaico di Sironi nel Palazzo dell’Informazione, pp. 11-15.
Bottai, Giuseppe. “Fronte dell’arte”. Primato 2, n 4, 15 febbraio 1941-XIX, pp. 3-5.
— “La legge sulle arti figurative”. Le arti 4 (1942-XX), pp. 243-249. Ristampato col
titolo “La legge per le arti”, Introduzione di Gio Ponti, Lo stile nella casa e
nell’arredamento 2, n 19-20 (luglio-agosto 1942-XX), pp. 1-3.
— “Modernità e tradizione nell’arte italiana d’oggi”. Le arti 1 (1938-1939-XVII),
pp. 230-234. Ristampato in G. B., Politica fascista delle arti, pp. 77-90.
— La politica delle arti. Scritti 1918-1943. A cura di Alessandro Masi. Roma: Editalia,
1992.
— Politica fascista delle arti. Roma: Angelo Signorelli editore, 1940-XVIII.
— “Presenza della cultura”. Primato 2, n 24, 15 dicembre 1941-XX, pp. 1-2.
Bouchot, Henri. Les primitifs français (1252-1500). Complément documentaire au
catalogue officiel de l’exposition. Paris: Librairie de l’art ancien et moderne,
1904.
Bovini, Giuseppe. Recensione di Kurt Weitzmann, Illustrations in Roll and Codex. A
Study of the Origin and Method of Text Illustration. Princeton, N. J.: Princeton
University Press, 1947. Rivista di Archeologia Cristiana 23-44 (1947-1948), pp.
389-392.
Brandi, Cesare. Duccio. Firenze: Vallecchi Editore, 1951.
Braun, Emily. “Mario Sironi and a Fascist Art”. In Italian Art in the 20th Century.
Painting and Sculpture 1900-1988, pp. 173-180.
— “Racemi d’oro: il mosaico di Sironi nel Palazzo dell’Informazione”. In Racemi
d’oro: il mosaico di Sironi nel Palazzo dell’Informazione, pp. 17-87.
Brusin, Giovanni. “Aquileia. Monumenti artistici”. In E. I. Vol. 3 (1929), pp.
803-804.
Buberl, Paul. Die Miniaturenhandschriften der Nationalbibliothek in Athen. Wien:
Hölder, 1917.
Bullen, J. B.. “Byzantinism and Modernism 1900-1914”. The Burlington Magazine n
141, novembre 1999, pp. 665-675.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Buonarroti, Filippo. Osservazioni sopra alcuni frammenti di vasi antichi di vetro ornati di
figure trovati ne’ cimiteri di Roma. Firenze: Stamperia di Sua Altezza Reale
[Cosimo III Granduca di Toscana], 1716.
Buscemi, Nicola. Notizie della Basilica di San Pietro detta la Cappella Regia. Palermo,
1840.
Byzance et la France médiévale. Manuscrits à peintures du IIe au XVIe siècle. Paris,
Bibliothèque Nationale [1958-1959]. Catalogo della mostra. Paris, 1958.
Byzantinische Stoffe und Motive in der europäischen Literatur des 19. und 20. Jahrhun-
derts. A cura di Evangelos Konstantinou. Frankfurt am Main: Peter Lang,
1998.
Cagnetta, Mariella. Antichisti e impero fascista. Bari: Dedalo, 1979.
— Antichità classiche nell’Enciclopedia Italiana. Roma: Laterza, 1990.
— “Appunti su guerra coloniale e ideologia imperiale “romana”. In Matrici culturali
del fascismo. Bari: Laterza, 1977), pp. 185-207.
— “Le letture controllate”. In Lo spazio letterario di Roma antica. Vol. 4, pp.
399-427. Roma: Salerno editrice, 1991.
— “Il mito di Augusto e la ‘rivoluzione’ fascista”. In Matrici culturali del fascismo, pp.
153-184. Bari: Laterza, 1977.
Calvesi, Maurizio. “Lionello Venturi storico e critico d’arte”. In Da Cézanne all’Arte
Astratta, pp. 67-78.
Cambellotti (1876-1960). Roma, Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contempora-
nea, 24 settembre 1999 — 23 gennaio 2000. Catalogo della mostra. Roma:
Edizioni De Luca, 1999.
Cammarano, Salvatore. Belisario. Tragedia lirica in tre parti. Parte Prima, Il trionfo.
Parte Seconda, L’esilio. Parte Terza, La morte. Da rappresentarsi nell’imp. e real
teatro in via della Pergola, la primavera del 1836, sotto la protezione di S. A.
Imp. e R. Leopoldo II Gran-Duca di Toscana. Firenze: nella stamperia di F.
Giachetti [1836].
Canfora, Luciano. “Classicismo e fascismo”. In Matrici culturali del fascismo, pp.
85-111. Bari: Laterza, 1977.
— Ideologie del classicismo. Torino: Einaudi, 1980.
— La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile. Palermo: Sellerio, 1985.
— Le vie del classicismo. Bari: Laterza, 1989.
— Le vie del classicismo. Vol. 2. Classicismo e libertà. Bari: Laterza, 1997.
Cannistraro, Philip V. “Fascism and Culture in Italy”. In Italian Art in the 20th
Century. Painting and Sculpture 1900-1988, pp. 147-154.
Capitani, Ovidio. “Il rapporto Occidente Oriente nella storiografia medievistica
italiana dalla fine del II conflitto mondiale al 1990”. In Europa medievale e
mondo bizantino. Contatti effettivi e possibilità di studi comparati. Tavola rotonda
del XVIII Congresso del CISH, Montréal, 29 agosto 1995. A cura di Giro-
lamo Arnaldi e Guglielmo Cavallo, pp. 267-281. Roma: Istituto Storico
Italiano per il Medio Evo, 1998.
Caramel, Luciano. “Ordine nuovo, primordio, nuovi miti nell’arte italiana tra gli
anni Venti e Trenta”. In Il futuro alle spalle, pp. 49-65.
Carluccio, Luigi. “Gobetti e Casorati”. In Per Gobetti, pp. 105-113.
Carrà, Carlo. “Arte e razza”. L’Ambrosiano, 8 dicembre 1938, p. 3.
BIBLIOGRAFIA 

— “L’arte parigina. Rousseau, Matisse, Derain”. La ronda 1, n 7 (novembre 1919),


pp. 82-91. Ristampato come “Parere intorno ad Henri Matisse e André
Derain”. In Pittura metafisica, pp. 139-149.
— “Da Cézanne a noi futuristi”. Lacerba 1 (1913), pp. 99-101.
— “Difesa della mia generazione” [1930]. Ristampato in Segreto professionale.
— Giotto. Roma: Casa Editrice d’Arte “Valori Plastici”. 1924.
— “L’«Italianismo artistico»’’. Valori plastici 1, nn 4-5 (aprile-maggio 1919), pp. 1-5.
— “Paolo Uccello costruttore”. La voce 8 (1916) , pp. 375-384.
— “Parlata su Giotto”. La voce 8 (1916), pp. 162-174.
— Pittura metafisica. Milano: Il Balcone, 1919. 2a edizione riveduta, 1945.
— “Il San Francesco di Berlinghieri a Pescia”. L’Ambrosiano 26 luglio 1933.
Ristampato in Tutti gli scritti, pp. 359-362.
— Segreto professionale, a cura di Massimo Carrà. Firenze: Vallechi Editore, 1962.
— Tutti gli scritti. A cura di Massimo Carrà. Con un saggio di Vittorio Fagone.
Milano: Giangiacomo Feltrinelli editore, 1978.
Carrà, Carlo e Ardengo Soffici. Lettere 1913 / 1929. A cura di Massimo Carrà e
Vittorio Fagone. Milano: Giangiacomo Feltrinelli editore, 1983.
Casadio Gianfranco. Il grigio e il nero. Spettacolo e propaganda nel cinema italiano degli
anni Trenta (1931-1943). Ravenna: Longo editore, 1989.
Casadio, G. Franco, e Veneo C. Strozzi. La periferia dell’immagine. Dieci anni di
fascismo nel Ravennate (1935-1944). Faenza: Coop. “La Loggia”. 1985.
Castelfranco, Giorgio. “Giotto”. La Nazione 1 marzo 1933, p. 5.
Castelnuovo, Enrico. La cattedrale tascabile. Scritti di storia dell’arte. Livorno: Sillabe,
2000.
— “Introduzione”. In Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia, seconda
edizione, pp. xxiii-lv. Ristampato in La cattedrale tascabile, pp. 224-247.
— “Mille vie della pittura italiana”. In La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento. A
cura di Enrico Castelnuovo. Vol. 1, pp. 7-24. Milano: Electa, 1986. Ristam-
pato in La cattedrale tascabile, pp. 311-334.
— “«Primitifs» e «fin de siècle»’’. In Storia dell’arte e politica culturale intorno al 1900,
pp. 47-54.
Catalogo della mostra di manoscritti e documenti bizantini disposta dalla Biblioteca
Apostolica Vaticana e dall’Archivio Segreto in occasione del V Congresso Internazio-
nale di Studi bizantini. Roma, 20-26 settembre 1936. Città del Vaticano, 1936.
Cavallo, Guglielmo. “La cultura italo-greca nella produzione libraria”. In I Bizantini in
Italia, pp. 497-614. Milano: Scheiwiller, 1982. 2a edizione, Milano: Garzanti,
1986.
— “Osservazioni di un paleografo per la data e l’origine dell’Iliade Ambrosiana”.
Dialoghi di archeologia 7 (1973), pp. 70-85.
— “Italia bizantina e Occidente latino nell’alto medioevo. Una contrapposizione
irrisolta”. In Bisanzio fuori di Bisanzio. A cura di G. C., pp. 105-120. Palermo:
Sellerio editore, 1991.
— “I fondamenti culturali della trasmissione dei testi antichi a Bisanzio”. In Lo
spazio letterario della Grecia antica. Vol. 2, La ricezione e l’attualizzazione del
testo. A cura di Giuseppe Cambiano, Luciano Canfora, Diego Lanza, pp.
265-306. Roma: Salerno editrice, 1995.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Cavallo, Luigi. “Classicità, classicismo, una traccia tra pittori, critici e riviste”. In
L’idea del classico 1916-1932, Milano, Padiglione d’arte contemporanea, 8
ottobre – 31 dicembre 1992, Catalogo della mostra, pp. 63-89. Milano: Fabbri
Editori, 1992.
Cecchelli, Carlo. “Archeologia ed arte cristiana dell’antichità e dell’alto medioevo”.
Doxa. Rassegna critica di antichità classica 4 (1951), pp. 5-53.
— “Bizantina, civiltà. Arte”. In E. I. Appendice I, pp. 281-284. Roma: Istituto della
Enciclopedia Italiana, 1938.
— “Catacombe. Arte”. In E. I. Vol. 9 (1931), pp. 399-400.
— La cattedra di Massimiano ed altri avorii romano-orientali. 2 voll. Roma: Libreria
dello Stato, 1936-1944.
— “Galla Placidia”. In E. I. Vol. 16 (1932), pp. 286-287.
— “Un mosaico”. Roma 3 (1925), pp. 23-24.
— La questione ebraica e il sionismo (Quaderni di Studi Romani. La civiltà di Roma e
i Problemi della Razza (Roma: Istituto Nazionale di Cultura Fascista,
1939-XVII).
— Recensione di K. Weitzmann, The Fresco Cycle of S. Maria di Castelseprio,
Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1951; id.. “Gli affreschi di
S. Maria di Castelseprio”, Rassegna Storica del Seprio, 1949-1950, fasc. IX-X,
pp. 12-27. A. De Capitani d’Arzago. “La scoperta di Castelseprio”, ivi, pp.
5-11. G. Bognetti. “Aggiornamenti su Castelseprio”, ivi, pp. 28-66. Byzantini-
sche Zeitschrift 45 (1952), pp. 97-104.
— “Le varie teorie sulle origini dell’arte bizantina”. 1. “Oriente o Roma?”. 2.
“Oriente, o Bisanzio?”. In Corsi di Cultura sull’Arte Ravennate e Bizantina.
Università degli Studi di Bologna, Ravenna, 31 marzo – 13 aprile 1957, pp.
51-52, 53-55. Ravenna: Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo, 1957.
Cecchi, Emilio. Giotto. Collezione Valori Plastici. Milano: Ulrico Hoepli Editore,
1937.
“Il chassidismo di Benedetto Croce”. Il Tevere 21-22 dicembre 1938-XVII, pp. 1, 3.
Chastel, André. L’Italie et Byzance. A cura di Christiane Lorgues-Lapouge. Paris:
Éditions de Fallois, 1999.
Chevallier, Elisabeth e Raymond. Iter italicum. Les voyageurs français à la découverte de
l’Italie ancienne. Paris – Geneve: Les Belles Lettres – Slatkine, 1984.
Chevallier, Raymond. “Quatre siècles de voyageurs et d’antiquaires français à Ra-
venne (1500-1900)”. In XX Corso di cultura sull’arte ravennate e bizantina.
Ravenna, 11-24 marzo 1973, pp. 195-216. Ravenna: Londo editore, 1973.
Chirtani, Luigi. L’arte attraverso ai secoli. Milano: Fratelli Treves, 1878.
Ciardi Dupré Dal Poggetto, Maria Grazia. “Il contributo di Mario Salmi alla storia
della miniatura: la Mostra Storica Nazionale della Miniatura”. In Mario Salmi
storico dell’arte e umanista, pp. 45-64.
Cicognara, Leopoldo. Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di
Canova. Venezia, 1813-1818. 2a edizione Prato 1823.
Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra. A cura di Emilio Lavagnino.
Prefazioni di Benedetto Croce, C. R. Morey, R. Bianchi Bandinelli. Roma:
Associazione Nazionale per il Restauro dei Monumenti Italiani danneggiati
dalla guerra, 1947.
BIBLIOGRAFIA 

Cioli, Gildo. “Carrà, Soffici e la rinascita della pittura italiana”. Il Giornale d’Italia, 6
febbraio 1930, p. 3.
Civilisations. Orient – Occident. Génie du Nord – Latinité. Lettres de Henri Focillon,
Gilbert Murray – Josef Strzygowski – Robindranath Tagore. Société des Nations,
Institut International de Coopération Intellectuelle, 1935.
Clutton-Brock, A. “The ‘Primitive’ Tendency in Modern Art”. The Burlington
Magazine 19 (1911), pp. 226-228.
Codex Purpureus Rossanensis. A cura di Guglielmo Cavallo, Jean Gribomont, William
C. Loerke. Roma: Salerno Editrice, 1987.
Colasanti, Arduino. L’arte bizantina in Italia. Prefazione di Corrado Ricci. Milano:
Bestetti e Tumminelli Editori d’Arte, 1912.
Coletti, Luigi. “La Mostra Giottesca”. Bollettino d’arte, ser. 3, 31 (1937-XV), pp.
49-72.
— “Nota sugli esordi di Giotto”. La critica d’arte 2 (1937), pp.124-130.
— “La pittura medioevale”. Primato 4, n 1, 1 gennaio 1943-XXI, pp. 15-17.
— I primitivi. Vol. 1. Novara: Istituto Geografico De Agostini, 1941-XX.
Contini, Gianfranco. Letteratura dell’Italia unita 1861 – 1968. Firenze: Sansoni, 1968.
— “Sul metodo di Roberto Longhi”. Belfagor 4 (1949), pp. 205-210.
— Roberto Longhi. Discorso commemorativo pronunciato dal Linceo Gianfranco Contini
nella Seduta ordinaria del 13 gennaio 1973. Accademia dei Lincei, Celebrazioni
lincee, 71. Roma: Accademia Nazionale dei Lincei, 1973.
Cordié, Carlo. “Benedetto Croce, Ardengo Soffici e Gino Severini”. Rivista di studi
crociani 10 (1973), pp. 393-406.
Cornaro, F. Notizie storiche sulle chiese e monasteri di Venezia e Torcello. Padova, 1758.
Corra, Bruno. Per l’arte nuova della nuova Italia. Milano: Studio Editoriale Lom-
bardo, 1918.
Cracco Ruggini, Lellia e Giorgio Cracco. “L’eredità di Roma”. In Storia d’Italia.
Parte 5, I documenti. Vol. 1, pp. 5-45. Torino: Giulio Einaudi, 1973.
Crispolti, Enrico. “Second Futurism”. In Italian Art in the 20th Century. Painting and
Sculpture 1900-1988, pp. 165-171.
Croce, Benedetto. “Considerazioni sul problema morale del tempo nostro”. Qua-
derni della “Critica”, 1, marzo 1945, pp. 1-15.
— La critica e la storia delle arti figurative. Questioni di metodo. Bari: Gius. Laterza e
figli, 1934.
— Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria e Storia. Bari: Gius.
Laterza e figli, 1908.
— “Oltre i limiti”. Il Tevere 21-22 dicembre 1938-XVII, p. 3.
— Problemi d’estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana. Bari: Gius. Laterza e
figli, 1910.
3
— Storia d’Italia dal 1871 al 1915. Bari: Gius. Laterza e figli, 1928 .
3
— Teoria e storia della storiografia. Bari: Gius. Laterza e Figli, 1927 .
Croce, Giuseppe M. La Badia Greca di Grottaferrata e la rivista “Roma e l’Oriente”.
Cattolicesimo e ortodossia tra unionismo ed ecumenismo (1799-1923). Città del
Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1990.
Cronaca Bizantina. A cura di Vincenzo Chiarenza. Le riviste dell’Italia moderna e
contemporanea. Vol. 11. Treviso: Canova, 1975.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Cronaca bizantina. Periodico letterario – sociale – artistico, quindicinale. Casa Editrice


Angelo Sommaruga e C.˚. Anno 1, n 1, 1881.
Cronache bizantine di letteratura e di arte, quindicinale dell’Università di Napoli,
direttore R. De Gerardis. Napoli: Tipi di Ferdinando Colagrande.
Cutler, Anthony. “La «questione bizantina» nella pittura italiana: una visione alterna-
tiva della «maniera greca»“. In La pittura italiana. L’Altomedioevo. A cura di
Carlo Bertelli, pp. 335-354. Milano: Electa, 1994.
Cutler, Anthony, e John W. Nesbitt. L’arte bizantina e il suo pubblico. Torino: UTET,
1986.
Da Boccioni a Sironi: il mondo di Margherita Sarfatti. Brescia, Palazzo Martinengo, 13
luglio – 12 ottobre 1997. Catalogo della mostra, a cura di Elena Pontiggia.
Milano: Skira, 1997.
Da Cézanne all’Arte Astratta. Omaggio a Lionello Venturi. Verona, Galleria Comunale
d’Arte Moderna, Palazzo Forti, marzo – aprile 1992. Roma, Galleria Nazio-
nale d’Arte Moderna, giugno – settembre 1992. Catalogo della mostra. Mi-
lano: Mazzotta, 1992.
D’Achiardi, Pietro. “Neoellenismo e neoromanità nella pittura medievale italiana”.
In Istituto di Studi Romani, Atti del III Congresso Nazionale di Studi Romani.
Vol. 2, pp. 30-38.
— “Roma e Oriente”. Roma 4 (1926), pp. 3-13.
Dalloway, James. Constantinople ancient and modern with Excursions to the Shores and
Islands of the Archipelago and to the Troad. London: T. Bensley, 1797.
Dami, Luigi. “Il pittore Ardengo Soffici”. Dedalo 1 (1920), pp. 202-214.
e e
D’Ancona, Paolo. La Miniature Italienne du X au XVI siècle. Paris – Bruxelles: G.
Van Oest Éditeur, 1925.
— Les primitifs italiens du XIe au XIIIe siècle. Paris: Les éditeurs d’art et d’histoire,
1935.
D’Annunzio, Gabriele. La nave. Milano: Fratelli Treves Editori, 1908.
De Amicis, Edmondo. Costantinopoli. 2 voll. Milano: Fratelli Treves Editori,
1877-1878). Edizione illustrata da Cesare Biseo, Milano: Fratelli Treves
Editori, 1912.
— Marocco. Milano: Fratelli Treves Editori, 1876.
De Angelis D’Ossat, Guglielmo. “Sugli edifici ottagonali a cupola nell’antichità e nel
Medio Evo”. In Atti del I˚ Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura,
[Firenze, Palazzo Vecchio,] 29-31 ottobre 1936-XV, pp. 13-24. Firenze: G. C.
Sansoni, 1938-XVI.
Debidour, Antonin. L’impératrice Théodora. Paris: E. Dentu, Libraire-Éditeur, 1885.
De Blasi, Jolanda. “Introduzione”. In Romanità e Germanesimo, pp. ix-xii.
— “Romanità e Germanesimo”. In Romanità e Germanesimo, pp. 391-400.
De Chirico, Giorgio. “Il ritorno al mestiere”. Valori plastici 1, nn 11-12 (novembre-
dicembre 1919), pp. 15-19.
De Francovich, Geza. “L’arte siriaca e il suo influsso sulla pittura medievale
nell’Oriente e nell’Occidente”. Commentari 2 (1951), pp. 3-16, 75-92,
143-152. Ristampato in Persia, Siria, Bisanzio, pp. 1-60.
— “Contributi alla scultura romanica veronese”. Rivista dell’Istituto di Archeologia e
Storia dell’Arte 9 (1942), pp. 103-47.
BIBLIOGRAFIA 

— “Crocifissi metallici del sec. XII in Italia”. Rivista d’arte 17 (1935), pp. 14-27.
–––. “Della Siria e di altre cose”. Commentari 4 (1953), pp. 318-334.
— “L’Egitto la Siria, Costantinopoli: Problemi di metodo”. Rivista dell’Istituto Na-
zionale di Archeologia e Storia dell’Arte, n. s., 11-12 (1963), pp. 83-229.
— “I mosaici del bema della chiesa della Dormizione a Nicea (Considerazioni sul
problema: Costantinopoli, Ravenna, Roma)”. In Scritti di Storia dell’Arte in
onore di Lionello Venturi, pp. 173-197. Ristampato in Persia, Siria, Bisanzio, pp.
61-77.
— “Osservazioni sull’altare di Ratchis a Cividale e sui rapporti tra Occidente e
Oriente nei secc. VII e VIII d.C.”. In Scritti di storia dell’arte in onore di Mario
Salmi. Vol. 1, pp. 173-236. Roma, 1961.
— Persia, Siria, Bisanzio nel Medioevo artistico europeo. A cura di Valentino Pace.
Nuovo Medioevo, 25. Napoli: Liguori editore, 1984.
Degenerate Art: The Fate of the Avant-Garde in Nazi Germany. Los Angeles County
Museum of Art, 17 febbraio – 12 maggio 1991; The Art Institute of Chicago,
22 giugno – 8 settembre 1991. Catalogo della mostra, a cura di Stephanie
Barron. Los Angeles: Los Angeles County Museum of Art, 1991.
De Grada, Raffaele. Mario Sironi. Milano: Club Amici dell’Arte Editore, 1972.
De Grand, Alexandre J. Bottai e la cultura fascista. Bari: Laterza, 1978.
De Gregori, Luigi. “Arte bizantina”. Rivista d’Italia 10 (1907), pp. 332-345.
De Grüneisen, Wladimir. Le caractéristiques de l’art copte. Firenze: Istituto di Edizioni
Artistiche Fratelli Alinari, 1922.
Dell’Isola, G. “Storia senza astrazioni”. La difesa della razza 3, n 19, 5 agosto
[1940-] XVIII, pp. 33-35.
Del Massa, Aniceto. “Ardengo Soffici”. Domus n 184 (aprile 1943-XXI), pp.
189-191.
— “Giotto e l’età nuova”. La Nazione, 24 aprile 1937, p. 3.
De Micheli, Mario. Le avanguardie artistiche del Novecento. Milano: Schwarz editore,
1959.
Demus, Otto. Byzantine Mosaics Decoration. Aspects of Monumental Art in Byzantium.
London: Paul Trench, 1948. Ristampa, 1988.
— The Mosaics of Norman Sicily. London: Routledge and Kegan Paul, 1949.
— The Mosaics of San Marco in Venice. Parte I, The Eleventh and Twelfth Century, con
un contributo di Rudolf M. Kloos. 2 voll. Parte II, The Thirteenth Century, con
un contributo di Kurt Weitzmann. 2 voll. Chicago e London: The University
of Chicago Press, 1984.
— Die Mosaiken von San Marco in Venedig, 1100-1300. Baden bei Wien: Rohrer,
1935.
Denis, Maurice. “Notes sur la peinture religieuse”. In Théories 1890-1910. Paris,
1920.
De Vecchi di Val Cismon, Cesare Maria. Bonifica fascista della cultura. Milano: A.
Mondadori, 1937.
Diehl, Charles. L’art byzantin dans l’Italie méridionale. Paris, 1894.
— L’art chrétien primitif et l’art byzantin. Paris – Bruxelles: Van Oest, 1928.
— “Bizantina, Civiltà. Arte”. In E. I. Vol. 7 (1930), pp. 154-165.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

–––. “Byzance dans la Littérature”. La vie des peuples, aprile 1922, ristampato in
Choses et Gens de Byzance, pp. 231-248. Paris: E. De Boccard, Éditeur, 1926.
— Études byzantines. Introduction a l’histoire de Byzance. Les études d’histoire byzantine
en 1905. La civilisation byzantine. L’empire grec sous les Paléologues. Les mosaı̈ques
de Nicée, Saint-Luc, Kahrié-Djami, etc.. Paris: Alphonse Picard et Fils, Édi-
teurs, 1905.
— Figures byzantines. Paris: Librairie Armand Colin, 1906.
2
— Les grandes problèmes de l’histoire byzantine . Paris: Librairie Armand Colin, 1947 .
Traduzione italiana, I grandi problemi della storia bizantina. Introduzione di
Armando Saitta. Bari: Editori Laterza, 1957.
— Justinien et la civilisation byzantin au VIe siècle. Paris: Ernest Leroux, 1901.
— Manuel d’art byzantin. 2 voll. Paris: Picard, 1910; 2a edizione, 1926.
— La peinture byzantine. Histoire de l’art byzantin publiée sous la direction de M.
Charles Diehl. Paris: Van Oest, 1933.
— Ravenne. Études d’Archéologie byzantine. Paris: Librairie de l’art J. Rovam, 1886.
— Théodora impératrice de Byzance. Paris: Eugène Rey, Libraire, [1904]. Traduzione
italiana, Teodora imperatrice di Bisanzio. Traduzione dal francese di Giuseppe
Bertoni. Firenze: Giulio Beltrami, gennaio 1939 – XVII.
Di Macco, Michele. “Lezioni d’orientamento: gli ultimi anni dell’insegnamento di
Lionello Venturi nell’Università di Torino. La formazione di Giulio Carlo
Argan”. Ricerche di Storia dell’arte n 59, 1996, pp. 17-32.
Dimand, M. S. “In memoriam Josef Strzygowski (1862-1941)”. Ars Islamica 7
(1940).
Di Marzio, Cornelio. “Il concetto romano nell’ordinamento delle professioni”. Roma
14 (1936-XIV), pp. 397-416.
Di Pietro, Filippo. La Cappella Palatina di Palermo. I mosaici. Milano: Edizioni d’Arte
Sidera, 1954.
Di Pretoro, Francesco. “L’Asia Minore e l’Italia attraverso la storia”. Gerarchia 1
(1922), pp. 605-613.
Dix années d’études byzantines. Bibliographie internationale 1939 – 1948. Association
International des Études Byzantines. Paris: Office des Éditions Universitaires,
1949.
Donati, Sebastiano. Dei dittici degli antichi profani e sacri, Libri iii, coll’appendice
d’alcuni necrologi e calendarij finora non pubblicati. Lucca: Filippo Maria Bene-
dini, 1753.
Dragone, Angelo. “Gobetti critico d’arte”. In Per Gobetti, pp. 121-134.
— “Lionello Venturi a Torino: Gualino e i «Sei»”. Da Cézanne all’Arte Astratta, pp.
88-94.
Drake, Richard. Byzantium for Rome: The Politics of Nostalgia in Umbertian Italy, 1878
– 1900. Chapel Hill: The University of North Carolina Press, 1980.
Ducati, Pericle. L’arte in Roma dalle origini al sec. VIII. Istituto di Studi Romani.
Storia di Roma. Vol. 26. Bologna: Licinio Cappelli Editore, 1938-XVII.
Durrieu, Paul. La peinture a l’exposition des primitifs français. Paris: Librairie de l’art
ancien et moderne, 1904.
Duthuit, Georges. Byzance et l’art du XIIe siècle. Paris: Librairie Stock, 1926.
BIBLIOGRAFIA 

— Les Fauves. Braque Derain Van Dongen Dufy Friesz Manguin Marquet Matisse Puy
Vlaminck. Genève: Éditions des Trois Collines, 1949.
— La sculpture copte. Statues – bas-reliefs – masques. Paris: Les Éditions G. Van Oest,
1931.
Ebersolt, Jean. Les arts sumptuaires de Byzance. Paris: Leroux, 1923.
— La miniature byzantine. Paris – Bruxelles: G. Van Oest, 1926.
E[manuelli], E[nrico]. “Conflitti artistici”. L’Ambrosiano, 9 dicembre 1938-XVII, p.
3.
E. I. Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti. 36 volumi. Roma: Istituto
Giovanni Treccani, poi Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Gio-
vanni Treccani, 1929-1936. Appendice I. 4 volumi. Roma, 1938. Appendice II
1938 / 1948. 2 volumi. Roma, 1948-1949. Appendice III 1950 / 1961. 2 volumi.
Roma, 1961.
Enciclopedia Italiana Treccani. Idea esecuzione compimento. Milano: Edizioni d’Arte
Emilio Bestetti [1939-XVII].
E. U. A. Enciclopedia Universale dell’Arte. 15 volumi. Venezia – Roma: Istituto
per la collaborazione culturale, 1958.
VIII Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia 1909. Catalogo illustrato.
Venezia: Officine Grafiche C. Ferrari, 1909.
IX Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia 1910. Catalogo illustrato.
Venezia: Officine Grafiche C. Ferrari, 1910.
XLII Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia. Arte e scienza, Catalogo
generale 1986. [Venezia:] Edizioni La Biennale – Electa Editrice, 1986.
IVa Esposizione Nazionale di Belle Arti. Catalogo degli oggetti componenti la
mostra di Arte Antica. Torino 1880. Torino: Vincenzo Bona, 1880.
Exhibition of Italian Art 1200 – 1900. London, Royal Academy of Arts, Burlington
House, Piccadilly, 1 gennaio – 8 marzo 1930. Catalogo della mostra. London:
Royal Academy of Arts, 1930.
Exposition de l’art italien de Cimabue a Tiepolo. Paris, Petit Palais, 1935, Catalogo
della mostra.
Exposition des Primitifs Français au Palais du Louvre (Pavillon de Marsan) et à la
Bibliothèque Nationale. Parigi, 12 aprile – 14 luglio 1904. Catalogo della
mostra. A cura di Henri Bouchot et alii. Paris: Palais du Louvre et Bibliothè-
que Nationale, 1904.
Exposition internationale d’art byzantin. 28 mai – 9 juillet 1931. Musée des Arts
decoratifs. Palais du Louvre, Pavillon de Marsan. Paris: Imprimerie Frasier-
Joye [1931].
F., F. “L’arte della nuova Italia alla Sesta Triennale”. La Rivista illustrata del “Popolo
d’Italia” 14, n 6 (giugno 1936), pp. 37-45.
Fagiolo dell’Arco, Maurizio. Classicismo pittorico. Metafisica, Valori Plastici, Realismo
Magico e “900”. Genova: Costa e Nolan, 1991.
Fascism, Aesthetics, and Culture. A cura di Richard J. Golsan. Hanover, N.H.:
University Press of New England, 1992.
“Il Fascismo e il problema della razza”. Il Giornale d’Italia, 15 luglio 1938-XVI, p. 1.
“Il Fascismo e i problemi della razza. Commenti alla pubblicazione del Giornale
d’Italia”. Il Giornale d’Italia, 16 luglio 1938-XVI, p. 1.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Fascist Visions. Art and Ideology in France and Italy. A cura di Matthew Affron e Mark
Antliff. Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1997.
Favuzzi, Andrea, e Marina Silvestrini. “Sciovinismo classicistico nella «Grande
Guerra»: Wilamowitz”. In Matrici culturali del fascismo, pp. 113-123.
Ferrari, Giannino. “Bizantina, Civiltà. Diritto”. In E. I. Vol. 7 (1930), pp. 141-148.
“La Fiera di Milano”. La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 15 n 4 (aprile 1937),
pp. 79-105.
Filow, Bogdan D. Les miniatures de la Chronique de Manassès à la Bibliothèque du
Vatican (cod. Vat. Slav. II). Codices e Vaticanis selecti, 17. Sofia: Musée
National Bulgare, 1927.
Fiocco, Giuseppe. “A proposito di arte esarcale”. Le arti 3 (1940-1941), pp.
373-375.
— “L’architettura esarcale di Aquileia”. Aquileia nostra 11 (1940), coll. 3-18.
— Replica a Mario Salmi. Le arti 4 (1941-1942), pp. 46-47.
Fiorentino, Italo. Teodora. Roma: Edoardo Perino, Editore-Tipografo, 1886.
Flora, Francesco. “La «Cronaca Bizantina»”. Pègaso 2 (1930-VIII), pp. 681-698.
Fogolari, Gino. “Venezia. Arti figurative”. In E. I. Vol. 35 (1937), pp. 60-67.
Fontana. Catalogo generale. A cura di Enrico Crispolti. 2 voll. Milano: Electa, 1986.
Fonti, Daniela. Gino Severini. Catalogo ragionato. Milano: Mondadori – Daverio,
1988.
Forlati, Ferdinando. “Parenzo. Monumenti”. In E. I. Vol. 26 (1935), p. 324.
Foschi, Silvia e Claudio Franzoni. “Artisti, eruditi, viaggiatori: le interpretazioni di
San Vitale”. In La basilica di San Vitale a Ravenna. A cura di Patrizia Angiolini
Martinelli. 2 voll., pp. 135-155. Modena: Franco Cosimo Panini editore,
1997.
Foss, Clive, e Paul Magdalino. Rome and Byzantium. The Making of the Past. Oxford:
Elsevier – Phaidon, 1977.
Fossati, Paolo. “Intorno al 1920”. Prospettiva nn 57-60 (aprile 1989 – ottobre 1990),
pp. 468-484.
— “Pittura e scultura fra le due guerre”. In Storia dell’arte italiana. Parte seconda,
Dal Medioevo al Novecento. Vol. 3, Il Novecento, pp. 173-259. Torino: Giulio
Einaudi Editore, 1979.
Frattarolo, R. “La mostra della miniatura a Palazzo Venezia”. Bollettino d’arte, ser. 4,
39 (1954), pp. 341-347.
Fry, Roger. “Modern Mosaic and Mr. Boris Anrep”. The Burlington Magazine 42
(1923), pp. 272-278.
— “Some Pictures by El greco”. The Burlington Magazine 24 (1914), pp. 3-4.
— Transformations. Critical and Speculative Essays on Art. London: Doubleday An-
chor Books, 1956. 1a edizione, 1926.
Furse, Alberto D. Umme-Dunia. Roma: Ermanno Loescher & C.˚, 1884.
Il futuro alle spalle. Italia Francia – L’arte tra le due guerre. Roma, Palazzo delle
Esposizioni, 22 aprile – 22 giugno 1998. Catalogo della mostra. A cura di
Federica Pirani. Roma: Edizioni De Luca, 1998.
Gadda, Carlo Emilio. L’Adalgisa. Disegni milanesi. Firenze: Casa Editrice F. Le
Monnier, 1944.
BIBLIOGRAFIA 

Galassi, Giuseppe. “Dall’antico Egitto ai Bassi Tempi (A proposito di un monu-


mento artistico del sec. VI)”. L’Arte 18 (1915), pp. 286-295, 321-342.
— Roma o Bisanzio. Vol. 1, I musaici di Ravenna e le origini dell’arte italiana. Vol. 2, Il
2
congedo classico e l’arte nell’alto Medio Evo. Roma: Libreria dello Stato, 1953 .
1a edizione a. VIII e.f. [1929-1930], costituita dal solo volume 1.
— “Scultura romana e bizantina a Ravenna”. L’arte 18 (1915), pp. 29-57.
Galassi Paluzzi Carlo. “Per l’organizzazione metodica e per l’incremento degli studi
riguardanti i rapporti intercorsi nei secoli tra Roma e l’Oriente”. In Istituto di
Studi Romani, Atti del IV Congresso Nazionale di Studi Romani. Vol. 1, pp.
54-59.
–––. “Roma e antiroma”. Roma 5 (1927), pp. 437-441.
— “Gli studi romani e i rapporti tra Roma e l’Oriente”. Roma 14 (1936-XIV), pp.
303-316.
Galileo Chini. Dipinti Decorazioni Ceramiche opere 1895-1952. Montecatini Terme, 5
agosto – 31 ottobre 1988. Catalogo della mostra. A cura di Fabio Benzi e
Gilda Cefariello Grosso. Milano: Electa, 1988.
Gallina, Mario. Potere e società a Bisanzio. Dalla fondazione di Costantinopoli al 1204.
Torino: Giulio Einaudi editore, 1995.
Galmozzi, Luciano. L’avventurosa traversata. Storia del Premio Bergamo 1939 – 1942.
Bergamo: Il Filo d’Arianna, 1989.
Galvano, Albino. Felice Casorati. Arte Moderna Italiana N 5. Serie A – Pittori N 4.
Milano: Ulrico Hoepli, 1940-XIX.
Gamba, Carlo. Giotto. L’arte per tutti, Istituto Italiano L.U.C.E., Roma. Bergamo:
Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1930.
Gardner, Julian. “Edward B. Garrison”. The Burlington Magazine 124 (1982), p. 96.
Garin, Eugenio. La cultura italiana tra ‘800 e ‘900. Bari: Laterza, 1962.
— Filosofia e scienze nel Novecento. Bari: Laterza, 1978.
Garrison, Edward B. Italian Romanesque Panel Painting. An Illustrated Index. Firenze:
Leo S. Olschki, 1948.
— “The Role of Criticism in the Historiography of Painting”. College Art Journal 10
(1950-1951), pp. 219-222. Ristampato in E. B. G., Early Italian Painting:
Selected Studies. Vol. 1, Panels and Frescoes, pp. 1-11. London: The Pindar
Press, 1984.
Garrucci, Raffaele. Storia della arte cristiana nei primi otto secoli della Chiesa. 6 voll.
Prato: Guasti-Giachetti, 1872-1881.
Gautier, Théophile. Constantinople. Paris: Michel Lévy Frères, 1853.
— Italia. Paris: Victor Lecou Éditeur, 1852.
George, Waldemar. “Ex Roma lux”. Formes, n 8, ottobre 1930, pp. 21-24.
Gerola, Giuseppe. I monumenti di Ravenna bizantina. Il fiore dei musei e monumenti
d’Italia, 13. Milano: Treves, s. d.
Gerstinger, Hans. Die griechische Buchmalerei. Wien: Österreichischen Staatsdrucke-
rei, 1926.
Giacomelli, Giovanna. Recensione di G. P. Bognetti, G. Chierici, A. De Capitani
d’Arzago, Santa Maria di Castelseprio, Milano 1948. Felix Ravenna, ser. 3, fasc.
2 (agosto 1950), pp. 58-76.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Giannini, Amedeo. “Gli studi bizantini a Roma”. In Istituto di Studi Romani, Atti
del IV Congresso Nazionale di Studi Romani. Vol. 1, pp. 361-364.
Gibbon, Edoardo. Storia della decadenza e rovina dell’impero romano. Lugano: C.
Storm e L. Armiens, 1841.
Gigante, Marcello. “Giorgio Pasquali e la Germania (nel centenario della nascita)”.
In Momenti della storia degli studi classici fra Ottocento e Novecento. Seminario
27-28 febbraio 1986. A cura di Mario Capasso et alii, pp. 163-189. Napoli:
Dipartimento di Filologia Classica dell’Università degli Studi di Napoli, 1987.
Giglioli, Giulio Quirino. “L’arte di Roma e l’arte dell’Oriente nell’Antichità”. In
Istituto di Studi Romani, Atti del IV Congresso Nazionale di Studi Romani. Vol.
1, pp. 9-16.
Giglioli, Odoardo H. “La mostra giottesca in Firenze”. In A Giotto, pp. 36-42.
Giolli, Raffaello. L’architettura razionale. A cura di C. De Seta. Bari: Editori Laterza,
1972.
— “Espressionismo dei bizantini”. Domus n 184 (aprile 1943-XXI), pp. 182-188.
–––. Felice Casorati. Arte Moderna Italiana N 5. Serie A – Pittori N 4. Milano: Ulrico
Hoepli, 1925.
Giordani, Roberto. “Lo studio dell’antichità cristiana nell’Ottocento”. In Lo studio
storico del mondo antico nella cultura italiana dell’Ottocento. Acquasparta, Palazzo
Cesi, 30 maggio – 1˚ giugno 1988. A cura di Leandro Polverini, pp. 335-358.
Università degli Studi di Perugia, Dipartimento di Scienze dell’Antichità,
Incontri perugini di Storia della Storiografia Antica e sul Mondo Antico, 3.
Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1993.
Giotto. Bilancio critico di sessant’anni di studi e ricerche. A cura di Angelo Tartuferi.
Catalogo della mostra. Firenze, Galleria dell’Accademia, 3 giugno – 30 set-
tembre 2000. Ministero per i Beni e le Attività Culturali; Soprintendenza per i
Beni Artistici e Storici di Firenze, Pistoia e Prato; Galleria dell’Accademia.
Firenze: Giunti, 2000.
“Giotto 1937. Come vedono Giotto, a sei secoli dalla sua morte, i pittori che vivono
e lavorano nel 1937? ... Omaggio al Padre della pittura italiana”. In Quadrivio,
gennaio-febbraio 1937-XV: Gino Severini, “Giotto 1937” (31 gennaio, p. 1);
Mario Tozzi, “Il più vivo di tutti i pittori” (7 febbraio, p. 1); Carlo Socrate,
“W Giotto ma abbasso il Giottismo” (14 febbraio, p. 1).
Giovannoni, Gustavo. L’architettura come volontà costruttiva del genio romano e italico.
Quaderni di Studi Romani. La Civiltà di Roma e i problemi della razza.
[Roma:] Istituto di Studi Romani Editore, 1939-XVIII.
— “I rapporti tra l’architettura e le arti della pittura e della scultura nei vari periodi
dell’arte italiana”. In Reale Accademia d’Italia, Fondazione Alessandro Volta,
Atti dei Convegni, Vol. 6, Convegno di Arti. 25-31 ottobre 1936-XIV. Tema:
Rapporti dell’architettura con le arti figurative, pp. 24-37.
Giuliano, Antonio. “L’illustrazione libraria di età ellenistica e romana e i suoi riflessi
medievali”. In Vedere i classici. L’illustrazione dei testi antichi dall’età romana al
tardo medioevo. Catalogo della mostra. Salone Sistino, Musei Vaticani, 9
ottobre 1996 – 19 aprile 1997. A cura di Mario Buonocore, pp. 39-50. S.l.:
Fratelli Palombi Editori – Rose, 1996.
— La tecnica della costruzione presso i Romani. Roma: Società Editrice d’Arte Illu-
strata [1925].
BIBLIOGRAFIA 

Giuliotti, Domenico e Giovanni Papini. “Bisanzio”. In Dizionario dell’omo selvatico, a


cura di D. G. e G. P. Vol. 1. Firenze: Vallecchi Editore, 1923, p. 442.
Gobetti, Piero. Felice Casorati pittore. Torino: Piero Gobetti Editore [1923]. Ristam-
pato in Per Gobetti, pp. 90-104. Ristampato in Opere complete di Piero Gobetti.
Vol. 2, Scritti storici, pp. 634-647.
— “Un artista moderno: Felice Casorati”. L’ordine nuovo 19 giugno 1921. Il popolo
romano 19 giugno 1921. Ristampato in Per Gobetti, pp. 85-89. Ristampato in
Opere complete di Piero Gobetti, Parte 3, Vol. 2, Scritti storici, pp. 627-631.
Goetz, Helmut. Der freie Geist und seine Widersacher. Frankfurt am Main: Haag und
Herchen Verlag, 1993. Traduzione italiana: Il giuramento rifiutato. I docenti
universitari e il regime fascista. Milano: La Nuova Italia, 2000.
Golzio, Vincenzo. Architettura bizantina e romanica. Milano: Società Editrice Libra-
ria, 1939-XVII.
Grabar, André. Les miniatures du Grégoire de Nazianze de l’Ambrosienne (Ambrosianus
49-50). Vol. 1 Album. Paris: Vanoest, 1943.
— Les peintures de l’Évangéliaire de Sinope (Bibliothèque Nationale, Suppl. gr. 1248.
Paris: Bibliothèque Nationale, 1948.
Grassi, Luigi. “Benedetto Croce e la critica d’arte”. Rivista dell’Istituto Nazionale di
Archeologia e Storia dell’Arte, n. s., 1 (1952), pp. 328-335.
— “Dommatismo di un ‘discorso estetico’”. Paragone n 21 (settembre 1951), pp.
56-64.
— “Insegnamento di Storia dell’Arte nei Licei”. In Atti del Primo Convegno Interna-
zionale per le arti figurative, pp. 201-203.
Greenberg, Clement. Art and Culture: Critical Essays. Boston: Beacon Press, 1965.
Traduzione italiana, Arte e cultura. Saggi critici. Torino: Umberto Allemandi,
1991.
Guerrini, Silvano. I Chini all’Antella. Opere di Dario, Galileo, Leto, Tito Chini e
Manifattura Fornaci di San Lorenzo nel Cimitero monumentale della Confraternita
di Misericordia. [Firenze:] Ven. Confraternita di Misericordia di S. Maria
all’Antella, 2001.
Guttuso, Renato. “Pittori italiani alla XXII Biennale”. Le arti 2 (1939-1940), pp.
366-370.
Guzzi, Virgilio. “La XX Biennale di Venezia”. Nuova Antologia 71, n 4 (1936-XIV),
pp. 65-73.
Hartel, Wilhelm Rittel von, e Franz Wickhoff. Die Wiener Genesis. Prag – Wien –
Leipzig: F. Tempsky – G. Freytag, 1895.
Haskell, Francis. “Botticelli, Fascism and Burlington House. The ‘Italian Exhibition’
of 1930”. The Burlington Magazine 141 (1999), pp. 462-472.
Hellmann, S. Storia del Medio Evo dalle invasioni barbariche alla fine delle crociate.
Traduzione di Enrico Besta. Firenze: Vallecchi editore, 1924.
Hermanin, Federico. L’arte in Roma dal sec. VIII al XIV. Istituto di Studi Romani.
Storia di Roma. Vol. 27. Bologna: Licinio Cappelli Editore, 1945.
— “Roma. Roma medievale. Arti figurative”. In E. I. Vol. 29 (1936), pp. 774-777.
Hertzberg, G. F. Storia dei bizantini e dell’impero ottomano sin verso la fine del XVI
secolo. Storia Universale Illustrata, a cura di Guglielmo Oncken. Sezione
seconda, Volume VII. Milano: Dottor Leonardo Vallardi, Editore, 1894.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Herzfeld, Ernest E., Wilhelm R. W. Koehler e Charles R. Morey. “Josef Strzygow-


ski”. Speculum 17 (1942), pp. 460-461.
Hewitt, Andrew. Fascist Modernism: Aesthetics, Politics and the Avant-Garde. Stanford,
Calif.: Stanford University Press, 1993.
— “Fascist Modernism, Futurism and «Post-modernity»’’. In Fascism, Aesthetics, and
Culture. A cura di Richard Golson, pp. 38-65. Hanover, N.H.: University of
New England, 1992.
[Hitler, Adolf] “Il discorso di Hitler all’inaugurazione della Casa dell’Arte Germa-
nica. La funzione e i compiti dell’Arte nelle società”. Quadrivio 5, n 49, 3
ottobre 1937-XV, p. 3.
[Hitler, Adolf] “Hitler e l’arte contemporanea”. Nuova antologia 73, n 1588, 16
maggio 1938-XVI, pp. 155-160.
Homeri Iliadis pictae fragmenta ambrosiana phototypice edita. A cura di Antonio Maria
Ceriani e Achille Ratti. Milano: Hoepli, 1905.
Houssaye, Henry. “L’impératrice Théodora”. Revue des deux mondes 67 (1885), pp.
568-597.
L’idea del classico 1916-1932. Milano, Padiglione d’arte contemporanea, 8 ottobre –
31 dicembre 1992. Catalogo della mostra. Milano: Fabbri Editori, 1992.
Ilias Ambrosiana. Fontes Ambrosiani 28. Bern e Olten: Urs Graf-Verlag, 1953.
Interlandi, Telesio. La condizione dell’arte con lettere di: Ardengo Soffici, Ugo Ojetti,
Alfredo Panzini, Emilio Cecchi, Armando Brasini, Francesco Messina, Amerigo
Bartoli, Michele Biancale, Gio. Ponti, Biagio Pace, Giovanni Comisso, Enrico
Somarè, Guido Guida, Nino Bartoletti, Roemo Gregori, Luigi Trifoglio, Domenico
Colao, Giuseppe Cesetti, Amadore Porcella, Luigi Chiarini, Virgilio Marchi, Vito
Lombardi, Attilio Torresini, Gisberto Ceracchini. Roma: Edizioni di “Quadrivio”,
1940-XVIII.
[Interlandi, Telesio] “Netta e definitiva esclusione degli ebrei dal corpo operante
della Nazione”. Il Tevere 11-12 novembre 1938-XVII, pp. 1-2.
[Interlandi, Telesio] “La questione dell’arte e la razza”. Il Tevere, 14-15 novembre
1938-XVII, pp. 1, 3.
[Interlandi, Telesio] “Straniera, bolscevizzante e giudaica. Un’autorevole testimo-
nianza a carico dell’arte moderna”. Il Tevere 24-25 novembre 1938-XVII, pp.
1, 3.
Isambert, François André. ANEKDOTA ou Histoire secrète de Justinien traduite de
e
Procope. Géographie du VI siècle et révision de la numismatique d’après la livre de
Justinien. Paris: Firmin Didot Frères – Fr. Klincksieck, 1856.
Istituto di Studi Romani. Atti del I˚ Congresso Nazionale di Studi Romani. Roma:
Istituto di Studi Romani, 1929-VII.
— Atti del II˚ Congresso Nazionale di Studi Romani. A cura di Carlo Galassi Paluzzi.
Roma: Dott. Paolo Cremonese Editore, 1931-IX.
— Atti del III Congresso Nazionale di Studi Romani. A cura di Carlo Galassi Paluzzi.
Bologna: Licinio Cappelli, 1935-XIII.
— Atti del IV Congresso Nazionale di Studi Romani (I rapporti intercorsi nei secoli tra
Roma e l’Oriente) (Roma, 1935-XIII). 5 voll. A cura di Carlo Galassi Paluzzi.
Roma: Istituto di Studi Romani Editore, 1938-XVI.
— Catalogo delle pubblicazioni. Indice analitico. Roma: Istituto di Studi Romani
2
Editore, 1941-XIX .
BIBLIOGRAFIA 

Istituto Nazionale per le relazioni culturali con l’estero. Italia e Grecia. Saggio su le
due civiltà e i loro rapporti attraverso i secoli. Firenze: Felice Le Monnier, 1939.
Italia imperiale. A cura di Manlio Morgagni. Milano: La Rivista illustrata del “Popolo
d’Italia”, 1937.
Italian Art in the 20th Century. Painting and Sculpture 1900-1988, London, Royal
Academy of Arts, 14 January – 9 April 1989. Catalogo della mostra, a cura di
Emily Braun. London – München: Royal Academy of Art – Preseln Verlag,
1989.
Gobbi, Grazia. Itinerario di Firenze moderna. Architettura 1860-1975. Firenze: Centro
Di, 1976.
Jacopi, Giulio. “Le miniature dei codici di Patmo”. Clara Rhodos 6-7 (1932-1933),
pp. 573-591.
— Patmo, Coo e le minori isole italiane dell’Egeo. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti
Grafiche, 1938-XVI.
Jenkins, Romilly. “Byzantium and Byzantinism”. In Lectures in Memory of Louise Taft
Semple. First Series. 1961-1965, a cura di D. W. Bredeen et alii. Princeton
University Press for the University of Cincinnati, 1967, pp. 133-178.
Joppolo, Giovanni. “L’art italien sous le fascisme et les illusions d’un debat”. Cahiers
du Musée national d’art moderne, Paris, n˚ 7/8 (1981).
— “Les arts plastiques en Italie durant le fascisme: Les constraintes et les refoule-
ments d’un débat”. In Art et fascisme, pp. 181-192.
Kandinsky, Wassily. Über das Geistige in der Kunst. München: Piper, 1912. Tradu-
zione italiana, Della spiritualità nell’arte particolarmente nella pittura. Prima
versione italiana a cura di G. A. Colonna di Cesarò. Roma: Edizioni di
“Religio”, 1940.
Kandinsky, Wassily e Franz Marc. Der blaue Reiter. München: Piper Verlag, 1912.
Traduzione italiana, Il Cavaliere azzurro. Bari: De Donato, 1967.
Kaplan, Alice Yaeger. Reproductions of Banality: Fascism, Literature, and French
Intellectual Life. Minneapolis: University of Minnesota Press, 1986.
Kitzinger, Ernst. L’arte bizantina. Correnti stilistiche nell’arte mediterranea dal III al VII
secolo. Traduzione italiana a cura di Paolo Cesarotti. Presentazione di Maria
Andaloro. Milano: Arnoldo Mondadori editore, 1989. Traduzione italiana di
Byzantine Art in the Making. Main lines of stylistic development in Mediterranean
art 3rd – 7th century. London: Faber and Faber, 1977.
— “Bizantina, arte”. In Enciclopedia dell’arte medievale. Vol. 3, pp. 517-534. Roma:
Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 1992.
— Il culto delle immagini. L’arte bizantina dal cristianesimo delle origini all’Iconoclastia.
Scandicci: La Nuova Italia, 1992. Traduzione italiana di “The Cult of Images
in the Age Before Iconoclasm”. Dumbarton Oaks Papers 8 (1954), pp. 83-150,
e “Byzantine Art in the Period Between Justinian and Iconoclasm”. In Berichte
zum XI. Internationalen Byzantinisten-Kongress, München 1958, pp. 1-50.
München, 1958. Presentazione di Carlo Bertelli. Aggiornamenti di Stephen
Gero, E. K., James Thrilling.
— I mosaici del periodo normanno in Sicilia. Vol. 1, La Cappella Palatina di Palermo. I
mosaici del presbiterio (Palermo: Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e
Arti, 1992).
— I mosaici del periodo normanno in Sicilia. Vol. 2, La Cappella Palatina di Palermo. I
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

mosaici della navata. Palermo: Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti,


1993.
— I mosaici del periodo normanno in Sicilia. Vol. 3, Il Duomo di Monreale. I mosaici
dell’abside, della solea e delle cappelle laterali. Palermo: Accademia Nazionale di
Scienze, Lettere e Arti, 1994.
— I mosaici del periodo normanno in Sicilia. Vol. 4, Il Duomo di Monreale. I mosaici del
transetto. Palermo: Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, 1995.
— I mosaici del periodo normanno in Sicilia. Vol. 5, I mosaici della navata. Istituto di
Studi Bizantini e Neoellenici, Palermo. Monumenti, 5. Palermo, 1996.
— I mosaici di Monreale. Palermo: Flaccovio, 1960.
— “The Mosaics of the Cappella Palatina in Palermo: An Essay on the Choice and
Arrangement of Subjects”. The Art Bulletin 31 (1949), pp. 269-292.
— “On the Portrait of Roger II in the Martorana in Palermo”. Proporzioni 3 (1950),
pp. 30-35.
Kleinbauer, W. Eugene. “Nikodim Pavlovich Kondakov: The First Byzantine Art
Historian in Russia”. In Byzantine East, Latin West. Art Historical Studies in
Honor of Kurt Weitzmann, a cura di Doula Mouriki et alii, pp. 637-643.
Princeton, N.J.: The Department of Art and Archaeology, 1995.
Kondakov, Nikodim. Istoriia vizantiiskago iskusstva i ikonografii po miniatiuram’
grecheskikh’ rukopisei. Zapiski Imperatorskogo Novorossiiskogo Universiteta
21. Odessa: Ul’rikha i Shul’tse, 1876. Traduzione francese, Histoire de l’art
byzantin considéré principalement dans les miniatures, a cura di K. Travinskii e
con una prefazione di A. Springer. 2 voll. Paris – London: Librairie de l’art,
1886, 1891.
Kostenevich, Albert G. “Un dialogo lungo mezzo secolo: incontri con l’Oriente”. In
Matisse. “La révélation m’est venue de l’Orient”, pp. 23-79.
Kostenevich, Albert G. e Natalia Semionova. Matisse v Rossii. Moskva: Avangard,
1993. Traduzione francese, Matisse et la Russie. Parigi: Flammarion, 1993.
Krumbacher, Karl. Geschichte der byzantinischen Literatur von Justinian bis zum Ende
2
des oströmischen Reiches (572-1453). München, C. H. Beck’sche, 1897 .
Labarte, Jules. Histoire des arts industriels au Moyen Age et à l’epoque de la Renaissance.
4 voll. Paris: Librairie de A. Morel et Cie, 1864-1866.
Lacerba 1, n 1 (1 gennaio 1913) – 3, n 22 (22 maggio 1915).
Lambarelli, Roberto. “Margherita Sarfatti e la supremazia dell’arte italiana”. In Il
futuro alle spalle, pp. 71-74.
Lamberti, Maria Mimita. “1870-1915: i mutamenti del mercato e le ricerche degli
artisti”. In Storia dell’arte italiana, Parte II, Dal Medioevo al Novecento. Vol. 3,
Il Novecento. Torino: Giulio Einaudi editore, 1982, pp. 3-172.
— “Riccardo Gualino: una collezione e molti progetti”. Ricerche di storia dell’arte 12
(1980), pp. 5-18.
Largajolli, Dionigi. “Teodora. Un’augusta bizantina del VI secolo”. Nuova Antologia,
ser. 2, n 50 (1885), pp. 210-244.
Lanzi, Luigi. Storia pittorica della Italia. Dal risorgimento delle belle arti fin presso al fine
del XVIII secolo [Bassano, 1795-1796]. Ristampa, a cura di Martino Capucci.
Firenze: Sansoni Editore, 1968.
La Penna, Antonio. Concetto Marchesi. La critica letteraria come scoperta dell’uomo. Con
un saggio su Tommaso Fiore. Firenze: La Nuova Italia Editrice, 1980.
BIBLIOGRAFIA 

— “La tradizione classica nella cultura italiana”. In Storia d’Italia, 5, I documenti.


Torino: Giulio Einaudi, 1973, 2, pp. 1321-1372.
Lavagnino, Emilio. Pietro Toesca. Atti dell’Accademia Nazionale di San Luca, n. s.
Note commemorative di accademici defunti, 3. Roma: Tipografia della Pace,
1962.
Lazarev, Viktor (Lasareff, Victor). “Bizantino. Pittura”. In E. U. A. Vol. 2 (1958),
coll. 666-691.
— “Gli affreschi di Castelseprio (Critica alla teoria di Weitzmann sulla Rinascenza
Macedone)”. Sibrium 3 (1957), pp. 85-102.
— Istoriia vizantiiskoi zhivopisi. 2 voll. Moskva: Iskusstvo, 1947-1948; seconda
edizione 1986. Traduzione italiana, Storia della pittura bizantina. Torino:
Giulio Einaudi editore, 1967.
Lemerle, Paul. “L’archéologie paleochrétienne en Italie. Milano et Castelseprio,
«Orient ou Rome»’’, Byzantion 22 (1952), pp. 165-206.
— “Présence de Byzance”. Journal des Savants (1990), pp. 247-268.
Leporello. “La nave di Gabriele D’Annunzio”. L’illustrazione italiana 35, n 3 (19
gennaio 1908), pp. 58-64.
Lethaby, William Richard. “Byzantine Art”. In Enciclopædia Britannica. Vol. 4, pp.
11
906-911. Cambridge: University Press, 1910 .
Levi, Doro [Teodoro]. Antioch Mosaics Pavements. Princeton: Princeton University
Press, 1947.
Levi Pisetzky, Rosita. Storia del costume in Italia. 5 voll. Milano: Istituto Editoriale
Italiano, 1964.
Lodovici [Samek Ludovici], Sergio. Storici, teorici e critici delle arti figurative (1800 –
1940). Enciclopedia Biografica e Bibliografica “Italiana”, serie 4. Roma:
E.B.B.I. Istituto Editoriale Italiano, 1946.
Lombard, Jean. Byzance. Prefazione di Paul Margueritte. Illustrazioni di A. Leroux.
Paris: Librairie Ollendorf [1900?].
Longhi, Roberto. “Le arti”. In Romanità e Germanesimo, pp. 209-239.
— Breve ma veridica storia della pittura italiana. Firenze: Sansoni, 1980. Dispense del
corso del 1914.
— Carlo Carrà. Arte moderna italiana n 1. A cura di Giovanni Scheiwiller. Serie A.
Pittori, n 9. Milano: Ulrico Hoepli – Editore, 1937-XV.
— Da Cimabue a Morandi. Saggi di storia della pittura italiana scelti e ordinati da
Gianfranco Contini. Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 1973.
— “Giudizio sul Duecento”. Proporzioni 2 (1948), pp. 5-54 (“Giudizio sul Due-
cento 1939”, pp. 5-22; “Corollario 1947”, pp. 23-29; “Note”, pp. 30-54).
Ristampato in ‘Giudizio sul Duecento’, pp. 1-24.
— ‘Giudizio sul Duecento’ e ricerche sul Trecento nell’Italia centrale. 1939 – 1970.
Edizione delle opere complete di Roberto Longhi. Vol. 7. Firenze: Sansoni,
1974.
— “L’Impressionismo e il gusto degli Italiani”. Prefazione a John Rewald, Storia
dell’Impressionismo. Firenze: Sansoni, 1949, pp. v-xxix. Ristampato in Scritti
sull’Otto e Novecento 1925 – 1966, pp. 1-24.
— “Matisse”. L’Europeo 14 novembre 1954. Ristampato col titolo “È morto l’ultimo
impressionista. Matisse portò gli stupefacenti nella pittura”. In Scritti sull’Otto e
Novecento 1925 – 1966, pp. 163-165.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

— “Omaggio a Benedetto Croce”. Paragone 3, n 35 (novembre 1952), pp. 3-9.


— “Omaggio a Pietro Toesca”. Proporzioni 3 (1950), pp. v-ix.
— “Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana”. L’Arte 17 (1914),
pp. 198-221, 241-256. Ristampato in Scritti giovanili. 1912 – 1922, pp.
61-106.
— “I pittori futuristi”. La Voce, n 15, 10 aprile 1913.
— “Prima Cimabue, poi Duccio”. Paragone 2, n 23 (novembre 1951), pp. 8-13.
— Recensione di B. Berenson, The Study and Criticism of Italian Art. Third Series,
London, Bell, 1916, L’Arte 1917, p. 297. Ristampato in Scritti giovanili. 1912 –
1922, pp. 376-377.
— Recensione di G. Duthuit, Les Fauves. Braque Derain Van Dongen Dufy Friesz
Manguin Marquet Matisse Puy Vlaminck. Genève: Éditions des Trois Collines,
1949. Paragone 1 (1950), pp. 63-64. Ristampato in Scritti sull’Otto e Novecento.
— Recensione di A. Muñoz, “La scultura barocca a Roma: Iconografia – Rapporti
col teatro”, Rassegna d’Arte, ottobre 1916. L’Arte 1917, pp. 60-61. Ristampato
in Scritti giovanili. 1912 – 1922, pp. 350-353.
— Scritti giovanili. 1912 – 1922. Edizione delle opere complete di Roberto Longhi.
Firenze: Sansoni, 1961.
— Scritti sull’Otto e Novecento 1925 – 1966. Edizione delle opere complete di Roberto
Longhi. Vol. 14. Firenze: Sansoni, 1984.
— “Viatico per la mostra veneziana dei cinque secoli”. La Rassegna d’Italia 1 n 1
(gennaio 1946), pp. 66-81; 1 n 4 (aprile 1946), pp. 32-49. Ristampato come
“Viatico per cinque secoli di pittura veneziana”. In R. L., Ricerche sulla pittura
veneta 1946 – 1969. Viatico per cinque secoli di pittura veneziana – Calepino
veneziano – Giovanni Bellini – .... Edizione delle opere complete di Roberto
Longhi. Vol. 13. Firenze: Sansoni, 1978.
Lucio Fontana. Vol. 1, Essays, a cura di Jan van der Marck e Enrico Crispolti. Vol. 2,
Catalogue raisonné des peintures, sculptures et environnements spatiaux, a cura di
Enrico Crispolti. Archivio Lucio Fontana. Bruxelles: La Connaissance, 1974.
Lukach, John M. “Giorgio Morandi and Modernism in Italy between the Wars”. In
Italian Art in the 20th Century. Painting and Sculpture 1900-1988, pp. 155-164.
Maguire, Henry. “Byzantine Art History in the Second Half of the Twentieth
Century”. In Byzantium: A World Civilization, a cura di Angeliki E. Laiou e
Henry Maguire, pp. 119-155. Washington, D.C.: Dumbarton Oaks Research
Library, 1992.
Malaparte, Curzio. La pelle. Storia e racconto. Roma – Milano: Aria d’Italia, 1949.
Maltese, Corrado. Storia dell’arte in Italia 1785-1943. Torino: Einaudi, 1960.
Malvano [-Bechelloni], Laura. Fascismo e politica dell’immagine. Torino: Bollati
Boringhieri, 1988.
Malvano-Bechelloni, Laura. “La politique artistique dans un régime totalitaire: Le
cas du fascisme”. In Art et fascisme, pp. 155-179.
Manacorda, Guido. Medaglioni. Con un autoritratto. Milano: Garzanti, 1941-XX.
Mancini, Augusto. Italia e Grecia. Firenze, 1939.
Mancini, Giulio. Considerazioni sulla pittura. Pubblicate per la prima volta da Adriana
Marucchi con il commento di Luigi Solario. 2 voll. Roma, 1957.
BIBLIOGRAFIA 

Mango, Cyril. “Byzantinism and Romantic Hellenism”. Journal of the Warburg and
Courtauld Institutes 28 (1965), pp. 24-43.
Mangoni, Luisa. “Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo”. In
Storia dell’Italia repubblicana. Vol. 1, La costruzione della democrazia. Dalla
caduta del fascismo agli anni cinquanta, pp. 615-718. Torino: Giulio Einaudi
editore, 1994.
Manzella Frontini, G. “L’arte fascista non sarà l’arte futurista”. L’arte fascista 1
(1926), pp. 116-117.
Maraini, Antonio. “Influenze straniere sull’arte italiana d’oggi”. Bollettino d’Arte del
Ministero della Pubblica Istruzione 1 (1921-1922), pp. 511-527.
Marconi, Pirro. La pittura dei Romani. Roma: Biblioteca d’Arte Editrice, 1929.
Mariacher, Giovanni. “Sergio Bettini”. Archivio veneto 130 (1988), pp. 169-171.
Mariano, Nicky. Forty Years with Berenson. Con una introduzione di Kenneth Clark.
New York: Alfred A. Knopf, 1966.
Marinetti, Filippo. “L’architettura e le arti decorative negli stili dei tempi”. In Reale
Accademia d’Italia, Fondazione Alessandro Volta, Atti dei Convegni, Vol. 6,
Convegno di Arti. 25-31 ottobre 1936-XIV. Tema: Rapporti dell’architettura con le
arti figurative, pp. 41-58.
— “L’arte fascista sarà futurismo più o meno audace”. L’arte fascista 2 (1927), pp.
5-6.
Marinetti, Balestrieri. Balla, Bragaglia, Buzzi, Carli, Deamicis, Depero, Dottori,
Fillia, Orazi, Prampolini, Russolo, Settimelli, Soffici, Volt, Arte fascista. Ele-
menti per la battaglia artistica. Torino: Edizioni Sindacati Artistici, s.d. [dopo il
1927].
Mario Salmi storico dell’arte e umanista. Atti della giornata di studio, Roma, Palazzo
Corsini, 30 novembre 1990. Spoleto: Centro Italiano di Studi sull’Alto Me-
dioevo, 1991.
Mario Sironi 1885 – 1961. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 9 dicembre
1993 – 27 febbraio 1994. Catalogo della mostra. Milano: Electa, 1993.
Mario Sironi. A cura di Marco Valsecchi. Milano: L’Italica Assicurazioni [s. d.].
Marmontel, Jean-François. Bélisaire. Paris: J. Merlin, 1767. Traduzione italiana,
Belisario. Venezia: Luigi Pavinii, 1768.
Marrast, Augustin. Esquisses byzantines. Paris: Le Chevalier, 1874.
— La vie byzantine au VIe siècle. Prefazione e commento di Adrien Planté. Paris:
Ernest Thorin, Editeur, 1881.
Martinelli, Vittorio. “Il cinema italiano muto. I film degli anni venti 1921-1922”.
“BN” Bianco e nero 42/1-3 (gennaio-giugno 1981).
— Il cinema muto italiano. I film degli anni d’oro. 1914. 2 voll. Biblioteca di Bianco e
Nero, Centro Sperimentale di Cinematografia. Torino: Nuova Eri, Edizioni
RAI, 1993.
— Il cinema muto italiano. I film della Grande Guerra. 1915. 2 voll. Biblioteca di
Bianco e Nero, Centro Sperimentale di Cinematografia. Torino: Nuova Eri,
Edizioni RAI, 1992.
— Il cinema muto italiano. I film della Grande Guerra. 1916. 2 voll. Biblioteca di
Bianco e Nero, Centro Sperimentale di Cinematografia. Torino: Nuova Eri,
Edizioni RAI, 1992.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

––– Il cinema muto italiano. I film della Grande Guerra. 1917. 2 voll. Biblioteca di
Bianco e Nero, Centro Sperimentale di Cinematografia. Torino: Nuova Eri,
Edizioni RAI, 1991.
––– Il cinema muto italiano. I film della Grande Guerra. 1918. 2 voll. Biblioteca di
Bianco e Nero, Centro Sperimentale di Cinematografia. Torino: Nuova Eri,
Edizioni RAI, 1991.
— Il cinema muto italiano. I film del dopoguerra. 1919. Biblioteca di Bianco e Nero,
Centro Sperimentale di Cinematografia. Torino: Nuova Eri, Edizioni RAI,
1995.
— Il cinema muto italiano. I film del dopoguerra. 1920. Biblioteca di Bianco e Nero,
Centro Sperimentale di Cinematografia. Torino: Nuova Eri, Edizioni RAI,
1995.
Martini, Alessio. Storia di un libro. Scoperte e massacri di Ardengo Soffici. Università
degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, Centro di Studi «Aldo
Palazzeschi», Quaderni Aldo Palazzeschi, vol. 16. Firenze: Le Lettere, 2000.
Marucchi, O. Eléments d’archéologie chrétienne. 3 voll. Paris, 1889-1892. 2a edizione
1900-1909.
Mascherpa, Giorgio. Severini e il mosaico. Ravenna: Longo editore, 1985.
Masi, Alessandro. Un’arte per lo stato. Napoli: Marotta e Marotta, 1991.
— “Giuseppe Bottai: dal Futurismo alla legge del 2 per cento”. In G. Bottai, La
politica delle arti, pp. 7-56.
Mastri, Pietro. “Le due critiche”. Il Marzocco 1, n 14 (3 maggio 1896), p. 1.
Mastromarco, Giuseppe. “Il neutralismo di Pasquali e De Sanctis”. In Matrici
culturali del fascismo, pp. 125-141.
Matisse. “La révélation m’est venue de l’Orient”. Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei
Conservatori, 20 settembre 1997 – 20 gennaio 1998. Catalogo della mostra. A
cura di Claude Duthuit, Albert Kostenevich, Rémi Labrusse, Jean Leymarie.
Firenze: Artificio, 1997.
Matrici culturali del fascismo. Bari: Laterza, 1977.
Matthiae, Guglielmo. “Tradizione e reazione nei mosaici romani dei sec. VI e VII”.
Proporzioni 3 (1950), pp. 10-15.
Mazzi, Maria Cecilia. “Modernità e tradizione: temi della politica artistica del regime
fascista”. Ricerche di storia dell’arte 12 (1980), pp. 19-32.
Medea, Alba. Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi. 2 voll. Collezione Meridionale
diretta da U. Zanotti-Bianco. Serie III: Il Mezzogiorno Artistico. Roma:
Collezione Meridionale Editrice, 1939.
Il Menologio di Basilio II (cod. vat. gr. 1613). Codices e Vaticanis selecti phototypice
expressi, 8. Torino: Bocca, 1907.
Meschinello, Giovanni. La chiesa ducale di S. Marco colle notizie del suo Innalzamento;
Spiegazione delli Mosaici, e delle Iscrizioni; un Dettaglio della preziosità delli marmi
..., 3 tomi. Venezia: Bartolameo Baronchelli, 1753.
Messina, Maria Grazia. Le muse d’oltremare. Esotismo e primitivismo dell’arte contempo-
ranea. Torino: Giulio Einaudi, 1993.
— “Valori plastici, il confronto con la Francia e la questione dell’arcaismo nel primo
dopoguerra”. In Il futuro alle spalle, pp. 19-25.
1935. Gli artisti nell’Università e la questione della pittura murale. Università degli Studi
BIBLIOGRAFIA 

di Roma «La Sapienza». Palazzo del Rettorato, 28 giugno – 31 ottobre 1985.


Catalogo della mostra. A cura di Simonetta Lux e Esther Coen. Roma:
Multigrafica Editrice, 1985.
Monferini, Augusta. “Mario Sironi e Margherita Sarfatti. Alle origini della pittura
murale”. In Mario Sironi 1885 – 1961, pp. 66-71.
Monneret de Villard, Ugo. Le pitture musulmane al soffitto della Cappella Palatina di
Palermo. Roma: La Libreria dello Stato, 1950.
Morey, Charles Rufus. “Art and the History of Art in Italy”. College Art Journal 10
(1950), pp. 219-222.
— “The ‘Byzantine Renaissance’”. Speculum 14 (1939), pp. 139-159.
— “Castelseprio and the Byzantine ‘Renaissance’”. The Art Bulletin 34 (1952), pp.
173-201.
— Early Christian Art. An Outline of the Evolution of Style and Iconography in Sculpture
and Painting from Antiquity to the Eighth Century. Princeton: Princeton Univer-
sity Press, 1942. Seconda edizione, Early Christian Art. An Outline of Style and
Iconography in Sculpture and Painting from Antiquity to the Eighth Century.
Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1953.
— “Notes on East Christian Miniatures. Cotton Genesis, Gospel of Etschmiadzin,
Vienna Genesis, Paris Psalter, Bible of Leo, Vatican Psalter, Joshua Roll,
Petropolitanus XXI, Paris gr. 510, Menologion of Basil II”. The Art Bulletin 11
(1929), pp. 5-103.
— “Il Rinascimento bizantino”. In Atti del Primo Convegno Internazionale per le arti
figurative, pp. 90-100.
— “The Sources of Mediaeval Style”. The Art Bulletin 7 (1924-1925), pp. 35-50.
Morisani, Ottavio. “Gli studi di storia dell’arte in Italia”. In Università degli Studi di
Pisa, Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna. Atti del Seminario di
Storia dell’Arte, Pisa-Viareggio, 1-15 luglio 1953 (Annali della Scuola Normale
Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia 1-2 [1954]), pp. 80-89.
Morowitz, Laura. “Anti-Semitism, Medievalism and the Art of the Fin-de-Siècle”.
Oxford Art Journal 20/1 (1997), pp. 35-49.
“Mosaiques de l’église de Saint-Vital de Ravenne”. Revue archéologique 7/1 (1850),
pp. 351-353.
Mostra augustea della Romanità (Bimillenario della nascita di Augusto), 23 settembre
1937-XV – 23 settembre 1938-XVI, Catalogo. Roma: Casa Editrice C. Co-
lombo, 1937.
Mostra della Rivoluzione Fascista. I˚ Decennale della Marcia su Roma. Roma, Palazzo
della Quadriennale 1932. A cura di Dino Alfieri e Luigi Freddi. Bergamo:
Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1933.
“La Mostra della Romanità”. La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia 15, n 10
(Ottobre 1937), pp. 6-11.
Mostra del Novecento italiano (1923 – 1933). Milano, Palazzo della Permanente, 12
gennaio – 27 marzo 1983. Catalogo della mostra. Milano: Mazzotta, 1983.
Mostra giottesca. Palazzo degli Uffizi, aprile – ottobre 1937-XV, Catalogo. Città di
Firenze, onoranze a Giotto per il VI centenario della morte. Bergamo: Istituto
Italiano d’Arti Grafiche, 1937.
Mostra Storica Nazionale della Miniatura. Roma, Palazzo di Venezia [novembre 1953
– luglio 1954]. Catalogo a cura di Giovanni Muzzioli. Firenze: Sansoni, 1953.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Alphonse Mucha 1860-1939. Darmstadt, Mathildehöhe, 8 giugno – 3 agosto 1980,


Catalogo della mostra. München: Prestel-Verlag, 1980.
Muñoz, Antonio. “Alcune osservazioni intorno al Rotulo di Giosuè e agli Ottateuchi
illustrati”. Byzantion 1 (1924), pp. 475-83.
— “Alcuni dipinti bizantini di Firenze”. Rivista d’arte 6 (1907), pp. 113-120.
— L’Art Byzantin à l’exposition de Grottaferrata. Roma: Danesi editeur, 1906.
— “L’arte di Roma e l’arte dell’Oriente nel periodo paleo-cristiano e medievale”. In
Istituto di Studi Romani, Atti del IV Congresso Nazionale di Studi Romani. Vol.
1, pp. 18-25.
— Il codice purpureo di Rossano e il frammento Sinopense. Roma: Danesi editore, 1907.
— I codici greci miniati delle minori biblioteche di Roma. Firenze, 1905.
–––. “Descrizioni di opere d’arte in un poeta bizantino del secolo XIV (Manuel
Philes)”. Repertorium für Kunstwissenschaft 27 (1904), pp. 390-400.
— Le icone bizantine già nel Museo Cristiano della Biblioteca Vaticana. Roma: Danesi,
1924.
— “I musaici del Battistero di San Giovanni in Fonte a Napoli”. L’Arte 11 (1908),
pp. 433-442.
— “I musaici di Kahriè Giami”. Rassegna Italiana, marzo 1906.
— “Nella Biblioteca del Seraglio a Costantinopoli”. Nuova Antologia, n 130 (1907),
pp. 314-320.
— “Le rappresentazioni allegoriche della vita nell’arte bizantina”. L’Arte 7 (1904),
pp. 130-145.
— Roma di Mussolini. Milano: S. A. Fratelli Treves Editori, 1935-XII.
— Studi d’arte medievale. Roma, 1909.
— “Studi di arte bizantina in Italia”. Studi bizantini, ser. 2, 5 (1924), pp. 207-216.
— “Tre codici miniati della Biblioteca del Serraglio a Costantinopoli”. Studi bizan-
tini, ser. 2, 5 (1924), pp. 199-205.
Muratori, Santi. “Il «Los von Rom» e l’arte bizantina”. Felix Ravenna, n. s., 3,
gennaio-aprile 1932-X, pp. 44-49.
— “Ravenna. Monumenti e arti”. In E. I. Vol. 28 (1935), pp. 870-874.
Muratov, Pavel P. “Les epoques de la peinture d’icones”. In L’Exposition d’ancien art
russe à Moscou, pp. 1-8. Mosca, 1913.
— Les icones russes. Paris: J. Schiffrin – Éditions de la Pléiade, 1927.
— La pittura bizantina. Roma: Casa Editrice d’Arte “Valori Plastici”, 1928.
— La pittura russa antica. Praga – Roma: “Plamja” – A. Stock, 1925.
Munzi, Massimiliano. L’epica del ritorno. Archaeologia e politica nella Tripolitania
italiana. Saggi di Storia Antica, 17. Roma: L’Erma di Bretschneider, 2001.
Muri ai pittori. Pittura murale e decorazione in Italia 1930-1950. Milano, Museo della
Permanente, 16 ottobre 1999 – 3 gennaio 2000. Catalogo della mostra.
Milano: Mazzotta, 1999.
Mussolini, Benito. ‘‘Il discorso della vigilia alla «Sciesa» di Milano’’. La Rivista
illustrata del ‘‘Popolo d’Italia’’ 10 n. 10, ottobre 1932, pp. 8-11.
— Discorso sui Patti Lateranensi, Roma, Camera dei Deputati, Palazzo di Monteci-
torio, 13 maggio 1929-VII. Il Popolo d’Italia 14 maggio 1929-VII, pp. 1-3, e 15
BIBLIOGRAFIA 

maggio 1929-VII, pp. 1-2. Roma, Senato, Palazzo Madama, Il Popolo d’Italia
25 maggio 1929-VII, pp. 1-2, e 26 maggio 1929-VII, pp. 1-2.
— Discorso sul Novecento. In “La Mostra del «Novecento Italiano» inaugurata a
Roma dall’on. Mussolini”. Il Popolo d’Italia, 16 febbraio 1926, p. 3.
— “La luna crescente”. Gerarchia 1 (1922), pp. 477-479.
— Roma antica sul mare. Mantova: “Mussolinia” Edizioni Paladino, 1926.
Nemi. “Tra libri e riviste. «La Nave» di G. D’Annunzio”. Nuova Antologia, ser. 5, n
133 (1908), pp. 162-167.
The New Grove Dictionary of Opera. A cura di Stanley Sadie. 4 voll. London – New
York: The MacMillan Press, 1992.
Nicco, Giusta. “Ravenna e i principi compositivi dell’arte bizantina”. L’arte 28
(1915), pp. 195-216, 245-268.
Nordhagen, Per Jonas. “Byzantium and the Duecento: Remarks on a Story with No
End”. In Kairos. Studies in Art History and Literature in Honour of Professor
Gunilla Ükerström-Hougen. A cura di Elisabeth Piltz e Paul Üström. Jousered:
Paul Üströms förlag, 1998, pp. 66-77.
— “Italo-Byzantine Wall Painting of the Early Middle Ages: An 80-Year Old
Enigma in Scholarship”. In Bisanzio, Roma e l’Italia nell’Alto Medioevo, Setti-
mane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 34, Spoleto,
3-9 aprile 1986. Spoleto: Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo 1988,
pp. 593-624.
— “Roberto Longhi (1890-1970) and His Method”. Konsthistorisk Tidsckrift 68/2
(1999), pp. 99-116.
Ojetti, Ugo. “Appiani, Andrea”. In E. I. Vol. 3 (1929), pp. 757-759.
— Bello e brutto. Milano: Fratelli Treves, 1930.
— “Come il ritorno della pittura a compiti monumentali possa giovare anche alla
pittura di cavalletto”. In Reale Accademia d’Italia, Fondazione Alessandro
Volta, Atti dei Convegni, Vol. 6, Convegno di Arti. 25-31 ottobre 1936-XIV.
Tema: Rapporti dell’architettura con le arti figurative, pp. 54-66.
— Giotto. Discorso letto il 27 aprile 1937-XV a Firenze in Palazzo Vecchio .... Reale
Accademia d’Italia. Celebrazioni e Commemorazioni. Vol. 23. Roma: Reale
Accademia d’Italia, 1937-XV. Ristampato in Nuova Antologia 72 (1937), pp.
137-145.
— L’Italia e la civiltà tedesca. Problemi Italiani, 8. Milano: Ravà e C., 1915.
— In Italia, l’arte ha da essere italiana? Milano – Verona: A. Mondadori Editore,
1942.
— “Lettera a Lionello Venturi”. Pègaso 1/2 (1929), pp. 728-732.
— “Préface”. In Exposition de l’art italien de Cimabue a Tiepolo. Paris, Petit Palais,
1935. Catalogo della mostra, pp. xi-xvi.
Ojetti Ugo, e Luigi Dami. Atlante di storia dell’arte italiana. 2 voll. Milano-Roma:
Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tumminelli [1925]; Milano: Fratelli Treves
[1933].
Omaggio a Pietro Toesca. Proporzioni 3 (1950).
Opere complete di Piero Gobetti. Vol. 2, Scritti storici, letterari e filosofici. A cura di Paolo
Spriano. Torino: Einaudi, 1969.
Pace, Biagio. “Pensiero romantico ed arte bizantina”. In Università degli Studi di
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Pisa, Istituto di Archeologia e di Storia Antica, Studi classici e orientali. Vol. 2,


pp. 85-99. Pisa, 1953.
Pagano, Giuseppe. Arte decorativa italiana. Milano, 1938.
‘‘Il Palazzo di Giustizia di Milano. Architetto Marcello Piacentini / Der Mailander
Justitzpalast’’. Architettura. Rassegna di architettura, 1, gennaio-febbraio
1942-XX.
Pallottino, Massimo. “La Mostra Augustea della Romanità”. Capitolium. Rassegna
mensile del Governatorato 12 (1937-XV), pp. 519-528.
Pallucchini, Rodolfo. “Affreschi padovani di Massimo Campigli”. Le arti 2
(1939-1940), pp. 346-350.
Papa, Emilio Raffaele. Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura italiana. Con un
saggio di Francesco Flora. Milano: Feltrinelli Editore, 1958.
Papini, Giovanni. “Su questa letteratura”. Pègaso 1, n 1 (1929), pp. 29-43.
Papini, Roberto. “L’Italia, l’arte e la critica”. Nuova Antologia 62, n 1316 (1927),
pp. 142-168.
Paragone. Diretto da Roberto Longhi. Anno 1, n 1 (Gennaio 1950).
Pasquali, Giorgio. “Bizantina, civiltà. Letteratura”. In E. I. Vol. 7 (1930), pp.
148-154.
— “Medioevo bizantino”. Civiltà moderna 13 (1941-XX), pp. 289-320. Ristampato
in G. P., Stravaganze quarte e supreme, pp. 93-129. Venezia: Neri Pozza, 1951.
Pavan, Massimiliano. “Gli antichisti e l’intervento dell’Italia nella prima guerra
mondiale”. Rassegna Storica del Risorgimento 51 (1964), pp. 71-78.
Peirce, Hayford e Royall Tyler. Byzantine Art. London: E. Benn, 1926.
Pensabene, Giuseppe. “Arte nostra e deformazione ebraica”. La difesa della razza 1,
n 6, 20 ottobre [1938-] XVI, pp. 54-56.
Pensabene, Giuseppe e H. G. Razzismo. 38 articoli su Quadrivio 5, nn 12-51, 17
gennaio – 17 ottobre 1937-XV.
Per Gobetti. Politica arte cultura a Torino 1918 – 1926. Firenze: Vallecchi, 1976.
Pernice, Angelo. “Bizantina, Civiltà. Storia dell’impero bizantino”. In E. I. Vol. 7
(1930), pp. 120-141.
— “Imperatrici bizantine”. Studi bizantini, ser. 2, 5 (1924), pp. 3-22.
— “Teodora”. In E. I. Vol. 33 (1937), pp. 508-509.
Pertile, Cencio. “Orme di Roma nell’Egeo italiano”. La rivista illustrata del “Popolo
d’Italia” 15 n 1 (gennaio 1937), pp. 31-35.
Pertile, Fidenzio. “Le opere d’arte in assetto di guerra”. La Rivista illustrata del
“Popolo d’Italia” 21, n 11 (novembre 1942), pp. 70-77.
Pertusi, Agostino. “Bizantina, civiltà”. In E. I. Appendice II 1938 / 1948, pp.
414-415. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana, 1948.
Piantoni, Gianna. Dalla mostra al museo: dalla Mostra archeologica del 1911 al Museo
della Civiltà Romana, pp. 9-61. Roma, 1983.
— “Nell’ideale città dell’arte”. In Roma 1911, pp. 71-88.
Pittaluga, Mary. “Arte e studi in Italia nel ‘900. Gli storici dell’arte”. La Nuova Italia
1 (1930), pp. 412-423, 452-463.
Pittura italiana del Duecento e Trecento. Catalogo della mostra giottesca di Firenze del
1937. [Firenze, Palazzo degli Uffizi, aprile-ottobre 1937] A cura di Giulia
Sinibaldi e Giulia Brunetti. Firenze: Sansoni, 1943.
BIBLIOGRAFIA 

“Pittura murale scultura e decorazione alla Quinta Triennale”. In La Quinta Trien-


nale di Milano, pp. 25-29.
Pollock, Ludwig e Antonio Muñoz. Pièces de choix de la collection du conte Grégiore
Stroganoff à Rome. 2 voll. Roma: 1911-1912.
Ponticelli, Luisa. “I restauri ai mosaici del Battistero di Firenze”. Commentari 1
(1950), pp. 121-29, 187-89, 247-50; 2 (1951), pp. 51-55.
Pontiggia, Elena. “L’idea del classico. Il dibattito sulla classicità tra pittori, critici e
riviste”. In L’idea del classico 1916 – 1932, Milano, Padiglione d’arte contempo-
ranea, 8 ottobre – 31 dicembre 1992, Catalogo della mostra. Milano: Fabbri
Editori, 1992, pp. 9-43.
Porter, Arthur Kingsley. “Strzygowski in English”. The Arts 7 (1925), pp. 139-140.
Prampolini, Enrico. “Al di là della pittura verso i Polimaterici”. Stile futurista 1
(1934), n 2, pp. 8-10. Ristampato in Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia.
Parte III, vol. 1, pp. 270-277.
Praz, Mario. La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Milano – Roma:
La Cultura, 1930. Seconda edizione accresciuta, Torino: Einaudi, 1942. Terza
edizione, Firenze: Sansoni, 1966.
II Premio Bergamo. Mostra Nazionale di Pittura. Unione Provinciale Fascista Profes-
sionisti e Artisti. Bergamo, Palazzo della Rotonda, Bergamo, Palazzo della
Ragione, settembre – novembre 1940.
Previtali, Giovanni. La fortuna dei primitivi. Dal Vasari al Neo-classico. Torino: Giulio
Einaudi, 1964.
— “La periodizzazione dell’arte italiana”. In Storia dell’arte italiana. Parte I, Mate-
riali e problemi. Vol. 1, Questioni e metodi, pp. 3-95. Torino: Giulio Einaudi
editore, 1979.
— “Roberto Longhi, profilo biografico”. In L’arte di scrivere sull’arte. Roberto Longhi
nella cultura del nostro tempo, a cura di G. P., pp. 141-170. Roma: Editori
Riuniti, 1982. 1940-XVIII – 1943-XXI. Direttori Giuseppe Bottai e Giorgio
Vecchietti. Ristampa anastatica, Roma: Editalia – Libreria dello Stato, 1993.
Primato. Lettere e arti d’Italia. Anno 1, n. 1, 1 marzo 1940-XVIII – 1943-XXI.
Direttori Giuseppe Bottai e Giorgio Vecchietti. Ristampa anastsatica, Roma:
Editalia – Libreria dello Stato, 1993.
Quilici, Nello. “La difesa della razza”. Nuova antologia 73, n 1596, 16 settembre
1938, pp. 133-139.
La Quinta Triennale di Milano. La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 11, numero
speciale (agosto 1933).
The Rabbula Gospels. Facsimile Edition of the Miniatures of the Syriac Manuscript Plut.
I, 56 in the Medicaean-Laurentian Library / Evangeliarii Syriaci, vulgo Rabbulae.
In Bibliotheca Medicea-Laurentiana (Plut. I,56). A cura di Carlo Cecchelli,
Giuseppe Furlani, Mario Salmi. Olten – Lausanne: Urs Graf-Verlag, 1959.
Ragionieri, Giovanna. “Pietro Toesca nell’Enciclopedia Italiana”. Prospettiva nn
57-60, aprile 1989 – ottobre 1990, pp. 485-488.
Rambaud, Alfred. Études sur l’histoire byzantine. Prefazione di Charles Diehl. Paris:
Librairie Armand Colin, 1912.
Racemi d’oro: il mosaico di Sironi nel Palazzo dell’Informazione. A cura di Emily Braun.
S. l.: Immobiliare Metanopoli, 1992.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Ragghianti, Carlo Ludovico. L’arte e la critica. Connessioni e problemi: discorso estetico.


Firenze: Vallecchi, 1951.
— Pittura del Dugento a Firenze. Sele Arte monografie, 1. Firenze, s. d. [1955].
— Profilo della critica d’arte in Italia. Firenze: Edizioni U, 1942. Ristampato come
Profilo della critica d’arte in Italia e complementi. Firenze: Università Internazio-
nale dell’Arte, 1990.
Rankabes, Kleon. Ηρακλειο̋. ∆ραµα ει̋ µερη πεντε (Leipzig: G. Drougoulinos, 1885).
— Θεοδωρα. Ποιηµα δρακατικον ει̋ µερη πεντε (Leipzig: G. Drougoulinos, 1884).
Ranuccio Bianchi Bandinelli e il suo mondo. [Roma] Università degli Studi “La
Sapienza”, Museo dell’Arte Classica, 5 dicembre 2000 – 20 febbraio 2001.
Catalogo della mostra. A cura di Marcello Barbanera. Bari: Edipuglia, 2000.
Ravenni, Enrica. “Letture cezanniane nell’Italia degli anni Venti e Trenta”. In Il
futuro alle spalle, pp. 75-82.
Reale Accademia d’Italia, Fondazione Alessandro Volta, Atti dei Convegni. Vol. 6,
Convegno di Arti. 25-31 ottobre 1936-XIV. Tema: Rapporti dell’architettura con le
arti figurative. Roma: Reale Accademia d’Italia, 1937-XV.
Renoir: dall’Italia alla Costa Azzurra. 1881 – 1919. Roma, Museo del Risorgimento,
Palazzo del Vittoriano, 31 marzo – 25 luglio 1999. Catalogo della mostra. A
cura di Frédérique Verlinden a Marisa Vescovo. Milano: Skira, 1999.
Rete Mediterranea. Rivista trimestrale. A cura di Ardengo Soffici. Firenze: Vallecchi,
1920.
Ricci, Corrado. Ravenna. Collezione di monografie illustrate. Serie Ia, Italia artistica,
1. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1902.
Rice, David Talbot. The Appreciation of Byzantine Art. London: Oxford University
Press, 1972.
— Art of the Byzantine Era. London: Thames and Hudson, 1963. Traduzione
italiana, L’arte bizantina, Firenze: G. C. Sansoni editore, 1966.
— “Bizantino. Arti minori”. In E. U. A. Vol. 2 (1958), coll. 691-709.
— “Bizantino. Scultura”. In E. U. A. Vol. 2 (1958), coll. 656-666.
Riegl, Alois. Die spätrömische Kunstindustrie nach den Funden in Österreich. Wien:
Ungarn, 1901. Traduzione italiana Arte tardoromana. A cura di Licia Collobi
Ragghianti. Torino: Giulio Einaudi editore, 1959.
Righetti, A. “Il successo della «Nave» di Montemezzi e D’Annunzio al Reale
dell’Opera”. Il Tevere 15-16 dicembre 1938-XVII, p. 3.
Le riviste di Piero Gobetti. A cura di Lelio Basso e Luigi Anderlini. Milano: Feltrinelli,
1961.
Rivoira, Giovanni Teresio. Le origini dell’architettura lombarda e delle sue principali
derivazioni nei paesi d’oltr’alpe. 2 voll. Roma: Ermanno Loescher e C., 1901,
1907.
Roche-Pézard, Fanette. “L’art italien pendant le fascisme”. In Face a l’histoire 1933 –
1996. L’artiste moderne devant l’évènement historique. Centre National d’arte et
de culture Georges Pompidou, 19 décembre 1996 – 7 avril 1997. Catalogo
della mostra, pp. 106-109. Paris: Flammarion, 1996.
Roma bizantina. A cura di Enrico Ghidetti. Milano: Longanesi, 1979.
Roma “Onde Cristo è romano”. Conferenze radiotrasmesse tenute nell’Anno Accademico
BIBLIOGRAFIA 

1936-XIV dei Corsi Superiori di Studi Romani. Roma: Istituto di Studi Romani,
1937.
Roma. Rivista di studi e vita romana. Direttore Federico Hermanin e dall’anno 3
(1925) Carlo Galassi Paluzzi. Anno 1, 1923 – anno 22, fasc. 1, gennaio-
febbraio 1944. Casa Editrice «Roma».
Roma e l’Oriente. Rivista della Badia Greca di Grottaferrata.
Roma 1911. Roma, Galleria d’Arte Moderna, Valle Giulia, 4 giugno – 15 luglio
1980. Catalogo della mostra. A cura di Gianna Piantoni. Roma: De Luca
Editore, 1980.
Romanità e Germanesimo. Letture tenute per il Lyceum di Firenze. A cura di Jolanda De
Blasi. Firenze: G. C. Sansoni, 1941.
Romano, Giovanni. “Per i maestri del Battistero di Parma e della Rocca di Angera”.
Paragone nn 419-423, 1985, pp. 10-16.
— “Pietro Toesca a Torino”. Ricerche di Storia dell’arte n 59, 1996, pp. 5-16.
— Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli editore, 1998.
Ronchey, Silvia. “Profilo di storia della storiografia su Bisanzio da Tillemont alle
Annales”. In Europa medievale e mondo bizantino. Contatti effettivi e possibilità di
studi comparati. Tavola rotonda del XVIII Congresso del CISH, Montréal, 29
agosto 1995. A cura di Girolamo Arnaldi e Guglielmo Cavallo, pp. 283-304.
Roma: Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1998.
Rosini, Giovanni. Storia della pittura italiana esposta coi monumenti. 7 voll. Pisa:
Niccolò Capurro, 1839-1848. Vol. 1, Epoca prima da Giunta a Masaccio
(1839).
Il Rotulo di Giosuè. A cura di Pio Franchi de’ Cavalieri. Codices e Vaticanis selecti,
vol. 5. Milano: Hoepli, 1905.
Rumohr, Carl Friedrich von. Italienische Forschungen. 3 voll. Berlin-Stettin: Nicolai
‘schen, 1827-1831. Edizione a cura di Julius von Schlosser. Frankfurt am
Main: Frankfurter Verlags-Anstalt, 1920.
Saccardo, Pietro. “Mosaici e loro iscrizioni”. In La basilica di San Marco in Venezia
illustrata nella storia e nell’arte da scrittori veneziani. A cura di Camillo Boito, pp.
299-388. Venezia: Ferdinando Ongania, 1888.
Salmi, Mario. “A proposito di arte «esarcale»”. Le arti 4 (1941-1942), pp. 45-46.
— “Giotto pittore”. In A Giotto, pp. 1-21.
— La miniatura italiana. Milano: Electa editrice, 1955.
— “I mosaici del «Bel San Giovanni» e la pittura del secolo XIII a Firenze”. Dedalo
11 (1930-1931), pp. 543-570
— “La mostra giottesca”. Emporium 43 (1937), p. 349.
— “Le origini dell’arte di Giotto”. Rivista d’arte 19 (1937), pp. 193-220.
— Recensione di Giuseppe Fiocco. “L’architettura esarcale di Aquileia”. Aquileia
nostra 11 (1940), coll. 3-18. Palladio 5 (1941), pp. 94-95.
Salvadori Guidi, Daniela. Guida alla scoperta delle opere d’arte del ’900 nella Provincia
di Firenze. Firenze: Leo S. Olschki [1999?].
Salvini, Roberto. “Apologia di Bisanzio”. La Rassegna d’Italia 3 (1948), pp.
1132-1141.
— “Arte e socialismo”. Il Mondo n 23 (2 marzo 1946), p. 8.
— “Coralità dell’arte bizantina”. Il Mondo n 19, 5 gennaio 1946, p. 10.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

— “Giotto architetto”. In A Giotto, pp. 33-35.


— Giotto. Bibliografia. Roma: Casa Editrice Fratelli Palombi, XVII-1938.
— “Medioevo e Rinascimento nell’arte di Giotto”. Civiltà moderna 7 (1935-XIII),
pp. 3-17.
— “I mosaici del Duomo di Monreale”. Le arti 4 (1941-1942), pp. 311-321.
— “I mosaici della Cappella Palatina”. Rivista del Regio Istituto di Archeologia e Storia
dell’Arte 9 (1943) [annunciato, ma non uscito].
— Mosaici medievali in Sicilia. Firenze: G. C. Sansoni Editore, 1949.
— Tutta la pittura di Giotto. Milano: Rizzoli-editore, 1952.
Samuels, Ernest. Bernard Berenson. The Making of a Legend. Con la collaborazione di
Jayne Newcomer Samuels. Cambridge, Mass. – London: The Belknap Press of
Harvard University Press, 1987.
Sangiorgi, Giorgio. “Cimelii dell’industria tessile orientale”. L’arte 9 (1906), pp.
192-198.
Santa Sofia ad Istanbul. Sei secoli di immagini ed il lavoro di restauro di Gaspare Fossati
1847-49. Mantova, Casa del Mantegna, 14 novembre – 31 dicembre 1999.
Catalogo della mostra. A cura di Volker Hoffmann. Berna: Università di
Berna, Istituto di Storia dell’Arte, Dipartimento di Storia dell’Architettura e
Conservazione dei Monumenti, 1999.
Sarah Bernhardt. Sculptures de l’éphémère. A cura di Georges Banu. Fotografie di Paul
Nadar. Collection Mémoires Photographiques. Paris: Caisse Nationale des
Monuments Historiques et des Sites, 1995.
Sardou, Victorien. “Théodora. Dram en cinq actes”. L’illustration théatrale 66, 7
septembre 1907.
Sardou, Victorien, e P. Ferrier. Teodora. Musica di X. Leroux. Editore P. Choudens.
Milano: Tipografia G. Rozza, 1907.
Sarfatti, Margherita G[rassini]. “Arti decorative, ovvero: L’oggetto corre dietro alla
propria ombra”. Nuova Antologia 71, n 4 (1936-XIV), pp. 57-64.
— “Onestà delle arti applicate”. La Stampa 4 luglio 1936-XIV, p. 3.
— “Spagna mistica. Dal Monsalvato a Toledo”. La Rivista illustrata del ‘‘Popolo
d’Italia’’ 1, n 1 (gennaio 1925), pp. 45-49.
— Storia della pittura moderna. Collezione “Prisma”, diretta da Margherita Sarfatti.
Roma: Paolo Cremonesi, 1930-VIII.
Sauvage, Tristan. Pittura italiana del dopoguerra (1945 – 1957) . Milano: Schwarz
Ed., 1957.
Savigny, M. Recensione di Théodora di Victorien Sardou. L’illustration. Journal
universel 43, n 85, 3 gennaio 1885, p. 15.
Savinio, Alberto. “Fini dell’arte”. Valori plastici 1, nn 6-10 (giugno-ottobre 1919),
pp. 17-21.
Scarano, Emanuella. Dalla ‘Cronaca Bizantina’ al ‘Convito’. Firenze: Vallecchi edi-
tore, 1970.
Schlosser, Julius von. “Arte”. In E. I. Vol. 4 (1929), pp. 643-660.
— “Carl Friedrich von Rumohr als Begründer der neueren Kunstforschung”. In
Carl Friedrich von Rumohr. Italienische Forschungen. A cura di J. v. S., pp.
vii-xxxviii. Frankfurt am Main: Frankfurter Verlags-Anstalt, 1920.
— Magistra Latinitas und Magistra Barbaritas. Sitzungsberichte der Bayerischen
BIBLIOGRAFIA 

Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Abteilung, 1937/2.


München: Bayerische Akademie der Wissenschaften, 1937.
Schnapp, Jeffrey T. “Epic Demonstrations. Fascist Modernity and the 1932 Exhibi-
tion of the Fascist Revolution”. In Fascism, Aesthetics, and Culture. A cura di
Richard J. Golsan, pp. 1-37. Hanover, N.H.: University Press of New En-
gland, 1992.
Schneider, Pierre. Matisse. Paris: Flammarion, 1984. Traduzione italiana, Milano:
Arnoldo Mondadori, 1985.
Scritti di Storia dell’Arte in onore di Lionello Venturi. Premessa di Mario Salmi. 2 voll.
Roma: De Luca Editore, 1956.
Scritture, libri e testi nelle aree provinciali di Bisanzio. Atti del Seminario di Erice, 18-25
settembre 1988. 2 voll. A cura di Guglielmo Cavallo, Giuseppe De Gregorio e
Marilena Maniaci. Spoleto: Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1991.
Il selvaggio. Battagliero fascista, 1 (1924). Ristampa anastatica Firenze, SPES.
Semionova, Natalia. “Histoire d’un rencontre”. In Albert G. Kostenevich e Natalia
Semionova, Matisse et la Russie, pp. 57-160. Parigi: Flammarion, 1993.
Seroux d’Agincourt, Jean-Baptiste-Louis-Georges. Storia dell’arte dimostrata coi mo-
numenti dalla sua decadenza nel IV secolo fino al suo risorgimento nel XVI.
Tradotta ed illustrata da Stefano Ticozzi. 8 voll. Prato: per i Frat. Giachetti,
1826.
Serra, Luigi. Storia dell’arte italiana. Vol. 1. Milano: Casa Editrice Dottor Francesco
Vallardi, 1924.
Severini, Gino. Discussione sulla relazione di Gustavo Giovannoni. “I rapporti tra
l’architettura e le arti della pittura e della scultura nei vari periodi dell’arte
italiana”. In Reale Accademia d’Italia, Fondazione Alessandro Volta, Atti dei
Convegni, vol. 6, Convegno di Arti. 25-31 ottobre 1936-XIV. Tema: Rapporti
dell’architettura con le arti figurative, pp. 37-38.
— “Esposizione degli artisti italiani a Parigi”. Quadrivio 15 ottobre 1933-XI, p. 3.
— “Giotto 1937”. Quadrivio 5, 31 gennaio 1937, p. 1.
— “Lettera a «Quadrante»: Sul mosaico come modo di espressione e di tecnica”.
Quadrante 1 (1933), n 2, p. 31.
— Lezioni sul mosaico. Ravenna: Longo editore, 1988.
— “I mosaici di Ravenna”. Prefazione al Catalogo Esposizione delle copie dei mosaici di
Ravenna. Paris, Palais de Chaillot, 1951. In Mascherpa, Severini e il mosaico,
pp. 99-102.
— “Mosaico e arte murale nell’antichità e nei tempi moderni”. Felix Ravenna 9 (dic.
1952), pp. 21-37. Ristampato in I quattro soli, Torino, luglio-settembre 1954.
Ristampato in Arte figurativa e Arte astratta, in Quaderni di San Giorgio,
Firenze, n 2, 1955. Ristampato in Mascherpa, Severini e il mosaico, pp.
103-109.
— “La peinture murale. Son esthétique et son moyens”. In Nova et vetera. Freiburg,
1927. Ristampato in Gino Severini, Ecrits sur l’art, pp. 184-191. Paris: Cercle
d’Art, 1987.
— Ragionamenti sulle arti figurative. Milano: Hoepli, 1936. 2a edizione aumentata
1942.
Sgarbi, Vittorio. “I mosaici della dimenticanza”. AD giugno 1985, n 2 Roma, pp.
54-56.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

Signac, Paul. “D’Eugène Delacroix au néo-impressionisme”. Revue blanche, maggio-


luglio 1898. Ristampato come D’Eugène Delacroix au néo-impressionisme. A cura
di Françoise Cochin. Paris: Hermann, 1964. Traduzione italiana, Da Delacroix
al neoimpressionismo. A cura di Raffaele Mormone. Napoli: Società Editrice
Napoletana, 1979.
Signorelli, Alfredo. “La guerra nell’Asia Minore”. Gerarchia 1 (1922), pp. 480-488.
Sironi, Mario. “Antellami”. La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 14, n 2 (febbraio
1936), pp. 39-47. Ristampato in Scritti editi e inediti, pp. 210-213.
— “Arte ignorata”. La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia”, 12, n 3 (marzo 1934),
pp. 27-34.
— “Pittura murale”. Il Popolo d’Italia 1 gennaio 1932, ristampato in L’Arca 3, n 1
(aprile 1932) e in Domus 5, n 1 (gennaio 1932), pp. 248-249 (con presenta-
zione di Gio Ponti), Ristampato in Scritti editi e inediti, pp. 114-115. Ristam-
pato in Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia, Parte III, Vol. 1, pp.
131-133.
A
— “II Quadriennale d’Arte Nazionale”. La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 13,
n 2 (febbraio 1935), pp. 31-39. Ristampato in Scritti editi e inediti, pp.
186-190.
A
— “III Quadriennale d’arte a Roma”. La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 17, n
3 (marzo 1939). Ristampato in Scritti editi e inediti, pp. 240-244.
— “Racemi d’oro”. La Rivista illustrata del “Popolo d’Italia” 13, n 3 (marzo 1935),
pp. 33-41. Ristampato in Scritti editi e inediti, pp. 191-194. Ristampato in
Barocchi Storia moderna dell’arte in Italia, Parte III, vol. 1, pp. 325-330.
— Scritti editi e inediti. A cura di Ettore Camesasca. Con la collaborazione di Claudia
Gian Ferrari. Milano: Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1980.
Slataper, Scipio. “Quando Roma era Bisanzio”. La Voce 3 (1911), pp. 552-553.
Ristampato in S. Slataper, Scritti letterari e critici raccolti da Giani Stuparich.
Roma: “La Voce” Società Anonima Editrice, 1920, pp. 158-171.
Socrate, Carlo. “W Giotto ma abbasso il Giottismo”. Quadrivio 5, 14 febbraio
1937-XV, p. 1.
Soffici, Ardengo. “Bilancio dell’arte francese contemporanea”. Rete mediterranea 1, n
3 (settembre 1920), pp. 261-272; 1, n 4 (dicembre 1920), pp. 364-371.
— Il caso Medardo Rosso preceduto da L’impressionismo e la pittura italiana. Firenze:
Succ. B. Seeber, Editori, 1909.
— “Cubismo e oltre”. Lacerba 1 (1913), pp. 10-11, 18-19, 30-32.
— “L’esposizione di Venezia”. La Voce 1 (1909), pp. 191-192, 195-196, 199-200.
— “Il fascismo e l’arte”. Gerarchia 1 (1922), pp. 504-508.
— Opere. Vol. 5, Periplo dell’arte. Selva: Arte I. Selva: Arte, II. Rosso Aneddotico.
Appendice. Firenze: Vallecchi editore, 1963.
— Periplo dell’arte. Richiamo all’ordine. Firenze: Vallecchi editore, 1928. Seconda
edizione raddoppiata: Firenze: Vallecchi Editore 1928-VII.
— “Relativismo e politica”. Gerarchia 1 (1922), pp. 29-32.
— Ritratto delle cose di Francia. Roma: Il Selvaggio, 1934-XII.
— “Romanità della pittura italiana”. L’illustrazione del medico, n 26, marzo 1936, pp.
27-30.
BIBLIOGRAFIA 

Soffici, Corra, Conti, Ginna, Benedetta, Spiridigliozzi, Sanzin, Marinetti. Zig zag. Il
romanzo futurista. A cura di Alessandro Masi. Milano: Il Saggiatore, 1995.
Solmi, Franco. “L’arte in Emilia dal fascismo alla resistenza”. Ferrara viva, nn 7-8,
1961.
Sommaruga, Angelo. Cronaca Bizantina (1881-1885). Note e ricordi. Milano – Ve-
rona: Mondadori, 1941.
Sperling, E. M. Catalogue of a Loan Exhibition of French Primitives and Objects of Art in
aid of the Fench Hospital in New York. New York, F. Kleinberger Galleries,
October 1927. Prefazione di Louis Réau. New York: F. Kleinberger Galleries,
1927.
e
Spieser J.-M. “Hellénisme et connaissance de l’art byzantin au XIX siècle”. In
ÎΛΛΕΝΙΣΜΟΣ. Quelques jalons pour une histoire de l’identité grecque. Actes
du Colloque de Strasbourg, 25-27 octobre 1989. A cura di Suzanne Saı̈d, pp.
337-362. Leiden – New York: E. J. Brill, 1991.
Springer, Antonio. Manuale di storia dell’arte. Vol. 2, Arte del Medio Evo riveduta dal
a
dr. Giuseppe Neuwirth. 1. edizione italiana a cura di Corrado Ricci. Ber-
gamo: Istituto d’Arti Grafiche, editore, 1906. 2aedizione, di nuovo tradotto ed
ampliato sulla 8a edizione tedesca a cura del dr. Antonio Muñoz (1911).
Spross, Hans Jürgen. “Die Naturauffassung bei Alois Riegl und Josef Strzygowski”.
Diss., Saarbrücken, Universität des Saarlandes, Philosophische Fakultät,
1989.
Squarciapino, Giuseppe. Roma bizantina. Società e letteratura ai tempi di Angelo
Sommaruga. Torino: Giulio Einaudi editore, 1950.
Stone, Marla Susan. The Patron State. Culture and Politics in Fascist Italy. Princeton,
N.J.: Princeton University Press, 1998.
— “The Politics of Cultural Production: The Exhibition in Fascist Italy”. Ph. D.
Dissertation, Princeton University, 1990.
Storia dell’arte e politica culturale intorno al 1900. La fondazione dell’Istituto Germanico
di Storia dell’Arte di Firenze. Per i cento anni dalla fondazione del Kunsthistorisches
Institut in Florenz. Convegno Internazionale. Firenze, 21-24 maggio 1997. A
cura di Max Seidel. Padova: Marsilio, 1999.
Stornajolo, Cosimo. Le miniature della Topografia Cristiana di Cosma Indicopleuste.
Codice Vaticano Greco 699. Codices e Vaticanis selecti phototypice expressi, 10.
Milano: Hoepli, 1908.
— Miniature delle Omilie di Giacomo Monaco (Cod. Vatic. Gr. 1162) e dell’Evangelia-
rio Greco Urbinate (Cod. Vatic. Urbin. Gr. 2) . Codices e Vaticanis selecti
phototypice expressi, Series Minor, 1. Roma: Danesi, 1910.
Strong, Eugènie. “L’art romain et ses critiques”. Formes n 8, ottobre 1930, pp. 2-4.
Strzygowski, Josef. L’ancient art chrétien de Syrie. Son caractère et son évolution d’après
les découvertes de Vogüé et de l’expédition de Princeton, la façade de Mschatta et le
calice d’Antioche. Paris: E. de Boccard, 1936.
— Asiens bildende Kunst in Stichproben, ihr Wesen und ihre Entwicklung. Augsburg:
Dr. Benno Filser Verlag, 1930.
— Catalogue général des antiquités égyptiènnes du Musée du Caire. Nos 7001-7394 et
8742-9200. Koptische Kunst. Wien: Adolf Holzhausen, 1904.
— Kleinasien. Ein Neuland der Kunstgeschichte. Leipzig: Hinrichs’sche Buchhan-
dlung, 1903.
 OSSESSIONI BIZANTINE E CULTURA ARTISTICA IN ITALIA

— “Mschatta. Kunstwissenschaftliche Untersuchung”. Jahrbuch der preussischen


Kunstsammlungen 25 (1904), pp. 225-373.
— Orient oder Rom. Beiträge zur Geschichte der spätantiken und frühchristlichen Kunst.
Lepzig: J. C. Hinrichs’sche Buchhandlung, 1901.
— “The Origin of Christian Art”. The Burlington Magazine 20 (1911-1912), pp.
146-153.
— Recensione di L. De Gregori. “Arte bizantina”. Rivista d’Italia 1907, pp.
332-345. Byzantinische Zeitschrift 16 (1907), pp. 739-740.
— Ursprung der christlichen Kirchenkunst. Neue Tatsachen und Grundsätze der Kunstfor-
schung. Leipzig: J. C. Hinrichs’sche Buchhandlung, 1920. Traduzione inglese,
Origin of Christian Church Art. New Facts and Principles of Research. Oxford:
The Clarendon Press, 1923. 2a edizione inglese, New York: Hacker Art
Books, 1973.
Studı̂ bizantini. Pubblicazioni dell’ “Istituto per l’Europa Orientale” – Roma. Se-
conda serie. Politica – Storia – Economia, vol. 5. Napoli: Riccardo Ricciardi
Editore, 1924.
Studı̂ bizantini. Vol. 2. Pubblicazioni dell’ “Istituto per l’Europa Orientale” in Roma.
Istituto di Studi Bizantini e Neoellenici. Roma: “A. R. E.” Anonima Romana
Editoriale, 1927.
Studi in onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni. 3 voll. Milano: Casa Editrice
Ceschina, 1956.
Taine, Hyppolite. Philosophie de l’art. Paris: Librairie Hachette, 1864.
— Voyage en Italie. Paris: Librairie Hachette, 1866. 2a edizione 1874. Traduzione
italiana, Viaggio in Italia (Il paese – l’arte – la nazione), pagine scelte a cura di
Paolo Arcari. Lanciano: R. Carabba, editore, 1915.
Tartuferi, Angelo. La pittura a Firenze del Duecento. Firenze: Alberto Bruschi, 1990.
Tedeschi, Paolo. Storia delle arti belle (architettura – pittura- scultura) raccontata ai
giovinetti. Milano: Libreria editrice di educazione e d’istruzione di Paolo
Carrara, 1872.
Tempesti, Fernando. Arte dell’Italia fascista. Milano: Feltrinelli Editore, 1976.
— “Ironie, critique et politique dans la revue Il Selvaggio de Mino Maccari”. Art et
fascisme, pp. 223-237.
Il Tesoro di San Marco. A cura di Hans R. Hahnloser. Vol. 1, La Pala d’Oro, a cura di
Wolfgang Fritz Volbach, Agostino Pertusi, Bernard Bischoff, Giuseppe Fiocco.
Firenze: Sansoni Editore, 1965.
Testi, Laudedeo. La storia della pittura veneziana. Vol. 1, Le origini. Bergamo: Istituto
Italiano d’Arti Grafiche Editore, 1909.
Tikkanen, Johan Jakob. “L’arte cristiana antica e la scienza moderna. Recensione di
J. Strzygowski, Das Etschmiadzin-Evangeliar: Beiträge zur Geschichte der armeni-
schen, ravennatischen und syro-ägyptischen Kunst”. Archivio storico dell’arte 4
(1891), pp. 376-384.
Tinti, Mario. “Italianismo di Cézanne”. Pinacotheca 1 (1928-1929), pp. 349-352.
Toesca, Ilaria. “L’exposition de Rome”. Scriptorium 8 (1954), pp. 318-322.
— “Miniatures at the Palazzo Venezia”. The Burlington Magazine 96 (1954), pp.
22-23.
— “La mostra della miniatura a Palazzo Venezia”. Arte veneta 7 (1953), pp.
192-194.
BIBLIOGRAFIA 

— Vedi anche sotto: A., A.


Toesca, Pietro. Adolfo Venturi. Commemorazione tenuta il 4 maggio 1942-XX al
Reale Istituto d’Archeologia e Storia dell’Arte. Roma: Reale Istituto d’Archeo-
logia e Storia dell’Arte, 1942-XX.
— “Adolfo Venturi”. Le arti 3 (1940-1941), pp. 309-312.
— Gli affreschi del Vecchio e del Nuovo Testamento nella Chiesa Superiore del Santuario
di Assisi, riprodotti in 300 tavole fotografiche in tre volumi a cura di Bencini e
Sansoni. Firenze: Bencini e Sansoni, 1948.
— “Gli affreschi di Castelseprio”. L’arte 51, n. s. 18, (1948-1951), pp. 12-19.
— “Gli affreschi nella Cattedrale di Anagni”. Le Gallerie Nazionali Italiane. Notizie e
documenti 5 (1902), pp. 116-187. Ristampato come P. T., Gli affreschi della
Cattedrale di Anagni. Anagni: Associazione Pro Loco, 1994.
— La Cappella Palatina di Palermo. I mosaici. Milano: Edizioni d’Arte Sidera, 1955.
— “Castel Seprio. Una nuova pagina della pittura medioevale”. Il Nuovo Giornale
d’Italia, 46, n 188 (10 agosto 1947.
— “Cavallini, Pietro”. In E. I. Vol. 9 (