Ippolito Nievo (1831-1861): sulla prima pagina della rivista “L’Uomo di Pietra” (settimanale di letteratura), il
27 marzo 1958, Ippolito, firmatosi con lo pseudonimo Sssss (chiede silenzio e provoca attenzione),
attraverso l’ironia, parla per la prima volta direttamente di sé. Si scusa con la giustificazione che “è la prima
volta”, perché così i lettori sono più inclini al perdono. In questa lettera, sottopone al giudizio del pubblico i
guadagni delle sue fatiche letterarie > elenca tutte le sue opere e, per ognuna, dice cosa ha ricevuto in
cambio: menzione onorevole, molte congratulazioni, recensioni apparse su riviste, “troppi complimenti”,
ma mai ha percepito una ricompensa economica. I mancati guadagni dell’attività letteraria e giornalistica
indurrebbero, secondo l’opinione pubblica, ad abbandonare la professione; Nievo capovolge la prospettiva
con “io vi giuro che scriverò, scriverò sempre […] scriviamo, perché non si può fare di meglio” > così Nievo
afferma la propria fiducia nella scrittura intesa come indagine alla rivelazione delle verità; il plurale
(scriviamo) indica la sua apertura alle differenti idee, affinché la condivisione scaturisca interscambio
umano e intellettuale. L’articolo rivela 3 indizi: 1) Nievo conferma che i suoi scritti, prima di essere raccolti
in volume, sono apparsi su organi di stampa; 2) distingue tra scrittura giornalistica e scrittura letteraria; 3)
infine, rivela che c’è una missione del letterato (ovunque egli decida di diffondere i propri testi) che è quella
di comunicare le verità. Nievo scrive per la prima volta su un giornale nel 1852, una lettera a difesa degli
ebrei a “La Sfera”; l’ultimo articolo appare nel 1861 > fra l’uno e l’altro passano 9 anni e 120 articoli su
riviste. Inoltre, Nievo collabora con i periodici di Lampugnani tra il 1855-1856; a questo proposito
ricordiamo la lettera inedita di Lampugnani a Nievo in cui l’editore respinge una novella dell’autore sua per
la lunghezza sia perché il genere non è opportuno per i giornali, opportuno invece per i libri.
Ippolito scrive Confessioni d’un Ottuagenario, composto tra il 1857 e il 1858, pubblicato nel 1867; nei mesi
in cui sta componendo questo romanzo, dichiara la professione di fede nella scrittura e nella letteratura,
affermando che il suo credo supera le problematiche economiche > la scrittura è per lui questione di vita.
La madre non condivide la sua scelta, in quanto desidera che il figlio metta a frutto la laurea in legge e che
non sprechi tempo nella scrittura giornalistica, perché non è adeguatamente retribuito. Ippolito scrive una
lettera alla madre: “dici che di qui a parecchi anni mi rincrescerà aver fatto questa scelta? Il mio stato
attuale è precario, ma non me ne vergogno. Voglio rassicurarti: dovessi morire di fame, non mi lamenterò,
e non mi pentirò mai di aver scelto questa strada”.
La sua frustrazione non deriva tanto dalla condizione economica o dalla vita professionale, quanto dalla
drammatica situazione sentimentale, a causa dell’amore per Bice Gobio, amore appassionato e sfortunato.
Il contesto in cui si colloca l’attività giornalistica di Nievo è quello che precede l’epopea unitaria, un
decennio in cui si afferma un giornalismo con 3 finalità: informare ed educare, dilettare e intrattenere,
ispirare sentimenti unitari. I temi dei suoi scritti giornalistici sono popolari, sostenuti da un pensiero
risorgimentale e pedagogico; con una scrittura capace di raggirare l’azione censoria. Quel che non appare
connesso con la scrittura sui giornali praticata da Ippolito è la narrazione della quotidianità perché lui non è
un cronista, ma lo fa per rafforzare il rapporto con il pubblico, vuole creare un colloquio confidenziale con i
suoi lettori. Spazia in ogni ambito, argomenti anche lontani dalla letteratura; lo fa con umorismo, a tratti
con ironia o sarcasmo > dunque, è una scrittura poliedrica, multiforme.
L’io autoriale è spesso mascherato dietro pseudonimi: Dulcamara, Sssss, Todero, Arsenico, Senape, N., N. I.,
per rimanere nascosto alla censura; lo usa anche perché con ogni pseudonimo costruisce un personaggio
diverso e ciò autorizza una variazione stilistica ed espressiva. A questo proposito è opportuno citare lo
pseudonimo al femminile, Quirina N., su “La Lucciola”, una rivista per le donne.
Vittorio Imbriani (1840-1886): giornalista, provocatore, sperimentatore linguistico, viaggiatore, patriota >
Imbriani ha assunto molte forme, con una sola unica costante: l’irregolarità > l’irregolarità linguistica,
stilistica, politica e narrativa. Questa sua irregolarità deriva da improvvisi cambi di programma avvenuti da
piccolo: a 10 anni ha dovuto lasciare Napoli perché il padre era caduto nell’occhio del ciclone della reazione
borbonica, costringendo tutta la famiglia a Genova e poi a Nizza. Questa erranza gli permise di entrare in
contatto con vari intellettuali; inoltre, a questo proposito, sono da ricordare due episodi per comprendere il
carattere irrequieto e le coordinate ideologiche: 1) l’arruolamento durante la seconda guerra
d’Indipendenza (1859), descritta come un momento in cui si è sentito tanto solo; 2) i duelli per difendere
l’onore di italiano a Berlino, città dove si era trasferito e che rappresenta, insieme a Torino Parigi e Zurigo,
una delle tappe geografiche-ideologiche di Imbriani. La sua è una tendenza enciclopedica figlia di una
irrequieta curiosità che convive in un animo polemico e insoddisfatto, poco avvezzo alla disciplina; ha un
carattere inflessibile e poco socievole che lo porta a chiudersi sempre più in sé stesso.
Raffaele Giglio definisce l’attività giornalistica di Imbriani in: collaboratore, redattore, direttore,
editorialista; attività, la sua, svoltasi in un ricchissimo arcipelago di giornali e riviste > modus operandi ad
ampio spettro. Imbriani, una volta rientrato a Napoli, si trova nella situazione della caduta del governo
borbonico e con la conseguente libertà alla nazione italiana; questo diede vita a un considerevole numero
di giornali, in lingua e in dialetto, che furono portavoce delle varie esigenze sociali. In questo terreno, fertile
ma instabile, Imbriani dà vita a un fatico processo di partecipazione alla vita accademica. Dopo una piccola
parentesi nel giornale di De Sanctis “L’Italia”, la sua attività giornalistica continua con la direzione del
giornale conservatore “La Patria”, esperienza breve ma significativa > poi la sua attività continua con molti
interventi su riviste e giornali che sono impossibili da recuperare nella sua interezza. Inoltre, coglie
l’arretratezza dell’intero sistema culturale napoletano causata dalla pochezza di un editore, rivista
letteraria, persone interessate agli studi > questa è dimostrazione della forza polemica dell’autore.
Raffaele Giglio individua la caratteristica della scrittura/pensiero di Imbriani nell’inserimento di
episodi/riflessioni che esulano dal discorso iniziale rendendo il testo non sempre del tutto scorrevole in una
immediata lettura (la già detta irregolarità).
Scritti di viaggi a Roma in cui si possono ritrovare alcune caratteristiche della forza polemica e dei legami
con l’odeporica (= che riguarda un viaggio) romana tardo-ottocentesca: Passeggiate romane (1871) e
Diario romano (1876) > testi estremamente diversi tra loro, ma entrambi evidenziano le sue impressioni
sulla Capitale, scrutata nelle glorie antiche e nei recenti misfatti. L’organizzazione testuale è più lineare
nella prima, in quanto il Diario ci è giunto monco/frammentario; la narrazione è priva di un centro
aggregatore, ciò emerge nell’esuberanza della scrittura. Imbriani si lascia guidare dalla città eterna, senza
però trarre il godimento del vagabondaggio creativo, accentuando il suo conflitto con il mondo. Viene in
mente un altro dell’odeporica romana, ossia il Leopardi delle lettere romane > Leo scrive “tutta la
grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze” > anche l’Imbriani delle Passeggiate si
lamenta delle distanze, della grandezza, del tempo, della stanchezza e del clima, scrive “vorrei passeggiare,
ma come si fa? Piove! […] ho stanche le gambe, gli occhi e la mente”. Come Leopardi, anche Imbriani
rimarca “l’essere qui solo e costretto al monologo”. Nelle critiche, però, emerge una città incantevole.
Luigi Capuana (1839-1915): critico-scrittore; un saggista dalla prosa agile, parlata, polemica, mai squillante;
un letterato il cui esordio fu dapprima nel giornalismo, poi nel romanzo e nella novella. Un’opera storico-
critica è Il teatro italiano contemporaneo (1872), suo libro d’esordio; l’autore divide in tre parti l’opera:
teatro italiano, teatro straniero, letteratura > nel volume confluiscono rispettivamente 22, 11 e 7 interventi
per ciascuna delle tre sezioni, si tratta di scritti pubblicati in “Nazione”, “Gioventù” e “Rivista italica”. A
questa silloge di articoli, Capuana antepone una prefazione Al lettore, redatta a posteriori, deputata a
riassumere i fondamenti del proprio pensiero estetico all’altezza degli anni ’70; questo saggio-discorso
d’apertura configura l’opera come inaugurale, come fosse il risultato di un lavoro di
riscrittura/riordinamento dei testi. Il testo ha un carattere distintivo dato dalla riflessione successiva più
matura dei concetti, proprio perché l’autore aveva riportato a nuova vita gli articoli riuniti nell’opera.
Capuana aveva iniziato a occuparsi di romanzo di costume già nel 1866, con l’articolo Il teatro francese
pubblicato su “Nazione”, articolo scartato per il Teatro italiano contemporaneo, che si era posto come
obiettivo la separazione dei generi tra romanzo e teatro: generi tanto diversi sì, ma uniti formato un
connubio mostruoso. Sempre su “Nazione” nel 1867 pubblica un pezzo in cui definisce il romanzo come
opera d’arte seria, variata, eccellente, capace di dipingere i costumi della società contemporanea, e per
questo metto allo stesso livello dell’Iliade e dell’Odissea il romanzo di Balzac (modello più alto del
romanzo). Per questo motivo, nel 1872 Capuana propone al direttore della “Nazione” una collaborazione
meno vincolata, offrendosi come autori di articoli di letteratura; la proposta continuava con una recensione
a Storia di una capinera di Verga, dunque a un romanzo, affermando che il romanzo è l’unica opera d’arte
possibile, vero punto di formazione, in cui immaginazione, sentimento e riflessione possono confondersi
insieme. È chiaro, a questo punto, lo spostamento di interesse dal palcoscenico alla narrativa.
Nel 1877, trasferitosi a Milano, diviene critico letterario per “Corriere della Sera”, su cui pubblica una serie
di rassegne drammatiche su opere italiane e straniere e contributi di carattere più generalmente letterario
> si afferma come apprezzato operatore culturale. Roberto Sacchetti: “Capuana scrisse per anni stupende
rassegne su “Nazione” di Firenze, quando Firenze era la capitale; ora sul “Corriere della Sera”; Capuana è il
più dotto, il più pensatore, il più coraggioso e sincero della critica letteraria che abbia l’Italia. Conosce tutto,
legge tutto, sa parlar di tutto e bene e profondamente”.
Alcune recensioni di questi anni milanesi sul “Corriere della Sera” (tra cui Malavoglia di Verga) pubblicati su
vari giornali tra il 1877 e il 1881 vennero raccolti e pubblicati in due volumi Studi sulla letteratura
contemporanea; nel primo c’erano 20 articoli scritti tra il 77 e il 79, nel secondo (22 saggi) tra il 79 e l’81.
Anche in questi due casi, Capuana propone due discorsi introduttivi ai testi, discorsi diversi tra loro: da un
lato l’enunciazione intertestuale dei fondamenti teorici alla base della metodologia ermeneutica, dall’altro
una considerazione sulla differenza tra elzevìro (articolo letterario) e giornale politico. L’introduzione della
prima serie di Studi rispondeva a: De Sanctis “La forma non è a priori, anzi è generata dal contenuto, attivo
nella mente dell’artista” e a De Meis “L’arte è una serie di forme estetiche l’una men perfetta dell’altra” >
quindi Capuana scrive “Il mio credo critico è in tutte queste parole di così grandi maestri”. Importante la
recensione che fa sui Malavoglia, ignorati e sottovalutati dal pubblico coevo > con netto anticipo sui tempi,
Capuana coglieva l’originalità dell’opera nel metodo dell’impersonalità, e intuiva le cause dell’accoglienza
fredda da parte del pubblico nella presenza di uomini elementari. L’interesse di Verga per uomini in
comunicazione con la natura, dai sentimenti rudimentali non era dissimile da quello dei naturalisti francesi;
quest’interesse andava spiegato alla luca dell’incertezza nel maneggiare una materia nuova come il
romanzo.
Anni ’80: la riflessione teorica, dapprima incentrata su materia letteraria, inizia ad allargarsi sulla crisi
dell’industria editoriale-libraia e, poi, sul ruolo del critico nella società moderna.
Tra i bersagli polemici di Capuana, rientra Giosuè Carducci il quale dice “la fantasia italiana è un utero
ammalato; il romanzo e il teatro sono per noi due baie peggio che quella di Assab” > Capuana gli risponde
sia rivendicando i grandi passi avanti compiuti negli ultimi venti anni dalla prosa, sia precisando il concetto
di verismo come metodo di creazione artistica e come forma originale della letteratura nostrana.
Inoltre, sempre negli anni ’80, durante la direzione del “Fanfulla”, Capuana rilesse i Promessi Sposi
definendolo “libro ammirabile”; intanto, individuò nelle Novelle rusticane di Verga un esempio della forma.
Anni ’90: l’attività di Capuana si concentra su 1) il censimento della recente produzione romanzesca, 2)
ritorno sul motivo della Forma, 3) l’esame delle dinamiche di fruizione del testo letterario da parte dei
lettori e la riflessione sul ruolo del critico letterario nella società contemporanea. Su quest’ultima scia si
colloca l’elaborazione Libri e teatro del 1892 > Capuana constata amaramente lo stato di crisi delle industrie
culturali in atto in Italia a partire dal 1883, spiegandone le cause e proponendo alcuni rimedi. La causa viene
rintracciata nella mancanza di pubblico intermedio tra classe aristocratica dell’intelligenza e i volgari lettori
> bisognava cambiare l’asse di recezione; crede, inoltre, che la causa principale della mancata preparazione
del pubblico dei lettori e della crisi dell’industri culturale sia l’inesistenza in Italia della figura del critico di
professione; il rimedio: 1) nell’accentramento delle principali direzioni dell’industria culturale del Paese in
un’unica città (Roma, capitale politica e morale); 2) invito a editori giovani a dar vita a nuove imprese
giornalistiche-industriali.
Federico De Roberto (1861-1927): l’esperienza giornalistica di De Roberto fu varia e lunga; il giornale e la
rivista furono spazi di formazione del pensiero, palestre di dibattito. Per questo, nella sua produzione,
possiamo distinguere:
1) il giovane, alla ricerca di un percorso professionale; scrive articoli di cronaca, legati all’ambiente
catanese, nel quale vive e cresce. La carta stampata è un trampolino di lancio, un luogo nel quale
costruire il suo pubblico > per questo è legato ai suoi scritti giornalistici.
2) l’autore maturo, che ha già scelto la strada narrativa, produce per i giornali, quotidiani e riviste,
saggi di critica letteraria e di natura sociologica.
Il primo articolo si intitola Le feste belliane, pubblicato su “L’illustrazione italiana” nel 1876; è una cronaca
delle celebrazioni di Vincenzo Bellini che si tennero a Catania, per il trasferimento dei resti del musicista
nella città natale > “tutti si sono adoperati tanto per ricevere degnamente il grande concittadino; tutti i
balconi sono a festa, sui muri delle vie ci sono le immagini di Bellini con ghirlande e festoni; un vero
entusiasmo”. Descrittivismo quasi geometrico; il giovane autore, che non conosce deviazioni stravaganti,
non intende folgorare il lettore, ma solo far conoscere la cronaca di un avvenimento importante per la città.
Ha frequentato la facoltà scientifica, materia che continuerà ad orientare la sua prosa; in due articoli del
1879 pubblicati su “Rivista europea”, Spedizione artica svedese e L’Oceano Artico e i commerci della Siberia,
la sua prosa è ancora tra scelta retorica e rigore scientifico > lo spazio retorico è confinato nell’incipit del
testo, dove l’autore intende conquistare il suo pubblico (La vecchia Europa): uso di figure retoriche della
personificazione dell’accumulazione dei luoghi comuni; questo incipit è in contrasto, però, con l’aridità
della prosa tecnica delle pagine successive, in cui l’autore struttura un testo di carattere meramente
informativo.
Nel 1880 comincia la collaborazione al “Fanfulla”; qui De Roberto si occupa esclusivamente di cose siciliane
e, quando ciò non accade, il filtro da cui guardare il mondo è sempre Catania. Fino al 1883 De Roberto sarà
il corrispondente da Catania del quotidiano, raccontandone la vita politica e culturale, sulla rubrica “Ritagli
e scampoli”. Vediamo alcune corrispondenze su questa rubrica sul “Fanfulla”:
- La crisi municipale a Catania: l’atteggiamento di De Roberto è partigiano (“un Consiglio che non
crede di fare quel che piace al sindaco; un sindaco che si dimette; elettori progressisti, etc.”) > dopo
il resoconto asciutto e lineare della crisi municipale (vd. esempio tra parentesi), la corrispondenza si
chiude con un explicit ironica (“pardon… sbaglio, oggi è troppo comune”) che intende coinvolgere il
lettore, stimolandone un giudizio.
- La corrispondenza successiva rivelerà che “la crisi è finita” attraverso un incipit ironico che si
connette all’intonazione dell’explicit precedente.
- Democrazia in ribasso: “qui, oggi, ogni anno si faceva manifesti, discorsi, corone; invece, oggi tutto
taceva; quest’anno un gran silenzio. Stamane da tutti ci si aspettava una manifestazione: nulla di
nulla. Un popolano mi disse: a picca a picca si lu vannu scurdannu” > i catanesi hanno scordato il
senso della democrazia, che coincide con l’amor patrio e con l’orgoglio di appartenere alla
comunità.
Le successive corrispondenze da Catania raccontano la città come una realtà in evoluzione > la città che
cresce concorre al progresso economico, culturale e sociale dell’Italia unita.
- Nel settembre del 1880 Catania è teatro di un Congresso degli Alpini > DR ne restituisce un
resoconto tra l’attonito e il compiaciuto; a lunghe analisi di carattere scientifico e geologico, si
alternano pagine anche descrittive. Le pagine di DR riescono a trasformare il Congresso alpino in un
evento epocale.
- Dall’Jonio alla Conca d’oro: nel 1880 sarà completata la linea ferroviaria Catania-Palermo; DR
compie un viaggio, che racconterà in modo molto dettagliato (299 km, 306 caselli, 12 ore di viaggio,
etc.) > il cronista riporta dati corretti, numeri e descrive caratteristiche infrastrutturali della ferrovia,
la lentezza dei lavori. Alla fine, però, DR dona ai lettori una lunga pagina siciliana.
Le corrispondenze per il “Fanfulla” rappresentano la ricerca della strada. In questa esperienza si avverte
determinazione; con il passare del tempo, infatti, le sue cronache non sono solo una produzione
frammentaria, ma denotano il progetto di edificazione di Catania, che non è solo una città da raccontare,
ma è per farle un’immagine nazionale moderna e competitiva > si tratta di un progetto politico.
- Archeologia: con questo articolo DR risponde ad alcuni giornalisti che avevano definito Catania città
senza storia solo perché priva di monumenti > DR scrive “terremoti, fiumi di lava, piogge di cenere
e di fuoco; Catania vuol dire ai piedi dell’Etna > è un nome gravido di minacce terribili, che spesso di
avverano, di cui però Catania ha sempre trionfato”.
- L’ultimo contributo è caratterizzato da forte sarcasmo > ad Acireale si è celebrata una
commemorazione letteraria; DR confessa di non essere potuto andare per l’eccessiva folla che, alla
stazione, gli ha impedito di comprare il biglietto, e dice “io penso che se, fra giorni, accorresse alle
urne tanta gente quanta ne è andata ad Acireale, le elezioni amministrative sarebbero fatte bene”.
Poi, abbandona il giornale, e scrive Viceré (1894): lingua evolutiva.
Federigo Tozzi (1883-1920): quasi tutte le sue prose giornalistiche sono state raccolte in Pagine critiche, che
sostituisce la vecchia, incompleta e filologicamente inaffidabile silloge. Come prima cosa, dividiamo in:
1) 1901-1910, il periodo giovanile caratterizzato dall’anarchia;
2) 1911-1914, la svolta a destra del 1911 e il periodo della “Torre” (1913-1914);
3) 1914-1920, l’incontro con l’editoria nazionale, con i giornali democratici e con il sistema Treves;
4) 1918-1919, il lavoro al “Messaggero della domenica”, accanto a Pirandello e Rosso di San Secondo.
- 1901-1910: Tozzi viene spesso considerato “aideologico”, anche se ha collaborato con riviste politiche.
Importante in questi anni il rapporto con d’Annunzio che incarnava una concezione della letteratura come
espressione della vita; d’Annunzio è collegato all’anarchia. Nel 1910 scrive Forse che sì forse che no, in cui
apprezza non tanto il d’Annunzio maestro di stile né il romanziere, ma il poeta > è proprio il d’Annunzio
poeta della vita, della violenza e della libertà individuale che piaceva agli anarchici. L’anarchismo di Tozzi è
letterario e psicologico prima ancora che politico: la sua rivoluzione è “rivolta dell’anima”.
- 1911-1914: la fase anarchica si esaurisce alla fine del 1910; questa svolta viene messa in relazione alla
conversione religiosa di Federigo, raccontata nell’articolo La mia conversione del 1913 > la travagliata
scoperta di Dio implica una nuova immagine di sé, un bisogno di rapporto diretto col divino in nome
dell’arte e mediato dalla lettura dei mistici e di Dante; d’Annunzio non è più, agli occhi di Tozzi, l’interprete
privilegiato, e solo grazie a ciò Tozzi scrittore può trovare una fisionomia personale.
Dal 1911 al 1913 Tozzi collabora con il “Nuovo giornale” fiorentino, con la “Vedetta senese” e con
“L’Eroica”, ma la collaborazione più importante è quella a “Torre” (1913-1914). Giuliotti scrive “La torre è,
per noi reazionari e cattolici, simbolo di potenza, di regalità e di dirittura; perciò la nostra fede è un
coltello”. Si tratta di cattolici reazionari e avversi alla modernità, antidemocratici e imperialisti, che
professavano un ritorno alla purezza delle origini. La maggior parte dei suoi articoli non reca la sua firma. La
vera mente politicamente pensante della “Torre” è quella di Gioliotti, come anche la responsabilità delle
argomentazioni filoclericali; Tozzi certo ne condivide le idee, ma si trova più a suo agio tra le questioni
letterarie.
- 1914-1920: nel 1914 si trasferisce a Roma; qui collabora con “La grande illustrazione”, “L’idea nazionale”,
“Aprutium”, “Sapientia”, “Giornale di Sicilia”, “Il Tempo” di Roma, “L’Italia che scrive”, “Cronache
d’attualità”. Su questi giornali scrive tante recensioni per amici, alcuni recensiti erano autori di Casa Treves.
Il “sistema Treves” funziona perfettamente ed entra in crisi solo quando, nel dopoguerra, viene meno la
felice congiunzione tra interessi economici e politici. Nel frattempo (18-19) collabora al “Messaggero della
dom.”.
- 1918-1919: il nucleo più cospicuo delle collaborazioni giornalistiche appare nel “Messaggero della
domenica” > si tratta di una quarantina tra articoli, recensioni e brevi segnalazioni librarie, tutte firmate da
lui, che del periodico fu redattore dal primo all’ultimo numero con Pier Maria Rosso di San Secondo, sotto
la guida “paterna” di Luigi Pirandello. Sul “Messaggero” pubblica cinque delle sue migliori novelle ( La casa
venduta, Creature vili, Il crocifisso, Mia madre, I nemici) e la prosa lirica intitolata La fonte colma. Il
“Messaggero” si batte in nome della rinascita di una letteratura nazionale, contro il simbolismo e
decadentismo; rifiuta ogni spirito d’accademia, intesa come erudizione o specialismo fine a sé stesso.
L’esperienza al “Messaggero” rappresentò per Tozzi il culmine della partecipazione alla vita culturale
romana e nazionale, ma anche il momento di tangenza più significativo con l’area dell’interventismo
democratico. Il tema che torna con maggiore insistenza è il rapporto letteratura-guerra > recensione alle
Orazioni di Ada Negri; tale libro conteneva anche l’orazione funebre per il figlio 18enne di Margherita
Sarfatti morto un anno prima al fronte, in cui T. non vede un eroe di guerra, ma colui che non cercava la
bella morte ma la bella vita. Unico depositario di ideali autentici è il popolo, che del conflitto ha sofferto le
conseguenze più pesanti, ed è dunque il vero soggetto del movimento di rinnovamento > Tozzi scrive un
articolo dagli accenti populistici inaspettati; è il popolo la vera “terra sana della nostra razza”. Tozzi
populista e, come tutti i populisti, anche lui ripete di non essere né di destra né di sinistra (“non ho nessuna
idea politica”).
- Cosa c’è di attuale nella scrittura giornalistica di Tozzi?
> il paradossale autoritratto critico di Come leggo io: “apro il libro a caso verso la fine; leggo un periodo > da
come è fatto questo periodo decido se leggerne un altro” > lui non legge un libro di seguito, gli piace
gustarsi qualche particolare, qualche spunto; per capire se i personaggi sono fatti bene li deve
interrompere.
> vero capolavoro di Tozzi è Luigi Pirandello; nelle sue novelle Pirandello ha una verità astratta, la sua è la
coscienza del realismo e scrive “la sua non è una prosa che prende vita dalle parole, ma sono le parole che
prendono vita da quel che è dentro”.
> il ritratto di Fra’ Camillo Coppini, monaco che presidia in solitudine il convento diroccato di Santa Maria
sul Soratte, coltivando una sua anacronistica utopia religiosa (“spalancare la porta senza scarpe e senza
calze, con una falce in mano per mietere il fieno; dichiara di essere un uomo storico”); questo ritratto è uno
dei tanti outcast delle novelle tozziane, uno degli emarginati.
Vincenzo Cardarelli (1887-1957): nel 1936 Cardarelli scrive a un amico “spesso il bisogno di quattrini mi
forza a licenziare articoli, sacrificando le cose migliori; solo nei libri io trovo il mio riposo, il mio respiro” >
una produzione giornalistica nata da esigenze materiali. La sua presenza su riviste è assidua, spazia da
articoli cronachistici a politici, di prosa, di viaggio e di costume. Inoltre, nella lettera all’amico, nega la
propria natura di articolista (io non sono un articolista), autonegazione che va letta come un suo giudizio di
gerarchizzazione rispetto alla scrittura creativa: la dimensione giornalistica per lui si è rivelata infatti un
laboratorio di ricerca di stile a fronte di un costante lavoro di rielaborazione, tagli e ristrutturazioni. Gli
esordi giornalistici:
- I primissimi testi apparvero nel 1904 sulla rivista socialista rivoluzionaria “La Lotta”; si tratta di testi di
carattere cronachistico e politico, con i toni polemici e trattano soprattutto del proletariato dell’agro
romano, di leghe contadine e comizi di protesta locale. Seguì una breve collaborazione a “L’Azione” e “Il
Germoglio”.
- I toni accesi del Cardarelli giovane rivoluzionario cambiano di tono con il passaggio a “Avanti” nel 1909,
quotidiano socialista romano che segnò l’apice del suo tirocinio giornalistico. Per questa fase all’”Avanti” si
parla di un socialismo cardelliano nutrito di umanitarismo e filantropismo (altruismo). Il Cardarelli di questi
anni parla di un sottoproletariato agrario e cittadino mettendone in luce, ora, l’esclusione dalla storia >
negli articoli il proletariato contadino (di “La Lotta”) viene sostituito da una massa informe di poveri e
diseredati. L’approccio giornalistico è ora animato dall’interesse verso il mondo etico, valoriale, umano. Gli
incarichi che riceveva per questa testata: cronaca nera, rosa, recensioni teatrali, pezzi di costume e società.
Si fece conoscere “come uno dei più fertili imbrattacarte; il più umile fatto di cronaca diventava per me un
ottimo pretesto a divagazioni politiche, filosofiche, etc.; divagazioni che non passavano inosservate”.
Su “Avanti” scrive sulla rubrica “Malinconie romane”: appare una Roma che ostenta miseria ed
emarginazione umana sullo sfondo della maestosità delle rovine antiche o nei pressi di fastosi palazzi nobili;
o il vagabondo Beniamino, il tipo di vagabondo rassegnato, portavoce dello stato di povertà dei senzatetto
> Cardarelli, con uno stile da realismo magico, denuncia la realtà di un mondo di diseredati abbandonati a
sé stessi, che andrebbero salvati insieme al decoro di luoghi traboccanti di arte e di storia.
Su “Avanti” Cardarelli polemicizza contro la speculazione edilizia nella capitale post-unitaria, che
malinconicamente distingue dalla “vecchia Roma”; con stile ironico, si scaglia, ad esempio, contro coloro
che volevano deturpare sezioni del foro romano per collegare tra loro i palazzi dei Musei Capitolini.
- Nel 1911 lascia “Avanti” e si rivolge a realtà redazionali completamente diverse come “Voce” e
“Marzocco”, riviste fiorentine che segnano la fine della fase cronachistica di Cardarelli e danno inizio a un
approccio lucido alla storia e al suo tempo (sguardo all’Italia e alle politiche culturali).
- Gli anni dal 1912 al 1917 vedono Cardarelli impegnato su vari fronti: “Marzucco”, “Lirica”, etc.
- La produzione di articolista riprende nel 1917 nel ruolo di critico drammatico in “Il Tempo” di Roma
(rimane fino al 1919); lo stile di critico drammatico è asciutto, diretto, costretto al dato giornalistico
informativo.
- Nel 1919 fonda “La Ronda”; la produzione rondesca lo occupò fino al 1923; ambito saggistico e letterario.
- Tra il 1924 e il 1933 si registra una costante attività di pubblicazione in riviste e quotidiani nazionali;
collabora con “Il Corriere italiano” “Il Tevere”, “L’Italiano”, “L’Italia letteraria”, e altri; la gran parte dei
contributi di questo periodo sono confluiti in Parliamo dell’Italia, in Parole all’orecchio e in Il cielo sulle città.
Si tratta di articoli mirati ad esaltare la popolarità geniale dell’Italia letteraria e politica, opposta allo spirito
europeo. Su “Il Tevere” pubblica prose di storia politica con vistose aperture al fascismo > Stato popolare:
esalta il regime fascista non per le sue politiche, ma per la gloria d’aver fato all’Italia un ordinamento
conforme alla sua indole e alle sue tradizioni; l’articolo mette in luce l’importanza di aver restituito agli
italiani la forza della sua storia e delle proprie tradizioni, della sua dignità di popolo. Inoltre, riprende quel
filone di articoli in cui protagonista è Roma: la trasformazione della capitale nei secoli, le passeggiate a
Roma, noncuranze edilizie di Roma, etc.
- Anni ’40: collabora con grandi testate nazionali tra cui “Il Tempo” di Milano, “Il Corriere della Sera”, su cui
apparvero le prose che confluiranno in Villa Tarantola con il quale Cardarelli vinse il Premio Strega nel
1948. Poi collabora con “Milano-sera” e con “Il Messaggero”; nel 1949 diventa direttore di “Fiera
Letteraria”. Ormai la vena giornalistica gli esaurisce e sceglie la via della letteratura.
Mario Soldati (1906-1999): Soldati si è costruito specialmente attraverso il mezzo televisivo; è un
personaggio sfaccettato e complesso, un libertino dei linguaggi. Dalla carta stampata di giornali alla
pellicola del cinematografo, fino alla televisione: mostra così il suo naturale dinamismo. La biografia
dell’autore è costellata di frequenti viaggi, esplorazioni; l’attrazione per la fuga e l’avventura si ritrova nella
sua scrittura. Il giornalismo di Soldati è caratterizzato da: il ruolo fondante del giornale e la centralità del
viaggio.
1. La scrittura è l’attività che lui sente come fisiologicamente naturale fin dall’infanzia; l’influenza del
giornalismo sull’attività narrativa è evidente: la predilezione per la forma breve, la natura frammentaria di
alcuni libri e la vigile osservazione dell’ambiente circostante.
Negli anni ’20 pubblica racconti e recensioni letterarie, musicali e artistiche su “Il Momento” e “Il Corriere”,
giornali torinesi cattolici; nel 1928 fonda la rivista letteraria “La Libra”, per cui esce la sua prima raccolta di
racconti Salmace (1929); ma il suo libro più famoso è America primo amore (1935) che mescola reportage e
saggio, narrativa e odeporica > America si compone di una serie di testi che raccontano l’esperienza
dell’autore negli USA: voleva sfuggire al clima opprimente dell’Italia fascista, partire per un’avventura;
sbarca in America nel 1929 e torna in Italia due anni dopo non avendo trovato un’occupazione stabile >
questo tentativo fallito fa da spartiacque nella sua vita: al ritorno in patria, infatti, inaugura la sua storia con
il cinema. L’avventura per Soldati è il gusto di attraversare i confini (“ogni volta che varco la frontiera il
cuore mi batte in gola; è il piacere dell’evasione”), l’eccitazione della scoperta e l’entusiasmo per il nuovo.
Nel 1947 pubblica Fuga in Italia, in cui racconta la “fuga in Italia” intrapresa all’indomani dell’armistizio del
1943 con alcuni amici > il gruppo abbandona la Roma occupata per attraversare l’Abruzzo e la Campania
con l’obiettivo di arrivare a Napoli, andando incontro ai liberatori americani.
Nella seconda metà degli anni ’50 Soldati infittisce il suo impegno come giornalista, sia con collaborazioni
stabili sia con inchieste per la Rai. Collabora con “Il Corriere della Sera”, “L’Espresso”, “L’Illustrazione
italiana”. Anni ’60: lascia il cinema, e si trasferisce da Roma a Milano dove comincia a dedicarsi molto alla
scrittura. Collabora con “Il Giorno” e “La Stampa”; tiene il polso del cambiamento collettivo grazie alla sua
capillare osservazione e alla sua vorace curiosità. Negli anni ’60 e ’70 proseguono i viaggi:
- Crociera lungo il Tirreno, soggiorno in Grecia, in Svezia, in URSS e in Africa; molti articoli e reportage
vengono poi raccolti in Fuori (1968);
- Esplora molti territori italiani per esplorare la cultura enologia dell’Italia > Vino al vino (1977), dove
definisce il vino come “qualcosa che vive e che parte della nostra vita, non come qualcosa che sia
staccato da noi e definibile rigorosamente in sé stesso”.
Negli anni ’80 prosegue i viaggi all’estero.
2. è uno dei primi personaggi ad aver intuito la forza comunicativa della televisione, utilizzandola per
diffondere conoscenza; il piccolo schermo gli permette di combinare l’indole da esploratore con le sue doti
di affabulatore. La Rai trova in Soldati un perfetto uomo televisivo, il quale è ben lontano dal proporre
un’Italia omogenea e monolitica: la sua Italia è varia, disomogenea e ricca di bellezze. Lo sguardo di Soldati
è: da una parte nostalgico verso quei tratti che appartengono a un Paese ormai sommerso dallo sviluppo
economico; dall’altro è entusiasta i cambiamenti prodotti dalle nuove tecnologie. Programmi Rai:
- Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini: programma televisivo tra 1957 e 1958; è un
itinerario lungo il fiume italiano alla scoperta delle tradizioni, gastronomia, gente e paesaggi. Si
tratta della prima inchiesta enogastronomica mai realizzata; consente a Soldati di mettere in scena
sé stesso come esploratore, gastronomo e intervistatore. L’itinerario del viaggio è personale perché
si sofferma a lungo nel Piemonte natio, condividendo con il pubblico ricordi e aneddoti. Nella prima
puntata dice: “viaggiare è conoscere luoghi e gente, e per cominciare bisogna farlo dalla cucina;
nella cucina c’è tutto: clima, agricoltura, caccia, pesca, la tradizione di un popolo, la sua storia”. Lui
infatti va oltre l’inchiesta gastronomica e si concede frequenti incursioni nel mondo della
letteratura (es.: il commosso ricordo di Cesare Pavese in occasione della tappa nelle Langhe) > è lo
stratagemma del “falso scopo”, parlare di argomenti leggeri come il cibo per introdurre temi più
importanti.
- Chi legge? Viaggio lungo il Tirreno: programma del 1960 realizzato con Cesare Zavattini; l’itinerario
sarà dalla Sicilia alla Liguria lungo la costa tirrenica; argomento dell’inchiesta è il rapporto degli
italiani con la lettura e la diffusione del libro. Zavattini vuole dare un’impronta sociologica, ma nel
risultato finale si tratta di un pretesto per fare un altro viaggio > non per questo l’impegno
sociologico è venuto meno. Lo scopo del programma è quello di scuotere l’inerzia generale
attraverso la forza comunicativa della tv; tuttavia, non rimproverano chi non legge. Non riscuote il
successo della prima.
Negli anni ’60 e ’70 Soldati progetta altri programmi che non si realizzeranno; tra questi:
- Cantapò: tratta la scoperta delle tracce che la musica ha sedimentato lungo le sue rive; Soldati
sarebbe stato qui affiancato dalla cantante Milva. Cantapò è un viaggio anzitutto temporale: il
presente e il passato si alternano e si sovrappongono; il confronto tra il mondo perduto dell’Italia
contadina e quello posteriore al boom economico in cui la musica è la cartina del cambiamento.
L’intento è quello di usare molti effetti speciali per colpire il lettore, creando nello spettatore effetti
di shock nel sovrapporre elementi di epoche diverse. Un aspetto importante è quello meta-
televisivo: la troupe vuole essere mostrata al pubblico attraverso l’uso di un grande specchio che
rifletta l’immagine dei membri della squadra mentre sono a lavoro (omaggio alla verità).
- Dalla torre del borgo: un ciclo di film dedicati alle regioni italiane attraverso diversi contributi
autoriali; si vuole valorizzare il territorio al fine di far conoscere al pubblico l’Italia in tutte le sue
parti, favorendo così l’unificazione reale del Paese. Ovviamente i racconti/romanzi vengono
riadattati alla televisione: Soldati non perde mai di vista l’intrattenimento popolare, quindi taglia,
modifica e aggiusta i testi per renderli più fruibili al pubblico del grande schermo. Questo inedito
progetto restituisce appieno la visione soldatiana di un’Italia variegata e ricca di tradizioni e culture
diverse.
- Bacco in Toscana: vuole essere un viaggio nelle campagne toscane alla scoperta dei vini della
regione. C’è il motivo della genuinità: Soldati vuole escludere tutti i vini industrializzati, le etichette
più famose, perché vuole che si prendano in considerazione i piccoli produttori > volontà di dare
risalto alle ricchezze nascoste della penisola, a quei tesori nascosti nell’Italia più autentica. Questo
progetto dà a Soldati la possibilità di realizzare un programma sui luoghi di Dante, in occasione del
settimo centenario dantesco (1965): è un itinerario televisivo attraverso i luoghi certamente visitati
da Danti e presenti nella Commedia. Solita strategia del “falso scopo”.
Quella di Soldati è un’attività mossa dalla perpetua curiosità, sempre all’insegna dell’avventura.
Raoul Maria De Angelis (1908-1990): narratore, poeta, giornalista, autore teatrale e pittore. Grazie al
contributo di Vincenzo Paladino: madre di origine albanese e padre di origini greche; frequenta le scuole a
Catanzaro e l’università a Roma, dove si laurea in Giurisprudenza. Nello scrittore si riscontra la compresenza
di due culture: una più reale, naturale, propria della regione di nascita; una più ufficiale, scolastica, che si va
arricchendo via via nella vita. Importanti, per la comprensione di Raoul, sono la pittura e la religione
cristiana. Paladino scrive: “il suo cristianesimo è biblico, primitivo, impregnato di elementi pagani: il
demonio e un oscuro senso del peccato”.
Piromalli: “Spirito anticonformista, neorealista, che pone al centro gli oppressi, gli emigranti, i perseguitati.
La pittura è uno dei suoi modi espressivi per manifestare la nostalgia di un mondo mitico e favoloso. (Come
vedremo) dalla narrazione passa al romanzo saggio, in cui usa le notazioni del giornalista”
Analisi della poetica: importante il debito verso Pascoli e D’annunzio; inoltre, sono presenti le immagini
nella sua poetica > vuole quindi insistere sulla dimensione pittorica della sua narrativa: una narrativa
pittorica basata sul figurativismo e sulla materializzazione visiva del racconto. Scrive “io, per origini, sono
incline per natura alla favola, al mito, ai ricordi bizantini” > tutto ciò è presente nella scrittura e nella
pittura.
Narrazione: De Angelis esordisce con Palude in inverno (1936), a cui segue Oroverde (1940) e La peste a
Urana (1943); poi ci sono i romanzi saggi: Amore e impostura (1950), sulla guerra; Panche gialle e Sangue
negro (1951), considerati volume unico: il primo sulla persecuzione degli ebrei in Germania, il secondo sulla
discriminazione razzista verso i neri in Brasile.
Nel 1929 De Angelis si stabilizza a Roma, collabora con varie testate giornalistiche: “Il Messaggero”, “Il
Giornale d’Italia”, “Il Gazzettino”, “Il Tempo”, “L’Ambrosiano”, “Il Resto del Carlino”, “Osservatore Romano”
e altre; importanti anche le collaborazioni artistiche con “La Folla”, “Il lavoro illustrato” e “Nuova
Antologia”. Qui ci soffermano sulla collaborazione con “Osservatore Romano”, dal marzo ’64 a dicembre
’68, quotidiano della Santa Sede; si tratta di un corpus interessante suddivisibile in tre categorie: articoli
d’arte, reportage di viaggi e racconti vari.
Gli articoli a tema d’arte
- Il ritratto di Scipione a trent’anni dalla morte: un ritratto forte e sentito; De Angelis carica la pagina
di enfasi e retorica > “Scipione arse ma non si ridusse in cenere, dalla sua cenere può rinascere”.
- Picasso questo sconosciuto: lo stile giornalistico critico di De Angelis assume un tono più oggettivo e
distaccato; loda la grandezza straordinaria di Picasso. Stesso discorso vale per Chagall e Van Gogh.
- Ricordo di un critico: stile diverso per questo articolo per Emilio Cecchi > vero e proprio esempio di
fuoco amico, costruito con garbo ed eleganza, ma netto contro il critico, contro le limitazioni che ha
portato in molti giovani scrittori, contro la dimensione totalmente saggistica della sua opera.
Inoltre, non va dimentica che Cecchi rivolse più di una critica all’opera di De Angelis.
- Il mito di Parigi: è in sintonia con la critica e il metodo di analisi di Giovanni Macchia.
I reportage di viaggi esaltano a grandiosità storica del passato e della gloria della tradizione del luogo:
- Introduzione alla Sardegna: ad oggi eccessivo nella forma e nel contenuto, una Sardegna che non
conosciamo, anche se sicuramente negli anni ’60 era realmente così arretrata > “Che terra è mai
codesta? Pietre, granito, rocce, animali preistorici”.
- Taccuino Olandese: ritratti fortemente emblematici dei luoghi e della psicologia della nazione.
Scrive: “le tendine delle finestre di queste abitazioni a pianterreno sono accostate in modo da
permettere ai passanti di vedere quello che vi accade dentro. Dai nitidi vetri si scorge all’interno
una pulizia inverosimile, di un ordine inalterabile, di una pace diffusa”.
- I reportage sull’Italia: Roma, Ischia, necropoli di Tarquinia, Venezia, Ostia Antica, Grotte di Castro.
- Reportage sulla Germania relativo a un viaggio alla scoperta delle nuove Chiese dopo la seconda
guerra mondiale > la Germania, dopo la dittatura, inizia a vedere la luce della libertà.
I racconti-articoli:
- Le ricche descrizioni degli ulivi calabresi o delle distese dei campi grano > l’ulivo, come il grano,
sono simboli che vengono esaltati e valorizzati nelle loro dimensioni mitico simboliche.
- Viaggio a Kirzath: pur nella veridicità dei fatti, il racconto procede nella dinamica del racconto, con
squarci paesaggistici e introspettivi.
- Apparizione di Gerusalemme: dove lo scrittore confessa di aver sognato il racconto, un viaggio
onirico attraverso i luoghi sacri del Presepe.
- Messa a San Marco: introspettivo, con profondi significati cristiani; è la cronaca di una Messa cui lo
scrittore partecipa nella cattedrale di Venezia. Ha la natura di una riflessione sul sentimento
cristiano e sul rapporto che l’uomo ha con la Fede e con Dio.
- Ritratto di Pio XII, sentito e commosso; la forza di questo scritto sta nei piccoli dettagli che aprono
significati immensi, come ad esempio la commozione della gente al passaggio del Pontefice e la
fragilità del volto del Papa, che appare come un umile prete, un sacerdote al servizio degli uomini.
Impressione globale: abilissimo scrittore, dotato di grande cultura classica ed europea.
Giorgio Caproni (1912-1990): uno dei primi narratori della Resistenza; la sua attività critico-giornalistica
inizia nel 1933 e termina negli ultimi anni della sua vita. La sua produzione si sviluppa in più direzioni: da
scritti vaganti e occasionali a molte recensioni di prose e poesie italiane e straniere; anche testimonianze
storiche e sociali; i racconti dei suoi viaggi mappano i suoi spostamenti e danno una storia della letteratura.
La sola interruzione è segnata dalla seconda guerra mondiale. Al periodo prebellico risalgono importanti
recensioni ad autori che ritroveremo dopo la guerra, come Mario Luzi, Libero de Libero, Alfonso Gatto e
altri; in questo periodo collabora con “Santa Milizia”, “Il Popolo di Sicilia”, “L’Araldo letterario”, “Augustea”
e altre.
Nei primi anni ’40 si allargano i contatti di Caproni sul fronte della prosa giornalistica; nell’ambito critico-
giornalistico, collabora con “Domenica” e “Aretusa” con recensioni e pezzi fra cronaca e diario, come
l’articolo Lettera da Genova in cui l’autore descrive la città nei primi giorni della Liberazione. Nel 1946 fa
dei resoconti sulla vita delle borgate romane pubblicate su “Il Politecnico”; scrive articoli di carattere
politico su “Avanti” e pezzi letterari su “La Tribuna del Popolo”. Collabora per 15 anni con “Fiera” (47-55 e
56-60) > per “La Fiera” ha modo di leggere molti libri soprattutto sulla poesia, alternando recensioni e pezzi
più importanti dal punto di vista della teoria. Nel 1948 frequenta giornali socialisti come “Mondo operaio”;
tra il 49 e il 56 pubblica su “Il Lavoro nuovo” dove escono letture di novità librarie. Negli stessi anni
collabora con “La Repubblica”, “Voce Adriatica” e “Alfabeto”, ma anche “Il Belli”, “Il Caffè”, “Letteratura”,
“Il Punto”, e altri. Dal 1970 la produzione giornalistica di Caproni diminuisce molto, riducendosi a
presentazioni di autori giovani, interviste, ricorsi e qualche saggio > questo avviene su riviste prestigiose,
quali “Il Tempo”, “L’Espresso”, “La Stampa”, “Nuovi Argomenti”, e altri.
Linguaggio poetico e traducibilità: l’interesse per la linguistica risale alla metà degli anni ’40.
In Il quadrato della verità teorizza la consistenza della realtà del verbo come indipendente; la realtà del
verbo riceve consistenza dal potere di suscitare emozioni e sarebbe la causa di un cambiamento nel
ricevente. Inoltre, è importante la questione della traducibilità della poesia, sulla quale graverebbe un
equivoco originario che prevede che “prosa e poesia, per il fatto che usano lo stesso mezzo (la parola), sono
considerati generi distinti di una stessa arte, mentre in realtà esse sono due arti ben separate; stanno fra
loro come sta la pittura alla musica”.
L’anno 1946: Caproni, con degli articoli, rivolge lo sguardo alle urgenze della contemporaneità.
- Due articoli apparsi su “Il Politecnico” in cui si dà la descrizione delle borgate romane (Pietralata e
Tiburtino III), scendendo alle cause di quegli agglomerati fatiscenti; descrizione delle unità abitative
e delle condizioni di vita > “Case? Ma con quale cuore si possono chiamare case questi asili di
fortuna; borgate romane, luoghi inventati, non nati dalla naturale storia degli uomini; l’acqua
manca ai servizi domestici, mancano le fognature, e spesso manca un tetto al lavatoio comune” >
mancanza di acqua corrente, precarietà delle abitazioni, mancanza delle infrastrutture elementari,
povertà, disoccupazione, marginalizzazione, difficoltà degli spostamenti. Evidente il punto di
contatto con le opere di Pasolini; continua “a Pietralata i ragazzi sono scalzi, e sono tra le piccole
case in una folla eccitata in continue pazze fughe e in gran clamori; con null’altro addosso che una
camicina piena d’enormi lacerazioni e un paio di pantaloncini senza neanche un bottone; non c’è
altra scuola all’infuori della più nera fame; urli e risse”.
- Tre articoli sul dopoguerra usciti su “Avanti” offrono una tagliente cronaca del primo dopoguerra.
1. Si sofferma sul “terrore rosso”, nato da un equivoco storico maturato dalla dittatura, e cioè
l’allargamento dell’etichetta ‘borghesia’: “il rosso incute un sotterraneo terrore alla borghesia; è un
luogo comune e, come tutti i luoghi comuni, copre una verità che ha la sua ragion d’essere; quanti
di colori che si ritengono borghesi, e perciò minacciati dal rosso, sono veramente membri della
borghesia? Il fascismo ha reso equivocabile il termine ‘borghese’ per cattivarsi le masse popolari” >
invita a non confondere la piccola borghesia con la vera borghesia contro cui il marxismo si è
rivolto. 2. Tratta dell’8 settembre del 1943 (armistizio di Cassabile firmato da Badoglio con gli
Alleati), data che in Italia ha rappresentato una possibilità di rinascita sociale, con conseguente
affratellamento del popolo che ha rivelato una resistenza interiore.
3. Affronta il problema del referendum del 2 giugno 1946 (nascita della Repubblica Italiana); “la
scelta non è proprio fra monarchia e repubblica, ma fra assoluzione e condanna di una monarchia
collusa come il fascismo, e chi sceglie monarchia sceglie il passato, l’errore passato, sceglie la
probabilità sempre aperta di una nuova dittatura”.
Sulla scuola: nella sua attività giornalistica c’è anche un piccolo spazio che rivendica il suo mestiere, ovvero
il maestro elementare; affronta il tema del pregiudizio intellettuale nutrito gratuitamente verso quello che
lui definisce onesti partigiani della cultura > “il giudizio che il maestro elementare sia un ignorante ha
trovato troppe eccezioni nella mia esperienza diretta; non lo posso accettare, soprattutto perché ho
conosciuto tra gli ambienti più elevati della burocrazia un più grande analfabetismo culturale (“dottori”
statati)”. Caproni crede che la preparazione dei maestri si debba all’inesauribile curiosità, legata all’umiltà.
Viaggi e reportage: Caproni racconta i suoi viaggi principalmente su “La Giustizia” (collaborazione 60-63).
Un tema particolare è quello del Sud Italia: il meridione è la verifica dell’avanzamento della civilizzazione
nella parte più povera dell’Italia; ha fiducia verso le possibilità che il Sud possa trovare “il Mezzogiorno sta
imparando a scrivere, a uscire dal proprio analfabetismo, primo passo per l’emancipazione”. Ad esempio:
Calabria: passando dall’immagine di una regione vecchia e immobile alla speranza di un futuro migliore;
due articoli sulla Sardegna, in cui ricorda una visita; due articoli sulla Sicilia, in cui disegna una città
abbandonata a sé stessa e scollegata al resto dell’Italia, in cui combatte l’editore Sciascia che dà buone
speranze alla città. In questi articoli il paesaggio è il vero protagonista della narrazione.
Caproni pubblica anche articoli inerenti alla visita al campo di sterminio di Auschwitz: racconta con
semplicità le sensazioni provate (soprattutto vergogna e senso di colpa); si sofferma più volte sul congedo
della guida, come fosse un ammonimento “andate a raccontare alla vostra gente quanto avete visto, ma
senza metterci una piuma in più di passione. Siate giusti quanto lo sono stato io”.
Vasco Pratolini (1913-1991): l’asse portante delle sue opere sarà l’origine umile e fiorentina.
- L’esperienza al “Bargello”, settimanale della Federazione del Fascio di Firenze, inizia nel 1932 e si rivela
per il 19enne un tirocinio politico-culturale dove impara a declinare le proprie ideologie del fascismo di
sinistra; su “Bargello” spazia dall’attualità politica alla terza pagina (dove scrive recensioni su arte,
letteratura e cinema); dà spazio alla contrapposizione tra sistema sovietico e fascista, e alla politica
culturale del regime.
- Collabora dal 1937 al 1938 con “Critica fascista”, il quindicinale del Fascismo dove Pratolini porterà avanti
le proprie istanze per una cultura anticlassica; lo stile è schietto, vitalistico; su “Critica fascista” scrive
l’articolo Fine della polemica, titolo provocatorio a cui segue un’aspra critica che Pratolini rivolge a sé stesso
e ai propri coetanei, tutti rei di essersi persi nella polemica di “esercizio dilettantistico”, che li aveva portati
ad assumere una posizione reazionaria e funzionale agli interessi borghesi (è una polemica nella polemica);
Pratolini individua una soluzione “La forma migliore dell’antiborghesismo si ottiene misurandoci con serena
coscienza al metro del lavoro”. La crisi è totale, così come lo è la necessità di revisione delle proprie idee,
che secondo Pratolini deve passare per lo studio, il lavoro.
- Nel 1938 collabora con “Campo di Marte”, quindicinale di azione artistica e letteraria, punto di incontro
degli ermetici fiorentini e baluardo del linguaggio cifrario; esperienza importante per i risvolti stilistici sulla
prosa pratoliniana. Nonostante il carattere letterario e culturale della rivista, Pratolini parla di politica e, un
po’, anche di cultura. Abbandona l’apologia dell’ordine (propria del fascismo) ed esalta la crisi come
occasione di miglioramento sociale. “Campo di Marte” non raggiunse mai il grande pubblico soprattutto
perché nel 1939 venne chiusa dalla censura fascista a causa delle pretese anticonformiste della rivista.
- Nel 1939 vive la tensione tra il precedente impegno nella cronaca e il posteriore distacco; la produzione si
concentra su temi via via sempre più letterari e artistici. Nel 1939 muore la nonna, per questo abbandona
Firenze per andare a Roma. Così ricorda quel periodo “no, i soldi non bastavano, bisognava scrivere elzeviri,
non più articoli, perché allora erano di moda” > una scelta vantaggiosa sul piano economico. Importante la
polemica contemporanea pubblicata su “Antieuropa” Il voi è italiano per la pelle in cui afferma che “il voi è
troppo letterario, il tu è più originale, è intimo; arriveremo al tu e al Tu; è un ordine educativo”.
- Dal 1940 al 1943 scrive su “Beltempo”, “Le Arti”, “Letteratura”, “La ruota”, “Libro italiano del mondo”; nel
1941 inaugura un nuovo settimanale “Il Ventuno-Il Domani”. Importante, in questi anni, è l’articolo
intitolato Attendere gli ordini, in cui Pratolini confessa il definito rigetto del fascismo e di quella sua
giovanile adesione. Inoltre, in un articolo del 1943 rifiuta la concezione della “letteratura come vita”: “non è
dal lavoro che può venirci la felicità, io voglio essere uguale ai miei simili. Io voglio riacquistare il mio cuore
fra gli uomini, parlare di loro nella fatica che ho accettato vivendo: lavorare ma non parlandone; io non
voglio ridurre a una tecnica il mio cuore” > l’intervento risulta rilevante in quanto rifiuta il disimpegno in un
momento storico importante; inoltre, questo articolo è il preludio alla successiva partecipazione di Pratolini
alla Resistenza (dal 1943).
- Dal 1944 al 1946 partecipa al periodico “La Settimana”, del quale diventerà direttore nel 1945. Bisogna
segnalare due interventi: 1) il servizio sul caso Rina Fort, vicenda che ebbe una risonanza mediatica enorme
se si pensa che sotto il fascismo la cronaca nera era stata vietata e solo adesso poteva tornare sui giornali.
Fort uccise in casa loro la moglie dell’amante e i suoi 3 figli > delitto effettato che attirò molto il pubblico.
Pratolini si concentra su “perché ha ucciso?” e scrive “ogni gesto, anche scellerato, si spiega nella misura
dell’umano; i sentimenti soverchiano la ragione. Ella non era una criminale, non era fisicamente tarata”; un
perché c’è sicuramente stato e Pratolini lo ricerca raccontando la vita di Fort dall’incontro con l’amante fino
al giorno dell’omicidio > scrive “era una signora che si fa la permanente, il manicure; sa muoversi tra gli
uomini, tra cui Pippo (l’amante); Pippo era preso di Rina; ma adesso lei era cambiata, aveva perso la risata
piena, il gusto di canzonare, la sua espansività; era scontrosa come una bestia ferita che rugge. Pippo la
incontrava ancora”. 2) l’inchiesta che fa raccontando la situazione della Firenze contemporanea > “i
fiorentini sono faziosi, beceri, geniali. La crudeltà dei fascisti fiorentini è leggendaria; i fiorentini sono la
peste d’Italia; a Firenze il marcio cola più fetido”.
- La pubblicazione di Cronache di poveri amanti nel 1947 consacra Pratolini scrittore; ritorna sul giornalismo
negli anni ’60 intervenendo su fatti attuali: Olimpiadi a Città del Messico, “morte del romanzo”, amici morti.
Lalla Romano (1906-2001): Cesare Segre ricorda l’articolo su “Giustizia e libertà” subito dopo la
Liberazione, poi collaborazioni regolari a “Il Giorno” (1973-1975), a “Il Corriere della Sera” (1983-1984 e nel
1987) e a “Il Giornale nuovo” (dal 1988) > articoli che parlano di scrittori amati e di scrittori amici, anche
di viaggi, film e problemi attuali. Segre ricorda Un sogno del Nord (1989), una raccolta di elzeviri,
testimonianze, brevi racconti pubblicati tra anni ’40 e anni ’80 su quotidiani e riviste; l’escursione
temporale è notevole e l’autore scegli non organizzarli in ordine cronologico, eclissando le date e spiega
che “i testi sono in grado di resistere alla distanza, non rischiano l’oscurità per mancanza di referenze
storiche” > questo dimostra l’assoluta, quindi resistente, natura letteraria; l’assenza di date è tipica delle
opere narrative (a margine di capitoli, etc.), tipica in Lalla romano per l’insofferenza per gli schemi (>
sovrana libertà).
Lalla Romano lettrice: quale era il suo rapporto con il giornale fisicamente inteso? Come lo sfogliava? La
risposta è nell’articolo La luna ‘d Muncalè (in Un sogno del Nord): Lalla ricorda che, all’epoca studentessa,
andava a comprare i giornali per il prozio (il matematico Giuseppe Peano); poi, continua e torna a
raccontare il presente e si chiede cosa legge nei giornali; ammette che “le notizie importanti devono esserle
segnalate poiché a lei dei giornali saltano agli occhi certi particolari” e fa l’esempio del caso Montelera
(politico italiano rapito da banditi e tenuto prigioniero in un bunker).
Come recensiva un libro? Dagli anni ’70 in poi collabora alla terza pagina de “Il Giorno” su cui scrive delle
recensioni. La recensione non ha, per lei, nessuna regola: è lei a modellare la recensione a suo piacimento;
approda sì sempre a una sintesi e a un giudizio, ma il percorso per farlo è imprevedibile e non risponde alle
consuetudini del genere recensione. Usa lo spazio della recensione per scrivere di sé. Il libro ha preso come
esempio esplicativo la recensione su Monsieur Proust di Céleste Albaret, in cui si evidenziano diversi
elementi ricorrenti nelle recensioni firmate da lei, tra cui:
- Esplicitazione dell’occasione specifica (trovandomi in Francia, ho assistito a un dibattito, etc.);
- Presentazione per rapidi cenni dell’autore e dell’opera;
- Posizione pregiudiziale rispetto all’oggetto dell’analisi (ero prevenuta: informata, ma prevenuta);
- Connessione della lettura con elementi del proprio vissuto, anche quotidiano (avevo il libro già con
me, ero in macchina, avevo appena cominciato la lettura);
- Connessione della lettura con elementi della propria biografia;
- Sintesi del giudizio, quasi fosse una sentenza (non è un’opera d’arte; è un po’ pesante, ripetitivo);
- Proposte di correzione (se non ci fosse stato questo, il libro sarebbe stato più bello);
- Uso frequente delle interrogative (Proust aveva bisogno di questo?)
- Confronto/polemica con altri recensori;
- Marcata personalizzazione; uso di categorie estetiche e principi generali; tendenza aforistica;
- Chiusa sentenziosa, quasi fulmen in clausola.
La ricerca dell’essenziale: ricordiamo il testo dedicato al suo maestro di pittura Felice Casorati, in parallelo
alla versione riproposta 60 anni dopo in Un sogno del Nord > si notano aspetti interessanti: nel primo
Romano presentava Casorati e i suoi allievi con una prospettiva esterna al gruppo di cui era parte; nella
trascrizione, propone le parole del maestro, alternandole a passaggi in cui spiega le ragioni della
approvazione o meno di Casorati nei confronti di questo o quell’allievo; scrive “il Maestro distrugge i suoi
(di un qualsiasi alunno) concetti di realtà e vi sostituisce quello di ricerca dell’essenziale” > Romano taglia le
parti destinate a paragrafi e spiegazione dei giudizi di Casorati; la Romano scrittrice si concentra sulla
ricerca dell’essenziale.
Inoltre, è stato ritrovata la bozza di un articolo con correzioni autografe; si tratta della recensione ai
racconti di Michele Prisco (La provincia addormentata, 1949) > il preambolo pubblicato, nella bozza
cancellata, proseguiva ulteriormente; cancella e ridimensiona. È interessante vedere il suo lavoro.
Manlio Cancogni (1916-2015): l’attività giornalistica inizia nel 1944 e prosegue fino al 2003; 60 anni di
attività che si intreccia con quella narrativa, aperta da Delitto sullo scoglio (‘42) e chiusa con Sposi a
Manhattan (‘05). - Nel 1944, nel momento in cui gli Alleati arrivano a Firenze (dove vive), gli viene affidata
la redazione del giornale del Fronte della Gioventù; poco dopo inizia a lavorare a “La Nazione del Popolo”,
collaborazione che gli rivela la possibilità di fare il giornalista di mestiere. (Cancogni è antifascista). Nel 1945
collabora a “L’Italia libera”; tra ’46 e ’47 a “Mondo d’oggi” e a “Il Popolo” di Milano; il 1947 coincide con la
redazione del democristiano “Il Mattino dell’Italia centrale”; tra ’50 e ’52 si trasferisce a Milano dove
pubblica l’intervento su don Zeno Saltini: don Zeno ha appena ricevuto a Roma la comunicazione del
decreto del Santo Uffizio con il quale viene allontanato dalla Comunità di Nomadelfia, da lui fondata per
accogliere bambini orfani; Cancogni immagina il ritorno di questo sacerdote (scomodo per lo stato) nella
sua Comunità.
- Tra il 1955 e il 1965 collabora a “L’Espresso” > filo conduttore principale dei suoi articoli è lo sport, ma
anche cronaca e politica; inoltre, scrive articoli che riguardano la Francia (dal ’59 al ’63 vive a Parigi);
reportage come inviato; passa anche attraverso temi come la Resistenza, il Risorgimento, Giuseppe Verdi, la
prima guerra mondiale, e dialoga con alcuni amici e colleghi. Vediamo alcuni articoli:
> Quattrocento miliardi: un articolo sul simpatico sindaco che governa Roma con il sorriso stampato
sulle labbra; Cancogni parla con politici e tecnici, raccoglie informazioni e arriva alla conclusione di
una vicenda di corruzione legata alla speculazione edilizia capitata proprio dal sindaco in questione,
che, appunto, nasconde molto dietro quel sorriso.
> Cicicov in Campidoglio: documenta l’anarchia urbanistica della Capitale in mano a un gruppo di
politici che hanno fatto affari; ha come occhiello quella che diverrà una delle frasi celebri del
giornalismo “Capitale corrotta = Nazione infetta”.
> Capitale corrotta: riguarda le aree fabbricabili di Roma; collegato all’articolo precedente.
Per “L’Espresso” scrive anche articoli in momenti di lutto nazionale, legati al mondo della politica, della
cultura e dello sport, in cui la scrittura si fa intensamente lirica (es.: nel 1964 racconta il funerale di Palmiro
Togliatti, guida storia del PCI); articolo, in questo senso, importante è quello scritto in occasione della morte
del pittore Gianni Morandi: descrive la casa bolognese (dove l’artista ha vissuto con le tre sorelle e dove è
esposto il corpo reso irriconoscibile dalla malattia); ripercorre la vita dell’artista; ripensa al ruolo che
Morandi ha avuto nell’arte per la generazione di giovani “era uno che guardava al fondo delle cose e
spogliandole dell’esteriore (ciò che è aneddoto, sentimentalismo), ce le restituiva nella loro verità eterna”.
- Tra 1967 e il 1968 collabora a “La Fiera Letteraria”, il cui editore è Rizzoli che Cancogni ristruttura
profondamente > qui firma molti articoli con lo pseudonimo Carpendras, scelto in omaggio ad Antonio
Delfini che in un suo racconto presenta un personaggio che ha mandato in rovina la sua famiglia un tempo
benestante e che fa qualsiasi lavoro per guadagnare soldi da spendere nel ristorante preferito (e scrive
“eccomi, io entro, e sono l’evasivo signor Carpendras”); gli articoli firmati Carpendras si concentrano su
sport, letteratura, politica, spettacolo, ambiente.
- Tra il 1969 e il 1977 collabora con “Il Corriere della Sera”, esordendo con un articolo scritto dagli Stati Uniti
e dedicato alla morte del suo cane; per questa testata segue i mondiali di calcio in Germania del 1974 e le
Olimpiadi di Montreal due anni dopo.
- Le ultime importanti collaborazioni sono: “Il Giornale” (83-93), “L’Osservatore Romano” (1998-2003).
- Un posto rilevante lo occupano gli articoli dedicati allo sport; definisce lo sport come l’arte dell’età
contemporanea, e afferma che è difficilissimo scrivere di sport, anche se spesso i giornalisti sportivi sono
considerati una sottospecie della categoria. Fa interventi inerenti al calcio, pugilato, ciclismo, atletica,
ippica, sci, automobilismo > nessuno sport è rimasto fuori perché è proprio lo Sport in senso assoluto ad
interessarlo: il gesto atletico per lui è una forma d’arte, capace di generare emozioni estetiche, e la gara
assume nei suoi racconti dimensioni epiche, fatte di sforzo, fatica, lotta. Cancogni, raccontando di sport,
permette al lettore di immaginare ciò che non ha visto con i suoi occhi: scruta i volti dei protagonisti, ne
descrive le espressioni facciali, narra i loro movimenti e i loro sforzi.
Angelo Maria Ripellino (1923-1978): la sua attività giornalistica è connessa in modo indissolubile alla
parabola libertaria che coinvolse Praga negli anni ’60 (Praga è invasa dai Russi che vogliono conquistare il
territorio), in particolare: al suo rinascimento culturale che prepara l’ascesa di Dubcek; carri armati
sovietici; il senso di sconfitta, le amarezze, la rabbia, la lotta. Ripellino racconta ogni singolo episodio con
mix di cronista e di poeta: del primo assume la lucidità descrittiva, l’aderenza ai fatti, la missione
informativa; del secondo, l’urgenza, il timbro.
Ripellino pubblica principalmente su riviste culturali e letterarie, su cui scrive traduzioni, saggi e recensioni;
tra queste “La Fiera Letteraria”, “Il Contemporaneo”, “Il Verri”, “Nuovi Argomenti”; noi ci concentriamo sui
reportage scritti da Praga per “L’Espresso”. L’attività su “L’Espresso” può essere suddivisa in due: una parte
riguarda le recensioni a libri e spettacoli teatrali; un’altra gli interventi sulle vicende cecoslovacche > questo
secondo settore è ulteriormente divisibile in: articoli a tema generico e i reportage da inviato (1° persona).
Questa attività è concentrata in soli tre mesi: luglio e agosto 1968, aprile 1969.
Dopo l’incontro tra i paesi del Patto di Varsavia e la Cecoslovacca (che porta all’invasione sovietica),
Ripellino scrive “Vengono i brividi alla schiena se si pensa che fanno la fila per la libertà”. L’io, la voce: in
rapporto all’io, alla voce, si assiste a una dialettica complessa; una voce di nessuno e di tutti; un io che gioca
a un sofferto nascondino che però riusciamo a tanare; e poi, l’improvvisa scomparsa dell’io e, infine, il
modo geniale in cui l’una emerge e l’altro si riassorbe. Gli umori descritti non trasudano mai direttamente
dal narratore, ma vengono desunti dal contesto, in modo da far sembrare che chi scriva ne sia coinvolto
come per contagio. La sua voce si appiana, è ipotrofica (magra): lo dimostrano vari elementi come le
formule impersonali, la sermocinatio (figura retoric che prevede, durante una discussione, nel far finta di
inserire un terzo elemento).
Nel 1963 scrive su “L’Europa letteraria” > confronto con “L’Espresso”: si tratta di due contenitori (periodici)
simili, ma uno a vocazione letteraria e l’altro no; in “L’Europa letteraria” l’autore può spudoratamente
emettere la sua voce, esporsi senza vincoli, mentre su “L’Espresso” (reportage praghesi) deve modulare il
volume. Un caso di questa cautela è rappresentato per le “voci” dei protagonisti della Primavera di Praga e,
in particolare, quella di Dubcek. La “voce” di Dubcek è una delle poche degne di essere ascoltata e quindi,
l’unica legittimata a sostituire la sua; l’autore ne cattura il timbro calmo, sicuro e rassicurante. Il poeta
sembra sparito nel nulla, si palesa in modo obliquo rispetto alla narrazione; non divampa, ma si nasconde
tra le righe, rendendosi individuabile per indizi > quali? La ritrattistica ripelliniana, le similitudini, le
metafore, le analogie, le anafore e gli elenchi, l’uso delle interrogative, le parole composte, l’antonomasia e
l’ironia.
Per ritrattistica si intende un luogo testuale, di solito breve, in cui egli accosta sostantivi e immagini per
immobilizzare l’essenza del soggetto cui si rivolge (esempio: a proposito di Dubcek, “la sicurezza simpatica”;
oppure riferito a Novotny “la grossolana insipienza”). Le iterazioni (ripetizioni) le ritroviamo ad esempio in:
“le lettere che approvano … le lettere aperte … lettere di istituti …”. Moltissime le interrogative: a volte
prendono la lunghezza stessa del verso (come versi-domanda), oppure l’intera strofa.
- Ripellino-inviato osserva, giudica e riporta tutti gli avvenimenti con ammirevole fedeltà > La densità
morale: Ripellino dichiara di rado la sua posizione politica, e quando capita, non lo fa mai con proclami, ma
solo per lapilli e brevi fraseggi; lavora da intermediario, perché, nel rispetto della funzione da inviato, sa che
il suo compito è raccontare i fatti, non sé stesso o i suoi giudizi. È in altri posti che manifesta apertamente il
suo pensiero, da che parte è schierato e per quali ragioni (nei reportage riporta solo la cronaca).
Tre protagonisti e due miti: nei suoi reportage traspaiono tre entità benefiche: giovani, popolo e
intellettuali. – i giovani sono chiamati in causa fin dal principio; sono forza rivoluzionaria, cosciente di sé e
da sé formatasi; un soggetto politico vivo e determinante. Ripellino è attento al movimento protestatario
dei giovani, per questo racconta il gesto estremo del 1969 da Jan Palach, un giovane divenuto, suo
malgrado, un mito della Primavera di Praga; Palach, secondo Ripellino, non è un semplice suicida, ma un
patriota che ha deciso di sacrificarsi per il proprio paese > il suicidio della giovinezza. La gioventù è eroica,
agli occhi di Ripellino, perché si prende in carico la Storia, la assimila, la incarna, e poi la dà al rogo > è in
questo climax che sta tutto il senso di quel gesto.
- del popolo, Ripellino risalta la capacità rivoluzionaria, che si misura secondo l’originalità dei modi scelti per
combattere. Vengono ammirate le armi: i cecoslovacchi, al posto della violenza, usano la pazienza, la calma
e l’autocontrollo; una resistenza dura sì, ma mai violenta, contraddistinta da un uso pacifista
dell’intelligenza. Il popolo di Praga resta saldo, senza cedere agli impulsi distruttivi; resta integro e vigile, sia
in qualità dell’azione sia nella capacità di leggere le mosse dell’una e dell’altra parte politica. Esalta la
tenuta, l’unità. Dubcek è sempre ritratto insieme al popolo: prima della sua tragica crisi, era il leader di tutti,
e lo è stato proprio perché la sua proposta politica coincideva con il volere generale; per questo consenso
unanime, Dubcek, insieme a Palach, è da considerare il mito della Primavera di Praga.
- gli intellettuali, ovvero i giornalisti, scrittori, poeti, registi, sceneggiatori; l’intellettuale ricopre un ruolo di
intermediazione importante per la rivoluzione e la società.
Mario Rigoni Stern (1921-2008): la sua attività giornalistica inizia nel 1955, dopo due anni dal suo esordio
letterario con Il Sergente nella neve (vincitore del premio Viareggio), e prosegue fino alla metà degli anni
’60 con scritti legati all’esperienza di guerra, alla caccia, all’Altopiano di Asiago (dove nacque e visse); in
questi anni, collabora con “Il Contemporaneo”, “Pirelli”, “Il Ponte”, “Epoca”, “Avanti”, “Candido”, e altri.
Nel 1962 esce il suo secondo libro, Il bosco degli urogalli, vincitore del primo Puccini Senigallia.
- Dal 1964 al 1974 collabora con “Il Giorno”, dove racconta ancora di guerra e di alpini; inoltre, pubblica
articoli polemici in cui si interroga sull’incapacità del mondo politico di far fronte ai problemi della
montagna e dei suoi abitanti; alcuni articoli sono dedicati al turismo moderno, invadente, distruttivo per il
territorio; racconta anche due viaggi: il primo tra le Alpi, alla ricerca dei veri paesani che ricordano come
fosse la vita in montagna di un tempo; il secondo in Russia, nei luoghi in cui aveva combattuto durante la 2°
guerra mondiale.
- Dal 1974 al 1975 collabora con “Il Messaggero”; qui racconta un secondo viaggio fatto in Russia insieme a
un gruppo di giornalisti invitati a visitare i luoghi della guerra partigiana a 30 anni dalla conclusione.
- Dal 1976 al 2008 (anno della sua morte) collabora con “La Stampa” > la produzione è corposa, ricca e varia
nelle tematiche e di pregevole qualità letteraria. Durante questi anni, pubblica anche su altri periodici.
Un macrotema importante dei suoi articoli è la storia; la conoscenza della storia gli deriva da esperienza
diretta e da approfondimento costante.
- Un ampio corpus è dedicato alla 1° guerra mondiale > l’Altopiano è stato uno dei territori italiano
più feriti dalle battaglie, e Stern decide di raccontare alcune battaglie combattute proprio lì.
Racconta, ad esempio, la storia del generoso don Titta Lepre che, durante una battaglia, si impegna
per offrire soccorso e speranza ai suoi parrocchiani e che riceve in cambio un rimprovero da un suo
confratello a causa del suo aspetto poco curato. Spesso, negli articoli dove narra la guerra, la
battaglia rimane sullo sfondo e si dà risalto alle figure portatrici di lealtà, solidarietà e rispetto.
Oppure, racconta il primo bombardamento su Asiago: i soldati che lasciano le trincee sulle
montagne vicine per correre dalle loro famiglie; e i profughi in lacrime che lasciano il paese con,
negli occhi, la croce del campanile che, colpita da una bomba, avvampa di rosso e crolla. Una
costante degli articoli in cui narra di guerra è la priorità data alle storie degli uomini piuttosto che
alle battaglie: è la guerra narrata dal basso.
- Importante il tema dell’emigrazione (tema che lo tocca da vicino: parte della storia della sua
famiglia); si affronta il fenomeno da un punto di vista storico, ma anche umano perché i racconti
sono ricchi di ricordi, racconti e testimonianze dirette. Sono storie di montanari che ritornano nel
proprio paese appena in tempo per morire tra la propria gente.
Rigoni è in Russia dal gennaio all’aprile del 1942, dal luglio 1942 al gennaio 1943 > con il rientro in Italia e la
caduta del Duce non c’è pace per gli alpini che vengono fatti prigionieri dai tedeschi, privati del loro nome e
dei loro beni e identificati con un numero (“eravamo numeri, non più uomini”) > per lo scrittore iniziano
venti mesi di prigionia narrati in articoli usciti su “La Stampa”; qui si narra la resistenza che parte dal basso,
ci si sofferma sulla terribile vita del campo di concentramento, sui rapporti tra prigionieri che aiutano tra
loro; dopo diversi spostamenti tra vari campi, nel 1945 torna finalmente a Asiago. Il più importante tra
questi articoli è Noi internati, schiavi dei Reich.
Molti articoli sono dedicati alla vita sull’Altopiano: tratta gli aspetti storici, naturalistici e antropologici;
racconta le vicende dei suoi avi e ripercorre la storia di alcune contrade; racconta le antiche feste
dell’Altopiano e le fiere > tutte queste cose vengono raccontate non con un’ottica storica, ma attraverso
scene reali di vita quotidiana. Protagonisti di questi scritti sono scoiattoli, lepri, caprioli, camosci, funghi e
frutti di bosco; anche uccelli, descritti dal punto di vista scientifico e attraverso buffi episodi. E poi, altri temi
sono: le api, l’orto, le festività, le stagioni; molti articoli sono dedicati alla caccia > la critica vede nella caccia
narrata da Rigoni il momento più alto di adesione dell’uomo alla natura, in cui l’animale simboleggia le
forze primigenie della natura e il cui spirito di fa parte del cacciatore. A chi lo critica per la sua passione,
rispondeva che una caccia ben condotta può migliorare la fauna per consistenza e genetica, e che è
sbagliato tenere gli animali nei recinti > era favorevole ad una regolamentazione della caccia.
Infine, gli articoli dedicati ai viaggi > questi si snodano attraverso l’ammirata osservazione dei paesaggi
descritti con amore e con competenza, e con il puntuale riconoscimento delle specie animali e vegetali.
Giuseppe Pontiggia (1934-2003): il suo approccio alla scrittura si avvicina al concetto di “scrittura
perpetua”: lo scrittore che realmente lo è scrive sempre, incluso quando non scrive, soprattutto quando
non scrive > la “scrittura perpetua” sarebbe pratica essenziale di ogni autore che quotidianamente e
incessantemente si dedica ad essa > questo gli assicura esiti assai lavorati nei quali esibisce stile sorvegliato
e lingua trasparente.
- Tra il 1956 e il 1963 collabora con “Il Verri”, la rivista della Neoavanguardia fondata da Anceschi;
affascinato dalla problematizzazione del discorso sul linguaggio in relazione al dibattito sulla crisi del
romanzo, Pontiggia entra nella redazione perché ne condivide alcune idee, ma presto finisce per prenderne
le distanze > tant’è che negli scritti pubblicati dichiara di non riconoscersi nel linguaggio intimidatorio del
gruppo. Tuttavia, questi scritti contengono gli elementi distintivi della sua prosa; vediamo i due saggi:
- La tecnica narrativa di Svevo (1960): analizza la tecnica narrativa di Svevo, una tecnica
drammatica, finalizzata a imprimere una oggettività alla narrazione mediante l’adozione del punto
di vista di un personaggio interno alla vicenda; è in questa qualità drammatica che risiede la sua
originalità, secondo Pontiggia. Più avanti, fa delle considerazioni più generali sul mestiere del
critico: il critico non può limitare la sua funzione al puro descrittivismo, ma deve sondare e ricercare
le intenzioni che si celano dietro ogni scelta stilistica > è per questo motivo che questo saggio è
importante per la visione critica di Pontiggia, il quale confermerà tali premesse nei suoi articoli. Ma
c’è anche la componente stilistica: questo saggio rappresenta un perfetto esempio della qualità
argomentativa dello scrittore, che sviluppa la sua tesi con il rigore e la chiarezza degni di un
classicista.
- Avanguardia e impegno oggi (1963): l’articolo ribadisce le considerazioni sugli obiettivi del lavoro
del critico espresse nel saggio su Svevo, mostrando un piglio più deciso: Pontiggia arriva a discutere
gli obiettivi della nuova Avanguardia, gli apporti da essa forniti alla letteratura, primo tra tutti la
totale liberazione delle tecniche.
Nel 1963, Pontiggia si congeda da “Il Verri”, dedicandosi al suo secondo romanzo L’arte della fuga (1968).
Ma nel 1972 decide di pubblicare su “Il Verri” uno dei suoi saggi critici più significativi La “chiarezza” di
Daumal, in cui esplora le strategie narrative e linguistiche dello scrittore. Finisce per entrare in simbiosi con
Daumal, vedendo nella sua prosa i fondamenti teorici e pratici della sua stessa attività letteraria. Scrive
Pontiggia: “per Daumal la chiarezza non è il valore, ma il valore non si esprime che attraverso di essa”;
continua poi: “per Daumal lo stile è l’impronta di ciò che si è in ciò che si fa”. Daumal diventa il più alto
esempio di una scrittura che, contro i propositi della Neoavanguardia, annovera “l’impiego di un linguaggio
corrente per esprimere verità remote dai luoghi comuni”.
- Dal 1978 al 1999 collabora con “Il Corriere della Sera”, scrivendo articoli di critica letteraria: recensioni o
brevi articoli di saggistica che spaziano dalla letteratura latina alla narrativa contemporanea (anche
francese, spagnola, portoghese). Per quanto concerne la riflessione sul linguaggio, importante la recensione
al libro di racconti La Musa Ulcerosa di Guido Ceronetti, al quale Pontiggia dedica parole di plauso sincero;
inoltre, Pontiggia afferma che la cultura di massa ha impoverito il linguaggio rendendolo superficiale e
corrotto da un uso per nulla responsabile, ciò ha determinato anche la perdita della tradizionale auctoritas
da parte dell’intellettuale. Il discorso viene ripreso nell’articolo dedicato alla cecità di Sartre, in cui viene
rimarcata la gravità della situazione: “Intellettuale è vocabolo oggi imbarazzante; privo com’è di
attendibilità culturale e di autorità morale, galleggia come una mina fuori uso sulla superficie del lessico”.
Questa sua ossessione per le risorse espressive del linguaggio, talvolta, è così prevaricante che sacrifica
l’oggetto stesso della recensione. L’attenzione per il linguaggio ha come conseguenza la riflessione sulla
scrittura e sul romanzo. Altra questione importante riguarda il mestiere del critico, al quale Pontiggia
attribuisce una grande responsabilità, in quanto il suo lavoro non deve cadere nella filologia e “nel facile
sondaggismo descrittivo”. Non è raro trovare nei suoi articoli pubblicati sul “Corriere” lunghe digressioni:
nella dispositio degli argomenti, infatti, egli usa alcuni accorgimenti della concinnitas ciceroniana
(parallelismi, antitesi, chiasmi), i quali, uniti al sapiente uso di incisi, conferiscono coesione al testo,
rafforzando quell’ideale di chiarezza. Un’altra caratteristica di questi articoli è la tendenza a chiudere il
discorso con una citazione illustre di carattere aforistico, una chiosa fulminea che funga da illuminazione
chiarificatrice.
Gli articoli che Pontiggia pubblica sul “Corriere” non riguardano solo la letteratura, ma ci sono anche
composizioni di brillanti satire (testi poi revisionati e raccolti nel volume Le sabbie immobili del 1991, che
vincerà il Premio Satira Politica Forte dei Marmi nel 1992). I temi sono vari: dieta mediterranea,
problematiche della coppia moderna, ossessione per il dimagrimento, gioco in Borsa > tale eterogeneità
viene ricomposta dallo scrittore con arguzia proponendo riflessioni sul significato delle parole e sulle
deviazioni interpretative: ne è esempio l’articolo Chiamatelo Club, in cui si discute la nascita di un club
dell’eutanasia > qui Pontiggia pone l’accento sui tecnicismi lessicali utilizzati evidenziandone gli equivoci; e
conclude con amara ironia “il linguaggio tradisce nel duplice significato della parola”. La sua satira non è
mai fine a sé stessa: l’ossessione per le etimologie risponde a un interesse di carattere speculativo.
- Sul “Corriere” e su “Panorama”, Pontiggia pubblica delle recensioni sui classici della letteratura: opere di
letteratura greca, latina, italiana, spagnola, francese e inglese. E afferma che l’attualità dei classici ha una
caratteristica ricorrente: dubita di sé stessa; quesito tipico è se il classico è attuale: solo la coscienza della
distanza può avvicinare il classico e insieme conservarlo nella sua lontananza; questa fusione può
accrescere e intensificare la vitalità di un rapporto. Caratteristica delle recensioni ai classici è che prendono
avvio da un interrogativo volto ad evidenziare la potenza espressiva esercitata dalla loro inattualità (“che
cosa è la follia per Erasmo?); altra caratteristica è il rigore etico con cui Pontiggia procede alla stesura delle
recensioni e che si rintraccia nella totale assenza di enfasi nei confronti dei curatori delle opere in oggetto.
- Tra il 1996 e il 2003 collabora con “Il Sole 24 Ore”, dove dà avvio alla fortunata serie degli “Album” che
nascono come riflessioni e impressioni che prendono spunto da avvenimenti appena trascorsi. Negli
“Album” Pontiggia compie degli excursus nell’attualità politica, cronaca culturale e di costume, fino ad
arrivare alle meditazioni sul linguaggio (il valore perduto della parola e il suo uso responsabile tende ad
essere il principale filo conduttore tra i testi). Il loro aspetto stilistico è la frammentarietà; non si tratta di
articoli descrittivi, ma hanno una forma più vicina alla brevitas aforistica, lapidaria, più incisiva (es.: “8
aprile. La delusione politica degli italiani è stata di scoprire che ci può essere alternanza, ma sempre con
loro”).
- I lettori di Pontiggia: pubblico colto e curioso, capace di intendere i caratteri ironici delle sue parole e di
apprezzarne il lato pedagogico; ma il lettore ideale di Pontiggia è anche il suo principale complice, colui con
il quale condivide l’insofferenza per l’imbarbarimento verbale del proprio tempo e la sua battaglia contro la
svalutazione della parola.
Valerio Magrelli (1957-vivo): poeta, critico letterario, prosatore e traduttore, anche docente universitario.
Non è giornalista di professione, ma porta nel giornalismo una forte dose di originalità e di creatività >
infatti, afferma che non ha scelto il giornalismo come lavoro, il suo lavoro è insegnare. Magrelli viene
intervistato e risponde alle domande della saggista > la sua prima esperienza giornalistica la vive con
“Panorama” nel 1979, ma il giornalista si trovò male per l’antipatia di chiunque fosse un grado sopra di lui;
gli correggevano parole tipo “d’altronde” in “del resto” perché quest’ultima è più semplice: bisognava
affrontare temi altissimi con un linguaggio semplicissimo > ha imparato una lingua (lingua dell’università
diversa dalla lingua del giornalismo). Si sentiva privilegiato ad avere quel lavoro, ma sentiva di stare per
perdere lo studio, quindi abbandonò per tornare a studiare all’università. Qualche tempo dopo venne
chiamato al “Messaggero”, collaborazione che durò 20 anni; all’epoca non vigeva l’esclusiva, quindi intanto
scriveva anche su altre testate come “L’Espresso”, “Manifesto”, per lo più recensioni. Lo faceva si per
guadagnare, ma in realtà a lui divertiva molto scrivere recensioni, gli piaceva.
Magrelli divide la sua attività giornalistica in tre periodi: 1) “Panorama”, periodo significativo seppur
orrendo; 2) attività recensoria sulle testate appena citate; 3) passaggio all’editoriale di taglio politico.
Per il “Messaggero” iniziò a fare reportage grazie a un amico a cui era stato proposto ma che, dato che non
poteva, lo propose a Magrelli che accettò > andò a fare 10 viaggio in tutta Italia per raccontare di vino,
anche se di vino non ci capiva nulla; quindi chiedeva a un enologo americano noto la casa vinicola da
scegliere, e poi da lì, sul reportage, attaccava il discorso a qualcosa di extra enologico > visitava posti
bellissimi e scriveva racconti molto liberi. Il reportage va avanti anche quando passa a “Rinascita”: venne
mandato al Festival di Venezia; per “L’Espresso”, invece, va a Londra e racconta la Londra di Dickens.
Magrelli afferma di detestare l’intervista (ha pure scritto un articolo contro le interviste) > “Repubblica” lo
manda a New York a intervistare Vargas Llosa, vincitore del premio Nobel: incrocio tra reportage e
intervista.
Un altro genere su cui si è soffermato è il giornalismo di cronaca cittadina sul “Corriere della Sera”: se a
“Panorama” doveva trattare in un determinato modo gli articoli, qui poteva improvvisare infinite variazioni
(ha parlato delle strisce pedonali scolorite, del vicino che faceva rumore) > usa la sua cultura per parlare
della quotidianità. Vediamo alcuni articoli di questo tipo:
- Il caso della segnaletica stradale collocata in autostrada per segnalare un incidente: “l’efficacia di un
segnale dipende dalla sua visibilità” > non si può mettere il segnale appena entrati in autostrada,
perché così il conducente non può decidere con libertà se cambiare strada > l’intento del poeta non
è accusare nessuno, è spingere ad usare la logica; insiste sull’avverbio di tempo “DOPO” che porta il
lettore ad entrare nella assurdità dell’atto dell’ingegnere dell’autostrada.
- Lo stile dei famosi bugiardini dei medicinali: i bugiardini sono capaci di segnalare tutto il segnalabile
in caratteri tanto piccoli da sfidare il limite dell’illeggibilità (follia!); “cosa prescrive il sacro testo?
Semplice, di non prendere il pantoprazolo se si è allergici al pantoprazolo” > mancanza di logica,
irrazionalità o vera e propria assurdità.
- Porte chiuse all’handicap sull’autobus: racconta un dramma noto > l’autore si definisce un “turista
dell’handicap” perché per pochi giorni ha dovuto usare le stampelle “ne giro di 24 ore, due autobus
e un tram sono partiti sotto ai miei occhi, a tre metri da me, mentre arrancavo con le stampelle
chiedendo di aspettarmi” > dalla semplicità del racconto emerge un fatto inquietante; si denuncia
una società alienata, meccanica, ripetitiva, totalmente anestetizzata alla novità, all’umanità di un
gesto diverso perché basato sull’esigenza dell’altro.
- Tremanti poesie in punta di labbra: racconta come possiamo rapportarci con un gesto così umano
come il “baciare” > “ma poi cos’è un bacio?” e cita Francesca dell’Inferno “La bocca mi baciò tutto
tremante” prosegue “Tutto tremante è chi sigilla le labbra, perché tutto tremante è il miglior
sinonimo di un bacio” > il senso del bacio è in ciò che genera il tremore; il tremore è originato dalla
pulsione umana che è dietro il bacio.
- Ditemi dove sta il merito del nostro Parlamento: punta il dito verso quello che è il male peggiore del
nostro Paese, un paese corrotto e senza senso civico, ovvero il Parlamento > è nel Parlamento che
regna la logica dell’amicizia in ragione di interessi personali e economici. Cosa fare allora? Lo dice,
in negativo, l’articolo stesso: ridare peso alla cultura, allo studio, per recuperare il valore
dell’educazione e della civile e onesta convivenza.
Aldo Nove (1967-vivo): la sua carriera giornalistica inizia sul “Corriere della Sera” nel 1998 fino al 2016, in
cui affronta il tema di Milano, la trasformazione continua della metropoli nell’era della globalizzazione > nei
suoi articoli appare Milano in 3 dimensioni: Milano com’era, come potrebbe essere, come realmente è.
Nove non è nato nella metropoli, ma in un paesino: nei suoi articoli questi due mondi antitetici si incastrano
> l’infanzia è una via di fuga dalla complessità del mondo moderno; il suo luogo bucolico per eccellenza è il
paesaggio pre-alpino, le montagne che sovrastano le costruzioni, e l’adulto ricorda malinconicamente.
- Sul “Corriere” nel 2004 paragona Milano ad un enorme animale ferito: le opportunità lavorative
scarseggiano; ma subito sotto la decadenza c’è un secondo livello, la nostalgia della città che è stata
(la Milano dei grandi movimenti rivoluzionari); e, ancora più in profondità, c’è la Milano utopica, la
città che Nove sogna: una Milano ispirata al modello della Polis ateniese.
- Sull’”Espresso” nel 2009 scrive di una Milano bellissima, vitale e produttiva; ma poi la rovescia in
una Milano che è meccanismo spietato: “i cinesi lavorano in attività italiane, dove gli italiani sono i
dipendenti. Palazzi che soppiantano boschi, recuperati sulle loro pareti come giardini verticali”.
- Varese-Milano: Nove racconta la tratta ferroviaria Varese-Milano in una dicotomia tra modernità
tecnologica e tempi andati; il lessico usato fa pensare, oltre allo spostamento fisico del treno, a un
viaggio nel tempo. Descrive le fermate fantasma, dove il treno non si ferma più, prive di abitazioni:
rappresentano “l’immaginario romantico di un mondo che non c’è più”; spezza poi questo incanto,
descrivendo l’interno del vagone: lo studente che smanetta il pc, il 40enne che esplora le sue narici.
Nove ha scritto anche su quotidiani di sinistra, come “L’Unità” e “Liberazione”; è su quest’ultimo che nasce
un progetto importante per Nove: nel 2003 viene emanato un decreto legislativo che modifica per sempre il
mondo del lavoro, e che cambierà la psicologia dei giovani > Nove dà voce alle persone più direttamente
colpite dal cambiamento: il risultato è una serie di interviste poi raccolte in Mi chiamo Roberta, ho 40 anni,
guadagno 250 euro al mese, dove viene raccontata la nuda e cruda verità delle cose > analisi sociologica.
Roberta rappresenta il 40enne medio: sporadicità dei lavori, perché gli impieghi sono sempre più di uno;
l’elemento comune a questi impieghi è la loro durata nel tempo e la mancanza di stabilità economica. Altro
dettaglio è il trasferimento: il cambio di residenza per studiare o trovare lavoro (tema della forza centripeta
delle grandi città, alla base dell’emigrazione giovanile dell’ultimo decennio). Poi, la riflessione sulla
questione di genere: riuscendo a vivere dignitosamente, il desiderio di maternità per queste donne diventa
un’utopia, ed è lo stesso Stato a scoraggiare questo tipo di iniziative. Altra questione importante è la
proiezione di questa generazione di 30-40enni sugli adolescenti di quegli anni. Altra storia esemplare è
quella di Edoardo, un insegnante di Napoli, che spiega l’inquietante sistema scolastico italiano: ingiustizie
sociali, concorsi poco limpidi con punteggi discutibili, supplenze risicate. A questo sistema a rimetterci sono
i giovani perché “che tipo di progetto culturale si può organizzare se ogni due mesi ti cambia il docente e
quindi il metodo di insegnamento, il programma?”. Con queste interviste si racconta la tragicità
dell’ordinario; lo stile è diretto ed essenziale; l’intervistatore entra in empatia con l’intervistato > quello che
ne emerge è un dramma. Altri articoli di questo tipo escono tre il 2008 e il 2011 su “Repubblica” (con
cui collabora dal 2006 al 2012); su questa testata l’occhio critico di Nove si fissa sul presente, su un’Italia in
piena crisi, in cui tutto è precario. Uno spunto interessante è la riflessione sul termine bamboccione: Nove
crede che si tratti di un termine violento > “i bamboccioni sono adulti obbligati a restare adolescenti a causa
della mancanza di una retribuzione seria”, quindi il problema non sta nella poca voglia dei giovani di
lavorare, ma nel sistema retributivo che non offre garanzie di crescita economica e sociale. Poi, sempre su
“La Repubblica”, analizza l’aggettivo giovane, termine che ha subito “la chirurgia delle parole”: oggi si usa
“giovane” per rappresentare individui che giovani non sono più” > la colpa è dei “giochi per 40enni e
programmi d’evasione per 50enni, che, dai e dai, la maturità rischiano di non vederla mai”; questa cosa
giova al mercato.
Lo scrittore e il proprio tempo: nel 2011 scrive un articolo su “Repubblica”, dove si interroga sulle ragioni
che ci spingono a guardare i film in bianco e nero degli anni ’60 > non si tratta di gusto personale, ma
“vintage è quanto ci àncora alla rassicurate dimensione perduta di un passato che ha più senso del
presente” > si fugge nel passato: una storia che si ripete quella dell’epoca “com’era bello quando” o “siamo
cresciuti con quello”. Importante è il pezzo di Paolo di Paolo: si rivolge a tutto il mondo intellettuale > gli
scrittori contemporanei non hanno più interesse verso le questioni sociali e politiche; scrive “abbiamo
archiviato con disinvoltura la militanza intellettuale”, e afferma che la parola intellettuale rientra nel lessico
degli insulti; Paolo di Paolo crede che chi si espone su determinate questioni deve per forza aspettarsi
seguenti dibattiti sulla questione; afferma che il nostro Paese vive di invettive passate (che le odierne
avvengono sui social). Non si fa attendere la risposta di Aldo Nove: secondo Nove quello che dice di Paolo
non è vero perché lui “si lamenta di ciò che no c’è perché non vede”; Nove da sempre si è occupato di
realtà: Nove scende nella concretezza e consiglia espedienti di resistenza, uno tra questi è il recupero di
uno sguardo diverso (di un bambino) teso a creare uno slittamento di prospettiva che crei un punto di vista
altro, un altrove. Due interventi inerenti a ciò:
- Sandro Veronesi crede che il prestigio degli intellettuali si sia esaurito da tempo: “quando qualcuno
si impegna, ecco subito sorgere polemiche su come l’ha fatto e se sia giusto, col risultato che spesso
uno sforzo immenso finisce per essere seppellito di critiche e sospetti”:
- Filippo La Porta provoca: “insomma che i nostri intellettuali invadenti, ingombranti, abbiano scelto
il silenzio su temi pubblici: a me sembra, benché menefreghismo, un dono del cielo” > crede anche
che, proprio a causa dell’aumento estremo di voci incontrollate e senza filtri che sta portando
all’anarchia di opinioni, “l’opinione di Magris vale quanto quella di un blogger quindicenne”.