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IL TARLO DEL CRITICO: volume che vuole festeggiare il 90esimo anno di Walter Pedullà, e i 60 anni (+1) di

militanza critica. Pedullà fonda la rivista “L’Illuminista” e, subito dopo, “Il caffè illustrato”. Il suo stile è
impetuoso e, insieme, comico: è a questa doppia natura che si indirizzano le letture di questo libro. Le parti
di cui è composto: 1) contributi che ripercorrono il canone di Pedullà in molte sue scelte principali; 2) saggi
o recensioni dedicati ai suoi volumi; 3) offre un esempio dello strabiliante metaforismo, tratto indelebile del
procedimento critico e scrittorio di Pedullà.
Negli anni ’60, giovanissimo, era assistente di Giacomo Debenedetti; Walter lo ha stimato moltissimo.
I – Il codice di Pedullà
Preludio: il libro omaggio di Pedullà su Giacomo Debenedetti, intitolato Giacomo Debenedetti – interprete
dell’invisibile (2015), ci immette al mondo dell’invisibile. Debedetti è il grande critico maestro di Pedullà.
Sembra che i padroni dell’università d’allora avessero gli occhi chiusi per non vedere questo scrittore. Per
Pedullà la storia di Debenedetti è sostanza e pretesto. Pedullà è il figlio della mente di Giacomo, ma la
lettura inoltra il sospetto che Debenedetti sia figlio del figliolo, e che quindi ci siano tre Debenedetti.
Debenedetti, fin da principio, ha occhi solo per il reale. Inoltre, Pedullà scrive “non ho mai sentito una risata
di Debenedetti”, poi “in principio c’è il riso, ma alla fine c’è sempre la tragedia. Giovanile è la commedia,
senile la tragedia? Potrebbe essere vero il contrario, ma né da giovane né da vecchio Debenedetti si
concesse una risata che è la dimostrazione che è finita la paura”.
Il Furioso letto da Pedullà: Pedullà entra nel mondo immaginifico del poema cinquecenteschi; Pedullà
interpreta tutta la materia in cui si definisce il tema del genere epico tra 400 e 500, che include: polemiche
politico-religiose, questione della lingua, elementi della poesia petrarchista e della tradizione comico-
realista, temi del sacro e temi religiosi, poesia cortigiana e poesia sentimentale.
Pedullà dichiara le caratteristiche più innovative del Furioso: “è un testo leggero che contiene ogni cosa di
cui lo si voglia caricare, dove il fantastico è più vero del reale e dove il comico racconta la tragedia”; nel
Furioso, scrive Pedullà, “l’espressività è garantita dalla presenza di fantasie nel quale si scatena
l’immaginazione aristotelica”. Sulla follia di Orlando: “L’eroe esalta la pazza vita e rifiuta di lasciarla; resta il
mistero di ciò che Orlando vedeva e pensava quando era furioso”.
Pedullà si diverte a disegnare con grande cura la fitta rete di personaggi ariosteschi; coglie e descrive con
sapienza i ruoli che si contrappongono in un’alternanza di positivo/negativo, sessuale, ideologica, etc.
Il poema viene letto come momento fondamentale di passaggio dall’epica al romanzo; l’esito è una
narrazione in cui il tragico si appoggia al comico, il sacro al profano, l’erotico al sentimentale, etc.
Prima di passare alla conclusione del saggio di Pedullà, bisogna ricordare una cosa: Rodomonte, eroe
saraceno, ricompare alla fine del romanzo, quando i giochi più importanti sono stati fatti. Quindi, scrive
Pedullà: “Rodomonte non cerca una vendetta personale; è l’eroe cavalleresco che non vuole maturare. La
conclusione è questa: “più suggestiva del castello è la selva, che genera paura che può all’improvviso
cambiare il tuo destino… il lettore non ha dubbi: preferisce fare esperienza della vita dalla parte della
giovinezza, dell’avventura, della sorpresa, del viaggio, della selva”. Questo è il senso del Furioso per Pedullà.
Palazzeschi nel cosmo letterario di Pedullà: Palazzeschi è il mago che concilia gli opposti: riso e pianto,
solenne e triviale, sacro e osceno, alto e basso, sublime e antisublime, si danno la mano nelle sue pagine.
L’antitesi conflittuale giova allo sviluppo dell’anticonformismo; la vita stessa è mescolanza di dolce-amaro,
di tragedia e di commedia, per cui il riso è “un ottimo avvio per la dialettica”. Palazzeschi ha la visione di un
Dio che incita a ridere: “il primo a ridere nel 900 è il Dio di cui Palazzeschi ha la visione nel Controdolore” >
nel manifesto futurista del 1913 Controdolore, Palazzeschi vuole inglobare nell’infelicità l’altro volto della
nostra esperienza; e Pedullà condividerà la doppiezza che salva l’opera dai significati univoci: “i grandi
romanzi frequentano la doppiezza; nell’800 il doppio è fantastico; nel 900 è comico. Il romanzo di
Palazzeschi è insieme fantastico e comico”. Il Codice di Perelà, favola futuristica, viene definito da Pedullà
come “il romanzo che possiede doti profetiche per cui possiamo ricavare la morale di tante storie d’oggi”.
Palazzeschi appare un precursore: il percorso del progenitore della migliore letteratura d’idee in chiave
fumiste del nostro 900 è tracciato con mano ferma da Perelà (l’uomo di fumo). Scrive Pedullà: “Il Codice
vale quanto i 10 comandam.”.
Marinetti nelle riflessioni di Pedullà: nel corso degli anni, come vediamo sua letteratura (La letteratura del
benessere), Pedullà nutre una sorta di insofferenza nei confronti del futurismo (e di Marinetti) proprio per
questo suo doppio volto, avanguardistico e reazionario. Ma, nel 1999 scrive un saggio per un’altra
letteratura intitolato Avanguardie e futurismo: Pedullà corregge il tiro e mostra stima verso Marinetti che
“si spinge sempre oltre, attratto dagli estremi, senza paura dell’abnorme o del proibito o dello strano o del
ridicolo” > come può essere spiegata questa mutazione di parere? La quantità di nuovi materiali portati alla
luce sul futurismo e su Marinetti hanno concorso a smussare molte asprezze di prospettiva e a dimostrare
che “tutti movimenti hanno contratto debito con il futurismo”.
Svevo e Pedullà (Serafini): con Svevo la partita si gioca su due fronti: letteratura e vita. Pedullà considera
Svevo come maggiore scrittore del Novecento; colui che maggiormente ha capito la vita ed è stato capace
di inventare un sistema linguistico e letterario in grado di rivoluzionare la narrativa del 900; parte tutto da
Svevo: Svevo è l’inizio del 900, è la rottura di un equilibrio, di un sistema che collassa di fronte alla vita e
all’evidenza della sua tragedia; ma collassa ridendo, è questa la genialità di Svevo che riesce a trasformare
la tragedia in commedia attraverso la letteratura, pur sapendo che vita e letteratura sono due cose diverse,
ma che l’una ha bisogno dell’altra per capirsi. Il saggio di Serafini propone delle idee originali di Svevo, dei
racconti suoi (es.: in Vino generoso il protagonista, ubriaco, si addormenta e sogna di morire; nel sonno
grida il nome della figlia perché prenda il suo posto), in cui sono presenti i tratti della letteratura di Svevo:
l’originalità è della vita, è connaturata all’imprevedibilità della vita, la vita non può essere posseduta perché
imprevedibile > quindi, un padre ama la figlia al punto da volerla morta al posto suo? È buono o cattivo? È
questo il doppio volto della vita, come le due facce rappresentate dalla letteratura e dalla vita. Per Svevo la
vita è priva di libertà, è una tragedia, ma va vissuta e capita con le armi della letteratura, che trasformano la
tragedia in commedia. Opere di Pedullà su Svevo: Il morbo di Basedow e Lo schiaffo di Zeno.
Le metamorfosi di Savinio (Cirillo): Pedullà ha scritto di Savinio una monografia Alberto Savinio scrittore
ipocritca e privo di scopo, e altri saggi e richiami; Savinio, artista surrealista, arguto e complesso, andava a
scavare dietro e sotto le cose con sguardo disinteressato; grazie al rilancio fatto da Pedullà, Savinio sarebbe
diventato un mito dell’arte contemporanea. Pedullà lo definisce “contestatore globale, in perenne stato di
guerra”; Pedullà rivaluta Savinio come genio multiforme, dotato di una ineguagliabile versatilità, di una
capacità di polypragmosine (Savino: “questa mia polypragmosyne, nonché felice ma necessaria versatilità,
che è il solo mezzo di colorire la vita, che altrimenti è grigia”). Secondo Pedullà, Savino il Surrealismo lo ha
proprio fondato, o anticipato addirittura. La sua originalità sta nel dare un tocco di supercivismo al suo
surreale, che se la rideva dei valori correnti e delle prospettive a senso unico.
Il demone dell’etimologia, Gadda: “tutte le strade portano a Gadda” afferma Pedullà > Gadda resta al
centro del secolo. Pedullà scrive un saggio su Gadda, che si concentra maggiormente sul Giornale di guerra
e di prigionia, il diario della Grande Guerra, sua prima opera. Pedullà scrive “la scrittura di Gadda è quella di
un delinquente: alla latina, cioè di chi delinque, si lascia alle spalle le amate sponde per prendere il mare
aperto”. Secondo Pedullà, bisogna capire prima il diarista ventenne, e dopo il narratore del Pasticciaccio e
altri. Leggendo il Giornale, si scopre che le parole di Gadda non sono nate deformate da un’oltranza di
ricerca linguistica, anzi “in gioventù erano snelle, magre e dritte come un pugnale”: parole che dicevano
pane al pane, erano gridate a voce altissima. Il Giornale è il diario più straordinario del 900; la sua è la
scrittura tipica di un qualsiasi diario, in cui non si sa mai se ci sarà un seguito alla pagina che si sta scrivendo
o se sarà l’ultima. Lo scrittore del diario si mostra sempre in guerra: con i comandi, con la famiglia, con i
propri soldati, e naturalmente con sé stesso: ecco, Pedullà insiste sulla guerra eterna che Gadda dichiara al
mondo intero. “Tutti scrivono stringendo la penna in pugno, ma Gadda la usa come se dovesse dare un
cazzotto alla persona che nomina”; il suo è “un linguaggio che uccide”
Sperimentalismo permanente: Pedullà aderisce ai valori dell’illuminismo > citiamo Candido di Voltaire: il
libro va contro l’idea di Leibniz, secondo cui il mondo in cui viviamo è il migliore possibile e non si può
cambiare; per Voltaire l’uomo deve, invece, prendersi la responsabilità di intervenire perché il mondo non è
perfetto, ma si può migliorare. Il ruolo dell’illuminista è far progredire la condizione umana. Non è un caso
che Pedullà fonda “L’Illuminista”, il primo numero del quale è dedicato al comico: il comico come “la più
naturale delle attività critiche” > gli scrittori lo usano per cercare l’autentico, il primitivo. Per Pedullà, è lo
sperimentalismo linguistico ad essere lo strumento tecnico privilegiato che ha ossigenato il 900; lo
sperimentalismo per Pedullà è molto più di una scelta stilistica: è un’etica, una politica, una metafisica. In
quest’ottica sono chiare le motivazioni che lo hanno spinto ad appoggiare le neoavanguardie e, in
particolare, il Gruppo 63. All’interno della Neoavanguardia, gli autori più appoggiati sono Malerba (come
narratore) e Pagliarani (come poeta): Malerba per la capacità di smontare la logica del realismo con la
logica assurda dei suoi romanzi, ma anche per la capacità di saltare da un genere all’altro (in una sorta di
schizomorfia espressiva); Pagliarani per l’abilità di riuscire a fare poesia con il materiale meno nobile
(linguaggio scientifico). Gli scrittori amati da Pedullà sono quelli che meglio “delinquono”, che riformano
l’immaginario: Gadda è il delinquente per antonomasia.
Pedullà e Malerba (Muzzioli): Pedullà in molte occasioni ha scritto di Malerba, vediamo qualcosa a riguardo.
A partire da un saggio del 1970, Pedullà assegna a Malerba un ruolo di alto tenore: “con quelle parole che si
legano in paradossali associazioni comiche capaci di annegare nel ridicolo l’intero emisfero verbale”. Il
saggio di Pedullà Le metamorfosi del cerchio: in cui Pedullà sottolinea fin dall’inizio il lato inquietante di
autore a prima vista divertente, ma si tratta di una comicità sinistra; c’è efferatezza della scrittura (usa
“sterminio” e “massacro”), ovvero un’ideologia che non risparmia nulla a nessuno. Scrive Pedullà: “Malerba
ride in modo singolare; il riso è un corto circuito mentale e accende imprevedibili fiamme”. Nel 2006
Pedullà dedica a Malerba un intero numero di “L’illuminista”, con inediti, interviste, saggi critici e
recensioni; nell’introduzione scrive: “originalità di linguaggio, esuberante e vigile fantasia; magistrale
mestiere; figura esemplare del 2° 900”. Tappa finale è il Meridiano di Mondadori (2016), Le metamorfosi di
un narratore sperimentale, in cui Pedullà si è dedicato all’introduzione: in cui precisa che il percorso
dell’autore è guidato da coerenza sì, ma una coerenza che cambia nel tempo adattandosi alle urgenze nel
frattempo mutate; inoltre, fa un elogio paradossale dell’errore “solo se sbagliamo, progrediamo: questo è il
compito della narrativa paradossale di Malerba, uno scrittore che scopre il senso della realtà con l’aiuto
dell’errore”.
- Genere comico: secondo Bachtin, quella del comico è una marcia per emergere dal limbo; nel caso di
Malerba, il comico, nella sua propensione alla contestazione, finisce sempre per non stare al suo posto, per
contaminarsi e rifondersi con il tragico. Pedullà: “nei suoi libri si ride per invenzioni esilaranti che hanno
risonanze tremende”. Mai comico di buonumore, il suo riso ha sempre un risvolto cupo; un riso sempre sul
limite di una realtà di mera sopravvivenza. Pedullà lo considera a pieno titolo tra i fondatori del Gruppo 63.
- Metamorfosi: come abbiamo visto, i titoli dei due saggi di Pedullà sono ispirati alla metamorfosi, al
cambiamento. Questo avviene nel linguaggio di Malerba: all’interno del testo, il linguaggio è posto
all’insegna della sorpresa e deve compiere continue mosse che cambiano il suo scenario; l’imperativo è di
non essere mai uguale a sé stesso; nel linguaggio c’è dunque un rinnovamento continuo > scrive Pedullà:
“passa dalla commedia alla tragedia, dal plurilinguismo al monolinguismo gelido, etc.”. Pedullà accerta che
in Malerba c’è fedeltà al cambiamento; la ricerca del paradosso in Malerba è unire tutte le metamorfosi.
Pedullà e Pagliarani: Pedullà dedica a Pagliarani un numero della rivista “L’illuminista”, dedicandolo alla
Poesia di Elio Pagliarani; Pedullà, suo critico più fedele, lo definisce “classico di domani”, un classico perché
è “poeta così complesso nella sua semplicità”. Nella parte intitolata Testimonianze si coglie il rapporto che
intercorre tra il critico e l’autore: si incontrano nel 1969 nella redazione di “Avanti”, cui entrambi
collaborarono; nasce così il loro affetto, e poi le cene, le passeggiate notturne, la loro militanza socialista, la
lettura ascoltata nelle reciproche case spesso con commozione, e la loro passione per il futuro. Pagliarani
con Pedullà è leale, generoso, sincero; Pedullà ne valorizza l’oralità e la teatralità, evidente nella voce che
coniuga dolore e sdegno, energia e pietà; Pedullà è convinto che Pagliarani sia il maggiore poeta della
neoavanguardia. Pagliarani usa registri stilistici lontani tra loro, ma capaci, nell’accostamento del poeta, di
illuminare e infuocare una narrazione. Inoltre, il ricorso a linguaggi bassi non esclude la tensione verso il
sublime che la poesia di Pagliarani può raggiungere, comunicando il senso alto della realtà e del vivere.
Pedullà, a questo proposito, cita i versi di Pagliarani: “Non so se l’avete capito / siamo in molti a farmi
schifo” > versi che sottolineano la “febbrile tensione sociale” dell’autore, che parte sempre dal basso per
sollevarsi ad altezza massime fino a darci visioni illuministe. Infine, con le sue parole imprime un ritmo:
escluso il reale, riconosce che la realtà esiste, ma che è il linguaggio a dar voce a questa realtà; il linguaggio
di Pagliarani è in movimento; ogni parola “è messa in musica”.
Il critico come illuminista: è difficile immaginare il rapporto intrinseco tra Pedullà e Pagliarani. Una
solidarietà che legava due temperamenti così diversi, fatti per accordarsi in quella che, più che un’amicizia,
fu telepatia. Significativo l’evento della candela (foto a pagina 116): quando a una delle sue ultime lettere
pubbliche Elio ha mostrato qualche fatica a seguire sé stesso, in un ambiente forse poco illuminato, ecco
venirgli in soccorso Walter porgendogli la fiamma di una candela. Il critico, letteralmente, illuminava il
poeta.
Pedullà commenta Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo: Horcynus Orca (1975) è un viaggio notturno; Pedullà
ha seguito il romanzo in tutti i suoi sviluppi lungo i 15 anni e oltre di stesura (prima era stato pubblicato
sotto il nome di I fatti della fera, opera diversa, più “smembrata); Pedullà, amico di D’Arrigo, ha promosso
questo romanzo in ogni occasione. Che succede nel libro? Il marinaio ‘Ndrja, dopo l’armistizio da Napoli,
torna al suo villaggio d’origine in Sicilia; attraversando le marine calabresi, ‘Ndrja incontra personaggi
“straviati” dalla guerra. Il protagonista è il novello Odisseo che però va incontro alla morte: al suo ritorno in
Sicilia, il protagonista trova un’ora nera di enormi dimensioni spiaggiata sulle rive del villaggio siciliano di
Cariddi, e qui muore (ora vediamo come) > l’orca segna la vittoria del mare sulla terra; Horcynus Orca è,
secondo Pedullà, un mito del ritorno impossibile ed è romanzo della morte: “il protagonista corre verso il
suo povero e sublime passato, lungo un cerchio che è promessa di equilibrio definitivo, ma una pallottola lo
colpisce casualmente in fronte. Un incidente che però è un suicidio: come se la sua fronte fosse andata
incontro a quel proiettile vagante”. L’indagine di Pedullà attraversa tutti gli strati del romanzo; al centro
della sua ricerca c’è però la lingua: lo strabiliante impasto di italiano e dialetto siciliano che non ha
precedenti né precursori; una lingua che forma e deforma uomini e concetti. Importante il traghettamento
che Pedullà definisce un vero e proprio viaggio verso gli inferi: non ci sono barche sullo Stretto per passare
in Sicilia, ma ‘Ndrja si imbatte in una femminota, Ciccina Circé, che lo accompagna di notte con la sua
imbarcazione lunga e stretta come una bara. Ciccina durante il viaggio racconta, non smette mai di parlare;
‘Ndrja non riesce mai a vederle il volto, immagina sia una misteriosa sirena che riporta in vita la madre
morta. Pedullà commenta: “il viaggio agli inferi è il perno dell’intero romanzo, che ha elementi chiaramente
vicini con il poema di Omero: Ciccina Circé riunisce in sé molti personaggi omerici, perché è Circe e
Penelope, Calipso e le Sirene, ed è anche la fettucchiera che predice il futuro o la sposa che porta addosso
gli odori materni; o forse è Proserpina, la Morte stessa?”
“Radicato nel Sud” (Pomilio): Pedullà: “La Sicilia, per un calabrese quale io sono, è vicina e insieme
lontana”; “da quella fessura che è lo Stretto è nata un’isola che alcuni di noi calabresi soffrono come
un’amputazione”. Pedullà scrive una raccolta di visioni critiche meridionali intitolata Il mondo visto da sotto
(2016), esercizio critico che si attua nella foschia, motore di questa lontananza. Il mito letterario e concreto
di un Sud/Sotto si alimenta, non potendo mai prescindere dalla primaria forma di amputazione della terra-
lingua. La Sicilia, triangolo capovolto, però non riassume per intero il senso di Pedullà per il Sotto; la sua
Calabria rientra, e restituisce il senso d’un 900 emigrato, amputato; eppure, è la Sicilia il nucleo da cui si
parte e si torna costantemente. Il Sotto visto da Pedullà serba intatto l’incanto di un linguaggio sempre
nuovo, ma anche arcaico.
Il tarlo, un bestiario gaddiano (Pedullà): perché il tarlo? Si poteva certo scegliere meglio nel bestiario di
Gadda, ma il tarlo ha qualcosa in più: scava nell’inconscio dell’universo gaddiano; il tarlo, penetrante,
ostinato e invisibile, è come il male di vivere (anche male oscuro perché il tarlo ha in odio la luce). Per
Gadda, esso si avvita dentro il cervello dell’uomo, come per esempio in quello di Gonzalo (protagonista di
La cognizione del dolore; alter ego di Gadda); c’è un tarlo in ognuno di noi. Pedullà lo mette in confronto al
topo del Pasticciaccio: il topo è velocissimo, non è come il tarlo che avanza lentissimamente dentro il legno
duro. Gadda scrive con la lentezza del tarlo, implacabile, tenace, corrosivo, e associa nel suo racconto fatti e
immagini con la velocità del topo. Inoltre, Gadda entra nei suoi romanzi in veste sia di uomo sia di donna:
tutti i suoi personaggi sono ricavati dalle sue stesse vicende private. Pedullà ricorda la gallina della Zamira
(Pasticciaccio), che cammina impettita, canta e mette bocca dappertutto: cosa ha in comune con Gadda?
Mentre il narratore fa metaforicamente la cacca sulle istituzioni (Duce, fascisti, industriali), la gallina la
depone letteralmente sulle scarpe delle forze dell’ordine presenti. Un animale che ha un ruolo positivo è il
mulo per cui lo scrittore ha grande ammirazione: il mulo mostra di avere più logica degli uomini.
Trascinando un affusto di cannone lungo uno strettissimo sentiero di montagna, i soldati picchiano
brutalmente il mulo obbligandolo a insistere con le ruote contro un masso che alza un ostacolo
insormontabile; fu l’animale a trovare da solo la via d’uscita: rinculò, fece deviare le ruote, e aprì la strada.
Rispetto al tarlo che lavora ciecamente, il mulo è molto oculato; è logico e spontaneo. Il tarlo che cigola nel
legno è il particolare dell’universo gaddiano: in qualunque romanzo o racconto c’è sempre il cigolio del
tarlo che si inoltra nell’oscurità; sarà lui a guidare al nucleo più segreto dell’anima di Gadda, che per tutti è
la morte.

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