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N.

Collana diretta da Mariella Nocenzi (Sapienza Università di


Roma) e Angelo Romeo (Pontifi cia Università Gregoriana)

COMITATO SCIENTIFICO
Marco Centorrino (Università di Messina)
Vanni Codeluppi (Università IULM di Milano)
Gemma Marotta (Sapienza Università di Roma)
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Jan Spurk (Université Paris Descartes – Sorbonne)
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I testi della collana sono sottoposti a un processo di peerreview


GEORG SIMMEL

LA MODA

A cura di
Anna Maria Curcio
Titolo originale: Die mode, 1910.
La presente edizione fa riferimento al testo pubblicato nel 1998 da Mondadori, rivista e aggiornata da Anna
Maria Curcio.

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


www.mimesisedizioni.it
mimesis@mimesisedizioni.it

Collana: Minima Sociologie, n. 7


eISBN: 9788857549521

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rispetto ai diritti dell’opera. Pertanto resta disponibile ad assolvere le proprie obbligazioni.
ANNA MARIA CURCIO
INTRODUZIONE

Nel 1910 George Simmel, sociologo tedesco, poliedrico e attento ai fenomeni


della modernità, anche quelli meno “accademici” e per questo inviso
all’Accademia stessa, si accinge a scrivere un piccolo ma denso e difficile da
decifrare saggio sulla moda, soprattutto per coloro che non posseggono le chiavi
di lettura simmelliana.
Simmel si può leggere in una maniera che può usarsi per tutti i suoi saggi o
quasi1 e cioè una sorta di dualismo dialettico simile a quello hegeliano, ma senza
la “sintesi”, cioè senza una sorta di messaggio conclusivo e pacificante.
In Italia solo un antesignano della sociologia, poco conosciuto ai più, è tornato
in auge per merito di una recente ripubblicazione2, Fausto Squillace, un paio di
anni dopo Simmel pubblica un saggio sulla Moda che contiene anche alcune
pagine preveggenti sul lusso.
Ma paragonare Simmel con altri autori non è difficile: Kant aveva accennato
alla moda come imperativo di vita sociale e persino Christian Garve, filosofo
tedesco, seguace di Kant della fine del settecento (1742-1798), aveva attribuito
alla moda, nel suo libro “Sulle mode” del 1775, un potere di imitazione (vedi G.
Tarde un secolo dopo) che contribuiva allo sviluppo sociale e culturale di quelle
società più primitive, contigue a quelle più sviluppate. La moda come fenomeno
sociale omnicomprensivo, anche se a volte solo accennato, ha sempre interessato
i pensatori più attenti ed osservatori della realtà che li circondava.
Ma Simmel ha una sua diversità nell’affrontare questo tema che lo rende
unico e punto di riferimento inescludibile per chi voglia comprendere un
fenomeno spesso mistificato, relegato nella fatuità, superficialità, leggerezza.
Che la moda corra, è cosa nota, non si ferma, è figlia della caducità come la
morte3.
Ma tutte le forme sociali cambiano, si trasformano ed è impossibile fissarle in
una “forma”, così come il ritratto rappresenta quell’istante e non il prima o il
dopo, così una fotografia che fissa il momento in cui viene scattata, percepisce
l’attimo che subito cambia. La vita di cui siamo parte “la possediamo solo nella
forma che essa ogni volta assume, la quale, come ho già sottolineato, nel
momento del suo presentarsi si mostra appartenente ad un altro ordine, fornito di
diritto e significato attinti da sé e che afferma e pretende un’esistenza
sopravitale”4. La vita vuole determinarsi e manifestarsi al di là di ogni forma,
nella sua immediatezza. E poiché la vita è il contrapposto della forma diviene
imprendibile, ed è ovunque, così come la moda nella sua inafferrabilità, nella sua
essenza. Altro dualismo che pervade tutto il saggio è il concetto di
identificazione – differenziazione, separazione – collegamento, coesione –
esclusione.
“Quando mancherà anche una sola delle due tendenze sociali che devono
convergere per creare la moda, il bisogno di coesione da un lato, dall’altro quello
di differenziazione, la creazione della moda cesserà e sarà la fine del suo
regno”5.
Difficile sfuggire all’imperativo della moda in tutti i suoi aspetti sociali e
culturali: “Perciò comprendiamo la mania per la moda, apparentemente così
strana, di alcune personalità per altri aspetti intelligenti e per nulla meschine. La
moda dà loro una combinazione di rapporti con uomini e cose, che in altri casi
sono soliti comparire più distintamente”6.
Si potrebbe affermare che la moda è per Simmel come la civetteria “che
realizza al massimo grado la definizione che Kant ha elaborato per l’essenza
dell’arte: finalità priva di scopo. L’opera d’arte non ha assolutamente alcuno
scopo ma le sue parti appaiono connesse in modo tanto significativo e disposte
con una tale necessità che sembrano dover concorrere a un fine perfettamente
determinato”7.
Come il denaro che promette felicità e “possibilità di fare quello che
vogliamo”, noi non abbiamo la libertà di disporne come vogliamo. La libertà
trova il proprio limite soltanto nella natura dell’oggetto posseduto8. In questo
modo la moda è costrittiva, vincolante, tiene prigioniero l’individuo laddove la
coesione sociale si manifesta in modo improprio e non dà libertà di opporvisi se
non rincorrendo un’altra moda o altre mode più vincolanti (es. quelle dei gruppi
giovanili) della prima.
“Il denaro rende possibile una espansione del tutto particolare della
personalità, una personalità che non si fa bella con il possesso delle cose. Il
dominio su di esse le è indifferente (le basta invece quel potere anche se
momentaneo)”9.
Così è la moda che afferma il potere della forma, fugace e passeggera, ma
rassicurante per chi la segue, “il fondersi di un senso di dominio e di un senso di
sottomissione, o, da un altro punto di vista, di un principio maschile e di uno
femminile”10.
“La tirannia della moda ci appare allora insopportabile soprattutto in quei
campi in cui vorremmo che valessero solo ragioni oggettive come la religione, la
filosofia e la scienza, la morale e l’impegno politico”11.
L’abito imposto come forma della moda imperante in quel contesto (primitivo
o moderno) non serve solo a coprire il corpo, a renderlo più attraente, più “à la
page”, ma a definire la sua apparenza e appartenenza sociale, a collocarlo in
questo o quell’ambito, attraverso la forma di cui si ricopre.
“Il sociologo Giddens sottolinea come il corpo sia sempre più mobilizzato in
modo riflessivo al punto che invece di essere qualcosa di dato, è oggetto di un
lavoro che gli dà forma”12.
La diffusione della moda non sembra obbedire a un principio chiaro e gli stili
si espandono internamente in diversi settori, anziché gocciolare giù, dall’alto al
basso.
La moda è allora legata ai valori dominanti in quel momento particolare, ma li
trascende, li rende vaporosi e al tempo stesso li annulla.
È la metafisica delle cose, è, come afferma Simmel, “figlia del pensiero e
dell’assenza di pensiero”, il confine labile ed illusorio fra la realtà e il desiderio
di essere, la vita e il sogno.

1 Cfr. C. Mongardini, (a cura di), Il conflitto della cultura moderna e altri saggi, Roma, Bulzoni, 1974.
2 F. Squillace, La moda, (a cura di Angelo Romeo), Roma, Nuova Cultura, 2010.
3 Cfr. G. Leopardi, Operette morali, Napoli, Luigi Pierro Editrice, 1895.
4 C. Mongardini, op. cit., p. 138.
5 G. Simmel, in questo saggio a p. 23.
6 G. Simmel, in questo saggio a p. 31.
7 G. Simmel, La moda e altri saggi di cultura filosofica, Roma, Longanesi, 1982, p.92 e ss.
8 G. Simmel, La filosofia del denaro, (a cura di A. Cavalli, L. Perucchi), Torino, Utet, 1984, p.464 e ss.
9 Ibidem.
10 G. Simmel, in questo saggio a p. 31.
11 G. Simmel, cit. in B. Carnevali, Le apparenze sociali, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 175 e ss.
12 L. Fr. H. Svendsen, Filosofia della moda, Parma, Guanda editore, 2006, p. 92 e ss.
GEORG SIMMEL
LA MODA
Il modo in cui ci è dato comprendere i fenomeni della vita rivela in ogni punto
dell’esistenza una pluralità di forze; sentiamo che ognuna di esse aspira a
superare il fenomeno reale, limita la sua infinità in rapporto all’altra e la
trasforma in pura tensione e in desiderio. In ogni fare, anche nel più creativo e
fecondo, sentiamo che qualcosa non è ancora giunto a completa espressione.
Mentre ciò avviene con la limitazione reciproca degli elementi opposti, l’unità
della totalità della vita si rivela proprio nel loro dualismo. E solo nella misura in
cui ogni energia interna preme oltre il limite della sua manifestazione visibile, la
vita acquista quella ricchezza di possibilità inesauribili che integra la sua realtà
frammentaria; solo così i suoi fenomeni fanno presentire forze più profonde,
tensioni più irrisolte, una lotta e un accordo di proporzioni più ampie di quanto
riveli la loro realtà immediatamente data.
Questo dualismo non può essere descritto nell’immediato, ma può essere
sentito solo nelle sue singole opposizioni, tipiche della nostra esistenza, come il
loro principio formale ultimo. La prima indicazione ci viene dalla fisiologia della
nostra natura, che necessita di moto e di stasi, di produttività e di ricettività.
Anche nella vita dello spirito siamo dominati in parte dall’aspirazione
all’universale, in parte avvertiamo la necessità di cogliere il particolare: se il
primo dà al nostro spirito la quiete, il secondo lo costringe a percorrere tutti i
singoli casi. Non diversamente, nella vita del sentimento, cerchiamo la quieta
sottomissione a uomini e cose non meno dell’energica autoaffermazione nei
confronti di entrambi. Tutta la storia della società si svolge nella lotta, nel
compromesso, nelle conciliazioni lentamente conquistate e rapidamente perdute
che intervengono fra la fusione con il nostro gruppo e il distinguersene
individualmente. Filosoficamente, l’oscillazione della nostra anima tra questi
poli può prendere corpo nel contrasto fra la dottrina dell’unità del tutto e il
dogma dell’incomparabilità, dell’essereper-sé di ogni elemento del mondo.
Anche a livello pratico, nella lotta di partiti opposti come il socialismo e
l’individualismo, si tratta sempre della medesima forma fondamentale di
dualismo, che nel campo della biologia si rivela infine come contrasto di
ereditarietà e di variabilità. La prima è esponente dell’universale, dell’unità,
dell’uguaglianza placata di forma e contenuto, la seconda genera la mobilità, la
molteplicità di elementi separati, l’inquieta evoluzione da un contenuto di vita
individuale ad un altro. Ogni forma essenziale di vita nella storia della nostra
specie rappresenta nel proprio ambito un modo particolare di unire l’interesse
alla durata, all’unità, all’uguaglianza con la tendenza al cambiamento, al
particolare, al caso unico.
Nella personificazione sociale di questi contrasti un lato di essi è
rappresentato dalla tendenza psicologica all’imitazione. L’imitazione si potrebbe
definire come un’ereditarietà psicologica, come il trasferimento della vita di
gruppo nella vita individuale. Il suo fascino sta nel rendere possibile un agire
finalizzato e dotato di senso senza che entri in scena nessun elemento personale
e creativo. La si potrebbe definire figlia del pensiero e dell’assenza di pensiero.
Dà all’individuo la sicurezza di non essere solo nelle sue azioni e si libra
sull’esercizio della medesima attività svolto finora come su di una solida
piattaforma che libera l’attività attuale dalla difficoltà di sostenersi da sola.
Ci concede in campo pratico la stessa peculiare serenità che ci procura in
campo teoretico l’aver ordinato un singolo fenomeno in un concetto generale.
Nell’imitare non solo trasferiamo da noi agli altri l’esigenza di energia
produttiva, ma anche la responsabilità dell’azione compiuta. L’individuo si
libera dal tormento della scelta e la fa apparire come un prodotto del gruppo,
come un recipiente di contenuti sociali. L’impulso a imitare, come principio,
caratterizza un grado di sviluppo nel quale è vivo il desiderio di un’attività
personale finalizzata, ma non c’è la capacità di conquistare dei contenuti
individuali per quest’attività o di ricavarli da essa. Il progresso al di là di questo
grado avviene quando il futuro determina il pensare, l’agire e il sentire al di fuori
di ciò che è dato, passato o tramandato: l’uomo teleologico è il polo opposto
dell’uomo che imita. Così, in tutti i fenomeni di cui è un fattore costitutivo,
l’imitazione corrisponde a una delle tendenze fondamentali della nostra natura, a
quella che si esprime fondendo il singolo nell’universale, che accentua
l’elemento stabile nel cambiamento. Quando invece si cerca il cambiamento
nell’elemento stabile, la differenziazione individuale, il distinguersi dalla
generalità, l’imitazione è il principio negatore e contrario. E proprio perché il
desiderio di permanere nel dato, di essere uguali agli altri e di fare lo stesso che
fanno gli altri è il nemico implacabile del desiderio che vuol procedere a nuove e
specifiche forme di vita, e ognuno dei due princìpi va di per sé all’infinito, la
vita sociale apparirà come il campo di battaglia dove ogni palmo di terreno viene
conteso e le istituzioni sociali appariranno come quelle conciliazioni di breve
durata nelle quali l’antagonismo dei princìpi, pur continuando ad agire, ha
assunto la forma esteriore di una cooperazione.
In questo modo le condizioni di vita della moda sono definite come quelle di
un fenomeno generale nella storia della nostra specie. La moda è imitazione di
un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale, conduce il singolo sulla
via che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni
singolo un mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza
alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi. Se da un lato questo
risultato le è possibile con il cambiamento dei contenuti che caratterizza in modo
individuale la moda di oggi nei confronti di quella di ieri e di quella di domani,
la ragione fondamentale della sua efficacia è che le mode sono sempre mode di
classe, che le mode della classe più elevata si distinguono da quelle della classe
inferiore e vengono abbandonate nel momento in cui quest’ultima comincia a
farle proprie. Così la moda non è altro che una delle tante forme di vita con le
quali la tendenza all’eguaglianza sociale e quella alla differenziazione
individuale e alla variazione si congiungono in un fare unitario. Se si esamina la
storia della moda, che finora è stata trattata soltanto in rapporto allo sviluppo dei
suoi contenuti, secondo la sua importanza per la forma del processo sociale, essa
si rivela come la storia dei tentativi di adeguare sempre di più l’appagamento di
queste due opposte tendenze al contemporaneo livello della cultura individuale e
sociale. I singoli tratti psicologici che osservavamo nella moda si ordinano in
questo suo carattere fondamentale.
La moda, come dicevo, è un prodotto della divisione in classi e ha la stessa
struttura di molte altre formazioni, del matrimonio prima di tutto, la cui doppia
funzione è di comprendere in sé una cerchia e nello stesso tempo di separarla
dalle altre. Come la cornice di un quadro caratterizza l’opera d’arte come un
tutto unitario appartenente a se stesso, come un mondo per sé, e, nello stesso
tempo, operando verso l’esterno, recide tutti i suoi rapporti con lo spazio
circostante; come l’energia unitaria di queste istituzioni non si può esprimere che
scomponendola nella sua doppia efficacia verso l’esterno e verso l’interno, il
matrimonio deriva il proprio carattere e soprattutto i propri diritti morali, diritti
che molto spesso vengono sentiti come ingiustizie da quanti sono esclusi da una
determinata classe, dal fatto che il singolo rappresenta e conferma con il suo
matrimonio quello della sua cerchia e del suo stato sociale. Analogamente la
moda significa da un lato coesione di quanti si trovano allo stesso livello sociale,
unità di una cerchia sociale da essa caratterizzata, dall’altro chiusura di questo
gruppo nei confronti dei gradi sociali inferiori e loro caratterizzazione mediante
la non appartenenza a esso. Separare e collegare sono le due funzioni
fondamentali che qui si uniscono indissolubilmente: ognuna di esse, benché o
perché costituisce l’opposizione logica all’altra, è condizione della sua
realizzazione. Che la moda sia un puro prodotto di necessità sociali o
psicologicoformali è provato nel modo più convincente dal fatto che infinite
volte non si può trovare la minima giustificazione per le sue forme in rapporto a
finalità pratiche o estetiche o di altro tipo. Mentre in generale il nostro abito è
praticamente adatto alle nostre necessità, nelle decisioni della moda per dargli
forma non c’è traccia di utilità pratica: come quando stabilisce se si debbono
portare gonne larghe o strette, capelli lunghi o corti, cravatte nere o a colori. A
volte sono di moda cose così brutte e sgradevoli che sembra che la moda voglia
dimostrare il suo potere facendoci portare quanto c’è di più detestabile; proprio
la casualità con la quale una volta impone l’utile, un’altra l’assurdo, una terza
ciò che è del tutto indifferente dal punto di vista pratico e da quello estetico,
dimostra la sua completa noncuranza delle norme oggettive della vita e rinvia ad
altre motivazioni, cioè a quelle tipicamente sociali che sole rimangono. Questa
astrattezza della moda fondata sulla sua essenza più profonda, che in quanto
«estraneità dal reale» conferisce al moderno un certo cachet estetico anche in un
campo estraneo a esso, si manifesta anche in fenomeni storici. Sappiamo che
spesso uno stato d’animo o una particolare esigenza di singole personalità
determinarono in passato il sorgere di una moda: le calzature medioevali con la
punta all’insù nacquero perché un nobile signore voleva trovare una forma
corrispondente a un’escrescenza del suo piede, il guardinfante ebbe origine dal
desiderio di una di quelle donne che danno il tono alla società di nascondere la
sua gravidanza, ecc. In contrasto con questa origine personale, ai nostri giorni la
creazione della moda è sempre più inserita nell’organizzazione oggettiva del
lavoro propria dell’economia moderna. Non solo sporadicamente appare un
articolo che poi diventa di moda, ma vengono prodotti degli articoli perché
diventino di moda. A intervalli di tempo determinati si richiede a priori una
nuova moda: oggi ci sono creatori di moda e industrie che lavorano
esclusivamente in questo settore. Il rapporto fra astrattezza ed organizzazione
sociale oggettiva si manifesta nell’indifferenza della moda in quanto forma nei
confronti di ogni significato dei suoi contenuti particolari e nel suo passaggio
sempre più decisivo in strutture economiche socialmente produttive. Che la
sovrindividualità della sua natura interna interessi anche i suoi contenuti è
espresso in modo decisivo dal fatto che la creazione della moda è una
professione pagata, un «impiego» nelle grandi aziende che si è tanto
differenziato dalla personalità quanto una funzione oggettiva si differenzia dal
soggetto che la esercita. Certo, la moda può assumere occasionalmente dei
contenuti che hanno un fondamento pratico, ma in quanto moda agisce soltanto
quando l’indipendenza nei confronti di ogni altra motivazione diviene
positivamente sensibile, come il nostro agire conformemente al dovere è
veramente morale quando non è determinato dal contenuto e dallo scopo esterno
dell’azione, ma esclusivamente dal fatto che si tratta proprio del nostro dovere.
Perciò la tirannia della moda è più insopportabile nei campi nei quali devono
essere valide soltanto le decisioni oggettive: la religiosità, gli interessi scientifici,
persino il socialismo e l’individualismo sono diventati cose di moda; ma i soli
motivi per i quali questi contenuti di vita dovrebbero essere adottati sono in
assoluto contrasto con la completa mancanza di oggettività nelle manifestazioni
della moda e persino con quel fascino estetico che le viene dall’essere estranea al
significato del contenuto delle cose e che, come momento del tutto esterno a
queste decisioni ultime, conferisce loro un tratto di frivolezza.
Se le forme sociali, i vestiti, i giudizi estetici, tutto lo stile in cui l’uomo si
esprime, si trasformano continuamente attraverso la moda, allora la moda, cioè
la nuova moda, appartiene soltanto alle classi sociali superiori. Non appena le
classi inferiori cominciano ad appropriarsene superando i confini imposti dalle
classi superiori e spezzando l’unità della loro reciproca appartenenza così
simbolizzata, le classi superiori si volgono da questa moda ad un’altra, con la
quale si differenziano nuovamente dalle grandi masse e il gioco può
ricominciare. Le classi inferiori infatti guardano in alto ed aspirano ad elevarsi.
Questo è loro possibile soprattutto nell’ambito della moda in quanto è il più
accessibile ad un’imitazione esteriore. Lo stesso processo, anche se non sempre
con la stessa evidenza con cui avviene tra donne di servizio e signore, si svolge
tra i diversi strati delle classi più elevate della società. Si può spesso osservare
che quanto più prossime sono le cerchie sociali tanto più frenetica è la caccia
all’imitazione nelle classi inferiori e la fuga verso il nuovo nelle classi superiori;
l’imporsi dell’economia monetaria deve accelerare in modo rilevante questo
processo e renderlo visibile, perché gli oggetti della moda, in quanto esteriorità
della vita, sono particolarmente accessibili al puro possesso del denaro. In
rapporto ad essi è più facile raggiungere la parità con lo strato superiore che in
tutti gli altri campi che richiedono un impiego di capacità individuali non
acquistabili con il denaro.
In quale misura questo momento della separazione, accanto al momento
dell’imitazione, contribuisca a formare l’essenza della moda lo dimostrano le sue
manifestazioni dove la struttura sociale non presenta strati sovrapposti: in questo
caso la moda interessa gli strati situati allo stesso livello. Sappiamo che presso
alcuni popoli che vivono allo stato di natura gruppi stretti da legami di parentela
e viventi nelle stesse condizioni sviluppano a volte delle mode del tutto
particolari mediante le quali ogni gruppo accentua la propria coesione interna e
la propria differenziazione verso l’esterno. D’altra parte si preferisce importare
la moda dall’esterno ed essa è tanto più apprezzata all’interno di una cerchia
sociale quando non ne costituisce un prodotto: già il profeta Zephanja critica i
nobili in abito straniero. Effettivamente l’origine esotica della moda sembra
favorire con efficacia particolare la coesione delle cerchie sociali a cui è
destinata. Provenendo dall’esterno, crea quella particolare e importante forma di
socializzazione che compare nel riferimento comune ad un punto posto
all’esterno. A volte sembra che gli elementi sociali, come gli assi ottici,
convergano meglio in un punto non troppo vicino. Spesso fra i popoli che vivono
allo stato di natura, il denaro, quindi proprio l’oggetto del più vivo interesse
generale, consiste in simboli che vengono importati dall’esterno, tanto che in
alcune regioni (nelle isole Salomone e fra gli Ibo che vivono sul Niger) è una
specie di industria fare denaro con conchiglie e altre cose del genere, simboli che
non hanno corso nel luogo in cui vengono apprestati ma sono validi nei territori
vicini dove vengono esportati: proprio come a Parigi spesso si creano le mode
solo in previsione del fatto che diventino di moda in altre città. E a Parigi la
moda dimostra la maggior tensione e conciliazione dei suoi elementi dualistici.
L’individualismo, l’adottare ciò che dona alla persona singola, ha ben altre radici
che in Germania: nello stesso tempo la cornice dello stile della moda attuale si
mantiene abbastanza ampia, così che il singolo fenomeno non esce mai dalla
generalità ma se ne distingue sempre. Quando mancherà anche una sola delle
due tendenze sociali che devono convergere per creare la moda, il bisogno di
coesione da un lato, dall’altro quello di differenziazione, la creazione della moda
cesserà e sarà la fine del suo regno. Per questo le classi sociali inferiori hanno
pochissime mode, raramente specifiche, e le mode dei popoli che vivono allo
stato di natura sono molto più stabili delle nostre. Il pericolo di mischiarsi e
confondersi che induce le classi dei popoli civili a differenziarsi negli abiti, nel
comportamento, nei gusti, ecc., manca spesso nelle strutture sociali primitive
che, se da un lato sono più comunistiche, dall’altro rafforzano le differenze
esistenti in modo più rigido e definitivo. Proprio mediante le differenziazioni i
gruppi interessati a distinguersi si mantengono uniti: l’andatura, il tempo, il
ritmo dei gesti è indubbiamente determinato dal vestito in modo essenziale. Chi
è vestito nello stesso modo si comporta in maniera relativamente omogenea. Si
presenta così un’altra particolare connessione. Chi può e vuole seguire la moda
porta abbastanza spesso vestiti nuovi. Ma il vestito nuovo condiziona il nostro
comportamento più di quello vecchio che si è completamente adattato ai nostri
gesti, cede senza resistenza ad ognuno di essi e spesso rivela le nostre
innervazioni nelle minime particolarità. Sentirsi «più comodi» in un vestito
vecchio che in uno nuovo, significa che l’abito nuovo ci impone il suo statuto
formale: dopo aver portato il vestito per un po’ di tempo, questo statuto trapassa
gradualmente in quello dei nostri movimenti. Per questo il vestito nuovo
conferisce a chi lo porta una certa uniformità sovrindividuale nell’atteggiamento:
la prerogativa che il vestito esercita nella misura della sua novità
sull’individualità di chi lo porta fa sì che gli uomini che si attengono
strettamente alla moda appaiano relativamente uniformi. Per la vita moderna con
il suo frazionamento individualistico questo momento di omogeneità della moda
è particolarmente importante. Fra i popoli che vivono allo stato di natura la moda
sarà minore, cioè più stabile, anche perché il loro bisogno di novità di
impressioni e di forme di vita nuove, a prescindere dalla loro efficacia sociale, è
molto minore. Il cambiamento della moda indica la misura dell’ottundimento
della sensibilità agli stimoli nervosi: quanto più nervosa è un’epoca, tanto più
rapidamente cambieranno le sue mode, perché il bisogno di stimoli diversi, uno
dei fattori essenziali di ogni moda, va di pari passo con l’indebolimento delle
energie nervose. Già per questo motivo le classi più elevate sono la sede della
moda. In rapporto alle ragioni meramente sociali di essa due popoli confinanti
fra loro presentano degli esempi probanti della sua finalità di coesione e di
esclusione. I Cafri hanno una stratificazione sociale molto articolata e tra loro si
riscontra un cambiamento abbastanza rapido della moda, benché vestiti e
ornamenti siano regolati da leggi precise, mentre fra i Boscimani, dove non si
sono formate classi sociali, non è stata creata nessuna moda, non si è affermato
cioè nessun interesse per il cambiamento di abiti e di ornamenti. Proprio questi
motivi negativi hanno impedito occasionalmente, ma con perfetta
consapevolezza, il formarsi di una moda ai vertici della civiltà. A Firenze, verso
il 1390, non deve esserci stata nessuna moda dominante per gli abiti maschili
perché ognuno cercava di vestirsi in modo particolare. In questo caso manca uno
dei due momenti, il bisogno di coesione, senza il quale non si ha una moda.
D’altra parte i nobili veneziani, si dice, non avrebbero sviluppato una moda
perché, secondo una legge, dovevano vestirsi di nero per non rendere visibile
alle masse l’esiguità del loro numero. Non c’era moda per mancanza dell’altro
momento costitutivo: si voleva evitare di proposito la differenziazione dalle
classi inferiori. Oltre a questo momento negativo diretto verso l’esterno,
l’uguaglianza del vestito, che evidentemente poteva essere garantita solo
dall’invariabilità del nero, doveva simboleggiare la democrazia interna di questo
corpo aristocratico. Anche all’interno di esso non si doveva assolutamente
arrivare a una moda, che sarebbe stata il corrispettivo della formazione di strati
in qualche modo differenti fra i nobili. L’abito da lutto, specialmente quello
femminile, appartiene egualmente a questi fenomeni di negazione della moda. È
vero che chiusura o distinzione di un gruppo e coesione o uguaglianza del
medesimo sono presenti anche qui. Il simbolo del vestito nero permette a chi è in
lutto di appartarsi dalla variopinta commozione degli altri uomini come se,
mantenendo un legame con il morto, egli appartenesse in una certa misura a un
mondo non vivente. Almeno idealmente ciò si ripete in tutti coloro che sono in
lutto: essi formano, in questo appartarsi dal mondo di quanti, per così dire, sono
completamente vivi, una comunità ideale. Ma poiché questa non è di natura
sociale – pur essendovi l’eguaglianza manca l’unità – non è possibile una moda.
Il carattere sociale della moda risulta rafforzato dal fatto che, nonostante la
presenza nell’abito dei due momenti della separazione e del collegamento, la
mancanza di un’intenzione sociale ha condotto proprio all’estremo opposto, cioè
all’immutabilità di principio dell’abito da lutto.
L’essenza della moda consiste nell’appartenere sempre e soltanto a una parte
del gruppo mentre tutto il gruppo è già avviato verso di essa. Non appena si è
completamente diffusa, non appena cioè tutti, senza eccezione, fanno ciò che
originariamente facevano solo alcuni, come avviene per alcuni elementi
dell’abbigliamento e per alcune forme di convenienza sociale, non la si definisce
più moda. Ogni crescita la conduce alla morte perché elimina la diversità. La
moda appartiene perciò a quel tipo di fenomeni che tendono a un’estensione
illimitata e a una realizzazione perfetta, ma che con il conseguimento di questa
meta assoluta si contraddirebbero distruggendosi da sé. Analogamente davanti
alle aspirazioni morali si libra una meta di santità e di incorruttibilità, ma forse
ogni autentico merito della moralità sta nel tendere verso questa meta e nel
lottare contro una tentazione ancora avvertibile. Accade spesso anche con il
lavoro svolto per ottenere il diritto al riposo e all’ozio come condizione
permanente: raggiunto questo fine la vita spesso smentisce con il vuoto e la noia
il cammino fatto per ottenerlo. E, a proposito delle tendenze a socializzare
l’ordinamento sociale, si sente spesso sostenere che hanno valore finché
agiscono in una costituzione dello stato per altri aspetti ancora individualistica,
mentre, come socialismo perfettamente attuato, condurrebbero all’assurdo e alla
rovina. Generalizzando questa formula, vi si può includere anche la moda. In
essa l’impulso a espandersi abita fin dal principio, come se ogni moda dovesse
sottomettere a sé la totalità di un gruppo. Nell’attimo in cui vi riuscisse dovrebbe
morire come moda per contraddizione logica con la propria natura. La sua
completa diffusione eliminerebbe infatti il momento della separazione.
Che nella civiltà contemporanea la moda acquisti un peso incredibile,
irrompendo in territori che fino a oggi le erano stranieri, potenziandosi in modo
incessante nei campi di sua pertinenza, è soltanto la condensazione di un tratto
psicologico del nostro tempo. Il nostro ritmo interno richiede periodi sempre più
brevi nel cambiamento delle impressioni, o, in altre parole: l’accento degli
stimoli si sposta in misura crescente dal loro centro sostanziale al loro inizio e
alla loro fine. Lo si avverte nei sintomi più insignificanti, per esempio nella
sostituzione sempre più frequente del sigaro con la sigaretta, nella smania di
viaggiare che durante l’anno divide la vita nel maggior numero possibile di
periodi brevi, accentuando le partenze e gli arrivi. Il caratteristico ritmo
«impaziente» della vita moderna significa non soltanto il desiderio di un rapido
cambiamento dei contenuti qualitativi della vita, ma anche la potenza del fascino
formale del confine, dell’inizio e della fine, del venire e dell’andare. Nel senso
più compendioso di questa forma la moda con il suo gioco fra la tendenza ad una
diffusione generale e la distruzione del proprio senso, che seguirebbe tale
diffusione, ha il fascino caratteristico di un confine, di un inizio e di una fine
contemporanei, il fascino della novità e contemporaneamente quello della
caducità. Il suo problema non è essere o non essere, la moda è
contemporaneamente essere e non essere, si trova sempre sullo spartiacque fra
passato e futuro e ci dà, finché è fiorente, un senso del presente così forte da
superare in questo senso ogni altro fenomeno. Anche se il germe della sua morte,
la sua destinazione a venir distrutta, sta già nell’indirizzarsi della coscienza
sociale verso il punto da essa indicato, questa caducità non la declassa
minimamente, le dona invece un altro motivo di fascino. Solo in seguito un
oggetto si svaluta definendolo «alla moda», quando per altri motivi lo si rifiuta o
si desidera sminuirlo cosicché la moda diventa un giudizio di valore. Non si
indica come moda qualcosa di nuovo, che si sia diffuso improvvisamente nella
prassi della vita, se si crede a una sua ulteriore durata e alla sua fondatezza
pratica: lo definisce così soltanto chi è convinto che quel fenomeno svanirà con
la stessa rapidità con cui si è affermato. Perciò fa parte dei motivi che oggi
rendono così grande il potere della moda sulle coscienze il progressivo
indebolirsi delle convinzioni grandi, tenaci, incontestabili. Gli elementi effimeri
e mutevoli della vita occupano uno spazio sempre più ampio. La rottura con il
passato, che l’umanità civile cerca di rendere esecutiva da più di cent’anni, rende
sempre più acuta la coscienza del presente. Questa accentuazione del presente è
evidentemente nello stesso tempo accentuazione del cambiamento: una classe
sociale si volgerà alla moda in tutti i campi, e non soltanto in quello
dell’abbigliamento, nella misura in cui è caratterizzata dalla tendenza culturale
indicata.
Dall’impossibilità di una diffusione universale della moda in quanto tale
deriva per il singolo la gratificazione che essa in lui rappresenta pur sempre
qualcosa di particolare e sorprendente. Allo stesso tempo egli si sente
interiormente trasportato non solo da una collettività che fa le stesse cose, ma
anche da un’altra che aspira alle stesse mete. Perciò l’atteggiamento che
incontra chi è alla moda è una benefica mistura di approvazione e di invidia. Si
invidia chi è alla moda come individuo, lo si approva come essere universale.
Anche quest’invidia ha una tinta particolare. C’è una sfumatura che include una
specie di partecipazione agli oggetti invidiati. L’atteggiamento dei proletari
quando possono sbirciare le feste dei ricchi ne è un esempio istruttivo: alla base
di questo comportamento c’è il fatto che la mera visione di un contenuto,
separata dalla sua realtà, legata al possesso soggettivo, agisce in modo piacevole:
come la felicità che si ricava da un’opera d’arte non dipende da chi la possiede.
Dalla possibilità di separare il puro contenuto delle cose dal loro possesso (che
corrisponde alla capacità della conoscenza di separare il contenuto delle cose dal
loro essere) discende la possibilità di quella partecipazione che viene realizzata
dall’invidia. E forse non si tratta di una particolare sfumatura dell’invidia
riscontrabile solo in questo caso, ma ne costituisce un elemento costante.
Quando si invidia una persona o una cosa, non si è più separati da lei in modo
assoluto, si è stabilita una relazione, fra i due termini si pone lo stesso contenuto
spirituale, anche se in categorie e in forme del sentimento completamente
diverse. All’oggetto di invidia si è sempre nello stesso tempo più vicini e più
lontani che al bene la cui mancanza ci lascia indifferenti. Con l’invidia diviene
per così dire misurabile la distanza, il che significa sempre allontanamento e
avvicinamento: ciò che è indifferente sta al di là del contrasto. C’è quindi
nell’invidia un lieve impadronirsi dell’oggetto invidiato (come nelle gioie
dell’amore infelice), una specie di antidoto che a volte ne impedisce le peggiori
degenerazioni. E proprio i contenuti della moda offrono la chance di una tonalità
più conciliante dell’invidia, perché, a differenza di molti altri contenuti spirituali,
non si negano a nessuno in modo assoluto, e una svolta del destino, da non
escludersi completamente, può concederli anche a chi provvisoriamente si limita
a invidiarli.
Dalla stessa connessione fondamentale discende che la moda è il campo
specifico degli individui che non sono intimamente indipendenti e che hanno
bisogno di un sostegno. Nello stesso tempo il loro sentimento di sé richiede
distinzione, attenzione, particolarità. Si tratta infine della medesima costellazione
per la quale le banalità ripetute da tutti procurano la massima felicità. Ripeterle
dà ad ognuno la sensazione di dar prova di una particolare sagacia che lo eleva
sulla massa: ci sono banalità critiche, pessimistiche, paradossali. La moda
innalza l’insignificante facendone il rappresentante di una collettività,
l’incarnazione particolare di uno spirito collettivo. Poiché secondo il suo
concetto non può mai essere una norma che tutti adempiono, la moda ha la
proprietà di rendere possibile un’obbedienza sociale che è nello stesso tempo
differenziazione individuale. Nel maniaco della moda le esigenze sociali sono
giunte a una tale altezza da assumere l’apparenza dell’individualistico e del
particolare. Egli è caratterizzato dal fatto di spingere la tendenza della moda oltre
la misura che di solito viene osservata: se sono di moda le scarpe a punta, le sue
hanno punte da lancia, se vanno i colletti alti, lui li porta fino alle orecchie, se è
di moda ascoltare conferenze scientifiche, non lo si trova in nessun altro posto,
ecc. Presenta così qualcosa di perfettamente individuale che consiste nella
crescita quantitativa di elementi che qualitativamente sono proprietà comune
della cerchia sociale in questione. Precede gli altri, ma sulla loro strada. Poiché
rappresenta le punte estreme del gusto pubblico, sembra che marci alla testa
della collettività. In realtà vale per lui ciò che vale infinite volte per il rapporto
fra singoli e gruppi: in fondo chi guida è guidato. Tempi di democrazia
favoriscono evidentemente in modo particolare questa costellazione se perfino
Bismarck e altri eminenti capi di partito di Stati costituzionali hanno rilevato
che, come capi di un gruppo, devono seguirlo. Il sussiego del maniaco della
moda è la caricatura di una costellazione del rapporto fra il singolo e la
collettività favorita dalla democrazia. Ma, indiscutibilmente, con il travestimento
di una distinzione quantitativa in differenza qualitativa l’eroe della moda
presenta un rapporto di equilibrio veramente originale fra impulso sociale e
impulso individuale. Perciò comprendiamo la mania per la moda,
apparentemente così strana, di alcune personalità per altri aspetti intelligenti e
per nulla meschine. La moda dà loro una combinazione di rapporti con uomini e
cose, che in altri casi sono soliti comparire più distintamente. Non è soltanto
l’unione di particolarità individuale e di eguaglianza sociale a provocare i suoi
effetti, ma anche, a un livello più concreto, il fondersi di un senso di dominio e
di un senso di sottomissione, o, da un altro punto di vista, di un principio
maschile e di uno femminile. Il fatto che ciò avvenga nel campo della moda
come in un’ideale rarefazione, che, per così dire, soltanto la forma di entrambi i
princìpi si realizzi in contenuto in sé indifferente, le conferisce una particolare
forza di attrazione nei confronti di nature sensibili che la durezza della realtà
mette a disagio. La forma di vita conforme alla moda è caratterizzata dalla
distruzione di ogni contenuto precedente e possiede una propria unità nella quale
l’appagamento dell’impulso di distruzione e quello dell’impulso verso contenuti
positivi sono inseparabili. Poiché non si tratta dell’importanza di un singolo
contenuto o di un singolo appagamento, ma del gioco che si stabilisce fra i due e
del loro reciproco porsi in rilievo, si può evidentemente ottenere la
combinazione che viene raggiunta con una rigida obbedienza alla moda anche
opponendosi ad essa. Chi si comporta o si veste consapevolmente fuori moda
non raggiunge il senso di individualizzazione che vi è collegato mediante una
propria qualità individuale, ma con la semplice negazione dell’esempio sociale:
se essere alla moda significa imitare questo esempio, non esserlo
intenzionalmente significa la stessa imitazione con segno opposto e testimonia
nella stessa misura il potere delle tendenze sociali di renderci dipendenti da sé in
modo positivo o negativo. Chi di proposito è fuori moda accetta il contenuto
sociale come il maniaco della moda, ma a differenza di quest’ultimo, che lo
forma nella categoria dell’intensificazione, egli lo plasma in quella della
negazione. Vestirsi fuori moda può diventare di moda in intere cerchie di una
società estesa; si tratta di una delle più notevoli complicazioni psicologico-
sociali. L’impulso verso una distinzione individuale si accontenta dapprima di
una semplice inversione dell’imitazione sociale e trae in un secondo tempo la
propria forza dall’appoggiarsi a una cerchia sociale più ristretta caratterizzata
nello stesso modo. Un’associazione dei nemici delle associazioni non sarebbe
più impossibile di questo fenomeno dal punto di vista logico e più possibile dal
punto di vista psicologico. Come si è fatta una religione dell’ateismo con lo
stesso fanatismo, la stessa intolleranza, la stessa soddisfazione dei bisogni
dell’anima che si può trovare nella religione, come la libertà che ha abbattuto
una tirannia spesso non è apparsa meno tirannica e violenta del nemico sconfitto,
quel tendenzioso e apparente non essere alla moda dimostra quanto le forme
fondamentali della natura umana siano pronte ad assumere in sé contenuti
completamente opposti e a dimostrare il loro potere nella negazione di quanto
sembravano dover soltanto approvare. Per i valori ricercati dai caratteri in
questione la sola condizione è di essere e fare lo stesso che fanno gli altri
essendo contemporaneamente qualcosa di diverso, sintesi che si può facilmente
ottenere con una delle molte variazioni formali possibili del contenuto
universalmente recepito. Spesso quindi è impossibile decidere se nel complesso
delle cause di questo modo di non essere alla moda prevalgano i momenti di
forza o quelli di debolezza personale. Come atteggiamento esso può derivare dal
bisogno di non confondersi con la massa. Alla base di questo bisogno non c’è
l’indipendenza dalla massa, ma in ogni caso una posizione intimamente sovrana
nei suoi confronti. L’atteggiamento di chi è consapevolmente fuori moda può
anche appartenere a una personalità piuttosto debole, se l’individuo teme di non
poter conservare il suo briciolo di individualità adattandolo alla forma, al gusto,
alle norme della collettività. L’opposizione ad essa non è sempre un segno di
forza personale, è preferibile che l’individuo sia così consapevole dell’unicità e
dell’indistruttibilità del suo valore anche quando si verifichi un accordo esteriore
da uniformarsi senza timore alle convenzioni, anche alla moda, divenendo così
consapevole della spontaneità della propria obbedienza e di ciò che è al di là di
essa.
Se la moda porta a espressione e accentua l’impulso all’eguaglianza e quello
all’individualizzazione, il fascino dell’imitare e quello del distinguersi, si può
forse spiegare perché in generale le donne dipendano particolarmente dalla
moda. E dalla debolezza della posizione sociale alla quale le donne sono state
quasi sempre condannate nel corso della storia che deriva il loro rapporto
vincolante con tutto ciò che appartiene al «costume», con «ciò che si conviene»,
con la forma di esistenza generalmente valida e approvata. Infatti il debole evita
l’individualizzazione, il basarsi oggettivamente su se stesso, con le proprie
responsabilità e la propria necessità, il difendersi con le proprie forze. Soltanto la
forma di vita tipica di una collettività gli assicura quella protezione che
impedisce a chi è forte di utilizzare il sovrappiù delle sue energie. Mantenendosi
sul terreno solido del costume, della media, del livello generale, le donne
aspirano intensamente all’individualizzazione e alla distinzione della personalità
che sono ancora relativamente possibili. La moda offre loro una felice
combinazione: da un lato un campo di imitazione generale, un nuotare nella più
ampia corrente sociale, una liberazione dell’individuo dalla responsabilità del
suo gusto e delle sue azioni, dall’altro una distinzione, un’accentuazione, un
ornamento individuale della personalità.
Sembra che per ogni classe di persone, anzi verosimilmente per ogni
individuo, esista un determinato rapporto quantitativo fra l’impulso
all’individualizzazione e quello a confondersi nella collettività. Di conseguenza,
se il raggiungimento della meta da parte di un impulso è inibito in un
determinato campo della vita, egli ne cerca un altro in cui raggiungere la misura
di cui ha bisogno. Anche fatti storici ci avvicinano al concetto della moda come
della valvola attraverso la quale il bisogno che le donne hanno di una certa
quantità di distinzione e di rilievo personale trova uno sfogo quando il suo
appagamento è maggiormente negato loro in altri campi. Nel XIV e nel XV
secolo assistiamo in Germania a uno straordinario sviluppo dell’individualità. La
libertà individuale spezza gli ordinamenti collettivistici del Medioevo. Ma
all’interno di questo sviluppo individualistico le donne non trovarono posto,
vennero defraudate della libertà di movimento e di quella di esprimere la loro
personalità. Si risarcirono vestendo secondo le mode più stravaganti e
ipertrofiche che si possono immaginare. Vediamo che, al contrario, in Italia la
stessa epoca concede alle donne lo spazio per uno sviluppo individuale: le donne
del Rinascimento avevano più possibilità di formazione individuale, di attività
esterne, di differenziazione personale di quante da secoli venivano loro
concesse; in particolare negli strati più elevati della società l’educazione e la
libertà di movimento erano per gli uomini e per le donne quasi le stesse. Non
abbiamo notizia di particolari stravaganze nella moda femminile dell’Italia di
questo periodo. Il bisogno di dimostrare la propria individualità conquistando un
grado di eccellenza in questo campo manca perché l’impulso che vi si esprime
ha trovato in altri campi una soddisfazione adeguata. In generale la storia delle
donne, nella loro vita esteriore come in quella interiore, individuale e collettiva,
dimostra una tale uniformità, un tale livellamento, una tale omogeneità che esse,
perlomeno nel campo delle mode, il campo dei cambiamenti per eccellenza,
hanno bisogno di un’attività più intensa per conferire un fascino a se stesse e alla
loro vita, tanto per il proprio sentimento quanto per l’altrui. Come tra
individualizzazione e collettivizzazione, tra il bisogno di uniformità e quello di
un cambiamento dei contenuti della vita esiste una determinata proporzione alla
quale ci si avvicina o dalla quale ci si allontana nei diversi campi, cercando di
compensare la rinuncia in un campo mediante una concessione comunque
ottenuta in un altro. Complessivamente si può dire che, paragonata a quella
dell’uomo, la natura della donna è più fedele; proprio la fedeltà, che manifesta
l’unità e l’uniformità della natura femminile dal lato del sentimento, esige per
quell’equilibrio delle tendenze della vita una certa vivacità di cambiamento in
campi marginali. Invece l’uomo, che per natura è meno fedele e generalmente
non mantiene il legame con un rapporto sentimentale stabilito con la stessa
assolutezza e la stessa concentrazione di tutti gli interessi della vita su questo
solo interesse, ha un minor bisogno di quella forma esteriore di cambiamento.
Anzi, il rifiuto dei mutamenti dell’esteriorità, il rifiuto delle mode che si basano
sull’apparenza è tipicamente maschile: non per una superiore coerenza naturale,
ma proprio perché per una maggiore varietà della sua natura l’uomo può fare a
meno di quei cambiamenti esteriori. Perciò oggi la donna emancipata, cercando
di avvicinarsi alla natura maschile, al suo grado di differenziazione, al suo tipo
di personalità e alle sue caratteristiche emozionali, accentua anche la propria
indifferenza nei confronti della moda. Per le donne la moda costituiva in un certo
senso il surrogato di una posizione all’interno di uno status professionale.
L’uomo che si è sviluppato all’interno di una di queste categorie si è inserito in
una cerchia sociale che ha un relativo livellamento, nel suo status è uguale a
molti altri, spesso è soltanto un esemplare del concetto di questo status o di
questa professione. D’altra parte, quasi a compensare tale situazione, egli è
investito di tutta l’importanza e della forza sociale e oggettiva di questo status.
Alla sua importanza individuale si aggiunge quella dello status a cui appartiene,
che spesso può coprire i difetti e le manchevolezze del suo essere personale. È
proprio questa la prestazione che la moda compie pur agendo in contenuti così
diversi, anch’essa integra la mediocrità della persona, la sua incapacità ad
individualizzare in modo autonomo l’esistenza, con l’appartenenza ad una
cerchia sociale che viene caratterizzata, evidenziata e in qualche modo dotata di
coesione per la coscienza pubblica proprio dalla moda. Anche qui la personalità
come tale viene inserita in uno schema generale, ma dal punto di vista sociale
questo schema stesso ha una tinta individuale e sostituisce indirettamente per via
sociale ciò che alla personalità è negato di raggiungere individualmente. Che il
demimonde sia spesso il pioniere della nuova moda dipende dalla forma di vita
sradicata che gli è propria. L’esistenza da paria che la società gli assegna,
produce un odio aperto o latente verso tutto ciò che è legalizzato e consolidato,
un odio che nel premere verso forme di apparenza sempre nuove trova la sua
espressione relativamente più innocente. Nel continuo aspirare a nuove mode
straordinarie, nella disinvoltura con cui si fa propria con entusiasmo la moda
opposta a quella adottata fino a quel momento, si manifesta una forma estetica
dell’impulso di distruzione, che sembra proprio di tutte le esistenze da paria
nella misura in cui intimamente non sono del tutto schiave.
Se ora tentiamo di seguire i procedimenti dell’anima, definiti con quanto è
stato detto, nelle loro ultime e più sottili sfumature emotive, riscontreremo anche
in queste quel gioco antagonistico dei princìpi vitali che cerca di riconquistare il
loro equilibrio continuamente in pericolo stabilendo proporzioni sempre nuove.
E nell’essenza della moda accumunare tutte le individualità. Ma essa non
comprende mai l’uomo nella sua totalità e rimane sempre qualcosa di esteriore
anche nei campi che vanno al di là della pura e semplice moda del vestire;
poiché la forma della variabilità nella quale gli si offre è in tutte le circostanze
l’antitesi della stabilità del senso dell’Io, quest’ultimo diventa consapevole della
propria relativa durata proprio in quest’antitesi: soltanto in rapporto a questa
durata la variabilità di quei contenuti può mostrarsi come variabilità e dispiegare
il proprio fascino. Ma proprio per questo il suo luogo, come è stato detto, è la
periferia della personalità, che avverte se stessa in rapporto a quella come pièce
de résistence o perlomeno ha questa coscienza di sé in caso di necessità. Questo
significato della moda è quello che viene accolto da uomini dotati di finezza e di
originalità: lo utilizzano come una specie di maschera. La cieca obbedienza alle
norme della collettività in tutto ciò che è esteriore è il mezzo consapevole e
voluto di riservare per sé la propria sensibilità personale e il proprio gusto, al
punto da non farli trapelare in sembianze accessibili a tutti. Spesso è proprio un
senso di timidezza, un sottile pudore di tradire con la particolarità dell’aspetto
una peculiarità della propria natura intima, che determina il rifugiarsi di alcune
nature nella maschera livellante della moda. Si ottiene così un trionfo dell’anima
sulla datità dell’esistenza che, almeno per la sua forma, è uno dei più elevati e
sottili: il nemico stesso si trasforma in servo, ciò che sembrava far violenza alla
personalità viene trasferito nei livelli esteriori della vita in modo da fornire un
velo e una protezione a ogni forma di interiorità, resa così tanto più libera. La
lotta fra l’elemento sociale e l’elemento individuale si ricompone dove per i due
elementi i livelli della vita si separano. Ciò corrisponde a quella grossolanità
nelle espressioni e nel comportamento con cui uomini molto sensibili, che hanno
pudore dei loro sentimenti, riescono a dissimulare la loro anima individuale.
Ogni senso di vergogna si basa sul porsi in rilievo del singolo. Nasce quando
avviene un’accentuazione dell’Io, quando la coscienza di una cerchia sociale si
appunta su questa personalità, che contemporaneamente viene sentita in certa
misura come sconveniente; perciò personalità modeste e deboli sono fortemente
inclini a sentimenti di vergogna. Se si trovano al centro dell’attenzione generale
e ne provocano l’improvviso acuirsi, si instaura in loro una penosa oscillazione
fra l’accentuarsi e il ritrarsi del senso dell’Io (la vergogna intima di qualcosa che
non sarà mai documentato socialmente, o che comunque è al di là di quella
vergogna che propriamente è oggetto di indagine sociologica, svela, attraverso
motivazioni e simbolizzazioni che non è difficile riconoscere, una struttura di
base formalmente eguale). Poiché, del resto, quel distinguersi da una collettività
come origine del senso di vergogna è completamente indipendente dal contenuto
sulla cui base avviene, spesso ci si vergogna dei propri sentimenti migliori e più
nobili. Se in «società», nel senso più stretto del termine, la banalità corrisponde
alle buone maniere, ciò non è soltanto conseguenza di un reciproco riguardo che
fa apparire privo di tatto chi si distingue con un’espressione individuale, unica,
che non tutti possono copiare, ma avviene anche per il timore di quel senso di
vergogna, di quella punizione che l’individuo si autoinfligge per essersi distinto
dalle azioni e dal tono eguale per tutti e a tutti egualmente accessibile. Per la sua
struttura interna la moda offre una maniera di distinguersi che è sempre sentita
come conveniente. Il più stravagante modo di apparire e di esprimersi, in quanto
è di moda, è protetto da quel riflesso penoso che l’individuo prova quando è
oggetto dell’attenzione altrui. Tutte le azioni di massa sono caratterizzate dalla
perdita di quel senso di vergogna. Come elemento di una massa, l’individuo
prende parte a innumerevoli a-zioni che risveglierebbero in lui resistenze
invincibili se volesse compierle da solo. Uno dei più notevoli fenomeni
psicologico-sociali, nel quale si dimostra proprio questo carattere dell’azione di
massa, consiste nel fatto che alcune mode manifestano in alcuni tratti un’assenza
di pudore che come pretesa individuale sarebbe respinta dal singolo con
indignazione, ma come legge della moda trova in lui una pronta obbedienza. Il
senso della vergogna, proprio perché si tratta di un’azione di massa, è soppresso,
come è soppresso il senso di responsabilità tra coloro che prendono parte a delitti
di massa, dai quali il singolo spesso si ritrarrebbe spaventato se fosse posto da
solo davanti all’azione. Non appena il lato individuale della situazione subentra a
quello socialmente conforme alla moda, il senso del pudore comincia subito ad
agire: molte donne nel loro salotto e davanti a un solo uomo si vergognerebbero
di mostrarsi nel décolleté in cui appaiono nella società, dove domina questa
moda, davanti a trenta o a cento persone.
La moda è anche una di quelle forme con le quali gli uomini, abbandonando
ciò che è esteriore alla schiavitù della collettività, vogliono salvare il massimo
grado di libertà interiore. Anche la libertà e il legame appartengono a quelle
coppie di opposti, la cui lotta sempre rinnovata, le cui alterne vicende nei campi
più vari conferiscono alla vita un fascino molto più fresco, un più ampio respiro
e un maggiore sviluppo di quelli che potrebbero derivare da un equilibrio
durevole e immodificabile comunque ottenuto. Come, secondo Schopenhauer,
ad ogni uomo è stato assegnato un quantum determinato di gioia e di dolore che
non può essere diminuito né superato e che in ogni differenza e in ogni
oscillazione dei loro rapporti interni ed esterni cambia soltanto la propria forma,
si potrebbe, in modo molto meno mistico, riconoscere una proporzione
veramente durevole di legame e libertà, o perlomeno il desiderio di qualcosa del
genere in ogni tempo, in ogni classe, in ogni individuo. Nei confronti di questo
quantum a noi è data soltanto la possibilità di variare i campi in cui questi
princìpi si ripartiscono. E il compito di una vita elevata è di intraprendere questa
ripartizione in modo tale che gli altri valori dell’esistenza, quelli di contenuto,
ottengano la possibilità di uno sviluppo favorevole. Lo stesso quantum di legame
e di libertà può contribuire una volta al massimo potenziamento dei valori
morali, intellettuali ed estetici, un’altra volta, in misura invariata, ma ripartito in
altri campi, ottenere l’esatto contrario di questo successo. In generale si può dire
che il risultato più favorevole per il valore complessivo della vita si otterrà
quando l’inevitabile parte di legame viene spostata progressivamente alla
periferia della vita, cioè nella sua esteriorità. Forse il Goethe degli ultimi anni è
l’esempio più luminoso di una vita grandissima che ha raggiunto il massimo di
libertà interiore e una completa imperturbabilità dei propri centri vitali proprio
con l’indulgenza verso tutto ciò che è esteriore, con la rigida osservanza della
forma, con un volontario piegarsi alle convenzioni della società, cioè proprio
mediante l’inevitabile quantità di legame. In questo senso la moda è una forma
sociale di ammirevole utilità, proprio perché, paragonabile in questo al diritto,
coglie soltanto l’esteriorità della vita, il lato rivolto alla società. Fornisce
all’uomo uno schema con cui provare in modo inconfutabile il suo legame con la
collettività, la sua obbedienza alle norme che gli vengono dal suo tempo, dal suo
status, dalla sua ristretta cerchia sociale: in cambio egli ottiene di poter
concentrare la libertà concessa dalla vita nella sua interiorità e in ciò che per lui è
essenziale.
Nell’anima individuale si ripetono in una certa misura i rapporti fra processo
di unificazione, che mira al livellamento, e processo di differenziazione
individuale, l’antagonismo delle tendenze che produce la moda si trasferisce in
modo formalmente identico anche nella struttura intima di alcuni individui che
non ha niente a che fare con i legami sociali. Nel fenomeno a cui mi riferisco
appare quel parallelismo che è stato messo spesso in evidenza, per il quale i
rapporti fra individui si ripetono nelle relazioni fra gli elementi spirituali
dell’individuo. Spesso, più o meno intenzionalmente, l’individuo si foggia uno
stile di comportamento che si caratterizza come moda per il ritmo del suo
affiorare, affermarsi e cessare. In particolare i giovani dimostrano nel loro modo
di comportarsi una stravaganza improvvisa, la comparsa di un interesse
inaspettato, oggettivamente infondato, che domina tutto l’arco della loro
coscienza e improvvisamente in modo altrettanto irrazionale scompare. Si
potrebbe definire questo fenomeno una moda personale che costituisce un caso
limite della moda sociale. Essa è prodotta dallo stesso bisogno individuale di
distinguersi e documenta così lo stesso impulso che si attiva anche nella moda
sociale. Ma il bisogno di imitazione, di affinità, di fusione del singolo in un
universale viene appagato nell’individuo stesso, con il concentrarsi cioè della
propria coscienza su quest’unica forma e quest’unico contenuto, con la tinta
unitaria che la propria natura ottiene in questo modo, per così dire, con
l’imitazione di se stessi che subentra all’imitazione degli altri. Un certo stadio
intermedio fra moda individuale e moda personale si realizza in cerchie sociali
più ristrette. Persone banali adottano spesso una espressione qualsiasi
(generalmente quest’espressione viene adottata da molte persone della stessa
cerchia sociale) e la applicano a tutti gli oggetti, a proposito e a sproposito, in
ogni occasione. Se da un lato si tratta di una moda di gruppo, dall’altro si tratta
anche di una moda individuale, perché il senso di tutto ciò è che il singolo
sottomette la totalità dell’arco delle sue rappresentazioni a questa formula. Si fa
violenza brutalmente all’individualità delle cose, tutte le sfumature vengono
cancellate dal prevalere di un’unica categoria di identificazione quando, per
esempio, si definiscono «chic» o «formidabili» tutte le cose che piacciono per
qualche motivo, cose che distano moltissimo dal terreno in cui quelle espressioni
hanno un diritto di cittadinanza. In questo modo il mondo interiore
dell’individuo viene sottomesso a una moda e ripete così la forma del gruppo
dominato dalla moda. E ciò avviene proprio attraverso l’oggettiva mancanza di
senso di queste mode individuali che dimostrano il prevalere del momento
formale unificante sul momento oggettivamente razionale. Analogamente per
molti uomini e per molte cerchie sociali è necessario soltanto un dominio
unitario: la questione della qualità e del valore di questa direzione gioca un ruolo
secondario. È innegabile: nel fare violenza alle cose con le definizioni di moda,
nel farle rientrare uniformemente in una categoria prefabbricata, l’individuo
emette una sentenza su di esse e raggiunge un senso di potenza,
un’accentuazione dell’Io nei loro confronti. Il fenomeno, che qui si presenta
come caricatura, si riscontra sempre, in misura minima, nel rapporto degli
uomini con gli oggetti. Solo uomini di altissima levatura trovano nel rispetto
dell’individualità specifica delle cose la massima profondità e la massima forza
del loro Io. Dal disappunto che l’anima prova per la prepotenza, per l’autonomia,
per l’indipendenza del cosmo derivano, oltre all’impegno più valido e sublime
delle forze umane, i tentativi sempre rinnovati di assoggettare le cose
esteriormente; l’Io si impone a esse, non assumendo le loro energie e
forgiandole, non riconoscendo la loro individualità per renderla utilizzabile, ma
piegandole esteriormente ad uno schema soggettivo attraverso il quale, in ultima
analisi, non ha conquistato alcun dominio sulle cose, ma soltanto sull’immagine
di esse falsata dalla propria fantasia. Il senso di potenza che ne deriva dimostra
la propria infondatezza, il proprio illusionismo nella rapidità con cui queste
espressioni passano di moda.
Abbiamo visto che nella moda le diverse dimensioni della vita trovano in un
certo senso una particolare convergenza, che la moda è una forma complessa
nella quale tutte le fondamentali tendenze opposte dell’anima sono
rappresentate. Risulta così senz’altro comprensibile che il ritmo complessivo che
regola i movimenti degli individui e dei gruppi influirà in modo determinante
anche sul loro rapporto con la moda e che i diversi strati di un gruppo,
indipendentemente dai loro diversi contenuti di vita e dalle loro possibilità
esterne, avranno un rapporto differenziato con la moda per il solo fatto che i loro
contenuti di vita si sviluppano in una forma conservatrice o in una forma rapida.
Da un lato le masse nei loro bassi livelli presentano una minore mobilità e una
più lenta possibilità di sviluppo, dall’altro proprio i ceti più elevati sono
notoriamente conservatori, spesso quasi arcaizzanti. Di regola temono ogni
movimento e ogni cambiamento, non perché ne trovino odioso o dannoso il
contenuto, ma semplicemente perché si tratta di un cambiamento e ogni
modificazione dell’insieme, che nella struttura presente concede loro i massimi
vantaggi, risulta sospetta e pericolosa. Nessun cambiamento può far crescere il
loro potere, hanno sempre qualcosa da temere e nulla da sperare. La variabilità
della vita storica dipende dalla classe media e per questo la storia dei movimenti
sociali e culturali ha assunto un «tempo» completamente diverso da quando il
tiers état ha preso il potere. Da allora la moda, la forma dei cambiamenti e dei
contrasti della vita, si è maggiormente estesa ed è soggetta ad una stimolazione
più intensa; i frequenti mutamenti della moda sono un’immane schiavitù per
l’individuo e, nella stessa misura, uno dei complementi necessari della cresciuta
libertà politica e sociale. Uno stato sociale la cui natura ha nell’insieme un ritmo
tanto più variabile e inquieto di quello degli stati inferiori con il loro inconscio
conservatorismo, e di quello degli stati più elevati con il loro conservatorismo
consapevole, è il luogo d’elezione di una forma di vita per i cui contenuti il
momento della massima altezza coincide con quello del tramonto. Classi e
individui che premono verso un continuo cambiamento perché la rapidità del
loro sviluppo li pone in grado di superare gli altri ritrovano nella moda il
«tempo» dei loro moti spirituali.
In questo contesto sarà sufficiente accennare alla connessione degli infiniti
momenti storici e psicologico-sociali attraverso i quali le grandi città in contrasto
con tutti i milieux più ristretti diventano il terreno di crescita della moda: alla
fretta infedele nel cambiamento di impressioni e di rapporti, al livellamento e,
nello stesso tempo, all’accentuazione delle individualità, all’affollarsi degli
abitanti e all’atteggiamento di riserbo e di distanza che ne deriva. Prima di tutto
il ritmo assunto nelle grandi città dal progredire economico degli strati inferiori
deve favorire il rapido cambiamento della moda perché abbrevia il tempo
necessario all’imitazione degli strati superiori. In questo modo il processo
descritto precedentemente, per il quale ogni strato superiore abbandona la moda
nell’attimo in cui quello inferiore se ne impadronisce, acquista una dimensione e
una vivacità imprevedibili. La prima conseguenza è che le mode non sono più
così costose e perciò non possono più avere un aspetto così stravagante come nel
passato, quando il costo del primo acquisto e lo sforzo di trasformare il
comportamento e il gusto venivano compensati da una più lunga durata del loro
dominio. Quanto più un articolo è soggetto al rapido mutare della moda, tanto
più forte è la richiesta di prodotti del suo tipo a buon mercato. Non solo perché
le grandi masse, nonostante la loro povertà, hanno un potere d’acquisto
sufficiente per orientare le grandi industrie prevalentemente verso di sé, e
richiedono assolutamente oggetti che abbiano almeno l’aspetto esteriore e poco
solido del moderno, ma anche perché gli strati superiori della società non
potrebbero sostenere il repentino cambiamento della moda che viene loro
imposto dall’incalzare degli strati inferiori se gli oggetti non fossero
relativamente a buon mercato. Si crea così un vero e proprio circolo: quanto più
rapidamente cambia la moda, tanto più gli oggetti devono diventare economici, e
quanto più gli oggetti diventano economici, tanto più invitano i consumatori e
costringono i produttori ad un rapido cambiamento della moda. Il tempo di
produzione è di tale importanza per alcuni articoli di moda da sottrarli perfino a
certi progressi dell’economia che sono stati raggiunti gradualmente in altri
campi. Specialmente nei rami più vecchi della produzione industriale moderna si
è osservato che il momento della speculazione cessa gradualmente di esercitare
un ruolo determinante. I movimenti del mercato vengono calcolati con maggior
precisione, i bisogni possono essere previsti e la produzione può essere regolata
in modo più preciso di prima. Di conseguenza la razionalizzazione della
produzione guadagna sempre più terreno nei confronti della casualità delle
congiunture, delle oscillazioni non pianificate della domanda e dell’offerta. Solo
gli articoli di pura moda sembrano fare eccezione. La polarità delle oscillazioni,
a cui l’economia moderna spesso si sottrae aspirando evidentemente a
ordinamenti e a strutture economiche completamente nuove, domina ancora nei
settori che dipendono direttamente dalla moda. La forma del cambiamento
febbrile è così essenziale in questo ambito da essere quasi in contraddizione
logica con le tendenze di sviluppo dell’economia moderna.
Ma, in contrasto con questo carattere generale, ogni singola moda ha la
mirabile proprietà di presentarsi come se volesse vivere in eterno. Chi si compra
dei mobili che devono durare un quarto di secolo li compra infinite volte
all’ultima moda e non prende minimamente in considerazione ciò che era di
moda due anni prima. Tuttavia è evidente che fra un paio d’anni il potere di
attrazione della moda avrà abbandonato i mobili attuali come aveva già
abbandonato i precedenti e l’accettazione o il rifiuto delle loro forme saranno
decisi da criteri diversi, di tipo pratico. Una variazione di questo motivo si rivela
particolarmente nei singoli contenuti della moda. Per la moda conta soprattutto il
cambiamento, ma come ogni forma essa tende soprattutto al risparmio delle
forze, cerca di raggiungere i suoi fini nel massimo grado, ma con i mezzi
relativamente più economici. Per questo ritorna sempre a forme precedenti
(questo fenomeno è particolarmente evidente nella moda dei vestiti), al punto da
far paragonare la sua via a un circolo. Non c’è alcun motivo per non richiamare
in vita una moda non appena è stata dimenticata: forse ci si sente attratti dalla
differenza, attrazione di cui essa vive, nei confronti dello stesso contenuto che al
momento della sua comparsa ha tratto lo stesso fascino dal contrasto con la
moda precedente che ora viene rivissuta. D’altra parte il potere della mobilità di
forme di cui la moda vive non giunge al punto di sottomettere a essa ogni
contenuto in egual misura. Anche nei settori dominati dalla moda non tutte le
forme sono ugualmente adatte a diventare moda. La natura di alcune di esse
oppone una certa resistenza. Questa diversa opportunità è paragonabile al
rapporto disuguale che hanno gli oggetti del mondo visibile con la possibilità di
essere plasmati in opere d’arte. L’opinione che ogni oggetto della realtà sia
ugualmente adatto a costituire l’oggetto di un’opera d’arte è molto seducente, ma
in nessun modo profonda e valida. Le forme dell’arte, considerate dal punto di
vista del loro sviluppo storico determinato da mille casualità, spesso unilaterale,
legato alla perfezione e all’imperfezione tecnica, non sono affatto situate a un
livello di imparzialità rispetto a tutti i contenuti della realtà, hanno piuttosto un
rapporto privilegiato con alcuni di essi. Vi sono contenuti che, quasi prefigurati
dalla natura a questo fine, si accordano con facilità alle forme artistiche; altri,
quasi avessero ricevuto un destino diverso, si oppongono ostinatamente alla
trasformazione nelle forme artistiche date. La sovranità dell’arte sulla realtà non
significa affatto la capacità di includere tutti i contenuti dell’esistenza nel proprio
regno su un piano di uguaglianza, come pensano il naturalismo e molte teorie
dell’idealismo. Nessuna delle formazioni con cui lo spirito umano domina la
materia dell’esistenza e la foggia secondo i propri fini è così universale e
neutrale che quei contenuti si offrano ad essa in modo uniforme e indifferente
alla loro intima struttura. Così solo apparentemente e in astratto la moda può
assumere qualsiasi contenuto e qualsiasi forma esistente del vestire, dell’arte, del
comportamento, delle opinioni può diventare moda. Tuttavia nell’intima natura
di alcune forme c’è una particolare disposizione a realizzarsi proprio come
moda, mentre alcune di esse vi si oppongono dall’interno. Per esempio, è
relativamente lontano ed estraneo alla forma della moda tutto ciò che può essere
definito «classico», anche se qualche volta non riesce a sottrarsi a essa. Poiché
l’essenza del classico è una concentrazione del fenomeno intorno a un punto
fisso centrale, la classicità ha un carattere raccolto, che non offre per così dire
appigli su cui innestare modifiche che possano portare a un turbamento o a una
distruzione dell’equilibrio. La scultura classica è caratterizzata dal convergere
delle parti, dal dominio assoluto che l’interno esercita sull’insieme, dal fatto che
ogni singola parte è pervasa dallo spirito e dal senso di vita della totalità del
fenomeno attraverso la sua compatta connessione visibile. È per questo che si
parla della «serenità classica» dell’arte greca; è esclusivamente la concentrazione
del fenomeno che non permette a nessuna parte un rapporto con forze e destini
che siano estranei a esso e risveglia il sentimento che questa forma sia sottratta
agli influssi mutevoli della vita comune. Per diventare una moda il classico deve
trasformarsi in classicistico, l’arcaico in arcaicistico. Al contrario tutto ciò che è
barocco, privo di misura, estremo, è intimamente rivolto alla moda; per cose che
hanno queste caratteristiche la moda non giunge come un destino esterno, ma
come l’espressione storica delle loro qualità oggettive. Le membra della statua
barocca nella loro tensione minacciano sempre di spezzarsi, la vita intima della
figura non le domina completamente ma le abbandona al rapporto con la
casualità dell’essere esterno. Le figure barocche, perlomeno molte di esse, hanno
già in sé l’inquietudine, il carattere di casualità, la soggezione all’impulso
momentaneo che la moda realizza come forma della vita sociale. Inoltre il
carattere abnorme, l’esasperazione individuale, il capriccio delle forme
esercitano spesso un influsso estenuante e già in un senso fisiologico premono
verso il cambiamento di cui la moda offre lo schema. Appartiene a questo
contesto anche una delle relazioni profonde che si riteneva di poter trovare fra le
forme classiche e quelle «naturali» delle cose. Per quanto il concetto di ciò che è
naturale sia spesso incerto e fuorviante, si può dire, almeno negativamente, che
alcune forme, alcune inclinazioni, alcune idee non hanno alcun diritto a questo
titolo e sono proprio le più soggette al cambiamento della moda perché manca
loro quel rapporto con il centro stabile delle cose e della vita che
giustificherebbe il loro diritto a continuare ad esistere. Così per opera di una
cognata di Luigi XIV, Elisabeth Charlotte von der Pfalz, che aveva una
personalità completamente maschile, nacque alla corte francese la moda che le
donne si comportassero da uomini e come tali si facessero rivolgere la parola,
mentre gli uomini dovevano comportarsi da donne. È evidente che un simile
costume rientra assolutamente in una moda perché si allontana da quella
sostanza inestinguibile dei rapporti umani a cui la forma della vita deve sempre
in qualche modo ritornare. Se non si può dire che ogni moda sia innaturale,
perché la sua forma di vita è connaturata all’uomo come essere sociale, si può
dire di ciò che è assolutamente innaturale che può esistere perlomeno nella
forma della moda.
Ma, per riassumere tutto il discorso, il vero fascino, stimolante e piccante,
della moda sta nel contrasto fra la sua diffusione ampia e onnicomprensiva e la
sua rapida, fondamentale caducità, nel diritto all’infedeltà nei suoi confronti. Sta,
nella stessa misura, nello spazio ristretto in cui chiude una determinata cerchia
sociale, dimostrando come la propria causa e il proprio effetto siano
l’appartenenza comune ad essa, e nella risolutezza con cui la separa dalle altre
cerchie sociali. Sta, infine, sia nella possibilità di essere sorretti da una cerchia
sociale, che impone ai suoi membri una reciproca imitazione liberando
l’individuo da ogni responsabilità etica ed estetica, sia nella possibilità,
all’interno di questi limiti, di crearsi una sfumatura personale con
l’intensificazione o con il rifiuto della moda. Così la moda, pur presentando
particolari caratteristiche, dimostra di essere solo una di quelle forme nelle quali
la finalità sociale e quella individuale hanno oggettivato con gli stessi diritti le
correnti opposte della vita.
SOCIOLOGIE
Collana diretta da Mariella Nocenzi e Angelo Romeo

1. Vanni Codeluppi, Metropoli e luoghi del consumo


2. Angelo Romeo, Rodolfo Valentino. Un mito dimenticato
3. Lilie Chouliaraki, Lo spettatore ironico. La solidarietà nell’epoca del post-
umanitarismo, a cura di Pierluigi Musarò
4. Erica Antonini, Giovani senza. L’universo Neet tra fine del lavoro e crisi
della formazione, presentazione di Mario Morcellini
5 Andrea Spreafico, Tommaso Visone, Categorie, significati e contesti
6. Émile Durkheim, Sociologia e filosofia, a cura di Angelo Romeo
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INTRODUZIONE
di Anna Maria Curcio

GEORG SIMMEL
LA MODA

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