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classica
Storia Della Filosofia
Università degli Studi di Messina
56 pag.
L'età classica ridurrà al silenzio, con uno strano colpo di forza, la Follia, le cui
voci erano appena state liberate dalla Renaissance.
Nel cammino del dubbio, Cartesio incontra la follia accanto al sogno e a tutte le
forme d’errore. Questa possibilità di essere folle non rischia di privarlo del suo
corpo, così come il mondo esterno può dissimularsi nell’errore, o la coscienza
addormentarsi nel sogno. In realtà, per quanto siano ingannatori, i sensi non
possono alterare che « le cose molto poco sensibili e molto lontane »; la forza
delle loro illusioni lascia sempre un residuo di verità: inevitabili indizi di verità
che il sogno non giunge a compromettere. Né il sogno popolato di immagini né
la chiara coscienza che i sensi si ingannano possono portare il dubbio fino al
punto estremo della sua universalità.
La follia perfino nel pensiero di un folle non può essere falsa; per il fatto
che io penso non possono essere folle. Quando io credo di avere un corpo, sono
sicuro di possedere una verità più solida di colui che si immagina di avere, ad
esempio, “un corpo di vetro”.
Nell’economia del dubbio c’è uno squilibrio fondamentale tra follia da una
parte, sogno ed errore dall’altra. La loro situazione è diversa in rapporto alla
verità e a colui che la cerca; sogni e illusioni sono superati nella struttura
stessa della verità; ma la follia è esclusa dal soggetto che dubita. E tuttavia
non si è mai sciuri di non sognare, non si è mai certi di non esser folli.
Non si tratta dunque più di esaltare la miseria nel gesto che le porta sollievo,
ma, semplicemente di sopprimerla. La Carità è disordine, la povertà punizione.
L’incarico deve essere perciò affidato agli ufficiali di giustizia. Vengono istituite
grandi case di internamento dove si attua una laicizzazione della carità, ma
anche una punizione morale della miseria. Vi è una critica radicale delle forme
private di aiuto ai miserabili; spetta piuttosto ai magistrati di affrontare il
problema.
In seguito, però, tutta la Chiesa approverà il grande internamento. Essa ha
preso così la sua decisione: si avrà da un lato la regione del bene, che è quella
della povertà sottomessa e conforme all’ordine che le viene presentato;
dall’altro lato la regione del male, cioè la povertà ribelle, che cerca di sfuggire
a quest’ordine. La prima accetta l’internamento e vi trova la sua pace; la
seconda lo rifiuta, e per conseguenza lo merita.
È nata una sensibilità che ha tracciato una linea, formato un limitare; e che
sceglie, per bandire. L’ordine non affronta più liberamente il disordine, la
ragione regna allo stato puro, in un trionfo che le viene preparato in anticipo.
La follia è così strappata a quella libertà immaginaria che la faceva ancora
crescere nel cielo della Renaissance.
Non è certo che la follia abbia atteso il compimento della psichiatria per
passare da un’esistenza oscura alla luce della verità. Non è certo nemmeno
che col il gesto antichissimo della segregazione, il mondo moderno abbia
voluto eliminare coloro che si mostravano come “asociali”. Si può ritrovare una
somiglianza tra gli internati del XVIII sec e il personaggio contemporaneo
dell'asociale, poiché è stato creato dal gesto stesso della segregazione. É sorto
il giorno in cui un uomo è stato riconosciuto come straniero dalla società che lo
aveva cacciato. Egli non rappresenta se non lo schema di esclusioni
sovrapposte. In una parola, così come per i lebbrosi, quel gesto avrebbe creato
alienazione.
Questo potere ha un senso positivo: quando il XVII e XVIII sec internano la follia
allo stesso titolo della dissolutezza l'essenziale non è che la misconoscono
come malattia, ma la percepiscono sotto un altro cielo. Tutta via sarebbe
errato supporre che l’internamento degli insensati è una misura poliziesca che
non pone problemi o che quanto meno manifesta un’insensibilità uniforme nei
riguardi del carattere patologico dell’alienazione. Anche nell’usanza monotona
dell’internamento la follia ha una funzione variata. I regolamenti avevano
previsto un solo medico con l’obbligo di visitare. Non poteva trattarsi che di un
controllo medico a distanza che non era destinato a curare gli internati in
quanto tali, ma solo quelli che cadevano malati: prova sufficiente che i folli
internati non erano considerati come malati per il solo fatto della loro follia. Se
all’Hopital General c’è un medico, ciò non è dovuto al fatto che si ha coscienza
di rinchiudere dei malati, ma al fatto che si teme la malattia per coloro che
sono già internati. Si teme la famosa « febbre delle prigioni ».
Nel VII secolo i folli venivano "curati" con diverse terapie, quali la danza, l'arte,
la musica; questo gettò delle profonde radici nell'Umanismo medico in cui
vennero costruiti numerosi ospedali per la presa in cura dei folli. Oggi, invece,
della cura della follia resta solo un alone.
Il riconoscimento della follia nel diritto canonico come nel diritto romano era
legato alla sua diagnosi da parte della medicina. La coscienza medica era
implicata da ogni giudizio di alienazione. Solo il medico può essere competente
a giudicare se un individuo è folle, e qual grado di capacità gli lasci la sua
malattia. Questo è un obbligo rigoroso che un giurista formato dalla pratica del
diritto canonico ammette come un’evidenza. I poteri di decisione sono lasciati
al giudizio medico; solo quest’ultimo introduce nel mondo della follia e
consente di distinguere il normale dall’insensato, il criminale dall’alienato
irresponsabile. La giurisprudenza dell’internamento è abbastanza complicata
per quanto riguarda i folli. Di solito è la famiglia: i parenti più stretti hanno la
maggiore autorità per far valere i loro danni, le loro lamentele o i loto timori
nella petizione con cui domandano un internamento. Ma accade che i
conoscenti meno stretti, o gli stessi vicini, possano ottenere una misura di
internamento al cui la famiglia non vuole acconsentire. Ciò dimostra che nel
Ciò che può determinare e isolare il fatto della follia non è tanto una scienza
medica quanto una coscienza suscettibile di scandalo. In tal senso i
rappresentanti della Chiesa sono in una situazione ancor privilegiata dei
rappresentanti dello stato nel giudicare la follia. L’interdizione non comporta
nessuna perizia medica; è una questione da regolare interamente tra le
famiglie e l’autorità giudiziaria. L’internamento e le pratiche giudiziarie che
hanno potuto innestarsi su di esso non hanno affatto acconsentito un dominio
medico più rigoroso sull’insensato. Tutt’al contrario, sembra che si sia avuta la
tendenza a trascurare sempre più questo controllo medico. Non c’è da stupirsi
che all’inizio del XIX secolo si discuta ancora dell’idoneità dei medici a
riconoscere l’alienazione e a diagnosticarla.
C’è uno sbalzo tra una teoria giuridica della follia, abbastanza elaborata per
discernere, con l’aiuto della medicina, i limiti e le forme, e una pratica sociale,
quasi poliziesca, che se ne appropria in modo massiccio, utilizza forme di
internamento che sono state preparate già per le repressione, e trascura di
seguire le sottili distinzioni che sono state predisposte da e per l’arbitrato
giudiziario. La prima appartiene a una certa esperienza della persone
come soggetto del diritto, di cui si analizzano le forme e gli obblighi; l’altra
appartiene a una certa esperienza dell’individuo come essere sociale. Nel
primo caso bisogna analizzare la follia nelle modificazioni che essa non può
mancare di portare al sistema degli obblighi; nel secondo, bisogna prenderla
con tutte le parentele morali che ne giustificano l’esclusione. Come soggetto
del diritto, l’uomo si libera delle sue responsabilità nella misura stessa in cui è
alienato; come essere sociale, la follia lo compromette nelle vicinanze della
colpevolezza. La scienza medica delle malattie mentali si è costituita sul fondo
di un’esperienza giuridica dell’alienazione. Sotto la pressione del concetto di
diritto e nella necessità di delimitare con precisione la personalità giuridica,
l’analisi dell’alienazione non cessa di raffinarsi e sembra preannunciare teorie
mediche che la seguono da lontano.
Due piani di elaborazione della medicina, a seconda che essa venga presa nel
contesto del diritto, o che sia sottomessa alla pratica sociale dell’internamento.
· Nel primo caso essa mette in gioco le capacità del soggetto
di diritto, e con ciò prepara una psicologia che coinvolgerà, in
un’unità indecisa, un’analisi filosofica delle facoltà e un’analisi
giuridica della capacità a contrattare e a impegnarsi. Essa si
rivolge alle strutture sottili delle libertà civile (alienazione);
· Nel secondo caso mette in gioco i comportamenti dell’uomo
sociale, e prepara così una patologia dualista, in termini di
normale e di anormale, di sano e di morboso, che scinde in due
domini inconciliabili la semplice formula: da internare. Struttura
spessa della libertà sociale.
Uno degli sforzi costanti del XVII secolo fu di adattare alla vecchia nozione
giuridica del « soggetto di diritto » l’esperienza contemporanea dell’uomo
Queste due forme di esperienza della follia hanno il proprio indice cronologico,
la prima è ereditata la seconda è una creazione inedita del mondo classico.
Le formule d'internamento indicano un'esperienza della follia che le pratiche
patologiche non potranno mai comprendere nella sua
totalità. Nell’internamento la sensibilità verso la follia non era autonoma, ma
legata a un certo ordine morale in cui essa non appare più se non a titolo di
perturbazione. Essenziale per capire l’età classica è che la follia diviene per
essa percepibile nella forma dell’etica. Una follia quindi in cui la ragione non è
perturbata, ma che è riconoscibile per il fatto che tutta la vita morale viene
falsata, che la volontà è cattiva. Il segreto delle follia risiede nella qualità della
volontà e non nell’integrità della ragione. Una follia che riposa tutta intera su
una volontà cattiva, su un errore etico [folle non più incapace di scegliere con
raziocinio, ma come colui che compie una vera scelta verso il male (sembra
d'essere tornati al pensiero di Erasmo)]. Questa è l’indifferenza che l’età
classica sembra opporre alla separazione di follia e colpa. Follia e delitto non si
escludono: si implicano l’un l’altra all’interno di una coscienza che sarà
anch’essa trattata ragionevolmente dalla prigione e dall’ospedale.
Nel mondo dell’internamento la follia non spiega e non scusa niente; essa entra
in complicità col male per moltiplicarlo. Tutto avviene come se la spiegazione
psicologica si aggiungesse all’incriminazione morale, mentre da molto tempo
abbiamo preso l’abitudine di stabilire fra di esse un rapporto di sottrazione.
Il diritto cerca di distinguere con il maggior rigore possibile l’alienazione
simulata da quella autentica, poiché non condanna « colui che
è davvero affetto dalla follia ». Nell’internamento la follia reale equivale alla
follia simulata. La follia che non intende esserlo o la semplice intenzione senza
follia hanno lo stesso trattamento, forse perché hanno una stessa origine: una
volontà perversa.
Per gli uomini di legge la follia colpisce essenzialmente la ragione, e con ciò
altera la volontà rendendola innocente. Nel mondo dell’internamento, al
contrario, poco importa sapere se la ragione è stata effettivamente colpita: nel
caso che lo sia, ciò deriva anzitutto da un cedimento della volontà. Si tratta di
tutto un rapporto oscuro tra la follia e il male soggetto al potere individuale
dell’uomo rappresentato dalla sua volontà. Così la follia si radica nel mondo
morale.
La sragione, nell’età classica, non è respinta ai confini di una coscienza
ragionevole, ma la sua opposizione alla ragione si mantiene sempre nello
spazio aperto di una scelta e di una libertà. È in questione la volontà più
essenziale del soggetto. Cartesio aggirava nel cammino del dubbio la
possibilità d’essere insensato; mentre tutte le altre forme d’errore e d’illusione
circondavano una regione della certezza ma d’altra parte liberavano una forma
della verità, la follia era esclusa. Sembra che se la follia non interviene
nell’economia del dubbio, ciò derivi dal fatto che essa è a un tempo sempre
La follia concerne, in primo luogo, lo scandalo. Nella sua forma più generale
l’internamento si spiega, o comunque si giustifica, con la necessità di evitare lo
scandalo. Questo è un cambiamento importante nella coscienza del male. Fino
al XVII secolo il male non può essere compensato e punito se non con l’essere
rivelato. Solo la luce in cui avvengono la confessione e la punizione può
equilibrare la notte da cui esso è uscito, attraversi quindi la confessione
pubblica e la manifestazione, prima di raggiungere il termine che lo sopprime.
L’internamento tradisce al contrario una forma di coscienza per la quale
l’inumano non può provocare che la vergogna. Il classicismo prova davanti
all’inumano un pudore che la Renaissance non aveva mai sentito.
2) a questo punto la follia appartiene meno che mai alla medicina nè alla
correzione, non può essere padroneggiata se non per mezzo
dell'addestramento e abbrutimento;
3) Nel XVII e XVIII sec l'animalità non prescrive in alcun modo ai suoi fenomeni
una piega determinista, al contrario pone la follia in uno spazio d'imprevedibile
libertà in cui il furore si scatena.
In ogni caso è questa animalità della follia che esalta l’internamento, proprio
mentre esso si sforza di risparmiare lo scandalo all’immoralità dello
sragionevole. Questo indica a sufficienza la distanza che si è instaurata nell'età
classica tra la follia è le altre forme di sragione. Rispettare la follia è
riconoscere il limite inferiore della verità umana, limite non accidentale ma
essenziale. Come la morte è il termine della vita umana per quanto riguarda il
tempo, la follia ne è il termine sul piano dell'animalità. Per il classicismo follia è
questa incarnazione dell’uomo nella bestia, che, come punto estremo della
caduta, rappresenta il segno più evidente della sua colpevolezza.
C’è l’abitudine di percepire nella follia una caduta verso un determinismo in cui
si aboliscono progressivamente tutte le forme di libertà. La follia rivela una
libertà che si scatena nella forme mostruose dell’animalità. Per il classicismo la
sragione ha un valore nominale; forma una specie di funzione sostanziale. La
follia può comprendersi in rapporto a essa, e soltanto a essa. Per l’uomo
classico la follia non è la condizione naturale, la radica psicologica e umana
della sragione; ne è soltanto la forma empirica. Il razionalismo classico ha
saputo sorvegliare e percepire il rischio sotterraneo della sragione, questo
spazio minaccioso di una libertà assoluta.
È vero che il cogito è l’inizio assoluto; ma non bisogna dimenticare che il genio
maligno gli è anteriore. Tra Dio e l’uomo, il genio maligno ha un significato
assoluto: rappresenta la possibilità della sragione e la totalità dei suoi poteri;
egli indica il pericolo che, assai al di là dell’uomo, potrebbe impedirgli in modo
definitivo di accedere alla verità: l’ostacolo essenziale di tale ragione. E non è
per il fatto che la verità che prende nel cogito la sua illuminazione finisca col
mascherare interamente l’ombra del genio maligno. Fino all’esistenza e alla
verità del mondo esterno questo pericolo minaccerà il cammino di Cartesio.
Per il classicismo la follia non potrà mai essere presa per l’essenza stessa della
sragione; una psicologia della follia non potrà mai pretendere di dire la verità
sulla sragione. Bisogna al contrario porre di nuovo la follia sul libero orizzonte
della sragione, per poterle restituire le dimensioni che le sono proprie.
Rinchiudere l’insensato col dissoluto o con l’eretico sfuma il fatto della follia,
ma svela la possibilità perpetua della sragione; e questa stessa minaccia nella
sua forma astratta e universale tenta di dominare la pratica dell’internamento.
La follia percorre tutto il dominio della sragione, riunendo le sue due rive
opposte (quella scelta morale e della rabbia animale, la sponda della libertà
Il positivismo non uscirà da questa ambiguità, anche se è giusto dire che l’ha
semplificata: esso ha ripreso il tema della follia-animale e della sua innocenza,
in una teoria dell’alienazione mentale come meccanismo patologico della
natura. La psichiatria positiva del XIX secolo ha ereditato segretamente tutti
quei rapporti che la cultura classica nel suo insieme aveva instaurato con la
sragione; ma li ha solo modificati e spostati, credendo in tal modo di parlare
della sola follia nella sua oggettività patologica.
SECONDA PARTE
Tutti i più grandi filosofi del XVIII secolo si interrogavano insistentemente circa
le modalità con lui l’anima potesse essere implicata nella follia e, a tal
proposito, si andarono delineando due filoni di pensiero:
1. Da un lato teologi, giuristi, dotti e dottori cercano di preservare la
purezza dell’anima del folle sostenendo che, questa – rimasta isolata,
protetta e preservata dal male – non può considerarsi macchiata dal
peccato, specialmente laddove egli mostri i segni di un chiaro
pentimento a cui seguono confessione e assoluzione. Se questi
sentimenti sono sinceri, nonostante tutto potesse indicare quanto il folle
fosse fuori di senno, nulla avrebbe potuto privarlo del diritto di credere
che - per intercessione di Dio - la sua anima fosse ora illuminata dalla
Spirito e per conseguenza salva da qualsiasi male compiuto nel
manifestarsi dello stato di follia. Forti di questa convinzione, i giudici non
accettano come delitto il gesto di un folle e ritengono che la follia sia un
impedimento provvisorio del quale l’anima non è colpita poiché
l’inarrestabile potenza del corpo ne ha minato la libertà fino a
sopprimerla del tutto. Essi ritenevano, in altre parole, che l’anima del
folle - sempre pura e immortale - fosse relegata in qualche parte oscura
del corpo, soffocata ma innocente.
2. Dall’altro lato, Voltaire, il massimo esponente tra i sostenitori dell’idea
per la quale l’anima del folle è direttamente implicata e colpevole dei
suoi stessi mali. L’idea di fondo è che l’anima del folle non può che
essere essa stessa pazza oppure il folle non ha anima.
Il quesito sulla separazione del corpo e dell’anima non è però sorto dal fondo
della medicina classica, poiché al contrario essa ammette senza difficoltà la
loro unità sensibile; questa unione è così stretta che si fatica a concepire che
l’uno possa agire senza il consenso dell’altro.
Chi dice follia, nel XVII e nel XVIII secolo, non dice in senso stretto “malattia
dello spirito”, ma qualcosa in cui corpo e anima sono in ballo insieme.
Per tutto il XVIII secolo la lista pressoché infinita delle cause remote della follia
non cessa di allungarsi, ma sempre sotto un principio organizzatore che
raggruppa tutte queste varietà assicurando loro una coerenza segreta. Per
capire ciò bisogna ricollegarsi ad un tema costante nel XVI, poi lentamente
scomparso fino ad un suo ripresentarsi – completamente trasformato e carico
di significati che fino a prima non possedeva - al termine del XVIII: il lunatismo.
Daiquin, Leuret e Guislain furono tra i primi a riammettere l’influsso della luna
sulle fasi dell’eccitazione maniaca e sull’agitazione dei malati; l’idea generale
è che la luna agisca sull’atmosfera con una tale intensità da fare entrare in
movimento anche una massa pesante come l’oceano. Ora, fra tutti gli elementi
del nostro organismo, il sistema nervoso è senza dubbio il più sensibile alle
variazioni dell’atmosfera poiché il minimo cambiamento di temperatura o la
minima variazione nell’umidità o nella siccità possono ripercuotersi
gravemente su di esso. Si ritiene che la luna agisce con violenza sulle persone
la cui fibra nervosa è particolarmente delicata: “essendo la follia una malattia
del tutto nervosa, il cervello dei folli è infinitamente più suscettibile all’influsso
dell’atmosfera, la quale a sua volta riceve diversi gradi d’intensità, a seconda
delle posizioni della luna rispetto alla terra”.
Alla fine del XVIII secolo il lunatismo è dunque il segno di una sensibilità
particolare dell’organismo umano. Ciò permette di concludere che tra la causa
remota e la follia si sono inseriti da un lato la sensibilità del corpo e dall’altro,
l’ambiente al quale è sensibile.
Il sistema delle cause ha dunque subìto una doppia evoluzione lungo il XVIII
secolo: da un lato le cause prossime non hanno smesso di riavvicinarsi –
istituendo tra anima e corpo una relazione lineare – dall’altro, le cause remote
Ora se si vuole esaminare la sragione classica - lontano dalle sue parentele con
il sogno e l’errore - bisogna cercare di comprenderla non come ragione malata,
perduta o alienata, ma come ragione abbagliata. Dire che la follia è
abbagliamento significa affermare che il folle vede lo stesso giorno visto
dall’uomo di ragione, ma lo vede vuoto, come notte, come nulla; le tenebre
sono per lui il modo di percepire il giorno. Vedendo la notte e il nulla egli in
realtà non vede affatto, ma crede di farlo e così si lascia sopraffare dai fantasmi
della sua immaginazione. Ecco perché il delirio e l’abbagliamento sono
costitutive della ragione classica.
Ciò che ora sappiamo della sragione ci permette di comprendere meglio che
cos’era l’internamento; questo gesto - che faceva sparire la follia in un
mondo neutro ed uniforme di esclusione - faceva della stessa la paradossale
manifestazione del non-essere. In fondo l’internamento non vuole tanto
sopprimere la follia quanto presentarla nella sua pura essenza:
nell’illuminazione del non-essere.
L’internamento è la pratica che corrisponde più strettamente a una follia
sentita come sragione, come vuota negatività della ragione, come nulla.
Questo spiega come la follia sia immediatamente sentita come differenza: da
ciò derivano le forme di giudizio – che si chiede non ai medici ma agli uomini di
buon senso – per determinare l’internamento del folle, e con ciò si comprende
come questa pratica non possa avere altro fine al di fuori della correzione, della
soppressione della diffidenza, della morte del nulla.
“LA FOLLIA E’ NULLA E L’INTERNAMENTO E’ L’ANNIENTAMENTO DEL NULLA”.
DEMENZA VS FRENESIA
La frenesia è sempre accompagnata da febbre mentre la demenza è una
malattia apiretica; la prima è dovuta ad un’infiammazione,calore eccessivo del
corpo, dolore alla testa, violenza dei gesti e delle parole, insonnie in
sopportazione alla luce e ai rumori. Comunque il cervello sarà ritenuto sempre
più spesso la sede prima della frenesia, perché interessato da un
infiammazione e un eccessivo calore. Esiste un calore di tipo fisico e uno di tipo
chimico: il primo è dovuto a movimenti troppo numerosi,frequenti e rapidi che
provocano un riscaldamento delle parti, sfregate le uni con le altre; il secondo
invece è provocato dall’immobilità, dall’ingorgo delle sostanze che si
accumulano entrando in una specie di ebollizione che spande un grande
calore.
Mentre la nozione di demenza resta astratta e negativa, quella di frenesia si
organizza nella logica del calore corporeo, integrando le sue origini, le sue
MANIA E MALINCONIA
Prendono vita in profondità immaginarie. Per quanto riguarda i sintomi,
troviamo tutte le idee deliranti che un individuo può formare su se stesso,
senza però compromettere l’insieme della ragione. Sydenham osserverà che “i
malinconici sono persone le quali per il resto sono molto sagge e sensate”.
Questo insieme sintomatico così chiaro e così coerente si trova designato con
una parola che implica tutto un sistema causale, quella di malinconia: tutti i
sensi dei malinconici sono depravati da un umore malinconico sparso nel loro
cervello.
Nella nozione di malinconia si giustappongono delirio parziale e azione della
bile nera.
Dufour, qualche anno dopo, insiste sul timore e la tristezza, incaricati di
spiegare il carattere parziale del delirio; da ciò deriva che i malinconici amano
la solitudine e per questo sono più attaccati all’idea del loro delirio o alla loro
passione dominante, mentre sembrano indifferenti a tutto il resto.
La discussione sulla malinconia restò a lungo impigliata nella tradizione dei 4
umori e delle loro qualità essenziali: qualità stabili appartenenti in proprio a
una sostanza, che sola può essere considerata come causa. Quanto è stato
acquisito sulla malinconia si può riassumere in 4 punti:
1. Le causalità delle sostanze viene sostituita da un movimento delle
qualità che si trasmettono immediatamente dal corpo all’anima,
dall’umore alle idee, dagli organi alla condotta.
Il pensiero e la pratica medica non hanno, nel XVII e nel XVIII secolo, la
coerenza che noi ora attribuiamo loro. In primis, il mito della Panacea, ossia il
rimedio che guarisce tutti i mali non è scomparso del tutto (la Panacea veniva
considerata “la natura stessa che agisce e cancella tutto ciò che appartiene
alla contronatura”). Nel XVII secolo iniziano ad aprirsi discussioni riguardanti
l’oppio ed il suo utilizzo in moltissime malattie, soprattutto quelle ritenute “di
testa”. Whytt in particolare ne esalta l’efficacia, essendo in grado l’oppio in
primo luogo, di diminuire dolori e spasmi e in secondo luogo di agire contro i
sintomi di stanchezza e debolezza. Esso infatti, ha un principale effetto di
insensibilizzazione e perciò si pone come agente che pone ostacolo alla
propagazione del male lungo le linee della sensibilità nervosa. Nei casi in cui il
nervo ridiventi nervoso, è necessario aumentare le dosi di tanto in tanto.
Nell’età classica non è dunque possibile riscontrare una distinzione netta tra
cure fisiche e cure psicologiche morali. La differenza comincerà ad esistere solo
quando il XIX secolo introdurrà la follia e la sua guarigione nel campo della
colpevolezza e dell’interrogazione del soggetto responsabile. Nel XIX secolo la
psicologia come metodo di guarigione si organizza intorno alla punizione; prima
di cercare di calmare, essa dispone al sofferenza come necessità morale. Solo
la pratica della sanzione ha separato nel folle le cure del corpo da quelle
dell’anima e ha reso possibile una medicina puramente psicologica. E’ evidente
l’opposizione all’interno delle tecniche di guarigione della follia, di metodi di
soppressione della malattia (malattia= passione) e di forme di investimento
della sragione (malattia= errore e delirio). L’investimento della sragione si
riconduce a tre aspetti essenziali:
PARTE TERZA
INTRODUZIONE
Ecco dunque riapparire carica di nuovi pericoli, sullo scenario del XVIII secolo,
quella sragione che era stata messa in disparte nella distanza
dell’internamento e che si era, poi, progressivamente alienata nelle forme
Tutte le forme della sragione che nella geografia del male avevano preso il
posto della lebbra, e che erano state bandite il più lontano possibile quanto a
distanza sociale, sono diventate ora lebbra visibile ed offrono le loro piaghe
purulente alla promiscuità degli uomini. La sragione è di nuovo presente; ma
ora essa è contraddistinta da un incidente immaginario di malattia che le
fornisce i propri poteri di terrori. La sragione affronta la malattia e le si avvicina
non nel rigore del pensiero medico ma nella zona del fantastico.
L’orrore diviene comunque attrazione, gli eccessi più infami vengono compiuti
all’interno di questi luoghi: vi è una mescolanza di donne leggere e vissute che
insegnano l’arte del mestiere in una nuova “geometria del desiderio”.
Così la minaccia della follia riprende posto tra i problemi del tempo instaurando
un legame con al civilizzazione, col progredire della vita moderna sempre più
artificiosa, più lontana dai semplici ritmi naturali della vita, si moltiplicano le
occasioni in cui la follia può esplodere(basta un instante di precarietà in un
individuo affinché la patologia insorga).
Questa religione dei tempi felici era la festa perpetua del presente, ma
quando, nell’età moderna, essa si idealizza, suscita intorno al presente
un alone temporale, una zona vuota, quella dell’ozio e dei rimorsi, dove il
cuore dell’uomo è abbandonato alla propria inquietudine, le passioni
consegnano il tempo alla spensieratezza o all’abitudine e la follia può
spiegarsi liberamente;
Nella seconda metà del XVIII secolo la follia non sarà più riconosciuta in ciò che
avvicina l’uomo ad una decadenza immemorabile, ma in ciò che lo distanza da
se stesso, al suo mondo, a tutto ciò che gli si offre dinanzi a lui
nell’immediatezza della natura. La follia diviene possibile in questo milieu dove
si alterano i rapporti col sensibile, col tempo, con gli altri.
Nel corso del XVIII secolo non si smette di ripetere che la follia aumenta ma è
difficile stabilire con esattezza se il numero dei folli è realmente accresciuto.
Sembra che la cifra dei folli segua una curva molto particolare che non è quella
della demografia e neppure del tutto quella dell’internamento; lo sviluppo di
questa curva è abbastanza strano poiché sembra non rispondere neppure alla
rapida crescita suscitata nel XVIII secolo da tutte le forme di follia è di
sragione. Ciò che ha dato il suo stile così particolare alla curva evolutiva
dell’internamento è da ricercare nell’apertura di tutta una serie di case
destinate ad accogliere esclusivamente gli insensati.
Un buon numero di folli che, nel secolo precedente, sarebbero stati rinchiusi
nelle grandi case d’internamento trova ora una terra d’asilo che appartiene
solo a loro (maison): ciò spiega in parte perché il loro numero è aumentato.
Improvvisamente, si ricomincia a praticare il vecchio internamento dei folli già
praticato nel Rinascimento; non bisogna infatti pensare che queste nuove
strutture siano molto diverse nella loro struttura da quelle che le hanno
precedute poiché l’obbiettivo ultimo resta l’isolamento/separazione , ma mai la
cura. Le condizioni giuridiche dell’internamento non sono mutate e gli ospedali
non lasciano molto posto in più alla medicina.
L’essenziale del movimento che si sta compiendo nella seconda metà del XVIII
secolo non consiste dunque nella riforma delle istituzioni o nel rinnovamento
del loro spirito, ma in un avvenimento spontaneo che determina ed isola asili
destinati in particolar modo ai folli; come se fosse stato necessario perché la
follia trovasse il proprio posto. La follia ha trovato ora una patria che le è
propria e questo nuovo internamento comincia a renderla autonoma nei
confronti della sragione, alla quale si era sempre trovata confusamente
mescolata.
La sragione nel XVIII secolo non cessa di semplificarsi. I volti singoli sotto i quali
la si internava divengono più difficilmente riconoscibili e si confondono nella
comprensione generale del “libertinaggio”. Vengono rinchiusi come libertini
tutti coloro che non sono sottratti come folli.
La sensibilità verso la follia si è aperta improvvisamente; i folli non sono più
coloro di cui si scorge subito la differenza globale e confusa con gli altri ma
diventano ora diversi tra loro e diversi gli uni tra gli altri, mal nascondendo il
segreto di specie paradossale. L’ingresso della diversità nell’uguaglianza della
follia è significativo poiché essa comincia ad identificarsi nella non-
rassomiglianza. Si distinguono ora l’imbecille, il furioso, l’alienato e l’insensato.
Nel furioso ci sono tutte le violenze esercitate sugli altri, tutte le minacce di
morte.
L’imbecille non può assicurare la propria esistenza ne risponderne; egli è
abbandonato passivamente alla morte (morte non più come violenza ma come
pura e semplice capacità di sussistere con le proprie forza).
I pazzi si distinguono in imbecilli e furiosi; in questa direzione si può
indubbiamente comprendere la distinzione così frequente nel XVIII secolo tra gli
insensati e gli alienati. Fino all’inizio del secolo i due concetti sono tra loro in
La legge del 1790 affida ai corpi municipali l’incarico di rimediare agli incidenti
che potrebbero essere causati dai furiosi lasciati in libertà e tale disposizione
viene rafforzata scaricando sulle famiglie la responsabilità della loro
somiglianza. In questa liberazione, i folli ridiventano bestie selvagge nell’epoca
stessa in cui i medici avevano cominciato a riconoscere loro una dolce
animalità. In un momento in cui l’umanità è quindi all’ordine del giorno, non c’è
nessuno che provi orrore nel vedere riuniti nella stessa cella il delitto e
l’indigenza. Esisteva in quegli anni infatti tanta confusione ed era difficile, nel
momento il cui si rivalutava l’umanità, determinare il posto che doveva
occupare la follia. La sparizione dell’internamento lascia la follia fuori dallo
spazio sociale e davanti al pericolo che ne consegue, la società reagisce da un
lato con un’insieme di decisioni a lunga scadenza, dall’altro con una serie di
provvedimenti immediati che le consentono di dominare la follia con la forza.
Bisogna dunque fare attenzione a non cercare nella riforma di Tuke e Pinel il
riconoscimento positivo della follia o l’inizio di un trattamento umano degli
alienati, bisogna piuttosto lasciare agli eventi e alle strutture di quel periodo la
loro libertà di metamorfosi. Tre di queste strutture sono state certo
determinanti:
1. Nella prima si sono confusi il vecchio spazio dell’internamento ora
ridotto e uno spazio medico formatosi in altro modo, che non ha
potuto congiungersi a quello se non mediante modificazioni
successive.
Tale passo viene compiuto da Tenon e Cabanis. Si trova in Tenon la vecchia idea
che l’internamento dei folli non debba essere decretato in maniera definitiva se
non dopo il fallimento delle cure mediche; soltanto dopo aver esaurito tutte le
possibili risorse si può arrivare a togliere ad un cittadino la propria libertà, ma
non in modo totale e assoluto.
3. Questa verità è l'uomo stesso in ciò che egli può avere di più
primitivamente inalienabile;
4. Ciò che nell'uomo è inalienabile è a un tempo la Natura, la Verità e la
Morale, cioè la Ragione stessa;
Fino al XVIII secolo il mondo dei folli era popolato solo da un potere astratto,
repressivo; adesso invece esso diviene Autorità e il sorvegliante interviene
senza armi, senza strumenti di coercizione ma solo con lo sguardo ed il
linguaggio. La follia non è assenza di ragione, ma una ragione addormentata,
una ragione infantile: la follia è infanzia. Nel ritiro infatti è tutto organizzato
come se i folli fossero dei minorenni, per cui servono pene e ricompense visibili
con un nuovo sistema educativo (cfr token economy).
La famiglia, nel progetto di Tuke, riveste il prestigio dei valori primitivi e non
ancora compromessi nella socialità, è l'antitesi del milieu che è l'origine della
follia.
In sintesi l'intenzione di Tuke era di costituire un ambiente che imitasse le
forme più antiche, pure e neutrali della coesistenza. In realtà egli però ha
ritagliato la struttura sociale della famiglia borghese e l'ha ricostruita
simbolicamente in un asilo però sempre spostato verso strutture e simboli
anacronistici, che resterà disadattato e fuori tempo.
Nello stesso periodo, in Francia, gli alienati sono stati liberati da Bicêtre, dalle
loro catene. Una figura di spicco, in questo movimento di liberazione, è
rappresentata da Pinel; egli dichiarò che la causa dell'alienazione dei folli
risiedesse nel modo in cui venivano trattati, nella privazione dell'aria e della
libertà. Adesso coloro che rinchiudono i folli come animali detengono tutta la
brutalità animale della follia; in essi infuria la bestia. Si scopre un segreto: la
bestialità non risiede nell'animale, ma nel suo addomesticamento. Il folle si
trova purificato da quella parte di animalità che è violenza, rapina, rabbia,
selvatichezza; non gli resterà più se non un'animalità docile, quella che non
risponde più alla coercizione e all'addestramento con violenza.
Ecco allora la nascita del secondo mito: il Mito della Liberazione degli Incatenati
dove le catene cadono, il folle si ritrova libero e recupera la ragione. Però non
è la ragione in se e per se a ricomparire, sono delle specie sociali a lungo
dormienti che si drizzano d'un tratto; il folle, liberato dall'animalità alla quale le
catene lo costringevano, raggiunge l'umanità attraverso il Tipo Sociale. La
salute mentale si restaura a partire dai valori sociali; la guarigione del folle, per
Pinel, è la stabilizzazione in un tipo sociale moralmente riconosciuto ed
approvato. È chiaro però che se i soggetti liberati da Pinel erano davvero folli,
non sono stato risanati di colpo e la loro condotta ha riservato per molto tempo
tracce di alienazione, ma questo, a lui, non interessa.
Inizia così a delinearsi nella fantasia l'immagine di un asilo che non sia più
gabbia dell'uomo abbandonato alle proprie barbarie, ma una repubblica del
sogno: un asilo in grado di rappresentare la grave continuità della morale
sociale. Contrariata è la coscienza di Pinel riguardo la religione: non deve
essere il substrato morale della vita dell'asilo, ma un oggetto mediatico; essa
può solo avvicinare il folle alla sua verità morale. L'ausilio si prefigge dunque
come scopo il regno omogeneo della morale, la sua estensione rigorosa a tutti
coloro che intendono sfuggirvi; è uno strumento di uniformità morale e di
Come l'asilo di Tuke, quello di Pinel, sarà uno spazio di matura e verità
immediata, ma avrà in più un dominio legislativo, un luogo di sintesi morale
dove scomparirà l'alienazione. Per far ciò l'asilo deve servirsi di tre metodi, tre
sistemi terapeutici:
1. Il Silenzio Questa proibizione produce sull'uomo delirante pieno di se
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un effetto molo più sensibile dei ferri e delle segrete; il folle si sente
umiliato di un abbandono nuovo in mezzo alla sua intera libertà, ciò lo
porterà a prendere posto nella società ritrovando le sue idee più sensate.
L'internamento, le prigioni, le segrete, i supplizi istituivano un dialogo
muto tra ragione e sragione, ora è silenzio assoluto; al linguaggio del
delirio non può che rispondere un silenzio assoluto (cfr tecnica
estinzione) poiché il delirio non è linguaggio. L'assenza di linguaggio,
come struttura fondamentale della vita dell'asilo, ha per correlativo
l'emergere della confessione.
2. Il riconoscimento nello Specchio Con Pinel la follia vedrà se stessa e
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sarà vista da se stessa, sarà puro oggetto e soggetto assoluto. La follia è
chiamata a guardare se stessa ma negli altri. In questo sguardo che
condanna gli altri, il folle assicura la propria giustificazione e nasconde la
propria malattia divenendo giudice assoluto. È nel momento in cui la
follia viene denunciata sugli altri che il folle si riconosce come tale. L'asilo
ha disposto gli specchi in modo tale che il folle non possa fare a meno di
sorprendersi suo malgrado come folle. Liberata dalle catene, la follia
perde l'essenziale della propria libertà; ora s'imprigiona nel proprio
sguardo eternamente rinviatole ed incatenata all'umiliazione di essere
oggetto per se: presa di coscienza d'essere folle.
Ci sono tutta via alcuni alienati che sfuggono a questo movimento e resistono
alla sintesi morale che esso opera. Costoro saranno reclusi all'interno stesso
dell'asilo, forma di una nuova popolazione internata, quella che non può
neppure appartenere alla giustizia. Quando si parla di Pinel e della sua
liberazione, si omette questa seconda reclusione.
Il medico non ha qui autorità come sapiente, ma come saggio, come garanzia
giuridica e morale. Il lavoro medico è solo una parte del l'immenso compito
morale che deve essere svolto nell'asilo e che può assicurare la guarigione agli
insensati.
Si crede che Tuke e Pinel abbiano aperto l'asilo alla conoscenza medica. Essi
però non hanno introdotto una scienza, bensì un personaggio che delimita la
follia non perché la conosce ma perché la domina. Il medico ha esercitato la
propria autorità sul mondo dell'asilo solo nella misura in cui, fin dall'origine, è
stato padre e giudice, famiglia e legge, mentre la sua pratica medica non
faceva da tempo che commentare i vecchi riti dell'Ordine, dell'Autorità e della
Punizione. Pinel riconosce che il medico guarisce quando, lontano dalle
terapeutiche moderne, mette in gioco queste figure immemorabili. La presenza
e le parole del medico sono dotate del potere di scoprire la colpa e di
restaurare l'ordine morale. Ma così facendo sempre più il malato si alienerà nel
medico, accettando interamente ed in anticipo tutti i suoi prestigi,
sottomettendosi ad una volontà che sente come magica, taumaturgica, ad una
scienza che suppone come prescienza e divinazione divenendo così il
correlativo ideale e perfetto di quei poteri che proietta sul medico.
Quella che viene definita pratica psichiatrica è una certa tattica morale che
nasce alla fine del XVIII secolo, si conserva nei riti della vita dell'asilo, ed è
riscoperta dai miti del positivismo.