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27/10/21

• LEZIONE 18:
Riassunto finora:

Nell’ultima lezione abbiamo visto come si ripercuote l’apparato k e u sulla questione della normatività, sulla
capacità di creare una obbligazione, un dovere, un dover-essere.
Ricordiamo la coda della lezione di ieri per introdurre il discorso successivo: in una società che assume un
paradigma comportamentale di tipo u, la tendenza naturale è quella verso la creazione di un sistematico
free riding.
Il free riding è un concetto mutuato dalla concettualità economica; esso definisce un comportamento tale per
cui un sogg viene meno all’insieme di regole pattuite che sono tali da fornirgli l’accesso a determinati beni;
non si tratta della violazione di qualunque tipo di regola, tipo ‘ringrazia quando uno ti fa una cortesia’. Un
free rider è qualcuno che viola una regola dalla cui obbedienza dipende la creazione di un bene
pubblico, comune. Ad esempio: immaginiamo di lavorare tutti in un gruppo che deve presentare un progetto
ad uno studio di architettura; il free rider sarebbe il sogg che, approfittando del fatto che gli altri lavorano,
intanto va a pescare dicendo ‘tanto fanno loro’ -> questa è una istanza di free riding in cui un sogg ritira il
suo contributo perché pensa che il contributo altrui sarà sufficiente a generare il bene a cui anche lui
avrà accesso. Questo è una forma di massimizzazione del proprio interesse: il sogg riduce i propri costi e
conserva i medesimi benefici; dal punto di vista della massimizzazione dell’utilità, in termini u, è
perfettamente corretto.
Rispetto a questo modello alcuni economisti come (nome?), hanno formulato l’idea che, al fine di evitare
comportamenti da free rider, è opportuno che esistano sistemi normativi introiettati: la morale, la
religione o quant’altro. Quello che è interessante nell’approccio economico è che il free riding, e la sua
eventuale soluzione, sono viste a partire dall’istanza della massimizzazione del profitto che è quella di base.
Ponendo la dimensione del bene all’altezza della massimizzazione dell’utilità personale, la domanda diventa:
‘quali sono i mezzi per ottenere risultati?’. In quest’ottica l’economista (nome?) sostiene che il free riding è
un problema perché il bene di accesso pubblico viene meno: se uno non paga il biglietto non è un
problema, ma se lo fanno tutti è un problema, il sistema collassa e non abbiamo più la possibilità di fornire i
beni pubblici di riferimento. Il punto è la soluzione che viene data: l’idea di fondo è che religione, la
morale, qualunque riferimento che limiti la dimensione del free riding, è visto come un’utile trovata che
strumentalmente può servire a conservare la massimizzazione complessiva della felicità o del risultato
desiderato. C’è cioè una inversione rispetto al paradigma storico della funzione fine-mezzo: la dimensione
dell’ethos collettivo, del bene comune e delle sue dimensioni di aspettativa normativa, invece che essere
posta l centro della dimensione del valore, viene posto come strumento finalizzato all’acquisizione
dell’appagamento individuale. Il punto di fondo è: cos’è la religione? Nel migliore dei casi è un utile
strumento per riuscire ad arrivare al risultato.
Problema di questa forma di descrizione: non ha nessuna possibilità di funzionare. La forza delle
convinzioni sovrainidviduali sta nella loro natura fondativa: nessuno si converte a una religione perché se
faccio così riusciamo a pagare il servizio pubblico. La descrizione può essere corretta dal punto di vista
descrittivo: de facto il limite principale al free riding è dato da credenze relative alla comunanza del
bene fornite da un mos, da un ethos; de facto è vero che descrittivamente l’esistenza di una forma di vita
etica di questo tipo è una drastica limitazione al free riding, ad esempio: nel caso di una visione di tipo
cristiano uno dice ‘mi sto comportando così però Dio mi vede’; questo tipo di prospettiva è un potentissimo
elemento di limitazione del free riding.
Il punto è che storicamente l’idea della massimizzazione della linea di appagamento individuale non è
mai stata percepita come fondativa, ma semmai come consentita all’interno di una visione etica, ma non
come fondativa della visione etica. Nella visione economica questo deve invertirsi: al centro c’è
l’appagamento individuale, mentre a margine c’è il sistema di credenze di carattere etico visto come
utile strumento, il che non solo lo depotenzia, ma di fatto lo rende insussistente, lo rende incapace di fare
quello che dovrebbe fare.

Queste considerazioni ci permettono di introdurre il passo successivo: una riflessione intorno a cosa avviene
nell’etica pubblica a partire dal divenire egemone di d e u e come questo si ripercuote a livello sistemico.

1. Partiamo dalla deontologia. Cosa avviene in un contesto deontologico? Il dovere, abbiamo visto, è posto
come qualcosa di esterno, rigido, acontestuale e si oppone alla dimensione vissuta, interiorizzata dell’ethos.
Quello che avviene è che, da un lato, il parametro di decisione è posto come obiettivo, esterno, astratto,

l’imp cat, ma, dall’altro lato, il luogo della decisione, l’unico luogo deputato alla decisione, è rigorosamente
il foro interiore, lo spazio interiore dell’anima in assoluta indipendenza da qualsiasi relazione con altri.
Questo è un punto estremamente chiaro in K: il sogg è pensato come assolutamente autonomo in quanto ad
essere valutata è solo la propria intenzione, è sempre solo la propria intenzione ad essere valutata -> io testo,
e metto alla prova la qualità morale della mia intenzione e il procedimento di universalizzazione serve a fare
questo, a dire ‘io voglio fare questo, ma la mia volontà è una volontà buona? Proviamo a universalizzare’.
Non c’è nessun interesse a sapere che tipo di ripercussioni questo ha sugli altri, la valutazione è vista in
termini di sistema: se questo è un abito sociale che sta in piedi, allora va bene. Il punto fondamentale è che
viene valutata solo la mia intenzione, non le ripercussioni, come accade nell’esempio del dire la verità
all’assassino.
Questo significa che l’etica viene essenzialmente privatizzata: viene cioè tolta dalla dimensione
relazionale e viene riportata in una dimensione che, si presume, sia più fondativa e che è quella del foro
interiore, della propria coscienza.

2. Caso dell’utilitarismo. Abbiamo una situazione diversa: in teoria noi dovremmo valutare i contesti, il
sistema delle conseguenze, implicazioni, ripercussioni sull’eventuale intorno sociale di riferimento. Il
problema è che alla radice del sistema assiologico c’è una dimensione assolutamente non condivisibile: la
dimensione del piacere-dolore come vissuto interiore. La dimensione dell’interiorità non esposta alle
ragioni pubbliche, alle motivazioni, alla valutazione collettiva o comune, questa è la dimensione dei vissuti
sensibili rispetto alla quale solo io so cosa sento in termini di piacere e dolore.
Questa mossa conduce, da un altro lato, ad una operazione che è parimenti una operazione di
privatizzazione dell’etica -> anche in questo caso il decisore non è solo empiricamente il singolo, il punto
di fondo è che la fondazione della decisione è completamente delegata ad una dimensione che per
definizione non è condivisibile: io non posso sapere qual è il tuo dolore e tu non puoi sapere qual è il mio.
Quindi, in ultima istanza, c’è una dimensione irriducibile relativa al giudizio soggettivo in cui si radica
l’ethos.

Che indicazioni ci dà questa visione: ci dice che siamo di fronte a un totale stravolgimento della visione
tradizionale etica, è un capovolgimento integrale della sfera in cui il mos o l’ethos sono nati e hanno
cominciato ad avere significato per noi. Come abbiamo detto fin dall’inizio, il mos e l’ethos nominano
esattamente la sfera dei costumi sociali collettivi, di gruppo, comunitari, della tradizione comportamentale
di una determinata comunità e, nello specifico, nella nozione di ethos greco ci si riferisce a una comunità
territoriale. In entrambi i casi il punto fondamentale da capire è che fino a questo momento di etica e di
morale si poteva parlare solo ed esclusivamente in una dimensione che assumesse come fondativa una
dimensione comune, di accomunamento.
Qua invece ci troviamo di fronte ad una mossa in cui si mantiene in teoria una visione prospettica sociale,
infatti in teoria c’è un riferimento all’altro nel kantismo perché ci si immagina cosa succederebbe se tutti
farebbero così, per cui si mantiene un riferimento alla collettività, altrimenti si cadrebbe palesemente in una
dimensione non etica, e questo vale anche nell’u; ma il problema è che in entrambe le teorie, nella
procedura decisionale non c’è più traccia che questa dimensione emerga, perché non c’è nessun livello
interattivo preso in considerazione e questo ci porta in una dimensione veramente nuova, non solo
dell’etica, ma della storia dei comportamenti umani -> Questo perché si dice spesso, ed è fattualmente vero,
che la svolta che avviene a fine settecento, che conduce all’imporsi in occidente della ragione liberale, sia
una svolta che conduce in direzione della apertura della sfera democratica; però abbiamo davanti agli
occhi una particolare visione della democrazia: la possibilità di avere una procedura istituzionale di
nomina dei rappresentanti che consente alla maggioranza di decidere chi deve esercitare il potere. L’idea di
fondo alla base della demo è la sovranità popolare, il popolo è l’ultimo detentore del potere. Però, quando
parliamo di demo in questo senso, non dobbiamo concentrarci troppo sulla componente formale, sulla
componente delle istituzioni. Quello che viene un po’ nascosto è il fatto che la componente più potente che
alimentava l’impulso democratico in questa fase storica, era legata all’idea che i più non si sentivano più
rappresentati da chi li governava, cosa che è un elemento storicamente nuovo: c’è un distacco fondamentale
tra il popolo e chi esercitava il potere su di esso, ovvero la gerarchia di potere prevalentemente di origine di
sangue che aveva al suo vertice un re, un imperatore, un feudatario, a seconda dei sistemi sociali. Il che ci
ricorda un’altra cosa: tutti i sistemi storici tendenzialmente funzionano quando c’è una fiducia nella
rappresentanza, nessun sistema storico-sociale funziona senza una elevata fiducia nella rappresentanza,
anche quelli autocratici.
In un sistema feudale le possibilità di uscire dal sistema sono enormemente più ampie rispetto a oggi e
questo perché il controllo è bassissimo in quel tipo di società: nelle varie epoche storiche noi abbiamo livelli
di controllo diversi, quelli moderni sono assolutamente fuori scala rispetto a modelli del passato. Prima la
possibilità di uscire dal sistema e contestarlo era più elevata: si poteva dare il caso in cui, ad esempio, io e

Robin Hood andiamo nella foresta e facciamo la nostra guerriglia personale al re; questa è un’operazione che
avveniva costantemente e avveniva di meno dove c’era un regnante, un feudatario che viene riconosciuto
come buono, capace di pensare all’interesse della collettività. Quando noi pensiamo al sistema democratico,
pensiamo che sia il sistema che consente per eccellenza di far valere le ragioni dal basso, che consente dal
basso di cambiare chi lo governa; sì, ma attenzione a non sopravvalutare questa dimensione. Dicevamo, in
epoche diverse i margini di uscita dal controllo dei vertici sono estremamente elevati perché non c’è
controllo territoriale -> fino all’800 la questione di confini territoriali non emerge ed è importante perché nel
momento in cui li hai, sai fin dove esercitare la tua legge; il fatto che i confini fossero approssimativi era
legato al fatto che la legge venisse applicata molto circa, la possibilità di controllare il territorio era limitata.
Oggi possiamo controllare un territorio dall’alto, con sistemi di visione a lunga distanza e anche in questo
caso comunque non è facilissimo controllare tutto in maniera panoramica, però abbiamo un tasso di controllo
elevato. In epoca con bassa tecnologia tutto questo non esiste, il livello di controllo è basso: nei tribunali, ad
esempio, la principale componente di accusa è legata alla testimonianza, non abbiamo i video, ci sono
valutazioni molto spannometriche, ad esempio sulla base del fatto che un individuo sia già stato colto a
commettere un crimine e quindi ha un carattere cattivo.
Se la giustizia è esercitata male, se il re è inadeguato e esercita male il suo potere, le possibilità di sfuggire
al sistema e di operare una contestazione dall’interno del sistema sono molto elevate perché il sistema di
controllo è basso. Quando si dice che l’epoca moderna è l’epoca in cui si affaccia la voce del popolo
precedentemente tacitata, facciamo attenzione, perché è vero che dal punto di vista istituzionale si creano
possibilità che prima non c’erano, questo sì; però il punto importante è capire che in questa fase, nella fase
industriale e dell’urbanizzazione, questo ha di nuovo come implicazione il fatto di avere un controllo molto
maggiore: un conto è avere un controllo su un territorio indefinito su cui si sparge la popolazione, altra cosa
è avere un controllo su qualche quartiere su cui viene posto un plotone di reggimento che sorveglia -> si
acquisisce un potenziale repressivo superiore, non inferiore, a quello precedente. I
Il processo di industrializzazione crea dei sistemi di controllo, di potere, superiori a quelli
precedentemente disponibili e questo spinge il demos a chiedere forme di rappresentanza ufficiali, nasce
dal basso quel tipo di protesta.
Dopo il ‘45 la situa cambia: c’è la fase di autentica diffusione della democrazia. Questo è importante per
capire quanto l’istituzione demo sia recentissima sul piano della storia e quanto sia correlata a un processo
particolare in cui il popolo cerca una forma di autodeterminazione, o di libertà, che è più minacciata di
quanto sia stata in precedenza proprio per le condizioni di carattere tecnologico. Facciamo un esempio
banale: pensiamo a cosa significava una rivolta contadina nel medioevo e un gruppo di operai in protesta
oggi -> dal punto di vista della gestione un gruppo di contadini che si ribellava non aveva cavalleria e non
aveva armature, però con delle mazze se la potevano giocare tranquillamente, potevano schiacciare un
reggimento militare se erano in tanti: questo dava concretamente un potere de facto dal basso. Questo tipo
di situa tende a moderare le forme di governo perché puoi permetterti di sopportare un certo livello di
arroganza, ma poi diventa rischioso per i ceti superiori. Questa situa è completamente diversa rispetto alle
classi dominanti dell’800 e del ‘900: i ceti dirigenti hanno una stabilità molto superiore e corrono molti
meno rischi e la capacità di esercitare il controllo è molto superiore -> qualunque sciopero volesse essere
represso, potrebbe essere represso in 20 minuti. La condizione di dipendenza della popolazione è
enormemente superiore nelle democrazie moderne, proprio perché sono moderne: c’è un contesto
tecnologico che consente di esercitare il potere con molta più capillarità e potenza.

Questo getta una luce interessante e sinistra nello spostamento teorico che stiamo esaminando. (Ricordiamo
che nessuno di questi autori ha un’attenzione allo sviluppo delle relazioni materiali, delle relazioni di potere
effettivo; però, come faceva notare Marx, e idee si sviluppano, in particolare quelle di carattere etico, perché
condizionano e guidano l’azione in una certa forma e quindi sono incardinate in una dimensione pragmatica.
Una teoria morale funziona quando effettivamente riesce a guidare l’azione degli uomini, a conferirgli
senso, ma è qualcosa che o è incardinato nella prassi, nella ragione pratica, oppure è niente, perché diventa
ideologia. Cosa indicava Marx con ideologia: una descrizione teorica delle motivazioni per l’azione che
in effetti falsifica le motivazioni reali. Ad esempio: se voi date una descrizione del fatto che c’è un
crescente numero di disoccupati nell’Inghilterra degli anni ‘20 e cominciamo ad avere grossi gruppi di
persone che vagano da un’area all’altra del paese e spieghi quesa cosa nei termini di ‘è cresciuta la tendenza
al vagabondaggio e la gente non ha più voglia di lavorare, non abbiamo più le persone che lavoravano
intensamente come un tempo, questi sono sogg affetti da una pigrizia che non li mette in condizioni di dare il
loro contributo sociale’, falsifichi la descrizione. A llora questi individui vengono portati in alcuni luoghi in
cui vengono costretti a lavorare, perché la descrizione morale è ‘questi non hanno voglia’; ma questa è una
sostituzione della descrizione reale con una fittizia che non è neutrale, è complice dell’esercizio del potere,
perché copre la possibilità di rilevare le vere motivazioni).

Questo ci porta al punto essenziale delle teorie che consideriamo: nel momento in cui riducono la
dimensione dell’ethos e del mos ad una dimensione privata, stanno rispecchiando un processo che sta
avvenendo in quel momento, un processo di disgregazione delle strutture di carattere comunitario, che
erano prevalentemente rurali, creando un modello teorico di decisione che funzioni in un sistema in cui
non si può contare sull’esistenza di una qualunque collettività, in cui quindi idealmente ciascuno è
lasciato a decidere per se stesso.
Il fatto che l’u si delinei in maniera così chiara nel contesto inglese-anglosassone e che il kantismo sia di
matrice tedesca, non è accidentale: nel contesto inglese si sviluppa il sistema di relazioni industriali moderne
e l’u legge la forma delle valorizzazioni sul parametro di scambio che fa riferimento al conteggio costi-
benefici di natura economica. Nel contesto kantiano la situa è diversa: questa organizzazione sta prendendo
forma ma è a livelli bassi, è un sistema ancora dominato da un imperatore illuminato e il canone
comportamentale sviluppato è un canone che si attaglia ad una società che si vuole erede delle forme
normative tradizionali, salvo che questo non devono fare riferimento ad un semplice ethos condiviso; questo
è messo in crisi dall’illuminismo.
Si tratta di uno spostamento teorico che recepisce uno slittamento dei rapporti tra individuo e gruppo, in
cui il gruppo non è più accomunato da una forma di vita comune. Capiamo qual è la differenza tra il
contadino sul territorio che in Inghilterra ha un riferimento territoriale, la contea, con luoghi di scambio e
un’ampia area per l’agricoltura e il contadino che si trova a lavorare nella fabbrica dove non conosce
nessuno; questo schema delle contee, nel momento in cui c’è l’urbanizzazione forzata, crea una situa in cui
persone che prima erano in costante relazione, non sono più in relazione: io mi sposto nel paese x e tu nel
paese y, per cui vengono meno le forme di connessione precedenti. Si crea una situazione in cui conosci
meno persone per meno tempo e cambia la forma di vita: non puoi più fare affidamento sulla modalità con
cui ti procacciavi il lavoro, con cui organizzavi il matrimonio.
Noi tendiamo a pensare che in epoche preindustriali, premoderne, il controllo sulla genitorialità o
sull’affiliazione, sulle pratiche di riproduzione, pensiamo ‘vabbè nascevano i figli, succedeva’; in realtà se
andiamo a vedere cosa succede in Inghilterra in quel periodo, succede qualcosa di incredibile: l’esplosione di
questa demografia incontrollata avviene con l’inurbazione -> c’è gente che fa figli e poi vengono lasciati
nelle chiese, qualcuno non sopravvive. Il numero di figli nelle comunità rurali precedenti era un numero
molto basso perché c’erano dei vincoli precisi a quando ci si poteva sposare: le donne si sposavano a 27 anni,
perché le condizioni per figliare legalmente erano all’interno del matrimonio, poi le condizioni del
matrimonio erano legate all’avere una sufficiente base economica, è tutto questo faceva sì che si dilazionava
il momento del matrimonio, contraendo il numero degli anni di fertilità e quindi abbattendo la procreazione
in maniera incontrollata e all’interno di una situa, di nuovo, controllata dal punto di vista economico, in cui
la famiglia era in grado di prendersi cura della prole.
Questo salta con l’inurbazione di una vasta parte della popolazione: il fatto di mettere da parte qualcosa per
mettersi nella condizione di figliare salta, perché da quando hanno dodici anni lavorano e lavorano finché
non gli si spacca la schiena, non c’era la possibilità di fare carriera. Si trattava infatti di un sistema di lavoro
nelle fabbriche che era diverso dal modello precedente: il modello precedente era quello dell’artigiano o del
contadino che hanno una carriera, nel senso che hanno una possibilità di ampliare la casa rurale, di crescere
di dimensione con addetti; questo modello scompare quasi del tutto e viene sostituito da una diffusa
proletarizzazione che fa sì che i figli vengano fatti a caso, a quattordici/quindici anni avviene e poi succede
quel che succede.
C’è una svolta straordinaria con la distruzione dei presupposti per il funzionamento di un ethos, di
un’etica o di una morale in senso tradizionale: quel tipo di sistema funzionava sulla base di una società che
aveva un elevato grado di trasmissione intergenerazionale di contenuti, il fatto che si fosse in contatto con le
stesse persone e con gli stessi luoghi faceva sì che si potesse costruire un insieme di norme esplicite e
implicite, aspettative sociali che accomunavano il gruppo sociale; questo tipo di sistema salta completamente
con l’industrializzazione: le persone che si ritrovano nelle aree urbane e industriali non si conoscono,
non formano una comunità, hanno relazioni lavorative completamente differenti, non cooperano a nessun
livello. Pensiamo ad un’area montana anche odierna, un piccolo paese in cui sia l’attività di insediamento, sia
l’attività lavorativa sono in un’area limitata, per cui abitiamo vicini e lavoriamo nella stessa segheria: questa
continuità tra il luogo fisico del lavoro e il luogo dell’insediamento crea più facilmente una situa di
continuità comunitaria, una continuità della possibilità che l’altro la pensi in un modo affine, di avere una
piattaforma comune di credenze; tutto questo in senso etimologico è democrazia: il fatto di avere persone
che comunicano le une con le altre e idealmente cercano di affrontare determinati problemi sulla base di una
comunicazione e di una decisione comune -> questo è quello che è l’intuizione del processo democratico
ben prima che venga istituzionalizzato in qualche forma. Quando si parla di demo, questo è il punto
fondamentale, bisogna capire che una dimensione di pulsione democratica è sempre esistita in assenza di
istituzioni democratiche; ma il fatto che le istituzioni non esistessero era anche dovuto al fatto che una
forma di implementazione di questo istinto democratico vigeva nelle forme normali di relazione all’interno

qualunque comunità territoriale: qualunque comunità aveva dei margini di decisione, di interazione, anche di
autodeterminazione legati al fatto che esistevano relazioni comuni di gruppi, esisteva un ethos comune. Con
l’urbanizzazione e l’industrializzazione questo salta.

A questo punto siamo nelle condizioni di capire ancora meglio cosa stiamo descrivendo quando parliamo
della forma etica che è diventata egemone: questa forma peculiare dell’etica, la forma del dualismo d-u, non
è egemone per le sue intrinseche capacità teoriche, per la sua estrema raffinatezza teorica, assolutamente
no. Questo è difficile che qualcuno lo contesti perché poco prima o poco dopo sono emerse teorizzazioni di
carattere etico di una raffinatezza maggiore, in cui il livello delle sottigliezze a livello antropologico è
incomparabile, enormemente superiore; tuttavia questi modelli nel dibattito contemporaneo sono presenti,
ma in modo marginale -> la mancanza di un riconoscimento istituzionale e di un riconoscimento all’interno
delle istituzioni delle città, fa sì che siano detronizzate della possibilità di esercitare una effettiva influenza.
Invece, chi esercita una effettiva influenza sono quelli che giocano con le carte che noi stimo presentando,
quelle kantiane e u, e non per ragioni di superiorità teorica: anche l’utilitarista più incallito potrà dire che la
società moderna difficilmente si può strutturare su una base hegeliana, marxiana, nietzscheiana, ad esempio,
ma perché in tutti questi casi non abbiamo una forma specifica di riconoscimento delle modalità di relazione
economica, delle modalità in cui viene esercitato lo scambio, della monetarizzazione dell’economia, tutte
componenti che fanno parte del nostro mondo, ma ne fanno parte come un dato, un fatto, non come qualcosa
che ha una giustificazione diversa dal fatto di essere attualmente egemone.

Quello che ci preme è far capire che la nozione di demo è molto più sfuggente di quello che si pensa e che è
qualcosa che non va concepita solo come sistema istituzionale del tipo ‘si può andare a votare e quindi
siamo in una demo’. Il punto fondamentale è se c’è rappresentanza, se c’è un modo in cui tu riesci a
trasmettere dai più al potere le tue istanze, i tuoi bisogni; se non c’è questa forma di comunicazione, non è
democrazia. Concentrarsi sulla struttura istituzionale del voto è quantomeno fuorviante e fa perdere di vista il
fatto più importante di tutti: mentre il sistema istituzionale è qualcosa di nuovo, l’interesse degli
individui per l’esercizio del potere affidato al popolo, è qualcosa che pervade la storia dell’umanità.
Ricordiamo che per la stragrande maggioranza della storia dell’umanità, per circa il 95% del tempo da
quando c’è l’uomo sul pianeta, le strutture principali erano quelle dei cacciatori-raccoglitori che avevano
all’interno un numero variabile tra i 70 e i 100 raccoglitori e questa è il modo in cui ha preso forma l’essere
umano che conosciamo: lì c’era un tasso di democrazia elevatissimo, con forme di eguaglianza personale e
anche di genere estremamente profonde. Questa è una cosa che salta con gli insediamenti rurali e la
costruzione delle gerarchie. Tutto questo per dire che il concetto di demo si radica in qualcosa di
estremamente fondamentale nella natura umana e che non si capisce se lo si pensa solo in termini
istituzionali.

Iniziamo il passo successivo.


Abbiamo discusso della dimensione dell’obbligazione e dei limiti della sfera normativa; adesso dobbiamo
concentrarci sul tema del piacere. Finora abbiamo infatti parlato del dovere, adesso cerchiamo di capire
meglio che cosa è questa entità.
Abbiamo detto che Kant può essere compreso bene se la sua posizione viene intesa come una posizione di
reazione: dal punto di vista teorico la sua è una reazione a degli sviluppi protoutilitaristi già diffusi nel
‘700. L’idea del valore come qualcosa di collocabile sul piano del sensibile è una teoria diffusa, si tratta
del sensismo o del naturalismo che sono idee portanti della cultura settecentesca. Rispetto a questo modello
K opera un tentativo di mettere in allerta relativamente a determinati rischi legati al porre in posizione
centrale il piacere o il dolore nella sfera assiologica. Osserva come chi si affida ad una focalizzazione del
valore su piacere e dolore, di fatto crea le condizioni per una soggettività eteronoma, perché: perché è una
dimensione che il sogg trova fuori di sé e che, se vi si affida, lo guida in maniera indipendente da ciò che lui
è -> io posso essere persona con certe caratteristiche, con certe disposizioni, ma se sono guidato dal piacere e
dal dolore, sono guidato da qualcosa che mi induce a determinati comportamenti se non ho niente che mi
permette di oppormi e quindi va contro la libertà, l’autonomia, la capacità di autodeterminazione.
Abbiamo anche visto che, nonostante questa presa di posizione dubitativa nei confronti del valore come
piacere-felicità, in effetti K non esclude una dimensione teleologica del suo pensiero e abbiamo visto che
ritorna a galla la questione della felicità come una dimensione rilevante: quando parla di sommo bene e
bene supremo sostiene che il sommo bene sia una sintesi tra virtù e felicità e però diceva che la
componente motivazionale deve essere tutta quanta dal punto di vista della virtù, del dovere, anche se noi
auspichiamo che un comportamento virtuoso ci conduca a una condizione che è anche di felicità. Non
possiamo non auspicare questo, ma l’unica leva motivazionale che deve operare è il dovere.

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