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Il Saggiatore musicale Pagina 2 di 17
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Le singolari vicende storiche ed ecclesiastiche di Aquileia e della sua diocesi, per secoli crocevia di
varie culture e tradizioni, spiegano le diverse componenti nel repertorio musicale elaborato ad uso
di quella liturgia. Questa varietà risulta particolarmente evidente nel proprio dei santi che nel
processo di espansione del patriarcato si arricchisce di nuove prassi devozionali desunte dalle
diocesi suffraganee di Aquileia. Se in epoca precoce (XII secolo) è significativo l’influsso della
riforma romano-francescana e della tradizione germanica, in epoca più tardiva (secc. XIII-XV)
risulta rilevante l’incidenza di componenti tipiche dell’area istriana e dalmata.
Contrariamente alle aspettative, più che ad Aquileia, il fenomeno si concentra a Cividale, ove si
segnala una serie di uffici tardivi non ancora adeguatamente studiati: sono uffici dedicati a santi
venerati lungo la sponda orientale dell’Adriatico, tra cui Giusto di Trieste, Mauro di Parenzo e Tito
apostolo.
Di s. Giusto ci è pervenuta un’hystoria ritmica, al momento censita solo in un codice cividalese dei
secc. XIII-XIV, che però il Liber Ordinarius di Cividale (sec. XV in.) prescrive espressamente di non
usare, preferendo ad essa un ufficio tratto dal comune di martiri. Va consideato indizio della
provenienza esterna (triestina) dell’hystoria?
Per quanto concerne s. Mauro, possediamo un ufficio proprio in prosa, presente unicamente in
fonti cividalesi dei secc. XIII-XV, distinto da un altro in poesia compilato nel Quattrocento a
Parenzo.
Di Tito, discepolo di s. Paolo tutt’oggi venerato a Creta – della quale è patrono – e in Dalmazia, ci
sono giunti un ufficio e ben tre inni esclusivi (Creteus Titus regia, Discipulorum numero, Legenti Tyto
dogmate), tutti concentrati a Cividale in fonti databili tra il XIII e il XV secolo.
L’ufficio di s. Giuliano istrico, infine, segnalato da Raffaella Camilot-Oswald nei Monumenta
Monodica Medii Aevi come specifico della tradizione cividalese, è invece originario di Ravenna, dove
sorse il primo nucleo del culto in suo onore, solo successivamente importato in area istriana e di lì
a Cividale.
Ad Aquileia si può rintracciare un messale aquileiese del XV secolo con una sequenza esclusiva per
Eleuterio, forse identificabile in un santo venerato a Parenzo assieme a s. Mauro.
Il legame tra Cividale e l’area istriana e dalmatica appare comunque più consistente, e mette in luce
la vivacità e apertura della cittadina friulana, maggiori rispetto alla veneranda, ma ormai decadente,
sede della Chiesa patriarcale.
M ARUSKA D I G IANNATTALE , I giochi musicali nel Medioevo e nel Rinascimento
Associato al solo divertimento, nell’antichità e nei primi secoli del Cristianesimo il gioco era spesso
considerato inutile e affatto formativo. Solo tra l’XI e il XII secolo avvenne una sorta di
rivoluzione nel mondo della cultura che consentì la nascita di una scientia ludorum, che lo affermò
definitivamente anche come piacevole e utile strumento di esercizio intellettuale.
Con la nascita delle scuole monastiche e capitolari la formazione religiosa dell’alto clero era stata
ampliata con l’introduzione dell’aritmetica delle proporzioni: le due «scienze sorelle», l’aritmetica e
la musica, iniziarono a rivestire un ruolo primario nell’ambito del quadrivium. Il nuovo modo di
concepire l’apprendimento investì anche il campo dei giochi, per cui il ludus iniziò ad essere
connesso alla disciplina, alla serietà e alla scienza. Oltre ad utilizzare l’abaco, il monocordo, la sfera
di armilla e l’astrolabio, infatti, gli studenti delle scuole vescovili dell’Impero di Ottone il Grande si
esercitavano con la rithmomachia (‘battaglia delle consonanze dei numeri’) o ‘ludus philosophorum’, un
gioco da tavolo il cui fine era ricercare, come veri e propri musici di boeziana memoria, i rapporti
che regolavano le consonanze musicali; ciò si realizzava mediante pedine numerate che, poste su
un tavoliere, venivano mosse secondo complicati e continui calcoli matematici. Il gioco si diffuse
rapidamente anche in Francia, Inghilterra e Italia. Con la ripresa delle opere classiche del
Rinascimento ebbe la massima diffusione, dimostrata dalla copiosa produzione di trattati sulla
rithmomachia.
Nel corso del XVI secolo furono prodotti diversi manuali sui giochi intellettuali. Nel 1551 il
letterato bolognese Innocenzo Ringhieri diede alle stampe i Cento giuochi liberali, et d’ingegno, in cui
descrive cento differenti giochi, ciascuno dedicato ad una particolare arte o scienza. Singolari sono i
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ludi connessi alla musica, definita ora scienza dei numeri, ora come una essenza magica dal
meraviglioso potere di dilettare anche «gli orecchi di coloro che non l’intendono».
A LESSANDRA F IORI , Le ballate in “senaria imperfecta” di Francesco Landini, e la ‘tertia specie musicae’
descritta da Filippo Villani
MANCANTE
C ECILIA P ANTI , Il “Diffinitorium musice” di Giovanni Tinctoris: prima edizione critica e nuova traduzione
italiana
Il Diffinitorium musice di Giovanni Tinctoris, scritto verso il 1472, è il primo esempio di trattato
musicale che unisce alla praticità di consultazione del dizionario l’organizzazione sistematica dello
scibile proprio dell’enciclopedia. Esso infatti ordina alfabeticamente 297 termini musicali, e
fornisce una definizione sintetica e puntuale di ciascun lemma. Si tratta, appunto, di un Dizionario
della musica. Qui troviamo applicati due principii guida dell’erudizione enciclopedica classica e
medievale, rivisitati in chiave umanistica: cioè la presenza di un quadro o di uno status questionis il
più generale possibile del sapere – in questo caso del sapere teorico musicale – e lo sforzo di dare
un senso unitario e coerente a quanto raccolto ed esposto. I due fondamenti fanno sì che il
Dizionario non sia una mera antologia di definizioni, ma abbia una specifica finalità. Esso infatti,
nelle intenzioni dell’autore, fu anzitutto uno strumento di consultazione al quale ricorrere ogni
qualvolta era necessario chiarire «ciò di cui si parla». Non è un caso, perciò, che sia tra i primi scritti
teorici di Tinctoris e sia dedicato e rivolto alla sua nobile allieva, la principessa Beatrice d’Aragona.
Il Dizionario non è mai stato edito criticamente (sono state pubblicate riproduzioni e trascrizioni
dell’incunabolo che lo trasmette, mentre il testo edito da Coussemaker si fonda su un solo codice,
peraltro trascritto con un buon numero di lezioni errate); è stato però tradotto in più lingue sulla
base dell’incunabolo o del testo di Coussemaker. Si era resa necessaria un’indagine complessiva sul
suo contenuto e sulla tradizione testuale, che tenesse conto anche del rapporto con gli altri scritti
teorici di Tinctoris, anche per dare risposta a due problemi rimasti aperti e sui quali si è concentrata
l’attenzione degli studiosi: la datazione dell’incunabolo e le difformità fra tradizione manoscritta e a
stampa.
Dallo studio che ho completato in vista dell’edizione e traduzione italiana dell’opera, attualmente in
pubblicazione presso la SISMEL-Edizioni del Galluzzo di Firenze, sono emersi in proposito nuovi
elementi. Anzitutto è stato individuato e ricostruito il processo di revisione testuale operato dallo
stesso Tinctoris relativamente ai lemmi concernenti i microintervalli (ma esteso anche ad altre
voci), che testimonia l’originaria adesione del musicista alla teoria di divisione del tono proposta da
Marchetto da Padova e il successivo accordo con l’insegnamento boeziano. In secondo luogo è
emerso che Tinctoris adottò in più scritti le definizioni del Dizionario, dimostrando così che esso fu
per lui un effettivo strumento di lavoro. In terzo luogo, l’indagine sulla complessa questione della
datazione dell’incunabolo ha evidenziato il suo problematico rapporto con la tradizione
manoscritta, ponendo un pesante dubbio sulla diretta responsabilità dell’autore nel progetto
editoriale.
D IANA B LICHMANN , La rappresentazione dell’eroe: il “Catone” metastasiano nelle intonazioni di Vinci e
Leo
Le rappresentazioni parallele dei drammi per musica di Pietro Metastasio che ebbero luogo tra il
1728 e il 1730 con differenti musiche e con varianti più o meno importanti nel libretto, nei teatri
delle Dame di Roma e di Giovanni Grisostomo a Venezia (i più prestigiosi delle due città) sono
significative dei cambiamenti drammatici e musicali cui un dramma poteva andare soggetto nel suo
passaggio da una città all’altra nei primi anni del Settecento.
Catone in Utica fu intonato originariamente da Leonardo Vinci nel 1728 per Roma; venne poi
sensibilmente rimaneggiato dallo stesso Metastasio – e successivamente da Domenico Lalli – per
l’allestimento veneziano del 1729 con musiche di Leonardo Leo. Il ripensamento del poeta fu
determinato dalle critiche del pubblico romano verso la conclusione del dramma che, unico tra gli
altri, metteva in scena la morte dell’eroe sconfitto. La versione per Venezia presenta infatti notevoli
differenze sia nell’organizzazione drammatica delle ultime due sequenze di scene – oltre a quella
conclusiva –, sia nella caratterizzazione dei personaggi di Catone e della figlia Marzia.
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Per spiegare come tali modifiche differenzino profndamente la drammaturgia delle due
intonazioni, s’è presa ad esempio l’aria “Dovea svenarti allora” (II,13) in cui Catone apostrofa
violentemente Marzia, dopo che questa gli ha svelato il segreto amore che la lega a Cesare,
acerrimo nemico del padre. Il testo metastasiano dà forma ad un affetto bivalente (furia e
autocommiserazione) che nelle due intonazioni è trattato con mezzi musicali, armonici, orchestrali
e declamatori, affatto differenti. Vinci lo intona – per il tenore Giovanni Battista Pinacci – come se
fosse caratterizzato da un unico affetto: Catone, orgoglioso e deciso, è campione di virtù eroica.
Leo invece, pur considerando entrambi i piani affettivi, lascia prevalere lo stato di intimo affanno:
Catone – il contralto Nicola Grimaldi – è riflessivo e contenuto nella sua rabbia, e la sua aria
esprime virtù e rassegnazione, controllo della ratio sul conflitto interiore.
La diversa rappresentazione musicale dei due affetti del testo anticipa, in un certo senso, le diverse
drammaturgie sottese alle due ultime sequenze di scene. A Roma, di fronte a Cesare ed alla
disobbediente Marzia, Catone vuole disarmare il nemico, e, per salvare l’onore, mandare a morte la
figlia (III,8): i sentimenti di rabbia e disonore permangono immutati dall’aria di II,13 alla
conclusione del dramma. A Venezia, invece, accusa Emilia di voler uccidere Cesare, e libera questi
pur avendolo in suo potere, conscio che di lì a poco ne sarà sopraffatto (III,7). Nella
rappresentazione romana il superbo Catone vince moralmente sul nemico Cesare: in senso figurato
è la vittoria ideale della Repubblica sull’Impero. Catone tratta Cesare senza rispetto e gli si oppone
come un intransigente sostenitore della democrazia. A Venezia, invece, funge da mediatore e
paciere, presentandosi come giudice del suo partito, rispettoso verso Cesare.
Il confronto delle due versioni del Catone in Utica evidenzia non solo la trasformazione del
personaggio di Catone, ma anche l’idea politica sottintesa: a Roma quella anti-imperiale del Teatro
delle Dame, a Venezia quella filo-imperiale del Teatro Grimani di San Giovanni Grisostomo.
M ANDFRED H ERMANN S CHMID , Händel e la lingua tedesca
MANCANTE
L ORENZO M ATTEI , Una «proemiale cerimonia»? L’introduzione con coro nell’opera seria italiana (1778-
1800)
Con il melodramma ottocentesco il coro d’Introduzione diverrà una convenzione dell’opera ‘a
numeri’ difficilmente eludibile: non risulta dunque privo di interesse investigarne le origini visto
che costituisce un fruttuoso campo d’indagine per meglio comprendere i legami fra l’operismo
romantico e la preesistente tradizione (drammaturgica, estetica e produttiva) tardo-settecentesca. Se
è vero infatti che il coro figurava come una componente quasi del tutto estranea all’impianto
melodrammaturgico di conio metastasiano, è anche vero che a cominciare dagli anni ’90 del XVIII
secolo iniziarono ad essere confezionati – magari da librettisti con velleità letterarie quali
l’eccentrico conte Alessandro Pepoli, o il suo emulo Antonio Simone Sografi – drammi dove la
compagine corale assumeva un rinnovato ruolo, a livello non solo decorativo ma anche
drammatico. La crescita registrata dall’introduzione corale – documentabile grazie all’analisi di
libretti e partiture delle opere serie allestite nelle maggiori piazze teatrali italiane, in particolare a
Venezia, Milano, Firenze e Napoli – riflette dunque un cambiamento di tipo ricettivo nei confronti
di un ‘dramma per musica’ sempre più caratterizzato musicalmente e ormai distante dalla
impostazione logocentrica e classicista che, tramite gli estesi recitativi semplici, ne avvicinava
l’esordio a quello della tragedia letteraria. Nella relazione sono state fornite tabelle a dimostrazione
dell’effettiva consistenza numerica delle introduzioni corali nell’ambito cronologico esaminato
(1778-1800). In un’ottica morfologico-stilistica, si riscontra un tipo di Introduzione ‘statico-
decorativo’ (per dirla con Ritorni: la «proemiale cerimonia») esemplificato da Saffo di Mayr del
1794, e quello ‘dinamico-drammatico’ (per dirla con Da Ponte: un «picciol dramma da sé»)
esemplificato da Apelle di Zingarelli del 1793, ricco di sorprendenti elementi di contatto con
l’introduzione di opere rossiniane come Otello o Mosè in Egitto.
S AVERIO L AMACCHIA , Il Conte d’Almaviva parente del Califfo di Bagdad. Su una fonte sconosciuta del
“Barbiere” di Rossini
Gli studi genetici sul melodramma dell’Ottocento hanno mostrato già da tempo quanto latamente
debba intendersi il concetto di ‘fonte’ testuale: spesso è opportuno parlare di ‘fonti’, al plurale, in
quanto difficilmente i rapporti di derivazione si esauriscono in un rapporto uno a uno, anche in
presenza di una fonte diretta dichiarata. Le suggestioni del librettista e del musicista – dalle
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situazioni sceniche al linguaggio, dalla tipologia dei personaggi alle atmosfere sonore, ecc. –
possono essere di varia provenienza e dare luogo ad un “montaggio-travestimento” più o meno
efficace, più o meno riuscito. Agenti privilegiati della contaminazione, come si sa, sono da sempre i
cantanti. Credo che questo sia il caso anche del Barbiere di Siviglia di Rossini, in origine Almaviva, o
sia L’inutile precauzione. La relazione discute un’altra possibile fonte, oltre quella di Beaumarchais, e
più in generale l’importanza del protagonista tenorile nella genesi e nella costituzione dell’opera,
così come fu originariamente concepita da Rossini e dal librettista Sterbini; entrambi di concerto,
ritengo, col tenore Manuel Garcia, primo interprete del Conte d’Almaviva. Costui non era solo uno
dei più acclamati tenori d’Europa, ma anche un compositore, il cui catalogo annovera decine di
opere teatrali in italiano e in spagnolo, oltre a svariati brani vocali sacri e profani. Uno dei più
grandi successi del Garcia compositore fu Il Califfo di Bagdad, rappresentato a Napoli nell’autunno
del 1813, nel periodo cioè in cui Garcia risiedette e riscosse allori nella città partenopea (1812-
1815). Mi soffermo in particolare sul Finale I, come si sa la scena madre di un’opera di primo ’800.
Il celebre Finale I del Barbiere deriva solo nella sua prima metà da Le Barbier de Séville di
Beaumarchais; la seconda metà nulla ha a che fare con la fonte francese, ma molto con quest’opera
napoletana d’ambientazione mediorientale scritta da uno spagnolo. La situazione drammatica è
analoga: il Conte e il Califfo, travestiti in abiti modesti, si mettono nei guai, il Conte per questioni
di ordine pubblico – è ubriaco, fa un chiasso indiavolato in casa altrui, e minaccia di ammazzare a
destra e a manca –, il Califfo addirittura viene scambiato per un ladro. Ad un certo appunto il coro
di dentro annuncia l’arrivo delle forze dell’ordine che, vagliata in quattro e quattr’otto la
colpevolezza dell’intruso, sta per procedere all’arresto: ma il Conte/Califfo/Garcia si fa di
soppiatto riconoscere dall’autorità, che deferentemente ritira i propri uomini, si scusa, s’inchina, e
lascia gli ignari astanti in una situazione di sconcerto. Analogo è anche il Finale ultimo, che si basa
sul colpo di scena della «sbottonatura», come la si chiamava nel linguaggio gergale dell’epoca: il
Conte e il Califfo smettono il travestimento da poveri in canna, e tornano ad assumere l’abito
degno del loro rango; e, naturalmente, volgono il dramma nella direzione a loro favorevole (questo
colpo di scena comunque si trova anche in Beaumarchais).
Lo sguardo d’assieme alla carriera di Garcia permette di constatare che egli prediligeva i personaggi
decisi, potenti e determinati, sia nell’opera seria, sia nella comica (i critici del tempo lo osannarono
soprattutto nei panni di Otello e di Don Giovanni, oltre che di Almaviva): ma nell’opera comica di
Rossini normalmente incontriamo tenorini che danno voce a cicisbei teneri e sentimentali, sempre
una spanna dietro la primadonna o il buffo, quanto alle gerarchie vocali e drammatiche. Il
personaggio del Conte d’Almaviva quindi, con la sua fierezza da Grande di Spagna, è un’
eccezione, ed è questa forse una delle ragioni principali per la quale da una parte tale personaggio
venga frainteso, e dall’altra che si faccia così tanta fatica ad accettare il dato di fatto che non Figaro
ma il Conte è il protagonista del capolavoro rossiniano.
M ARY A NN S MART , Ancora sulla questionie del romanticismo italiano: Gioachino Rossini e Salvatore
Viaganò nel 1816
MANCANTE
C ORNAC N EWARK , Dal “Guillaume Tell” al “Rodolfo di Sterlinga” e oltre
Tutta la storia della recezione teatrale tende in modo naturale verso le prime esecuzioni, anche se
nel caso delle opere dell’Ottocento ci son buoni motivi per considerare la ‘prima’ meno
significativa delle repliche. Non solo perché spesso il lavoro veniva modificato, a volte in maniera
radicale, nel corso delle rappresentazioni, ma anche perché già nel 1829, l’anno della prima parigina
del Guillaume Tell, i critici dichiaravano la loro incapacità di assorbire lavori così vasti dopo un solo
ascolto. Questa relazione analizza le differenze presenti nella recezione francese e italiana del grand
opéra, inizialmente nel contesto dell’allestimento del Guillaume Tell di Rossini (sotto il titolo di
Rodolfo di Sterlinga, onde evitare magagne con la censura) che esordi a Bologna il 3 ottobre de1
1840. Era già stato realizzato più di un allestimento italiano dell’opera, ma in quell’occasione la
presenza del compositore (in una città che fra l’altro lo considerava un figlio adottivo) fa di Rodolfo
un esempio importante dell’interpretazione italiana della struttura e mise en scène francesi, e mette in
evidenza la diversità di attegiamento tra critici francesi e italiani, soprattutto riguardo l’aspetto
visivo dell’opera. Si traccia poi il progressivo radicamento dell’opera nell’immaginario culturale dei
due paesi, valutando non solo le recensioni delle riprese successive in varie città, ma anche i diversi
generi di recezioni documentate, come vignette umoristiche (che attestano la presenza continua
dell’opera anche fino alla fine dell’Ottocento), o episodi entro romanzi (come nel Conte di Monte
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Cristo). La conclusione della relazione discute i due approcci sotto il profilo del momento scenico
forse più significativo: la pace dopo la tempesta sul lago Lucerna nella scena finale, la cui musica
originale, benché sostituita da Rossini stesso in occasione della quarta recita bolognese, ha pure
continuato a attualizzare il senso dell’opera, fino a divenire sigla della RAI nel 1954.
R ODOLFO B ARONCINI , Alfonso III d'Este, Fulvio Testi e Sigismondo d'India: ‘prove di melodramma’
alla corte di Modena
Nonostante l’attenzione tributata dalla musicologia critica in questi ultimi due decenni al problema
del mecenatismo musicale, la mappa della committenza aulica e dei principali centri di produzione
musicale attivi tra Cinque e Seicento appare ben lungi dall'essere completa. Una lacuna vistosa, in
tal senso, è costituita dalla nuova corte estense di Modena, la cui attività musicale, pur
raggiungendo già nel corso degli anni venti del Seicento livelli di eccellenza, attende a tutt’oggi di
essere pienamente riconosciuta. La perdita di Ferrara e i gravi problemi economico-politici in cui si
dibatteva lo stato estense all’indomani della morte di Alfonso II (1597) avevano costretto Cesare
d’Este a ridurre il servizio musicale al minimo indispensabile, e a mettere fine a quella che era stata
una delle più prestigiose istituzioni musicali del tempo. Cionondimeno, già a partire dal 1610, si
intravedono segnali di lenta ma costante ripresa culminanti, intorno al 1620, nella costituzione di
una ben munita cappella musicale. L’artefice di questa rinascita – fatto salvo il ruolo sicuramente
propulsivo del Cardinale Alessandro d’Este (mecenate di fine cultura letteraria e di autentica
passione musicale) – fu il principe ereditario Alfonso III, salito al seggio ducale nel dicembre del
1628, e ritiratosi clamorosamente dopo soli sette mesi per la sua adesione all’ordine cappuccino.
Psicologia complessa e contradditoria, costantemente oscillante tra sogni di gloria militaresca e
fervida religiosità, Alfonso è animato da una eccezionale curiosità intellettuale e cova fin da
principio un unico progetto: restituire alla casa d’Este l’«antica riputatione», riguadagnando al
ducato quel prestigio che la devoluzione di Ferrara e le contestuali perdite territoriali avevano
alquanto appannato. Pur sospinto da una sincera e competente passione culturale, è anzitutto in
funzione di questo progetto che il principe si dà a una promozione sistematica delle lettere e delle
arti incoraggiando la costituizione di due accademie (la prima è fondata nel 1609, la seconda,
animata da Fulvio Testi, nel 1618), patrocinando eventi spettacolari di taglio innovativo (la «favola
o torneo» apparata dall’Obizzi a Finale nel 1617), e dotando la corte di un nutrito e qualificato
organico musicale (18-19 elementi tra cantori e suonatori). In linea con la migliore tradizione
estense, del resto, il patrocinio di Alfonso sembra esprimersi con maggior vigore e coerenza in
campo musicale, animato com’è dall’idea di fare dell’organico estense la «prima cappella d’Italia».
Dopo aver attirato a corte un numero sufficiente di provetti cantori (Ghenizzi, Bazzini, Salvadori,
Zanini ecc), e dopo aver annodato relazioni mecenatesche con i più quotati compositori dell’epoca
(Monteverdi, Frescobaldi, Francesco Turini, Benedetto Ferrari, Crivelli, Saracini, Alessandro
Grandi e altri), il principe mette a segno un colpo da maestro, strappando Sigismondo d’India,
transfugo dalla corte torinese, dalle dimore romane del Cardinale Maurizio di Savoia. Com’è noto,
d’India, già ospite di Alfonso nell’inverno del 1623-24, prenderà servizio a Modena nel febbraio del
1626, soggiornandovi con qualche interruzione fino alla morte (primavera 1629). In questo
contesto prende corpo un progetto musicale di un certo impegno, cui Alfonso, attento a
promuovere tutti i generi musicali allora in voga (dal madrigale concertato alla monodia recitativa,
dal mottetto concertato alla sonata in stil moderno), non poteva sottrarsi: realizzare un’opera in
musica affidandone la produzione, data l’alta qualità delle risorse disponibili, a forze interamente
locali. L’occasione per il progetto, accarezzato dal principe fin dalla primavera del 1626, è fornita
dalle nozze di due importanti personaggi di corte. Le fasi preliminari e fondamentali della sua
realizzazione (quella letteraria e quella musicale, compositiva e performativa) sono affidate
rispettivamente alla penna sicura di Fulvio Testi (protetto di Alfonso e impiegato a corte fin dal
1612), che stende un testo di inevitabile soggetto ariostesco (L’isola d’Alcina), e all’invenzione
musicale di Sigismondo d’India. Documenti recentemente emersi dall’Archivio di Stato di Modena
(tra cui alcune lettere inedite del d’India) consentono di ricostruire nelle sue linee fondamentali il
decorso di questa importante impresa teatrale arenatasi purtroppo nell’agosto del 1626, ormai in
fase di avanzata realizzazione (stesura letteraria, composizione ed esecuzione dei primi due atti), a
seguito della morte di Isabella d’Este-Savoia, consorte di Alfonso. È probabile, sebbene non certo,
che dopo il duro colpo subito il principe abbia desistito dall’impresa. Certo è che se della musica
del d’India non ci è giunto nulla, il Testi ultimò la stesura dell’opera pubblicandola, dieci anni dopo,
in appendice alle sue Poesie liriche (Roma, Robletti 1636). È ben noto, del resto, che L’isola
d’Alcina sarà oggetto nel 1648 di un allestimento bolognese, questa volta, con musica di Sacrati.
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indotto da circostanze produttive – importanti modifiche alla partitura: Firenze 1836, Bologna [?]
1838, Napoli 1838, Londra 1839, Parigi 1840, Milano 1840, Roma 1841, Parigi-Versailles 1841-42
(traduzione francese in quattro atti).
Sono analizzate soprattutto le varianti all’atto finale (l’aggiunta di un’aria e dell’arioso della morte
per Gennaro, la questione della cabaletta finale di Lucrezia), e viene illustrato come esse siano via
via scaturite da una sorta di «concertazione contrattata» tra il compositore e il sistema produttivo.
Nel ricostruire l’evolversi di tali varianti – precisando molti dati rispetto alla letteratura corrente –
verranno opportunamente contestualizzati fonti e documenti inediti o sino ad ora non valutati in
modo adeguato, tra cui un’importante lettera inviata da Donizetti alla soprano Luigia Boccabadati
nel 1836; il libretto manoscritto del «travestimento» napoletano del 1838 – intitolato Dalinda e mai
andato in scena; la prima versione in partitura autografa dell’arioso della morte di Gennaro, che
Donizetti approntò per tale rifacimento; la partitura autografa di un aria aggiunta – “T’amo qual
s’ama un angelo” – scritta per il tenore Ivanoff forse nel 1838; i libretti a stampa della
rappresentazioni prima ricordate, e ad altre fonti musicali e documentarie.
G LORIA S TAFFIERI , Scribe «bien fait»: per una drammaturgia del grand opéra.
L’importanza di Scribe per la formulazione della drammaturgia del grand opéra è un dato ormai
indiscutibilmente acquisito in sede critica. Il processo di rivalutazione che negli ultimi decenni ha
interessato la figura del drammaturgo francese – prima denigrato per la sua natura antipoetica, poi
invece apprezzato come autentico uomo di teatro – non poteva ovviamente non coinvolgere anche
la sua attività di librettista. Di quest’ultimo aspetto si è occupata in particolare Karin Pendle, che
negli anni ’70 ha stabilito alcuni punti fermi: a) Scribe – autore dei principali libretti dei grands opéras
degli anni ’30-’40 – è sostanzialmente l’inventore del genere; b) egli ha applicato ai libretti dei grands
opéras gli stessi principii costruttivi adoperati tanto nei suoi opéras-comiques che nelle pièces teatrali; c)
tali principi sono in gran parte modellati sulla cosiddetta «pièce bien faite», le cui caratteristiche
formali la studiosa mutua da un saggio su Scribe di S. Stanton del 1955.
Studi più recenti sull’argomento hanno tuttavia introdotto alcune considerazioni che, se non
contraddicono, in parte intaccano il quadro sopra descritto, pur non fornendone una compiuta
riformulazione: la drammaturgia del grand opéra è incentrata sulle categorie dello choc e del tableau, e
solo in funzione di quest’ultimo è costruito l’intreccio (Dahlhaus); i grands opéras di Scribe non
vanno intesi come un blocco monolitico: al loro interno devono distinguersi da un lato i grands
opéras scritti per Meyerbeer, che presentano caratteri peculiari dovuti soprattutto all’intervento
diretto del compositore nella fase di strutturazione dell’opera (Dohring), dall’altro, più in generale, i
grands opéras di taglio storico, maggiormente innovativi rispetto a quelli di argomento privato
(Charlton).
L’idea di un quasi automatico trapianto nel contesto operistico di formule e tecniche eleborate per
il teatro recitato sembra pertanto quanto meno da ridefinire. Non solo: i caratteri formali della
«pièce bien faite» (o almeno la maggior parte di essi) risultano troppo generici per essere assunti
come parametri fodamentali per un’analisi della drammaturgia del grand opéra, una drammaturgia
che – come ha notato Gilles de Van nel «Saggiatore musicale» (III/1996) – mostra, caso mai, non
pochi legami con la tragédie lyrique (per la sempre problematica integrazione tra scéne e divertissement) e
con il coevo dramma romantico francese (per la ri-funzionalizzazione in chiave “sociale” del
tableau).
Partendo dalle riflessioni formulate in quell’occasione da Gilles de Van, il presente contributo mira
a “tematizzare” quelli che sono i principali problemi critici connessi alla drammaturgia del grand
opéra romantico (inclusa la spinosa definizione del termine tableau), e al tempo stesso intende
proporre – sulla base dell’analisi dei principali libretti di grands opéras elaborati da Scribe negli anni
’30-’40 – una nuova lettura delle caratteristiche strutturali di tale drammaturgia. Questo sforzo di
ridefinizione si rivela del resto fondamentale ove si desideri effettuare un confronto più puntuale
tra drammaturgia del grand opéra e drammaturgia dell’opera italiana.
Il presente contributo si colloca entro una più ampia ricerca da me condotta per il Premio
internazionale “G. Verdi” dell’Istituto Nazionale di Studi Verdiani/Rotary Club di Parma, ottenuto
nel 1999-2000 con un progetto dal titolo: I “grands opéras” di Meyerbeer e la produzione verdiana degli anni
’40-’50.
E MANUELE S ENICI , La retorica dei generi nella storiografia dell’opera in musica dell’Ottocento
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MANCANTE
V INCENZINA C ATERINA O TTOMANO , Influenze del soggetto biografico in “Orlenskaja Deva” di
Cajkovskij?
Nell’opera di Pëtr Il’ic Cajkovskij, il legame tra gli episodi significativi della sua biografia e il puro
atto della composizione dà luogo ad una interdipendenza e ad un processo di osmosi così evidenti
da risultare elemento fondamentale per una corretta comprensione della sua produzione artistica.
Ciò si evince dall’accurata corrispondenza dello stesso compositore, in particolare in quella con il
fratello Modest e con la confidente-mecenate Nadežda von Meck. Nelle lettere vengono riportate,
passo dopo passo, tutte le tappe fondamentali che accompagnano la genesi e la realizzazione delle
opere. Emerge così come la scelta del soggetto avvenga per una sorta di ‘sconvolgimento’ provato
per una singola situazione drammatica, che molto spesso richiama esperienze di vita vissuta da
Cajkovskij.
Una situazione simile accadde nel momento in cui egli avvicinava il soggetto di Orlenskaja Deva
(1881). Profondamente scosso dalla fine di un matrimonio, contratto anche per nascondere la
propria omosessualità, Cajkovskij si ritrova nuovamente faccia a faccia con l’angoscia di un’identità
‘scomoda’. Giovanna d’Arco rappresentava per molti aspetti l’emblema del conflitto tra l’‘essere’ e
il ‘dover essere’ imposto dalle convenzioni sociali, senza dimenticare che lo statuto ‘androgino’ del
personaggio rendeva il soggetto ancor più ricco di richiami alla stessa condizione biografica del
compositore.
Proprio l’aspetto dell’androginia viene evidenziato nella stesura del libretto (fu lo stesso Cajkovskij
ad occuparsene, pur mantenendo come fonte principale il dramma di Schiller) e nell’atto della
composizione, tanto nella macrostruttura dell’opera quanto nella realizzazione dei profili melodici.
Nell’opera di Cajkovskij, quindi, non solo il soggetto biografico influisce nettamente e in maniera
profonda sulla composizione ma, in una sorta di mimesi, l’arte e la vita sembrano addirittura
congiungersi, influenzarsi a vicenda, sfumando il confine già poco definito tra la realtà e la pura
Erlebnis artistica.
M ICHELA N ICCOLAI , Influenze pucciniane nella canzone d’inizio secolo
A partire dalle esposizioni universali di Parigi (1867, 1900) il gusto per l’elemento esotico si era
fatto strada in Europa attraverso l’arte figurativa, la moda, ma soprattutto il teatro e la musica. Loie
Füller, a Parigi, consacrava un intero teatro a Sada Yacco e alla Kawakami Play Company mentre si
raccoglievano in musica i frutti di una tradizione iniziata già da qualche tempo. Se infatti l’elemento
esotico inizialmente era impiegato nell’opera con la sola prerogativa di dare ‘colore’ al dramma (si
pensi a Lalla Roukh di David o a Il Guarany di Gomes), in seguito venne approfondita la trama
musicale con l’inserimento di temi originali. Dopo La Princesse jaune (1872) di Saint-Saëns, Madame
Chrysanthème di Messager (1883) e The Mikado (1885) di Gilbert e Sullivan, l’elemento esotico trova
la sua consacrazione in Madama Butterfly di Puccini (1904).
L’importanza che l’esotismo acquista in quest’ultimo dramma è sostanziale: non si tratta di un
mero orpello esteriore che colora con tinte orientaleggianti una storia, bensì diventa la
giustificazione del plot narrativo ed è impiegato per sottolineare la distanza culturale tra Est e
Ovest, incarnata nel destino dei due protagonisti. Il contrasto tra personaggi-simbolo di oriente e
occidente, che si può eleggere a paradigma di un più generale conflitto tra due culture con formæ
mentis diverse, ritorna nella canzone italiana dei primi trent’anni del Novecento, mantenendo
sempre un legame ideale con l’opera pucciniana. Le donne orientali dipinte nella canzone sono
ispirate al modello Cio-Cio-San e, come tali, votate al sacrificio fino alla morte per il loro amante
europeo, quasi sempre dipinto come un ‘bruno marinar’ alla stregua di Pinkerton.
Attraverso un’analisi comparata della struttura mitica dell’opera e di alcune canzoni d’inizio secolo,
dalla celebre Tornerai (Olivieri-Rastelli, 1936), interpretata dal Trio Lescano, ad altre meno note –
Fior di Shangai (Cherubini-Avitabile) e il Tango delle Geishe (Tortora-Lama) – si cercherà di delineare
il fil rouge che collega la reinterpretazione del mito-Butterfly delle canzoni con l’originale.
C LAUDIA DI L UZIO , “Un re in ascolto” di Luciano Beno: una genesi travagliata
Il libretto e la partitura di Un re in ascolto, azione musicale in due parti di Luciano Berio (Universal
Edition, 1983), portano il nome di Italo Calvino come autore del testo. Eppure siamo di fronte ad
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un montaggio attuato da Berio, per il quale egli attinge a testi di fonti disparate; esclusivamente di
Calvino sono solo le cinque arie di Prospero.
La genesi del testo si protrae dal 1979 al 1983: nell’elaborazione si possono distinguere diverse fasi.
Berio non si accontenta delle due versioni propostegli da Calvino – entrambe in tre atti, di stampo
fantastico e tendenti ad uno sviluppo lineare –, da lui ritenute poco adatte ad essere intonate. La
loro collaborazione si esaurisce pertanto con il lavoro radiofonico Duo (1982), uno stadio
preparatorio per Un re in ascolto. Berio procede poi da solo: sovrappone ai passi di Calvino, versi
propri e passi tratti da rifacimenti della Tempesta di Shakespeare: il libretto Die Geisterinsel (1790-95)
di Friedrich Wilhelm Gotter e The Sea and the Mirror (1943-44) di Wystan Hugh Auden. Il
montaggio crea così un rapporto di intertestuale e dialogico che, mediante eterogeneità, apertura e
polivalenza, aumenta la libertà compositiva ed interpretativa, nonché la comunicatività del testo
drammatico.
La collaborazione tra Berio e Calvino per Un re in ascolto è quindi segnata dall’incompatibilità delle
loro concezioni sul rapporto fra testo e musica, e di rimando del loro atteggiamento nei confronti
del testo drammatico. La diversità di prospettive risulta tale da indurre Berio a continuare infine da
solo la stesura del testo. Nell’esaminare la travagliata genesi del testo si rilevano alcuni tratti
fondamentali della poetica e prassi compositiva di Berio, in contrasto con le idee dell’amico
“librettista” Calvino.
V INCENZO B ORGHETTI , Palinsesti musicali, autorità e senso del passato nell’“art song-reworking” tra
’400 e ’500
Chansons composte su chansons preesistenti: questo è in poche parole l’«art song reworking», fenomeno
di grande rilevanza nell’Europa musicale nei decenni tra Quattro e Cinquecento. Per quanto non
sia un caso unico nella storia della musica, la composizione ‘a partire da...’, o, con terminologia che
si rifà a più recenti teorizzazioni in ambito letterario, il ‘ palinsesto musicale’, raggiunse proprio
nella seconda metà del Quattrocento un tale incremento e una tale diffusione da imporsi come uno
dei fattori caratterizzanti dell’epoca. A partire almeno da un saggio di Howard M. Brown del 1982
e da uno successivo di Lewis Lockwood del 1986, la pratica del «reworking» è stata considerata il
corrispettivo musicale dell’imitatio retorica e quindi il testimone privilegiato del connubio, altrimenti
sempre problematico, tra polifonia e i nuovi paradigmi dell’Umanesimo.
Tuttavia nel 1994 Honey Meconi, in un articolo polemico fin nel titolo (Does imitatio exist? ), ha
messo provocatoriamente in discussione sia il legame tra imitatio, retorica e «reworking», sia, di
conseguenza, l’edificio storiografico-musicale sul Rinascimento che in quel legame aveva uno dei
suoi più solidi presupposti. Il «reworking» viene ridotto da Meconi ad attributo metastorico del
comporre, privo di cioè una sua precisa ed identificabile connotazione storico-culturale.
Sulla base delle numerose rielaborazioni di un modello celebre (Fors seulement, rondeau di Johannes
Ockeghem), il mio intervento torna sulla questione con una diversa prospettiva d’indagine: nel
titolo ho inserito di proposito i termini di «autorità» e «passato» col preciso intento di non creare
confusione rispetto agli studi sulla imitatio in musica: il «reworking» verrà preso in esame non tanto in
rapporto ad una reale o presunta recezione in campo musicale dei precetti della retorica classica,
quanto piuttosto allo sviluppo di una «tradizione musicale di classici», strettamente connesso con la
ridefinizione dei concetti di ‘autorità’ e ‘passato’ che caratterizza la musica a partire dalle ultime
decadi del Quattrocento.
G IORGIO B USSOLIN e S TEFANO Z ANUS F ORTES ,
Il manoscritto I-VEcap 758 (cod. DCCLVIII) è uno degli otto codici appartenenti a una collezione
di fonti musicali rinascimentali conservate presso la Biblioteca Capitolare di Verona. Tale
manoscritto, assieme ai coevi DCCLV, DCCLIX e probabilmente al DCCLXI, costituiva un
importante strumento di studio ed esecuzione durante le celebrazioni per i giovani appartenenti alla
Scuola degli Accoliti, istituzione collegata alla Cattedrale di Verona, nella quale essi venivano
educati e preparati alla vita sacerdotale.
Il ms. 758 è un codice cartaceo formato da 118 carte precedute da un foglio pergamenaceo che
contiene lo stemma della famiglia veronese dei Maffei; il codice contenente 57 composizioni di
musica sacra per la maggior parte realizzate polifonicamente a 4 voci, copiato in notazione
mensurale bianca e databile tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo.
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Il corpo principale del manoscritto è costituito da 15 quaternioni (ma nel sesto fascicolo manca un
foglio); come risulta in altre fonti dello stesso periodo, tra le quali va senz’altro citato il ms. 759
della medesima collezione veronese, anche il manoscritto 758 sembra essere stato organizzato
secondo un ben chiaro progetto formale di divisione per generi. Infatti il ms. 758 può essere
suddiviso chiaramente in tre parti: la prima sezione, contenuta nei primi 6 fascicoli (cc. 2r-47r)
raccoglie una collezione di mottetti e antifone; la seconda sezione, separata dalla precedente da due
carte prive di notazione e contenuta nei successivi 2 fascicoli, (cc. 48v-64r), contiene un gruppo di
inni; la terza sezione, infine, è riservata a una raccolta di Magnificat ed occupa gli ultimi 7 fascicoli
del codice (cc. 64v-119r).
Le musiche sono per la maggior parte unica, tutte anonime, sebbene 12 di esse siano state attribuite
ad autori franco-fiamminghi quali Compère, Rupsch, Brumel, Weerbecke, Des Prés, Martini e
Ninot le Petit. La realizzazione polifonica dei testi liturgici è sempre in stile alternatim, introdotta in
quasi tutte le carte da lettere iniziali curiosamente miniate, spesso rappresentanti facce umoristiche,
animali, battaglie, ecc. Le grafie presenti rivelano l’intervento di un copista principale e di almeno
due mani posteriori che completarono le sezioni rimaste vuote dopo la prima stesura. Appare
significativo segnalare che tutte le carte trascritte dai copisti secondari riportano solamente lo
spazio per la miniatura iniziale, ma non sono state effettivamente illustrate come nel resto del
manoscritto. Relativamente alla provenienza del codice, le miniature stesse, la presenza a c. 1r dello
stemma della famiglia Maffei, di una particolare filigrana a forma di oca riscontrabile solo in alcuni
altri manoscritti di area vicentina e veronese, nonché di un ciclo di antifone dedicate a S. Lucia
(patrona minor della città di Verona), confermerebbero che il manoscritto fu realizzato e copiato in
area veronese e prevalentemente utilizzato dalla Scuola accolitale della Cattedrale.
K ATIA B OGGIAN , L’illustrazione del codice DCCLVIII della Biblioteca Capitolare di Verona
Il manoscritto Verona, Biblioteca Capitolare, cod. DCCLVIII è un codice databile alla fine del
Quattrocento - primo Cinquecento, appartenente ad una collezione di otto manoscritti musicali
copiati in notazione mensurale bianca. Si distingue perché decorato con numerose miniature dal
carattere giocoso, irriverente e niente affatto sacro, curiosamente opposte al testo delle
composizioni, esclusivamente di carattere religioso.
Sono numerose le lettere a nastro e calligrafiche con disegni interni tracciati ad inchiostro e colorati
con tempera molto diluita, quasi trasparente. Lo spirito che caratterizza le illustrazioni sembra
quasi lasciar intravedere la vita dei cantori rinascimentali vaganti di corte in corte, spesso al servizio
di cavalieri di ventura o di nobili famiglie facoltose. Una delle tematiche più ricorrenti nel codice è
infatti il ritratto: molto spesso le iniziali sono accompagnate da profili maschili e, in un unico caso,
femminile. Altre volte il ritratto raffigura imperatori e cavalieri, in stile antico tipico del periodo
rinascimentale.
Ulteriori tematiche ampiamente presenti nell’apparato iconografico sono quello animalistico (orsi,
cervi, leoni, uccelli), quello relativo a tornei, battaglie, duelli e castelli – a questo si possono
attribuire anche i quattro trionfi –, ad immagini simboliche e raffigurazioni allegoriche – le Virtù
della Castità, della Fede e dell’Umiltà –, ad animali fantastici come Sirene, tritoni, draghi e grifoni.
Più raramente, invece, si incontrano soggetti religiosi, come angeli, Cristo risorto e la testa decollata
di Giovanni Battista.
Quattro disegni a penna raffigurati alle cc. 2v-3r si contraddistinguono per un carattere ben diverso
dal resto del manoscritto: lo stile raffinato ed elegante che le caratterizza e il lavoro di ricerca e di
comparazione storico-iconografica, consentono di attribuirle con buone probabilità d’esattezza alla
mano di Girolamo Dai Libri, illustre miniatore veronese del tardo Quattrocento.
C ESARE C ORSI , Il tema della vecchia nella canzone villanesca tra “vituperium”, charivari, teatro comico
rinascimentale
Il tema del dileggio della vecchia ricorre spesso nella canzone villanesca alla napolitana degli esordi.
Presente già nelle raccolte a tre degli anni Trenta-Quaranta, ricompare ancora in quelle successive,
e costituisce così un piccolo sottogenere con proprie tipologie e modelli.
L’indagine su questo tratto particolare del genere musicale permette di gettare nuova luce sulla sua
natura e di intravedere alcuni dei fondamenti antropologici, letterari e culturali che ne potrebbero
essere alla base.
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Dal punto di vista letterario, il tema del vituperio della vecchia ha origini antichissime. Partendo
dalla letteratura latina (il vituperium in vetulam), percorre l’intero filone della poesia comico-realistica
fino a giungere a Burchiello. Altro aspetto da considerare è la vicinanza del motivo con la pratica
antropologica del charivari, il dileggio dei vecchi e delle vecchie, troppo vecchi o troppo vecchie per
essere soggetto d’amore: un atto reale nella cultura popolare che si troverebbe trasposto nella
villanesca, come in altri generi comici, in una forma “rappresentativa”. Quest’ultima similitudine
più che incoraggiare una nuova teoria ‘popolare’ della canzone villanesca, permetterebbe di
riconnetterla al filone della cultura comica rinascimentale, rispetto al quale presenta numerose
corrispondenze e analogie.
Quanto si propone ha origine da un più ampio progetto di ricerca di chi scrive e di Donna
Cardamone. Scopo del progetto è mettere in rilievo la forte connotazione mimetico-gestuale del
genere, già evidente nei suoi tratti linguistici, e le sue relazioni con quel complesso intreccio di temi
e motivi – presenti nella cultura comica rinascimentale e in particolare nel teatro comico scritto e
all’improvviso – che darà vita di lì a poco alla commedia dell’arte.
A NNARITA A DDESSI e F RANÇOIS P ACHET , Interazioni tra bambini e macchine musicali
Con il termine media education viene indicato quel campo di studi che si occupa della relazione tra
nuove tecnologie e apprendimento. Questa relazione è stata studiata sia da un punto di vista
operativo e didattico (programmi per acquisire concetti e abilità musicali, per suonare, comporre,
ecc.), sia da un punto di vista teorico, in relazione alle nuove forme di sapere che le tecnologie
stanno creando (De Kerckhove 1993, Turkle 1985).
La relazione presenta un progetto di ricerca sviluppato per studiare un particolare tipo di
tecnologia, quella dei sistemi interattivi musicali, per osservare in che modo possono agire
sull’apprendimento e la creatività musicale dei bambini. La fascia di età che si intende osservare, 3/5
anni, è ancora molto poco studiata, e presenta caratteristiche particolari. In accordo con Daniel
Siern, Imberty ipotizza che lo sviluppo musicale del bambino sia basato sul meccanismo della
ripetizione/variazione che governa la relazione madre/bambino. Il problema che ci siamo posti è
dunque capire quali forme di sviluppo si producano quando la relazione ha luogo non tra due
essere umani, ma tra un bambino e una macchina.
Il progetto prevede anche la realizzazione di un protocollo di osservazione “quasi sperimentale”
con 27 bambini di 3, 4 e 5 anni, in una scuola materna della provincia di Bologna; per l’esperienza è
stato utilizzato un sistema interattivo, il Continuator, capace di apprendere automaticamente stili
musicali e di interagire in tempo reale con lo stile dell’esecutore/interprete (Pachet 2002). Collegato
il sistema ad una tastiera Roland ED PC-180, a ciascun bambino è stato chiesto di suonare, da solo
e in compagnia di un altro con e senza il Continuator. L’esperienza è stata ripetuta per tre giorni
consecutivi; le attività video e audioregistrate con l’obiettivo di osservare le condotte musicali dei
bambini e le condotte di interazione dei bambini con il sistema e con il proprio compagno, e di
controllare se queste condotte cambiavano durante le tre sessioni e in base all’età.
I risultati finora analizzati riguardano gli stili d’improvvisazione dei bambini, lo stile
d’improvvisazione del sistema, e gli stili di “interazione” tra i bambini e il sistema. Al proposito
sono stati presentati e discussi alcuni frammenti di video e le analisi delle improvvisazioni musicali.
La domanda che ci si pone, e alla quale si proverà a dare alcune risposte, si chiede perché e come
inizia, si sviluppa e termina l’interazione tra il bambino e il sistema.
M ARIO C ARROZZO , L’opera musicale tra analisi e storiografia
Un’analisi rigorosa di un’opera in una prospettiva storiografica o, per converso, lo storico che
intenda valersi di un monitoraggio analitico delle opere, devono spesso constatare una certa
“incomunicabilità” tra i rispettivi linguaggi. Tale difficoltà dipende verosimilmente dai percorsi
evolutivi che la storiografia e la teoria musicale hanno seguito nell’ultimo secolo.
Tra Otto e Novecento storiografia e teoria musicale parvero accordarsi su denominatori ideologici
ed epistemologici comuni (Riemann, Adler). Il superamento di tali modelli comportò tuttavia una
nuova divaricazione tra i presupposti metodologici delle due discipline: schematizzando, nel
Novecento la storiografia ha oscillato tra una interpretazione dei fenomeni musicali in funzione del
loro contesto di produzione-ricezione e una lettura positivisticamente asettica dei documenti
d’archivio.
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Al calo d’interesse per le composizioni in sé che questi orientamenti storiografici hanno prodotto,
hanno reagito da un lato quanti, come Dahlhaus, hanno ribadito la centralità dell’opera per la
storiografia musicale nonché i seguaci della New musicology americana, che si sono opposti
all’eccesso di tecnicismo analitico, così come alla riduzione della storiografia a semplice collezione
di dati. Entrambi questi approcci storiografici paiono però tendenzialmente refrattari a un
approccio analitico sistematico.
Per converso, le moderne metodologie dell’analisi theory-oriented, proprio in forza dei presupposti
teorici di partenza, implicano spesso un orientamento storiografico datato, di marca evoluzionista:
il mutamento nel tempo della tecnica compositiva sarebbe determinato da leggi di sviluppo
immanenti al materiale stesso. Per di più, anche la stessa metodologia dell’analisi stilistica, che in
quanto mirata al confronto tra repertori ha come scopo precipuo quello di proiettare le opere in
una dimensione storica, appare intrinsecamente condizionata da un pregiudizio classicocentrico.
In definitiva, ciò che oggi le analisi guadagnano in rigore teorico lo perdono in compatibilità con i
presupposti storiografici correnti. Per converso, a misura che gli oggetti musicali sono messi in
relazione con la storia sociale e culturale, l’eclettismo metodologico minaccia il rigore teorico
analitico.
L’attuale impasse potrebbe forse essere superabile a condizione di ridefinire i presupposti teorici di
partenza. In taluni casi, infatti (e valgano da esempi gli studi sul romanticismo musicale di Leonard
Meyer e quelli sulla committenza nel primo barocco strumentale italiano di Claudio Annibaldi), si
sono approntati strumenti teorici diversi – significativamente tesi ad aprire la teoria musicale a
riferimenti esterni ad essa –, è stata realizzata una interconnessione organica tra analisi e
storiografia, tra l’esame delle opere e la loro contestualizzazione. Si è dunque dimostrato possibile
agganciare l’opera nei suoi tratti tecnico-compositivi al milieu culturale coevo, nonché inserirla in
modo convincente nel flusso dell’evoluzione storica.
G ABRIELE C ASTAGNI , Diatonismo e dodecafonia in Béla Bartók: due letture del Quarto quartetto
È possibile accostarsi alla grande fucina del nuovo attiva presso la Seconda Scuola di Vienna,
seguendo i passi di un grande musicista del tempo che, pur non appartenendovi, ad essa si avvicinò
in più occasioni? Senza negare le ascedenze di matrice popolare di Bartók, che formano il
paradignma del suo linguaggio compositivo, il mio intervento illustra come, per accogliere tratti
immanenti alla modalità delle melodie popolari, l’evoluzione della sua scrittura giunse ad esiti
significativamente affini alla dodecafonia, che pure muoveva da premesse diverse.
A tal fine, l’intervento studia il movimento centrale del Quartetto n. 4, Non troppo lento. Esso è stato
oggetto di numerose analisi, ma credo che tra queste possiamo sceglierne due: una concentrata
esclusivamente su di esso (A. Forte, Bartok’s Serial Composition, in «The Musical Quarterly», 1960,
pp. 233-245), e l’altra (E. Antokoletz, The music of Béla Bartók. A Study of Tonality and Progression in
Twentieth Century Music, Berkeley and Los Angeles, University of California, Press, 1984), invece,
integrata in uno studio più ampio, teso ad individuare le peculiarità dell’armonia bartókiana.
Il saggio di Forte trae il proprio bagaglio ermeneutico sia dalla riflessione avviata dalla Scuola di
Vienna e approfondita negli anni di Darmstadt e del serialismo integrale, sia dal modello analitico
shenkeriano; il saggio di Antokoletz affronta invece il Non troppo lento sulla scorta di strategie di
studio estratte soltanto dalla musica di Bartók. Questa soluzione consente ad Antokoletz di
inglobare il movimento centrale nell’intero arco del Quartetto e gli permette di giungere a
conclusioni divergenti rispetto a Forte, anche su questioni di nodale importanza come
l’identificazione di un suono con valore armonico polare.
Se dunque Forte individua nel totale cromatico un traguardo finale, statico di peripezie strutturali;
per Antokoletz il lento sovrapporsi di piani accordali lascia trasparire l’avvicendamento di
formazioni per quarte, mentre i gesti rapidi e sinuosi della melodia arabescano il profilo essenziale
del circolo delle quinte: astratto, quest’ultimo, dalla scala pentatonica di moltissime melodie
popolari dell’Est. Il mio studio nasce, quindi, come ricerca sulla pagina musicale – e in prime luogo
è teso a illuminarla – ma vuol anche essere uno studio comparato: le due analisi divergono per
l’approccio metodologico, ma sono accomunate dall’esito. Entrambe infatti interrogano la musica
con domande solo parzialmente pertinenti, e ottengono risposte che diventano a loro volta
domande per indagare il metodo d’indagine.
P AOLO D AL M OLIN , Pierre Boulez e le “Symphonies d'instruments à vent”
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Non è difficile né impertinente sostenere che Pierre Boulez non sarebbe stato possibile senza Igor
Stravinskij. Solo bisogna ricostruire i tempi e i modi dell’appropriazione con l’esercizio del rigore
nell’archivio materiale. Per il caso emblematico delle Symphonies d'instruments à vent alla memoria di
Claude Debussy, si può risalire dalle lezioni al Collège de France sull’enjeu thématique degli anni Ottanta
(pubblicate in Jalons) sino almeno alla corrispondenza fra André Schaeffner e Boulez sul
programma del concerto e del disco Rétrospective Strawinsky (1961-1962), passando per la genesi della
famiglia d’opere ...explosante-fixe... in omaggio a Stravinskij (1971-).
Da un lato ci s’addentra nella storia della ricezione di una composizione il cui valore paradigmatico
fu riconosciuto sin dagli anni venti e che fu ascritta nel secondo dopoguerra fra i ‘classici
contemporanei’, repertorio di solidi riferimenti per le giovani generazioni. La divergenza di
opinioni fra Boulez e Schaeffner e il tentativo di mediazione compiuto dal secondo sembrano quasi
adattarsi al catalogo delle diverse prospettive analitiche stilato da Richard Taruskin:
‘discontinuità’ («si passa all’improvviso da una liturgia funebre ad un pezzo pastorale», scrisse il
secondo), ‘continutà organica’ («vi vedo piuttosto la continuazione della liturgia», rispose il primo)
o antinomia irrisolta. Dall’altro i problemi di definizione dell’opera, anche a fini performativi,
alimentano il pensiero di Boulez sicché le Symphonies diventano con le Noces un modello
d’interferenza fra l’organico e la frattura, di alternanza fra omo- ed eterofonia nonché di omaggio
non asservito alle idee del destinatario e di commemorazione in musica di un illustre defunto.
Molti ricorderanno che, vent’anni or sono, in una diffusissima monografia su Stravinskij, le
Symphonies venivano lette allo specchio del Marteau sans maître: l’impressione oggi, se non già allora,
non è più quella di una provocazione bensì di un prevedibile naufragio nell’anacronismo. Ma anche
nel rispetto del comune senso del tempo, l’intuizione incontrollata di analogie può creare relazioni
mostruose o condurre in vicoli ciechi. Diversamente, lo studio degli influssi e della ricezione
documentati e attrezzati filologicamente rivelano come nella produzione bouleziana degli anni
Settanta si rifletta l’immagine della liturgia funebre delle Symphonies e della coda delle Noces e,
viceversa, come Boulez possa aver spiegato quest’ultime anche con categorie o criteri propri dalla
prima o ormai divenuti tali. La disciplina storica non preclude affatto il piacere d’intendere il
tombeau di Stravinskij, per non dire di Rituel in memoriam Bruno Maderna, con l’orecchio rivolto a
Debussy e permette inoltre d’intravedere, con discrezione, un altro indice di un istinto o desiderio
di proiezione.
E NRIQUE S ACAU , Giocando con la memoria: musiche celebrative per i 25 anni della dittatura in Spagna
Approfittando delle tecniche storiografiche che fondano il loro oggetto di studio nelle strategie
della memoria, si considera qui il ruolo della musica da concerto nella legittimazione della dittatura
di Francisco Franco nel momento delle celebrazioni dei suoi venticinque anni (1964). Il discorso
sulla Guerra Civile, fino quel momento elemento fondamentale per giustificare il regime, fece
spazio all’apologia della pace che la dittatura presumeva di aver raggiunto in Spagna, e delle
conseguenti conquiste economiche.
La musica non fu aliena a questo processo, e nemmeno rimase fuori dalle celebrazioni di quel
venticinquennio. Il concerto commemorativo e le sue circostanze politiche permettono di vedere
quali avanguardie furono promosse dalla dittatura, e la situazione della stampa musicale negli anni
Sessanta in Spagna. I modelli seguiti dalle corrente estetiche sostenuti dalla dittatura spagnola non
sono altro che quelli offerti dalle avanguardie dei paesi occidentale durante la Guerra Fredda. Il
processo coincide con il progressivo avvicinamento della politica spagnola a questa area culturale
fino alla conclusione della dittatura.
A LBERTO C APRIOLI , Spazialismo in Luigi Nono: dalla pittura alla musica
Parallelamente agli sviluppi del Live-electronics, che rappresenta, negli anni di A Pierre, la propaggine
più avanzata della musica elettronica (si sarebbe dimostrata la più profetica rispetto alla musica
prodotta oggi con l’ausilio dei mezzi elettronici), tra le intuizioni più lucide dell’ultimo Nono è la
consapevolezza che il futuro della musica sarebbe stato legato non solo allo ‘sfondamento’ delle
variabili tradizionali, ma anche all’identificazione di nuovi parametri: così quelli del luogo, del
tempo, dello spazio, della funzione stessa della musica («Tragedia dell’ascolto» in Prometeo), come
l’ampliamento massimo fino alle soglie dell’inudibile e dell’inafferrabile (sedicesimi di tono)
nell’ambito minimo di una terza minore in A Carlo Scarpa: lapalissiano a questo proposito il
paradosso di Zenone d’Elea.
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Il Saggiatore musicale Pagina 17 di 17
Negli anni Cinquanta del Novecento nasce il movimento pittorico dello Spazialismo, che vede tra i
maggiori protagonisti Virgilio Guidi, Lucio Fontana, Carlo Scarpa. Negli anni a venire Luigi Nono
elaborerà alcuni concetti chiave della nuova musica, identificando la sesta nuova variabile dello
‘spazio’ in aggiunta alle quattro canoniche di ‘altezza’ ‘intensità’ ‘timbro’ ‘durata’, mentre “oltre
Darmstadt” e oltreoceano John Cage aveva introdotto a partire dal 1958 la quinta variabile
dell’‘occorrenza’ («occurrence»), legata ad un particolare concetto di composizione aleatoria e allo
stesso tempo seriale (il ciclo delle Variations). Se per Luigi Nono uno dei principali punti di
riferimento nelle arti visive è stato identificato nel fahrender Geselle Emilio Vedova, analizzando le
ultime composizioni, a partire da A Carlo Scarpa, appare evidente una divaricazione tra le poetiche,
che sfocia a nostro parere in una precisa presa di coscienza estetica. In essa appare chiara una
filiazione tra i concetti elaborati dall’ultimo Nono e quelli espressi dagli artefici dello Spazialismo,
che traspaiono fin dall’aspetto formale di alcuni schizzi preparatorî del compositore veneziano.
I NGRID P USTIJANAC , Il rapporto tra teoria e prassi nella produzione musicale di György Ligeti
La riflessione teorica di György Ligeti si è concentrata, nel corso degli anni, su numerosi temi di
grande attualità per la composizione contemporanea, sia negli scritti che trattano la produzione di
altri compositori (del passato – Webern, Bartók – e non – Boulez), sia negli scritti che si riferiscono
più specificatamente alle sue stesse opere (Apparitions, Atmospheres, ecc). Una lettura critica degli
scritti teorici offre la possibilità di riflettere sul rapporto tra intenzione e realizzazione nelle opere
del compositore ungherese, cogliendo l’influsso che l’ambiente esercitò su una poetica compositiva
fortemente individuale e in continua evoluzione. Nello stesso tempo, l’analisi delle opere permette
d’individuare, tra gli elementi di tecnica compositiva, quelli che si inseriscono in una linea di
continuità tecnico-stilistica, forse non del tutto evidente nella parte teorica, che tuttavia
contribuiscono a tessere la complessa rete sonora tipica dell’universo musicale ligetiano. Attraverso
lo studio comparato di queste due sfere della sua produzione – teorica e pratica – si creano filtri
analitici e si raffinano gli strumenti di riflessione estetica. Si consente così di scremare gli elementi
caratteristici di un dato periodo storico da quelli trasversali all’intera produzione ligetiana, e si offre
al contempo una più completa comprensione della figura del compositore nei sessant’anni della sua
attività. Tali elementi, filtrati inoltre dalla distanza cronologica che ci separa dalla maggior parte
delle sue opere, ci permettono finalmente di avanzare un’interpretazione più argomentata dell’opus
ligetiano visto nella sua coerenza, e non, come era stato frettolosamente letto alla luce dei primi
studi sul compositore, frastagliato e discontinuo.
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Utima modifica: 17/02/2006
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