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Economie di scala: barriere all’entrata, dimensionamento,rendimenti, vari

concetti

CONCORRENZA
IL CONCETTO DI CONCORRENZA

Che cosa si intende, dal punto di vista teorico, per concorrenza? Determinati risultati che si
aspettano dalla concorrenza sono connessi al modo attraverso cui la stessa viene rappresentata e
interpretata. I contorni del concetto di concorrenza non sono chiari, la si può tuttavia intendere
sotto due punti di vista: la concorrenza strumentale, quindi strumento per conseguire un risultato
economico, o concorrenza costitutiva, intesa come interazione.
Come si è evoluto il concetto di concorrenza, come viene interpretato e come è possibile
comprendere grazie ad esso il funzionamento dei mercati. Il concetto di concorrenza è centrale
nella teoria economica.

LE ACCEZIONI DELLA CONCORRENZA

La differenza con il mercato


Per mercato si può intendere anche una semplice interazione compratore-venditore dalla quale
emerge un accordo sul prezzo per l’acquisto di un determinato bene mentre, per quanto riguarda
la concorrenza, darne una definizione univoca è più complesso e non c’è una risposta immediata.
Molti attribuiscono dei vantaggi alla concorrenza senza però saperla definire; tendenzialmente
però, la concorrenza implica una pluralità di soggetti che concorrono al fine di raggiungere uno
stesso obiettivo (come, per esempio la vendita del prodotto).

Ci sono due accezioni fondamentali del concetto di concorrenza:


Accezione comportamentale: intesa come rivalità/gara, competizione “individuale” fra imprese
produttrici che attuano comportamenti indipendenti al fine di migliorare le proprie posizioni sul
mercato con piena consapevolezza che le stesse posizioni che stanno cercando di conquistare,
potrebbero rivelarsi incompatibili. In tale accezione, dunque, la concorrenza è quel
comportamento di rivalità tra soggetti che si confrontano, da cui dovrebbe emergere un risultato
positivo, intendendosi cioè un risultato migliore rispetto ad un atteggiamento opposto alla
concorrenza come potrebbe essere la cooperazione.
Accezione strutturale: la concorrenza è la struttura opposta al monopolio e, generalmente la si
definisce sulla base del numero delle imprese non sulla base del comportamento concorrenziale.
Nella concorrenza perfetta si hanno “infinite” imprese price-taker, questo perché vi sono talmente
tanti operatori sul mercato, ciascuno dei quali offre una quota talmente piccola dello stesso
prodotto o servizio, che nessuno di essi, singolarmente considerato, riesce ad avere un’influenza
sul livello del prezzo tramite variazioni della quantità offerta.

CONCORRENZA IN SENSO CLASSICO


La Filosofia classica portata avanti da Smith interpretava la concorrenza più dal punto di vista della
sua accezione comportamentale. Il comportamento di rivalità porta la singola impresa a cercare di
avere il massimo profitto e questo avverrà allocando le risorse nel settore che mi fa ottenere di
più; banalmente, se constato che i ricavi sono maggiori dei costi, andrò a modificare la allocazione
delle risorse nel modo migliore possibile. Se entrano nel mercato altri competitor però l’offerta
aumenta, il prezzo diminuisce, e quindi a parità di costo il mio profitto diminuisce. Teoricamente
questo dovrebbe portare ad un livellamento intersettoriale dei saggi di profitto perché c’è sempre
la possibilità di allocare le nostre risorse diversamente. L’esigenza di andare alla ricerca del
massimo profitto cessa quando non è più conveniente farlo: se spostassi le mie risorse da un’altra
parte otterrei lo stesso profitto, quindi diventa indifferente. Lo stesso ragionamento si fa dal lato
del consumo. Nell’analisi smithiana e nei classici è presente un funzionamento naturale dei sistemi
economici, simile a quello che è il funzionamento dei sistemi naturali governati dalla legge della
fisica; vi è un parallelo prezzo-gravità. L’idea era di replicare il funzionamento dei sistemi naturali:
dove ci sono le leggi ed il prezzo è la variabile attorno al quale far gravitare le scelte; in tale
concezione, la concorrenza è vista quindi soprattutto come concorrenza di prezzo.
Il limite dei classici è il costo di produzione del bene, che è ancora ancorato alla teoria che il
prezzo naturale del bene sia legato alla quantità di lavoro necessario per farlo. Il fatto che ognuno
persegua i propri interessi secondo l’analisi classica porta alla migliore allocazione possibile delle
risorse; non è una condizione assoluta, ma si intende una soluzione migliore rispetto al risultato
che si otterrebbe se ci fosse qualcuno che deliberatamente se lo ponesse come obiettivo. In ogni
caso abbiamo una concorrenza di tipo comportamentale e la rivalità si ha nella misura in cui
ognuno vuole allocare le proprie risorse dove il profitto è più alto.

Limiti del ragionamento dei classici:


Un primo limite al ragionamento dei classici è identificato dal prezzo di produzione del bene, il
quale è legato al lavoro; ulteriore limite è che nella realtà attuale non è così facile cambiare
l’allocazione delle risorse (non posso passare dal fare il macellaio a produrre birra semplicemente
cambiando l’allocazione delle risorse e senza avere alcun tipo di formazione); inoltre, non ci sono
vincoli all’allocazione delle risorse a livello locale, nazionale o mondiale, ed il ragionamento è
valido in ogni luogo e in ogni tempo, non c’è spazio per conoscenze o competenze; in fine, il
ragionamento è valido solo per chi era già industrializzato e sviluppato, il paese in via di sviluppo si
arenerebbe e non riuscirebbe a staccarsi dalla sua posizione.

Vedere la concorrenza come una gara, implica necessariamente il dovere di fissare delle regole,
secondo Smith “vince” il soggetto che ha i profitti maggiori. Il profitto nel sistema economico
segnala il successo di un soggetto rispetto ad un altro. Tutto questo funziona se si è definito il
contesto istituzionale più appropriato affinché la concorrenza fra i soggetti economici si sviluppi
nel modo più vantaggioso per la comunità nel suo complesso; ci deve essere un contesto
istituzionale minimo nel quale ciascuno persegue i propri interessi e devono essere eliminate le
restrizioni alla possibilità di mobilitare le risorse come, ad esempio, limiti legali al libero
trasferimento di risorse.

CONCORRENZA IN SENSO NEOCLASSICO


L’obiettivo dei neoclassici è quello di indagare e definire le condizioni minime affinché l’interesse
individuale consenta di raggiungere l’interesse generale, vale a dire quelle condizioni sufficienti a
garantire che la concorrenza esplichi a pieno i benefici descritti dal paradigma della mano
invisibile.
L’ interesse individuale corrisponde al massimizzare la funzione obbiettivo in termini di rapporto
tra utilità e profitto, questa scelta porta ad una standardizzazione del comportamento umano,
dunque, ognuno massimizzerà la stessa funzione obiettivo; contrariamente, l’interesse generale
mira all’allocazione efficiente delle risorse.

Il tema che viene posto è un tema statico, allocare le risorse, e dove? La decisione del luogo in cui
andare ad allocare le risorse dipende dalle produzioni che al momento si hanno, le quali a loro
volta derivano da un sistema di preferenze dei consumatori e dunque da un dato esterno e
immutabile nel tempo.

Le condizioni minime che permettono di conseguire l’interesse generale sono le condizioni di


concorrenza perfetta: situazione in cui i soggetti economici assumono il prezzo come un dato (cd.
price-taking behaviour); non si può modificare il prezzo cui vendere o acquistare i beni. Viene
teorizzato da Cournot, la capacità di fissare il prezzo al di sopra del proprio margine diminuisce
all’aumentare del numero di imprese. È da notare la differenza con il modello classico: la
concorrenza stessa era descritta come concorrenza di prezzo, era l’elemento centrale su cui le
imprese rivaleggiavano; ora, invece, la concorrenza è descritta sulla base dei suoi elementi
strutturali, primo tra tutti il numero delle imprese e non più sulla base dei comportamenti
concorrenziali che rivaleggiavano sui prezzi. La tecnologia è un dato, il prezzo è un parametro dato
e si fa il calcolo; genera efficienza nell’uso delle risorse scarse disponibili (efficienza allocativa); la
presenza di market failures (“insuccessi del mercato”) richiede l’intervento di regole diverse o
autorità esterne. C’è qualcosa che allontana il mercato da quella che consideriamo l’efficienza
allocativa. Attraverso questi market failures l’equilibrio si allontana dall’ottimo paretiano, con una
conseguente distribuzione delle risorse imperfetta.

L’impresa in concorrenza perfetta per i neoclassici si rifà quindi alla accezione strutturale di
concorrenza. Le condizioni per il cosiddetto comportamento massimizzante sono estremamente
restrittive, si tratta delle condizioni che si pongono alla base dell’idea di massimizzazione di una
funzione obiettivo e obiettivamente non si presentano nell’individuo nella realtà: comportamento
razionale di massimizzazione (profitto/utilità), cioè associare un comportamento ad un risultato e
metterli in ordine in modo tale da poter scegliere il migliore; decisioni che sono tra loro
indipendenti (no coalizioni o collusione, assenza di effetti esterni), il corso di azioni è parametrico
non strategico, nessuno degli altri soggetti è in grado di influenzare le nostre decisioni, il risultato
che otteniamo dipende solo dalle nostre decisioni; il numero di produttori e compratori è talmente
elevato che nessuno è in grado di influenzare le decisioni di mercato; infine, le informazioni sono
complete e simmetriche circa le possibilità di produzione e di consumo, si presuppone la
conoscenza certa di tutti i parametri e di tutti gli sviluppi futuri.

In sintesi: un mercato che funziona bene è un mercato concorrenziale. In senso classico questa
affermazione significa che il mercato funziona bene se vi è concorrenza sui prezzi; la concorrenza
sui prezzi però, a sua volta, funziona bene solo se i beni sono uguali. La scelta è coerente solo se a
me interessa unicamente il prezzo e i beni sono identici. Ma se i beni sono differenti, come faccio a
capire se il differenziale di prezzo si riflette in un differenziale qualitativo? Inoltre, quello che
risulta dalla competizione di prezzo è o non è il soggetto migliore dal punto di vista economico? In
tale casistica non si può più applicare il ragionamento dei classici, ma si passa a quello neoclassico:
nei neoclassici, infatti, non vi è più concorrenza di prezzo, il prezzo è dato e si ha concorrenza (e
quindi il mercato funziona bene) semplicemente se sul mercato sono presenti più imprese, non se
queste rivaleggiano sul prezzo.
CRITICHE AL MODELLO NEOCLASSICO
Varie sono le critiche mosse al modello neoclassico: innanzitutto, una scarsa rilevanza operativa
del modello, le condizioni sufficienti sono restrittive e verificate raramente (non consentono di
giustificare i risultati di efficienza di un modello di laissez- faire); i comportamenti degli operatori in
concorrenza di rivalità sono esclusi dalle ipotesi del modello; infine, è assunta una conoscenza
completa dell’ambiente, tutte le informazioni sono espresse per mezzo di un vettore di prezzi dati.

Dalle critiche si sviluppano modelli e teorie che tentano di interpretare la concorrenza in modo più
realistico: portano tutte ad un risultato assimilabile a quello della concorrenza perfetta,
nonostante sia possibile eliminare alcune delle ipotesi di quel modello.

L’idea di equilibrio economico generale è legata al fatto che sono presenti in tutti i possibili
mercati, le condizioni analoghe a quelle di concorrenza perfetta; se voglio far funzionare bene il
mercato devo intervenire qualora le condizioni non siano presenti, cercando di far in modo di
avvicinarmi il più possibile a quelle condizioni.

LA WORKABLE COMPETITION
La workable competition è stata introdotta da Clark nel 1940, è possibile pensarla come ponte: è il
modo in cui ci si può avvicinare alla concorrenza perfetta nel mondo reale, poiché quest’ ultima
non può esistere nella realtà.

Benefici rilevanti possono essere realizzati se il comportamento effettivo delle singole industrie
viene indirizzato a taluni standard concorrenziali minimi. Clark suggerisce di avvicinare il mondo
reale al modello di concorrenza perfetta, riprendendo alcuni elementi che, se sono presenti
denoterebbero una maggiore concorrenzialità del mercato: il numero consistente di imprese
presenti senza posizione dominante; l’assenza di barriere artificiali all’entrata; un’informazione
sufficientemente accessibile per tutti; l’assenza di condotte operative tra chi è nel mercato e un
volume di spese promozionali contenute; inoltre, il profitto delle imprese in concorrenza perfetta è
nullo, ovviamente profitto nullo non significa non remunerazione dei fattori produttivi,
ciononostante la presenza di profitto nullo è paradossale dato che per i classici la concorrenza
doveva avere il massimo del profitto.

LA SCUOLA DI HARVARD
La scuola di Harvard ha un’inclinazione maggiore verso l’accezione strutturale della concorrenza,
analizza in particolare quanto un tipo di mercato si discosta dal modello di concorrenza perfetta.
Il suo parametro di riferimento è la concorrenza perfetta, intesa come modello ideale con cui
confrontare il funzionamento dei mercati: tanto più ci si allontana dal modello, quanto più si ha un
problema e di conseguenza bisognerebbe immaginare di intervenire per modificarne la struttura.
Questo modo di pensare è estremamente radicato ed ha influenzato molto le politiche nazionali.
È la scuola di Harvard che sviluppa il modello di struttura-condotta-performance, tale per cui si
iniziano a leggere i risultati di un determinato mercato procedendo all’indietro, cioè i risultati
dipendono dal comportamento che a sua volta dipende dalla struttura. Il metodo della Scuola di
Harvard si fonda quindi su un approfondimento dei cosiddetti market-failures e si articola nel
paradigma struttura-condotta-performance, si osserva la struttura del mercato e da lì si ricava il
comportamento per poi giungere ai risultati.

La variabile che si osserva maggiormente nel modello di concorrenza perfetta è la numerosità degli
operatori, maggiore è la variabile, minore è il profitto, questa relazione però va sottoposta a
verifica empirica.

Nella realtà osservo quando mi allontano dai paradigmi di concorrenza perfetta, più mi allontano
dall’ideale di quest’ultima, più mi avvicino alla condizione strutturalmente opposta, il monopolio.

Il monopolio, nonostante garantisca un profitto per l’impresa, non può garantire la migliore
allocazione delle risorse e quindi non può garantire nemmeno il raggiungimento dell’interesse
generale. Da un punto di vista operativo quindi si può distinguere da un lato la concorrenza
perfetta e dall’altro il monopolio e in base alle condizioni del mercato ci si può avvicinare di più agli
esiti di uno piuttosto che dell’altro. Va ricordato che sia nella concorrenza in senso classico che
nella concorrenza in senso neoclassico, come nella workable competition, il risultato auspicato è
sempre quello dell’efficienza allocativa.

TESI DI ALCHIAN E TEORIA EVOLUZIONISTICA


Alchian sostiene che in fin dei conti il comportamento massimizzante non è una guida per l’azione:
in un contesto dove vi è incertezza, gli individui non adotteranno il comportamento
massimizzante.
Quindi, secondo Alchian, il sistema economico non è indirizzato alla massimizzazione
dell’efficienza allocativa, ma ogni individuo che compie delle scelte, le compie per ottenere un
successo economico, interpretato da Alchian come un profitto economico.

Le imprese che ottengono un profitto economico, ottengono un successo e pertanto


sopravvivono. Di fatto, ciò che conta è la sopravvivenza, una sopravvivenza che viene raggiunta
sulla base di un profitto. Si configura così un sistema economico che funziona come un sistema
naturale di tipo biologico e non più di tipo fisico, una sorta di meccanismo darwiniano di selezione
naturale. Si parla semplicemente di un profitto positivo, non di un profitto ottimo, visto che non
possiamo materialmente massimizzare. In sintesi, viene meno la possibilità di ottenere un risultato
ottimo, se non per caso. L’ambiente esterno seleziona le condotte migliori: le imprese che
producono a costi più alti sono via via eliminate fino a che non residuano solo le imprese con costi
minori.
La visione di Alchian porta a riflettere sul fatto che contano anche il caso e la fortuna, che,
ovviamente, non sono gli unici elementi che giustificano il successo, ma sono particolarmente
determinanti. Ci sono poi altri elementi, come meccanismi di adattamento (qui si nota il parallelo
con la teoria darwiniana), che consentono agli individui di adattarsi ai cambiamenti del sistema
economico più o meno efficacemente. Spesso strategie di adattamento conducono all’imitazione,
che rappresenta per Alchian l’eredità genetica dei sistemi naturali.

Nel dilemma relativo alla scelta dell’impresa da imitare, visto che sono escluse strategie
massimizzanti, non scelgo l’impresa col profitto maggiore perché non so se è quello ottimo, ma
scelgo perciò sulla base di un criterio rappresentativo: scelgo l’impresa più rappresentativa che
racchiude in sé le caratteristiche delle singole imprese che si sono mostrate capaci di sopravvivere.
Seguendo questa dinamica si raggiunge un modello molto simile a quello di concorrenza perfetta:
tutte fanno più o meno la stessa cosa perché l’ambiente ha selezionato quelle imprese che
realizzano un profitto positivo la cui strategia è l’imitazione l’una dell’altra.

Dall’altro lato c’è il tema dell’innovazione, e il quesito relativo a se l’innovazione sia in contrasto
con l’imitazione. Se un’impresa imita, non sta percorrendo strade nuove, non sta innovando. Non
posso dire che l’innovazione mi porterà sicuramente ad un miglioramento della mia condizione.
Una modifica del comportamento costituisce un’innovazione. Chi cambia comportamento rischia
di abbandonare una strada “sicura” (che porta ad avere un profitto) per una strada incerta e che
per giunta potrebbe portare alla morte dell’impresa: è un comportamento rischioso, chi realizza
un profitto negativo muore. Tuttavia, in alcuni casi, se l’ambiente esterno sta mutando, un
cambiamento può essere ciò che fa sopravvivere l’impresa e che le dà un vantaggio rispetto agli
altri.

Limiti alla concorrenza di Alchian: in questo contesto l’ambiente economico deve operare senza
essere modificato o plasmato da interventi di tipo regolatorio-istituzionale. Nel momento in cui si
cambiano le regole, per esempio chiudendo attività per la pandemia o, cambiando le regole di
scambio internazionale, non si tratta più di una selezione naturale, ma prevale il contesto
artificiale, che è frutto di una scelta consapevole, la quale di fatto sta orientando i risultati
economici di talune attività piuttosto che di altre. Inoltre, non ci dovrebbe essere connessione tra
chi opera in quell’ambiente e chi ne definisce le regole. La teoria di Alchian non è una critica al
modello, bensì è un tentativo di salvare quello che è il risultato della concorrenza perfetta in un
contesto in cui mancano alcune delle condizioni necessarie per realizzarlo, in primis la possibilità
che gli operatori adottino comportamenti massimizzanti. Rispetto alla visione statica della
concorrenza in senso neoclassico, sia Alchian che Von Hayek, come anche tutti coloro che cercano
di dare un significato differente al concetto di concorrenza, cercano di recuperare almeno in parte
la logica di processo concorrenziale che caratterizzava la visione classica.

CONCORRENZA PER VON HAYEK


Il punto di partenza di Von Hayek per descrivere come operano i meccanismi di concorrenza e di
mercato, è che tutti i soggetti economici non devono necessariamente avere tutte le informazioni
possibili sul mercato, di fatto quello che conta è il bagaglio informativo che ciascuno di noi ha (ciò
che più ci interessa, ciò che ci è più vicino), che è per definizione estremamente limitato e
specifico, sia rispetto alla produzione sia rispetto al consumo. Il punto è chiedersi come questa
informazione che è dispersa tra tanti soggetti economici possa essere utilizzata al meglio. Occorre
quindi ribaltare il sistema neoclassico (legato al fatto che le tecnologie e le risorse sono date e
quindi l’efficienza è data da un semplice calcolo), per scoprire e capire, attraverso i meccanismi di
mercato e la concorrenza tra soggetti economici, come allocare al meglio le risorse. Il risultato può
essere ottenuto attraverso un sistema di mercato in cui gli individui sono spinti a comunicare le
informazioni che hanno disponibili. Tale sistema si può attuare attraverso il prezzo, questo diventa
il veicolo delle informazioni consentendo di orientare le scelte dei produttori e dei consumatori.
Ad esempio, se si fissa il prezzo di una penna a 10 euro, si sta comunicando che è conveniente
fissare quel prezzo nella misura in cui il costo di produzione è inferiore almeno a 10 euro; ma
ovviamente nessuno comprerebbe una bic a 10 euro e quindi io produttore traggo l’informazione
o cambio prodotto da vendere e sposto le risorse verso un altro settore, oppure devo abbassare il
prezzo, e comunico che la penna può essere venduta ad un prezzo inferiore perché il costo di
produzione è inferiore. Il mercato, dunque, consente di creare un’economia delle informazioni.
Ciononostante, il prezzo è un adeguato strumento di comunicazione quando i prodotti sono
uguali. Si ripropone il problema sollevato precedentemente: l’elemento prezzo racchiude tutti gli
elementi informativi per una scelta consapevole solo se i beni sono omogenei; se si aggiunge
l’elemento qualità, il fatto che non si conosca il numero reale di beni che si sta acquistando (un pc
o una macchina), fa si che la situazione diventi più complessa. I mercati moderni sono tuttavia
caratterizzati da un rilevante grado di differenziazione e per tale motivo risulta complesso riferirsi
al prezzo come unico elemento di scelta consapevole.

Per Von Hayek la concorrenza è comunque in contrapposizione ad un sistema di mercato


pianificato: il fatto che la conoscenza sia dispersa preclude ad un “pianificatore” di decidere cosa e
quanto produrre sulla base del consumo. Il meccanismo dei prezzi consente di ottenere un
vantaggio informativo che permetta di ottenere un risultato sicuramente migliore. La concorrenza
è un processo dinamico le cui caratteristiche essenziali sono eliminate dalle ipotesi da analisi
teorica di concorrenza perfetta. Il ruolo svolto dal processo concorrenziale consiste nella continua
ricerca e scoperta di nuove occasioni di profitto e nelle modalità attraverso cui i soggetti si
adattano alle nuove condizioni che si determinano.

NOZIONE SHUMPETERIANA DI CONCORRENZA


Shumpeter aggiunge un ulteriore elemento: l’idea è che la caratteristica concorrenziale del
mercato non sia tanto l’atteggiamento di rivalità, ma che possano essere definite forme diverse di
rivalità basate su ulteriori elementi differenti dal prezzo, legati abbastanza semplicisticamente
all’idea di innovazione (es. creazione di nuovi prodotti, tecnologie produttive differenti, ecc.). Si
concorre su altri parametri non limitati solo al prezzo. Secondo tale ipotesi, quello che genera
sviluppo economico è che nel tempo vengano introdotti nuovi prodotti e nuovi processi in
relazione all’emersione di nuovi bisogni. L’impresa fa un’operazione complessa, cioè quella di
anticipare in vista di un futuro ricavo: contratto oggi dei fattori produttivi per produrre un bene
che metterò sul mercato solo in futuro. Tutti questi elementi sono estremamente complessi e nel
modello di concorrenza perfetta vengono estremamente semplificati (black box). La concorrenza
di Shumpeter è interpretabile come un processo di distruzione creatrice (creative destruction),
vale a dire l’invenzione crea ex-novo terreno per la competizione e distrugge il precedente.
Il fatto che si competa su variabili differenti (come canali distributivi, prodotti, tecniche
produttive...) consente di vedere il processo concorrenziale in modo differente; in questo senso,
infatti, il risultato del processo concorrenziale è il fatto che le condizioni della competizione
cambiano continuamente e dunque si tratta di un processo dinamico tra imprese alla ricerca di
profitti monopolistici, e di conseguenza i vantaggi vanno visti in questa prospettiva. Viene meno sia
l’enfasi sull’allocazione delle risorse, sebbene anche in questo processo dinamico emerga sempre
un’allocazione delle risorse più efficiente possibile, nonché l’enfasi sulla numerosità delle imprese
come elemento rilevante per capire se il mercato stia funzionando bene o no.

Possono verificarsi situazioni temporanee come la presenza di una singola impresa e quindi di
monopolio, ma questo risulta essere funzionale al processo produttivo; l’impresa, infatti, in questo
processo concorrenziale è in una posizione di temporanea superiorità, perché la sua posizione è
destinata ad essere costantemente messa in discussione dal processo di distruzione creatrice.
LA SCUOLA DI CHICAGO (CONCORRENZA)
La visione della scuola di Chicago è profondamente legata all’idea che non bisogna guardare alle
caratteristiche strutturali, ma al processo concorrenziale, assumendo che il mercato possa
funzionare a prescindere dal fatto che valgano quelle condizioni minime che leghiamo alla
concorrenza perfetta. La scuola di Chicago recupera l’ipotesi di efficienza: se in un mercato in un
certo momento osserviamo un’impresa di grandi dimensioni, che percepiamo più vicina all’ipotesi
di monopolio, questa impresa ha raggiunto quella posizione non per problematiche connesse al
funzionamento di mercato, ma la ha raggiunta poiché di fatto è l’impresa più efficiente e, in quel
determinato momento, è superiore alle altre. Non bisogna più guardare l’aspetto strutturale, ma
occorre guardare altri elementi del processo concorrenziale che consentono di capire il
funzionamento dei mercati. Esempio: a me non interessa che sul mercato ci sia un Amazon in
posizione dominante, l’importante è che all’ingresso del mercato non ci siano barriere che
impediscono ad altri possibili competitor di entrare e provare a fare lo stesso. Non va perseguita la
posizione di Amazon di impresa più efficiente in quanto tale, ma vanno piuttosto garantiti altri
elementi del processo concorrenziali che sono altresì rilevanti.

-concorrenza strumentale e costitutitva , tre prinicpali approcci di analisi dell’economia


industriale,modello scp

TEORIA D’IMPRESA
Comprendere cos’è un’impresa sotto il profilo economico, il ruolo delle imprese all’interno del
sistema economico, definire ‘impresa in rapporto a ciò che fa in relazione al mercato:

-Coase e Williamson portano avanti l’idea di impresa contrapposta al mercato, dunque, l’idea che
l’impresa sia qualcosa di diverso dal mercato;

-Capitalismo anglosassone (regno unito e stati uniti) e capitalismo renano (Germania, Francia,
Italia...) – si può tracciare una distinzione e quindi un ruolo diverso delle imprese sulla base di
soluzioni istituzionali che sono prevalenti in alcuni ambiti piuttosto che in altri. Forniscono un’idea
di impresa diversa, come le imprese transnazionali, queste sono quelle imprese di cui abbiamo la
percezione che vendano in tutti i luoghi ma apparentemente non producono da nessuna parte;
sono le imprese globali, un fenomeno molto evidente negli ultimi 30 anni.
Il capitalismo anglosassone è caratterizzato da 4 vincoli che gestiscono l’attività d’impresa: il
vincolo interno (remunerazione e contrattualizzazione di fattori produttivi – agente/principale), il
mercato del lavoro (concorrenza perfetta), il mercato dei prodotti (se tutte le imprese devono
operare in un mercato perfettamente concorrenziale è molto semplice – beni omogenei) e infine il
mercato dei capitali.

L’IMPRESA
Funzione di produzione y=f(x1,x2…xn) la teoria economica tende a rappresentare l’impresa in
questo modo: attraverso una relazione tecnologica fra gli input e gli output; vale a dire che con
una certa quantità di input si ottiene un determinato output. Nella teoria economica, soprattutto
in quella neoclassica, l’impresa è descritta come una black box: non sappiamo cosa determina la
relazione tra input e output né gli aspetti organizzativi; il mio obiettivo è sempre sapere solo che
l’allocazione delle risorse sia la migliore possibile e l’output è il maggiore possibile. Se non si è in
grado di farlo, si esce dal mercato.

Per imprenditore/impresa neoclassica si deve intendere il singolo soggetto che svolge un’attività
non complessa e che non prevede una grande organizzazione a livello di combinazione di fattori
produttivi. Questo è molto diverso dall’idea che abbiamo oggi di impresa; oggi, infatti, il fenomeno
è molto diverso da quello che il modello black box ci consente di comprendere, sono imprese
molto grandi. Come facciamo a descrivere il comportamento di queste imprese se immaginiamo
che siano assimilabili al piccolo imprenditore neoclassico che si configura con l’impresa stessa? Chi
è l’impresa e chi è l’imprenditore? Dalla fine dell’800 le imprese iniziano a crescere così tanto e
imprese grandi pongono un problema, nel momento in cui diventano così grandi e la figura
dell’unico imprenditore viene sostituita dal manager che è cosa distinta dal proprietario del
capitale, chi mi assicura che questo si comporti negli interessi degli azionisti e dunque dei
proprietari del capitale? È il meccanismo dei prezzi che indirizza le scelte delle imprese e del
consumatore, dal punto di vista dell’impresa non c’è nessun’altro nella scala gerarchica prima di
noi che ci dica cosa scegliere e indirizzi l’attività nell’interesse generale.

L’IMPRENDITORE
L’elemento è l’anticipazione: attività di anticipazione della spesa relativa ai fattori produttivi che
deve combinare per poter ottenere un output che poi metterà successivamente sul mercato. La
spesa è certa, il reddito incerto, non è mai sicuro di vendere tutto ciò che si produce. Questa
incertezza giustifica il fatto che qualcuno si assuma questo rischio, e che in cambio possa
trattenere la differenza tra i costi sostenuti ed i ricavi realizzati: il profitto.
Tutte le condizioni che sono alla base della concorrenza perfetta, non giustificherebbero
l’esistenza del profitto, tutto è noto, conosco la domanda e quindi l’offerta, perfetta informazione
e comportamento massimizzante. Se questi elementi sussistono si parla di profitto nullo;
l’esistenza del profitto mi fa capire che il mondo reale è diverso dalla teoria economica: nella
teoria l’idea di un soggetto imprenditore che si carica a sé un rischio non esiste. Ammettere e
giustificare un profitto significa pensare che l’attività imprenditoriale sia qualcosa di diverso
dall’interpretazione di una funzione di produzione data, ma piuttosto immaginare un prodotto che
può essere venduto e come realizzarlo. Il contesto è di informazione incompleta conta molto di più
scegliere cosa si produce, anticipando i bisogni, e come questi possano essere soddisfatti al
meglio.
Se le informazioni sono piene, si fa mero arbitraggio, spostando le risorse da una parte all’altra
(teoria economica e soprattutto teoria classica di Smith).
Quando c’è incertezza c’è un problema, ovvero l’impossibilità di gestire le decisioni economiche
attraverso gli strumenti classici della probabilità.

Knight – scuola di Chicago


Knight affermava che l’Incertezza era divisa in probabilità a priori e probabilità statistica. Se gli
eventi sono ben definiti si può calcolare ex ante con strumenti matematici e statistici la probabilità
che si verifichi uno di questi, se, come assunto dalla seconda ipotesi, gli eventi non sono ben
definiti in qualche modo siamo noi che dobbiamo classificarli guardando al passato ad eventi
simili. Secondo Knight le decisioni imprenditoriali sono caratterizzate da vera incertezza, cioè non
possono essere gestite dalle probabilità né statistica né a priori, ma solo dal giudizio del singolo,
perché sono talmente uniche e specifiche, nonché caratterizzate dal loro contesto che le rende
difficilmente assimilabili a quelle che sono state prese in passato.
Quelli che noi consideriamo bravi imprenditori o bravi manager sono quelli che hanno preso
decisioni che altri non hanno preso, oppure che hanno anticipato un futuro che ancora si doveva
realizzare. Se si conoscesse la curva di domanda e la curva di costo non ci sarebbe alcuna difficoltà
a scegliere le quantità di input che massimizza il profitto, l’unica capacità richiesta è la capacità di
calcolo, ma ovviamente questo non è il contesto che muove le decisioni di impresa. Secondo la
teoria neoclassica l’imprenditore può essere ognuno dei fattori di produzione (capitale lavoro), di
fatto non c’è nessuna problematica di coordinamento e gestione di questi fattori che non possa
essere risolta dal mercato, e mercato vuol dire prezzi. In questi termini l’impresa rimane una
scatola nera.

VINCOLO INTERNO
La teoria neoclassica risponde alla critica della scatola nera con una spiegazione sempre
tecnologica: l’impresa è sempre una funzione di produzione ma che ha caratteristiche particolari,
ovvero è definita funzione di produzione di squadra. La teoria economica è orientata ad un
approccio egoistico, cioè assume la divergenza degli interessi tra gli agenti, io titolare posso
perseguire come obiettivo la massimizzazione del profitto, mentre i consumatori possono avere
come obiettivo la massimizzazione dell’utilità, e non necessariamente le due cose coincidono.
In un tale contesto perché io imprenditore dovrei avere convenienza a contrattare i fattori
produttivi in vista della produzione di un output? La risposta è insita nella funzione di produzione
di squadra: essa ha la principale caratteristica di essere super-additiva, ovvero se si combinano
quei fattori produttivi (input), si ottiene un output maggiore di quello che si otterrebbe se non
venissero combinati insieme o operassero singolarmente.

IL MERCATO DEL LAVORO E DEI PRODOTTI


Ora si deve capire come viene determinato il salario in questo contesto. Il mercato è
perfettamente concorrenziale, tutti i fattori sono fungibili. Il livello del salario che emerge è in
corrispondenza della produttività marginale del lavoro; prendo in salario proporzionalmente a
quanto sono in grado di contribuire alla produzione.
Dal lato del lavoratore, il problema all’interno della funzione di produzione di squadra è il
cosiddetto free riding, cioè il comportamento opportunistico di chi non lavora o lavora meno,
derivante dal fatto che non sia possibile determinare con precisione il contributo specifico del
singolo all’output finale. Questo può portare i lavoratori ad offrire prestazioni inferiori a quelle
contrattualmente definite; l’imprenditore o il titolare, quindi, deve gestire il comportamento di chi
fa parte della funzione di squadra. Emerge un’attività dell’imprenditore molto diversa da quella
definita prima: consiste nel monitoraggio, quindi nel controllo dei fattori produttivi. Il modo più
facile è l’osservazione del comportamento ed ovviamente è più facile ed efficace quando i fattori
produttivi sono pochi, oppure quando ad ognuno è assegnata una mansione molto semplice e
molto ben definita; questo avviene quindi in contesti artigianali, attività fisiche e tendenzialmente
manuali, di catene di montaggio, quando l’osservazione è quantitativa.
L’orientamento che emerge in questi contesti è questo: si ha un benchmark ed il fattore produttivo
che non lo raggiunge viene sostituito. Il monitoraggio diventa più complesso per attività che
implicano i concetti che non sono ripetute né manuali (osservazione qualitativa).
L’idea che esista un mercato perfettamente concorrenziale del lavoro incentiva i lavoratori a
lavorare come stabilito per evitare la sostituzione; l’idea che emerge in conclusione è quella che
per far andare bene le imprese bisogna avere un mercato perfettamente concorrenziale dei fattori
produttivi, perché questo consente la minaccia di sostituzione e la possibilità di gestire al meglio
l’attività di monitoraggio tipica dell’attività imprenditoriale.

IL MERCATO DEI CAPITALI


Ora la domanda che sorge spontanea è: chi controlla il controllore? Aumenta la dimensione
dell’impresa ed entra in gioco il fenomeno della separazione tra proprietà e controllo. Subentra il
manager al posto dell’imprenditore, ma il manager è sempre un soggetto specializzato che lavora
per il proprietario. Nel caso in cui l’attività di controllo venga delegata a un soggetto terzo, sorge
un dubbio relativo a come sapere se tale persona ha o meno gli stessi incentivi del titolare a
controllare l’attività d’impresa. Dai primi anni dei 900 aumentano le dimensioni dell’impresa
talmente tanto che si fa difficoltà a far coincidere la figura dell’impresa con quella
dell’imprenditore, ed entra il fenomeno di separazione tra attività e controllo.

Esempio: crisi 2007/2008 – da un giorno all’altro i risultati aziendali diventano pessimi. Di chi è la
colpa? Del manager che ha gestito male? Di chi doveva controllarlo? Ci sono proposte che
derivano dall’analisi di quale possa essere un buon metodo di remunerazione del fattore
produttivo (come una percentuale sugli utili), tenendo conto che la teoria standard dice che il
problema può essere risolto attraverso la remunerazione. Tuttavia, un’altra teoria, dice che alla
fine il manager diventa proprietario dell’impresa stessa.

Altro aspetto, che fa parte dei vincoli interni è che quando cresce la dimensione dell’impresa,
nasce il fenomeno della società per azioni. Queste, infatti, non esistono in natura, serve una norma
che definisca la possibilità di possedere una piccola porzione del capitale dell’impresa e di
partecipare teoricamente alla proprietà di questa con la possibilità di limitarne il rischio alla quota
sottoscritta. Serve una decisione di carattere istituzionale. Se perdiamo, perdiamo solo la parte
investita nell’attività, limitatamente al capitale in nostro possesso. Questo tipo di scelta è stata
adottata perché funzionale a far crescere l’impresa; più persone contribuiscono al finanziamento
dell’attività, più quest’ultima può crescere. Il pubblico ha una quota piccola, ma l’impresa ne mette
insieme tante piccole quote, e questo la rende grande. Il lato negativo è che ciascuno di noi è poco
incentivato a controllare l’attività del manager, se ho una piccola quota come faccio a controllare
che il manager stia operando in maniera efficiente? Tendenzialmente le persone che possiedono
quote in S.p.A. non vanno a vedersi le informazioni rilevanti sulla gestione.

Quale soluzione propone la teoria economica? Qual è il meccanismo attraverso cui il mercato dei
capitali garantisce l’efficienza della gestione delle imprese?
Rapporto valutativo: V = Vn/k  rapporto fra valore di mercato, che coincide con la
capitalizzazione di borsa (si ottenie come somma del numero di azioni emesse, moltiplicato per il
valore di esse) e il valore intrinseco ovvero il valore dell’attivo di bilancio, k.
Conviene detenere parte del capitale dell’impresa quando il rapporto è inferiore a 1. Il valore di
mercato che esprime il potenziale di un’impresa è inferiore al valore contabile di bilancio, dunque
mi aspetto o una rivalutazione del mercato oppure male che va posso smembrare l’impresa e
vendere le attività. Posso invece ritenere profittevole detenere la quota se V>1 solo se esiste un
valore V*>V che mi consenta di pensare che se venisse gestita meglio quella attività, il valore
potrebbe arrivare ad un livello ottimo. Si crea il meccanismo del take over, o della scalata ostile: il
manager è incentivato a gestire in maniera ottima l’impresa, perché qualora non rendesse il
massimo il valore dell’impresa stessa, ci sarà qualcuno all’esterno che è in grado di acquisire il
capitale dell’impresa e gestirlo in maniera più efficiente. Il mercato dei capitali sottopone ad un
giudizio legato al fatto che il manager, nel momento in cui non svolga la propria attività nella
misura più efficiente possibile, potrà essere sempre rimosso attraverso il cambio di proprietà
dell’impresa stessa. Il mercato dei capitali è un po’ il meccanismo che guida la selezione delle
imprese, sottoponendo a controllo il loro operato, spostando le risorse da una parte all’altra. Al
mercato finanziario non interessa più di tanto l’attività sottostante, ma principalmente il profitto
finanziario.

Il premio Nobel Fama fa una distinzione del mercato finanziario legata a tre elementi, da cui deriva
una distinzione in termini di efficienza in forma debole, forma semi forte o forma forte. È efficiente
in forma debole se il prezzo dei titoli (delle azioni) ingloba quelle che sono le informazioni relative
all’andamento passato e presente delle quotazioni azionarie. Se il mercato è efficiente in forma
debole, una strategia di trading, l’acquisto di un’azione in vista della rivendita futura, basata
sull’osservazione dell’andamento passato e presente del titolo, non consente di ottenere un
profitto positivo. Questo perché se si vuole realizzare un profitto positivo ci vuole un vantaggio
informativo che gli altri non hanno, se il mercato è efficiente in forma debole non c’è vantaggio ad
osservare l’andamento passato del titolo, queste informazioni sono già inglobate nel prezzo, e
quindi tutti lo hanno già fatto. In un mercato efficiente in forma semi forte, il prezzo del titolo già
ingloba tutte le informazioni sulla sua probabilità di crescita o decrescita sulla base di giudizi e di
documenti contabili: non si ottiene un profitto positivo sfruttando le informazioni nei documenti di
carattere pubblico. Infine, se un mercato è efficiente in forma forte, non è possibile utilizzare
neanche le informazioni private per ottenere un profitto positivo perché il mercato finanziario già
ingloba queste informazioni e se già le ingloba vuol dire che di fatto quelle informazioni non sono
più private proprio perché presenti all’interno del prezzo del titolo. In questo senso per la teoria
non avrebbe senso avere informazioni private, tutte le informazioni devono essere rese disponibili
per tutti.

ASIMMETRIE INFORMATIVE
-Selezione avversa (asimmetria informativa emergente in fase precontrattuale).
Esempio del mercato dei bidoni – quali possono essere gli esiti? Un mercato può non esistere per
taluni beni. Nell’esempio del mercato dell’usato delle auto, ci si dovrebbe aspettare che si
vendano solo bidoni. Chi ha le maggiori informazioni sull’auto è il venditore. Nell’offerta di auto, ci
sono quelle di buona qualità e quelle di cattiva qualità, il prezzo a cui vengono vendute tiene conto
che chi acquista non riesce a distinguere la qualità. Per questo motivo chi acquista può pensare
che il prezzo che emerge sia un prezzo medio. Il venditore di un’auto di buona qualità non la
venderà al prezzo medio, che è inferiore e sarebbe potenzialmente maggiore se fosse nota la
caratteristica della buona qualità. Sarà disposto a vendere solo chi possiede un’auto di cattiva
qualità. Piano piano le auto di buona qualità verranno scacciate da quelle di cattiva qualità, perché
il prezzo tenderà ad abbassarsi sempre di più e l’esito della selezione avversa è che non esista più
un mercato di auto di buona qualità. Scambi che sarebbero stati efficienti, perché si era disposti ad
operare, non vengono eseguiti per via della scarsa informazione.
-Azzardo morale (asimmetria informativa emergente in fase post contrattuale). Io, proprietario,
assumo un manager per fare il mio interesse, ma durante la gestione emergono informazioni che il
manager, poiché gestisce l’attività, conosce, mentre chi deve controllare non ha a disposizione.
Utilizzare informazioni per perseguire un proprio interesse costituisce il caso di informazioni
nascoste: non comunicare alcune informazioni rilevanti sfruttandole a proprio vantaggio, o di
azioni nascoste, comportandosi in maniera non visibile agli altri. Nel contesto del controllo
dell’attività del manager siamo nel caso della moral azard, e può essere orientato al prestigio
personale. Dunque, l’operato del manager viene controllato dal mercato finanziario efficiente in
forma forte, perché solo in questo mercato si ha che, chi gestisce l’attività non ha informazioni
private che possono essere sfruttate, inglobate già dal prezzo dell’azione. Ciò significa che non si
hanno informazioni di cui si può godere per avere comportamenti opportunistici.

CONCLUSIONI
Quello che è importante è che questi vincoli, in ultimo il mercato dei capitali, sono essenziali nel
garantire l’efficienza dell’attività dell’impresa in un contesto nel quale si hanno separazione tra
proprietà e controllo e un contesto che si allontana molto dall’idea inziale dell’impresa dove la
figura dell’imprenditore e dell’organizzazione coincidono.
Il giudizio del mercato è funzionale al miglioramento dell’efficienza dell’impresa stessa
(meccanismo tipicamente anglosassone), questo perché mercato azionario è un pezzo attraverso
cui il risparmio entra in contatto con l’attività d’impresa; nei paesi anglosassoni è il mercato di
borsa a svolgere questo ruolo importante, anche attraverso il sistema pensionistico, ad esempio,
che rende disponibili grandi risorse finanziarie. Nei paesi anglosassoni la maggior parte delle
risorse vengono investite nel mercato azionario e non intermediate dal sistema bancario, e questa
è la principale differenza con il capitalismo renano. Nel capitalismo renano più vicino a noi sono le
banche che intermediano il risparmio, sono il canale storicamente privilegiato di finanziamento
dell’attività di impresa, anziché del mercato azionario. Il sistema bancario si fa carico del giudizio
del buon operato dell’impresa stessa e lo fa rendendo ovviamente meno funzionale tale
meccanismo. Ma traendo le conclusioni, il capitalismo renano è meno performante del capitalismo
anglosassone? Il sistema economico tedesco è meno performante di quello americano? Di quello
giapponese? Di quello cinese? Certo, da questa visione teorica emergerebbe che la strada per
efficentare il marcato sia quella del capitalismo anglosassone, perché consente l’operare dei 4
vincoli, tuttavia al contempo non si può affermare che la performance di alcuni sistemi economici
sia peggiore di quella di altri. La tendenza che abbiamo a guardare al mercato finanziario è stata
molto criticata, soprattutto con l’idea che i manager sono spinti a guardare i parametri finanziari.
In questo approccio bisogna essere orientati a giudicare e conoscere l’attività dell’impresa
guardando a parametri tendenzialmente di carattere finanziario. Perché, se sottoposti al giudizio
del mercato finanziario, si deve andare in qualche modo ad accontentare il mercato stesso. Siamo
indotti dal modo stesso con cui organizziamo l’attività a privilegiare il parametro finanziario: il
manager deve pubblicare le trimestrali, ma rimane in dubbio se tre mesi sia un periodo adeguato a
valutare un’attività dal punto di vista economico. La critica è, dunque, al fatto che questi nuovi
manager sono poco attenti all’attività reale e all’orientamento al breve periodo. Un esempio
potrebbe essere quello della carovana che deve portare delle merci in Asia, se mi chiedi
informazioni dopo tre mesi, io non sono nemmeno a metà strada, in molte attività di investimento
di carattere aziendale l’orizzonte temporale è più lungo, soprattutto se le attività devono portare al
cambiamento.

BARRIERE ALL’ENTRATA E CONCORRENZA POTENZIALE


Fino ad oggi ci siamo concentrati su quello che gli economisti industriali definirebbero concorrenza
effettiva, cioè quella che è l’eventuale interazione competitiva, che può emergere in un
determinato mercato, in cui si può assumere che il confronto competitivo derivi dalle altre
imprese che già sono presenti nel mercato. Modificare questa situazione di concorrenza effettiva
con una situazione di concorrenza potenziale ovvero la concorrenza che potrebbe derivare dalle
imprese che in questo momento non sono nel settore ma sono al di fuori dello stesso. È lecito
domandarsi se queste imprese sono in grado di esercitare un vincolo ai comportamenti delle
imprese già operanti nel settore e se questo avrà una conseguenza in termini di risultati che
possiamo attenderci dal funzionamento di quel mercato. L’idea di concorrenza potenziale richiama
il concetto di barriere all’entrata; la definizione delle stesse è sempre stato un argomento
controverso nell’economia industriale che ha generato numerose definizioni (anche in contrasto
tra loro). Se un’impresa vuole entrare nel mercato, il modo più frequente è sicuramente quello di
acquisire un’altra impresa già esistente, ma questo tipo di ingresso, in effetti, non rappresenta dal
punto di vista dell’economia industriale, una nuova entrata; è vero che una nuova impresa accede
al mercato, ma lo fa acquisendo un’impresa già esistente e non creando nuova capacità
produttiva.
Si definisce allora entrata la creazione di nuova capacità produttiva; l’entrata si configurerà come
l’ingresso di un nuovo soggetto, ma che si declina attraverso la creazione di una nuova capacità
produttiva.

Quando si parla di creazione di nuova capacità produttiva, bisogna distinguere due figure:
- La figura dell’incumbent: l’impresa che già esiste all’interno del mercato.
- Impresa entrante: l’impresa esterna al settore che decide di entrare all’interno del mercato.
Analizzare le due prospettive è molto importante:
Prospettiva dell’entrante: su che basi si valuta l’entrata o meno nel settore, dunque se attivare o
meno nuova capacità produttiva. In primo luogo, bisogna osservare se le altre imprese già presenti
sul mercato (gli incumbent) stanno generando dei profitti. Il fatto che ci sia un profitto all’interno
del mercato non ci garantisce che noi, impresa entrante, genereremo un utile. (analizzare come
quel profitto ci sarà una volta che l’entrata sia avvenuta, ovvero come la decisione di ingresso vada
a modificare la situazione di profitto in quel settore). Questa prospettiva viene trainata dall’idea di
Adam Smith, dove si ragiona con l’idea che è opportuno scegliere il settore che guidi il differenziale
di profitto, cioè in quale settore si pensa di realizzare il maggior tasso di profitto, è che questo
profitto debba essere realizzato una volta che l’impresa sia entrata sul mercato. Per analizzare il
mercato è necessario effettuare un ragionamento relativo a quali potrebbero essere le scelte
dell’incumbent una volta all’interno del mercato, e come ci aspettiamo si comporti quest’ultimo
nel momento in cui decidiamo di attivare nuova capacità produttiva. Da questo tipo di ipotesi
comportamentale, si può successivamente ragionare sull’idea che in quel settore si mantenga un
profitto o meno. Prospettiva dell’Incumbent: c’è un profitto in questo momento, ma un potenziale
entrante potrebbe vedere tale profitto come un’occasione per accedere al mercato e generarlo. In
questo caso l’incumbent può accettare di cedere la sua posizione di monopolio oppure
comportarsi diversamente: ridurre il profitto, oppure comportarsi in maniera strategica nella
misura in cui si potrebbe pensare di adottare comportamenti che rendano meno profittevole o
addirittura non profittevole l’entrata del potenziale entrante; ci si trova in un contesto di
interdipendenza strategica. Uno dei primi modelli di oligopolio che considera le barriere all’entrata
viene proposto da Bain, che afferma che il modello di Cournot non può essere considerato
sufficiente nel momento in cui non considerate la possibilità che altre imprese entrino nel
mercato.

BAIN lega le barriere all’entrata alla capacità di alzare il prezzo ad un livello superiore al costo
medio da parte delle imprese “incombenti”. Ciò consente di interpretare le barriere all’entrata
come uno dei principali elementi della struttura del mercato all’interno del paradigma structure-
conduct- performance. Nel tempo sono state proposte diverse definizioni di barriere all’entrata,
che prendono spunto dal tema dell’entrata e dall’analisi originaria di Bain: Il tema dell’entrata si
lega a quello delle barriere all’entrata perché queste ultime rappresentano un qualsiasi ostacolo di
diversa natura che impedisce, preclude l’ingresso di un’impresa in un determinato settore.
Facendo una prima distinzione, troviamo barriere strutturali e barriere strategiche: le prime si
riferiscono a caratteristiche stesse del mercato, sono principalmente da riferirsi ad elementi di
carattere regolatorio o istituzionale o a condizioni di base dal lato dell’offerta, principalmente dal
lato dei costi; le seconde, invece, sono legate ad elementi comportamentali, cioè legate a decisioni
delle imprese incumbent che sono volte ad ostacolare l’ingresso di altre imprese e sono dette
strategiche nella misura in cui sono attuate in conseguenza a determinate scelte d’impresa.
L’analisi di Bain si occupa in particolare della visione delle barriere strutturali.

DEMSETZ (1982)
Le uniche barriere all’entrata sono quelle di carattere regolatorio, più in generale quelle di
carattere istituzionale. Gli unici ostacoli che l’impresa incontra nel momento in cui vuole accedere
al mercato sono quelli definiti dallo Stato che magari, per far svolgere una determinata attività,
richiede particolari requisiti come i permessi, le licenze o le autorizzazioni.
Le barriere tariffarie (commercio internazionale) come i dazi, ovvero tariffe di importazioni,
riguardano chi vuole concorrere dall’estero sul mercato nazionale e deve perciò sostenere un
costo aggiuntivo rispetto a chi produce internamente. Le barriere non tariffarie, ovvero requisiti
tecnici e/o normativi, che valgono in un determinato territorio rispetto ad un altro, di salute,
sicurezza, religiosa, ambientale: ad esempio il marchio CE che attesta che il prodotto sia stato
realizzato secondo requisiti che tutelano sicurezza e salute umana. Idealmente tutte queste
barriere non sono legate alle caratteristiche del mercato in sé, ma sono imposte, in via regolatoria
o normativa, dai singoli Stati e sono soltanto loro a rappresentare delle barriere all’entrata. Nella
visione di Demsetz, l’operare dell’economia concorrenziale porterebbe all’eliminazione dei profitti
monopolistici nel lungo periodo non comportando, pertanto, la creazione di barriere all’entrata,
che in definitiva sono dovute soltanto all’azione governativa. Serve un intervento dello Stato
minimo possibile, cioè un intervento che rimuova le barriere istituzionali che ostacolano il
processo di allocazione delle risorse nei vari settori a seconda della convenienza che si può
trovare.

STIGLER (1968)
Da una definizione di barriera all’entrata che è legata ad un’asimmetria tra l’impresa esistente e
l’entrante; un’asimmetria di costo ovvero ci sarà una barriera all’entrata ogni qual volta l’impresa
entrante dovrà sostenere un costo che l’impresa incumbent non deve sostenere o non ha
sostenuto nel passato.
Non classificherebbe quindi le concessioni dei taxi (esempio cardine teoria di Demsetz come una
barriera all’entrata), le differenze di concezione di pensiero tra Stigler e Demsetz, perché mentre il
primo tende ad enfatizzare la presenza di condizioni di mercato asimmetriche, il secondo identifica
le barriere all’entrata con le restrizioni governative.

BAIN (1956)
Bain legge le barriere all’entrata non pensando a quella che è la natura della stessa, come un
requisito di tipo amministrativo, quanto all’effetto della barriera. Per Bain l’effetto della barriera
all’entrata è che l’impresa incumbent possa mantenere un prezzo più elevato rispetto al ACmin di
produzione e distribuzione di lungo periodo, possa dunque mantenere un margine positivo tra
prezzo e costo medio che realizza un profitto positivo, senza che questo provochi l’ingresso di altre
imprese sul mercato. Il prezzo massimo che impedisce l’entrata è il prezzo limite cioè il prezzo più
alto che le imprese attive possano stabilire senza attirare l’entrata di nuove imprese (detto anche
prezzo di esclusione).

DETERMINANTI DELLE BARRIERE ALL’ENTRATA


Tre classi di determinanti che possono influenzare le condizioni di entrata in un mercato:
- Vantaggi assoluti di costo;
- Le economie di scala;
- La differenziazione del prodotto;

VANTAGGI ASSOLUTI DI COSTO


I vantaggi assoluti di costo si riferiscono a tutte quelle situazioni nelle quali l’impresa incumbent
gode di un vantaggio di costo rispetto ai potenziali entranti, per ogni possibile livello di
produzione. Questo significa che i rivali potenziali hanno, sempre e comunque, una curva di costi
medi di lungo periodo che giace al di sopra di quelle che caratterizza le altre imprese. Tali vantaggi
degli incumbent derivano da una molteplicità di fattori: l’impresa dominante può disporre di
tecniche produttive superiori rispetto a quelle dei rivali, può avere accesso ai fattori produttivi a
prezzi e/o condizioni più favorevoli.

ECONOMIE DI SCALA
Le economie di scala rappresentano una barriera all’entrata. Dal lato dell’Incumbent: siamo in un
orizzonte di programmazione, dunque insieme all’economia di scala leggiamo il rapporto tra la
dimensione (costo associato a tale dimensione) e la domanda; ciò significa che non si può scegliere
la dimensione senza tener conto della domanda. Dal lato dell’entrante: immaginiamo che la
domanda (D’), la quantità prodotta dall’impresa già presente sia (Qi), si pone il cosiddetto dilemma
dell’entrante, con quale dimensione entrare all’interno del mercato. L’incumbent produce ad un
costo (Ci), per raggiungere quelle dimensioni bisogna produrre almeno la Q(i). Ma se si introduce
sul mercato tale quantità, il P scende all’aumentare della Q; quelle condizioni di P potrebbero non
essere compatibili con l’entrare sul mercato e realizzare un profitto positivo.
Le economie di scala sono una determinante rilevante della condizione di entrata quando la
dimensione ottima minima (DOM) di produzione è elevata rispetto alla quantità del mercato. Un
potenziale entrante potrebbe aggiungere all’offerta già esistente un notevole volume di
produzione e generare una diminuzione nel livello dei prezzi e quindi dei profitti. I potenziali
entranti, per non aumentare eccessivamente l'offerta, possono essere indotti a fare ingresso con
una scala produttiva ridotta rispetto a quella ottimale.

DIFFERENZIAZIONE DEL PRODOTTO


Per differenziazione di prodotto si intende ogni possibile elemento che porta il consumatore a
ritenere l’impresa differente da un’altra. La differenziazione si manifesta in una preferenza
dimostrata dai consumatori nei confronti di prodotti già esistenti sul mercato. Un incumbent può
godere di una reputazione associata ad un marchio (elemento astratto) che le consente di
applicare prezzi superiori. Difronte a tale preferenza l’entrante per riuscire a collocare la propria
produzione sarà costretto ad applicare prezzi inferiori (strategia di penetrazione) vedendo ridurre i
propri ricavi, oppure a sostenere elevati costi di promozione (risorse finanziarie), aumentando i
propri costi per unità di prodotto. Dopo un periodo di promozione e avviamento, anche i prodotti
dell’entrante arriveranno a competere con quelli dell’incumbent; il problema principale è la
lunghezza di tale periodo: più è ampio, più l’entrata sarà scoraggiata.

BARRIERE AGGREGATE
I diversi tipi di barriere all’entrata sono stati classificati da Bain in tre categorie:
-  Categoria molto alta, per cui gli incumbent possono aumentare il prezzo del 10% rispetto ai
ACmin senza attirare l’entrata di altri soggetti nel mercato;
-  Categoria sostanziale, che corrisponde a possibili aumenti dal 5% al 9%;
-  Categoria moderata o bassa, relativa ad un mark-up potenziale sui ACmin compreso tra l’1% e il
4%.
Si possono sintetizzare le conclusioni dello studio di Bain:
-  Le economie di scala sono una causa frequente di barriere all’entrata, ma configurano barriere
basse. Questo è dovuto al fatto che esistono pochi settori industriali in cui la dimensione ottima
minima è molto elevata rispetto alla dimensione dell’intero mercato.
-  I vantaggi assoluti di costo non sono in genere causa rilevante di altre barriere all’entrata, con
l’eccezione di quei settori in cui si assiste al fenomeno dell’integrazione; importante è anche la
presenza di brevetti industriali e il fabbisogno di capitale può rivelarsi una causa di notevole effetto
nella determinazione della condizione di entrata.
-  I vantaggi di differenziazione del prodotto sono una causa frequente di barriere all’entrata e
sono in grado di generare barriere molto alte (condizioni di entrata come differenza tra il prezzo e
il AC); nonché mi consente di ottenere margini più alti.

BARRIERE TECNOLOGICHE
Una trattazione lievemente più ampia merita l’aspetto dei vantaggi riconducibili ad una superiorità
tecnologica protetta da brevetti o altri diritti su opere dell’ingegno e di know-how legato alla
ricerca e sviluppo già avviata. I brevetti forniscono all’inventore diritti esclusivi su un prodotto,
processo, sostanza o design nuovo e utile. La protezione legale accordata invece ai lavori artistici,
nella misura in cui questa si materializza in un oggetto tangibile, come un libro, una fotografia o un
CD Room, e alle invenzioni di software, è quella dei diritti d’autore. La finalità di brevetti e diritti
d’autore è quella di fornire un incentivo all’innovazione, assicurando una protezione che consenta
di remunerare le risorse impiegate per lo sviluppo della stessa innovazione. La protezione legale
delle innovazioni conferisce un potere di monopolio all’inventore. Un innovatore, ex post, diventa
un monopolista, protetto dalla legge o dall’incapacità dei suoi rivali di imitare l’innovazione. Tale
situazione comporta un costo sociale in termini di efficienza, misurata l’inefficienza allocativa
associata ai prezzi di monopolio. Si configura pertanto un dilemma tra inefficienza e incentivo
all’innovazione; questo dilemma può essere in parte risolto combinando in maniera ottimale gli
elementi della protezione come l’ampiezza e la durata: quanto più lunga è la durata di un brevetto
di un diritto d’autore, tanto più velocemente la collettività si appropria del valore di
quell’innovazione e viceversa.

Bain lega la sua analisi al comportamento di Cournot: ci deve essere un qualche motivo
sottostante a come ciascuno vede il comportamento dell’incumbent e dell’entrate, per capire la
differenza fra la visione di Bain e Demsetz.

Cournot, comportamento alla base della sua teoria: interdipendenza strategica, l’idea che il
profitto dipenda non soltanto dalle proprie decisioni ma anche da quelle degli altri. Se io cambio
qualcosa, questo cambiamento cosa provoca nelle decisioni dell’altra impresa?
Lamda è il termine di variazione congetturale, che spiega come varia l’output dell’impresa j, in
corrispondenza ad una variazione dell’impresa i.  assume valore = 0, se vario la mia produzione,
l’altro non farà nulla, continuerà a produrre la medesima quantità prodotta prima.
Se l’entrante ragiona alla Cournot, in conseguenza di una decisione di entrata, l’ipotesi che fa
sull’incumbent è quella di mantenere lo stesso livello produttivo; a questo punto l’entrante valuta
se l’entrata è profittevole o meno a seconda che, dopo l’entrata, si generi un profitto positivo,
soprattutto valuta il comportamento dell’incumbent come lo valuterebbe un’impresa alla Cournot,
ipotizzando quindi che l’incumbent continui a produrre eguale quantità prima dell’ingresso.
Questa ipotesi prende il nome di postulato Sylos-Labini. Di fatto, aggiunge la sua quantità a quella
dell’incumbent. Se così si comporta l’entrante, l’incumbent può quindi stabilire il suo output in
modo tale che non sia profittevole per un’altra impresa fare il suo ingresso.
POSTULATO DI SYLOS-LABINI: Il postulato di Sylos-Labini analizza il comportamento di entrata in
un mercato oligopolistico assumendo l’ipotesi che le imprese potenziali concorrenti effettuino la
loro decisione di entrata supponendo che gli incumbent reagiscano all’entrata non variando livelli
di produzione, in maniera non dissimile dall’ipotesi sottostante al modello di Cournot. Con questa
ipotesi i potenziali concorrenti possono calcolare la riduzione del prezzo del bene dell’industria
dovuta alla loro entrata e, di conseguenza, la convenienza dell’entrata stessa. Le ipotesi sottostanti
tale postulato sono che non vi è differenziazione fra il prodotto delle imprese già stabilite e quello
del nuovo entrante; la domanda del mercato è costante nel tempo e il potenziale entrante si
comporta secondo l’ipotesi di Cournot, ossia ritiene che la quantità prodotta dalle imprese
incumbent resterà invariata anche dopo l’eventuale entrata del nuovo concorrente.
Prezzo limite: è il prezzo massimo che gli incumbent possono stabilire senza attirare l’entrata. Le
stesse possono avere convenienza a rinunciare al profitto di monopolio nel breve periodo, per
impedire l’ingresso di altre imprese. Il prezzo limite è dato dalla differenza fra i costi di produzione
medi/marginali delle imprese incumbent e di quelli delle imprese entranti, e inoltre dal
sovrapprezzo che può essere praticato senza provocare l’entrata di nuovi concorrenti. Il prezzo
limite è una funzione diretta della scala minima di entrata di nuovi concorrenti e inversa
dell’elasticità della domanda, nel senso che tanto più piccoli sono i valori dell’elasticità della
domanda tanto maggiore risulta la differenza fra il prezzo praticato dall’impresa incumbent e
quello che risulterebbe in condizioni di concorrenza. Mentre la concorrenza potenziale impedisce
all’impresa incumbent di formulare un prezzo di monopolio (MR=MC), il prezzo che impedisce
l’entrata corrisponde al costo medio marginale per i concorrenti potenziali. Il modello BSM assume
che l’incumbent abbia un vantaggio -di essere la first mover- che si rifà all’ipotesi di oligopolio di
Stackelberg (in cui un’impresa conosce già la mossa dell’altra), l’incumbent conosce come pensa
l’entrante. Questo genera nell’incumbent un incentivo nell’utilizzare la propria quantità
(rinunciando ad una parte di profitto) per svantaggiare la profittabilità del potenziale entrante
(QUANTITA’ aumenta; PREZZO diminuisce). L’entrante se postula che l’incumbent mantenga
inalterata la propria produzione, immagina di aggiungere la propria Q a quella dell’incumbent:
dato che si immagina che la curva di D sia inclinata negativamente, quando si aggiunge la nostra Q
a quella dell’incumbent, ci si aspetta un aumento della Q e che il P si riduca (relazione negativa tra
Q e P).
Immaginando due situazioni: vantaggio assoluto di costo e economie di scala.
Una strategia che ha come obiettivo quello di dissuadere l’entrata di un’altra impresa: strategia di
deterrenza all’entrata legato alla possibilità che le imprese attuino politiche di prezzo, sotto
l’ipotesi che ciò sia profittevole.
Prezzo limite con Vantaggio assoluto di costo: un’impresa (i) incumbent, se fosse sola potrebbe
fissare P e Q di monopolio, essendo il costo medio costante che coincide con il costo marginale.
Dall’intersezione si ha la quantità di equilibrio che va proiettata sulla curva di domanda, ottenendo
così il prezzo (Pm). C’è un potenziale entrante ma che di fatto ha uno svantaggio ovvero, che
l’incumbent ha per vantaggio assoluto di costo. Piuttosto che produrre Qm (di monopolio) si
potrebbe produrre inizialmente la quantità QL perché questa è tale per cui la domanda residuale
dell’impresa entrante si annulla: se si introduce il concetto di domanda residuale (differenza tra la
domanda di mercato e la Q prodotta dall’incumbent) essa, man mano che aumenta la q
dell’incumbent, traslerà verso sinistra in corrispondenza della quantità limite, punto nel quale la
curva di domanda residuale dell’entrante sarà sotto la curva di costo medio di lungo periodo
dell’entrante. Si chiama domanda residuale perché è quanto residua dell’entrante data la scelta di
produzione dell’incumbent. Una qualsiasi aggiunta di q determinerebbe per l’entrante un profitto
negativo; l’incumbent invece cosa guadagna? Se si produce QL al PL si ottiene un profitto maggiore
di quello che si otterrebbe nel caso in cui producendo QM a PM si favorisse l’entrata dell’entrante.
L’area che invece corrisponde al profitto della quantità limite è maggiore rispetto ad un’ipotesi in
cui entrano altre imprese. Tutto ciò accade in presenza in un vantaggio assoluto di costo.
Prezzo limite con economie di scala: se lo stesso ragionamento del prezzo limite con vantaggio
assoluto di costo viene applicato in una situazione di economie di scala, nella quale la differenza
sta nell’ipotizzare che tutte le imprese abbiano la medesima funzione di costo (la curva di costo
medio di lungo periodo assume una forma ad L, il costo marginale è costante, si ha una curva di
domanda, prezzo e quantità), sorge il dubbio relativo a quanto debba traslare la curva di domanda
residuale delle entranti affinché la strategia del prezzo limite sia efficace. Immaginando una curva
di domanda residuale, a mano a mano che aumenta la quantità dell’incumbent, la stessa si
sposterà verso sinistra e lo spostamento si arresterà nel punto di tangenza con la curva di costo
medio di lungo periodo; questo perché si ripropone il dilemma dell’entrante che si risolve nella
situazione in cui si avrà un prezzo tale per cui il costo di produzione sarà maggiore dello stesso.
Tale prezzo sarà massimo in corrispondenza della quantità limite, la quale di fatto blocca l’ingresso
del potenziale entrante. Questa strategia deve essere ricondotta ad un vantaggio riconducibile alla
economia di scala.

Vi è bisogno di analizzare la convenienza del comportamento che l’incumbent può adottare sulla
base di 3 scenari:
- Deterrenza all’entrata: tenere fuori il potenziale entrante;
- Accomodamento dell’entrata: far entrare il potenziale entrante;
- Entrata bloccata: scenario limite in cui l’incumbent ha un tale vantaggio da non doversi
preoccupare dell’entrata. La concorrenza potenziale è annullata e non è un problema perché è già
presente sul mercato.

DETERRENZA
Il primo scenario prevede che l’incumbent abbia due soluzioni: una prima soluzione vede la
produzione di Q1(m) ovvero la quantità che massimizza il profitto nel caso in cui il potenziale
entrante decida di non entrare e dunque l’impresa incumbent rimanga a operare da sola nel
mercato, in monopolio; oppure, produrre Q1(s), se il potenziale entrante decidesse di entrare
l’impresa incumbent dovrà abbandonare la produzione di Q1(m) in favore di una quantità inferiore
appunto Q1(s). L’incumbent sa di godere di un vantaggio legato alla presenza di un qualche costo
di entrata (barriera) che inciderà sul potenziale entrante per ostacolarne l’ingresso; se l’incumbent
producesse Q1(m) l’impresa entrante avrà profitti positivi e di conseguenza deciderà di entrare nel
mercato, al contrario, se l’impresa 2 entra, i profitti dell’incumbent legati a Q1(m) diminuiranno e
l’impresa incumbent avrebbe dunque un incentivo a ridurre la quantità di produzione a Q1(s), in
modo tale da avere un maggiore profitto. In alternativa, altra soluzione per impedire l’entrata,
invece di produrre Q1(m) l’impresa incumbent può decidere di aumentare la sua produzione fino
alla quantità di deterrenza Q1(d) che annulla i profitti dell’impresa entrante. Producendo Q1(d)
l’incumbent resterà da sola sul mercato e otterrà il profitto positivo; nonostante ciò, va valutata
come alternativa se accomodare o meno l’ingresso dell’impresa 2 (per competere sul mercato
producendo la quantità Q che massimizza il profitto).

ACCOMODAMENTO
L’accomodamento è il secondo scenario relativo al comportamento dell’incumbent, nonché
quell’alternativa descritta come Q1(s) con la quale l’incumbent lascia accedere l’entrante per poi
produrre la quantità che massimizza il suo profitto; in conclusione conviene produrre Q1(d) se il
profitto ottenuto dalla deterrenza è maggiore del profitto che si ricava con la strategia di
accomodamento. Ci possono essere situazioni in cui la deterrenza non risulta conveniente poiché
la Q che dovrà produrre l’incumbent, per azzerare i profitti dell’impresa entrante (Q di
deterrenza), è talmente elevata che non le converrà ostacolare l’ingresso dell’entrante. Ciò ridurrà
i profitti dell’impresa 1 e non le converrà poiché risulterà più profittevole l’alternativa di
accomodare l’ingresso dell’impresa entrante. Un esempio può essere costituito dalla curva di
profitto dell’impresa entrante che produce un profitto decrescente in rapporto alla quantità
prodotta dall’altra impresa. La differenza che sussiste tra il caso della deterrenza e il caso
dell’accomodamento consiste nel fatto che in un caso il costo di entrata è più basso di un altro,
poiché in presenza di un vantaggio maggiore di cui beneficia l’incumbent, allora il profitto che
l’impresa 2 riesce ad ottenere si riduce proporzionalmente rispetto ad una situazione nella quale,
invece, il costo di entrata sarebbe più basso come diretta conseguenza del fatto che la barriera di
cui beneficia l’incumbent è più debole.

ENTRATA BLOCCATA
Terzo scenario, quello dell’entrata bloccata: la q che azzera i profitti dell’entrante è addirittura
inferiore della quantità che massimizza i profitti in monopolio. Dunque, l’incumbent non si dovrà
preoccupare di ostacolare alcun ingresso poiché il vantaggio di cui gode gli permette una
situazione di monopolio naturale, che potrebbe dipendere da qualsiasi determinante; dando per
scontato che il postulato di Sylos-Labini valga anche nel momento in cui l’entrante entra. Questa è
un’ipotesi molto forte. Se la deterrenza è profittevole, dunque produrre Q1(d) conviene. Ma se
l’altra impresa entra comunque, all’incumbent non converrà continuare a produrre Q1(d), ma le
converrà produrre Q1(s) per massimizzare i profitti. Ma se l’entrante dovesse pensare che
l’incumbent cambi la sua Q a seguito dell’entrata, allora cade tutta la teoria del prezzo limite.
Teoria del prezzo limite e credibilità: l’incumbent deve diventare credibile nel produrre l’esatta
quantità che produceva in precedenza, poiché se tale minaccia non sarà credibile, l’entrante
deciderà di entrare sapendo che l’incumbent diminuirà poi la sua quantità alla Q1(s) di monopolio.
La minaccia dell’impresa incumbent di continuare a produrre la quantità pre-entrata potrebbe non
essere credibile; la fissazione di un prezzo limite può funzionare solamente se l’impresa presente
sul mercato può impegnarsi a produrre una produzione limite anche nel caso in cui il potenziale
concorrente decida effettivamente di entrare sul mercato. Questa ipotesi è in realtà giustificata nel
modello di Dixit-Spence (1977): ciò che rende credibile la fissazione di una quantità limite è il fatto
che l’impresa già presente sul mercato fa un investimento preventivo e irrevocabile nella propria
capacità produttiva.
Concetto di “Sunk-cost”: ci si impegna in una certa politica poiché si è fatto un investimento
vincolante; bisognerà continuare a produrre una determinata quantità per sfruttare l’investimento
effettuato.

CRITICHE ALLA TEORIA DEL PREZZO LIMITE:


-Ignora la struttura di mercato
o Nel caso di più imprese è necessario un elevato livello di coordinamento e collusione
- Perfetta informazione da parte dell’impresa dominante
o Caratteristiche della domanda, costi di produzione degli entranti, ecc.
- Dimensione dell’entrante
STRUTTURA DEI COSTI DI PRODUZIONE
La struttura dei costi di produzione si riferisce ad un orizzonte temporale di breve periodo, dunque
un intervallo di tempo nel quale l’impresa assume che almeno uno dei fattori produttivi sia fisso; la
teoria keynesiana, ad esempio, considera i prezzi vischiosi nel breve periodo, quindi variazioni di
domanda aggregata conducono solamente ad una variazione del reddito. Nel lungo periodo non ci
sono vincoli, l’impresa può scegliere il dimensionamento che predilige avendo la possibilità di
modificare tutti i fattori produttivi. Nel breve periodo i costi totali fissi, ovvero le passività totali
che l’impresa deve sostenere nell’unità di tempo per i fattori fissi, hanno un costo totale costante
che non dipende dalla quantità prodotta; mentre, i costi variabili, definiti come i costi che
l’impresa deve sostenere per acquistare i fattori variabili, aumentano all’aumentare della quantità.
Per bassi livelli produttivi l’aumento dei fattori variabili può dar luogo ad incrementi della loro
produttività, la conseguenza è che i costi variabili totali aumentano con la quantità prodotta ma ad
un tasso decrescente. Superata una determinata soglia i rendimenti marginali del fattore variabile
decrescono e i costi totali variabili aumentano ad un tasso maggiore.
Il COSTO MARGINALE è l’incremento del costo totale conseguente ad un incremento unitario della
quantità prodotta. Per bassi livelli produttivi, il costo marginale può assumere un andamento
decrescente al crescere della quantità prodotta per raggiungere un minimo e poi crescere
all’aumentare della produzione, si parla in questo caso di rendimenti marginali decrescenti.

DIMENSIONE DELL’IMPRESA E ECONOMIE DI SCALA


Uno degli aspetti più rilevanti, nonché in connessione con la natura dell’impresa, è la dimensione
dell’impresa stessa. La dimensione dell’impresa che emerge dalla teoria di Alchian e Demsetz
(team production function – c’è un vantaggio dovuto alla somma dei fattori produttivi, a fronte del
quale si deve sostenere un costo di remunerazione sulla base del loro contributo alla produzione e
in modo da ostacolare il comportamento opportunistico che sorge dalla funzione di squadra
stessa. L’impresa nasce perché il vantaggio è maggiore del costo) è che questa sarà tanto più
grande quanto c’è un vantaggio a creare squadre di grande dimensione, rispetto a quello che è il
costo di gestione della squadra. È una spiegazione tecnologica legata alla funzione di produzione:
ogni qual volta c’è un vantaggio, va sempre confrontato con il costo. Si risponde al contempo sia
alla questione della natura che della dimensione. La stessa spiegazione la darebbe anche Coase: la
dimensione è, infatti, il risultato di un confronto tra i vantaggi della forma istituzionale impresa,
rispetto alla forma istituzionale mercato – l’opzione di make or buy. Data la premessa, è evidente
che si debba guardare soprattutto al lato della produzione e dei costi della produzione per poter
avere un’idea della dimensione dell’impresa. Gli economisti di Harvard, che sviluppano il modello
Struttura-Condotta-Performance, tendono a definire la dimensione dell’impresa guardando come
si muovono i costi di produzione nel lungo periodo.

BREVE E LUNGO PERIODO


Breve periodo: non si tratta di un orizzonte temporale, ma di un orizzonte decisionale, cioè
l’impresa assume che almeno uno dei fattori di produzione è fisso. Dunque, l’impresa è vincolata
nella variazione degli altri fattori produttivi, ad una decisione che è già stata presa in precedenza.
Lungo periodo: è un contesto decisionale in cui gli input possono tutti variare; è possibile scegliere
il dimensionamento della propria attività, modificando tutti i fattori produttivi. I programmi di
produzione possono essere completamente rimodulati senza vincoli alle decisioni precedenti. Si
chiama anche orizzonte di programmazione.
La dimensione dell’impresa fa riferimento al lungo periodo. Nel breve periodo abbiamo già scelto
parte della struttura produttiva e la dimensione, l’interesse è capire come sfruttarla al meglio, e
analizzare come si muovono i miei costi in funzione delle mie scelte di produzione.
Sempre nel breve periodo distinguiamo tra costi fissi, sostenuti per gli input fissi, e costi variabili;
inoltre, si ha il costo medio e il costo marginale. Nel breve periodo l’andamento del primo è ad U,
inizialmente decresce per poi arrivare ad un punto di minimo e risalire, mentre il secondo è
supposto crescere. Questo è legato principalmente al fatto di spalmare su un numero maggiore di
quantità i costi fissi sostenuti, e così si raggiunge il minimo, dopodiché si esaurisce l’effetto di
distribuzione, e prevale l’effetto dato dal costo marginale (legato al costo di produzione dell’unità
aggiuntiva) che è crescente.

RENDIMENTI DI SCALA
Quando passiamo al lungo periodo, quando possiamo variare tutti i fattori produttivi, quali
considerazioni si possono fare per dimensionare l’impresa? La prima cosa da vedere quando si
passa al lungo periodo è la funzione di produzione, quello che si guarda è come varia la produzione
cambiando l’input, che si sa essere totalmente variabili.
Quando si moltiplicano gli input per un qualsiasi scalare maggiore di zero: distinguiamo tra
rendimenti di scala crescenti, la produzione aumenta più che proporzionalmente; rendimenti di
scala costanti, la produzione aumenta proporzionalmente e rendimenti di scala decrescenti, la
produzione aumenta meno che proporzionalmente.
Come passare dalla funzione di produzione alla funzione di costo? Con la funzione di costo si sta
considerando il prezzo che si paga per l’acquisto dell’input. Dal punto di vista dell’andamento dei
costi di lungo periodo, quello che si considera è il concetto di economie di scala, cioè come varia il
costo medio in funzione dell’aumento della scala di produzione. Più precisamente le economie di
scala esprimono la riduzione del costo medio di produzione associata all’aumento della scala
produttiva, in una certa unità di tempo, data la tecnologia e i prezzi. Osservo l’andamento del
costo medio di produzione in funzione della scelta della scala produttiva, sotto due ipotesi
principali: la prima è che la tecnologia è data, quindi osservo la variazione della produzione
immaginando dimensioni diverse di una struttura produttiva data; la seconda ipotesi è che i prezzi
degli input non dipendono dalla scala di produzione, quindi studio cosa succede alla scala di
produzione senza considerare eventuali variazioni dei prezzi degli input.
La curva di costo di lungo periodo mostra l’andamento del costo unitario minimo corrispondente
ad ogni livello produttivo; essa è tangente a ciascuna delle curve del costo medio di breve periodo
nel punto in cui i livelli di produzione sono ottimali. Sulle ordinate si mette il costo medio, sulle
ascisse la quantità prodotta. Ipotizzando che ci siano tre curve di costo medio di breve periodo che
hanno il tipico andamento ad u, che rappresenta la relazione tra input fissi ed input variabili,
queste si riferiscono a tre dimensioni differenti, quindi ad una precisa struttura produttiva che è
perfettamente adattata alla produzione di una certa quantità, nel caso specifico Q1<Q2<Q3. La
curva di economie di scala invece rappresenta la curva di costo medio di produzione di lungo
periodo e graficamente è ottenuta dall’inviluppo delle curve di costo medio di breve periodo. Il
concetto è che si possono teoricamente disegnare infinite curve di breve periodo, e la curva di
lungo periodo è tangente non ai punti di minimo delle curve di breve periodo, ma al punto in cui i
costi per quel determinato periodo sono inferiori, X1,X2,X3. Nel momento in cui si sceglie una
determinata dimensione si è nel breve periodo, è questo quello che distingue il breve dal lungo
periodo. La curva di lungo periodo infatti rappresenta l’andamento del costo medio in rapporto a
tutte le possibili scale di produzione, in quanto potenzialmente si possono variare tutti gli input. La
curva di lungo periodo identifica le economie di scala, in quanto viene definita come una curva che
esprime la riduzione del costo medio di produzione associato all’aumento della scala produttiva; è
quindi decrescente e manifesta economie di scala fino al punto di dimensione ottima minima nel
quale si raggiunge comunque il costo medio minimo di produzione nel lungo periodo.

Fatte queste premesse quale curva scelgo per dimensionare la mia attività? Non posso dirlo se non
conosco la quantità domandata dal mercato. Bisogna infatti fare attenzione a non confondere le
economie di scala con la convenienza a dimensionarsi in un certo modo, considerando che poi
quanto si produce si dovrà vendere sul mercato. Scegliere la curva 3 che ha costi unitari minori
potrebbe essere sconveniente, si è vincolati nel breve periodo da quella struttura produttiva e se
non si riesce a vendere la quantità minima X3, si finisce per essere nella condizione di avere dei
costi di produzione addirittura maggiori di quelli delle altre curve. Il lungo periodo è un orizzonte
di programmazione, e si riferisce tanto alla dimensione quanto alla domanda. Si deve considerare
anche l’andamento della domanda, tenendo conto che quando tutte le imprese inizieranno a
vendere sul mercato una quantità rilevante, il prezzo si potrebbe abbassare e non sarà sufficiente
a coprire i costi di produzione nonostante questi siano i più bassi possibili (cd. trappola del costo
fisso). La scelta della dimensione dell’impresa deve poter considerare che quanto possiamo
produrre sia in relazione con la domanda, e questo deve evidentemente considerare tecnologie
omogenee. Si deve tenere conto anche di un altro aspetto e cioè che l’impresa non sia mono
impianto: non è detto che l’impresa debba adottare un certo impianto e poi ingrandirlo. Questa
potrebbe anche replicare la stessa dimensione su più impianti. La questione si complica molto se si
pensa che un’impresa possa aumentare dimensionalmente non già attraverso una singola
struttura produttiva, ma semplicemente replicando strutture produttive, ciascuna delle quali
perfettamente adattate alla dimensione ottima minima. Questo è stato proposto da Saraffa, che
sostanzialmente diceva che l’unico andamento di costo di lungo periodo compatibile con il
modello di concorrenza perfetta è una curva di costo di lungo periodo che abbia lo stesso
andamento di quelle di breve periodo, perché in caso contrario la dimensione dell’impresa
potrebbe essere indifferente. Nella realtà, le grandi imprese sono grandi perché hanno più
impianti produttivi, spesso localizzati anche in contesti geografici differenti in cui sostanzialmente
vengono replicate le stesse strutture. Questo porta a considerare come i vantaggi della grande
dimensione non necessariamente dipendano dalla scala, intesa come economie di scala, ma si
legheranno ad altri fattori, come ad esempio il poter replicare n volte strutture produttive più
piccole in un luogo piuttosto che in un altro. In conclusione, si deve anche ricordare che le stesse
imprese possono nella realtà differenziare la tecnologia, e quindi ancora il vantaggio non dipende
dalla scala, ma anche dai progressi tecnologici.

DETERMINANTI DELLE ECONOMIE DI SCALA


Per quale motivo ci si dovrebbe aspettare che all’aumentare della scala di produzione i costi si
riducono? Si devono escludere gli effetti monetari e si può anche escludere il cd effetto di
saturazione, per il quale una volta che ho sostenuto un costo fisso, il costo medio unitario si riduce
se lo distribuisco su un numero maggiore di unità output. Questo effetto va escluso perché è di
breve periodo, dipende esattamente dal considerare una parte di costo che è fissa e che quindi si
sa risultare dalla scelta di una dimensione, investendo in un impianto, dotandosi di una struttura
produttiva; l’obiettivo è quello di sfruttarla al meglio possibile, quanto più la si utilizza
coerentemente, tanto più il costo medio diminuisce.
Quello che caratterizza le economie di scala è la connessione tra il dimensionamento maggiore e
l’andamento decrescente del costo medio di produzione. Le spiegazioni sono due:
-Fattori di natura fisica e ingegneristica
-Aumento più che proporzionale della capacità produttiva rispetto ai costi
Si fa spesso riferimento alla regola dei 2/3, questa dice che se la capacità produttiva aumenta di 1,
il costo di produzione aumenta dello 0,66. Questo significa che il costo di investimento aumenta in
maniera meno che proporzionale rispetto alla capacità produttiva. Generalmente la regola vale per
le industrie di processo come quella siderurgica o chimica per i quali, mentre il costo aumenta in
rapporto alla dimensione (superficie di un cubo, ad esempio x 2), la capacità produttiva aumenta in
rapporto al volume (volume di un cubo, ad esempio x3).
Generalizzando, tutti gli elementi che consentono di aumentare la capacità produttiva rispetto ai
costi dovrebbero spiegare le economie di scala, ad esempio, da un lato attraverso la riduzione del
costo fisso medio relativo all’impianto a livello ottimale di utilizzazione, oppure dall’altro lato è
possibile che una serie di costi variabili non cresca in misura proporzionale alla capacità produttiva.
Ancora un altro elemento che può spiegare le economie di scala è l’indivisibilità dell’input, si cerca
di aumentare la dimensione per superare il vincolo che è dato dall’input stesso. Altri esempi di
meccaniche che possono dar vita ad una riduzione di costi sono le economie di apprendimento, le
economie di gamma e le economie di multi-localizzazione:

Economie di apprendimento, al contrario di queste, il concetto di economie di scala è un concetto


statico, si sceglie tra strutture di costo ciascuna adattata alla propria dimensione. Quello che non
esprimono infatti è l’eventuale riduzione di costo che deriva dal fatto che nel tempo si migliora la
propria capacità di lavorare e produrre: viene espresso dalle economie di apprendimento. Si tratta
di descrivere l’andamento del costo di produzione rispetto all’output cumulato, cioè gradualmente
si aumenta la propria produzione, affinando il processo produttivo e così si riducono i costi ed
eventuali sprechi. Il processo è dinamico e si realizza con il tempo. Possono valere sia a livello di
singola impresa, che a livello di industria
Economie di gamma, queste si riferiscono ai vantaggi di costo che derivano dall’eventuale
produzione congiunta di più beni; si chiamano anche economie di scopo. Al contrario delle
economie di scala, non sono mono-prodotto. Il costo di produzione unitario si riduce nel momento
in cui si produce l’intera gamma (ex. raffinazione del petrolio).
Economie di multi-localizzazione, tutte le economie che si possono realizzare collocando gli
impianti in contesti geografici diversi. Ci sono tanti fattori che giustificano questa scelta, visto che è
il risultato di un arbitraggio. I vantaggi possono derivare dal costo d’investimento, costo del lavoro,
costo della sicurezza... la valutazione quindi la si fa valutando il costo di produzione unitario e il
costo trasporto, per poterli ottimizzare. Dall’altra parte ci sono anche tematiche legate alla
domanda per cui potrebbe esserci convenienza nel localizzarsi in un determinato luogo, magari
perché più vicino alla domanda.

MODELLI DI OLIGOPOLIO
Problema della interdipendenza strategica delle scelte delle imprese: Il primo che si pose questo
problema fu Cournot nella seconda metà dell’800; è importante che ogni impresa scelga in modo
indipendente rispetto alla altre per realizzare il principio della mano invisibile, teorizzato da Smith;
se invece interviene tale interdipendenza, la mano invisibile di Smith non si va a realizzare ed è
necessario che le singole imprese sfoghino in modo da realizzare il proprio massimo profitto.
Cournot fa un’analisi della Numerosità delle imprese per capire quando si realizzi questa
condizione di assenza di interdipendenza strategica, voleva capire il nesso ed evidenziare l’assenza
ti tale condizione di dipendenza e per questo studiò i modelli di oligopolio. Cournot dimostra che
in presenza di poche imprese nel mercato, vi è un’interdipendenza tra le stesse; esse ragionano e
agiscono sulla base del proprio profitto ma anche sulla base dell’attività e delle scelte strategiche
dei concorrenti. Il duopolio sviluppato da Cournot è un modello di tipo simultaneo: le due imprese
scelgono contemporaneamente e quindi senza conoscere la scelta dell’avversario, ma ne
conoscono le scelte passate (I modelli di duopolio si possono presentare anche nella tipologia
sequenziale: un’impresa sceglie prima e una dopo l’osservazione dell’impresa concorrente).
L’analisi di Cournot può essere semplificata in questi termini: l’impresa che prendo come esempio,
deve individuare il campo di variazione delle scelte del concorrente, i due estremi del suo campo
di variazione sono costituite dalla possibilità che l’avversario non si presenti o che applichi la
quantità di concorrenza perfetta. Nel primo caso in cui il concorrente non si presenta sul mercato,
come risposta (q2) a me conviene, essendo l’unico rimasto sul mercato, offrire la quantità di
monopolio; nel secondo caso mi conviene non portare niente, perché significherebbe mettere
quantità sotto al CM, cosa che non posso fare. Il mercato è già saturo con l’offerta di una sola
impresa. Definisco quindi la funzione di reazione come la risposta ottima di un’impresa rispetto
alla quantità prodotta dall’altra impresa; essendo un gioco simultaneo devo essere pronto ad
avere sempre la risposta pronta. Cournot introduce il tema della VARIAZIONE CONGETTURALE
NULLA: un’impresa, giocando in simultanea, non ha elementi per poter valutare il comportamento
della concorrente ma l’unica informazione che possiede è la conoscenza di ciò che l’impresa
concorrente ha fatto l’ultima volta che si sono incontrati; l’impresa pensa che il concorrente non
cambierà il suo modo di ragionare ( di conseguenza non cambierà le sue scelte) fino a quando non
avrà la possibilità di verificare effettivamente che c’è stato un reale cambio di scelta da parte del
concorrente, solo a quel punto cambierà le sue proiezioni per il futuro. Con poche imprese non
posso realizzare quell’equilibrio efficiente dal punto di vista allocativo perché i singoli
comportamenti sono influenzati da quelli della concorrenza. Le quantità di Cournot che si vanno
ad individuare, rappresentano il punto di ottimo nell’oligopolio il quale dipende sia dalla
massimizzazione del profitto che dall’Interdipendenza strategica, con l’evidente risultato che non
si realizza la mano invisibile. Con poche imprese non posso realizzare quell’equilibrio efficiente dal
punto di vista allocativo perché i singoli comportamenti sono influenzati da quelli della
concorrenza. Le quantità di Cournot che si vanno ad individuare, rappresentano il punto di ottimo
nell’oligopolio il quale dipende sia dalla massimizzazione del profitto che dall’Interdipendenza
strategica (non ho mano invisibile).
Dopo lo sviluppo della Teoria di Cournot, Bertrand va a sollevare delle critiche, il tema dell’assenza
di indipendenza strategica si risolve, secondo Cournot, solo con la numerosità delle imprese,
dunque, al crescere della numerosità si accresce l’Indipendenza strategica tra le imprese,
avvicinandosi a ciò che ha detto Smith: dove ognuno massimizza il suo profitto singolarmente
ottenendo il miglior equilibrio possibile. Bertrand critica e contesta la conclusione relativa
all’utilizzo della variabile: critica la conclusione relativa alla variabile strategica secondo la quale
anche con poche imprese posso arrivare al modello di equilibrio di concorrenza perfetta e della
mano invisibile ribaltando la visione di Cournot; la variabile strategica dovrebbe essere il prezzo è
non la quantità, sposta quindi il dibattito sulla quantità. Si ha sempre un comportamento
simultaneo, utilizzando l’ipotesi di variazione congetturale nulla (si assume che l’impresa faccia
scelte uguali a quelle passate). Le ipotesi sono tutte uguali tranne che per la variabile strategica: il
prezzo in questo caso.
PARADOSSO DI BERTRAND: pur avendo poche imprese nessuna di queste riesce ad avere potere di
mercato sulle altre e si giungerà dunque alla mano invisibile, alla concorrenza perfetta fra queste.
CRITICA DI HEDGEWORTH: quale ragionamento c’è dietro a questa modalità di rappresentazione
del CM? In generale, se la funzione è piatta, l’industria (non l’impresa singola, bensì l’insieme delle
singole imprese) è disposta a produrre a questo MC qualunque sia la quantità richiesta, non c’è
limite alla quantità che io posso produrre a questo prezzo. Studiando il risultato delle singole
imprese il risultato sarebbe completamente diverso. Bisogna tenere conto del vincolo d’incapacità
produttiva. Se si ragiona su tante imprese questo dettaglio non fa cambiare il risultato, ma se
ragioniamo su poche imprese sì; se dunque si applica il vincolo di capacità produttiva a Bertrand si
nota che non si giunge più alla concorrenza perfetta. Tornando al caso della strategia dei prezzi dei
ribassi incrociati, le variazioni di prezzo possono avvenire solo con l’immissione sul mercato di
nuove quantità; i ribassi di prezzo avvengono cioè solo con aumenti di quantità. La conclusione è
che alla presenza di vincoli alle capacità produttive non esiste una posizione di equilibrio definitiva,
questo perché ci sarà una continua variazione dei prezzi alla ricerca del profitto.

PARADIGMA COURNOTIANO
Il paradigma Cournotiano è quello che ci porta a ritenere che gli esiti di un determinato mercato
in termini di efficienza allocativa sia funzione della numerosità delle imprese, che è anche
l’elemento di distinzione che si traccia tra Cournot e Bertrand. Sostiene questa idea e rappresenta
l’elemento di base che porta a ritenere il modello di concorrenza perfetta come il modello di
funzionamento ideale, evidentemente perché l’efficienza allocativa si ha quando il numero delle
imprese è infinito. Ma questo è esattamente il risultato, affinato nel corso del tempo, e il modello
di concorrenza perfetta in generale, si basano proprio sull’analisi di Cournot, sul modo in cui
Cournot analizza il comportamento delle imprese. Uno dei modelli di analisi dell’economia
industriale è il modello SCP – struttura, condotta, performance – questo è profondamente
ancorato all’idea del paradigma Cournotiano e dunque che la struttura di un mercato ne definisca i
risultati stessi. Infatti, il modello propone una relazione tra la struttura, S, ed i risultati, R; tale
relazione è talmente diretta sulla base dei primi studi, che diventa irrilevante studiare i
comportamenti delle imprese, perché tanto sono determinati dalla struttura. Non potendo avere
una misura dell’efficienza allocativa, il risultato si legge indirettamente dal profitto, con l’idea
quindi che i profitti più bassi sono registrati nei mercati in cui la struttura si avvicina di più alla
concorrenza perfetta, oppure al contrario, quanto più si è vicini ad una condizione strutturalmente
opposta, il monopolio, tanto più i saggi di profitto sono elevati. Cournot è un matematico, la
strumentazione a cui si fa riferimento è matematica. Passo successivo consiste nell’andare ad
arricchire i risultati, studiando e aggiungendo il numero delle imprese. Si hanno n imprese, una
funzione di costo generica c(qi) con i che va da 1 ad n, ed una funzione di domanda p(Q). L’output
totale dell’industria sarà Q che è sommatoria per i che va da 1 ad n delle q i; significa che
semplicemente, l’industria produrrà un output che è dato dalla somma delle quantità prodotte
dalle singole imprese sul mercato. In Cournot il comportamento che assumono le imprese è quello
di massimizzazione del profitto, e la condizione di massimizzazione del profitto è ricavi marginali
uguali ai costi marginali, MR=MC, il ricavo marginale sarà pari alla derivata del ricavo totale. In
altre parole, il ricavo marginale è dato da due variazioni, la prima è la variazione di prezzo
associata all’ultima unità venduta, più la variazione delle quantità che dipende dalla variazione di
prezzo. Per Cournot nella concorrenza perfetta p(Q)=CM. Per far sì che questo valga s(i) deve
tendere a 0, questo avviene quando n (numero di aziende) tende a infinito. Il paradigma
Cournotiano punta sulla numerosità delle imprese, ora si deve guardare a come il profitto varia a
seconda del numero delle imprese.

Equazioni strane (vedi appunti tommi)


Da queste equazioni si può vedere come più n aumenta più ci si avvicina ad una situazione di
concorrenza perfetta. La quantità delle altre imprese viene presa come un dato. In Cournot si
aggiunge domanda fino a che il prezzo non raggiunge quello di concorrenza perfetta; c’è una
relazione diretta e positiva fra il numero e la concentrazione di imprese e potere di mercato. Il
potere di mercato è la capacità di imporre prezzi di vendita superiori ai costi marginali. La
posizione dominante fa riferimento alla possibilità dell’impresa di tenere comportamenti
indipendenti nei confronti dei clienti, consumatori e concorrenti.
Indice di Lerner. Misura il potere di mercato.

Equazioni su indice di Learner

Più l’indice di Lerner è alto più potere di mercato si ha e viceversa, questo perché l’indice è
direttamente proporzionale alla quota di mercato.
Lambda è il termine di variazione congetturale. In Cournot lambda è uguale a 0, perché la quantità
prodotta dagli altri non dipende dalla mia. Invece in Bertrand è uguale a -1, perché una variazione
di prezzo porta a rubare la domanda.

Un ultimo concetto importante che si lega all’analisi che abbiamo appena fatto è il potere di
mercato. Dal punto di vista dell’economia industriale è definito come la capacità dell’impresa di
fissare un prezzo al di sopra del costo marginale. Un indicatore del potere di mercato è l’indice di
Lerner.

Questo si ottiene dalla condizione di massimizzazione del profitto. È dato dal p(q) meno il costo
marginale diviso il prezzo. A partire dal ricavo marginale, si uguaglia al costo marginale, facendo
tutti i passaggi e risolvendo in funzione del costo marginale si arriva a definire L come potere di
mercato fratto elasticità della domanda. Se il potere di mercato viene pensato come la capacità
dell’impresa di fissare il prezzo al di sopra del costo marginale, la possibilità è massima se siamo
l’unica impresa nel mercato, si=1, monopolio, con l’unico vincolo che è la domanda, il
consumatore. Nell’ipotesi opposta di concorrenza perfetta il potere di mercato è nullo, L=0 perché
il prezzo è esattamente uguale al costo marginale. Nel paradigma cournotiano la situazione è
intermedia: abbiamo un valore di potere di mercato massimo che esprime il monopolio e un
valore di potere di mercato minimo che esprime la situazione di concorrenza perfetta. L’indice di
Lerner, infatti, mette in evidenza come L e si siano direttamente proporzionali, all’aumentare della
quota di mercato della singola impresa, aumenta il potere di mercato. Il potere di mercato è parte
di un concetto di posizione dominante, il cui primo criterio di lettura è esattamente la quota di
mercato. Se è rilevante è possibile che si comporti in maniera autonoma rispetto al mercato e si
deve ricorrere alla normativa che vieta l’abuso di posizione dominante. Un ultimo aspetto è quello
che ci consente di leggere matematicamente l’interdipendenza oligopolistica che abbiamo definito
prima. Si parte da una funzione di profitto. Se però scriviamo il ricavo marginale nel modo in cui
l’abbiamo descritto ma modificando la notazione, esplicitiamo un aspetto che leggiamo nel
rapporto tra la variazione di Q e la variazione di qi. Questo esprime come varia la quantità
complessiva, in corrispondenza della variazione della quantità prodotta dall’i-esima impresa.
Sto considerando il fatto che le altre imprese potrebbero modificare le loro produzioni in
conseguenza ad una mia scelta. E quindi sto immaginando che la quantità complessiva
dell’industria possa variare a seguito di una mia decisione di variare l’output. In altri termini posso
scrivere il rapporto come somma di due variazioni: la quantità complessiva, infatti, varia intanto
perché la sto cambiando io impresa, e poi perché posso pensare che altre imprese in conseguenza
ad una mia variazione modifichino la loro produzione. Sarà quindi in conclusione la somma tra 1
ed un termine definito termine di variazione congetturale indicato con li. Questo termine ha un
significato molto preciso, infatti esprime quella che penso che sarà la reazione delle altre imprese,
nel momento in cui massimizzo il mio profitto, in conseguenza alla mia scelta di variazione. È una
congettura, un’ipotesi che fa l’impresa sul comportamento delle altre i imprese.

In Cournot, li ha valore 0, perché l’ipotesi comportamentale è che l’impresa congetturi che le altre
imprese non cambino le loro produzioni. La variazione è, dunque, nulla. In Bertrand è più
complesso, il termine di variazione congetturale è espresso in termini di quantità. In termini di
prezzo, la strategia di fissare il prezzo di un e minore rispetto all’altra impresa sottintende l’idea
che una volta che io ho abbassato il mio prezzo, l’altra non lo abbassi anch’essa. Si pensa in termini
opposti a Cournot rispetto al prezzo, il termine di variazione congetturale deve esprimermi quello
che penso sia il comportamento dell’altra impresa in conseguenza ad una mia scelta. Quindi in
termini di prezzo la variazione sarebbe nulla, in termini di quantità il prezzo rimane inalterato solo
se la quantità non varia. Questo significa che se la quantità totale deve restare inalterata, quando
un’impresa aumenta la quantità, avverrà una diminuzione della quantità prodotta dall’altra,
esattamente per lo stesso ammontare. Dunque, li ha valore -1, vuol dire che l’una sta rubando la
domanda all’altra. E ritorniamo alla critica di Edgeworth, il discorso funziona solo se l’impresa ha la
capacità produttiva di coprire la domanda che viene rubata, altrimenti si ritorna in Cournot e la
quantità che produco finisce per aggiungersi all’altra e non a sostituirsi.

CONCENTRAZIONE E POTERE DI MERCATO


L’idea che emerge dall’analisi di Cournot è che esista una correlazione tra quella che è la
numerosità delle imprese e quelli che sono i risultati in termini di efficienza allocativa in un
mercato: a mano a mano che aumenta la numerosità delle imprese, l’output complessivo
dell’industria aumenta, fino ad arrivare, con un numero infinito di imprese, al massimo possibile
che corrisponde a quello che emergerebbe in un contesto di concorrenza perfetta.
Dunque il modello di Cournot risponde alla domanda: quante imprese sono necessarie per poter
pensare a risultati efficienti?
Sotto questo profilo, servono infinite imprese, al limite infinite, quando si raggiunge l’output
massimo, si raggiunge il prezzo minimo possibile, cioè un prezzo pari al costo marginale e ciascuna
delle imprese produce una quota talmente piccola dell’offerta complessiva, tale per cui è
ammissibile l’ipotesi di price taking behaviour.
Ciascuna impresa non ha impatto sul mercato, ed è proprio l’ipotesi che è alla base del modello di
concorrenza perfetta. Si annulla inoltre il potere di mercato definito come margine prezzo costo,
ovvero come indice di Lerner, quindi la differenza tra il prezzo e il costo marginale, che nel caso di
concorrenza sarà nulla, mentre sarà tanto maggiore quanto minore è il numero delle imprese, al
limite massimo in presenza di monopolio
Il risultato di Cournot dipende da come immaginiamo si comportino le imprese, in Cournot il
comportamento è legato al fatto che le imprese pensino di aggiungere una quota di produzione
rispetto a quella delle altre, il che significa che considerano la produzione delle altre come un dato.
È per questo motivo che all’aumentare del numero delle imprese la quantità complessiva aumenta
e dunque si finisce in una situazione di concorrenza perfetta.

CONCETTO DI CONCENTRAZIONE
E’ importante analizzare non solo la numerosità, ma anche la dimensione relativa delle imprese
che sfocia proprio nel concetto di concentrazione.
La concentrazione misura la distribuzione delle imprese in un’industria per dimensione.
È un’indicazione di come l’attività economica possa essere o meno concentrata nell’ambito di un
certo numero di imprese. La concentrazione va letta sulla base di due parametri: la numerosità
delle imprese e la dimensione relativa. Generalmente viene definito un mercato più concentrato
quando ci sono poche imprese e/o c’è una maggiore variabilità delle dimensioni, questo significa il
minimo valore di concentrazione è la situazione di monopolio, invece è meno concentrato se il
numero è il maggiore possibile e/o la distribuzione relativa delle dimensioni è poso variabile. In
una situazione con 10 imprese, se una detiene il 91% e le altre 9 l’1% l’industria è più concentrata
rispetto ad una situazione in cui tutte hanno il 10%. Industria e mercato sono concetti che vengono
spesso usati come sinonimi, anche se il concetto di industria è tendenzialmente riferito all’offerta
mentre il mercato alla domanda. In ogni caso un punto preliminare in una qualsiasi analisi è la
definizione dell’industria stessa.
Può sembrare un’operazione banale ma nella misura in cui si deve capire quali imprese fanno
parte della stessa industria e quali di industrie differenti, dato che molte imprese sono presenti su
più ambiti di mercato rendono complessa l’identificazione dell’industria di riferimento.
Dobbiamo definire preliminarmente anche un secondo elemento che è la dimensione dell’offerta
che stiamo considerando. Analizzando Cournot, abbiamo usato come parametro di definizione la
quantità prodotta. Adesso invece, di fatto prendiamo come dimensione rilevante per poter
analizzare la concentrazione, quello che è il fatturato complessivo, quindi la quantità venduta, e
calcoliamo la dimensione relativa dell’impresa pensando alla quota di mercato. Si potrebbe
misurare anche mediante altre variabili, ad esempio, il numero di dipendenti, se immaginiamo
attività labour intensive, o anche l’attivo di bilancio ma utilizziamo come misura della dimensione il
fatturato della singola impresa, in rapporto al fatturato dell’industria.
Un altro concetto rilevante per misurare la concentrazione è la concentrazione aggregata, riferisce
al grado di controllo dell’economia nel suo complesso da parte di poche imprese, cioè al fatto che
possano esistere imprese che controllano gran parte dei settori, definendo una concentrazione
dell’economia aggregata. È un fenomeno che era rilevante principalmente nel passato. Un’altra
distinzione rilevante è tra la concentrazione assoluta e quella relativa. Quella assoluta fa
riferimento maggiormente a entrambi i parametri, sia di numero che di dimensione relativa. La
relativa invece predilige il secondo parametro, quindi la dispersione, alla variabilità della
dimensione, molto spesso è utilizzata per studiare la distribuzione del reddito (ad esempio l’indice
di Gini).
L’ultima e ulteriore distinzione ci porta a distinguere tra concentrazione dal lato degli acquirenti e
concentrazione dal lato dei venditori, nell’analisi che faremo da qui in poi ci concentreremo
sull’offerta.

LA MISURA DELLA CONCENTRAZIONE


La teoria economica ha proposto tutta una serie di indici di concentrazione assoluta che mettono
in evidenza entrambi i parametri che abbiamo detto la caratterizzano, numerosità e distribuzione
relativa. Si tratta dunque di misure che tendono ad evidenziare la relazione che intercorre tra i
parametri per dare una risposta congiunta che dica qual è la rilevanza relativa, cioè l’importanza
relativa, del numero delle imprese rispetto alla dimensione relativa. Cioè quando è più importante
il numero delle imprese rispetto alla dimensione relativa? È più concentrato un settore in cui il c’è
un gran numero di imprese ma la dimensione relativa è molto ampia, oppure un settore con meno
imprese ma tutte della stessa dimensione?
Dal punto di vista della dimensione, serve dunque un indice che ci dia un valore minimo se le
imprese sono in quantità di concorrenza perfetta, e un valore massimo in contesto di monopolio.
Elemento base in questa dimensione è quello di curve di concentrazione.

(grafico)

Vediamo come costruire il grafico. Sull’asse x poniamo il numero imprese cumulate, a partire dalla
più grande, cioè inseriamo il parametro numero mettendole in ordine di grandezza, sull’asse y
invece riporto la percentuale cumulata dell’output, cioè la percentuale di output in rapporto
all’output totale della specifica impresa. Ad esempio, l’impresa 1 ha output 25 e la scrivo per
prima, l’impresa 2 ha output 15, quindi riporterò il valore di 40 sull’asse y. Devo sommare a mano
a mano che considero tutte le imprese dell’industria. Quando cumuliamo l’output, si può
raggiungere un unico valore, cioè quando considero l’ultima industria avrò raggiunto l’output
totale cumulato dell’industria che è il 100%. E ancora, una volta che ho raggiunto il massimo
output, quando la curva incontra quel valore, avrò anche il numero totale delle imprese che fanno
parte di quella industria. Nel grafico sono presenti tre industrie, la A, la B e la C, le ultime due
hanno evidentemente un numero maggiore di imprese rispetto alla prima. Possiamo dedurre il
motivo per cui le curve sono concave verso il basso: la concavità riflette la disuguaglianza delle
dimensioni delle imprese. La concavità, a parità di numero delle imprese, cresce nel momento in
cui la distribuzione delle quote di mercato avviene in maniera diseguale. Nel caso in cui le imprese
avessero la stessa dimensione, la curva sarebbe una retta, cioè tutte le imprese hanno la stessa
quota di mercato. Visto che stiamo mettendo per prime le imprese più grandi e poi le più piccole,
se la curva fosse concava, come ad esempio la A, la concavità corrisponderebbe proprio a questa
disuguaglianza nella distribuzione delle quote. In termini di concentrazione, l’industria A è più
concentrata rispetto alla B, perché presenta una concavità inziale e quindi le prime imprese
detengono una quota di mercato maggiore rispetto alle ultime e poi c’è anche un numero minore
di imprese. La curva A giace sempre al di sopra della B in tutti i suoi punti, dunque non abbiamo
difficoltà nel definirla più concentrata della B, l’informazione è univoca. Per quanto riguarda le
imprese B è C la situazione è diversa perché c’è un punto di discrimine, che è il valore di 10: fino
alla decima impresa la curva della C giace al di sopra della B, quindi potrei pensare che sia più
concentrata rispetto alla B, ma la situazione si inverte per le imprese oltre la 10, e la B risulta più
concentrata della C. Il ragionamento che andremo a fare attribuirà un peso diverso alle diverse
parti delle curve, oltre che naturalmente legare l’aspetto della dimensione relativa al numero delle
imprese: vedremo come i diversi indici tendono a leggere le curve di concentrazione e come
queste misure ci consentono di dare una risposta in casi problematici come quello di chi è più
concentrato tra l’industria B e la C.

La concavità riflette la disuguaglianza delle dimensioni delle imprese

Nel caso in cui le imprese avessero la stessa dimensione, la curva sarebbe una retta, cioè tutte le
imprese hanno la stessa quota di mercato.

CRITERI DI LETTURA (hannah e kay 1977)


Hannah e Kay propongono una serie di criteri per leggere ed interpretare le curve di
concentrazione:
1. Classificazione sulla base delle curve di concentrazione – possibilità di identificare come
maggiormente concentrata un’industria la cui curva di concentrazione giace al di sopra
della curva di concentrazione di un’altra industria.
2. Il principio di trasferimento delle vendite – un trasferimento di vendite, ovvero un
aumento della quota di mercato di un’impresa a discapito di un’impresa più piccola dovrà
determinare un aumento della concentrazione. Graficamente, è possibile vedere dal
grafico precedente la variazione sulla parte tratteggiata: una parte di fatturato sta
passando ad un’impresa più grande e si riflette su un aumento del rigonfiamento della
curva stessa, diventando più concava, aumenta la disomogeneità della distribuzione
dell’output.
3. Le condizioni di entrata – l’entrata di un’impresa più piccola in un’industria, mantenendo
fisse le quote di mercato delle altre, riduce la concentrazione, e viceversa. Se aumenta il
numero delle imprese, sotto l’ipotesi che l’entrata generi una redistribuzione uniforme
dell’output, aumenta la numerosità ma resta invariata la dimensione relativa e dunque il
livello della concentrazione dovrebbe diminuire.
4. La condizione di fusione – è la condizione opposta a quella precedente, diminuisce il
numero delle imprese e quindi la concentrazione dovrebbe aumentare.

Altri due elementi base che sono intuitivi:


• Dato un numero di imprese sul mercato, la concentrazione è minima quando queste detengono
tutte la medesima quota.
• Condizione opposta, dato un mercato composto da imprese di eguale dimensione, la
concentrazione diminuisce quando aumenta il loro numero.

Sono tutti criteri generali che dovrebbero essere soddisfatti da quella che è una possibile misura
della concentrazione.

INDICI DI CONCENTRAZIONE ASSOLUTA


L’indice di concentrazione è una rappresentazione sintetica della curva di concentrazione. Si
formalizza il concetto attraverso un’ipotesi generale di indice di concentrazione assoluto: date n
imprese, ciascuna con un output x(i), l’output generale dell’industria è X e la quota di mercato
della i- esima impresa è s(i).
C, l’indice di concentrazione assoluta è la sommatoria per i che va da 1 ad n di h(si) per s(i), in cui
s(i) è il rapporto tra la quota di fatturato realizzato dall’impresa i, rapportato al fatturato
complessivo dell’industria, mentre h(si) è un fattore di ponderazione, cioè un peso che noi
attribuiamo alla quota di mercato della singola impresa i. Va considerato anche che gli indici di
concentrazione possono essere descritti rispetto al valore che assume questo fattore di
ponderazione, oppure se viene considerato o meno.
(esempio appunti CAP.7)

Il reciproco del numero delle imprese


È il più semplice indice di concentrazione assoluta, con n imprese, C è dato dal rapporto 1 su n.
Non sta attribuendo alcun peso alla dimensione relativa delle imprese, considera infatti solo il
numero delle imprese, sotto l’ipotesi di dimensione relativa omogenea, cioè che tutte le imprese
abbiano la stessa dimensione. È un indice quindi che può essere utilizzato solo nel confronto tra
industrie che sono caratterizzate da un numero più o meno grande di imprese.

Il rapporto di concentrazione
Misura la proporzione dell’output prodotta dalle r imprese più grandi. È quindi la sommatoria della
quota di mercato delle prime r imprese ordinate in maniera decrescente. Si somma dunque per i
che va da 1 a r le quote di mercato, s(i), delle imprese, con r < n, dove r è arbitrario e normalmente
va da 3 a 8. In questo indice, inoltre, il peso attribuito alle quote di mercato, h(si) è uno, dunque le
quote di mercato vengono pesate esattamente per quello che sono.

Il range di variazione dell’indice è tra il rapporto r su n ed uno, quindi la massima concentrazione si


ha in caso di monopolio quando il valore è massimo, mentre il valore minimo dipende da r rispetto
alla numerosità delle imprese e dunque se n tende a infinito il valore si abbassa al minimo. È un
indice che viene utilizzato perché è molto facile da calcolare, infatti quando consideriamo
un’industria è molto più semplice considerare solo le imprese più grandi, perché i valori relativi al
loro fatturato sono più facilmente ottenibili e dunque è preferibile rispetto ad altri indicatori che
richiedono molta più informazione su tutte le imprese del settore. Da un punto di vista empirico,
nonostante si considerino solo una parte delle imprese, esiste una buona correlazione tra il
rapporto di concentrazione calcolato sulle prime r imprese, rispetto al valore di concentrazione
che si ottiene considerando tutte le imprese. È si un’informazione parziale, ma è comunque
affidabile. D’altra parte, le criticità sono anche tante a fronte di questa semplicità. In primo luogo r
è un numero arbitrario. Inoltre l’indice permette di leggere solo una parte del grafico delle curve di
concentrazione e può anche dare valori discordanti a seconda del numero di imprese che si decide
di considerare nell’ambito del calcolo. Nell’ambito delle chiavi di lettura di Hanna e Key, non tiene
conto delle dimensioni relative delle prime r imprese, non tiene conto di quello che succede oltre r
e pone un problema rispetto al tema del trasferimento delle vendite e delle condizioni di fusione.
Questo ultimo punto in particolare si spiega perché sia che il trasferimento avvenga entro le prime
r imprese, sia che avvenga oltre r, non viene considerato perché la numerosità non varia, a meno
che il trasferimento non comporti un cambiamento della graduatoria delle stesse r imprese. Vi è
dunque un problema rispetto al tema del trasferimento delle vendite e delle condizioni di fusione,
che vengono considerati solo se avvengono entro le prime r imprese.
INDICE Hirschman-Herfindal
È l’indice più utilizzato in assoluto, viene definito anche HH-index. Misura la concentrazione di
un’industria attribuendo una ponderazione proporzionale della quota di mercato della singola
impresa; questo significa che si deve sommare la quota di mercato al quadrato di tutte le n
imprese che fanno parte del settore e, a sua volta, elevare al quadrato vuol dire attribuire alla
quota di mercato un peso rappresentato dalla quota di mercato stessa. Matematicamente, in
questo modo si attribuisce un peso maggiore alle imprese che detengono una quota di mercato
maggiore, cioè si aumenta la distanza in termini relativi tra l’impresa più grande e l’impresa più
piccola. Un aspetto importante che lo differenzia dal rapporto di concentrazione è che questo
indice considera tutte le imprese presenti nell’industria.

Esempio: mercato di quattro imprese con quote di mercato pari a 0.4, 0.3, 0.2 e 0.1. Le quote di
mercato al quadrato sono allora pari a 0.16, 0.09, 0.04 e 0.01 e danno un H = 0.3. Le proprietà
matematiche dell’HH-index possono essere lette scrivendolo in modo diverso, cioè ponendolo
come rapporto tra C^2 più uno tutto fratto n. È importante definire gli elementi di questa
formulazione: HH= (c 2 + 1) /n, in cui C è il coefficiente di variazione della dimensione dell’impresa,
che è ottenuto attraverso il rapporto tra la varianza della dimensione dell’impresa e la dimensione
media dell’impresa stessa.

Attraverso questa notazione possiamo derivare i due elementi che di fatto determinano il valore
dell’indice. HH è, infatti, direttamente proporzionale al coefficiente C di variazione della
dimensione dell’impresa, quanto più aumenta la disuguaglianza delle quote di mercato delle
imprese, tanto più l’indice di concentrazione aumenta. HH è al contempo inversamente
proporzionale alla numerosità delle imprese, quindi la concentrazione si riduce all’aumentare del
numero delle imprese. Questo indice dunque consente di tenere adeguatamente in conto
entrambi i parametri rilevanti per la concentrazione. Il range di variazione dell’HH-index è tra 1/n e
1. Si può leggere bene attribuendo a C il suo valore nelle varie strutture di mercato: in caso di
concorrenza perfetta, le imprese sono omogenee e simmetriche ed evidentemente C è zero, lo
stesso valore però lo assumerà in caso di monopolio perché l’impresa è una sola e comunque non
ha senso parlare di disuguaglianza delle quote di mercato. In entrambi i casi il valore che può
assumere l’indice HH dipenderà solo da n, sarà dunque 0 quando n tende ad infinito, e 1 quando n
è uguale ad 1 (1/n ¿ HH ¿ 1). L’indice soddisfa tutti i criteri di lettura di Hannah e Kay, tiene conto
della dimensione relativa, del trasferimento di vendite (grazie alla ponderazione), rispetta la
condizione di entrata e fa vedere come si modifica il trade off tra la numerosità e la distribuzione
delle quote, dipende da se entra un’impresa grande o piccola, e questo vale anche per la
condizione di fusione. Dall’altra parte, il fatto di considerare tutte le n imprese fa si che il carico
informativo di cui si ha bisogno per poterlo calcolare è molto rilevante.
L’indice HH viene spesso utilizzato nell’Antitrust, in particolare per verificare gli effetti di una certa
fusione sulla concentrazione dell’industria, in quanto la concentrazione è un elemento che è in
grado di rafforzare la posizione dominante di un player.
Il reciproco di HH è un numero equivalente, ossia l’unico numero di imprese egualmente
dimensionate che darebbe il corrispondente valore di HH.
- il valore minimo (1/HH = 1) si verifica quando HH = 1 (impresa dominante con N-1 imprese
molto piccole)
- il valore massimo (1/HH = N) e si verifica quando HH = 1/N (N imprese di uguale
dimensione)

Ad esempio, un valore di HH di 0.018 per una particolare industria è equivalente a circa 56


imprese di eguale dimensione operanti nell’industria.

IL TEMA DELLA COLLUSIONE


È opportuno in tema di collusione, inquadrarla rispetto i diversi tipi di oligopolio, va fatta una
distinzione tra oligopoli cooperativi e oligopoli non cooperativi. I modelli di Cournot e Bertrand
sono modelli oligopolistici di tipo non cooperativo, non è prevista un’implicita o esplicita
cooperazione tra imprese, esse si muovono con l’obiettivo di massimizzare il proprio singolo
profitto. Nel momento in cui le imprese si rendono conto del tema dell’interdipendenza strategica,
nel valutare le proprie decisioni, terranno conto della scelta dei competitors e questo modifica il
loro modo di approcciarsi al mercato. L’oligopolio cooperativo cambia la funzione obiettivo delle
imprese: non è più massimizzare il singolo profitto, ma diventa massimizzare il profitto congiunto
ovvero il profitto dell’industria e non più della singola impresa. Ciò prevede, in qualche modo, un
accordo, ovvero che le imprese comprendono che devono lavorare in modo cooperativo e non
competitivo per massimizzare il profitto dell’intera industria.
Riallacciandosi all’equilibrio di Cournot, l’equilibrio è identificato nel punto di intersezione tra le
due risposte ottime delle imprese, il quale è un punto intermedio rispetto al potenziale equilibrio
di concorrenza perfetta e di monopolio. Questo poiché, la frontiera della massima efficienza è la
retta che unisce i due punti di concorrenza: su questa retta vi sono tutte le combinazioni di Q1 e
Q2 la cui somma è esattamente uguale al risultato di concorrenza perfetta. Ovunque io mi
collochi, sto individuando una combinazione di concorrenza perfetta, giungendo ad una situazione
di equilibrio concorrenziale con  = 0 da parte delle imprese. La frontiera del massimo profitto, è la
retta che unisce i due punti di monopolio: su questa retta vi sono tutte le combinazioni di Q1 e Q2
la cui somma è esattamente uguale alla quantità di monopolio. Ovunque io mi collochi, sto
individuando una combinazione di monopolio, giungendo ad una situazione di massimizzazione del
 congiunto. Tra queste due rette, l’equilibrio di Cournot, è un equilibrio di quantità in cui la q
complessiva dell’industria è inferiore rispetto a quella di concorrenza perfetta, dunque il mercato
non è efficiente da un punto di vista allocativo, ma le imprese generano un  > 0 (profitto
positivo). L’equilibrio di Cournot è sopra la retta del massimo profitto: siamo in una condizione in
cui le imprese generano profitto positivo, ma non è il massimo profitto in assoluto; esso deriva dal
replicare un equilibrio di monopolio. In sintesi, l’equilibrio di Cournot infatti non genera la massima
efficienza allocativa e le imprese non fanno il massimo profitto ma fanno comunque un profitto
maggiore di 0 ovvero maggiore del profitto in concorrenza perfetta.
Parlando di collusione si fa riferimento al tentativo delle imprese di replicare un equilibrio di
monopolio da un punto di vista dell’industria, non dal punto di vista della singola impresa. Si vuole
portare l’industria verso un possibile equilibrio di monopolio: le imprese, che costituiscono
l’industria, modificano la loro funzione di profitto, si spostano dalla massimizzazione del singolo
profitto individuale a quella congiunta dell’industria; questa costituisce quindi la prima differenza
tra i due tipi di oligopoli (cooperativo e non cooperativo). I comportamenti collusivi adottati dalle
imprese dell’oligopolio sono finalizzati ad eliminare l’incertezza e a evitare che la concorrenza tra
imprese faccia scendere prezzi e saggi di profitto monopolistico del settore o addirittura faccia
produrre perdite per le imprese medesime. Se l’obiettivo delle tattiche collusive è il mantenimento
di tale saggio al di sopra del livello “normale”, le modalità con cui la collusione può in concreto
verificarsi sono assai varie.
La massimizzazione del profitto congiunto dell’industria può dar luogo a cartelli. Mentre per
l’oligopolio non cooperativo vi è una parte di studio che viene da una teoria ben argomentata e da
una successiva pratica, il tema dei cartelli nasce da un’analisi pratica, in particolare da un’analisi
Antitrust. Studi empirici hanno dimostrato che la presenza di un cartello può portare ad un
incremento tra il 20 e il 30% dei prezzi, motivo per cui sono osteggiati ferocemente dall’autorità
antitrust. Dall’analisi Antitrust emerge che raramente i cartelli sono accordi di prezzo,
generalmente sono accordi di quantità o di ripartizione delle quote di mercato, poiché tali accordi
sono più semplici da monitorare: c’è maggiore trasparenza e possibilità di controllo.
Le caratteristiche più comuni che portano alla formazione di un cartello sono individuabili:
nell’elevata concentrazione dell’industria, poiché con un minor numero di imprese all’interno del
mercato è più facile raggiungere un accordo; altra caratteristica può essere la presenza di barriere
all’entrata, la quale limita l’ingresso a nuovi potenziali entranti e rende stabile il mercato; è
rilevante anche in questo senso la frequenza del mercato, se un mercato ha elevata frequenza, le
relazioni tra imprese e clienti sono basate su contratti di lungo termine, vi è di conseguenza un
maggiore controllo da parte delle imprese che favorisce lo sviluppo della collisione. Altre
caratteristiche che portano alla formazione dei cartelli sono da individuare nella generale
tendenza alla stabilità del mercato, dunque tener conto se il mercato è stabile o destinato al
declino o alla crescita nel tempo; nonché nella simmetria nei costi tra le imprese del cartello, più
sono identici i costi fra le imprese, più queste ultime sono propense a svolgere le attività di
cartello; nell’omogeneità del prodotto; nella possibilità di osservare il comportamento e
controllare i propri competitors e, in fine, in determinate clausole contrattuali, poiché lo sviluppo
di tali clausole favorisce una maggiore facilità della propensione al cartello.
L’OPEC (organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) presenta tutte le caratteristiche pocanzi
elencate, è un cartello tra i sette principali paesi esportatori di petrolio ed ha un impatto
importantissimo sul mercato petrolifero, basti pensare agli shock petroliferi degli anni ’70 e alle
loro conseguenze, non solo sul mercato petrolifero ma anche sul livello generale dei prezzi, sul
reddito aggregato e sull’occupazione.
Avere costi omogenei favorisce la nascita di cartelli, se si consida la sommatoria delle singole
offerte di mercato otteniamo una funzione del ricavo medio ovvero l’equivalente della funzione di
domanda, e infine la funzione di mercato, data dalla funzione di ricavo marginale. L’equilibrio di
concorrenza perfetta è dato dall’incontro tra domanda e offerta, spostandomi invece sulla retta
funzione del ricavo marginale avrò l’equilibrio di monopolio; le imprese cercheranno di cooperare
per ottenere questo equilibrio, se le imprese su cui sto ragionando hanno strutture di costo
diverse al momento in cui si dividono la quantità che fa ottenere un profitto di monopolio
(MR=MC) congiunto all’industria, fa ottenere alle singole imprese profitti diversi o addirittura
potrebbe non generare profitti per alcune, si capisce quindi perché se le imprese hanno strutture d
costo simili, la formazione di un cartello è favorita.
Asimmetrie nelle strutture di costo determinano vantaggi asimmetrici nella partecipazione al
cartello; asimmetria nel vantaggio alla partecipazione del cartello determina una maggiore
difficoltà nella formazione dello stesso perché ci saranno imprese che non avranno interesse a
sviluppare una strategia cooperativa.

Free riding
Tema fondamentale è legato al problema del free riding: bisogna immaginare di avere delle
imprese in un mercato che si accordano per una struttura cooperativa e altre che continuano a
produrre la quantità di monopolio; si assuma inoltre che abbiano strutture di costo simili. Succede
che alcune imprese k, quelle partecipanti al cartello, invece di produrre la quantità di concorrenza
perfetta, riducono la quantità (Q1) prodotta generando un classico equilibrio di monopolio
(MC=MR), le altre imprese, non partecipanti al cartello, producono la differenza tra la quantità
totale e la quantità prodotta dalle imprese k del cartello (per compensare la quantità sarà
maggiore). Si osserva quindi che le imprese del cartello, fanno un sacrificio di ridurre la loro
quantità per cercare di alzare i prezzi, mentre le imprese che non fanno parte dell’accordo
sfruttano le conseguenze del cartello per produrre una quantità maggiore ed espandersi. A seguito
del fatto che alcune imprese nell’industria hanno deciso di cooperare, vi è stata la riduzione della
quantità prodotta solo dalle k imprese del cartello, il conseguente aumento dei prezzi e una
parallela espansione delle imprese che non hanno aderito al cartello, il cui profitto potenziale o
surplus è dato dalla differenza di prezzo che incassa e il costo minimo a cui avrebbe venduto i suoi
prodotti (tenuto conto della quantità maggiore che vende in seguito al cartello).
C’è quindi un beneficio di free riding da parte delle imprese non del cartello, non conviene quindi
cooperare se gli altri cooperano, ci troviamo davanti a un classico problema di free riding, tutte le
imprese vogliono che nasca un cartello ma alla fine non vogliono parteciparvi, poiché è più
conveniente restarne fuori se già ci sono altre imprese all’interno dell’accordo.

Tendenza ala stabilità del mercato


Ci si trova nell’ambito del tema delle barriere all’entrata: è conveniente che siano presenti poche
imprese in un’ottica di formazione di un cartello, un nucleo di imprese stabili che nei prossimi anni
devono rimanere tali senza la possibilità di entrata di nuovi competitors; ed è inoltre necessario
che le strutture di costo siano simili affinché si crei omogeneità e maggiore possibilità di accordi
cooperativi.
Bisogna considerare il tema dello scartellamento, essendo il cartello un accordo illegale, non
esistono strumenti legali che possano tutelare le imprese facenti parte di tale accordo. Se
un’impresa non rispetta l’accordo di cartello è difficile che venga sanzionata; emerge quindi la
necessità di prevenire lo scartellamento, ovvero la distruzione del cartello che può portare a una
successiva guerra di prezzo all’interno del mercato. Va specificato che è la convenienza reciproca
tra le imprese a tenere in piedi il cartello, risultando più profittevole cooperare rispetto alla
competizione, è probabile che nessuna impresa abbia interesse a rompere il cartello, portando il
mercato ad una condizione di concorrenza perfetta.
-Se un’impresa applica un prezzo inferiore al prezzo di monopolio al tempo 1, riesce a prendere
tutto il profitto di monopolio presente sul mercato, ma al tempo 2 la reazione delle imprese del
cartello non si fa attendere, esse infatti smettono di avere un atteggiamento cooperativo e
competono sul prezzo, arrivando a scartellare l’accordo, riportare il prezzo in equilibrio di CP ed a
ottenere, di conseguenza, un profitto pari a zero.
-Mantenere l’accordo di cartello significa attendersi, per ogni impresa, un profitto pari al profitto
di monopolio dell’industria diviso per le k imprese partecipanti al cartello (PM/k; PM/k; PM/k; …;
PM/k). Cosa determina quale sia la strategia migliore? Più k è piccolo, più converrà la seconda
strategia ossia quella di costituire un cartello; bisogna considerare anche il tempo e la durata del
cartello stesso, più un mercato è innovativo, meno sarà conveniente attuare un cartello, poiché si
pensa che avrà vita molto breve. Mentre, per ciò che riguarda l’innovazione, il tasso di
innovazione tecnologica assume un’importante rilevanza circa la convenienza di costituire un
accordo di cartello. Più un mercato è innovativo, meno probabile sarà la creazione di un cartello
all’interno dello stesso, poiché è un mercato che ha davanti a sé vita breve, sempre in
cambiamento. Minore quindi è il grado di innovazione tecnologica maggiore è la stabilità di un
accordo di cartello nel tempo.

Con riferimento alle clausole contrattuali vanno menzionate la clausola che garantisce il prezzo
più basso e la clausola della nazione più favorita: la prima garantisce il compratore non rispetto
alle condizioni di vendita del singolo venditore, ma di tutto il mercato. Il fornitore restituirà parte
del denaro pagato dal compratore per acquistare quel determinato bene se egli trova sul mercato
lo stesso bene a prezzi inferiori rispetto a quelli da lui sostenuti. Il fornitore si aspetta che nessuno
torni da lui con un bene acquistato a un prezzo inferiore, in questo caso si serve del cliente per
sapere se il cartello funziona o meno (d’altro canto il cliente presenta uno scartellamento da parte
dell’impresa che invece ha applicato un presso minore). La seconda clausola (clausola della
nazione più favorita) è un accordo tra venditore e compratore; il fornitore in particolare adegua le
condizioni del contratto con il compratore alle migliori condizioni in termini di prezzo che offre nel
mercato entro un determinato lasso di tempo. Garantisce al compratore una certa stabilità nelle
condizioni commerciali e serve a ridurre l’incertezza del mercato favorendo l’incontro tra
domanda e offerta, nonché possiede anche il vantaggio di favorire i cartelli. Tale capacità deriva
dal fatto che, se viene fissata la clausola della nazione più favorita al prezzo di cartello, se il
venditore prova a fare uno sconto segreto a un compratore per recuperare un po' di quota di
mercato, implicitamente deve offrire questo sconto a tutti, dunque scartellare diventerebbe molto
oneroso; un’onerosità data dal fatto che il venditore si sta vincolando nei suoi accordi commerciali
attraverso tale clausola andando quest’ ultima a blindare il prezzo di cartello.

MERCATI CONTENDIBILI
La teoria dei mercati contendibili permette di completare il tema delle barriere all’entrata e del
ruolo della concorrenza potenziale, i quali fanno riferimento alla prospettiva di Bain e al modello
BSM per quanto riguarda il tema delle barriere. Questa prospettiva porta a sostenere un’idea che,
essendoci barriere all’entrata queste possono essere usate dalle imprese come deterrente
all’ingresso di altre imprese (potenziali competitors) che vogliono entrare, ma soprattutto come
strumento affinché le imprese stesse adottassero comportamenti strategici al fine di mantenere la
propria posizione di profitto all’interno del mercato in maniera indefinita nel tempo (logica del
prezzo limite). Nell’ottica di Bain, era stato assegnato una sorta di “vantaggio” all’impresa
incumbent: tale vantaggio deriva dalla presenza di una barriera all’entrata, che poteva sfruttare
per decidere se ostacolare o meno l’ingresso dell’impresa competitor.
Nella teoria dei mercati contendibili: viene assegnato un vantaggio alle imprese che si trovano al di
fuori del settore e si ipotizza la completa assenza di barriere all’entrata e di barriere all’uscita. In
sintesi, questa teoria analizza qual è il risultato nel caso in cui non ci siano né barriere all’entrata
né all’uscita. La teoria dei mercati contendibili è stata proposta da Baumol, Panzar e Willig (1982) i
quali si pongono l’obbiettivo di analizzare la concorrenza potenziale nei casi in cui l’impresa già
presente sul mercato (l’incumbent) non abbia vantaggi. Il risultato che si ottiene in un mercato
contendibile è equivalente all’equilibrio di concorrenza perfetta, dove la dimensione delle imprese
già esistenti è tale da rendere desiderabili forme di monopolio naturale.
Il concetto di contendibilità è legato al concetto di concorrenza e dunque alla possibilità di
trasferire le risorse dove sia più conveniente senza costi di transazione al fine di ricercare il
massimo profitto. In un mercato perfettamente contendibile, l’equilibrio di concorrenza perfetta è
sostenibile se nessun potenziale entrante ha la possibilità di ottenere profitti. Se il mercato
presenta opportunità di profitto, invece, un potenziale concorrente potrebbe entrare
tranquillamente nel mercato, visto che si ipotizza non ci siano barriere, e realizzare un profitto
positivo prima che i prezzi cambino ed uscire quindi senza costi; il mercato è quindi vulnerabile ad
una situazione di concorrenza del tipo “hit and run”.
Il concetto di contendibilità cerca, oltretutto, di fornire una risposta al caso dei rendimenti di scala:
una delle principali determinanti delle barriere all’entrata sono le economie di scala, costituendo
queste un ostacolo all’ingresso nel mercato, specialmente quando la dimensione ottima minima è
elevata rispetto alla domanda di mercato. Tale concetto fornisce una risposta a tale problematica:
si può pensare ad un’ipotesi di price-taking behaviour anche in presenza di imprese che sono
grandi rispetto alla dimensione del mercato e, in una prospettiva nella quale è auspicabile avere
una sola impresa presente sul mercato -ovvero una situazione di monopolio naturale- ed avere un
prezzo che è pari al MC esattamente come lo è in concorrenza perfetta. L’esito dei mercati
contendibili è indipendente dalla presenza di rendimenti crescenti di scala e quindi dall’ampiezza
della dimensione efficiente delle imprese. In sintesi, un mercato è considerato contendibile se in
esso e da esso è possibile, per qualsiasi soggetto, entrare o uscire senza sostenere alcun costo.
Non c’è presenza di barriere all’entrata: assenza di vincoli amministrativi e regolatori all’ingresso in
un determinato settore e accesso alla medesima tecnologa delle imprese già presenti che quindi
non hanno vantaggi tecnologici rispetto ai potenziali entranti. Per libertà di uscita si intende,
invece, l’assenza di sunk-costs (costi irrecuperabili), ad esempio se è stato sostenuto un costo per
produrre un certo bene questo costo può essere recuperato in due modi: o utilizzando tale bene
capitale in un’altra attività oppure valorizzando il valore residuo del bene capitale in un mercato
secondario, assumendo che ci sia un mercato dell’usato attraverso cui valorizzarne il valore
residuo, cosa che riflette il deprezzamento del bene capitale, e ne permette il recupero
dell’investimento .Le caratteristiche di libertà di entrata e di uscita definiscono quello che è il
concetto di contendibilità. Le condizioni di contendibilità pongono un tipo di concorrenza che gli
economisti definiscono hit and run (mordi e fuggi). Tale concetto consiste nella possibilità da parte
di un potenziale competitor, in un contesto di contendibilità - quindi di libertà di entrata - di
entrare in un mercato che presenta profitti positivi e lucrare profitti positivi applicando un prezzo
più basso (sottraendo domanda di mercato alle imprese già esistenti). Una volta che le imprese già
presenti sul mercato reagiscono al potenziale entrante, quest’ultimo può decidere di uscire, non
appena i profitti non sono più soddisfacenti, dato che in un mercato contendibile è presente la
libertà di uscita. Se sono possibili queste forme di concorrenza hit and run, l’idea è che nessuna
impresa possa godere di profitti positivi in equilibrio, cioè: se si applica un P maggiore al ACmin di
produzione, si genera  positivo; se si opera in un mercato contendibile sarà sempre possibile per
un potenziale entrante, entrare e lucrare profitti positivi e uscire senza alcun costo. Questo
significa anche che non è necessario che il potenziale entrante entri effettivamente nel mercato, è
sufficiente la minaccia di entrata affinché le imprese già operanti siano indotte a praticare un
prezzo più basso pari al costo medio di produzione, risultato di un mercato in concorrenza
perfetta. Questo risultato può essere analizzato in forma più analitica: si supponga che esista un
prezzo p’ tale per cui un’impresa i produce una quantità x(i) e ottiene profitti positivi pari a i=
xi*p’-c(xi)>0. P’ non può essere un prezzo di equilibrio in un mercato contendibile, poiché un
potenziale concorrente j potrebbe entrare nell’industria senza costi, offrire la quantità x(i)=x(j) a
un prezzo p’-  e ottenere profitti positivi (j= xj*(p’- )-c(xj)>0. A seguito dell’entrata del potenziale
concorrente ci sarebbe una guerra di prezzo fino ad arrivare al prezzo di concorrenza perfetta, e
quindi all’annullamento dei profitti, che causerebbe l’uscita senza costi dell’impresa j, che si
accontenterebbe dei profitti temporanei guadagnati fino a quel momento.
Si definisce Configurazione industriale, una configurazione tale per cui vi è un’industria
caratterizzata da un numero n di imprese, una quantità prodotta da ciascuna impresa x1 x2 x3….xn
e un prezzo pari a p; tale configurazione costituisce la proprietà di un equilibrio che emerge nei
mercati contendibili. Si definisce ammissibile una configurazione industriale se valgono tre
condizioni: la prima condizione prevede che qualcuno debba ritenere profittevole produrre,
dunque si ha una quantità prodotta x(i)>0 per ogni i; la seconda condizione dice che dato il prezzo
p che caratterizza la configurazione industriale, si ha una funzione di domanda del bene x
completamente soddisfatta dalla quantità prodotta delle n imprese sul mercato; infine, il profitto
che si ottiene dalla produzione è positivo o uguale a zero per ogni i (p*xi-c(xi) ¿ 0). Queste
condizioni servono per definire la condizione di sostenibilità.

CONDIZIONE DI SOSTENIBILITÁ

Una configurazione industriale efficiente non è sempre sostenibile, quando una configurazione
industriale non è sostenibile sorge un problema di stabilità. Va però specificato che una
configurazione industriale è sostenibile, se non è possibile adottare un tipo di competizione hit and
run, dove non sia possibile applicare un prezzo inferiore a quello esistente e produrre una certa
quantità inferiore o pari alla domanda di mercato e lucrare profitti positivi. Condizione di
sostenibilità: non esiste un prezzo p’ inferiore a p e una quantità x minore di x’ minore di x tali che
il profitto sia positivo. Una configurazione industriale sostenibile è sempre una configurazione
industriale efficiente, cioè il prezzo che si determina è quello pari al costo medio minimo (ACmin)
di produzione – tipo di risultato che ci si aspetta in un mercato perfettamente concorrenziale-;
inoltre ogni impresa produce una quantità in corrispondenza della quale il costo di produzione è
minimo. D’altra parte, quando vi è sostenibilità vi è anche efficienza per cui ogni equilibrio in u
mercato contendibile risulta anche efficiente.
(vedi grafici appunti AB)
Una configurazione industriale sostenibile è anche efficiente poiché Pe è situato al minimo della curva dei costi medi,
esito pari a quello di concorrenza perfetta.
Questo grafico afferma che una configurazione industriale efficiente
non è sempre sostenibile. Ponendo su uno stesso grafico la quantità e il
prezzo e supponendo di avere una curva di costo medio LP che ha
andamento crescente; la curva di domanda taglia la curva di costo
medio nel suo tratto crescente: Data la dimensione del mercato
sarebbe auspicabile che la produzione fosse svolta da una sola impresa
piuttosto che dividere la produzione stessa. Data la curva di costo, ci
sarebbe spazio per altre imprese per produrre una quantità tale x e. Per
consentire all’impresa di operare bisogna fissare una quantità X* e un
prezzo P*: l’impresa produce e soddisfa la domanda, non incorrendo in
delle perdite. Il prezzo P* proposto è un prezzo che consente
all’impresa di operare in condizioni sostenibili

L’area del ricavo è esattamente pari all’area del costo; tuttavia, non è
detto che questa configurazione risulti sostenibile, perché sarebbe possibile per un potenziale entrante fare il suo
ingresso nel mercato con una quantità X’ inferiore ad X*, ad un prezzo inferiore compreso tra P* e P’ e ottenere un
profitto positivo. Ciò vuol dire che: pur essendo efficiente tale configurazione industriale, con una sola impresa
produttrice, non è sostenibile nella misura in cui sarà sempre possibile, per un potenziale entrante fissare un prezzo e
lucrare un profitto positivo. La sostenibilità è una condizione necessaria affinché una configurazione
industriale sia di equilibrio in un mercato contendibile. Poiché in un mercato contendibile sono
possibili forme di concorrenza hit and run, una configurazione industriale non può essere di
equilibrio se non è soddisfatta la condizione di sostenibilità. Dall’altra parte quando vi è
sostenibilità, vi è anche efficienza, per cui ogni equilibrio in un mercato contenibile risulta anche
efficiente. La teoria dei mercati contendibili offre un paradigma di riferimento in base al quale le
deviazioni dall’efficienza di una concreta configurazione industriale possono essere spiegate e, in
qualche modo misurate, in termini di deviazione dalle condizioni di contendibilità. In sintesi: un
mercato funziona bene se è possibile entrare e uscire dal mercato nel modo più semplice possibile
(senza costi e senza barriere). Si può dunque affermare che l’efficienza del mercato non è data più
dal numero di imprese che vi operano, infatti potrebbe operare anche una singola impresa, non si
potrà inoltre applicare un prezzo maggiore del costo medio minimo di produzione.
La prospettiva dei mercati contendibili è legata all’ipotesi di efficienza studiata dalla scuola di
Chicago, se in un mercato c’è una sola impresa, questa sarà l’unica proprio perché è la più
efficiente, premesso che sia garantito che in quel mercato sia possibile entrare e uscire senza alcun
costo. In assenza di barriere all’entrata e all’uscita quindi ci si può disinteressare del numero delle
imprese e della loro dimensione in quanto si guarderà esclusivamente alle condizioni di
contendibilità. Nella realtà è difficile immaginare un mercato completamente privo di barriere
all’entrata e all’uscita, inoltre l’aspetto più importante di un mercato contendibile è la credibilità
della minaccia di entrata da parte dei potenziali entranti.

Le condizioni favorevoli ad una concorrenza hit and run:


- Ponendosi dal lato dell’incumbent, tutti i consumatori che prima acquistavano da quest’ultimo, se l’entrante
offre un prezzo pari a p’- , devono subito mostrare una reazione spostandosi dal lato del potenziale
entrante.
- Che caratteristiche deve avere il prodotto affinché si verifichi una situazione come quella descritta al primo
punto? Il prodotto deve essere omogeneo.
- Un altro fattore da tenere in considerazione è il tempo: una volta entrati nel mercato bisogna considerare che
il tempo T necessario all’incumbent per reagire all’ingresso del potenziale concorrente, abbassando il prezzo
È SUPERIORE al tempo  che è necessario al potenziale entrante per entrare sul mercato, guadagnare profitti
positivi e uscire senza dover sostenere alcun costo.
- La capacità produttiva del nuovo entrante deve essere tale per cui copre una quota significativa della
domanda: l’entrante può entrare a qualsiasi livello di scala produttiva, ma se si vuole ottenere un effetto
concreto, di un’impresa che dunque già opera sul mercato, soprattutto quando quest’ultimo è abbastanza
elevato rispetto alla domanda, l’entrante deve entrare su una scala significativa.
Queste condizioni sono importanti perché nascondono un’asimmetria a favore dell’entrante, si
assume che l’incumbent non è particolarmente attenta al fatto che qualcuno stia entrando nel
mercato, e quando l’incumbent decide di reagire a tale situazione abbassando il prezzo, il
potenziale entrante è già uscito. Tali condizioni equivalgono ad ipotizzare ed analizzare le
congetture alla Bertrand da parte dei potenziali entranti, con una asimmetria a favore di questi
ultimi: l’impresa ritiene profittevole l’abbassamento del prezzo perché sta immaginando che l’altra
impresa mantenga il prezzo inalterato (è sufficiente applicare un p’-  per poter sottrarre il mercato;
esattamente quello che la teoria dei mercati contendibili replica in termini di concorrenza potenziale piuttosto che
effettiva).
La teoria dei mercati contendibili, quindi, recupera l’intuizione di Bertrand e consente di analizzare
la possibile efficienza e configurazione di tipo monopolistico ed oligopolistico, immaginando di
potersi trovare in una situazione di efficienza anche qualora ci siano imprese dimensionalmente
grandi rispetto alla domanda di mercato. Uno dei contesti in cui è stata applicata la teoria dei
mercati contendibili è il settore aereo.

OLIGOPOLIO NON COLLUSIVO (appunti pdf)


Oligopolio non collusivo. La teoria della domanda spezzata offre un modello che ha l’obbiettivo di
dimostrare che, in un sistema monopolizzato da grandi imprese, il movimento dei prezzi viene
privato del suo ruolo fondamentale per stabilire l’equilibrio, e viene sostituito dalle variazioni delle
quantità offerte. Questa teoria rientra nella sfera dei prezzi amministrati. Il modello portato avanti
da Sweezy fornisce un sistema predittivo ed esplicativo delle performance delle imprese in
condizioni di variabilità.

Le imprese non determinano i prezzi come suggerisce la teoria economica, ma li tengono fissi
perchè stanno coordinando le proprie decisioni nell’ottica di mantenere alt gli stessi.

Secondo tale teoria il comportamento oligopolistico non è collusivo.


La rigidità dei prezzi e spiegata da diverse ipotesi: il bene è omogeneo, le imprese non possono
colludere (hanno un comportamento indipendente), le imprese massimizzano i profitti (MC=MR),
le imprese decidono il prezzo considerando i costi di produzione e una curva di domanda.

La singola impresa analizza due diverse curve di domande. La prima nel caso in cui l’impresa
decida di aumentare il prezzo e la seconda nel caso l’impresa decida di diminuire il prezzo. Nel
primo caso all’aumento del prezzo seguirà una robusta riduzione della quota di mercato, perché le
altre imprese dell’industria manterranno il prezzo costante.

Nel caso di una riduzione del prezzo l’incremento della quota sarebbe molto limitato o nullo,
perché le altre imprese reagiranno diminuendo a loro volta o iniziando un’azione di ritorsione.

Quindi la curva di domanda presenta un angolo in coincidenza del prezzo attuale. La curva di
ricavo marginale ha un punto di discontinuità nell’angolo. Le imprese scelgono la quantità da
produrre sulla base dell’uguaglianza tra costo marginale e ricavo marginale.
Contrazione della domanda e variazioni di prezzo. Anche nel caso in cui avvenga una contrazione il
prezzo rimane uguale, perché la curva comunque passa per la retta di ricavo marginale. La
reazione alla contrazione della domanda non avviene con una variazione di prezzo ma con una
variazione della quantità prodotta.

Variazione dei costi di produzione e variazioni di prezzo. Fintanto che la curva di costo marginale
rimane nel tratto di discontinuità della curva di ricavo marginale il valore del prezzo che
massimizza il profitto non cambia. Il profitto in caso di un aumento dei costi diminuisce perché la
quantità e il prezzo non cambia. In caso però di una variazione dei costi molto intensa potrebbe
essere necessario anche cambiare il prezzo se i costi escono dal tratto di discontinuità.
In presenza di variazioni della domanda i prezzi tenderanno ad essere piuttosto rigidi. Le imprese
oligopolistiche “amministrano l’offerta”, mantenendo stabili i prezzi e variando le quantità offerte
proporzionalmente alle quantità domandate.
Le variazioni dei costi di produzione non comportano immediate variazioni dei prezzi. Aumenti nei
costi di produzione diretti hanno l’effetto almeno nel breve periodo di ridurre il profitto delle
imprese.

La conclusione di Sweezy porta ad affermare che mentre quando varia la domanda le imprese
gestiscono l’offerta modificandone la quantità, in caso di variazione dei costi marginali invece le
imprese scelgono di accettare un aumento o una diminuzione del profitto.
Una variazione della domanda non comporta una variazione dei prezzi, le imprese tenderanno ad
amministrare l’offerta modificando solamente la quantità prodotta.
In caso di variazione dei costi piuttosto che amministrare l’offerta e variare la quantità, le imprese
amministrano il cuscinetto dei profitti accettandone una contrazione o un aumento.

Full costing pricing è il risultato degli studi di Hall e Hitch che tendono a rappresentare la rigidità
dei prezzi nei mercati oligopolistici come il risultato di un differente modello di determinazione dei
prezzi noto appunto come full cost pricing, le imprese non definiscono il proprio prezzo in vista
dell’ottimizzazione del profitto ma in vista di coprire i costi di produzione.
Il prezzo è la somma dei costi di produzione direttamente imputabili al prodotto e di un mark-up
considerato sufficiente a coprire i costi non direttamente attribuibili al prodotto e a generare un
margine di profitto “normale”.

v sono i costi variabili diretti e k è la quota di imputazione dei costi indiretti fissi e de margine di
profitto desiderato p=v+k
Full cost pricing e rigidità dei prezzi causano forme di collusione esplicite o tacite. Stabilito che le
imprese stabiliscono il prezzo con l’obbiettivo di coprire il costo medio relativamente ad un
ipotetico valore di produzione, ne deriva che le variazioni della domanda che si verificano
successivamente alla fissazione del prezzo non influiscono sui prezzi medesimi, e che quindi i
prezzi tendono ad essere rigidi rispetto alle variazioni della domanda.
Due eccezioni. Nel caso di una caduta di domanda di notevole entità e durata, e nel caso in cui i
costi di produzione di tutte le imprese si modificano simultaneamente e in uguale proporzione, in
questo caso le imprese ricalcoleranno un prezzo di equilibrio e si avrà un generale rialzo dei prezzi.

Le imprese non si comportano indipendentemente l’una dall’altra ma in modo coordinato, perché


ciascuna ha timore di modificare il prezzo perche teme variazioni di comportamento delle altre
rivali, dunque le imprese si allineano tra di loro per limitare la paura.

La rigidità dei prezzi e il full cost pricing sono legati alla volontà di evitare tutti gli elementi di
incertezza.
La definizione di Bain di barriera all’entrata determina l’idea secondo cui bisogna tenere conto
dell’effetto delle barriere all’entrata perché esse determinano la possibilità delle Incombent di
fissare il prezzo più alto del costo medio di lungo periodo, ottenendo così un profitto, senza
favorire l’ingresso di altre imprese nell’industria.

L’idea di Bain si lega molto all’anili BSM. Per capire perché in un settore ci sono profitti positivi,
bisogna considerare concorrenza reale e concorrenza potenziale; un modello di oligopolio è
incompleto se non si considerano le barriere all’entrata.
MODELLO BSM: l’idea che semplifica l’analisi è immaginare ci sia un unico produttore (incumbent)
e quindi sia contesto di monopolio. In questo settore ci sono barriere all’entrata, sebbene di entità
non rilevante; perché è possibile l’ingresso di altre imprese nel mercato. È essenziale fare ipotesi
sul comportamento che possono avere l’entrante potenziale e l’incombent. L’entrante deciderà di
entrare solo se, dopo il suo ingresso, riuscirà ad ottenere un profitto positivo. Quindi l’entrante
deve immaginare il comportamento dell’incombent dopo il suo ingresso nel settore. Come varia la
produzione dell’incombet se si aggiunge la produzione nel mercato dell’entrante? L’ipotesi
sottostante il modello BSM è che il potenziale entrante assumi che l’incombet continui a produrre
la medesima quantità che produceva in precedenza. Questa ipotesi sul comportamento
dell’incombent è nota come “postulato di Sylos-Labini”; questo postulato è coerente con il
comportamento immaginato da Cournot. Quindi il nuovo entrante aggiunge quantità prodotta dal
mercato e il prezzo del bene diminuirà. Bisogna capire se si ottiene un prezzo che garantisce
profitti positivi.

Il modello BSM assume che l’incombent abbia un vantaggio: il vantaggio di colui che “muove
prima”; l’incombent conosce il modo di pensare dell’entrante. E' incentivato ad usare la propria
quantità per modificare la profittabilità dell’entrata del potenziale entrante. L’incombent può
modificare la quantità prodotta: se aumenta la quantità, diminuisce il prezzo quindi diminuisce il
profitto. Se c’è un unico incombent, la cosa conveniente è produrre la quantità di monopolio per
massimizzare i propri profitti.
Il fatto che l’incumbent aumento li quantità, induce a parlare di prezzo limite. Il prezzo limite e, di
conseguenza, la quantità limite, è quella quantità e prezzo che non rende profittevole l’ingresso di
un’altra impresa. Il prezzo limite può essere definito come il prezzo massimo che l’impresa ritiene
di poter fissare senza indurre l’entrata del potenziale entrante. Se fissasse un prezzo più alto,
l’altra impresa entrerebbe. Se invece si considera un prezzo più basso, si ostacola l’ingresso
dell’altra impresa ma si rinuncia anche ad un profitto.
La barriera all’entrata è una barriera all’entrata di carattere strutturale che crea un’ulteriore
asimmetria, oltre quella che ipotizza che l’incombet conosce il comportamento dell’impresa
entrante; Si mette in atto una strategia di prezzo per ostacolare l’ingresso dell’entrante
nell’industria.
L’incumbent sta rinunciando a parte dei profitti per evitare l’ingresso di altre imprese nel mercato.
Quindi, a vote è anche possibile condividere il mercato (accomodamento dell’entrata) se ciò è più
conveniente per l’incumbent. Non sempre quindi è conveniente adottare la strategia di deterrenza
all’entrata.
Cosa conviene all’incumbent per essere profittevole:

- Deterrenza all’entrata

- Accomodamento dell’entrata

- Entrata bloccata: è uno scenario limite perché rappresenta lo scenario in cui l’incumbent ha un
tale vantaggio che non si preoccupare del nuovo entranteSi annulla la concorrenza potenziale.

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