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FONTI DEL DIRITTO DEL LAVORO

Dopo la caduta dell’ordinamento fascista, i contratti collettivi i contratti collettivi corporativi sono
stati sostituiti da quelli di diritto comune che non hanno più valore di atti normativi ma natura negoziale, e
nonostante abbiano efficacia limitata tra le parti di tutti gli atti di autonomia privata, estendono i loro effetti
anche al di là del loro ambito di applicazione soggettivo e sono comunque inderogabili dalla volontà delle
parti del contratto individuale.
La giurisprudenza ha sempre svolto una funzione suppletiva rispetto al legislatore, ed è quindi
considerata alla stregua di una fonte del diritto del lavoro.
Normativa internazionale in materia di lavoro  Organizzazione internazionale del lavoro della
quale fanno parte gli Stati membri dell’ONU, svolge un’attività normativa in materia di lavoro attraverso
emanazione di raccomandazioni e la predisposizione di progetti di convenzioni. I suoi atti in materia di
diritti sindacali, di tutela antidiscriminatoria, eguaglianza tra lavoratori ecc. hanno avuto un’influenza
relativa sull’evoluzione del diritto del lavoro italiano.
Influenza penetrate l’ha avuta invece la normativa comunitaria. Dopo l’Atto Unico Europeo e il
Trattato di Maastricht è riconosciuta all’UE una competenza crescente e autonomia in materia di lavoro ed
è previsto un coinvolgimento crescente delle parti sociali nei processi di formazione delle norme
comunitarie. È assente un sistema compiuto di regole del diritto del lavoro europeo e ci sono varie
divergenze sulle tecniche di regolazione tra coloro che privilegiano l’assetto di un’Europa sociale fondato su
un sistema di regole rigide e vincolanti e coloro che auspicano il rafforzamento di soft law. Tra gli obiettivi
del Trattato dell’UE c’è la promozione di un elevato livello di occupazione; l’art 151 indica come obiettivi
della politica sociale comunitaria il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, promozione
dell’occupazione, protezione sociale adeguata, dialogo sociale = avanzamento delle fonti comunitarie in
materia sociale. L’occupazione e la tutela del lavoro sono diventati valori fondanti della Comunità.
Gli atti emanati dall’UE dispiegano efficacia nell’ordinamento degli stati membri in diversa guisa. In
particolare, i regolamenti, contenenti precetti generali e astratti, tendono a uniformare le legislazioni
nazionali, mentre le decisioni sono riferite a situazioni specifiche; entrambi sono applicabili direttamente
nei confronti degli stati e degli individui e prevalgono su norme di diritto interno eventualmente difformi. Le
direttive invece devono essere recepite in atti interni dei Paesi membri; nel caso in cui lo Stato non
provveda ad attuare la direttiva nei termini stabiliti, il privato cittadino ha diritto a risarcimento da parte
dello Stato.
Norme costituzionali in materia di lavoro  già nel primo articolo viene riconosciuto al lavoro un
valore fondante della Repubblica e garantito un sistema di tutele. Nel 2001 ci sono state alcune modifiche
tra cui la sostituzione dell’art. 117. Il nuovo testo, in materia di ripartizione delle materie tra Stato e
Regioni, elenca tassativamente le materie soggette alla legislazione statale, includendovi l’ordinamento
civile; si può ritenere ragionevolmente che tra i rapporti privatisi possono includere sicuramente la
disciplina del rapporto individuale di lavoro e il diritto sindacale nella sua dimensione privata. Legislazione
regionale affida alla legislazione concorrente in materia di tutela e sicurezza del lavoro tutti i
provvedimenti diretti a promuovere l’occupazione.
La disciplina del 1924 ha introdotto il diritto sindacale in azienda riconoscendo ad esso una serie di
diritti e prerogative e ha innovato sensibilmente la disciplina codicistica del rapporto di lavoro.
Usi  distinzione tra usi normativi e usi aziendali, che sono usi negoziali. Quest’ultimi si
concretano nella concessione generalizzata di trattamenti non previsti da altre fonti e quindi integrano il
contenuto del contratto individuale, potendo questo essere modificato solo con il consenso del lavoratore
che ne è il destinatario. Secondo una recente giurisprudenza, gli usi aziendali farebbero sorgere in capo ai
datori di lavoro un obbligo unilaterale di carattere collettivo produttivo di effetti giuridici sui singoli rapporti
individuali di lavoro.
Fonti del rapporto di lavoro sono il contratto individuale, il contratto collettivo e la legge. Le ultime
due assolvono a una funzione di integrazione , specificazione e miglioramento delle tutele previste dalla
legge. Per il contratto individuale esiste limitazione dello spazio, ma in ogni caso al lavoratore viene
riconosciuta la libertà do accettare o rifiutare la proposta di assunzione del datore.
I trattamenti più favorevoli pattuiti a livello individuale prevalgono sulle clausole del contratto
collettivo.
I trattamenti collettivi possono essere invece modificati anche in senso peggiorativo da un contratto
di livello inferiore(contratto aziendale rispetto al contratto nazionale).
Il contratto collettivo non può prevedere trattamenti meno favorevoli rispetto a quelli previsti dalla
legge salvo che essa lo consenta; numerose disposizioni legislative hanno attribuito ai contratti collettivi una
funzione integrativa o di completamento del dettato legislativo.

DIRITTO SINDACALE
ORIGINI E BASI DEL DIRITTO SINDACALE ITALIANO
La connessione tra attività sindacale e prestazione di lavoro si realizza storicamente sul piano della
fabbrica di tipo fordista. La fabbrica è il luogo dove si costituiscono i primi rapporti di lavoro tra gli operai e
il padrone e gli interessi comuni degli operai favorisce la formazione delle prime coalizioni per ottenere
migliori condizioni lavorative, andando contro interesse del padrone e arrivando così ai primi scioperi
conclusi con la stipulazione dei primi accordi collettivi, denominati concordati di tariffa.
Le prime coalizioni occasionali si sono formate con un duplice scopo : escludere la concorrenza tra
gli appartenenti al gruppo e neutralizzare il diverso e minore potere contrattuale che l’operaio come
singolo ha di fronte al datore di lavoro. Avevano inoltre anche lo scopo di migliorare la retribuzione.
L’eliminazione della concorrenza al ribasso tra i lavoratori non può prescindere dal’inderogabilità
del contratto collettivo. La prevalenza di quest’ultimo su quello individuale resta di tipo obbligatorio e non
reale.
Il concordato di tariffa inoltre ha un’efficacia soggettiva limitata agli appartenenti alle coalizioni
stipulanti secondo i principi generali in tema di efficacia del contratto. Ma sia le coalizioni che lo sciopero
sono strumenti deboli e precari a difesa dei lavoratori. Lo sciopero rimane però una forma di
inadempimento contrattuale e quindi possibile causa di licenziamento.
Verso la fine dell’800 le coalizioni tendono a trasformarsi in veri e propri sindacati, associazioni di
lavoratori che operano in un determinato ramo di industria. Il sindacato assume la forma giuridica
dell’associazione quindi, ma si contraddistingue dalle altre forme perché è portatore di interesse collettivo
e non solo comune. Questo interesse collettivo è individuato di volta in volta dallo stesso sindacato. I
sindacati sono associazioni volontarie di lavoratori dipendenti in cui gli stessi lavoratori decidono
volontariamente di subordinare i loro interessi individuale all’interesse del gruppo.
Con la diffusione dei concordati di tariffa è istituita la magistratura dei probiviri, che decide le
controversie di lavoro secondo equità. Questa magistratura predispose una serie di massime, di tutela degli
interessi dei lavoratori che costituiscono una sorta di disciplina applicabile a tutti i casi simili.
Per la prima volta venne istituita nel 1906 da un accordo sindacale tra Fiom e la fabbrica di
automobili ITALA la Commissione interna, organismo non associativo interno alla fabbrica, di tutela dei
lavoratori.
Le prime forme di regolazione dei diritti e degli obblighi dei lavoratori hanno avuto quindi origine
nel contratto individuale e collettivo.
Nel periodo liberale vi fu una forte resistenza agli interventi legislativi, soprattutto perché non vi era
consentita la formazione di istituzioni intermedie tra individuo e Stato. Solo con la promulgazione del
codice penale Zanardelli venne depenalizzato lo sciopero che perciò si configura come atto penalmente
lecito e tuttavia sul piano civile resta un inadempimento.
Nello stesso periodo intervengono le prime leggi di tutela del lavoro; nel 1892 nasce la prima
centrale sindacale confederale, la CGIL di ispirazione socialista. Nel 1912 è sancito il principio del suffragio
universale limitato ai soli uomini, qualche anno più tardi viene realizzato un primo abbozzo di legge
sull’impiego privato e nel 1923 è approvata la legge sull’orario di lavoro.
Nello stato liberale quindi, nel primo periodo vige un regime di sostanziale intolleranza nei
confronti dei fenomeni sindacali, mentre il periodo successivo (fino all’avvento del fascismo) è
contrassegnato da un regime di relativa tolleranza e di liceità penale dello sciopero.
Con l’avvento del fascismo tutte le libertà vennero limitate.
L’ordinamento corporativo fu istituito con la l. 563/1926, che riconosceva formalmente la libertà
sindacale, perché consentiva la costituzione di più sindacati, legittimava però il governo ad attribuire
personalità giuridica di diritto pubblico ad un solo sindacato a condizione che raggruppasse il 10% della
categoria di riferimento., categoria determinata dallo stesso governo autoritativamente; il sindacato
riconosciuto aveva la rappresentanza legale di tutti gli appartenenti alla categoria iscritti e non iscritti al
sindacato.
Alla fase sindacale seguì la creazione delle corporazioni, enti di diritto pubblico che riunivano al
proprio interno le associazioni sindacali contrapposte e provvedevano, sotto controllo governativo, ad una
regolamentazione dell’attività economica. Esse emettevano ordinanze corporative.
Il contratto collettivo corporativo stipulato dalle contrapposte associazioni sindacali di categoria
riconosciute aveva efficacia erga omnes. Le norme corporative erano considerate fonte di diritto dal Codice
civile del 1942. Il contratto collettivo era inderogabile in peius dalle pattuizioni individuali e aveva anche
una funzione uniformante (le clausole potevano essere modificate da quelle del contratto individuale a
condizione che contenessero speciali condizioni più favorevoli).
I conflitti non potevano essere risolti attraverso l’autotutela perché lo sciopero e la serrata erano
considerati delitti contro l’economia pubblica , ma dovevano essere composti da una speciale magistratura
del lavoro composta da magistrati ed esperti che giudicavano secondo equità. Le sentenze corporative
avevano efficacia nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria e non solo nei confronti degli iscritti.
L’ordinamento corporativo fu soppresso nel 1943 quando fu siglato il primo accordo sindacale che
ricostruiva l’istituto della commissione interna. Vennero mantenute in vigore le norme contenute nei
contratti collettivi salvo successive modifiche.
Con la Costituzione del 1948 nasce lo Stato sociale che riconosce spazio alle società intermedie,
come i partiti, i sindacati. L’art. 39 stabilisce il principio di libertà sindacale come libertà tipica rispetto a
quella associativa; esso inoltre è considerato il fondamento dell’autonomia collettiva di diritto comune tra
libere e contrapposte organizzazioni sindacali di lavoratori e datori di lavoro.
L’ar. 40 Cost. ha introdotto lo sciopero., che non è più un inadempimento ma determina la
sospensione di entrambe le obbligazioni: quella di lavorare e quella retributiva.
Anni 50 – dibattito sull’opportunità o meno di continuare a utilizzare le categorie pubblicistiche o
privatistiche per interpretare il nuovo diritto sindacale. Prevalse la ricostruzione privatistica di Francesco
Santoro Passarelli, che in quel momento costituì un’efficace barriera alle tendenze neocorporative e che
corrispose in modo soddisfacente ai bisogni e alle aspettative di autoregolazione delle grandi centrali
sindacali preoccupate di difendere la loro autonomia. Ebbe quindi scarso seguito la tesi di Calamandrei,
della titolarità collettiva del diritto di sciopero.
Negli anni 60 un ruolo importante ebbe anche la teoria dell’ordinamento intersindacale di Gino
Giugni che integrò quella privatistica e chiarì le peculiarità e le dinamiche interne dei rapporti sindacali.
Attualmente si è riacceso il dibattito sulla natura del contratto collettivo e sulla possibile
collocazione di questo nel sistema delle fonti di diritto. La dottrina pubblicistica sostiene da tempo la natura
del contratto collettivo di diritto comune e la possibilità di inquadrarlo tra le fonti del diritto. Questa tesi
viene argomentata sulla base del principio di effettività e del tasso di osservanza e di accettazione del
contratto collettivo, nonché sull’opinio iuris volta a fondare l’obbligatorietà della sua applicazione anche ai
non iscritti alle associazioni stipulanti. Tale tesi però è contestata da quella privatistica che ribadisce la
natura privata degli interessi collettivi destinati a prevalere su quelli individuali ed osserva come la
previsione di sanzioni ed incentivi di una disciplina sindacale presupponga l’efficacia limitata del contratto
collettivo.
Interesse collettivo  si distingue secondo la dottrina privatistica da quello comune perché il primo
è un interesse che supera e trascende quelli individuali e perché è indivisibile. Il limite di questa
ricostruzione sta nell’avere ipostatizzato questo interesse e avere ad esso riconosciuto un valore
ontologico. L’interesse è collettivo se tale lo considera il gruppo.
L’interesse collettivo prevale su quelli individuali, quindi il contratto collettivo prevale su quello
individuale e le clausole del primo non possono essere derogate in peius dalle clausole del secondo, in caso
contrario sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, mentre prevalgono sul contratto
collettivo solo quelle del contratto individuale che sono più favorevoli .
Accanto all’autonomia privata individuale il nostro ordinamento riconosce spazio all’autonomia
privata collettiva diretta a regolare non già interessi individuali degli appartenenti all’organizzazione
sindacale ma l’interesse collettivo degli stessi. L’autonomia collettiva però non ricava la sua legittimazione
dall’autonomia dei singoli che volontariamente subordinano i loro interessi a quello del gruppo ma
direttamente dall’art. 39 cost, che sancisce la libertà di organizzazione sindacale.
Attualmente il diritto sindacale repubblicano è contrassegnato oltre che dal principio di autonomia
privata collettiva, anche da quello dell’effettività sindacale.
Nel nostro ordinamento l’attività sindacale come lo sciopero è delimitata da una frontiera mobile
che estende o restringe il proprio territorio in ragione di rappresentatività del sindacato in un determinato
momento e contesto. Storicamente il sindacato è stato negoziatore di contratti e perciò l’attività negoziale
rientra tra i compiti del sindacato e costituisce attività sindacale. Quest’ultima non si esaurisce nella
proclamazione degli scioperi e nella stipulazione dei contratti però, ogni altra attività può essere
considerata sindacale se il sindacato ha il consenso e quindi la forza di farla valere come tale.
Dopo la caduta dell’ordinamento corporativo, solo lo sciopero economico o per fini contrattuali era
considerato legittimo e solo successivamente è stato considerato tale lo sciopero di imposizione politico-
economica (contro il Governo). Nessuno ha messo in discussione lo sciopero dei magistrati anche se ci
sono dubbi sulla legittimità di questo perché la magistratura è uno dei poteri sovrani.
Nel diritto sindacale quindi è rilevante il principio di effettività dell’attività sindacale, in base al
quale il sindacato esercita un potere di fatto cui è connessa una responsabilità politica e non giuridica su
materie che le organizzazioni sindacali riescono ad acquisire in un determinato momento e contesto
storico.
Nel sistema sindacale repubblicano il sindacato è configurato come associazione privata non
riconosciuta mentre la categoria non preesiste al sindacato ma è determinata dalle parti e quindi è un
posterius rispetto al sindacato. E di solito indica l’attività merceologica assunta dalle parti come parametro
per determinare l’ambito di applicazione del contratto collettivo rispetto ad una medesima categoria
intesa come attività merceologica possono esistere una pluralità di sindacati (di categoria).
Il pluralismo sindacale italiano ha diverse origini, prima delle quali la natura ideologica. La Cgil, dopo
l’entrata in vigore della Costituzione si è scissa in Cisl e Uil. Il sindacalismo autonomo nel pubblico impiego
ha dato nascita alla Cobas. Il sindacalismo italiano è di tipo competitivo, persegue quindi obiettivi non
soltanto contrattuali ma anche di carattere sociale.
In Italia i sindacati confederali hanno preferito mantenere la loro identità e non hanno mai operato
in concreto. La Cisl ha la propensione a valorizzare il sindacato di associazione quindi gli iscritti mentre la
Cigl il movimento e cioè i lavoratori indipendentemente dalla loro iscrizione; nel 1972 è stato stipulato un
atto federativo tra Cgil, Cisl e Uil che individuava nei consigli di fabbrica l’istanza sindacale di base delle tre
confederazioni . Negli ultimi anni però ci sono stati diversi conflitti tra i sindacati fino ad arrivare a forme di
contrattazione separata a livello nazionale, con la stipula di un secondo contratto nazionale di categoria dei
metalmeccanici nel 2009 siglato solo dalla FimCisl e Uilm e non anche dalla Fiom Cigl e solo di recente
sembrano essere stati superati i contrasti.
L’art. 46 cost. prevede la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda. È una norma
totalmente inattuata.
Le relazioni sindacali in Italia sono state e sono conflittuali. Esiste una profonda differenza tra
cogestione, ossia partecipazione del sindacato negli organi di amministrazione della società e la
concentrazione nella quale tutte le parti conservano comunque i loro ruoli in attività che talvolta sono
giuridicamente vincolanti e l’informazione e la consultazione che non contraddicono il ruolo antagonista
della parte sindacale.
Dopo gli anni 80 si è diffusa la pratica dei diritti di informazione e consultazione del sindacato. Il loro
riconoscimento consente al sindacato di conoscere preventivamente nella fase dell’informazione le scelte
imprenditoriali e di condizionarle o attraverso il ricorso allo sciopero o avviando con il datore di lavoro una
fase di consultazione che può concludersi con accordi sindacali. Questi diritti hanno avuto un notevole
riconoscimento e sviluppo nella normativa europea sia con riferimento ai contratti aziendali europei, sia
alla disciplina della consultazione nella fase che precede la contrattazione a livello europeo.

LA LIBERTA’ SINDACALE
Il diritto sindacale si fonda sul principio della libertà di organizzazione sindacale.
Fonti internazionali importanti sono le convenzioni Oil n. 87 e 98, intitolate rispettivamente alla
libertà sindacale e al diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva. Nella prima si stabilisce che i
lavoratori e i datori di lavoro senza alcuna distinzione hanno diritto a costituire, senza autorizzazione
preventiva da parte dello Stato, organizzazioni sindacali che non possono essere sciolte da provvedimenti
autoritativi; nella seconda viene stabilito che i lavoratori hanno diritto di essere garantiti contro qualsiasi
discriminazione con la quale il datore di lavoro tenti di compromettere la libertà sindacale.
In ambito europeo i diritti del lavoro hanno trovato progressivo riconoscimento negli ultimi atti
normativi dell’UE. I diritti riconosciuti della Carta dei diritto fondamentali, così come quelli dei Trattati non
possono essere intaccati dalla legislazione nazionale.
Tra le fonti interne la principale è la Costituzione che nell’art. 39 sancisce il diritto della libertà di
organizzazione sindacale. Esso riconosce ad ogni cittadino lavoratore il diritto di svolgere attività sindacale e
di costituire o aderire a strutture sindacali ; ai sindacati viene riconosciuto il diritto di organizzarsi con
strutture che hanno diversa forma giuridica, associativa e non associativa e secondo criteri di aggregazione
diversi. La libertà sindacale rileva come libertà dell’organizzazione sindacale e ha una dimensione
individuale e una collettiva.
L’art. 39 riconosce ai sindacati il potere di regolare da sé i propri interessi attraverso la stipula di
contratti collettivi con il singolo datore di lavoro o con la contrapposta associazione di datori di lavoro.
Un terzo profilo della libertà sindacale è la libertà di inquadramento, determinata dagli stessi
sindacati (categoria merceologica utilizzata come parametro per determinare il contratto collettivo da
applicare).
La libertà sindacale vieta al datore di lavoro di compiere atti idonei a limitare l’esercizio della libertà
sindacale dei lavoratori alle sue dipendenze e all’interno del singolo rapporto di lavoro essa tutela i
lavoratori contro le discriminazioni per ragioni sindacali da parte del datore di lavoro.
Statuto dei lavoratori rileva distinzione tra libertà e attività sindacale. L’art. 14 garantisce a tutti i
lavoratori il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività all’interno dei luoghi di
lavoro.
Differenza tra attività e atto sindacale: la prima è una sequenza di atti temporalmente collegati alla
realizzazione di un obiettivo o di un risultato, mentre il secondo individua un segmento dell’attività ma può
anche rappresentare il risultato dell’attività medesima.
Nel nostro ordinamento la garanzia della libertà sindacale si estende anche al lavoratore che non
aderisce ad alcuna organizzazione sindacale e che non esercita alcuna attività sindacale. Sono titolari della
libertà sindacale anche i lavoratori subordinati e i loro sindacati mentre si pone il problema della titolarità
di tale libertà in capo ai lavoratori autonomi per due ragioni : non omogeneità degli interessi perseguiti
dagli stessi lavoratori autonomi e per la scarsa propensione degli stessi a organizzarsi sindacalmente.
Ai dipendenti pubblici è ormai riconosciuta sia la titolarità della libertà sindacale che l’esercizio del
diritto di sciopero. Ci sono alcune limitazioni però nei confronti dei militari e degli appartenenti alla polizia. I
primi non possono costituire associazioni sindacali o aderire ad altre associazioni sindacali e esercitare
diritto di sciopero, militari di leva però possono rimanere iscritti nelle associazioni senza svolgere attività
sindacale mentre sono in servizio. Essi hanno comunque organi rappresentativi. Per quanto riguarda gli
appartenenti alla polizia di Stato essi possono costituire sindacati, ma non possono unirsi in più ampie
organizzazioni sindacali e non possono esercitare diritto di sciopero.
Il principio della libertà sindacale è riferibile anche all’imprenditore e alle associazioni degli
imprenditori.
A livello aziendale il datore di lavoro tratta le condizioni di lavoro dei proprio dipendenti
direttamente con il sindacato dei lavoratori e soddisfa un interesse tipicamente individuale che è quello al
profitto. I singoli lavoratori debbono necessariamente riunirsi in un gruppo per concludere un contratto
collettivo e solo con la stipula di questo è soddisfatto da parte loro l’interesse collettivo.

LIBERTA’ SINDACALE COME LIBERTA’ DI ORGANIZZAZIONE SINDACALE


SEZIONE I
I lavoratori sono liberi di costituire strutture sindacali associative e non associative. Tra quelle
associative la più importante è il sindacato; esistono strutture sindacali non associative, o perché carenti di
stabilità o perché assunte da soggetti che vogliono mantenere la loro libertà di azione rispetto alle
associazioni sindacali. Esempi del primo tipo sono le coalizioni operaie sorte per stipulare i concordati di
tariffa e i comitati unitari di base, mentre del secondo tipo i Cobas dei macchinisti delle ferrovie.
Le associazioni sindacali sono regolate dal diritto comune quali le associazioni non riconosciute. Il
sindacato tuttavia ha una sua tipicità in virtù della natura collettiva dell’interesse perseguitato, distinta
dall’interesse comune che contraddistingue di norma il genus dell’associazione non riconosciuta.
Quest’ultima è regolata solo per pochi aspetti dal codice civile. Si deve distinguere responsabilità
contrattuale e responsabilità extracontrattuale delle associazioni nei rapporti individuali e nei rapporti
collettivi. Rispetto ai primi si devono distinguere rapporti interni da quelli esterni. Riguardo i rapporti interni
 l’ordinamento interno e l’amministrazione sono regolati dagli accordi degli associati. I mezzi patrimoniali
non costituiscono substrato necessario dell’organizzazione sindacale, e anche dove esistono il giudice non
può sindacare in merito alle controversie sulla riscossione tra associati perché violerebbe la libertà di
organizzazione sindacale. Rispetto ai rapporti individuali che il sindacato pone in essere nei confronti dei
terzi è configurabile una responsabilità contrattuale del sindacato. Il contratto concluso dal rappresentante
in nome e nell’interesse del rappresentato produce direttamente effetti nei suoi confronti.
Il funzionamento interno dei sindacati è regolato dalle disposizioni contenute negli atti costitutivi e
nei relativi statuti. Il lavoratore che si iscrive al sindacato si obbliga a osservare lo statuto, pagare i
contributi e a uniformarsi alle deliberazioni sindacali. Il lavoratore iscritto esercita i suoi diritti da associato
ed esiste sempre un’effettiva democrazia sindacale, dove le politiche sindacali sono decise dagli organi di
vertice del sindacato ma approvate dagli iscritti.
Il diritto sindacale si occupa anche di certe forme di lavoro autonomo, in particolare nella disciplina
sullo sciopero nei servizi essenziali.
Il sindacato si distingue dagli ordini professionali. Quest’ultimi sono organismi pubblici che tutelano
lo status del professionista in quanto tale.
Le associazioni degli imprenditori, per resistere alle rivendicazioni sindacali, hanno delineato
un’organizzazione di livello categoriale e intercategoriale e anche europeo. A livello intercategoriale le
associazioni si aggregano secondo tre settori economici: industriale, agricolo e terziario  Confindustria
riunisce al proprio interno varie categorie come Federmeccanica (imprese metal meccaniche) o
Federchimici. Essa ha come unità base l’associazione provinciale degli industriali. Associazioni simili sono la
Confcommercio e Confesercenti.
Gli enti bilaterali sono enti di fatto istituiti dai contratti collettivi e costituiti dai sindacati dei
lavoratori e dalle associazioni degli imprenditori che designano i rispettivi rappresentanti negli organi
dell’ente. Essi hanno la funzione di salvaguardare gli interessi degli uni e degli altri nella gestione e cura
delle materie affidate all’ente bilaterale.

SEZIONE II
I grandi sindacati in Italia hanno una struttura confederale, sono cioè associazioni intercategoriali
che riuniscono a livello nazionale i rispettivi sindacati nazionali delle diverse categorie merceologiche.
I sindacati di categoria riuniscono i lavoratori per ramo di industria prendendo come riferimento
organizzativo lo specifico settore produttivo in cui l’impresa opera. In tal modo quindi il sindacato organizza
i lavoratori per categoria merceologica , a prescindere dai diversi mestieri e all’interno di ogni categoria
possono essere presenti più sindacati .
Nel sistema corporativo la categoria preesisteva al sindacato, nel sistema attuale il sindacato
preesiste alla categoria. I sindacati nazionali delle diverse categorie riuniscono al proprio interno sindacati
regionali e questi a loro volta riuniscono quelli provinciali.
Esiste anche una struttura intercategoriale territoriale che riunisce i sindacati provinciali di diverse
categorie merceologiche in ambito provinciale.
Il sindacato di mestiere tipico delle prime forme di associazionismo operaio ha come punto di
riferimento l’attività lavorativa prestata dai singoli lavoratori. Il mestiere è stato il primo criterio di
aggregazione del sindacato.
Il ramo di industria invece è un criterio di aggregazione che soddisfa solidarietà più ampie poiché
raggruppa tutti i lavoratori di un determinato settore produttivo a prescindere dalle mansioni.
In Italia il sindacato esterno all’azienda ha avuto una struttura essenzialmente confederale e la
struttura aziendale si forma su base elettorale, rappresentando tutti i lavoratori dell’azienda. La
commissione interna rappresenta l’espressione più antica di questo tipo di rappresentanza; essa era un
organismo sindacale di matrice aziendale costituito da un determinato numero di seggi commisurato al
numero dei dipendenti dell’azienda. I seggi erano ripartiti tra le liste in misura proporzionale ai voti
conseguiti. Nel periodo autunno caldo 1968-1969 la commissione interna non fu più in grado di raccogliere
forte domanda di partecipazione dei lavoratori ed emersero due linee di politica sindacale: la prima (Cisl)
favorevole a mantenere anche all’interno dell’azienda una struttura sindacale associativa e la seconda
(Cgil), sosteneva l’apertura dei sindacato anche nei confronti dei lavoratori non iscritti. Tali tipi di struttura
sindacale, che sostituirono la commissione interna erano i delegati e il consiglio dei delegati o di fabbrica. Il
delegato rappresentava non tutti i dipendenti di un’azienda ma soltanto i lavoratori di un determinato
gruppo omogeneo. Esso non doveva essere necessariamente iscritto al sindacato e l’insieme dei delegati
dei reparti di un’azienda costituivano il consiglio dei delegati.
Rappresentanze sindacali aziendali art. 19 l. 300/1970: rappresentanze sindacali in azienda
possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni
sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva. La forma
giuridica delle r.s.a. non è regolata dall’art 19. Inoltre un’unica r.s.a può far capo a una pluralità di sindacati
esterni.
L’iniziativa dei lavoratori deve essere effettiva e può essere, o preventiva, o può risolversi
nell’approvazione o condivisione da parte dei dipendenti delle unità produttive interessate dalle scelte
dell’organismo aziendale. L’autonomia collettiva può stabilire requisiti minimi per la valida costituzione
delle r.s.a. In mancanza di tali indicazioni numeriche la Corte di Cassazione propende per la valida
costituzione della r.s.a anche da parte di un solo lavoratore. Tuttavia la rappresentanza sindacale deve
operare nell’ambito del sindacato .
L’unità produttiva deve essere individuata in ogni sede, stabilimento, filiale o ufficio o reparto
autonomo che occupi più di 15 dipendenti o anche un numero inferiore ma a condizione che l’impresa
occupi complessivamente più di 15 dipendenti nell’ambito dello stesso Comune.
L’accordo interconfederale del 1993 ha istituito le rappresentanze sindacali unitarie. Esso stabilisce
che le organizzazioni sindacali firmatarie o che vi aderiscano successivamente acquistano il diritto di
promuovere la costituzione delle Rappresentanze sindacali unitarie nonché il diritto a partecipare alle
elezioni, rinunciando formalmente all’istituzione di proprie rappresentanze sindacali. Questa struttura si
distingue dal consiglio dei delegati perché anzitutto l’accordo ha accolto il principio della rappresentanza
proporzionale ma ha previsto un correttivo introducendo rappresentatività bilanciata. Infatti 2/3 dei seggi
devono essere ripartiti fra varie liste sindacali in proporzione al numero dei voti conseguiti da ciascuna lista
e il terzo residuo è assegnato obbligatoriamente alle liste presentate dai sindacati firmatari dell’accordo
interconfederale e del CCNL applicato nell’azienda e alla sua copertura mediante elezione o designazione in
proporzione ai voti ricevuti. Questa disposizione serve a tutelare le ragioni del sindacato associazione. Le
elezioni sono valide se ad esse partecipa il 50% più uno dei lavoratori dell’azienda aventi diritto, tuttavia a
seconda della questione da discutere il quorum può essere modificato.
La durata del mandato è triennale e non sono consentite proroghe. All’accordo possono aderire
organizzazioni non affiliate alle confederazioni che hanno sottoscritto l’accordo all’origine e l’adesione
costituisce titolo per partecipare alle elezioni presentando una propria lista a condizione che abbiano
sottoscritto il contratto collettivo nazionale.
Le r.s.u. succedono alle r.s.a. nella titolarità dei diritti, permessi e libertà sindacali del titolo II dello
St. lav. e nella titolarità dei poteri e delle funzioni.
I sindacati firmatari riservano a se una parte dei diritti sindacali al fine di essere presenti in azienda
direttamente e non solo attraverso le r.s.u. per quanto attiene il diritto di indire l’assemblea dei lavoratori
durante l’orario di lavoro per 3 delle 10 ore annue retribuite spettante a ogni lavoratore; diritto ai permessi
non retribuiti e al diritto di affissione.
Esistono due clausole nel contratto interconfederale. La prima prevede la riserva che indica la
volontà dei sindacati firmatari di conservare a se medesimi una quota di diritti sindacali.
Differenze tra r.s.a. e r.s.u. diversa composizione= r.s.a. hanno dirigenti nominati dalle
organizzazioni sindacali mentre le r.s.u. sono eletti dai lavoratori nella misura dei 2/3. Il mandato elettorale
non è assimilabile al mandato associativo; quest’ultimo evoca e suppone la rappresentanza dei dirigenti
della r.s.a. al sindacato, mentre il mandato elettorale evoca rappresentanza politica e istituisce un
collegamento tra componente eletto e lavoratori iscritti e non iscritti.
Natura della r.s.u.= collegiale. I componenti delle r.s.u. e non già la r.s.u., subentrano ai dirigenti
delle r.s.a. nella titolarità dei diritti, permessi e libertà sindacali.
Possono essere costituite rappresentanze sindacali aziendali nell’ambito delle associazioni sindacali
che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva. La sottoscrizione di un
contratto collettivo anche solo aziendale abilita il sindacato ad essere ambito di riferimento per la
costituzione di una r.s.a.
Il testo originario dell’art. 19 l. 300/1970 prevedeva che le r.s.a potevano essere costituite ad
iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito delle associazioni aderenti alle confederazioni
maggiormente rappresentative sul piano nazionale e delle associazioni sindacali firmatarie dei contratti
collettivi nazionali o provinciali.
Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza  nelle aziende fino a 15 dipendenti è di norma
eletto direttamente dai lavoratori al loro interno; in quelle con numero di dipendenti maggiore di 15 egli
deve essere eletto all’interno delle rappresentanze sindacali in azienda. Il contratto collettivo stabilisce il
numero e le modalità di elezione, le funzioni e la retribuzione. Il rappresentante per la sicurezza ha diritto a
ricevere una formazione adeguata, elabora misure idonee a tutelare la salute e l’integrità fisica dei
lavoratori, riceve dalle aziende documentazione necessaria riguardante i rischi. Egli non può subire alcun
pregiudizio per lo svolgimento delle sue funzioni e gode delle stesse tutele riconosciute alle rappresentanze
sindacali aziendali.

SEZIONE II – RAPPRESENTANZA E RAPPRESENTATIVITA’ AZIENDALE


La rappresentatività indica l’idoneità del sindacato ad aggregare consenso, a rappresentare in senso
atecnico gli interessi di una collettività di lavoratori più ampia degli iscritti.
La rappresentanza invece è un istituto giuridico che assume precisi significati e produce effetti
precisi a seconda della sua qualificazione giuridica.
In Italia è sorta prima la rappresentanza sindacale intesa come potere del sindacato di compiere atti
in nome e per conto degli associati e poi la rappresentatività, intesa come giudizio di valutare l’importanza
del sindacato in base a determinati parametri o indici per risolvere eventuali contrasti tra i sindacati.
Secondo l’art. 39 Cost., la rappresentatività del sindacato è misurata dal numero degli iscritti e
ciascun sindacato ha un potere contrattuale proporzionato alla propria consistenza associativa.
La maggiore rappresentatività del vecchio art. 19 era riconosciuta in via presuntiva alle associazioni
sindacali per il fatto stesso di essere aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative;
“maggiormente” indicava una soglia al di sopra della quale tutti i sindacati erano egualmente
rappresentativi.
La maggiore rappresentatività entrò in crisi quando la crisi di rappresentatività del sindacato ha
incrinato l’unità di azione delle confederazione Cgil, CIS, Uil; anche la crescita dei sindacati autonomi
contribuì alla crisi della maggiore rappresentatività.
L’accordo interconfederale del 1993 ha introdotto il principio della rappresentatività effettiva e cioè
proporzionale al numero dei voti conseguiti da ciascuna lista sindacale che partecipa alle elezioni delle
rappresentanze sindacali in azienda. La rappresentatività dei sindacati confederali e nazionali è misurata in
ciascuna azienda attraverso l’elezione delle rappresentanze sindacali unitarie (misurabile a livello aziendale
e non nazionale).
Con il referendum del 1995 l’unico indice di riconoscimento della rappresentatività è direttamente
indicato dal legislatore nella stipulazione del contratto collettivo. Ne consegue che i sindacati che non
sottoscrivono il contratto non sono legittimati a costituire tali strutture e a esercitare i diritti derivanti.
Unità produttiva  contratti destinati a regolare stabilmente una serie di rapporti di lavoro o a
regolare un istituto del rapporto di lavoro (singoli reparti, filiali); i contratti applicati all’unità produttiva non
presuppongono necessariamente l’iscrizione del datore di lavoro all’associazione, ma che egli lo applichi.
La costituzione di una r.s.a. è l’effetto della stipula di un contratto collettivo di lavoro applicato
nell’unità produttiva. Le parti, neppure di comune accordo, possono indicare ai fini della costituzione di una
r.s.a. un soggetto diverso da quello che ha sottoscritto il contratto collettivo.
La sottoscrizione da parte del datore di lavoro del contratto collettivo non è un atto arbitrario del
medesimo ma il più delle volte della rappresentatività dei sindacati dei lavoratori.
Nelle aziende in cui siano costituite r.s.u. con le quali il datore di lavoro abbia già stipulato un
contratto aziendale, i sindacati aziendali che non abbiano aderito all’accordo interconfederale del 1993 o
non abbiano sottoscritto il contratto nazionale difficilmente potranno costituire nel proprio ambito r.s.a.
perché il datore di lavoro non avrà interesse a stipulare con essi un contratto distinto e comunque più
favorevole di quello stipulato con le r.s.u. .
L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 sembra introduca una soglia di rappresentatività per
essere ammessi alle trattative per la stipula del contratto nazionale. Le parti sociali hanno dichiarato nelle
premesse dell’Accordo di voler definire pattiziamente le regole in materia di rappresentatività delle
organizzazioni sindacali dei lavoratori. Secondo l’Accordo sono ammesse alle trattative le associazioni che
abbiano nel settore una rappresentatività non inferiore al 5% considerando a tal fine la media tra il dato
associativo e il dato elettorale. Il dato associativo si calcola percentualmente rapportando le deleghe
conferite dai lavoratori ad ogni associazione al totale delle deleghe conferite nel settore; il dato elettorale
invece si calcola percentualmente rapportando i voti ottenuti da ciascuna associazione sindacale nelle
elezioni delle r.s.u. con il totale di voti espressi. La soglia di rappresentatività non inferiore al 5% per
l’ammissione alle trattative si ottiene sommando i valori percentuali relativi al dato associativo e al dato
elettorale e dividendo per due il risultato ottenuto.
Il “sindacato comparativamente più rappresentativo” servirebbe a selezionare non tanto i soggetti
quanto il contratto, tra i più contratti collettivi stipulati nell’ambito della stessa categoria, al quale la legge
riconosce determinati effetti legali.

SEZIONE IV
Art. 14 St. lavoratori riconosce a tutti i lavoratori il diritto di svolgere attività sindacale nei luoghi di
lavoro mentre l’art. 19 individua i soggetti sindacali ai quali sono riconosciuti dalle norme successive dello
Statuto una serie di diritti che contribuiscono a rendere effettivo l’esercizio dell’attività sindacale sia dei
lavoratori che dei sindacati che abbiano certi requisiti. L’esercizio di questi diritti mette in risalto la
distinzione concettuale che intercorre tra libertà e attività sindacale; può esistere la prima e non anche la
seconda. I confini della liceità penale dell’attività sindacale coincidono con quelli indicati dalla Corte
Costituzionale a proposito dello sciopero politico.
Legittimate ad indire l’assemblea sul luogo di lavoro sono le r.s.a. anche nella forma del consiglio di
fabbrica e le r.s.u. costituite presso le aziende in cui trova applicazione l’accordo interconfederale del 1993.
Viene stabilito un termine minimo di preavviso, il cui mancato rispetto autorizza il datore di lavoro ad
opporsi allo svolgimento dell’assemblea senza intercorrere in sanzioni. L’assemblea può essere generale o
settoriale e può essere indetta congiuntamente o disgiuntamente dalle r.s.a. con l’obbligo di indicare al
datore di lavoro l’ordine del giorno, che deve riguardare materie di interesse sindacale e del lavoro.
L’assemblea può svolgersi fuori o durante l’orario di lavoro, ma in quest’ultimo caso ciascun lavoratore ha
diritto a un limite massimo di 10 ore annue retribuite.
La legittimazione ad indire l’assemblea spetta alle r.s.a. o alle r.s.u., quale soggetto collegiale che
pertanto decide a maggioranza. Il sindacato che ha stipulato il contratto collettivo nazionale può indire
assemblee nei limiti di tre ore annue. Il datore di lavoro ha l’obbligo di consentirne lo svolgimento
all’interno dell’azienda e di mettere a disposizione un locale con i servizi necessari e inoltre, con il preavviso
necessario, egli deve consentire l’accesso anche ai dirigenti del sindacato esterno che ha costituito la r.s.a.
Il referendum può essere indetto dalle r.s.a. solo congiuntamente e su materie di interesse
sindacale e del lavoro e dovrà svolgersi fuori dall’orario di lavoro. Questo è uno strumento di consultazione
dei lavoratori e non ha valore vincolante.
Una forma di garanzia particolarmente efficace è costituita dai permessi retribuiti e non retribuiti.
Essi spettano, in ragione al numero dei dipendenti dell’azienda, ai dirigenti delle r.s.a. che sono considerati
tali in quanto nominati secondo le procedure previste dallo statuto della struttura sindacale. Il diritto ai
permessi è potestativo e il suo esercizio determina la sospensione dell’obbligazione lavorativa. Il datore di
lavoro non può sindacare l’uso dei permessi. Questi vengono riconosciuti ai dirigenti nazionali e provinciali
dei sindacati maggiormente rappresentativi per la partecipazione alle riunioni degli organi suddetti o
l’aspettativa non retribuita per la durata del mandato.
In assenza di limiti stabiliti dal contratto collettivo spetta al giudice quantificare l’entità dei permessi
utilizzando come parametro di riferimento gli usi.
Beneficiari dei permessi sono i dirigenti appositamente indicati dalle r.s.a. i quali mantengono il
diritto a usufruire per la durata dell’incarico salvo che intervenga la destituzione da parte
dell’organizzazione sindacale nel cui ambito si è costituita la r.s.a. Tale destituzione non ha effetto nei
confronti dei componenti eletti nella r.s.u., quindi tali lavoratori non decadono dal godimento dei diritti
collegati alla qualifica.
L’art. 25 riconosce alle r.s.a. il diritto di affiggere comunicati testi e pubblicazioni di interesse
sindacale e del lavoro. Il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre per ciascuna r.s.a., all’interno dell’unità
produttiva, appositi spazi e bacheche destinati a questo scopo. Egli non ha il potere di sindacare il
contenuto di questi comunicati e nemmeno di rimuoverli.
Nelle aziende con più di 200 dipendenti il datore di lavoro ha l’obbligo di mettere a disposizione
delle r.s.a. un locale destinato all’esercizio della loro attività. Quando invece l’azienda ha meno di 200
dipendenti, il datore deve mettere a disposizione un locale ogni volta le r.s.a. lo richiedano.
La raccolta di contributi e l’opera di proselitismo sono i diritti riconosciuti dall’art. 26 St. lav. ai
lavoratori e alle loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro senza pregiudizio del normale
svolgimento dell’attività aziendale. In questo caso i diritti non sono riconosciuti solo alle r.s.a. e r.s.u. ma a
tutte le organizzazioni sindacali senza compromettere il normale svolgimento dell’attività aziendale da
intendersi in concreto con riferimento alla singola azienda e non in astratto. Il secondo e terzo comma
dell’art. 26 sono stati abrogati con il referendum del 1995 e questo ha eliminato l’obbligo per il datore di
lavoro di effettuare la trattenuta nella busta paga corrispondente al contributo sindacale dovuto dal
lavoratore al sindacato cui è iscritto. Obbligo che è diventato negoziale per i datori di lavoro che abbiano
sottoscritto i contratti collettivi che continuano a prevedere questa modalità. Le Sezioni Unite hanno
qualificato la cessione della retribuzione per il pagamento dei contributi sindacali come cessione del credito
del lavoratore.
Diritti di informazione e consultazione  il riconoscimento di tali diritti consente al sindacato di
conoscere preventivamente nella fase dell’informazione le scelte imprenditoriali e di condizionarle o
attraverso ricorso allo sciopero o avviando con il datore di lavoro una fase di consultazione che può
concludersi con accordi sindacali diretti a comporre in via negoziale eventuali ricadute economiche
giuridiche e sociali sui rapporti di lavoro derivanti dalle scelte imprenditoriali. L’esercizio di questi diritti non
attribuisce un potere di controllo al sindacato ne tanto meno un potere di veto. Essi erano stati creati
originariamente dalla contrattazione collettiva, successivamente però sono stati regolati anche dalla legge.
La qualificazione come condotta antisindacale dell’inosservanza da parte del datore di lavoro della
procedura di informazione e consultazione sindacale e la conseguente irrogazione della sanzione hanno
una duplice conseguenza: da un lato lasciano notevole spazio all’intervento del giudice ( che si ripercuote
sull’attività sindacale), dall’altro impongono all’interprete di definire il contenuto della sanzione.
Lo statuto del lavoratori prevede un particolare apparato di tutela per i dirigenti delle
rappresentanze sindacali al fine di assicurare lo svolgimento della loro attività sindacale e garantirli contro
eventuali ritorsioni del datore di lavoro. Questa tutela si concreta in una protezione specifica contro i
licenziamenti e contro i trasferimenti e vale per un periodo di un anno successivo alla cessione dell’incarico.
Sono beneficiari tutti coloro che hanno diritto ad usufruire dei permessi sindacali e che possono essere
qualificati come dirigenti sindacali. I soggetti tutelati possono essere trasferiti da un’unità produttiva ad
un’altra solo previo nulla osta delle associazioni sindacali cui appartengono; senza nulla osta nell’ambito
della stessa unità produttiva.
Viene prevista una particolare procedura cautelare per la reintegrazione nel posto di lavoro. Può
infatti essere immediata quando elementi di prova portati dal datore di lavoro davanti al giudice siano
irrilevanti o insufficienti e il datore che non procede alla reintegrazione va in contro ad una sanzione.

LIBERTA’ SINDACALE COME LIBERTA’ NEGOZIALE E COME LIBERTA’


DI INQUADRAMENTO SINDACALE
In un regime di libertà negoziale le parti sono libere di scegliere la controparte contrattuale; esiste il
principio del reciproco accreditamento (mutuo riconoscimento tra le parti).
In caso di contratti collettivi comparativamente più rappresentativi il datore di lavoro è obbligato a
convocare per le trattative i sindacati comparativamente più rappresentativi.
La previsione della condotta antisindacale non comporta per il datore di lavoro alcun obbligo a
negoziare.
Con la caduta dell’ordinamento corporativo è scomparsa anche la categoria che di
quell’ordinamento costituiva il fondamento. Le categorie erano autoritativamente individuate dalla legge,
la quale riconosceva ad un unico sindacato la rappresentanza legale di tutti i lavoratori appartenenti ad una
determinata categoria.
Nell’ordinamento attuale improntato sulla libertà sindacale il contratto collettivo determina il
proprio ambito di applicazione, pertanto la categoria non preesiste giuridicamente al contratto ma è
determinata dal contratto (= categoria contrattuale). Sono il datore di lavoro e i lavoratori a determinarne
l’ambito di applicazione. L’iscrizione al sindacato però è il criterio che identifica la categoria sindacale,
anche se questo non è sempre un dato sufficiente.
L’ambito di applicazione non deve essere confuso con il diverso aspetto dell’efficacia soggettiva del
contratto collettivo. Mentre il primo indica l’area dei potenziali destinatari del contratto collettivo e
conseguentemente i confini entro i quali un determinato contratto collettivo è suscettibile di essere
applicato , la seconda individua i lavoratori ai quali il trattamento economico e normativo previsto da un
determinato contratto collettivo viene effettivamente applicato.

LIBERTA’ SINDACALE NEL RAPPORTO DI LAVORO


La rilevanza della libertà sindacale nel rapporto individuale di lavoro impone al datore di lavoro
l’obbligo di non discriminare il lavoratore in ragione dello svolgimento dell’attività aziendale.
L’art. 15 St. lav. sancisce la nullità degli atti discriminatori precisando che possono essere qualificati
come tali tutti i patti o gli atti diretti a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che questo
aderisca e non aderisca a una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte. Sono discriminatori anche
tutti i patti o gli atti che determinano una disparità di trattamento del lavoratore rispetto ad un altro
nell’assunzione o nella mancata assunzione, licenziamento trasferimenti ecc.
Le cause discriminatorie possono essere sindacale, politica, religiosa, ma anche sesso , razza, lingua,
handicap, età, orientamento sessuale o convinzioni personali. La norma vieta sia la discriminazione
privativa, cioè tutti gli atti che incidono negativamente sulla sfera soggettiva del lavoratore discriminato, sia
la discriminazione concessiva, cioè tutti gli atti che omettono di ampliare la sfera di diritti del lavoratore
discriminato.
Mentre gli atti non vengono nominati e sono quindi un numerus clausus, i motivi discriminatori
vengono catalogati e specificati sono quindi tipici e nominati. L’atto discriminatorio è nullo poiché è diretto
a pregiudicare un lavoratore in ragione di una delle causali tipizzate dal legislatore.
Lo Statuto ha vietato oltre a discriminazioni che pregiudicano i diritti dei lavoratori altre disparità di
trattamento che si concretano nella corresponsione di vantaggi e benefici ai datori di lavoro che tengano un
certo comportamento.
L’art. 17 st. lav. vieta ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire e
sostenere organizzazioni sindacali dei lavoratori. La sanzione può comportare non tanto lo scioglimento di
questi ma anche la cessazione del sostengo del datore di lavoro al sindacato medesimo

REPRESSIONE DELLA CONDOTTA ANTISINDACALE


Questa disposizione ha un ambito di applicazione amplissimo sia per quanto riguarda i soggetti sia
per quanto riguarda i comportamenti del datore di lavoro vietati.
L’art. 28 assicura la tutela; questa può essere giurisdizionale inibitoria e ripristinatoria dell’interesse
sindacale leso, che è garanzia effettiva più efficace.
La scelta del legislatore di limitare la legittimazione a ricorrere ai soli organismi locali dei sindacati
nazionali è stata di grande equilibrio perché il sindacato quando promuove ricorso deve valutare anche le
ricadute che possono derivare dalla propria credibilità.
La fattispecie della condotta antisindacale conferma la funzione di contropotere al datore di lavoro
riconosciuta dal legislatore al sindacato esterno in azienda e prefigura l’intervento del giudice in un’area
riservata al rapporto tra le parti.
La condotta del datore di lavoro può essere definita antisindacale quando si oppone al conflitto e
non quando si oppone alle pretese del sindacato.
L’art. 28 è una norma in bianco perché non definisce una fattispecie specifica; infatti non garantisce
soltanto la tutela dei diritti previsti espressamente dallo Statuto ma in generale l’esercizio effettivo della
libertà sindacale, dell’attività sindacale e del diritto di sciopero. I beni oggetto della tutela possono essere
lesi da una varietà di comportamenti e da una serie di modalità che non è possibile prevedere a priori.
Non è considerata condotta antisindacale la cessazione definitiva di un’attività mentre può esserlo il
rifiuto ingiustificato di procedere su richiesta dei lavoratori alla trattenuta sullo stipendio dei contributi
sindacali, violazione di clausole normative del contratto collettivo. Anche la sostituzione dei lavoratori in
caso di sciopero viene considerata condotta antisindacale perché viola direttamente il diritto di sciopero,
assunzione di altri lavoratori in luogo di quelli scioperanti.
Non è richiesta la prova dell’intenzionalità del comportamento del datore di lavoro mentre la
condotta deve essere oggettivamente idonea a attuare e produrre il risultato vietato dalla legge e
consistente nella lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero.
Il requisito dell’attualità della condotta indica l’attualità degli effetti della condotta.
La condotta antisindacale può colpire l’interesse del sindacato in quanto associazione, l’interesse
collettivo dei lavoratori del quale è sempre portatore il sindacato e l’interesse del lavoratore singolo che
svolge attività sindacale.
Il comportamento del datore è definito plurioffensivo quando colpisce le prerogative del sindacato
e quindi l’interesse sindacale attraverso la lesione dei diritti soggettivi dei singoli lavoratori. Questa
condotta mette in evidenza come il sindacato e il singolo possano proporre due giudizi separati : quello per
la repressione della condotta antisindacale e quello per la tutela dei diritti soggettivi del singolo lavoratore
lesi dalla condotta. Tra le due azioni non c’è alcun nesso di pregiudizialità e possono concludersi
diversamente senza che per questo possa configurarsi un contrasto tra i giudicanti.
L’art. 28 legittima solo gli organismi locali dei sindacati nazionali a instaurare il procedimento di
repressione della condotta antisindacale. Si tratta di organismi territoriali di categoria a livello provinciale.
Sono quindi esclusi le r.s.a. e r.s..u. in quanto organismi sindacali aziendali o strutture sindacali aziendali di
rappresentanza dei lavoratori.
Legittimato passivo è solo il datore di lavoro mentre viene esclusa la legittimazione passiva delle
associazioni imprenditoriali che abbiano posto in essere comportamenti lesivi. Questo procedimento si
apre con una fase sommatoria davanti al giudice di primo grado del luogo in cui si è posto in essere il
comportamento denunziato. Il giudice non può provvedere su ricorso del sindacato senza sentire l’altra
parte ma deve consentire un contraddittorio. In questa fase, denominata sommatoria, l’istruttoria non è
svolta con l’espletamento degli ordinari mezzi di prova ma con l’assunzione di sommarie informazioni.
Il sindacato ricorrente non è obbligato a provare la sussistenza in concreto del periculum in mora
perche l’interesse sindacale è meritevole di siffatta tutela. La decisione della fase sommatoria avviene con
decreto motivato immediatamente esecutivo. Pertanto se la domanda del sindacato è accolta, il datore di
lavoro deve conformarsi subito all’ordine del giudice e protrarre tale ottemperanza anche durante le more
dell’eventuale opposizione e sotto accoglimento di questa può revocare l’efficacia esecutiva del decreto
fino a quel momento irrevocabile. La parte soccombente può proporre opposizione contro il decreto entro
il termine di 15 giorni dalla comunicazione di cancelleria davanti allo stesso giudice della fase sommatoria.
Il decreto passa in giudicato se la parte soccombente non esperisce opposizione nei termini.
L’attivazione del procedimento impedisce al sindacato legittimato di esperire la procedura d’urgenza.
Nel decreto il giudice ordina al datore di lavoro la cessazione del comportamento e la rimozione
degli effetti.
L’art. 28 ha previsto l’irrogazione di una sanzione penale e cioè l’arresto del datore di lavoro fino a 3
mesi come tecnica per indurre lo stesso datore a eseguire l’ordine in caso di inottemperanza

CONTRATTO E CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

TIPOLOGIA DEI CONTRATTI COLLETTIVI E CONTRATTO COLLETTIVO


DI DIRITTO COMUNE
L’art. 39 Cost. riconosce ai sindacati la legittimazione a stipulare contratti con efficacia per tutti gli
appartenenti alla categoria attraverso la costituzione di una rappresentanza unitaria proporzionale al
numero degli iscritti. Soluzione predisposta da questo articolo non è mai stata attuata dal legislatore
ordinario per ragioni tecniche e politiche.
Con la legge 741/1959 il Governo era delegato a recepire in decreti legislativi il contenuto dei
contratti collettivi in modo da attribuire agli stessi efficacia generale. La legge prevedeva un termine di un
anno entro il quale i decreti dovevano essere emanati, successivamente prorogato; legge di proroga però
venne dichiarata incostituzionale. Inizialmente i contratti recepiti nel termine originariamente previsto dalla
legge restarono in vigore, fino a quando la Corte costituzione li dichiarò illegittimi.
Nel periodo repubblicano si è sviluppata una copiosa fioritura di contratti a livello nazionale e dopo
il 1962 anche un doppio livello di contrattazione costituito dal contratto aziendale e nazionale. Tali contratti
non avevano tuttavia le caratteristiche del contratto corporativo e perciò furono denominato contratti
collettivi di diritto comune.
Di recente è stato previsto e regolato un contratto aziendale con efficacia per tutti i dipendenti
dell’azienda con funzione derogatoria non solo delle clausole del contratto nazionale ma anche delle norme
di legge inderogabili, anche se tuttavia questo contratto non ha avuto ancora pratica attuazione perché
assolve alla funzione di introdurre trattamenti peggiorativi rispetto alle previsioni di legge.

IL CONTRATTO COLLETTIVO DI DIRITTO COMUNE


Il contratto collettivo di diritto comune (area dell’autonomia privata) è un contratto atipico in
quanto soggetto alla disciplina dettata per i contatti in generale. La funzione caratteristica del contratto
collettivo è quella normativa, ossia quella di predeterminare il contenuto dei contratti individuali e di
stabilire i minimi di trattamento economico; esistono due livelli: nazionale e aziendale.
Il contratto collettivo nazionale ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e
normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale, mentre il
contratto aziendale tende a far emergere esigenze proprie degli specifici contesti produttivi.
Peculiarità del contratto collettivo rispetto agli altri contratti:
- Una delle parti, quella che rappresenta i lavoratori è necessariamente il soggetto collettivo
- Il contratto collettivo predetermina non solo il contenuto dei futuri contratti individuali ma
anche il contenuto di quelli in corso al momento della sua stipulazione sicché il contratto
collettivo spiega un’efficacia diretta nei confronti dei singoli lavoratori e dei datori di lavoro
iscritti al sindacato stipulante o in virtù della clausola di rinvio contenuta nel contratto
individuale tra lavoratore e datore.
I problemi aperti dalla natura privatistica del contratto collettivo sono quello dell’efficacia erga
omnes, quello della sua inderogabilità e quello dell’interpretazione.
I sindacati vogliono preservare la natura negoziale del contratto collettivo perché desiderano
regolare da sé i loro interessi e dall’altro hanno una vocazione egemonica a garantire a tutti i lavoratori
appartenenti alla categoria un trattamento minimo comune. È forte quindi l’esigenza del sindacato di
riconoscere al contratto collettivo l’efficacia generale.
L’efficacia soggettiva del contratto collettivo si estende anche ai rapporti di lavoro tra datori di
lavoro iscritti alle organizzazioni imprenditoriali stipulanti e lavoratori non iscritti al sindacato, in questi casi
il problema dell’efficacia si estende o con rimedi di diritto comune o con accettazione espressa o tacita. Un
altro modo di accettazione è la clausola di rinvio al contratto collettivo. Con essa le parti convengono di
assoggettare il rapporto posto in essere alla regolamentazione dettata da un determinato contratto
collettivo nazionale di categoria e dalle successive modifiche, in modo che le condizioni economico-
normative applicabili siano quelle del contratto nazionale di riferimento vigente. Questa clausola può
funzionare solo se il rinvio si rivolge ad un unico contratto collettivo applicabile.
Quando il datore di lavoro non sia iscritto al sindacato oppure non applica livelli contributivi previsti
dal contratto collettivo, il giudice ha il compito di determinare la retribuzione efficiente, ma non è obbligato
ad adottare come parametro quella del contratto collettivo.
Nei casi in cui l’applicazione del nuovo contratto collettivo sia rifiutata dai lavoratori non iscritti ad
alcun sindacato, o iscritti ad un sindacato dissenziente perché il contratto collettivo prevede trattamenti
peggiorativi rispetto a quelli regolati dal contratto collettivo ormai scaduto, il lavoratore non può
pretendere la conservazione del trattamento pregresso previsto dal contratto collettivo precedente. I
sindacati dissenzienti hanno la forza contrattuale di stipulare un diverso contratto collettivo, ovvero il
singolo lavoratore ha la forza contrattuale di ottenere dal datore di lavoro un trattamento più favorevole a
livello individuale.
Quando ci si trova davanti ad una pluralità di contratti collettivi nel ambito dello stesso settore
merceologico è sempre il giudice di merito a scegliere discrezionalmente come parametro di riferimento il
contratto collettivo più adeguato a realizzare il precetto della retribuzione sufficiente, che può essere anche
un contratto aziendale o territoriale, non necessariamente nazionale; il giudice di merito può considerare
quindi sufficiente la determinazione della retribuzione pattuita in sede aziendale in misura inferiore rispetto
a quella nazionale.
Tuttavia la Corte di Cassazione ha ritenuto che la determinazione giudiziale della retribuzione per
un importo inferiore ai minimi salariali previsti dalla contrattazione collettiva non può essere motivata con il
richiamo a condizioni ambientali o territoriali.
Art. 2077 cc regolava i rapporti tra contratto corporativo, qualificato atto normativo e contratto
individuale. Tuttavia la giurisprudenza lo continua ad applicare anche al rapporto tra contratto individuale e
contratto collettivo di diritto comune perché la sostituzione delle soluzioni peggiorative con quelle
migliorative non sono garantite da nessuna norma.
Art. 2113  da per scontato che possono essere inderogabili le clausole del contratto collettivo;
questa disposizione non ha la chiarezza dell’art. 2077.
Per la determinazione del trattamento più favorevole la posizione della giurisprudenza non è
univoca : secondo una parte si deve procedere a un raffronto tra i trattamenti complessivi previsti dal
contratto individuale e quelli previsti dal contratto collettivo.
- Criterio di conglobamento = applicare disciplina che risulta complessivamente più favorevole
per il lavoratore.
- Criterio di cumulo = applicazione delle clausole più favorevoli dei due contratti.
- Criterio della comparazione tra discipline di diverse istituti
Il contratto collettivo si divide di regola in una parte normativa e in una parte obbligatoria. Le
clausole normative sono così denominate perché vincolano direttamente i datori di lavoro e i lavoratori che
rientrano nell’ambito di efficacia del contratto collettivo. Tali clausole regolano le diverse fasi del rapporto
individuale di lavoro. La parte obbligatoria invece comprende le clausole che regolano i rapporti tra i
soggetti collettivi che hanno sottoscritto il contratto collettivo e conseguentemente non spiegano efficacia
nei confronti dei singoli.
Altre funzioni del contratto collettivo sono quella gestionale, quella autorizzatoria, quella
regolamentare- delegata e quella derogatoria.
I contratti gestionali non spiegano efficacia direttamente sul rapporto di lavoro, ma costituiscono
solo un momento del procedimento che l’imprenditore deve seguire per esercitare un proprio potere sul
piano del rapporto individuale di lavoro; tali accordi sono previsti dalla legge. Esistono anche accordi
gestionali che non rientrano tra quelli richiamati dalla legge e tuttavia contengono una serie di impegni
come quello di riassumente un certo numero di lavoratori licenziati o quello di avviare nuove iniziative
produttive o nuovi investimenti; in questi casi è necessaria un’indagine del giudice per accertare se le parti
abbiano effettivamente riconosciuto diritti imputabili ai singoli lavoratori individuati o individuabili dal
contratto.
L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 attribuisce espressamente al contratto collettivo
aziendale la funzione derogatoria rispetto a quello nazionale.
I rapporti tra legge e contratto collettivo di diritto comune sono regolati sulla base del principio di
gerarchia che vede norme inderogabili di legge sovraordinate all’autonomia privata, seppur collettiva.
Il contratto collettivo di diritto comune è sottordinato alla legge e ciò comporta l’inderogabilità in
peius della norma di legge da parte del contratto collettivo e la nullità delle clausole del contratto difformi o
peggiorative della norma legale. È ammessa la deroga in meius della disciplina legale da parte del contratto
collettivo a meno che la stessa legge non preveda una inderogabilità assoluta.
Esistono una serie di integrazioni tra norma legale e collettiva, quando il contratto collettivo viene
stipulato all’esito finale delle procedure di consultazione sindacale; questi contratti collettivi non producono
direttamente effetti sui rapporti individuali di lavoro e non appartengono alla specie dei contratti normativi.
L’efficacia di questo tipo di contratti si esplica solo nei confronti degli imprenditori stipulanti o del singolo
imprenditore nel caso di accordo aziendale. Riconoscendo a tali accordi una funzione gestionale o
regolamentare delegata e quindi escludendo la funzione normativa degli stessi accordi, si sono superati i
problemi derivanti dall’efficacia soggettiva limitata agli iscritti. I singoli lavoratori sono legittimati ad
impugnare gli atti del datore di lavoro non conformi alle procedure.
In altri casi il legislatore ha superato anche il tradizionale principio del favor in base al quale il
contratto collettivo dovrebbe contenere clausole sempre più favorevoli rispetto alle norme di legge; il
legislatore ha introdotto limiti massimi di trattamento dell’autonomia collettiva con riferimento a accordi
futuri e presenti.
I livelli contrattuali sono principalmente quello aziendale e quello nazionale. Il contratto nazionale
disciplina di solito alcune materie come la costituzione e la cessazione del rapporto di lavoro, le diverse
forme di assunzione, il periodo di prova, l’inquadramento in livelli professionali, le diverse indennità, orario
di lavoro e ferie, tfr e parte relativa a regolamentazione delle relazioni sindacali. In questa parte
l’associazione dei datori di lavoro e i sindacati nazionali di categoria regolano i loro reciproci rapporti, la
struttura della contrattazione, durata del contratto collettivo, i termini e le condizioni di rinnovo (= parte
obbligatoria del contratto collettivo).
Anche il contratto aziendale in generale dovrebbe essere ritenuto valido solo nei confronti degli
iscritti all’associazione sindacale che lo ha stipulato. L’accordo interconfederale del 1993 tuttavia prevedeva
il principio della cd doppia titolarità negoziale( contratto stipulato da associazioni territoriali firmatarie +
rsu).
Efficacia soggettiva del contratto aziendale  il problema dell’efficacia erga omnes del contratto
aziendale non si è ,ai posta in concreto fino a quando detto contratto non si è posto come acquisitivo. Il
problema del rifiuto degli effetti del contratto aziendale da parte dei lavoratori non iscritti ad alcun
sindacato o iscritti a un sindacato dissenziente si è posto quando questo ha cominciato a introdurre
deroghe al contratto nazionale e a stabilire trattamenti deteriori. È possibile individuare 3 orientamenti:
- Il contratto aziendale sarebbe efficace erga omnes per la sua oggettiva funzione di
regolamentazione uniforme e per l’indivisibilità degli interessi collettivi della comunità
aziendale
- 2° orientamento = il contratto sarebbe efficace esclusivamente nei confronti dei soggetti iscritti
alle associazioni stipulanti;
- 3° orientamento = contratto aziendale avrebbe efficacia generale salvo il dissenso sindacale.
L’efficacia soggettiva del contratto aziendale anche nei confronti dei lavoratori dissenzienti è
regolata oggi dall’accordo interconfederale del 2011.
Usi aziendali = concessione generalizzata, durevole e costante da parte del datore di lavoro di
trattamenti non previsti da altre fonti; rilevando come usi negoziali, non sono modificabili dalla disciplina
collettiva successiva, ma possono essere modificati con il consenso dei lavoratori.
Il contratto collettivo può essere a tempo indeterminato o a tempo determinato. A tempo
indeterminato il contratto produce effetti fino a quando una delle parti non decide di recedere dal
contratto stesso. Se invece è a tempo determinato, alla scadenza del termine cessa di produrre effetti a
meno che non sia presente una clausola di ultrattività o di rinnovo automatico.
La clausola di ultrattività opera alla scadenza del termine originariamente stabilito con l’effetto di
trasformare il contratto collettivo scaduto in un contratto a tempo indeterminato, destinato a produrre
effetti fino alla rinegoziazione del contratto stesso. Laddove sia prevista una clausola di rinnovo automatico,
alla scadenza del termine il contratto collettivo si rinnova tacitamente per un periodo pari a quello
originariamente stabilito.
Il rinnovo tacito può essere evitato dalla disdetta, che può essere intimata da ciascuna delle parti
prima della scadenza. Essa si differenzia dal recesso, che è l’atto con il quale una delle parti fa venir meno il
rapporto giuridico di quel contratto ed è regolato dal c.c. ; il recesso può essere esercitato solo laddove il
contratto collettivo è a tempo indeterminato.
In caso di successione tra contratti collettivi dello stesso livello, le clausole del nuovo contratto si
sostituiscono completamente a quello del vecchio, che siano meno o più favorevoli.
I diritti del lavoratore possono avere origine in norme inderogabili di legge, di contratto collettivo e
in clausole del contratto individuale. I diritti che hanno la loro fonte in norme inderogabili di legge non
possono essere modificati o eliminati dal contratto collettivo, neppure su mandato espresso del singolo
lavoratore. I diritti che hanno origine i sono quantificati dal contratto collettivo sono modificabili anche in
peius da un contratto successivo fino a quando non siano acquisiti nel patrimonio del lavoratore. E infine i
diritti riconosciuti dal contratto individuale non possono essere eliminati dal contratto collettivo successivo.
Quindi i diritti acquisiti definitivamente al patrimonio del lavoratore possono essere qualificati
come situazioni esaurite e vanno distinte dalle pretese a conservare stabilmente il miglior trattamento
previsto dal contratto collettivo precedente.
La giurisprudenza prevalente ha stabilito che in caso di contratti di diverso livello non fosse
applicabile l’art. 2077 cc e neppure il criterio della gerarchia tra contratti collettivi. Solo per un certo
periodo di tempo la giurisprudenza ha accolto quello cronologico, successivamente abbandonato perché
presuppone che la regolamentazione provenga dalla stessa fonte mentre nel caso in esame è contenuta in
fonti diverse. In seguito è stato accolto il criterio della specialità, ossia la prevalenza del contratto aziendale,
anche se peggiorativo perché più vicino agli interessi da regolare, criterio temperato da quello della
competenza e dell’autonomia , che trova applicazione soltanto nelle ipotesi in cui tale contratto sia stato
siglato dalle articolazioni locali delle organizzazioni firmatarie del contratto collettivo di ambito più esteso.
Il problema si pone quando il contratto aziendale peggiorativo sia sottoscritto da soggetti sindacali
appartenenti a sigle diverse da quelle che hanno sottoscritto il contratto nazionale  il contratto aziendale
può intervenire sulle materie delegate da parte della legge e del contratto nazionale. L’accordo del 2011
ammette la possibilità del contratto aziendale di derogare quello nazionale. Tuttavia le clausole dell’accordo
interconfederale hanno efficacia obbligatoria e non reale.
Il contratto aziendale può essere derogato in peius da un contratto nazionale successivo salvo che
con questo non venga, nell’esercizio dell’autonomia delle stesse parti stipulanti, espressamente pattuito il
mantenimento in vigore di una più favorevole disciplina.
Problema dell’interpretazione del contratto collettivo  le clausole normative contengono precetti
generali ed astratti diretti a destinatari diversi dai suoi autori. I rinnovi periodici del contratto collettivo
possono comportare modifiche parziali, correttivi, adattamenti, bilanciamenti e compensazioni tra le parti,
che non sostituiscono integralmente il testo del precedente contratto collettivo ma determinano varie
discipline collettive.
Alla formula di una clausola contrattuale che pure rimanga inalterata può essere attribuito dalle
parti un significato diverso da quello originario a seguito delle modifiche dell’ambiente sociale e del
contesto sindacale in cui si inserisce il rinnovo contrattuale.
Per l’interpretazione dei contratti collettivi diventa irrilevante il comportamento delle parti durante
le trattative se i verbali non sono pubblicati.
La conclusione avviene sulla base di un compenso già deciso nelle direttive delle assemblee e nei
punti contrattuali; quindi l’unico parametro di riferimento rimane il testo contrattuale.
Quando oggetto dell’interpretazione non è il contratto collettivo con funzione normativa, ma quello
con funzione paralegislativa, all’interprete è consentito di ricorrere ai criteri di interpretazione oggettiva,
non soltanto in via sussidiaria ma anche in via alternativa rispetto ai criteri di interpretazione soggettiva.
Art. 420 bis c.p.c.  facoltizza il giudice a sospendere il giudizio quando deve definire una
controversia sulla validità efficacia o interpretazione delle clausole di un contratto collettivo nazionale. La
sospensione del processo ha lo scopo di consentire alle parti di addivenire ad un accordo sostanzialmente
transattivo anche se si chiama interpretazione autentica. Si può riscontrare un processo di pubblicizzazione
del lavoro privato inverso rispetto a quello di privatizzazione del lavoro pubblico.
Art. 360 n. 3 c.p.c.  C. di Cassazione assolve alla funzione di nomofiliachia non soltanto rispetto
alla legge ma anche ai contratti collettivi nazionali che disciplinano i rapporti alle dipendenze di datori di
lavoro privati e pubblici.
I criteri oggettivi sono sussidiari e non alternativi a quelli soggettivi.
Il contratto collettivo rileva come fonte dell’ordinamento intersindacale mentre, sulla base del
principio di legalità, resta un atto di autonomia privata nell’ordinamento statale.

CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
Il contratto collettivo è il risultato della contrattazione collettiva. Questa, pur manifestandosi
periodicamente con il rinnovo dei contratti, è in realtà un processo continuo quindi realizza un progressivo
adattamento delle condizioni economiche e normative dei lavoratori al contesto produttivo e alle sue
esigenze economiche e organizzative e tende alla realizzazione del principio di uguaglianza.
Le procedure di stipulazione del contratto nazionale non sono regolate da norme di legge, ma dagli
stessi contratti.
Il protocollo interconfederale del 1993 prevede meccanismi di raffreddamento volti a prevenire
azioni dirette durante le trattative, garantendo ai lavoratori uno specifico emolumento (indennità di
vacanza contrattuale) al prolungarsi delle stesse oltre i limiti. In caso di mancato rinnovo del contratto
collettivo sono spesso proclamati scioperi e può intervenire la mediazione di un soggetto pubblico. Ogni
fase di mediazione non risulta formalizzata ossia non è regolata ne da norme ne dallo stesso protocollo.
Le trattative si chiudono con la sottoscrizione dell’ipotesi di accordo, il cui testo sintetizza le
reciproche concessioni che le parti inevitabilmente si fanno durante la negoziazione. L’ipotesi di accordo
non coincide mai con la piattaforma rivendicativa sulla quale si è iniziato a trattare. Prima della stipulazione
del contratto, le ipotesi di accordo sono sottoposte all’approvazione dei lavoratori tramite assemblee
oppure referendum, approvazione che ha più valore politico che giuridico.
Possono sorgere problemi quando più associazioni sindacali si dichiarano rappresentative di una
stessa categoria o quando sussista un dissenso tra associazioni sindacali sull’ambito di applicazione del
contratto collettivo.
La contrattazione collettiva si atteggia diversamente a seconda dei mutevoli contesti socio
economici in cui si colloca. L’evoluzione dei contratti collettivi è contrassegnata da fasi alterne di
centralizzazione e di decentramento contrattuale. La stessa contrattazione decentrata ha assunto diverse
funzioni: da contrattazione acquisitiva, in periodi di espansione economica si è evoluta in contrattazione
ablativa, finalizzata al contrario a introdurre condizioni peggiorative, in periodi di recessione.
Con la caduta dell’ordinamento corporativo nasce in Italia un sistema improntato all’autonomia
delle relazioni sindacali incentrato su un solo livello di contrattazione = nazionale. Le confederazioni non
sono competenti a stipulare contratti nazionali ma gli accordi interconfederali hanno perciò un ambito
intercategoriale. Questi ultimi si distinguono dai contratti nazionali perché non regolano il contenuto dei
rapporti di lavoro ma i singoli istituti o materie che interessano tutte le categorie merceologiche. Mentre
sono le federazioni nazionali di categoria le strutture legittimate a stipulare contratti nazionali che
disciplinano i minimi di trattamento economico e normativo e le relazioni sindacali tra i soggetti stipulanti.
Negli anni 60 le categorie dei sindacati metalmeccanici firmarono un accordo che stabiliva i principi
del nuovo sistema contrattuale articolato su due livelli denominato di contrattazione articolata poi recepito
dai diversi contratti nazionali di categoria. La contrattazione aziendale, in un periodo di boom economico,
era essenzialmente acquisitiva, volta a introdurre trattamenti migliorativi. I miglioramenti introdotti dalla
contrattazione aziendale venivano generalmente riproposti nei successivi rinnovi e finivano per essere
estesi ad un’ampia fascia di lavoratori.
Il contratto nazionale determinava le materie e gli istituti regolati dagli altri livelli contrattuali. Gli
agenti contrattuali del livello territoriale erano di regola i sindacati provinciali ossia sindacati esterni
all’azienda, per l’inesistenza all’epoca di strutture sindacali interne e perché la commissione interna non
aveva competenza contrattuale.
La contrattazione articolata fu importante dal punto di vista del principio di decentramento. Gli
imprenditori non accentrarono passivamente la contrattazione articolata ma ottennero quale contropartita
la sottoscrizione da parte dei sindacati delle clausole di pace sindacale, finalizzate a non promuovere azioni
o rivendicazioni intese a modificare, integrare, innovare quanto già accordato ai vari livelli di contrattazione
nel periodo che intercorreva tra un rinnovo e l’altro. Gli imprenditori con queste clausole di pace sindacale
quantificavano preventivamente il costo del lavoro per l’intera vigenza del contratto.
Sul finire degli anni 60 iniziarono iniziative spontanee di lotta sindacale dei lavoratori attraverso la
costituzione di comitati unitari di base (CUB) = organizzazioni di lavoratori che senza mediazione delle
strutture sindacali avanzavano nuove rivendicazioni. La protesta dei lavoratori era diretta non solo contro
la controparte imprenditoriale ma anche contro il burocratismo e il verticismo delle organizzazioni
sindacali.
Il contratto dei metalmeccanici del 1969 chiuse l’autunno sindacale caldo e decretò anche la fine
della contrattazione articolata, non conservando le competenze della contrattazione aziendale e
delineando un sistema nuovamente centralizzato. Alla contrattazione articolata si sostituì la contrattazione
non vincolata: un sistema di relazioni sindacali articolato ancora su due livelli nazionale e decentrato ma
non più coordinati tra di loro. Conseguentemente il contratto aziendale finiva per regolare di nuovo tutte le
materie già disciplinate dal contratto nazionale.
Il periodo di recessione economica determinato anche dalla prima crisi petrolifera determinò un
aumento considerevole dei prezzi e un conseguente aumento salariale. Il meccanismo di contingenza fu
considerato responsabile dell’aumento dell’inflazione e del valore nominale dei salari, tanto che l’accordo
interconfederale del 1976 sterilizzò la contingenza dalla base di calcolo dell’indennità di anzianità. Con
l’accentuarsi della crisi il contratto aziendale cominciò a introdurre clausole peggiorative rispetto a quelle
del contratto nazionale.
Negli anni 80 ci fu il primo protocollo triangolare che aprì la stagione della concertazione.
Accordo interconfederale 1993  delinea nuovamente un sistema di contrattazione collettiva
articolato in due livelli, quello nazionale(centrale) e quello territoriale e/o aziendale (decentrato) . Il
contratto collettivo aveva durata quadriennale per la parte economica e biennale per quella retributiva.
L’aumento delle retribuzioni in sede di rinnovo biennale era collegato al tasso di inflazione programmata. Il
contratto decentrato doveva intervenire su materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli regolati
dal contratto di primo livello. Le trattative dovevano aprirsi 3 mesi prima della scadenza del contratto.
Accordo interconfederale 2011  conferma la formalizzazione dei due livelli di contrattazione,
nazionale e aziendale. Questo è stato in seguito integrato con una nota volta ad esprimere l’intenzione
delle parti di attuare compiutamente l’accordo interconfederale. Le principali aree di intervento
dell’accordo erano la rappresentatività sindacale ai fini della contrattazione nazionale(1), la struttura della
contrattazione collettiva e le competenze della contrattazione di secondo livello(2 e 3), l’efficacia generale
del contratto collettivo aziendale, distinguendo a seconda che questo sia stipulato dalle rsu(4) o rsa(5), gli
effetti delle clausole di tregua sindacale(6) e la possibilità del contratto aziendale di modificare in senso
peggiorativo le regolamentazioni contenute nel contratto nazionale (7).
La prima clausola stabilisce che i requisiti di rappresentatività ai fini dell’ammissione alle trattative
per il contratto nazionale prevedendo un meccanismo di misurazione matematica della soglia di
rappresentatività richiesta. Sono prospettabili due interpretazioni: prima, la fissazione della soglia di
rappresentatività minima indica soltanto la legittimazione reciproca che le parti firmatarie intendono
riconoscersi ma non implica alcun obbligo a negoziare con i soggetti rappresentativi; la seconda, la
fissazione di una soglia minima di rappresentatività potrebbe fondare un vero e proprio diritto dei soggetti
rappresentativi a essere convocati al tavolo delle trattative, ferma restando la necessità di procedere
all’attuazione di quanto previsto dallo stesso accordo per misurare la rappresentatività di ciascuna
organizzazione sindacale.
In caso di mancata convocazione si tratta con quali strumenti si possa far valere in giudizio. Non è
utilizzabile l’art. 28 perché esso reprime la condotta antisindacale del datore di lavoro; si potrebbe pensare
invece all’art 700 cpc al fine di ottenere un provvedimento d’urgenza.,
La contrattazione aziendale si esercita per le materie delegate dal contratto nazionale e dalla legge.
La delega presuppone che la materia non sia regolata da contratto nazionale o dalla legge e debba essere
regolata dal contratto aziendale. Si deve ritenere pertanto che la contrattazione aziendale non possa
riproporre questioni che siano già state negoziate in altri livelli di contrattazione. In assenza di una delega
espressa a disciplinare una determinata materia, il contratto aziendale non potrà dettare alcuna
regolamentazione.
L’accordo del 2011 realizza un equilibrio tra le confederazioni storiche con riferimento ai soggetti
legittimati a stipulare il contratto aziendale.
La legittimazione a stipulare il contratto aziendale è riconosciuta alle rsu o rsa e in entrambi i casi
può avere efficacia generale. Nel caso di stipulazione da parte delle r.s.u. il contratto è efficace nei confronti
di tutto il personale e vincola tutte le associazioni sindacali firmatarie dell’accordo interconfederale e
approvate dalla maggioranza dei componenti della r.su. stessa.
Quando l’accordo stabilisce l’efficacia per tutto il personale in forza non può che vincolare in realtà i
soli lavoratori iscritti alle associazioni sindacali espressione delle confederazioni firmatarie. Detta efficacia è
stabilita da un atto negoziale e non da un atto normativo.
Il riferimento al criterio della maggioranza conferma la natura di organo collegiale delle r.s.u. .
Laddove le r.s.u. non fossero presenti, resta fermo il potere delle r.s.a. . Anche il contratto aziendale
stipulato dalle r.s.a. può avere la medesima efficacia generale se le r.s.a. che lo sottoscrivono aggregano la
maggioranza delle deleghe conferite dai lavoratori dell’azienda. È possibile verificare effettivamente il
consenso che l’accordo incontra tra i lavoratori attraverso la promozione di un referendum volto a spingere
l’intesa. L’equilibrio raggiunto dell’accordo interconfederale sta nell’aver bilanciato la competenza
negoziale delle r.s.a. con lo strumento del referendum.
Le clausole di tregua sindacale disciplinano le modalità di sciopero. Secondo un’autorevole dottrina
il dovere di pace sindacale sarebbe un effetto naturale del contratto collettivo e le clausole di tregua
potrebbero vincolare non solo i soggetti collettivi ma anche i singoli lavoratori. Secondo un’altra opinione le
clausole di tregua impegnerebbero i soli soggetti sindacali a non proclamare lo sciopero nell’arco di vigenza
del contratto collettivo ma senza vincolare i singoli lavoratori, che resterebbero liberi di esercitare il diritto
di sciopero anche in assenza di proclamazione. Il protocollo del 1993 aveva previsto in occasione del
rinnovo del contratto collettivo un periodo di raffreddamento durante il quale le parti si impegnano a non
assumere iniziative unilaterali ne a procedere ad azioni dirette tre mesi prima e un mese dopo la scadenza
del contratto (il protocollo vincolava le parti collettive e non i singoli lavoratori). Anche l’accordo del 2011
esclude espressamente l’efficacia nei confronti dei singoli lavoratori delle clausole di tregua sindacale
finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva.
L’inadempimento della clausola di tregua obbligherebbe il sindacato al risarcimento del danno nei
confronti della controparte, ma di fatto la difficoltà di determinare i danni risarcibili e di quantificarli non
consente una concreta possibilità di tutela risarcitoria. Dovrebbero essere le stesse clausole di tregua a
prevedere sanzioni alternative nei confronti dei soggetti sindacali responsabili della loro violazione, ma
sono pressoché inesistenti nel settore industriale.
L’accordo interconfederale regola anche le condizioni alle quali in contratto aziendale può
modificare quanto previsto dal contratto nazionale, laddove il riferimento alle modifiche deve essere inteso
in senso peggiorativo. L’accordo interconfederale distingue la disciplina a regime da quella transitoria. A
regime, i contratti aziendali possono prevedere deroghe alla regolamentazioni contenute nei contratti
nazionali nei limiti e secondo procedure previste dagli stessi contratti nazionali.
Differenza tra delega e deroga  la delega attribuisce al contratto aziendale la competenza a
regolare una materia che il contratto nazionale rinuncia a disciplinare o detta solo una regolamentazione di
principio destinata ad essere attuata e integrata da quella di dettaglio affidata al contratto aziendale. Tra le
due regolamentazioni, quella nazionale e quella aziendale non c’è nessun conflitto. In caso di deroga
invece, il contratto aziendale interviene a regolare una materia stabilendo condizioni peggiorative rispetto a
quella già prevista dal contratto nazionale (si verifica concorso/conflitto tra discipline pattizie i cui criteri di
risoluzione sono però già predeterminati dal contratto nazionale).
In mancanza di un’espressa previsione del contratto nazionale, il contratto aziendale non sembra
legittimato a intervenire in senso peggiorativo.
La seconda parte della clausola 7, in via transitoria, infatti, prende in considerazione l’ipotesi in cui
la possibilità per il contratto aziendale di prevedere deroghe peggiorative non sia ancora prevista dai
contratti nazionali, in attesa dei rinnovi degli stessi  deroghe peggiorative ammesse solo con riferimento
agli istituti del contratto nazionale che disciplinano determinate materie seppure molto ampie ai soli fini di
gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi.
Nel 2011 la FIAT è uscita dal sistema confindustriale e non risulta ulteriormente vincolata ad alcun
accordo interconfederale e ha pertanto dato vita ad una propria contrattazione. Infatti esiste oggi un suo
contratto collettivo specifico di lavoro di primo livello, che garantisce ai lavoratori alcuni aumenti retributivi,
ma richiede nel contempo sacrifici. Inoltre la FIAT ha assunto diverso atteggiamento nei confronti
dell’accordo del 2011 con riferimento alle clausole di tregua sindacale e la responsabilità per il loro
inadempimento; sono previste anche sanzioni disciplinari nei confronti dei singoli lavoratori in caso di
violazione delle clausole di tregua. Dette clausole inciderebbero in realtà su comportamenti illeciti o di
inadempimento dei singoli lavoratori, senza riguardare l’esercizio del diritto di sciopero.
Esistono dubbi sulla qualificazione del contratto FIAT come contratto di primo livello (categoria) 
il contratto di categoria infatti deve trascendere la singola azienda per quanto importante sul territorio
nazionale; è importante perché assicura condizioni uguali a tutti i lavoratori presenti nello stesso settore
merceologico. Questo contratto essendo l’unico applicato dalla FIAT, la mancata sottoscrizione della Cgil
esclude automaticamente la Fiom dalla possibilità di riconoscere proprie r.s.a. all’interno dell’azienda.
Il protocollo non sottoscritto dalla Fiom introduce modifiche al contratto nazionale principalmente
in materia di orario di lavoro e maggiorazioni retributive per il lavoro straordinario, notturno e festivo.
L’art. 8 d.l.n. 138/2011 ha due effetti peculiari : efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati
e la possibilità di derogare non solo ai contratti nazionali ma anche a norme di legge. La legge lascia alle
parti l’iniziativa in ordine all’effettiva stipulazione di questi particolari contratti aziendali e la disposizione
non ha avuto pressoché attuazione. L’efficacia erga omnes dei contratti ex art. 8 è una vera e propria
efficacia generale perché è stabilita da un atto normativo, gli effetti quindi si producono nei confronti di
tutti i lavoratori interessanti indipendentemente da ogni altra circostanza. L’art. 8 individua direttamente le
materie sulle quali i contratti di prossimità sono abilitati ad intervenire con efficacia generale e/o
derogatoria. Su queste materie si può intervenire a prescindere da eventuali deleghe da parte dei contratti
negoziali.
L’efficacia derogatoria dei contratti ex art 8 si spinge fino alle norme di legge. questa mette in
discussione l’impianto generale del diritto del lavoro fondato sulla inderogabilità della norma a tutela del
contraente debole.
L’accordo del 2011 scardina il tradizionale rapporto tra rappresentatività e contrattazione
anteponendo la prima alla seconda. La rappresentatività dipende dalla contrattazione: l’aver partecipato
alle trattative era uno degli indici della maggiore rappresentatività, mentre al livello aziendale l’aver
stipulato un contratto collettivo è l’unico requisito per costituire una r.s.a.

LA PARTECIPAZIONE DEL SINDACATO ALLA FUNZIONE PUBBLICA E


LA CONCERTAZIONE
Il sindacato ha sempre assunto più vistosamente nel tempo il ruolo di negoziatore di riforme
politiche e cioè diventa soggetto politico. La partecipazione al sindacato alla funzione pubblica si realizza in
diverse forme. La prima è la designazione dei propri rappresentanti in organi di rilievo costituzionale come il
CNEL, nei consigli degli enti previdenziali, nelle commissioni regionali per l’impiego o negli organi di
certificazione. In secondo luogo, partecipa alle audizioni parlamentari per far valere le proprie istanze
nell’iter parlamentare di approvazione della legge.
La partecipazione del sindacato alla funzione pubblica non ne altera la natura privata, ma supera la
funzione tradizionale di autotutela e rappresenta interessi più ampli del proprio. Nello svolgimento di
questa funzione, il soggetto sindacale che partecipi a tali organi ed attività resta comunque libero di
continuare la propria azione di autotutela e non si impegna con l’autorità pubblica con alcun tipo di
accordo.
A partire dagli anni 80 si avviò un nuovo e diverso metodo di consultazione da parte del governo
delle parti sociali sulle scelte di politica economica nazionale, denominato di concertazione.
Il protocollo “Scotti” del 1983 fu in primo protocollo triangolare; patti di questo accordo furono non
solo i sindacati dei lavoratori e le associazioni degli imprenditori ma anche il Governo. Questo accordo
realizzava tra le parti un primo scambio politico: il governo compensava i costi sostenuti dalle parti sociali
con benefici a carico della finanza pubblica in cambio del loro assenso alle linee di politica economica del
governo  sezione denominata concertazione sociale e si concreta in uno scambio politico che varia nelle
diverse epoche.
I primi protocolli scambiano l’obiettivo del contenimento del costo del lavoro con la gestione e il
controllo sindacale della flessibilità dei rapporti di lavoro.
I sindacati, mediante la sottoscrizione degli accordi triangolari, diedero vita a un sistema di relazioni
sindacali che si differenziava sia dall’esperienza della cogestione di matrice tedesca, sia da quella
tipicamente conflittuale propria dell’esperienza sindacale italiana degli anni 70.
L’accordo del 1984 (di S. Valentino) fu siglato dalla Cisl e Uil ma non dalla Cgil perché questa non
ritenne adeguata la copertura delle retribuzioni dall’inflazione; in quella circostanza il governo decise di
recepire in un decreto legge i principali contenuti dell’accordo, sancendo la rottura della concertazione e
soprattutto determinando un’invasione di campo della legge in una materia fino ad allora riservata alla
contrattazione collettiva.
Luglio 1993 fu siglato un Patto nuovo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti
contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo. Questo protocollo conteneva
clausole giuridicamente vincolanti per le parti sociali e ha favorito la riduzione delle spinte inflazionistiche
spostando a livello aziendale la determinazione della retribuzione variabile.
Sono riconosciuti due livelli di contrattazione, nazionale e territoriale o aziendale con competenze
coordinate e non sovrapposte soprattutto in materia di retribuzione.
Con il protocollo del 1993 la comparazione tra l’inflazione programmata e quella effettiva non
comporta un aggiornamento automatico della retribuzione pregressa ma costituisce solo un parametro di
riferimento per il negoziato. L’accordo trilaterale ha affidato al contratto nazionale la regolamentazione
delle competenze del contratto decentrato attraverso le clausole di rinvio e al contratto aziendale la
gestione degli effetti sociali connessi alle trasformazioni aziendali quali le innovazioni tecnologiche,
organizzative e i processi di ristrutturazione.
Accordi di concertazione a livello territoriale sono i patti territoriali e i contratti di area. Anche qui
sono parti le pubbliche amministrazioni, ma mentre i primi perseguono obiettivi di prevalente sviluppo
economico, i contratti di area sono specificamente finalizzati allo sviluppo dell’occupazione attraverso la
concessione di agevolazioni fiscali. Il protocollo inoltre ha previsto procedure negoziali di raffreddamento
dei conflitti e ha stabilito che la presentazione delle piattaforme deve avvenire in tempo utile per
consentire l’apertura delle trattative tre mesi prima della scadenza dei contratti.
Con il protocollo del 1993 le parti sociali e il Governo si impegnarono a stabilire anche gli obiettivi
della politica economica e sociale e inoltre si favorì una vera e propria delega di autorità e responsabilità
statale alle parti sociali.
Gli accordi del periodo ’95 - ’98 istituzionalizzano il ruolo della concertazione ed estendono il
metodo concertativo a livello territoriale. La concertazione iniziò, inoltre, il quel contesto a svolgere una
funzione di coordinamento tra legislazione e autonomia collettiva. Essa però funziona se tutte le parti
coinvolte danno il loro assenso all’individuazione degli obiettivi e alla loro realizzazione per le parti di loro
competenza. Mancando il consenso di una parte, la concertazione viene meno.
Nel periodo 2001-2006 la concertazione fu abolita e sostituita dal dialogo sociale, metodo che
prevede la consultazione delle parti sociali da parte del governo ma non impegna quest’ultimo a
subordinare la sua iniziativa al consenso di tutte le componenti sindacali più rappresentative.
L’ultima esperienza significativa di concertazione sindacale in senso proprio si è avuta con il
Governo 2006-2008, concertazione di tipo classico triangolare, con alcuni iniziali risultati (protocollo sulla
previdenza, lavoro e competitività per equità la crescita sostenibili).
Il governo Monti invece si è limitato a consultare le parti sociali su argomenti di grande rilevanza
come la riforma del sistema pensionistico e quella del mercato di lavoro, mentre l’Accordo di produttività di
novembre 2012 non è stato sottoscritto dalla Cgil e prevedeva che a fronte di una riduzione del prelievo
fiscale e contributivo sul lavoro straordinario le parti sociali firmatarie si impegnano a:
- Creare un sistema di relazioni sindacali e contrattuali regolato e armonizzato rispetto al nuovo
accordo interconfederale di giugno 2011
- Favorire la formazione, misure di solidarietà intergenerazionale, la partecipazione dei lavoratori
nell’impresa
- Salvaguardare un ruolo centrale della contrattazione collettiva nazionale nella determinazione
dei trattamenti minimi economico – normativi nonché in materia di orario di lavoro, mansioni e
controllo dei lavoratori
- Promuovere il contratto collettivo aziendale per la funzione di incentivo della produttività e di
adattamento al contesto produttivo e si prevede che parte degli aumenti economici siano
destinati alla retribuzione di produttività determinata dal contratto collettivo aziendale.
La concertazione è un metodo decisionale attraverso cui il governo e le parti sociali determinano di
comune accordo gli obiettivi economico sociali da realizzare e si assumono la responsabilità politica di
adoperarsi per la loro concreta realizzazione secondo le proprie competenze. L’oggetto della concertazione,
oltre alla consultazione prevede anche la conclusione di un accordo trilaterale tra i sindacati, le associazioni
imprenditoriali e il Governo. La concertazione sociale in senso proprio presuppone l’accordo di tutte le
componenti delle tre parti ma nell’esperienza sindacale italiana l’organo politico non subordina la propria
azione al consenso di tutte le parti sociali. La concertazione ovviamente pone problemi di equilibrio
costituzionale tra il potere sindacale e il potere politico del Governo, nonché tra quest’ultimo e la sovranità
del parlamento. Questo accordo certamente non ha natura giuridica identica a quella di un contratto
collettivo anzitutto perché accanto alla parte normativa vi è una parte contrassegnata dallo scambio
politico tra una parte e le parti sociali e in secondo luogo per l’esistenza in capo al soggetto pubblico di
risorse economiche da scambiare con le parti sociali.
Nel nostro ordinamento il potere sindacale ha un riconoscimento di rango costituzionale, ma
rimane un potere privato, nel senso che la Costituzione ha riconosciuto la libertà di organizzazione
sindacale ma non ha stabilito particolari responsabilità dei sindacati né previsto per essi determinate
competenze, mentre il Governo ha competenze ben determinate dalla Costituzione. Presupponendo un
accordo tra Governo e parti sociali sugli obiettivi di politica economica la concertazione infrangerebbe il
rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo, limitando le prerogative costituzionali del Governo. La
costituzione però ha ritenuto che questa non viola la Costituzione a condizione che la rappresentanza
politica resti libera di valutare le proposte presentate dall’esecutivo e resti la sola legittimata ad
interpretare la volontà popolare e a realizzare la sintesi degli interessi generali. Il giudice delle leggi ha
affermato che gli accordi di concertazione differiscono dai contratti collettivi sul piano strutturale, perché
sono trilaterali e sul piano funzionale perché le parti sono protese a realizzare uno scambio non solo
economico ma anche politico.
Si deve osservare che il contenuto di questi accordi trilaterali è eterogeneo. Vi sono infatti clausole
che rientrano nella piena disponibilità delle parti sociali e riguardano istituti contrattuali o le stesse regole
della contrattazione e vi sono clausole che hanno per oggetto impegni del governo e consistono nella
predisposizione di atti amministrativi o di decreti legge o di disegni di legge.
La responsabilità delle organizzazioni sindacali di fronte agli impegni sottoscritti con il Governo e
l’associazione degli imprenditori nell’attività di concertazione è eminentemente politica. Quindi gli accordi
di concertazione non hanno natura negoziale in senso tecnico a meno che le parti che impegnano il
Governo in campo legislativo o in sede amministrativa con disegni di legge, decreti di legge o regolamenti;
hanno natura programmatica perché corrispondono a un atto politico che non può essere oggetto di
negoziazione giuridica vincolante. Inoltre nel nostro ordinamento l’attività sindacale è sicuramente ispirata
al principio di effettività e perciò può lambire a intersecare l’interesse generale.
La concertazione non può comportare che l’interesse collettivo prevalga sull’interesse generale.
L’AUTOTUTELA

LO SCIOPERO
L’art. 40 cost. riconosce il diritto di sciopero e rinvia alla legge ordinaria la regolamentazione delle
sue modalità d’esercizio.
Esistono tre ordini di problemi:
- Qualificazione dello sciopero e la determinazione delle finalità lecite
- Titolarità dei diritti di sciopero  privilegiata titolarità individuale rispetto a quella collettiva
- Modalità di esercizio dello sciopero
Le norme del codice penale sardo sancivano il divieto di coalizione e consideravano reato lo
sciopero come la serrata.
Nel codice penale del 1889 invece lo sciopero cessa di essere considerato un reato ma resta un
illecito civile (inadempimento = tale da giustificare il licenziamento).
Il codice penale Rocco del 1930 ha sanzionato penalmente ogni forma di sciopero e di serrata.
Oltre allo sciopero per fini contrattuale, ossia quello diretto contro il o i datori di lavoro al fine di
ottenere la modifica delle condizioni di lavoro stabilite nel contratto collettivo, è sanzionato anche lo
sciopero per fini non contrattuali, ossia per fine politico o per costringere la pubblica autorità a emettere od
omettere un provvedimento ovvero a influire sulle deliberazioni di essa o sciopero di protesta o di
solidarietà, nonché la serrata dei piccoli imprenditori senza dipendenti, in seguito qualificata come
sciopero. Anche lo sciopero dei pubblici dipendenti era sanzionato da vari articoli.
La molteplicità delle finalità di sciopero ha introdotto un’interpretazione creatrice della dottrina e
della Corte costituzionale per l’individuazione di quelle legittime.
Una delle prime dottrine postcostituzionali aveva definito lo sciopero come astensione concertata
dal lavoro per la tutela di un interesse economico professionale. In base a questa definizione fu qualificato
come diritto soltanto lo sciopero per fini contrattuali mentre furono escluse dall’area della tutela le altre
forme di sciopero. Con la promulgazione della Costituzione lo sciopero fu elevato a rango di diritto
costituzionale e fu qualificato dalla dottrina più risalente come diritto potestativo. Secondo tale
ricostruzione l’esercizio del diritto potestativo legittima il lavoratore a sospendere la sua obbligazione e
colloca il datore di lavoro in una posizione di soggezione in cui non può evitare l’esercizio del diritto di
sciopero.
Due effetti: consolidamento della tesi della titolarità individuale del diritto di sciopero e a scindere
la titolarità dall’esercizio necessariamente collettivo dello stesso diritto e individuando il soggetto passivo
del diritto di sciopero esclusivamente nel datore di lavoro portò a considerare legittimi soltanto gli scioperi
contro di lui.
Lo sciopero successivamente fu qualificato come diritto assoluto della persona. Questa
affermazione ha conseguito due obiettivi : ha individuato nello sciopero un mezzo per la realizzazione del
principio di uguaglianza sostanziale e ha rafforzato la inscindibilità del binomio titolarità individuale -
esercizio collettivo del diritto di sciopero favorendo in questo modo l’accantonamento della tesi della
titolarità collettiva dello sciopero.
Nella fattispecie prevista dall’art. 40 viene ricompreso non solo lo sciopero per fini contrattuali,
economico ma anche quello di imposizione politico economica = sciopero effettuato per rivendicazioni nei
confronti dei pubblici poteri rispetto a beni che non sono nella disponibilità dei datori di lavoro ma che
tuttavia trovano riconoscimento e tutela nella disciplina dei rapporti economici. Sono considerati scioperi di
imposizione politico economica lo sciopero per la riforma sanitaria, fiscale, occupazione ecc.  il datore di
lavoro subisce lo sciopero e quindi il relativo danno, pur non avendo nessuna responsabilità e nessun modo
per evitarlo.
La legittimità dello sciopero di imposizione politico economica costituisce un indice inequivocabile
della natura dello sciopero come diritto riconosciuto dall’ordinamento ai lavoratori per la realizzazione del
principio di uguaglianza sostanziale.
La corte successivamente ha affermato anche la legittimità dello sciopero politico in senso stretto o
puro (contro gli atti di governo). Questo è uno strumento tipicamente democratico che consente al
lavoratore un’attiva partecipazione alla vita nazionale.
L’esercizio del diritto di sciopero produce la sospensione del rapporto di lavoro mentre l’esercizio
della libertà di sciopero, pur legittima, deve essere considerata una forma di inadempimento del prestatore
di lavoro e in quanto tale legittima il datore a prendere provvedimenti.
Lo sciopero politico, pur non essendo qualificato come diritto, è pur sempre una forma di esercizio
di attività sindacale.
Lo sciopero di solidarietà è legittimo ogni qualvolta sussista un collegamento tra gli interessi
economici del gruppo che si astiene e le pretese di un altro gruppo già in sciopero.
La distinzione tra titolarità individuale e esercizio collettivo può sollevare qualche perplessità
perché lo sciopero può essere attuato solo per la difesa di un interesse collettivo. Il soggetto collettivo è il
solo legittimato a concludere per i lavoratori il contratto collettivo, parimenti dovrebbe essere il soggetto
collettivo a valutare l’opportunità di esercitare il diritto di sciopero.
La titolarità collettiva del diritto di sciopero presuppone che la proclamazione sia un requisito di
legittimità dell’esercizio di tale diritto. Viceversa, la titolarità individuale del diritto di sciopero non
riconosce alcuna rilevanza alla proclamazione dello sciopero ai fini della legittimità dell’astensione dal
lavoro e impone di considerare il diritto di sciopero come indisponibile.
Titolari del diritto di sciopero sono in primo luogo tutti i lavoratori subordinati in senso tecnico con
le eccezioni dei militari, del personale della pubblica sicurezza, dei marittimi nel periodo di navigazione,
mentre la legge pone limiti nei confronti degli addetti agli impianti nucleari. La titolarità del diritto è stata
riconosciuta anche ai lavoratori autonomi parasubordinati in quanto soggetti contrattualmente deboli nei
confronti del committente e piccoli imprenditori che non abbiano alle proprie dipendenze lavoratori
subordinati.
Quanto ai liberi professionisti, la corte costituzionale, ha escluso che l’astensione dal lavoro sia
qualificabile come sciopero in senso tecnico e ha considerato tutte le azioni collettive svolte ai fini di
protesta , rivendicazione o pressione , come manifestazione della libertà di associazione.
Secondo un’autorevole dottrina la titolarità del diritto di sciopero dovrebbe essere negata ai
magistrati in quanto investiti di una funzione sovrana.
Tra le forme anomale di sciopero ci sono lo sciopero selvaggio o improvviso attuato senza
preavviso, lo sciopero a singhiozzo e lo sciopero a scacchiera.
Il primo tipo ormai non è più considerato illegittimo, ma il preavviso è obbligatorio nei servizi
pubblici obbligatori. Lo sciopero a singhiozzo è quello intermittente, esercitato alternando periodi di lavoro
a periodi di pause, mentre quando non è attuato da tutto il personale insieme ma dai reparti in vari
momenti abbiamo lo sciopero a scacchiera.
Lo sciopero attuato con queste modalità arreca all’azienda un danno maggiore di quello inferto con
quello tradizionale e fu considerato illegittimo fino al 1980. Per stabilire se lo sciopero è legittimo non si
deve avere riguardo alla maggiore o minore entità del danno provocato alla produzione ma si deve avere
riguardo al danno arrecato alle persone e agli impianti e cioè alla produttività. In sostanza ai fini della
legittimità – illegittimità dello sciopero, la giurisprudenza abbandona come criterio distintivo quello
quantitativo dell’entità del danno e accoglie quello qualitativo.
Se la prestazione offerta dal prestatore di lavoro non arreca alcuna utilità al datore di lavoro questi
è legittimato a rifiutarla.
Si dicono di tregua sindacale le clausole volte a regolare le modalità di esercizio di sciopero nel
periodo di vigenza del contratto collettivo. Secondo una parte della dottrina tali clausole sarebbero
addirittura pleonastiche perché dalla stipulazione di un contratto collettivo deriverebbe un implicito dovere
di pace sindacale. Lo sciopero non potrebbe essere legittimamente proclamato se non quando sia scaduto il
contratto collettivo o quando vi sia una notevole modificazione dello stato di fatto al momento della
stipulazione. Altri autori contrastano questo assunto e rilevano che lo sciopero può essere esercitato anche
prima della scadenza del contratto collettivo. Mentre altra dottrina sostiene che le modalità di esercizio di
sciopero possono essere regolate da clausole espresse dal contratto collettivo, clausole introdotte negli
anni ’60 e considerate rientranti nella parte obbligatoria.
Responsabilità per eventuale violazione della clausola di tregua  inadempimento obbligherebbe il
sindacato al risarcimento del danno nei confronti della controparte ma di fatto la difficoltà di determinare i
danni risarcibili e di quantificarli non consente una concreta possibilità di tutela risarcitoria.

SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI


Prima dell’intervento normativo del 1990, lo sciopero dei servizi pubblici essenziali era regolato da
norme penali e amministrative e da codici di autoregolamentazione. Gli articoli 330 e 333 c.p. Rocco del
1990 prevedevano i reati di abbandono collettivo e individuale di un pubblico servizio. Queste norme sono
state oggetto di alcune sentenze della Corte Costituzionale, che è arrivata ad individuare tra i servizi
pubblici quelli essenziali perché di preminente interesse generale e diretti a garantire valori fondamentali
legati all’integrità della vita e della sicurezza.
È stato poi sottolineata l’esigenza di contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con l’esercizio
di altri diritti di pari o superiore rango costituzionale ed è stato messo in evidenza che nell’ambito del
servizio essenziale alcune prestazioni devono considerarsi indispensabili nel senso cioè che non possono
essere assicurate agli utenti.
La legge 146/1990 ha accolto il principio elaborato dalla giurisprudenza costituzionale secondo il
quale sono essenziali i servizi aventi carattere di preminente interesse generale ai sensi della Costituzione e
diretti a garantire i diritti della persona di preminente rilievo costituzionale.
La lesione dei diritti dell’imprenditore non può essere sanzionata dalla legge n.146, ma resta
affidata a principi e regole elaborate dalla giurisprudenza in cassazione in tema di sciopero che attenta alla
produzione(legittimo) e/o che arreca danno alla produttività aziendale (illegittimo).
La legge elenca i diritti della persona che non possono essere sacrificati dall’esercizio di sciopero
come il diritto alla vita, alla salute, alla sicurezza, all’assistenza ecc e i servizi funzionali alla loro
soddisfazione. Distingue inoltre tra servizio essenziale e prestazioni indispensabili.
I servizi strumentali essenziali = funzionalmente collegati a quelli essenziali la cui sospensione può
pregiudicare l’erogazione del servizio pubblico finale e di conseguenza gli utenti che ne sono fruitori. Il
problema dei servizi strumentali non sta solo nell’individuazione del criterio di collegamento con il servizio
principale ma soprattutto nella rappresentanza sindacale del servizio strumentale viene riconosciuto alla
Commissione la competenza a formulare alle imprese che li erogano e alle rispettive organizzazioni
sindacali una proposta intesa a rendere omogenei i regolamenti, tenuto conto delle esigenze del servizio
nella sua globalità.
Nel 2000 il legislatore è intervenuto per integrare la legge 146/1990 con legge n. 83, sui punti critici.
Le norme sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali non si applicano soltanto ai lavori subordinati ma
anche ai lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori. Le integrazioni apportate riguardano:
- Procedura di raffreddamento e conciliazione del conflitto che devono essere inserite
obbligatoriamente negli accordi
- Procedura di proclamazione delle modalità e delle motivazioni dell’astensione collettiva
valutabile dalla Commissione
- Rispetto degli intervalli da osservare tra l’effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del
successivo al fine di garantire la continuità del servizio pubblico
- Nozione di condotta sindacale sleale introdotta come rimedio alla pratica frequente della
revoca tardiva di uno sciopero quando ne sia già stata fata informazione all’utenza
- Ampliamento e rafforzamento dei poteri della Commissione che diventa il vero garante della
legittimità degli scioperi nei servizi pubblici essenziali
- Modifiche apportate all’apparato sanzionatorio e alla procedura di precettazione
- L’ambito di applicazione esteso a lavoratori autonomi , piccoli imprenditori e piccoli
professionisti e la valorizzazione dei codici emanati dalle loro associazioni di categoria.
Le fonti di regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali sono di matrice legale ed
extra – legale = contratto collettivo, regolamento di servizio emanato sulla base di accordo collettivo, codici
di autoregolamentazione dei lavoratori autonomi, lodo della Commissione di Garanzia, potere di
regolamentazione provvisoria della Commissione e l’ordinanza di precettazione.
Limiti all’esercizio di sciopero:
- Preventivo esperimento delle procedure di raffreddamento e conciliazione del conflitto
- Obbligo di preavviso
- Obbligo di comunicare per iscritto la data, durata, modalità e motivazione sia al datore che
all’autorità precettante
- Divieto del effetto annuncio
- Rarefazione oggettiva, ossia rispetto degli intervalli da rispettare tra uno sciopero e la
proclamazione del successivo
- Rispetto di misure dirette a consentire l’esecuzione di prestazioni indispensabili.
Le procedure di raffreddamento e di conciliazione intervengono di solito quando si è già in uno
stato di agitazione e sono effettuate durante il periodo di preavviso al fino di differire lo sciopero o di
scongiurarlo (funzione regolativa dello sciopero). La procedura di conciliazione in via amministrativa è
possibile solo in caso di mancanza di accordo o per soggetti estranei alla contrattazione.
I soggetti che proclamano lo sciopero, hanno l’obbligo di comunicare per iscritto nel termine di
preavviso minimo di 10 giorni la durata, le modalità di attuazione e le motivazioni dell’astensione collettiva
dal lavoro e destinatari della comunicazione sono le amministrazioni o imprese che erogano il servizio e
l’apposito ufficio costituito presso l’autorità tenuta ad adottare l’ordinanza di precettazione.
Anche le amministrazioni e le imprese erogatrici hanno l’obbligo di comunicare modi e tempi di
erogazione, misure per la riattivazione del servizio garantito e la riattivazione stessa.
Divieto del cd effetto annuncio al di fuori dei casi in cui sia intervenuto un accordo tra le parti
ovvero vi sia stata una richiesta della Commissione di garanzia o dell’autorità competente ad emanare
ordinanza di precettazione, la revoca spontanea dello sciopero già proclamato costituisce forma sleale di
azione legale. La revoca ingiustificata può essere censurata non soltanto dalla Commissione di garanzia ma
anche in sede in sede giudiziaria su iniziativa delle associazioni degli utenti.
Funzione del preavviso  tutela dell’interesse degli utenti a utilizzare servizi alternativi o a
programmare diversamente l’uso del servizio. Il preavviso consente all’amministrazione o all’ente
erogatore del servizio di predisporre di misure necessarie per l’esecuzione delle prestazioni indispensabili
per favorire eventuali tentativi di composizione del conflitto.
Le norme sul preavviso non trovano applicazione nei casi di astensione dal lavoro in difesa
dell’ordine costituzionale o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e sicurezza dei lavoratori. La
prima ipotesi riguarda lo sciopero politico, la seconda quello di protesta.
La legge stabilisce che devono essere garantite le prestazioni indispensabili durante lo sciopero e
affida in primo luogo alle parti sociali il compito di individuarle; l’oggetto non è costituito esclusivamente
dalle prestazioni dei lavoratori ma anche dall’attività di organizzazione dell’imprenditore e dalla sua attività
di cooperazione all’adempimento delle obbligazioni dei lavoratori. In mancanza di accordo tra le parti la
legge riconosce alla Commissione di garanzia il potere di individuare le prestazioni indispensabili, stabilendo
altresì i limiti che devono essere rispettati dalla Commissione nell’esercizio del suddetto potere.
Deve essere assicurato il 50% delle prestazioni normalmente erogate e devono riguardare quote
strettamente necessarie di personale non superiori mediamente al terzo del personale normalmente
utilizzato per la piena erogazione del servizio nel tempo interessato dello sciopero. Gli stessi limiti devono
essere rispettati dalla Commissione di garanzia per la valutazione dell’idoneità degli atti negoziali e di
autoregolamentazione.
In caso di astensione da lavoro dei lavoratori autonomi, liberi professionisti e piccoli imprenditori, la
disciplina delle prestazioni indispensabili è contenuta in codici di autoregolamentazione adottati dalle
associazioni che li rappresentano. Se tali codici mancano o non sono valutati idonei la commissione di
garanzia adotta la provvisoria regolamentazione.
Rarefazione oggettiva  contratti e accordi collettivi, oltre alle misure dirette a consentire
erogazione delle prestazioni indispensabili devono indicare intervalli minimi da osservare tra l’effettuazione
di uno sciopero e la proclamazione dello successivo.
La legge assegna al contratto collettivo un ruolo centrale nel governo del conflitto. Infatti essa
diventa fonte sia pure extra ordinem di disciplina dello sciopero. Il rinvio dalla legge ad altre fonti e in
specie al contratto collettivo non può essere in bianco ma deve contenere indicazioni e orientamenti alle
parti sociali.
Nella legge 146/1990 è riconosciuto ampio spazio ai codici di autoregolamentazione dello sciopero
dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori. Queste associazioni, diversamente dai
sindacati dei lavoratori subordinati devono provvedere unilateralmente a limitare l’astensione dal lavoro
dei loro iscritti attraverso l’adozioni di codici di autoregolamentazione per contemplare l’esercizio del diritto
di sciopero con l’esercizio dei diritti della persona costituzionalmente garantiti.
L’obbligo di garantire l’esecuzione di prestazioni indispensabili incombe :
- Sui soggetti che promuovono lo sciopero o vi aderiscono
- Sui lavoratori che esercitano il diritto di sciopero
- Sulle amministrazioni e le imprese erogatrici dei servizi
- Sulle associazioni dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori
Soggetti che promuovono lo sciopero = ogni struttura sindacale anche non associativa e
occasionale. La proclamazione dello sciopero è obbligatoria ed è effettuata in forma scritta con l’indicazione
del preavviso, della durata e dalle modalità di attuazione e delle motivazioni dell’astensione. Le limitazioni
procedurali alla proclamazione, intese come condizione di legittimità degli scioperi gravano non soltanto
sulle organizzazioni dei lavoratori che proclamano lo sciopero o vi aderiscono ma anche sui singoli
lavoratori, che non possono legittimamente scioperare se non sono stati effettuati tali adempimenti.
I lavoratori che esercitano il diritto di sciopero sono obbligati a garantire, durante lo sciopero, le
prestazioni indispensabili individuate preventivamente dalla contrattazione collettiva. In assenza di accordi
collettivi, i lavoratori devono attenersi alle modalità stabilite dalla provvisoria regolamentazione adottata
dalla Commissione.
Anche le imprese e le amministrazioni erogatrici dei servizi sono obbligate a garantire le prestazioni
indispensabili il cui oggetto non è costituito esclusivamente dalle prestazioni dei lavoratori ma anche
dall’attività di organizzazione dell’imprenditore e dalla sua attività di cooperazione all’adempimento
dell’obbligazione collettiva.
A carico degli enti erogatori di servizi pubblici essenziali sono previsti anche importanti obblighi di
informazione a favore dell’utenza al fine di garantire la concreta attuazione degli scioperi indicati nella
legge. E’ espressamente stabilito l’obbligo, per le amministrazioni o le imprese erogatrici dei servizi, di
informare gli utenti almeno cinque giorni prima dello sciopero e delle misure per la riattivazione degli
stessi.
Analogo obbligo di informazione grava sul servizio pubblico radiotelevisivo il quale è tenuto a dare
tempestiva e completa comunicazione sull’inizio,la durata , le misure e le modalità dello sciopero.
L’obbligo di comunicazione assume un contenuto più rigoroso per le amministrazioni e le imprese
erogatrici dei servizi di trasporto le quali sono tenute a comunicare agli utenti l’elenco dei servizi che
saranno garantiti comunque in caso di sciopero e i relativi orari.
Anche i lavoratori autonomi in solido con le loro associazioni sono tenuti a garantire l’esecuzione
delle prestazioni indispensabili stabilite dai loro codici di autoregolamentazione o in mancanza dalla
Commissione di Garanzia.
Commissione di Garanzia a giudizio di molti deve essere annoverata fra le autorità indipendenti
(elevato grado di autonomia, in posizione di terzietà e neutralità rispetto agli interessi regolati dalla p.a.);
ha come principale funzione il controllo di legittimità dello sciopero. La commissione può essere
considerata il terzo attore nella definizione delle regole e delle procedure che governano lo sciopero nei
servizi pubblici; essa tende a creare con la sua giurisprudenza orientamenti e linee guida per le particolari
parti sociali finendo per assolvere a quella funzione nomofilattica propria della Cassazione. La Commissione
può, con un’apposita delibera, invitare i soggetti che hanno proclamato lo sciopero a differire la data
dell’astensione dal lavoro e invitare amministrazioni o imprese a desistere da comportamenti che possono
determinare insorgenza o aggravamento di conflitti in corso.
Alla Commissione compete anche il potere di valutare positivamente o negativamente l’idoneità
delle posizioni indispensabili e delle procedure di raffreddamento e di conciliazione e delle altre misure
individuate con accordo dalle parti sociali e dirette a realizzare il contemperamento del diritto di sciopero
con i diritti costituzionalmente garantiti. Quando tali accordi manchino o non siano valutati idonei, la
Commissione di Garanzia sottopone alle parti una proposta, ancora non vincolante sull’insieme delle
prestazioni, procedure e misure considerate indispensabili. Se le parti non si pronunciano sulla proposta
della commissione entro 15 giorni dalla notifica, quest’ultima esercita il potere di provvisoria
regolamentazione delle prestazioni indispensabili delle procedure di raffreddamento e di conciliazione e
delle altre misure di contemperamento, comunicandola alle parti interessate che sono tenute ad osservarla
fino al raggiungimento di un accordo valutato idoneo.
Il riconoscimento del potere di regolamentazione provvisoria alla Commissione di Garanzia
costituisce la norma di chiusura della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. La natura
autoritativa dell’atto di provvisoria regolamentazione della Commissione e l’obbligo imposto a quest’ultima
di motivare adeguatamente i casi particolari in cui si discosta dalle percentuali che devono contrassegnare
lo svolgimento delle prestazioni indispensabili mettono in evidenza l’ulteriore problema del sindacato del
giudice sugli atti di natura autoritativa della commissione.
La Commissione di Garanzia è inoltre titolare di un potere sanzionatorio che può comportare
irrogazione di :
- Sanzioni individuali nei confronti dei singoli lavoratori
- Sanzioni collettive nei confronti delle organizzazioni sindacali
- Sanzioni nei confronti degli enti erogatori di servizi
- Sanzioni nei confronti dei lavoratori autonomi e delle loro associazioni.
Sanzioni individuali la loro applicazione non costituisce esercizio del potere disciplinare. La
Commissione valuta il comportamento dei singoli lavoratori e se rileva violazioni o eventuali inadempienze
degli obblighi legali o contrattuali sulle prestazioni indispensabili, delibera le sanzioni e prescrive al datore
di lavoro di aprire il procedimento disciplinare nei confronti dei lavoratori che non abbiano posto in essere
l’attività richiesta, applicando le relative sanzioni.
Sanzioni collettive nei confronti di organizzazioni sindacali  consistono nella sospensione dei
permessi sindacali retribuiti e/o dei contributi sindacali trattenuti sulla retribuzione per la durata
dell’astensione stessa e nella esclusione delle trattative per un periodo di due mesi dalla cessazione del
comportamento. Le sanzioni sono deliberate e quantificate dalla Commissione di Garanzia ed applicate dal
datore di lavoro, mentre sono previste sanzioni amministrative pecuniarie nei confronti di quelle
organizzazioni sindacali che non fruiscono dei benefici patrimoniali e non partecipino alle trattative.
Sanzioni amministrative nei confronti di enti erogatori di servizi  quando questi non hanno
osservato disposizioni o obblighi derivanti dalla regolamentazione provvisoria della Commissione di
Garanzia
Precettazione = regolata dalla legge n. 146. Presupposti per emanare ordinanza sono:
- Fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente
garantiti che potrebbe essere cagionato dall’interruzione o dalla alterazione del funzionamento
dei servizi pubblici, conseguenti all’esercizio dello sciopero
- Attivazione del procedimento da parte della Commissione di garanzia che segnala all’autorità
competente le situazioni nelle quali dallo sciopero o dall’astensione collettiva possa derivare un
imminente e fondato pericolo di pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente tutelati
Sono fatti salvi casi di necessità e urgenza.
Contenuto dell’ordinanza di precettazione può essere:
- Differimento o riduzione della durata dell’astensione collettiva
- Integrazione delle regole attraverso la prescrizione di misure idonee a assicurare livelli di
funzionamento dei servizi compatibili con la salvaguardia dei diritti costituzionalmente garantiti
- Supplenza = esercitabile nei settori in cui manca l’accordo, il regolamento o la proposta della
Commissione.
L’ordinanza emanata in una fase antecedente la determinazione delle regole non è qualificabile
come fonte di produzione normativa alla stregua di quelle esplicitamente indicate dalla legge n. 146 ma un
provvedimento che riguarda lo specifico episodio di sciopero.
L’ordinanza della precettazione deve essere adottata non meno di 48 ore prima dell’inizio
dell’astensione collettiva e deve specificare il periodo di tempo durante il quale i provvedimenti dovranno
essere osservati dalle parti e deve essere portata a conoscenza dei destinatari mediante affissione nei
luoghi di lavoro e altresì mediante notizie trasmesse dai telegiornali o dal servizio pubblico radiotelevisivo.
Deve contenere l’indicazione nominativa quando sia destinata ad operare fuori dal lavoro
subordinato.
Contro l’ordinanza di precettazione può essere presentato ricorso dinanzi al Tribunale
amministrativo regionale, entro sette giorni dalla sua comunicazione o affissione nei luoghi di lavoro, da
parte dei destinatari del provvedimento che ne abbiano interessi.
In tema di sanzioni per inottemperanza all’ordinanza di precettazione i singoli prestatori di lavoro,
professionisti o piccoli imprenditori che non osservino le disposizioni contenute nell’ordinanza sono
soggetti alla sanzione amministrativa pecuniaria per ogni giorno di mancata ottemperanza determinabile,
con riguardo alla gravità dell’infrazione e alle condizioni economiche dell’agente.
I preposti al settore nell’ambito degli enti o delle imprese erogatrici di servizi sono sospese
dall’incarico per un periodo non inferiore a trenta giorni e non superiore ad un anno.
Le sanzioni sono irrogate con decreto dalla stessa autorità che ha emanato l’ordinanza.

FORME DI LOTTA SINDACALE DIVERSE DALLO SCIOPERO


Attività di propaganda e organizzazione di cortei interni sono mezzi di lotta sindacale diversi dallo
sciopero e non sono penalmente perseguibili.
Il picchettaggio, cioè l’azione di un gruppo di lavoratori scioperanti, che dinanzi al luogo di lavoro,
impediscano l’accesso ai dipendenti non aderenti alla protesta è considerato legittimo a condizione che non
si risolva in forme di violenza privata o minaccia nei confronti dei lavoratori non scioperanti.
Sciopero delle mansioni  il lavoratore non effettua solo alcune mansioni che rientrano nella sua
qualifica (parziale adempimento = illegittima alterazione della qualità delle prestazioni)
Sciopero dello straordinario  legittimo; consiste nel rifiuto del lavoratore di eseguire la
prestazione oltre il normale orario di lavoro.
Sciopero a cottimo bisogna distinguere tra ipotesi in cui i cottimisti riducano il rendimento al
minimo dovuto (comportamento illegittimo) e ipotesi in cui scendano sotto il minimo dovuto (sciopero
equiparato al rallentamento concertato della produzione e non alla collaborazione)
Sciopero pignolo (ostruzionismo)  consiste nell’applicazione pedantesca dei regolamenti e
determina un rallentamento dei tempi e delle modalità dell’attività lavorativa.
Sciopero bianco  è la permanenza dei lavoratori sul luogo di lavoro senza eseguire prestazione e
senza impedire l’ingresso di altri lavoratori.
L’occupazione di azienda  rende impossibili le prestazioni offerte dai lavoratori non occupanti e
quindi consente al datore di lavoro di rifiutarle legittimamente e di non retribuirle. I giudici costituzionali ed
anche la giurisprudenza ordinaria richiedono la presenza del dolo specifico. Non è quindi invocabile la
suddetta norma penale per mancanza del dolo specifico se lo svolgimento del lavoro sia già sospeso per
una causa antecedente all’occupazione stessa e cioè per lo sciopero.
Nell’ipotesi in cui il lavoratore sia già sospeso per altre ragioni, residua comunque il reato grave di
invasione di terreni ed edifici al fine di occuparli o trarre profitto.
Blocco delle merci in entrata e uscita  non è reato di violenza privata purchè ai trasportatori non
sia impedito l’accesso in fabbrica
Il blocco stradale e il disturbo della quiete pubblica è stato invece punito penalmente da qualche
sentenza.
Sabotaggio  sanzionato penalmente
Boicottaggio  la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente legittimo l’art. 507 c.p.
perché i comportamenti incriminati non hanno nulla a che vedere con lo sciopero e comunque riguardano
beni protetti dalla stessa Carta Costituzionale.
A questi strumenti di lotta sindacale, il datore può reagire sia adottando provvedimenti disciplinari
fino al licenziamento, sia esperendo azioni possessorie o procedimenti di urgenza, sia rivolgendosi
all’autorità di pubblica sicurezza.

LA SERRATA
Consiste nella chiusura, totale o parziale, dei luoghi di lavoro da parte del datore di lavoro e nella
conseguente sospensione dell’attività lavorativa Il lavoratore mantiene il diritto alla retribuzione pur non
effettuando la prestazione lavorativa perché l’impossibilità di lavorare è dovuta al datore.
La serrata non è un diritto di rango costituzionale come lo sciopero. Si deve accertare se sia una
libertà di fatto C. Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 502 c.p. sia nella parte che
incriminava il reato di sciopero per fini contrattuali sia nella parte che incriminava il reato di serrata per fini
contrattuali; per la parte relativa alla serrata la Corte afferma che questa costituiva comunque una
manifestazione del principio di libertà sindacale garantito dall’art. 39 cost e pertanto non poteva essere
considerato comportamento penalmente perseguibile.
Lo sciopero è riconosciuto come un diritto, secondo art. 40 cost., regolato direttamente dalla legge;
la serrata, non è riconosciuta dal punto di vista costituzionale ma si presenta come un atto penalmente non
vietato.
Forme di serrata:
- Offensiva = tendente a conseguire una modificazione in danno dei lavoratori di condizioni
preesistenti
- Difensiva = diretta a scoraggiare iniziative dei lavoratori intese a conseguire condizioni più
favorevoli
- Di ritorsione = come reazione ai modi di conduzione della lotta sindacale da parte dei lavoratori.
La serrata per protesta e la serrata di solidarietà sono ancora considerate reati.
Serrata per fini contrattuali  sul piano civile integra un inadempimento (mora del creditore).
Quando l’imprenditore ricorre alla serrata cessa di cooperare all’adempimento dell’obbligazione del
lavoratore, gli effetti si concretano nel risarcimento del danno derivante dalla mora credendi dello stesso
imprenditore che serra l’azienda. Il risarcimento del danno sarebbe commisurato alle retribuzioni non
corrisposte al lavoratore e tale risarcimento non tollera alcuna detrazione relativa a quanto il lavoratore
abbia percepito lavorando altrove. Un secondo orientamento invece sostiene che l’obbligazione retributiva
permane pur in presenza della situazione di mora credendi dell’imprenditore che serra l’azienda, con la
conseguenza che le retribuzioni sono dovute come corrispettivo dell’obbligazione lavorativa e non come
misura del risarcimento del danno.
È consentito all’imprenditore di rifiutare legittimamente la prestazione di lavoratori non scioperanti
quando questa non sia proficuamente utilizzabile in concreto.
Serrata di ritorsione = risposta a uno sciopero articolato costituisce motivo legittimo che esclude la
mora  la sospensione dell’attività produttiva può essere civilmente lecita e cioè non impone al datore di
lavoro l’obbligo del risarcimento del danno e quindi la corresponsione delle retribuzioni corrispondenti
soltanto in caso di sciopero a singhiozzo (prestazione offerta parziale o comunque diversa da quella
pattuita) o di sciopero a scacchiera (astensione di gruppi di lavoratori di diversi reparti in momenti vari).
L’esclusione della mora non si verifica se lo sciopero a singhiozzo o a scacchiera non determina una
situazione di oggettiva impossibilità o effettiva inutilità della prestazione lavoro. L’onere della prova grava
sul datore di lavoro.
La serrata può rilevare come comportamento antisindacale, qualora l’azione del datore impedisca
l’esercizio di diritti sindacali e in genere l’esercizio dell’attività sindacale. Il giudice, in caso di accettata
condotta antisindacale ordina la sospensione della serrata e la rimozione degli effetti.

DIRITTO SINDACALE E LAVORO PUBBLICO

LA PRIVATIZZAZIONE DEL PUBBLICO IMPIEGO


“Privatizzazione nel pubblico impiego “ indica il processo che ha sottratto il rapporto di lavoro
pubblico dall’area del diritto amministrativo e lo ha condotto in quella di diritto privato.
Legge quadro sul pubblico impiego n. 93/1983 pur disciplinando livelli, contenuti e procedure
della contrattazione collettiva, lasciava alla competenza regolatrice della legge un elenco ampio di materie
e non muniva la stessa contrattazione collettiva di efficacia diretta ma prevedeva obbligatoriamente la
recezione del contratto nel decreto del presidente della repubblica.
Il contratto collettivo non aveva rilevanza autonoma ma costituiva una fase del procedimento
amministrativo che doveva concludersi con un atto di natura regolamentare. Successivamente il legislatore
ha assoggettato il rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione alla normativa del
Codice civile e delle altre leggi che regolano il rapporto privato di lavoro (1992-1993 e 1997-98).
Attualmente norme generali sull’ordinamento alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche
sono contenute nel d.lgs. n 165/2001.
Il legislatore ha separato l’organizzazione e l’individuazione degli uffici della pubblica
amministrazione che restano demandate alla competenza della legge, dalla disciplina del lavoro, rimessa
alle norme del codice riforma che ha realizzato un equilibrato dosaggio di fonti regolatrici e cioè un
impianto normativo che garantisce anche il valore dell’efficienza e del buon andamento della P.A. garantiti
dall’art. 97 cost.
Il processo di privatizzazione è stato ampiamente sostenuto dalle grandi centrali sindacali perché la
contrattualizzazione del rapporto ha favorito la sindacalizzazione da parte dei sindacati confederali. Tuttavia
la privatizzazione non è riuscita a ridurre il divario tra alto costo e produttività piuttosto scarsa delle
pubbliche amministrazioni, tantoché il legislatore è intervenuto con d.lgs. 150/2009 al fine di ottimizzare la
produttività del lavoro pubblico e garantire maggior efficienza e trasparenza delle pubbliche
amministrazioni.
Oggi la possibilità del contratto collettivo di derogare a norme di legge è stata ridimensionata.
Il legislatore vuole collegare alla nullità delle clausole dei contratti collettivi un meccanismo di
sostituzione automatica della disciplina contrattuale dichiarata nulla con quella legale.
Sebbene la privatizzazione sia ormai un fatto compiuto, questo rapporto conserva un tasso di
specialità perché il datore di lavoro, pur esercitando nel rapporto con il dipendente i poteri del privato,
conserva la natura del soggetto pubblico tenuto ad agire secondo criteri di imparzialità e buon andamento.

ORGANIZZAZIONE SINDACALE NEL LAVORO PUBBLICO


In ciascuna amministrazione, ente o struttura amministrativa vengono costituiti:
a) Rappresentanze sindacali aziendali (art. 19 St. lav.) su iniziativa delle organizzazioni sindacali
ammesse alle trattative per la sottoscrizione dei contratti collettivi in proporzione alla
rappresentatività conseguita. I diritti e le prerogative sindacali riconosciuti dallo Statuto dei
lavoratori alle r.s.a. e ai loro dirigenti nel settore privato sono garantiti anche nel settore
pubblico privatizzato
b) In ciascuna amministrazione che occupi più di 15 dipendenti viene stabilito che debba essere
costituito un organismo di rappresentanza unitaria del personale, su iniziativa anche disgiunta
delle organizzazioni sindacali attraverso elezione garantita a tutti i lavoratori.
Le r.s.u sono interamente elettive, elette a suffragio universale e con voto segreto, la ripartizione
dei seggi è rigorosamente proporzionale ai voti conseguiti dai sindacati ammessi alle trattative a livello
nazionale e da altri sindacati a condizione che siano costituiti in associazione e con un proprio statuto e
purché abbiano aderito agli accordi. I componenti delle r.s.u. subentrano alle r.s.a. o ad analoghe strutture
sindacali. Analogamente al settore privato, la r.s.u. assume ogni decisione a maggioranza dei componenti e
non per volontà dei singoli componenti delle r.s.u. . Ad essa viene riconosciuta anche la titolarità dei diritti
di informazione e consultazione.
Vengono ammesse alle trattative per il rinnovo del contratto nazionale le organizzazioni sindacali
che abbiano una rappresentatività non inferiore al 5% nel comparto o nell’area – considerando la media tra
dato elettorale e dato associativo. Il dato associativo è espresso dalla percentuale delle deleghe per il
versamento dei contributi sindacali rilasciati nell’ambito considerato mentre il dato elettorale è espresso
dalla percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle rappresentanze unitarie del personale rispetto al
totale dei voti espressi nell’ambito considerato.
Alle confederazioni è concessa una patente di rappresentatività per il solo fatto di affiliare sindacati
rappresentativi in almeno due comparti o aree.
Condotta antisindacale giurisdizione del giudice del lavoro non solo per condotte antisindacali
plurioffensive nei confronti dei pubblici dipendenti con rapporti di lavoro privatizzati ma anche con rapporti
di lavoro non privatizzati.

LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL LAVORO PUBBLICO


Il contratto collettivo è un atto di autonomia privata che regola direttamente i rapporti di lavoro dei
dipendenti pubblici allo stesso modo in cui il contratto collettivo di diritto comune regola i rapporti di lavoro
privati.
La contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di
lavoro nonché le materie relative alle relazioni sindacali.
Le parti e cioè l’ARAN e le confederazioni rappresentative definiscono attraverso accordi i comparti
di contrattazione che riguardano settori omogenei o affini. I contratti collettivi che definiscono o modificano
i comparti o le aree o che regolano istituti comuni a tutte le pubbliche amministrazioni o applicabili a più
comparti sono denominati accordi quadro.
In ogni comparto è stipulato il contratto nazionale di comparto. I dirigenti costituiscono un’area
professionale autonoma relativa a uno o più comparti. La struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli
e la durata dei contratti nazionali e integrativi sono regolate dalla stessa contrattazione collettiva in modo
che vi sia coincidenza tra la vigenza della disciplina giuridica e di quella economica. Le P.A. possono attivare
autonomi livelli di contrattazione integrativa nel rispetto di una serie di vincoli. I limiti di spesa costituiscono
un limite alla libertà di contrattazione. La contrattazione integrativa si svolge sulle materie, con i vincoli e
nei limiti stabiliti dai contratti nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali dagli stessi stabiliti.
Qualora non si raggiunga l’accordo per la stipulazione di un contratto integrativo, l’amministrazione
provvede in via provvisoria sino alla successiva sottoscrizione.
Le P.A. non possono sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con i
vincoli e con i limiti previsti dai contratti collettivi nazionali o che disciplinano materie non espressamente
delegate.
ARAN = agenzia per la rappresentanza negoziale delle P.A. ha personalità giuridica di diritto
pubblico, il potere di organizzarsi autonomamente e rappresenta legalmente le pubbliche amministrazioni
egli effetti della contrattazione collettiva nazionale. Essa esercita ogni attività relativa alle relazioni sindacali,
alla negoziazione dei contratti collettivi e all’assistenza delle pubbliche amministrazioni ai fini dell’uniforme
applicazione dei contratti stessi. L’agenzia è sottoposta al potere di indirizzo dei comitati di settore,
organismi espressi dalle forme associative o rappresentative delle diverse amministrazioni.
L’attività di indirizzo dei comitati di settore ha carattere pubblicistico in quanto atto di indirizzo
politico amministrativo e indica all’ARAN gli obiettivi che deve perseguire nel rispetto della sua competenza
tecnica.
L’ARAN inoltre deve acquisire il parere favorevole del comitato di settore sull’ipotesi di accordo e il
comitato di settore deve essere costantemente informato delle trattative dall’ARAN.
La gestione finanziaria dell’ARAN è sottoposto al controllo consuntivo e non preventivo della Corte
dei Conti. L’ARAN non ha competenza propria sulla contrattazione integrativa, ma se richiesta, può
assistere le singole amministrazioni.
Il contratto collettivo può essere legittimamente stipulato quando sia sottoscritto dai sindacati che
nel loro complesso realizzano un indice di rappresentatività pari al 51% come media tra dato elettorale e
dato associativo. Il consenso non è espresso direttamente dai lavoratori come nel referendum ma dalle
organizzazioni sindacali che complessivamente rappresentano la maggioranza dei lavoratori interessati, il
consenso dei lavoratori non entra in quanto tale nella formazione della volontà negoziale ma il numero di
lavoratori nella media tra dato associativo e dato elettorale. I soggetti della contrattazione decentrata sono
le r.s.u. ma i contratti nazionali possono prevedere l’integrazione delle rappresentanze unitarie del
personale con rappresentanti delle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto nazionale di comparto.
Il legislatore si preoccupa della copertura finanziaria della contrattazione. La procedura di
contrattazione è regolata dall’art. 47 d. lgs. 165/2001. I comitati di settore formulano gli atti di indirizzo nei
confronti dell’ARAN; quest’ultima trasmette a sua volta ai detti comitati le ipotesi di accordo, al fine di
ottenere un parere favorevole. Interviene poi il controllo della Corte dei Conti che certifica la compatibilità
dei costi contrattuali con gli strumenti di programmazione e di bilancio. La C. dei Conti delibera entro 15
giorni, decorsi i quali la certificazione si intende effettuata positivamente. Certificazione positiva 
presidente ARAN sottoscrive definitivamente il contratto collettivo, altrimenti si riaprono trattative.
Il d.lgs. 150/2009 ha introdotto una particolare tutela retributiva per i dipendenti pubblici nelle
more del rinnovo del contratto collettivo nazionale consentendo, decorsi 60 giorni dalla data di entrata in
vigore della legge finanziaria che dispone in materie di rinnovi dei contratti collettivi, l’erogazione in via
provvisoria degli incrementi previsti per il trattamento stipendiale.
La legge rimette ai contratti nazionali la determinazione di materie e delle procedure della
contrattazione integrativa.
Alle P.A. viene imposto di adempiere gli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o
integrativi e di assicurare l’osservanza delle forme previste dai rispettivi ordinamento. A sostegno di questa
efficacia generalizzata del contratto collettivo richiama la clausola di rinvio al contratto collettivo contenuta
in tutti i contratti individuali di lavoro dei dipendenti pubblici che l lavoratore accetta nel momento un cui
firma la lettera di assunzione. Il problema dell’efficacia del contratto collettivo nei confronti delle pubbliche
amministrazioni datori di lavoro può essere risolto osservando che l’ARAN ha rappresentanza legale di tute
le P.A. interessate al contratto collettivo di guisa che gli effetti del contratto si producano nei confronti di
tutte le amministrazioni rappresentate. Il trattamento economico è determinato esclusivamente dal
contratto collettivo e le amministrazione sono tenute a garantire ai loro dipendenti parità di trattamento
contrattuale.
Alcuni dati normativi che riflettono la natura giuridica del contratto collettivo sono l’inserimento
obbligatorio di clausole che proroghino l’efficacia temporale del contratto, la previsione di una norma che
sancisce la nullità dei contratti integrativi in contrasto con i vincoli e con i limiti previsti dai contratti
nazionali , la stipulazione di accordi di interpretazione autentica con effetto retroattivo e facoltà del giudice
a sospendere il giudizio quando deve definire una controversia sulla validità efficacia o interpretazione delle
clausole di un contratto.
Anche l’art. 420 bis c.p.c. prevede una procedura analoga sulla validità efficacia o interpretazione.
La Corte di Cassazione assolve la funzione di nomofilachia rispetto non soltanto alle legge ma anche
ai contratti collettivi nazionali sottoscritti dall’ARAN e applicati ai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni e ai contratti collettivi nazionali che disciplinano i rapporti alle dipendenze dei datori di
lavoro privati.
La forma scritta e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del testo dei contratti collettivi sono
ulteriori elementi che insieme ai precedenti consentono di considerare questo come un contratto
nominato.
Questo contratto allo stato attuale di legislazione presenta una duplice natura: di atto negoziale e di
fonte extra ordiem. La legge salvaguarda il nocciolo duro dell’autonomia contrattuale quando garantisce
alle parti di regolare da sé i loro interessi e dall’altra parte certe disposizioni, se non consentono di
affermare efficacia generale in senso tecnico, comunque garantiscono un risultato simile se non identico
(efficacia per iscritti e non).
La natura pubblica del soggetto datore di lavoro rileva come limite esterno e non funzionale
dell’autonomia contrattuale del soggetto pubblico allo stesso modo in cui rileva l’utilità sociale nell’art. 42
Cost. rispetto all’iniziativa economica privata.

DIRITTO SINDACALE E UNIONE EUROPEA

I COMITATI AZIENDALI EUROPEI


Direttiva 94/95/CE istituito il comitato aziendale europeo (CAE) o una procedura per
l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni
comunitarie  trasfusa oggi nella direttiva 2009/38/CE.
Il CAE è il comitato istituito da ogni impresa o in ciascun gruppo di imprese di dimensioni
comunitarie in conformità e secondo una procedura specificamente disciplinata dalle disposizioni della
direttiva e del suo allegato, onde attuare l’informazione e la consultazione dei lavoratori.
La direttiva contiene la definizione di:
- Impresa di dimensioni comunitarie : occupa almeno 1000 lavoratori e almeno 150 per Stato
membro almeno in 2 stati membri
- Gruppo di imprese: costituito da un’impresa controllante e dalle imprese da questa controllate
- Gruppo di imprese di dimensioni comunitarie: occupa almeno 1000 lavoratori nell’intera
Unione ed è composto da almeno due imprese situate in Stati membri diversi, ciascuna delle
quali occupi almeno 150 lavoratori nello Stato in cui opera.
La direttiva del 2009 definisce le nozioni di informazione e consultazione. Informazione =
trasmissione di dati da parte del datore di lavoro ai rappresentanti dei lavoratori per consentire a questi
ultimi di prendere conoscenza della questione trattata e di esaminarla; deve avvenire secondo modalità e
con un contenuto appropriati che consentono ai rappresentanti dei lavoratori di procedere a una
valutazione approfondita dell’eventuale impatto e di preparare la consultazione.
Per consultazione invece deve intendersi l’instaurazione di un dialogo e lo scambio di opinioni tra i
rappresentanti dei lavoratori e la direzione centrale o qualsiasi altro livello di direzione più appropriato, nei
tempi, secondo modalità e con contenuti che consentano ai rappresentanti dei lavoratori di esprimere un
parere in merito alle misure proposte.
Il compito di istituire per via negoziale il CAE viene affidato alle parti e a tal fine è individuata non
solo la parte datoriale abilitata alla negoziazione ma anche la rappresentanza dei lavoratori denominata
delegazione speciale di negoziazione.
Ai membri della delegazione speciale, a quelli del CAE e ai rappresentanti dei lavoratori che
svolgono funzioni nell’ambito della procedura di informazione e consultazione, nell’esercizio delle loro
funzioni, vengono riconosciuti a una protezione e delle garanzie analoghe a quelle previste per i
rappresentanti dei lavoratori dalla legislazione e/o dalle prassi vigenti nello stato in cui sono impiegati.
La delegazione speciale e la direzione centrale dell’impresa determinano per iscritto il campo di
azione, la composizione, le attribuzioni e la durata del mandato o dei CAE.
Il legislatore comunitario da un lato ha riconosciuto alle parti notevole autonomia nell’istituzione
del CAE e dall’altro non ha esitato a contenere questa autonomia nei confini delle prescrizioni accessorie
quando le stesse parti non siano in grado di concludere un accordo sulle modalità di attuazione e
informazione dei lavoratori.

CONTENUTI E FORME DEL DIALOGO SOCIALE


Il dialogo sociale evoca un modello di relazioni industriali che sostituisce al tradizionale bipolarismo
conflittuale, proprio della contrattazione collettiva, il tripolarismo delle parti, proprio dell’esperienza
concertativa, in ragione della presenza della Commissione. Tale tripolarismo si attua con ricorso a
procedure formalizzate che tendono a istituzionalizzare sia l’attività di concertazione sia l’attività negoziale,
prefigurando un modello di relazioni industriali distante dal nostro.
La Commissione, prima di presentare proposte nel settore della politica sociale, consulta le parti
sociali sul possibile orientamento di un’azione dell’Unione e sull’eventuale proposta elaborata dalla
Commissione. Le parti trasmettono alla Commissione un parere o una raccomandazione.
Nel corso della consultazione le parti sociali possono anche informare la Commissione della loro
volontà di avviare trattative negoziali e queste sospendono l’iniziativa della Commissione per un periodo di
9 mesi o per un periodo più lungo concordato con la stessa.
L’art. 28 Carta dei diritti fondamentali dell’UE riconosce espressamente ai lavoratori, datori di
lavoro e alle organizzazioni il diritto a negoziare e concludere contratti collettivi, conformemente al diritto
dell’Unione e alle legislazioni o prassi internazionali.
L’art. 155 TFUE distingue 2 tipi di accordi : liberi e istituzionali. I primi non hanno un oggetto
predeterminato e dovrebbero essere attuati secondo procedure e prassi proprie delle parti sociali e degli
stati membri. I secondi possono intervenire solo nell’ambito dei settori contemplati dall’art. 152 TFUE ma a
richiesta congiunta delle parti firmatarie possono essere attuati in base a una decisione del Consiglio su
proposta della Commissione.
La libertà negoziale presuppone che le parti sociali abbiano una rappresentatività sufficiente a
garantire un’omogenea applicazione nel territorio della comunità. Non è ipotizzabile la conclusione di un
accordo libero e questo dipende dal fatto che non esiste un efficace raccordo tra strutture sindacali
comunitarie e nazionali.
Lo statuto della confederazione europea dei sindacati non ammette iscrizione dei singoli lavoratori
ma conta tra i propri affiliati unicamente associazioni sindacali; non è configurabile nemmeno un’efficacia
diretta degli accordi della stessa conclusi sui rapporti individuali di lavoro.
La legittimazione dei sindacati a livello comunitario dipende da una scelta della Commissione
piuttosto che da un’investitura dal basso.
Spetta all’iniziativa delle parti sociali europee stipulare l’accordo se ne hanno la forza contrattuale e
se sono effettivamente rappresentative e alle parti nazionali di provvedere, spontaneamente ad attuare
tale accordo.
La disomogeneità dei diversi sistemi nazionali costituisce un ulteriore ostacolo nell’inveramento del
contratto collettivo comunitario libero.
Gli accordi istituzionali intervengono su materie predeterminate e acquistano rilevanza
nell’ordinamento comunitario attraverso la recezione in un atto formale che rientra nel novero delle fonti
comunitarie cioè in una direttiva. Le disposizioni delle direttive non possono sortire alcun effetto nei
confronti dei singoli rapporti individuali di lavoro. Viene prevista la possibilità dello Stato membro di
affidare alle parti sociali il compito di attuare le direttive o le decisioni del Consiglio, in materia e di politica
sociale, fermo restando l’obbligo per gli Stati di garantire risultati imposti dalla direttiva.
Nella vigenza del Trattato di Lisbona rimangono aperti problemi rilevanti in ordine alla natura degli
accordi in parola = seri dubbi sulla riconducibilità al genus dell’autonomia collettiva. Limiti: facoltà di
regolare soltanto le materie dell’art. 151; necessità di duplice passaggio legislativo (recezione della direttiva
e legge di attuazione dello Stato); rischio di modifiche del testo da parte del Consiglio; controllo della
Commissione sia nella fase preventiva che successiva alla stipulazione.
Alla commissione non si deve soltanto l’input della procedura ma anche un controllo sulla
conformità del contenuto degli accordi al diritto comunitario.
Criteri di rappresentatività nella Comunicazione della Commissione del 1993 parti sociali devono:
- Essere interprofessionali, settoriali e organizzate a livello europeo;
- Essere composte da organizzazioni riconosciute come parte integrante delle strutture delle
parti sociali degli Stati membri e avere la capacità di negoziare accordi
- Disporre di strutture adeguate che consentono loro di partecipare in modo efficace al processo
di consultazione.
La commissione ha individuato 28 organizzazioni sindacali che devono essere consultate ma nessun
criterio è stato individuato per la partecipazione alla fase negoziale vera e propria.
I requisiti per la consultazione indirettamente condizionano anche la stipulazione dell’accordo ,
nella misura in cui sono utilizzati ai fini dell’attuazione dell’accordo stesso mediante decisione del Consiglio.
La decisione del Consiglio che imponga l’attuazione a livello comunitario di un accordo collettivo è
subordinata al fatto che tale accordo sia stato in precedenza sottoscritto dai sindacati complessivamente
dotati di un grado sufficiente di rappresentatività-
È possibile quindi che il controllo di rappresentatività effettuato dalla Commissione si spinga oltre la
fase di consultazione e investa indirettamente anche quella negoziale.
L’attuazione degli accordi raggiunti dalle parti sociali è avvenuta attraverso trasposizione in direttiva
con la tecnica dell’allegato. La procedura potrebbe portare anche a risultato diverso da quello voluto
inizialmente perché le clausole dell’accordo sono soggetto a duplice vaglio: Commissione prima di
diventare direttiva e Stato che la attua.
Per attuazione delle direttive in materia sociale nell’ordinamento italiano esistono una serie di limiti
evocati dalla dottrina e dalla Corte di giustizia. Tali limiti riguardano l’insussistenza di meccanismi legislativi
e amministrativi di estensione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi.
Tesi di Massimo d’Antona  emanazione di provvedimenti legislativi è legittima e doverosa, in
ragione degli impegni assunti con adesione all’UE.
La compatibilità della costruzione con l’assetto costituzionale sarebbe giustificata dalla circostanza
che il contesto per valutare l’operato del legislatore non sarebbe quello interno della non conformità del
provvedimento legislativo dell’art. 39 ma quello comunitario, che indica nell’abbinamento tra
contrattazione collettiva traspositiva e il provvedimento statale di estensione dell’efficacia del contratto lo
strumento normativo in grado di assicurare l’effetto utile dell disposizioni comunitarie.
Ove si ritenga che l’art. 39 Cost. non riconosce garantisce principi fondamentali dell’ordinamento, la
Corte potrebbe escludere l’illegittimità costituzionale del provvedimento legislativo di estensione
dell’efficacia dell’accordo traspositivo perché tale provvedimento garantisce l’effetto utile di una disciplina
comunitaria.
Duplice natura giuridica: alla c.d. contrattazione istituzionale risulta piuttosto problematico
riconoscere i connotati dell’autonomia collettiva se quest’ultima è qualificata come potere riconosciuto alle
parti di autoregolamentare i loro interessi e la contrattazione collettiva c.d. libera nei contenuti e nelle
procedure risulta più agevolmente riconducibile all’autonomia collettiva.
SCIOPERO NELL’UE
L’UE non ha competenza in materia di sciopero e serrata.
Il diritto di negoziazione e di azioni collettive è però espressamente riconosciuto dalla Carta dei
diritti fondamentali dell’Ue che ha assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati. Conseguentemente il
diritto di sciopero si pone oggi sullo stesso piano delle libertà sancite dai Trattati.
Quadro normativo precedente  il diritto di ricorrere ad azioni collettive era stato riconosciuto
dalla Carta sociale europea del 1961, dalla successiva Carta dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del
1989 e dalla Carta dei diritti fondamentali Ue del 2000 – non avevano efficacia giuridica vincolante dei
Trattati e i diritti sociali dalle stesse riconosciuti.
Prima del Trattato di Lisbona l’effettivo riconoscimento del diritto di sciopero in ambito europeo ha
tradizionalmente scontato i limiti derivanti dalla idoneità delle azioni collettive a limitare le libertà
economiche garantite dal trattato.

RAPPORTI DI LAVORO
Il lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato non è più referente esclusivo della disciplina
legale del diritto del lavoro.
Si sono ormai diffusi rapporti di lavoro non subordinati in varia origine e natura.
Il rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, pur continuando a rimanere dal
punto di vista statistico il rapporto più diffuso, è ormai contornato da una serie di rapporti di lavoro che
sono subordinati ma temporanei e flessibili e anche da rapporti autonomi o associativi.
Nel corso del tempo la disciplina del lavoro subordinato a tempo indeterminato è stata oggetto di
un irrigidimento progressivo delle tutele in materia di licenziamento del lavoratore con tre leggi: 604/1966,
art. 18 St. lavoratori e 108/1990 sui licenziamenti individuali. Disposizioni queste che hanno introdotto
l’obbligo per il datore di lavoro della motivazione del licenziamento e hanno previsto sanzioni (risarcimento
o riassunzione) in caso di licenziamento ingiustificato – fino a 15 dipendenti e sanzione della reintegrazione
nel posto di lavoro –datori con più di 15 dipendenti.
L’intervento del Governo Monti, attraverso l. 92/2012 persegue l’obiettivo di ridurre la rigidità
dell’apparato sanzionatorio contro il licenziamento ingiustificato nelle imprese rientranti nel campo di
applicazione dell’art. 18 St. lavoratori.
Le ragioni della crisi del rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato devono
essere individuate nelle cause che hanno determinato la rilevante trasformazione della realtà industriale
del Paese in cui è nato e sviluppato il lavoro subordinato, avvertendo che si tratta di un processo di
trasformazione non ancora assestato.
Ragioni di carattere strutturale e internazionale nell’evoluzione del diritto del lavoro:
1. Internazionalizzazione dei mercati
2. Progresso tecnologico e mutamento nell’organizzazione dell’impresa
3. Mutamento della figura del lavoratore
4. Processo di integrazione europea

IL LAVORO SUBORDINATO
LE ORIGINI DEL CONTRATTO DI LAVORO SUBORDINATO
Codice civile 1865 non regolava contratto di lavoro. Art. 1570 prendeva in considerazione il
contratto di locazione delle opere per cui una parte si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la
pattuita mercede l’attività di lavoro veniva inquadrata nella locazione e veniva distinta la locatio
operarum dalla locatio operis.
Il lavoro umano assume negli ordinamenti due forme: subordinato(dipendente) e
autonomo(prestazione d’opera).
Locatio operarum = contratto di locazione delle opere; il prestatore di lavoro mette a disposizione
del datore le proprie energie.
Locatio operis= contratto di locazione d’opera; oggetto è il compimento di un’opera e perciò
adempimento istantaneo – nel momento in cui l’opera è compiuta è anche consegnata.
Con la nascita della grande industria in Italia la tutela assicurata dal codice civile attraverso il
contratto di locazione delle opere, al lavoro degli operai di fabbrica risultò progressivamente inadeguata e
insufficiente. Nacquero le c.d. leggi sociali come la legge sugli infortuni sul lavoro del 1898, sulle donne e
fanciulli del 1902 che erano interventi settoriali che miravano a assicurare garanzie minime al lavoro di
fabbrica.
Un’altra forma di tutela agli operai delle fabbriche fu garantita dalla legge istitutiva dei collegi dei
probiviri chiamati a risolvere secondo equità le controversie che insorgevano tra industriali e operai.
Nel 1901 Barassi (fondatore del diritto del lavoro in Italia) aveva considerato nella subordinazione
del locator operarum il tratto identificativo della locatio operarum.
Gli indici di riconoscimento della subordinazione costituiti dall’assunzione del rischio e
dall’accentramento della gestione da parte del conductor operarum non consentivano di considerare la
stessa subordinazione come dato di qualificazione giuridica dell’obbligazione lavorativa.
Il diritto del lavoro in quanto diritto speciale prende atto che la locatio operarum è un’astrazione.
Meriti e limiti dell’elaborazione di Barassi  Merito è stato quello di trasformare il vincolo di
dipendenza personale in vincolo di dipendenza funzionale, collegato all’esecuzione della prestazione
lavorativa e non alla persona. Il limite è stato quello di non prendere atto che lo schema della locazione, se
riferito allo svolgimento del lavoro, mal si presta a separare l’attività dalla persona del lavoratore, con il
rischio di considerare quest’ultimo come oggetto.
Accanto alla tutela assicurata al lavoro in fabbrica dalle leggi sociali e dalla giurisprudenza
probivirale fu diffusa anche l’applicazione delle norme raccolte dalle Camere di commercio che offrivano
alle parti un contratto tipo o un regolamento parziale che non aveva valore legale.
Non esistevano clausole tipo predisposte dalle Camere di commercio e comunque variavano da
zona a zona, che non eliminavano l’esigenza di un intervento legislativo anche perché la disciplina del
rapporto rimaneva pur sempre affidata all’autonomia privata individuale.
Nel 1923 fu emanato un decreto che regolamentava l’orario di lavoro per operai e impiegati delle
aziende industriali o commerciali mentre l’anno successivo la legge sull’impiego privato che regolava il
lavoro intellettuale con esclusione del lavoro manuale. Nella legge non compare ancora la nozione di
subordinazione come dato di qualificazione dell’obbligazione di lavorare dell’impiegato mentre con la
formula “il contratto d’impiego privato è quello per una società o un privato, gestori di un’azienda,
assumono al servizio dell’azienda stessa, attività professionale dell’altro contraente” viene confermato che
l’oggetto del contratto è costituito dall’attività professionale e viene affermata la rilevanza giuridica del
contratto di impiego privato con l’azienda.
CONTRATTO DI LAVORO SUBORDINATO NELL’IMPRESA A TEMPO
PIENO ED INDETERMINATO
Art. 2094 c.c. definisce prestatore di lavoro subordinato. Questo articolo non ha disconosciuto
l’origine contrattuale del rapporto e la natura del contratto a prestazioni corrispettive, quando la norma
precisa che è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione.
L’art. 2094 ha introdotto la nozione di subordinazione identificandola nella collaborazione del
prestatore di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore  quest’ultimo ha il potere di
determinare al momento di costituzione del rapporto, di modificare unilateralmente in corso di rapporto le
modalità di esecuzione della prestazione di lavoro affinché la collaborazione alle dipendenze dello stesso
imprenditore sia idonea a soddisfare l’interesse di quest’ultimo.
Il contratto di lavoro subordinato consente al datore di pianificare e coordinare, attraverso
l’esercizio del potere direttivo, la prestazione di lavoro dedotta in contratto con le prestazioni rese da altri
lavoratori in altrettanti contratti di lavoro.
Il coordinamento di uno o più contratti di lavoro con gli altri fattori della produzione consente
all’imprenditore di realizzare il risultato produttivo, che non entra però nel contenuto del singolo contratto
individuale di lavoro e tale risultato pur rimanendo estraneo all’oggetto dell’obbligazione assunta dal
lavoratore diviene punto di riferimento per la determinazione del modo di essere della prestazione dovuta.
L’obbligo di collaborazione del lavoratore distingue il contratto di lavoro da altri contratti di
scambio.
Non risulta completamente decisiva la soggezione del prestatore di lavoro alle direttive del datore;
anche in determinate ipotesi di lavoro autonomo continuativo è agevole riscontrare lo stesso margine di
autonomia non solo nell’esecuzione, ma anche nell’organizzazione della prestazione lavorativa.
La subordinazione non è stata esclusa quando l’artista restando soggetto alle direttive
dell’imprenditore sul piano organizzativo si sia riservato il potere di controllo sulla sceneggiatura.
La giurisprudenza è molto oscillante sulla qualificazione autonoma o subordinata dell’attività di
insegnamento nella scuola privata  considerata autonoma la prestazione del docente che si sia obbligato
a tenere un numero minimo di lezioni mentre è subordinato il rapporto che si svolge con modalità tali da
comportare l’inoperosità dell’insegnante per alcune ore presso la scuola e l’inosservanza di un orario di
lavoro predisposto dall’organizzazione scolastica.
Sebbene il riconoscimento delle direttive non sia sempre decisivo, esso resta comunque il criterio
distintivo principale tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.
La distinzione tra obbligazione di mezzi o di attività, in base alla quale l’obbligato si impegna a
svolgere un’attività di lavoro, e l’obbligazione di risultato, in base alla quale l’obbligato si impegna a
svolgere un’attività qualificata come risultato, non sembra idonea a distinguere lavoro subordinato da
quello autonomo.
Quando il lavoratore sia a disposizione dell’impresa, anche se la prestazione era richiesta al
bisogno, il rapporto di lavoro è subordinato.
Il rischio ricade di norma sul lavoratore autonomo e non su quello subordinato.
La subordinazione socio – economica non può essere considerata elemento identificativo della
subordinazione e distintivo del lavoro subordinato rispetto al lavoro autonomo perché nel nostro
ordinamento i rapporti di lavoro non sono necessariamente subordinati.
L’esecuzione della prestazione nel lavoro autonomi non sarebbe necessariamente personale,
mentre lo è nel lavoro subordinato. Anche nelle ipotesi in cui il prestatore d’opera si avvale di opera di terzi
si distingue adempimento diretto del terzo dall’adempimento a mezzo di terzi.
In caso di contrasto tra la dichiarazione e il comportamento delle parti, prevale quest’ultimo ai fini
della qualificazione del rapporto di lavoro subordinato.
Metodo tipologico  il tipo normativo non individua un tipo legale determinato, ma solo alcune
caratteristiche di un tipo legale, sicché l’applicazione del metodo tipologico consente al giudice di non
sussumere la fattispecie concreta in quella astratta ma di ricondurre la prima al tipo normativo.
Disponibilità del tipo da parte del legislatore = compete al legislatore definire e regolare i tipi che
sono denominati legali. La corte ha negato ripetutamente che il legislatore possa disporre del tipo di lavoro
subordinato.
Art 34-35 Cost. sono riferibili esclusivamente al lavoro subordinato. L’ultimo prevedere l’impegno
della Repubblica a tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e quindi smentisce interpretazione
limitativa.
Art. 36 Cost.  non impedisce al legislatore ordinario di determinare una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro eseguito ovvero non impedisce ad un ordinamento
economico collettivo di determinare i minimi di trattamento economico.
Art. 37 cost.  stabilisce parità di trattamento tra uomo e donna e il diritto dei minori, a parità di
lavoro, alla parità di retribuzione e perciò prevede e regola diritti che possono essere fatti valere anche al di
fuori del lavoro subordinato.
Art. 39 -40 Cost.  norme riferite alla rappresentanza sindacale dei lavoratori e al diritto di
sciopero.

CONTRATTO E RAPPORTO DI LAVORO


L’età minima per ammissione al lavoro coincide con la cessazione del periodo di istruzione
obbligatoria e non deve essere comunque inferiore al 16° anno di età. Previa autorizzazione della direzione
provinciale del lavoro e assenso dei genitori però è ammesso l’impiego dei minori in attività lavorative di
tipo culturale, sportivo o nel settore dello spettacolo. È previsto un trattamento particolare con divieto di
orario notturno.
Con il compimento del 18° anno di età il lavoratore acquista la capacità ci stipulare un contratto di
lavoro.
Requisiti del contratto:
- Accordo delle parti
- Contratto a prestazioni corrispettive = scambio di lavoro contro retribuzione
- Forma  contratto a tempo pieno ed indeterminato non ha alcun tipo di forma. Invece quella
scritta ad substantiam viene richiesta per alcune clausole o patti che accedono al contratto di
lavoro
- Oggetto costituito dalle mansioni e dalla retribuzione
- Onerosità  perché la controprestazione è costituita dalla retribuzione. Il contratto di lavoro
gratuito è innominato e non lecito. (il lavoro gratuito è lecito a condizione che realizzi un
interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico)
Il patto di prova deve risultare da atto scritto ad substantiam e il lavoratore in prova ha diritto di
eseguire la prestazione di lavoro. il periodo di prova non può superare i sei mesi durante i quali le parti
possono recedere liberamente, senza obbligo di preavviso. L’assunzione diventa definitiva se nessuna delle
parti esercita il recesso entro il termine della prova e in tal caso il lavoro già prestato è computato a tutti gli
effetti nell’anzianità di servizio.
L’origine contrattuale del rapporto di lavoro non è messa in discussione neppure dalla rilevanza
giuridica attribuita dal codice alla prestazione di fatto in quanto la norma presuppone pure sempre un
contrato invalido  si vuole garantire che la tutela dei diritti che il lavoratore avrebbe maturato nel corso
dell’esecuzione del rapporto non sia pregiudicata dalla nullità o dall’annullamento del contratto. Al
lavoratore spetta il diritto alla retribuzione quando il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste
a tutela del lavoratore.
Vecchia disciplina del collocamento riforma ha seguito due direttive differenti. Da una parte il
d.lgs. 469/1997 ha eliminato il monopolio pubblico del collocamento e dall’altra l. 608/1996 ha introdotto il
principio dell’assunzione diretta = Il datore di lavoro può procedere all’assunzione diretta di un lavoratore
senza passare per l’intermediazione di un ufficio pubblico.
All’atto di assunzione il datore deve comunicare al lavoratore la qualifica e la categoria che gli sono
state assegnate in relazione alle mansioni che deve svolgere e deve rilasciarli una coppia della
comunicazione dell’instaurazione del rapporto.
L’assunzione del lavoratore determina il sorgere di un obbligo di comunicazione nei confronti del
Centro per l’impiego territorialmente competente, al quale devono essere trasmessi i dati anagrafici del
lavoratore, data di assunzione, data di cessazione qualora il rapporto sia a tempo determinato. La
comunicazione deve essere effettuata entro il giorno antecedente a quello di inizio del rapporto.
Nuove regole sull’ingresso dei privati nel mercato di lavoro:
- Istituzione di un albo delle agenzie per il lavoro  agenzie di intermediazione, agenzie di
ricerca e selezione del personale, agenzie di supporto alla collocazione professionale
- Autorizzazione preventiva del Ministero del lavoro per poter svolgere attività da parte delle
agenzie per il lavoro, le quali, per ottenerla, hanno bisogno di determinati requisiti finanziari,
organizzativi e di onorabilità dei propri dirigenti e rappresentanti
- Regimi particolari di autorizzazione per particolari soggetti come le Università, camere di
commercio ecc.
- Potere di accreditamento delle regioni nei confronti di operatori pubblici e privati
Per realizzare un sistema efficace di informazioni è stata istituita la borsa continua nazionale del
lavoro che favorisce appunto l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Sono previste sanzioni penali nei confronti di coloro che svolgono attività di intermediazione,
somministrazione di lavoro, ricerca del personale e ricollocazione professionale in assenza
dell’autorizzazione.
Sanzioni amministrative sono previste in caso di violazione delle norme riguardanti le modalità di
assunzione, trasformazione e cessazione del rapporto di lavoro.
Già da tempo veniva previsto un collocamento obbligatorio che garantiva possibilità di occupazione
per persone affette di menomazioni fisiche o intellettive in una determinata percentuale al numero dei
lavoratori complessivamente occupati. La legge 68/1999 definisce il collocamento mirato come quella serie
di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle
loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi dei posti di lavoro, forme di
sostegno. La legge individua i soggetti disabili che devono essere iscritti in appositi elenchi e prevede criteri
e procedure per i relativi accertamenti. L’obbligo di assunzione grava su tutti i datori in proporzione al
numero dei dipendenti. L’assunzione dei disabili può avvenire o mediante richiesta da indirizzare agli uffici
competenti entro 60 giorni dal momento in cui sorge l’obbligo di assumere il disabile ovvero mediante
stipula di convenzioni. Sono previste anche assunzioni a tempo determinato con finalità formative.
Periodicamente i datori di lavoro hanno l’obbligo di inviare un prospetto informativo sulla situazione
dell’organico e l’inosservanza di quest’obbligo può far sorgere sanzioni amministrative.
Tra le misure dirette a promuovere l’occupazione di particolari categorie di soggetti a rischio di
esclusione sociale è inclusa anche la formazione professionale necessaria per fronteggiare le esigenze
formative sia delle nuove leve di lavoratori da immettere nei processi produttivi, sia i lavoratori da
reintegrare.
La crisi del modello del lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato e le esigenze che sono
alla base della nuova imprenditorialità sollecitano un’offerta formativa diversificata che ha spinto il
lavoratore ad avviare una riforma che garantisce ai lavoratori una formazione continua durante la vita
lavorativa.
Le regioni hanno compiti e funzioni in materia di politica attiva del lavoro con particolare
riferimento all’incremento occupazionale. Vengono dettate norme generali in materia di alternanza scuola
– lavoro; sono state inoltre istituiti fondi paritetici interprofessionali nazionali per la formazione continua
per il finanziamento di piani formativi aziendali , settoriali, territoriali concordati tra le parti sociali.
Le leggi regionali si propongono l’obiettivo di realizzare l’inserimento lavorativo e l’occupazione di
soggetti in condizioni di svantaggio sociale mediante l’attività di orientamento, formazione, forme di
collocamento mirato attraverso convenzioni con strutture pubbliche o private. L’attività formativa può
essere realizzata tenendo conto delle esigenze produttive delle imprese nelle quali i lavoratori sono
chiamati a operare.
Con la sottoscrizione delle parti si conclude il contratto di lavoro con il quale si istaura il rapporto di
lavoro che ha una struttura complessa, perché accanto alle due obbligazioni fondamentali gravitano una
serie di oneri e obblighi strumentali o accessori corrispondenti pretese e potestà di predisposizione e
corrispondenti soggezioni che concorrono a formare la posizione del prestatore e datore di lavoro.
I diritti del lavoratore sono tutelati anche in via amministrativa attraverso la funzione di vigilanza
sulla corretta applicazione della normativa in materia di lavoro. Nell’attività di vigilanza rientrano il potere
di accesso nei luoghi di lavoro, l’esame della documentazione aziendale, l’acquisizione delle dichiarazioni
dei lavoratori e dei datori di lavoro. La funzione di vigilanza è assicurata dal personale ispettivo del
Ministero del Lavoro e dagli enti previdenziali e dagli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria.
Nell’esercizio della funzione di vigilanza gli ispettori operano in qualità di ufficiali di polizia
giudiziaria e hanno un potere di accertamento delle eventuali infrazioni compiute dal datore di lavoro. delle
infrazioni deve essere redatto un processo verbale che diventa fonte di prova; l’ispettore non ha il potere di
costituire il rapporto, ma può solo diffidare il datore di lavoro ad inquadrare nella corretta tipologia
contrattuale il dipendente irregolarmente occupato ed irrogare le relative sanzioni amministrative.
Le sanzioni amministrative vengono irrogate direttamente dal personale ispettivo, secondo
procedure diverse a seconda che il tipo di infrazione rilevata consista in una inosservanza sanabile o
insanabile. Nel primo caso gli ispettori diffidano il trasgressore alla regolarizzazione delle violazioni
accertate – se il datore ottempera alla diffida è ammesso al pagamento di una sanzione ridotta o minima.
Nel secondo caso invece gli ispettori procedono alla contestazione dell’infrazione senza necessità di alcuna
diffida preventiva – il datore di lavoro può estinguere il procedimento sanzionatorio attraverso il
pagamento di una sanzione in misura ridotta.
Un’ulteriore potere attribuito agli organi ispettivi è la diffida accertativa per crediti patrimoniali.
Qualora nell’attività di controllo sulla corretta applicazione dei contratti collettivi emerga un’inosservanza
dalla quale scaturisca un credito pecuniario in favore di uno o più prestatori di lavoro, gli ispettori possono
diffidare il datore di lavoro e corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti.
Conciliazione monocratica  esito positivo = non viene dato seguito ad una verifica ispettiva nei
confronti del datore di lavoro. Non è possibile ricorrervi quando sussistano irregolarità di diretta ed
esclusiva rilevanza penale o che interessino altri lavoratori oltre il denunciante.

POTERI DEL DATORE DI LAVORO


Hanno fonte nel contratto di lavoro ma sono regolati dalla legge.
L’iniziativa economica privata è libera, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo
da recare danno alla sicurezza, libertà e dignità umana. L’utilità sociale non costituisce un limite funzionale
ma un limite esterno rispetto all’iniziativa economica.
La legge e la contrattazione collettiva possono limitare progressivamente l’esercizio dei poteri
dell’imprenditore ma mai funzionalizzare il loro esercizio all’utilità sociale.
L’imprenditore ha diritto di costituire l’impresa per perseguire un profitto e la legge ordinaria non
può imporgli di perseguire l’interesse pubblico o interessi diversi.
Primo dei poteri che spetta al datore di lavoro è il potere direttivo, attraverso il quale egli
determina le disposizioni per l’esecuzione del lavoro. Con il potere direttivo il datore è legittimato a stabilire
termini e modi in cui la prestazione lavorativa deve essere svolta affinchè la medesima risulti utile per la
realizzazione del programma produttivo, ma è legittimato altresì a modificare unilateralmente le modalità
di esecuzione della prestazione lavorativa. Il datore di lavoro, inoltre, deve abilitare il lavoratore alle
mansioni pattuite.
In presenza di comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive, al datore di lavoro viene
riconosciuto il potere di modificare unilateralmente il luogo di esecuzione della prestazione lavorativa. Il
trasferimento comporta un mutamento definitivo del luogo di lavoro.
Per trasferimento all’estero la dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono necessario il
consenso del lavoratore perché l’obbligo di collaborazione non copre un mutamento così radicale.
La trasferta invece determina un mutamento solo temporaneo del luogo di esecuzione della
prestazione lavorativa.
Si distingue da questa il distacco, caso in cui il lavoratore viene inviato dal datore a svolgere la sua
prestazione presso un altro datore di lavoro temporaneamente e nell’interesse del distaccante. Esso è
legittimo qualora sia temporaneo e disposto per soddisfare un interesse del distaccante. L’attività lavorativa
da svolgere deve essere determinata. Il datore di lavoro distaccante mantiene durante il distacco la piena
titolarità del rapporto e rimane responsabile del trattamento economico del lavoratore. Quando il distacco
presuppone un mutamento delle mansioni è subordinato al consenso del lavoratore. Anche il periodo di
distacco deve essere predeterminato dall’inizio.
Potere di controllo  datore può controllare:
- Patrimonio aziendale attraverso le guardie giurate e visite del personale di controllo
- Svolgimento della prestazione lavorativa attraverso personale di vigilanza
- Personale in caso di malattia attraverso medici dei servizi ispettivi
Il potere di controllo è un’espressione del o comunque rientra nel potere direttivo.
L’art. 5 St. lavoratori consente accertamenti sanitari attraverso il personale del sistema sanitario
nazionale  obbligo di reperibilità in determinate fasce orarie del personale in malattia, al fine di
consentire la sottoposizione a visita medica e in assenza del lavoratore il medico lascia l’invito per la visita
ambulatoriale. Il lavoratore che risulti assente alla visita senza giustificato motivo decade dal diritto al
trattamento economico per l’intero periodo fino a 10 giorni e 50% per il periodo ulteriore.
Con la conclusione del contratto di lavoro subordinato il datore di lavoro è legittimato ad esercitare
il potere disciplinare e procedimentalizzato. Si tratta di un potere tipico del contratto di lavoro subordinato
che consente al datore di lavoro di punire la violazione degli obblighi di osservanza, di diligenza e di fedeltà
che incombono al lavoratore senza compromettere la conservazione e la continuità del rapporto di lavoro.
L’esercizio del potere disciplinare, a fronte di un inadempimento, evita di ricorrere ai rimedi previsti
dal diritto comune non solo nell’interesse del datore ma anche nell’interesse del lavoratore. Anche il
licenziamento può configurarsi come sanzione disciplinare.
Limiti di questo esercizio sono contenuti nell’art 2106 c.c. = proporzionalità della sanzione
all’infrazione.
Art. 7 St. lav. ha procedimentalizzato l’esercizio = ha introdotto principio di legalità stabilendo che il
codice disciplinare aziendale debba indicare infrazioni e sanzioni corrispondenti. Il codice disciplinare deve
essere portato alla conoscenza dei dipendenti mediante affissione. L’art. 7 ha introdotto inoltre anche il
principio del contraddittorio che obbliga il datore di lavoro a contestare al lavoratore la sanzione e ad
ascoltarlo a sua difesa prima di irrogare la sanzione.
Il lavoratore può chiedere entro 20 giorni la costituzione di un collegio di conciliazione i cui atti
hanno natura negoziale. La sanzione resta quindi sospesa fino al lodo oppure fino alla definizione del
giudizio. Essa diventa inefficace se il datore non provveda alla nomina del proprio arbitro entro 10 giorni. La
sanzione della multa non può superare le 4 ore di retribuzione e la sospensione non può superare 10 giorni.
La sospensione cautelare è finalizzata ad assicurare lo svolgimento ordinario ed efficiente
dell’attività aziendale in presenza di fatti tali da rendere opportuno il temporaneo allontanamento di un
dipendente dal servizio. Questa può essere disposta unilateralmente dal datore di lavoro anche in assenza
di una specifica disciplina legale.
La sospensione cautelare si distingue dalla sospensione dell’art. 7 St. lav. perché questa è un
provvedimento disciplinare mentre la prima è una misura di carattere provvisorio e strumentale
all’accertamento di possibili responsabilità penali, infatti non deve essere preceduta da formale
contestazione di addebito e non trova nemmeno applicazione il limite di 10 giorni previsto per la
sospensione quale provvedimento disciplinare. La sospensione cautelare inoltre non priva il lavoratore dal
diritto di retribuzione, anche se il contratto collettivo può prevedere la sospensione dell’obbligazione
retributiva.
Principio della non colpevolezza del lavoratore sorte dell’obbligazione retributiva condizionata
dall’esito del procedimento disciplinare : qualora questo si concluda in senso sfavorevole con
licenziamento, gli effetti del recesso retroagiscono al momento in cui era stata applicata la sospensione
cautelare. Qualora invece venga applicata una sanzione conservativa e il processo si concluda in modo
favorevole, il lavoratore ha diritto alla piena retribuibilità del periodo di sospensione cautelare.

INQUADRAMENTO E OBBLIGHI DEL PRESTATORE DI LAVORO


L’assegnazione delle mansioni al lavoratore comporta l’inquadramento di questo nelle categorie
legali, contrattuali o aree professionali.
Art. 2095 – quattro categorie di lavoratori subordinati : operai, impiegati, quadri e dirigenti. I criteri
per determinare la categoria di appartenenza sono affidati al contratto collettivo.
Quadri = lavoratori che pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti svolgono funzioni con
carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi
dell’impresa. Essi non hanno una propria contrattazione collettiva.
Dirigenti = non esiste una vera e propria definizione, sono gli alter ego degli imprenditori. Dalla
contrattazione collettiva deriva un dato significativo della natura dirigenziale che incide sulle scelte di
politica aziendale e sugli obiettivi complessivi d’impresa che distingue il dirigente dall’impiegato direttivo. È
superato l’atto di nomina al fine dell’inquadramento dei dirigenti in questa categoria, è lo svolgimento
effettivo delle mansioni a dar luogo alla promozione.
L’art. 7 St. lav. non troverebbe applicazione in caso di licenziamento disciplinare di un dirigente
poiché la natura fiduciaria del rapporto escluderebbe la stessa configurabilità del potere disciplinare del
datore di lavoro, anche se non sono mancate pronunce in senso contrario. Le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione invece si sono pronunciate per l’applicabilità dell’art. 7 St. Lav..
In passato il contratto collettivo prevedeva due parti – una relativa agli impiegati e l’altra per gli
operai. I primi erano suddivisi in diverse categorie, esistevano infatti impiegati d’ordine, di concetto, 1°
categoria e impiegati con funzioni direttive. Una dottrina autorevole distingueva gli operai dagli impiegati
qualificando i primi come collaboratori all’impresa e i secondi come collaboratori nell’impresa.
Con il tempo è stato superata la distinzione e si è formato l’inquadramento in un medesimo livello
retributivo del personale con qualifiche ex operaie e con qualifiche ex impiegatizie.
Il criterio più ampio nell’area professionale consente di considerare professionalmente equivalenti
tutte le mansioni ricomprese nell’area.
La qualifica indica la serie di mansioni che il lavoratore assunto con quella determinata qualifica è
tenuto a svolgere. Tra gli obblighi del datore di lavoro all’assunzione del lavoratore esiste anche la
comunicazione a quest’ultimo della qualifica; questa assume quindi anche una funzione di inquadramento.
La qualifica derivante da un titolo di studio e non dalle mansioni viene considerata idonea da
qualche contratto a determinare progressioni di carriera. In questi casi l’esecuzione del rapporto di lavoro
procede in assenza di una perfetta consonanza tra la qualifica riconosciuta e le mansioni espletate.
Qualifica convenzionale = lavoratore continua a svolgere le mansioni contrattualmente concordate
ma, per espressa pattuizione delle parti, ad esso viene attribuita una qualifica superiore che sarà
presupposto necessario di una serie di posizioni giuridiche alle quali si farà riferimento.
Qualifica non collegata alle mansioni  il riconoscimento trascende ogni aspetto o diritto connesso
al rapporto in atto e si sostanzia nell’interesse alla regolamentazione della propria progressione in carriera;
l’aspetto tutelato è quello della professionalità del prestatore di lavoro.
Il contratto di lavoro è un contratto di scambio costituito dall’obbligazione di corrispondere una
retribuzione alla prestazione del lavoratore, quindi allo svolgimento delle mansioni pattuite. Al lavoratore
non possono essere richiesti compiti che esorbitano dalle mansioni assegnate. Il contratto di lavoro è
contrassegnato dal carattere fiduciario (intuitus personae) che rileva non solo nello svolgimento della
prestazione ma anche nella costituzione del rapporto; questo pone al contro del rapporto la persona del
lavoratore e il carattere strettamente personale della prestazione lavorativa. La personalità della
prestazione esclude che il prestatore possa avvalersi nello svolgimento della prestazione di sostituti o
ausiliari. L’obbligo di eseguire la prestazione si traduce nell’obbligo di eseguire le mansioni per le quali il
lavoratore è stato assunto. Egli può essere spostato dal datore di lavoro unilateralmente a mansioni
equivalenti.
Equivalenza sul piano della professionalità  si considerano equivalenti le mansioni che richiedono
l’utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore inteso come bagaglio di esperienze e
competenze maturate nello svolgimento di mansioni fino ad allora svolte. L’assegnazione a mansioni
equivalenti non richiede consenso del lavoratore e non può comportare diminuzione della retribuzione. La
conservazione della retribuzione non si estende però alle indennità connesse a modalità estrinseche dello
svolgimento del lavoro. la valutazione dell’equivalenza delle mansioni è affidata al giudice.Le clausole del
contratto collettivo sono solo considerate un parametro di riferimento per la valutazione dell’equivalenza
delle mansioni; tali clausole non saranno più soggette al controllo di validità da parte del giudice che non
potrà più dichiarare la loro nullità.
Il vecchio art. 2103 c.c. prevedeva limiti e garanzie nei confronti del lavoratore rispetto all’esercizio
dello ius variandi in pejus del datore di lavoro. Questo limite era facilmente aggirato, perché il datore era
libero di recedere ad nutum e questo induceva il lavoratore ad accettare anche tacitamente di essere
assegnato a mansioni inferiori. L’art. 2103, modificato, ha sancito la nullità di ogni patto contrario. In fatti la
norma ha introdotto un più rigido regime della indisponibilità, anche se in realtà una parte della
giurisprudenza accetta patti peggiorativi stipulati nell’interesse del lavoratore al fine di garantire la
conservazione del posto di lavoro.
Se un lavoratore viene assegnato comunque a mansioni inferiori, egli potrebbe far valere
l’eccezione di inadempimento, ossia una formula di autotutela.
Se queste mansioni vengono svolte per un periodo di tempo superiore a 10 anni, può essere fatta
valere la nullità a meno di riconoscere l’autonoma rilevanza del diritto alla qualifica e ritenere legittimato il
datore ad eccepire la prescrizione per il decorso dei 10 anni.
Dall’assegnazione alle mansioni inferiori il lavoratore può subire sia una danno patrimoniale che
non patrimoniale, consistente, quest’ultimo, in danno alla professionalità.
Quando il lavoratore viene adibito a mansioni superiori ha diritto al trattamento corrispondente,
quindi aumento e l’assegnazione diventa definitiva se supera i 3 mesi, a meno che non sia intervenuta per
sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto. Vale la regola della
sommatoria per periodi di assegnazione ripetuti inferiori a tre mesi, in modo da evitare frodi alla legge.
Ai fini della promozione lo svolgimento delle mansioni deve essere effettivo e pieno.
Prevale sempre il diritto del lavoratore che abbia svolto mansioni superiori su quello del vincitore di
concorso.
Nel lavoro pubblico l’esercizio di fatto di mansioni cono corrispondenti alla qualifica non ha effetti ai
fini dell’inquadramento o dell’assegnazione di incarichi di direzione. Solo in caso di vacanza in organico e
per un periodo limitato o nel caso di sostituzione di un altro dipendente è ammessa l’assegnazione a
mansioni superiori.
Obbligo di collaborazione nell’impresa = non significa comunione di scopo. Tuttavia questo
distingue il contratto di lavoro dagli altri contratti di scambio per la funzione organizzativa evidenziata dalla
collaborazione cui è tenuto il prestatore. Il risultato produttivo dell’impresa diventa punto di riferimento
per la determinazione del contenuto e del modo di essere della prestazione dovuta.
Art. 2104 c.c. – individua criteri di valutazione della diligenza del lavoratore nello svolgimento della
prestazione. Egli deve possedere e impiegare infatti determinate competenze e esperienze. La diligenza è la
misura della qualità e della quantità della prestazione dovuta.
Lo scarso rendimento costituisce inadempimento se il datore di lavoro prova la negligenza e la
colpa del lavoratore.
Il prestatore di lavoro ha inoltre l’obbligo di osservanza delle disposizioni della disciplina lavorativa
e anche l’obbligo di fedeltà, che è la partecipazione del lavoratore all’utile voluto dal datore. Il divieto di
concorrenza dura fino all’estinzione del rapporto di lavoro, è consentito però anche un patto di non
concorrenza che vieta al lavoratore di svolgere attività concorrenti anche dopo la fine del rapporto
lavorativo.

I DIRITTI DEL PRESTATORE DI LAVORO A CONTENUTO ECONOMICO


La retribuzione costituisce il compenso al quale il lavoratore ha diritto in ragione dell’attività svolta
alle dipendenze e sotto la direzione di un datore di lavoro.
Art. 36 cost.  il compenso deve essere proporzionato alla qualità e alla quantità del lavoro e
comunque sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
La proporzionalità e la sufficienza della retribuzione sono determinate dal contratto collettivo .
In omaggio al principio del favor verso il prestatore di lavoro sono fatte salve comunque le clausole
più favorevoli del contratto individuale.
La funzione riconosciuta al contratto collettivo di determinazione della retribuzione incontra il
limite dell’efficacia soggettiva ai soli iscritti ; problema superabile qualora le parti accettino il contratto
collettivo di diritto comune. Qualora il datore non sia iscritto al sindacato stipulante e non voglia applicare
livelli retributivi previsti dal contratto collettivo è il giudice ad avere il compito di determinare la
retribuzione sufficiente, che può, senza obbligo, adottare quella prevista dal contratto collettivo.
Anche un contratto collettivo di ambito più ristretto rispetto a quello nazionale può essere assunto
come parametro retributivo di riferimento applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio, purché il giudice
motivi la sua decisione. La Corte di Cassazione ha sostenuto che la determinazione giudiziale della
retribuzione con importi minori rispetto a quelli della contrattazione collettiva non può essere motivata con
richiamo a condizioni ambientali.
Il contratto collettivo nazionale di categoria stipulato dai sindacati comparativamente più
rappresentativi non ha efficacia generale.
La retribuzione è corrisposta normalmente in denaro e a cadenza mensile in base al principio della
postnumerazione. Il pagamento è quindi posticipato rispetto all’esecuzione della prestazione. La
retribuzione in natura può assolvere a una funzione integrativa della retribuzione in denaro.
Fringe benefits = provvidenze riconosciute sotto forma di risparmio di spesa. Se hanno natura
retributiva, il controvalore dei beni o servizi offerti al dipendente costituisce reddito imponibile a fini fiscali
e deve essere computato ai fini delle competenze legali.
Indennità di mensa  computata nella retribuzione mensile solo se questo viene previsto dal
contratto collettivo.
Indennità di trasferta  50% natura risarcitoria e 50% natura retributiva.
Retribuzione ai fini fiscali e previdenziali  costituiscono redditi da lavoro dipendente tutte le
somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di
erogazioni liberali, il relazione al rapporto di lavoro salve le eccezioni tassativamente previste. La
retribuzione ai fini fiscali è costituita soltanto da ciò che il lavoratore ha effettivamente percepito mentre la
retribuzione imponibile ai fini previdenziali non può essere inferiore all’importo della retribuzione fissata a
livello collettivo.
La retribuzione può essere corrisposta a tempo o a cottimo.
Nel primo caso l’unità di misura è il decorso del tempo indipendentemente dal risultato, anche se
c’è pur sempre una verifica, mentre nel secondo caso è presupposto il calcolo del tempo occorrente al
lavoratore di media diligenza per produrre un determinato pezzo del risultato finale. Il cottimo è vietato nel
tirocinio mentre è obbligatorio nel lavoro a domicilio. Esso può essere individuale = relativo al singolo
individuo o collettivo = relativo ad un gruppo di lavoratori. Al contratto collettivo spetta il compito di
stabilire i criteri per la formazione di tariffe per evitare abusi del datore di lavoro.
Alla retribuzione minima fissata a livello nazionale, la contrattazione aziendale aggiungeva una
parte variabile collegata ad incrementi di produttività o redditività dell’impresa. Per incentivare la
diffusione di questi elementi, il legislatore ha previsto che il salario variabile di produttività previsto dai
contratti di secondo livello (aziendali e territoriali) può essere escluso entro certi limiti a domanda delle
imprese dalla base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali.
Nel nostro ordinamento non esiste una nozione legale di retribuzione. Le parti possono prevedere
solo ed esclusivamente miglioramenti ad personam rispetto al trattamento retributivo eventualmente
pattuito in sede collettiva.
Le componenti della retribuzione inserite in busta paga sono numerose, tre delle quali sempre
presenti . paga base, prevista dal contratto collettivo di riferimento; scatti di anzianità collegati all’anzianità
di servizio maturata; contingenza ormai congelata nel suo ammontare, cioè somma corrispondente
all’indennità di contingenza maturata. Il contratto collettivo di categoria prevede anche la corresponsione
delle mensilità aggiuntive (13° e 14°) e l’attribuzione di premio alla produzione, collegato all’andamento
economico dell’impresa. Sono previsti anche altri emolumenti denominati indennità e collegati alle
modalità topografiche di esecuzione della prestazione lavorativa o a modalità rischiose della prestazione.
Principio di omnicomprensività della retribuzione = principio secondo cui tutti i compensi dovessero
essere compresi nella retribuzione  da tempo la giurisprudenza ha aderito al principio secondo il quale il
computo o meno delle indennità nelle mensilità aggiuntive dipende da quanto stabilisce il contratto
collettivo o dal comportamento anche tacito delle parti individuali. Il superamento del principio di
omnicomprensività comporta un ampliamento dello spazio per la contrattazione collettiva.
Non hanno natura retributiva i rimborsi spese, normalmente anticipate dal lavoratore per conto del
datore e inerenti alla prestazione lavorativa, premi e gratifiche .
È stata abolita l’indennità di contingenza. Essa era un emolumento che adeguava automaticamente
la retribuzione all’aumento del costo della vita in base al meccanismo dei punti di contingenza che avevano
un valore predeterminato in misura uguale per tutti i lavoratori. Con il protocollo del 1993 venne abolita
appunto la contingenza e riconosciuto ampio spazio alla contrattazione collettiva; in sede di rinnovo
biennale dei minimi contrattuali il negoziato tra le parti doveva avere come punto di riferimento la
comparazione tra inflazione programmata e quella effettiva intervenuta nel biennio precedente. Qualora
l’inflazione effettiva risultava superiore a quella programmata, erano individuati incrementi retributivi da
corrispondere nel secondo biennio.
L’accordo del 22 gennaio 2009 ha introdotto un nuovo indice IPCA (dei prezzi al consumo
armonizzato in ambito europeo), che però è destinato a non registrare uno dei fattori principali
dell’aumento dell’inflazione.
Ai sensi dell’Accordo interconfederale del 1993, nell’ipotesi di mancati rinnovo del contratto
collettivo dopo tre mesi della sua scadenza, i lavoratori percepivano un incremento denominato di “vacanza
contrattuale” equivalente al 30% del tasso di inflazione programmata ai minimi retributivi, a partire dal
settimo mese la percentuale era 50%. Con l’accordo del 2009 sono i singoli contratti collettivi a stabilire un
meccanismo che riconosca, in caso di scadenza del contratto, una copertura economica a favore dei
lavoratori in servizio alla data di raggiungimento dell’accordo di rinnovo.
La parità di trattamento retributivo a parità di mansioni riguarda i trattamenti più favorevoli
rispetto a quelli minimi stabiliti dal contratto collettivo.
L’art. 41 Cost. non introduce limiti funzionali ma solo esterni all’iniziativa economica privata che
possono essere stabiliti solo dalla legge o dal contratto collettivo.
L’utilità sociale esprime un valore che rileva giuridicamente solo quando si concreti in un atto
normativo.
La ragionevolezza è riferibile all’atto normativo e non all’atto di autonomia privata.
Le clausole generali e i principi costituzionali non sono costitutive di obbligazioni autonome e
riguardano l’esecuzione del singolo contratto di lavoro.
Il principio di parità di trattamento non può fondarsi sull’art. 36 Cost. che sancisce la
proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità della prestazione svolta e comunque la sua
sufficienza; questo principio si colloca in un’area sovrastante l’art. 36.
Esiste una diversità logico strutturale tra divieto di discriminazione e principio di parità di
trattamento  il primo ha la finalità di evitare la diversità di trattamento determinata da un requisito
personale del discriminato, mentre la seconda comporta attribuzione dello stesso trattamento retributivo a
lavoratori che hanno identità di requisiti.
Ove si riconosca il fondamento normativo del principio della parità di trattamento, si dovrebbe
arrivare alla conclusione che anche le clausole del contratto collettivo che stabiliscono disparità di
trattamento potrebbero essere invalidate e sostituite dal potere correttivo del giudice.
In caso di malattia del lavoratore, in passato l’Inam, oltre ad erogare le prestazioni sanitarie doveva
erogare anche quelle economiche. Attualmente quest’ultime si concretano nell’erogazione di prestazioni
previdenziali quali l’indennità di malattia e di maternità erogate direttamente dall’Inps a determinate
categorie di lavoratori. Quando manca la tutela previdenziale, il datore è obbligato a corrispondere la
retribuzione nella misura e per il tempo stabiliti dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità.
Il Trattamento di Fine Rapporto è stato istituito con l. 297 del 1982 e sostituisce l’indennità di
anzianità che aveva sostituito l’indennità di licenziamento. Si tratta di una somma di denaro corrisposta alla
cessazione del rapporto di lavoro al lavoratore ed è un istituto che non ha corrispondenze in altri
ordinamenti stranieri.
Calcolo del T.F.R.  esso è una somma di quozienti; il quoziente rappresenta la somma
accantonata virtualmente ogni anno che si ottiene dividendo la retribuzione annua per 13,5%, coefficiente
che indica il punto di equilibrio tra 13 o 14 mensilità che sono corrisposte al lavoratore ogni anno. Le
somme accantonate sono rivalutate ogni anno secondo indici, idonei a coprire una svalutazione del 60%.
L’indennità di anzianità era protetta da un meccanismo di doppia indicizzazione, cioè dalla dinamica
delle retribuzioni contrattuali + contingenza. Per questo le organizzazioni sindacali consentirono la
sterilizzazione dell’indennità di contingenza. Nel calcolo dell’indennità di anzianità potevano essere
computate le anzianità convenzionali, cioè riconosciute indipendentemente dallo svolgimento del servizio
effettivo.
Le somme accantonate di anno in anno per costituire il TFR sono virtuali e non reali e non sono
oggetto di un distinto diritto del datore di lavoro. il lavoratore ha tuttavia il diritto di richiedere
l’accertamento giudiziale delle quote accantonate.
Mentre devono essere computati nella retribuzione annua emolumenti corrisposti al lavoratore
anche in assenza di prestazione lavorativa, non devono essere computati tutti quegli emolumenti soltanto
occasionati dal rapporto di lavoro, come pure le somme di natura risarcitoria.
L’accertamento dell’occasionalità dovrebbe essere fatto a priori ma nella maggior parte dei casi è
fatto a posteriori perché si ha riguardo alle modalità di esecuzione della prestazione.
La retribuzione annua non è quella corrisposta in via di fatto ma quella dovuta.
L’art. 2120 c.c. è derogabile dal contratto collettivo( c. 2) comma 3 elenca tassativamente le
ipotesi di sospensione della prestazione lavorativa rispetto alle quali è prevista una retribuzione figurativa.
Il lavoratore ha diritto di richiedere anticipazioni per cause previste dalla legge come spese
sanitarie, acquisto della prima casa ma soltanto da lavoratori che abbiano un’anzianità di servizio di 8 anni e
per un importo non superiore al 70% del TFR maturato. Le richieste di anticipazione possono essere
soddisfatte annualmente nel limite del 10% dei lavoratori che ne abbiano diritto e comunque entro il 4% del
totale dei lavoratori occupati.
Il TFR conserva la natura di retribuzione differita con funzione previdenziale, che per tanto tempo
non ha alterato la natura retributiva dell’istituto. L’orientamento del legislatore va nella direzione del
progressivo assorbimento dell’istituto a vantaggio della previdenza complementare o nella direzione del
mercato finanziario.
Il TFR diventa oggi lo strumento privilegiato di finanziamento forme pensionistiche complementari,
non solo attraverso modalità di conferimento esplicite ma anche modalità tacite.
Gli accantonamenti di TFR possono considerarsi atti di previdenza in senso stretto nella misura in
cui sono destinati ad alimentare i fondi di previdenza.
In caso di morte del lavoratore viene riconosciuto che l’indennità di mancato preavviso e il TFR
siano devolute a soggetti indicati dall’art. 2122.
In una trattazione sul contratto di lavoro non è preso in esame il diritto del lavoratore alla posizione
contributiva oggetto di studio della previdenza sociale perché attinente al rapporto avente ad oggetto
l’obbligazione contributiva. Il rapporto contributivo pur avendo una propria identità non ha una sua vita
autonoma ma è pur sempre l’effetto giuridico di una fattispecie di cui il soggetto obbligato è parte di un
rapporto di lavoro subordinato o di lavoro autonomo o anche familiare e svolge una determinata attività in
relazione all’iscrizione all’albo professionale.
La posizione contributiva del lavoratore si configura come un bene giuridico produttivo di effetti
economici la cui lesione determina un danno certo attuale e suscettibile di immediato risarcimento. La
parte previdenziale è una voce del costo del lavoro che assorbe il 33% della retribuzione lorda corrisposta al
lavoratore.
La somma dei diversi importi annuali accantonati costituisce il montante contributivo individuale
che, moltiplicato per un coefficiente determinato dalla legge e che varia in funzione dell’età di
pensionamento, indica l’importo annuo della prestazione previdenziale.
Il prestatore di lavoro ha diritto di essere riconosciuto autore dell’invenzione fatta nello
svolgimento del rapporto di lavoro. le invenzioni possono essere risultato di un’attività inventiva prevista
come oggetto del contratto o possono essere effettuate nell’esecuzione della prestazione lavorativa. Nella
prima ipotesi il lavoratore non ha diritto ad alcun compenso aggiuntivo mentre nella seconda ha diritto ad
un premio equo. Una terza ipotesi l’invenzione occasionale rientra nel campo di attività dell’azienda ma è
realizzata dal dipendente per iniziativa propria al di fuori dello svolgimento del contratto di lavoro – il
datore di lavoro ha il diritto di prelazione per l’uso esclusivo o meno dell’invenzione e per l’acquisto del
brevetto verso il pagamento di un corrispettivo.

I DIRITTI PERSONALI DEL LAVORATORE


Sono diritti del lavoratore in quanto persona, nell’esecuzione del lavoro, a prescindere dal
contenuto economico della prestazione. Tali diritti mancano di una sistemazione organica nel codice civile,
anche se nel tempo ci sono stati interventi di legislazione speciale.
Le sanzioni previste dalla legge rispetto agli atti del datore di lavoro che ledano i diritti personali
consistono nell’invalidità di tali atti, nel risarcimento del danno o nell’irrogazione di sanzioni amministrative
o penali; queste ultime hanno lo scopo di indurre il datore a porre in esecuzione comportamenti che
ripristinino la situazione preesistente all’atto lesivo.
Esistono quattro species: diritti di libertà in senso proprio, diritti di tutela dell’integrità psico – fisica
e della personalità morale, diritti di tutela contro le discriminazioni connessi alla gestione del tempo
nell’esecuzione del rapporto di lavoro.

SEZIONE I – DIRITTI DI LIBERTA’ DEL LAVORATORE


- Diritto allo svolgimento delle mansioni pattuite difficoltà ad individuare tale diritto in via
generale, nei rapporti in cui non sussista un interesse del prestatore di lavoro oggettivamente
giustificato dalla natura di lavoro
(un diritto all’esecuzione e utilizzazione della prestazione può essere riconosciuto all’interprete di opere
drammatiche e musicali)
- Diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero  diritto garantito anche attraverso il
divieto di indagini sulle opinioni politiche religiose e su ogni altro fatto non rilevante ai fini della
valutazione dell’attitudine professionale e il divieto di atti discriminatori.
- Diritto alla riservatezza  divieto di indagine deve essere inteso in senso ampio e impedisce
non soltanto l’assunzione di informazioni dirette sulle opinioni dei lavoratori ma anche in via
indiretta. Il datore può compiere indagini sul lavoratore solo quando queste sono rilevanti per
la valutazione dell’attitudine professionale. Attualmente il divieto di indagini è stabilito dall’art.
8 St. lavoratori va coordinato con il codice della privacy. Per dato personale si intende qualsiasi
informazione relativa ad una persona fisica o giuridica purché identificata o identificabile,
mentre il trattamento del dato personale è qualsiasi operazione effettuata su queste
informazioni. Tra i dati personali si distinguono quelli sensibili rispetto a quelli generici – i primi
rivelano origine razziale e etnica, religione, opinioni politiche.
Il datore non è tenuto a notificare alcuna notizia al Garante e neppure ad ottenere il consenso del
lavoratore per quanto concerne il trattamento dei dati in materia di ordinaria gestione del personale
quando il trattamento sia finalizzato all’adempimento di specifici obblighi previsti da legge nonché per
eseguire obblighi derivanti da un contratto del quale è parte l’interessato. Per il trattamento dei dati
sensibili invece occorre il consenso del lavoratore, preventivamente informato dal datore e previa
autorizzazione del garante.

SEZIONE II – TUTELA DELL’INTEGRITA’ PSICO – FISICA E DELLA PERSONALITA’ MORALE DEL LAVORATORE
Art. 2087 c.c. –tutela l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, proteggendo la persona
nello svolgimento della prestazione lavorativa.
Art. 32 cost. salute = fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività
Art. 35 cost.  la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni e tra sicurezza e
organizzazione di lavoro c’è nesso diretto (libertà di iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e dignità umana)
L’art. 2087 istituisce l’obbligo di sicurezza da adempiersi attraverso una serie di comportamenti
positivi volti ad assicurare che l’attività produttiva si eserciti senza pregiudizi per la vita e la salute psico –
fisica del lavoratore. Tre parametri di misurazione : particolarità del lavoro, esperienza e tecnica. Il primo è
riferito all’obbligo di adeguare le cautele ai rischi specifici che l’attività produttiva esercitata dal datore può
presentare; il riferimento all’esperienza attiene a valutazioni basate sull’efficacia dei comportamenti già
messi in campo e sui sinistri concretamente verificatisi mentre il riferimento alla tecnica impone al datore
di adottare tutti gli accorgimenti progressivamente acquisiti dal patrimonio tecnico – scientifico e
normalmente utilizzati nel settore di riferimento. Questi tre parametri operano in combinato disposto e
rendono elastico l’obbligo di sicurezza.
La violazione dell’obbligo si concreta sia nell’omissione di misure tassativamente previste dalla
legge sia nell’omissione di misure di prevenzione con riferimento tanto alle caratteristiche oggettive
dell’attività di lavoro quanto a quelle soggettive del singolo lavoratore.
La responsabilità civile che incombe sul datore di lavoro ex. art. 2087 ha natura contrattuale.
Discendono diverse conseguenze : la prima = possibilità per il datore di rifiutare di svolgere la prestazione
(eccezione di inadempimento) ; seconda = agevolazione probatoria; onere di prova del danno, della nocività
dell’ambiente di lavoro e nesso causale tra essi; prescrizione decennale.
La responsabilità del datore di lavoro, basata anche sul dovere di controllo e di vigilanza del rispetto
delle prescrizioni di sicurezza, non è esclusa dal concorso del lavoratore, a meno che la condotta dello
stesso sia abnorme, divenendo unico elemento causale del fatto.
Sicurezza sul lavoro  ripartizione a cascata degli obblighi prevenzionistici a cominciare dal primo
soggetto obbligato ex art. 2087 e cioè il datore di lavoro.
La sicurezza ora è disciplinata dal d. lgs. 81/2008 che tende a garantire la prevenzione dei pericoli
per la salute del lavoratore e il coinvolgimento dei lavoratori nella realizzazione della sicurezza nei luoghi di
lavoro.
Il principale soggetto gravato dall’obbligo di sicurezza è il datore  egli deve svolgere la
valutazione, avvalendosi del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione con il coinvolgimento del
medico competente e previa consultazione del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza con
particolare riguardo alle sostanze pericolose e all’esposizione del lavoratore ad agenti chimici, fisici o
biologici.
Rischi da stress lavoro – correlato  valutazione effettuata secondo indicazioni della Commissione
Consultiva ; sono rischi immateriali che comprendono quella condizione che può essere accompagnata da
disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale.
Programmazione della prevenzione mirata ad un complesso che integri in modo coerente le
condizioni tecniche e produttive dell’azienda.
Ulteriori doveri di sicurezza del datore  inerenti al rispetto dei principi ergonomici nella
concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e
produzione.
Un compito essenziale del datore di lavoro è quello del continuo aggiornamento delle misure di
prevenzione in relazione a mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della sicurezza e
della salute.
La normativa sugli infortuni sul lavoro e sulle malattie professionali prevedeva già da tempo
l’obbligo per il datore di lavoro di assicurare i lavoratori manuali adibiti direttamente a macchine
apparecchi a pressione, impianti elettrici, obbligo esteso dalla Corte costituzionale anche ai lavoratori
intellettuali addetti all’uso delle macchine. Il d. lgs. 38/2000 ha esteso l’obbligo assicurativo ai dirigenti, agli
sportivi, ai lavoratori parasubordinati e anche al infortunio in itinere (nel percorso verso un posto di lavoro
tra due luoghi)
La normativa distingue tra infortuni sul lavoro e malattie professionali sancendo il principio
dell’automaticità delle prestazioni, secondo il quale i lavoratori infortunati o affetti da malattia
professionale hanno diritto alle prestazioni erogate dall’Inail anche se il datore non abbia adempiuto ai suoi
obblighi.
L’art. 2087 tutela anche la personalità morale e la dignità del lavoratore  non deve essere posto
in essere un comportamento che violi il diritto all’integrità psico fisica del datore.
Mobbing= insieme delle molteplici e ripetitive condotte vessatorie o ostili poste in essere da
colleghi , da superiori o sottoposti nei luoghi di lavoro per emarginare un collega.
Gli elementi indispensabili per qualificare un comportamento mobbizzato sono l’elemento
oggettivo (intenzionalità della condotta), elemento temporale (reiterazione del comportamento) e
elemento dannoso (stato di disagio psicologico del lavoratore). In ogni caso deve essersi prodotto un
danno, il lavoratore deve aver perso stima di se.
Straining = azione unica e non reiterata diretta a provocare uno stress di durata costante sul posto
di lavoro.
Alla responsabilità contrattuale ex art 2087 consegue una possibilità per il lavoratore, a seguito
dell’infortunio, di richiedere il risarcimento del danno che può essere patrimoniale per ridotta capacità di
guadagno o non patrimoniale per la lesione dell’integrità psico – fisica. All’interno del danno patrimoniale si
distinguono le categorie del danno emergente(attuale) e del lucro cessante (danni futuri).
Danno biologico = lesione all’integrità psicofisica del lavoratore suscettibile di valutazione medico
legale. Esso viene liquidato con riferimento a due voci : invalidità temporanea e invalidità permanente. Il
danno biologico si riferisce non solo a danni fisici ma anche a danni psichici.
Danno di demansionamento= deriva dal pregiudizio subito dal lavoratore a causa dell’ingiusta
dequalificazione.
Danno morale soggettivo  art. 2059 c.c. = danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei
casi determinati dalla legge.
Emersione del danno esistenziale  Cassazione ha considerato dannosi tutti quei comportamenti
che provocano un’ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, dalla
quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica,senza soggezione al limite derivante
dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p.  danno esistenziale = titolo autonomi di danno.
Il danno non patrimoniale è fattispecie tipica rispetto all’atipicità del danno patrimoniale e non
tollera la tripartizione in danno morale, danno biologico e danno esistenziale.
Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della
persona, costituisce un danno conseguenza, che deve essere allegato e provato.

SEZIONE III – DISCRIMINAZIONI


Discriminazione = ogni atto, patto o comportamento che, direttamente o indirettamente, produca
un effetto pregiudizievole nei confronti di un lavoratore in quanto appartenente a una categoria
normativamente tipizzata. La discriminazione è vietata dagli art. 8 e 15 l. 300/1970; il primo vieta le indagini
sulle opinioni politiche, religiose o sindacali su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine
professionale, anche ai fini dell’assunzione.
Alcune direttive europee garantiscono la parità di trattamento ai lavoratori e non subordinati privati
e pubblici, senza distinzione di razza, origine etnica, religione ecc con riferimento alle condizioni di accesso
all’occupazione e al lavoro e all’accesso a tutti i tipi e i livelli di orientamento e formazione professionale.
Sono comunque escluse dal campo di applicazione dei decreti le differenze di trattamento basate
sulla nazionalità.
Sia nell’ordinamento comunitario che in quello italiano, per quanto siano state incrementate le
fattispecie discriminatorie vietate, non è ancora sancito un principio generale della non discriminazione.
Discriminazione diretta  sussiste quando per le causali tipizzate dalla legge una persona è trattata
meno favorevolmente d quanto sia stata trattata un’altra in una situazione analoga.
Discriminazione indiretta  sussiste quando una disposizione, un criterio, un atto possono mettere
le persone in situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre.
Sono ammesse eventuali differenze di trattamento giustificate in virtù della particolare natura
dell’attività svolta o del contesto in cui essa sia espletata, quando si tratti di caratteristiche essenziali ai fini
dello svolgimento dell’attività medesima.
In relazione alla discriminazione di genere la discriminazione diretta si caratterizza
- Per l’onnicomprensività della previsione
- Per l’adozione di una nozione di discriminazione in senso oggettivo nella quale rileva
esclusivamente il risultato concreto
La norma estende anche la nozione di discriminazione indiretta che concerne ogni trattamento
pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i
lavoratori dell’uno o dell’altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività
lavorativa.
L. 183/2010 – “collegato lavoro” innovazioni in tema di pari opportunità.
Sia la Corte di giustizia che la Corte costituzionale hanno sottolineato l’opportunità che le azioni
positive non si trasformino in discriminazioni alla rovescia favorendo una disparità di trattamento
ingiustificata nei confronti del lavoratore uomo.
Discriminazione collettiva  sussiste quando siano stati posti in essere atti, patti, comportamento
che riguardino una pluralità di soggetti, anche quando non siano individuabili in modo diretto e immediato i
singoli lavoratori lesi.
Il Codice delle pari opportunità detta anche una definizione delle molestie, che sono considerate
fattispecie discriminatorie, insieme alle molestie sessuali. Molestie = comportamenti indesiderati adottati
per motivi di razza o origine etnica, religione ecc allo scopo di violare la dignità di tale persona e di creare
un clima intimidatorio, ostile degradante. Molestie sessuali = situazione nella quale si verifica un
comportamento indesiderato a connotazione sessuale espresso un forma fisica o verbale avente lo scopo di
violare la dignità di tale persona.
Affinchè sia integrata la fattispecie della discriminazione è necessario provare l’elemento soggettivo
specifico e cioè l’intento discriminatorio.
Grava sul lavoratore l’onere della prova.
Il procedimento giurisdizionale di tutela contro le discriminazione appare immediato e incisivo,
mirato alla cessazione della discriminazione e alla predisposizione di strumenti volti a impedire la
ripetizione e la rimozione degli effetti.

SEZIONE IV – TEMPO DELLA PRESTAZIONE


Art. 36 Cost. rinvia alla legge la determinazione della durata massima dell’orario di lavoro
giornaliero e riconosce il diritto del lavoratore al riposo settimanale e alle ferie.
Sino a tempi recenti la materia dell’orario di lavoro e dei riposi è stata regolata dal Codice Civile e
dalle leggi speciali, a formare un quadro normativo poi essenzialmente adattato dalla contrattazione
collettiva ai mutamenti tecnologici, organizzativi, economici e sociali intervenuti nel corso di tale lungo arco
di vigenza.
La revisione di un quadro normativo così datata è divenuta doverosa dopo l’approvazione di una
direttiva europea contenente alcune prescrizioni minime in materia di orario ai fini della protezione della
sicurezza e salute dei lavoratori, poi integrate.
Il d. lgs. 66/ 2003 determina i limiti dell’orario normale e dell’orario massimo esclusivamente su
base settimanale e non attraverso soglie massime bensì mediante l’indicazione di limiti medi. Per “limiti
medi” si intende il fatto che i contratti collettivi possono riferire l’orario normale alla durata media delle
prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno e che il rispetto dell’orario massimo viene
valutato con riferimento alla durata media dell’orario di lavoro osservato entro un arco temporale di
quattro mesi, elevabili dai contratti collettivi sino a sei mesi o 12 mesi.
L’orario normale settimanale di lavoro può avere una durata costante (entro 40 ore) o variabile. La
durata massima giornaliera non viene espressamente regolata ma si desume dalla fissazione di un numero
minimo giornaliero di ore di riposo.
Lavoro straordinario = prestazione lavorativa svolta oltre l’orario normale, le cui modalità di
svolgimento e di remunerazione sono normalmente definite dai contratti collettivi. In assenza di contratto
collettivo, lo straordinario è determinato dal contratto individuale nel limite di 250 ore annue. La
determinazione del compenso aggiuntivo per il lavoro straordinario è rimessa al contratto collettivo.
Lavoro notturno  i lavoratori meritevoli di specifica protezione sono quelli normalmente
impegnati per almeno tre ore al giorno nel periodo notturno, descritto come un periodo di sette ore
comprensivo dell’intervallo tra al mezzanotte e le 5 del mattino oppure coloro che svolgono attività
lavorativa in periodo notturno per almeno 80 giornate l’anno.
Per i lavoratori notturni sono previsti particolari trattamenti sotto diversi profili : sul fronte della
protezione sanitaria ed infortunistica vengono imposti controlli medici preventivi e periodici oltre a misure
protettive equivalenti a quelle adottate in orario diurno; il più rigoroso limite di orario è determinato in otto
ore giornaliere, calcolabili anche come media su più giornate tranne che per le lavorazioni rischiose. Il
controllo sindacale è garantito da un obbligo di consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali.
Limitazioni soggettive al lavoro notturno sono previste in forma di divieto nei confronti delle
lavoratrici gestanti o delle lavoratrici madri fino ad un anno di età del bambino.
È stato previsto che i lavoratori a turni prestanti attività lavorativa in orario notturno possono
accedere al trattamento pensionistico anticipato.
In caso di sopravvenuta inidoneità al lavoro notturno per ragioni di salute, il lavoratore potrà
chiedere l’adibizione al lavoro diurno in mansioni equivalenti nei limiti della loro esistenza e disponibilità,
rimanendo altrimenti impregiudicate, si deve ritenere, le alternative del demansionamento conservativo
del disabile oppure licenziamento per giustificato motivo.
La direttiva comunitaria e il decreto di attuazione non stabiliscono la durata massima della giornata
lavorativa, ma solo l’intervallo tra una prestazione giornaliera e la successiva (almeno 11 ore consecutive)
La previsione legislativa di tutela del riposo giornaliero può essere derogata mediante contratti
collettivi o accordi conclusi a livello nazionale tra le organizzazioni sindacali nazionali comparativamente più
rappresentative e le associazioni nazionale dei datori di lavoro firmatarie di contratti collettivi nazionali di
lavoro.
Il lavoratore inoltre ha diritto ad un intervallo di pausa nel caso in cui l’orario giornaliero superi le
sei ore.
Oltre ai riposi giornalieri, il lavoratore ha diritto anche al riposo settimanale, che deve avere una
durata minima di trentacinque ore, con almeno 24 consecutive, da cumulare con le ore di riposo minimo
giornaliero. Tale periodo va concesso di regola in coincidenza con la domenica.
Secondo un orientamento giurisprudenziale condiviso lo svolgimento del lavoro domenicale deve
essere compensato con uno specifico aumento retributivo o con condizioni di trattamento più vantaggiose.
Un ulteriore trattamento migliorativo deve essere accordato ai lavoratori i quali, oltre a prestare
abitualmente attività lavorativa nella giornata domenicale sono tenuti all’osservanza di un sistema di turni
che determina il differimento del riposo compensativo oltre il settimo giorno.
Oltre alle domeniche, il pagamento della normale retribuzione viene imposto anche per alcune
festività religiose e civili anche in assenza di prestazione lavorativa.
Ferie annue  periodo minimo è di 4 settimane, salvo condizioni di miglior favore previste dai
contratti collettivi; il diritto alle ferie matura gradualmente e progressivamente in misura proporzionale alle
prestazioni lavorative svolte. Tale periodo deve essere goduto per almeno due settimane entro l’anno di
maturazione e il periodo restante entro i 18 mesi successivi al termine della maturazione.
Anche i periodi di sospensione della prestazione lavorativa per malattia concorrono alla
maturazione delle ferie spettanti ad ogni prestatore di lavoro.
L’individuazione del periodo feriale è individuato dal datore di lavoro, tenendo conto dell’interesse
dell’impresa. La presenza di malattia durante il periodo di ferie determina la sospensione di queste e la
ripresa dopo la fine del periodo di malattia – si deve trattare di malattia che abbia effettivamente
pregiudicato il godimento del riposo.
In passato veniva pacificamente riconosciuto, in cado di mancato godimento delle ferie, il diritto
del lavoratore ad una corrispondente indennità sostitutiva.

LA SOSPENSIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO


Indica una situazione di conservazione temporanea del vincolo contrattuale a fronte della
sospensione dell’obbligazione di lavorare e talvolta della sospensione retributiva; tuttavia la sospensione
consente la maturazione dei diritti connessi all’anzianità di servizio.
Non costituiscono ipotesi di sospensione del rapporto ma inadempimento dell’obbligazione di
lavorare i riposi e le ferie, mentre le ipotesi in cui la sospensione dipenda da un fatto del datore di lavoro
vanno ricondotte alla mora credendi.
Fattispecie tipiche di sospensione del rapporto sono: malattia, infortunio, gravidanza e puerperio,
servizio militare.
In particolare la malattia e la maternità sono riguardate anche dal punto di vista della tutela del
lavoratore e perciò sono considerate anche come diritti del lavoratore a contenuto economico.
In caso di infortunio e malattia che non consentano il normale svolgimento della prestazione di
lavoro, il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro e a tutela economica.
In ogni caso, il periodo di assenza dal lavoro deve essere computato nell’anzianità di servizio e ai fini
del calcolo del TFR. La legge in casi particolari riconosce al lavoratore il diritto ad usufruire di permessi
retribuiti per cure termali.
La durata del periodo di conservazione del posto di lavoro e della corrispondente tutela economica
è determinata dal contratto collettivo. La contrattazione collettiva prevede il comporto secco ossia l’ipotesi
di una malattia unica e ininterrotta ma anche il comporto per sommatoria. In assenza di previsione del
contratto collettivo sul comporto per sommatoria la giurisprudenza della Cassazione affida al giudice il
computo del comporto, in mancanza di specifica previsione della contrattazione collettiva devono essere
conteggiati sia i giorni non lavorativi che quelli non lavorati nell’azienda.
In caso di superamento del periodo di comporto viene riconosciuto al datore di lavoro la facoltà di
recedere con preavviso. L’intervallo temporale dalla scadenza del comporto al licenziamento deve risultare
ragionevolmente breve. Durante il periodo di comporto è precluso al datore di lavoro di licenziare il
lavoratore per giustificato motivo.
Gravidanza e puerperio  congedo di maternità = astensione obbligatoria dal lavoro della
lavoratrice. Il periodo di congedo inizia a decorrere due mesi prima della data del parto e cessa tre mesi
dopo; esso può essere richiesto anche nei casi di adozione o affidamento del bambino ed è fruito per 5
mesi nel primo periodo e 3 nel secondo. Le lavoratrici hanno diritto ad un’indennità giornaliera pari al 80%
della retribuzione per tutto il periodo del congedo di maturità.
La legge prevede anche un congedo di paternità definito come astensione dal lavoro del lavoratore
fruito in alternativa al congedo di maturità. Il padre lavoratore ha diritto di astenersi per tutta la durata del
congedo di maternità o per la parte residua in caso di morte o grave infermità della madre.
È previsto anche il congedo parentale definito come astensione facoltativa della lavoratrice o del
lavoratore  periodo continuo o frazionato di durata non superiore a 10 mesi del quale possono godere
entrambi i genitori nei primi otto anni di vita del bambino; periodo computato nell’anzianità di servizio con
esclusione degli effetti sulle ferie e sulle mensilità aggiuntive ed è dovuta un’indennità pari al 30% della
retribuzione, fino al terzo anno di vita del bambino.
Congedo per la malattia del figlio = astensione facoltativa dal lavoro della lavoratrice o del
lavoratore in dipendenza della malattia stessa per periodi corrispondenti alle malattie di ciascun figlio di età
non superiore a 3 anni.
La sospensione del servizio militare obbligatorio di leva e del servizio civile obbligatorio di leva ha
determinato il venir meno del presupposto della sospensione del rapporto di lavoro già previsto per tali
caratteristiche.
Per l’adempimento di funzioni pubbliche elettive o di cariche sindacali, nel pieno rispetto del
principio costituzionale i lavoratori privati possono essere collocati in aspettativa, per la durata del
mandato. Il periodo non è retribuito ma è considerato utile ai fini della tutela pensionistica e contro le
malattie. Anche i lavoratori nelle pubbliche amministrazioni hanno diritto alle stesse tutele.
I lavoratori pubblici e privati eletti alla carica di consigliere comunale e provinciale, che non si
collochino in aspettativa, sono autorizzati ad assentarsi dal lavoro per il tempo strettamente necessario
all’espletamento del mandato senza alcuna decurtazione della retribuzione, ad eccezione dei sindaci o
assessori comunali e provinciali che hanno diritto anche a permessi non retribuiti per un minimo di 30 ore
mensili.
Permessi sindacali retribuiti sono riconosciuti ai lavoratori per riunirsi in assemblea nel limite di 10
ore annue e ai dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali per l’espletamento del loro mandato. Lo
sciopero sospende l’adempimento di entrambe le obbligazioni delle parti.
Per motivi di studio, lo statuto dei lavoratori garantisce il diritto allo studio e prevede che i
lavoratori studenti hanno diritto ad essere agevolati per la frequentazione dei corsi e la preparazione degli
esami e per sostenere quest’ultimi hanno diritto a permessi lavorativi retribuiti.
Congedi formativi  i lavoratori che abbiano almeno 5 anni di anzianità possono richiedere una
sospensione del rapporto di lavoro per un periodo non superiore a 11 mesi.

MODIFICAZIONI DEL RAPPORTO DI LAVORO


Le modificazioni oggettive possono determinare la novazione oggettiva del contratto, cioè
l’estinzione del rapporto di lavoro e l’instaurazione di uno nuovo e diverso rispetto al primo.
Accanto alle modificazioni oggettive possono verificarsi anche modificazioni soggettive del
contratto di lavoro.
Il lavoratore non può cedere ad altri il contratto di lavoro per il carattere personale della
prestazione, mentre il datore può cedere il contratto e il cessionario succede nel rapporto di lavoro che
continua senza soluzione di continuità- la cessione del contratto di lavoro da parte del datore di lavoro è
riconducibile alla fattispecie della cessione e necessita del consenso del debitore ceduto (lavoratore).
Non viene riconosciuto al lavoratore il diritto di opposizione al trasferimento del suo rapporto di
lavoro in occasione del trasferimento di azienda. Al lavoratore è riconosciuta soltanto la facoltà di
rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa qualora le sue condizioni di lavoro subiscano una
sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento.
In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua presso il datore di lavoro
cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano .
Il prestatore di lavoro è legittimato a far valere i crediti maturati anteriormente al trasferimento
anche nei confronti del cessionario, in forza di una regola di solidarietà sancita dalla legge a maggior
garanzia della sua posizione creditizia. Il cessionario è tenuto a soddisfare i crediti del lavoratore anche se
temporalmente imputabili al cedente, cioè maturati prima del trasferimento d’azienda, salvo il diritto di
rivalsa nei confronti di quest’ultimo
Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti
collettivi vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri
contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto sostituzione si produce soltanto tra
contratti collettivi di medesimo livello.
Criteri di individuazione della disciplina applicabile:
- L’applicazione effettiva da parte del cessionario del proprio contratto collettivo determina la
sostituzione automatica alla data del trasferimento di questo a quello del cedente; il contratto
collettivo del cedente si applicherebbe ai lavoratori trasferiti solo in assenza del contratto
collettivo del cessionario
- In caso di trasferimento di azienda continuerebbe a trovare applicazione il contratto collettivo
del cedente fino alla scadenza e la sostituzione del contratto collettivo del cedente con quello
del cessionario non sarebbe automatica.
Tra le due interpretazioni, la seconda sembra più coerente col sistema perché consente di
individuare la disciplina secondo criteri oggettivi e certi ma non rigidi.
Il trasferimento di azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento per giustificato motivo.
Nel caso in cui il cedente receda dal rapporto di lavoro e il momento estintivo si verifichi dopo il
trasferimento, il rapporto di lavoro continua con l’acquirente, che risponde anche dell’illegittimo
licenziamento.
Non è preclusa al cedente la possibilità di procedere a licenziamenti per motivi economici, tecnici e
organizzativi purché sussistano ragioni che siano giustificate autonomamente dal cedente a prescindere
dalla vicenda traslativa.
Procedura di informazione e consultazione sindacale sull’oggetto del trasferimento  può dar
luogo anche alla conclusione di accordi con il sindacato e a questi può riconoscersi la stessa efficacia
vincolante per i singoli lavoratori anche se non iscritti al sindacato.
Gli accordi sul trasferimento si limitano a stabilire i criteri di scelta dei lavoratori da non trasferire e
perciò non dispongono di diritti degli stessi lavoratori.
L’inadempimento degli obblighi di informazione e consultazione costituisce condotta antisindacale.
L’oggetto del trasferimento non è più costituito dal complesso dei beni potenzialmente idonei
all’esercizio dell’impresa ma dall’impresa intesa come organizzazione e attività-
I tratti di identificazione dell’articolazione funzionalmente autonoma sono costituiti dalla coesione
organizzativa e funzionale dei beni e rapporti giuridici all’esercizio dell’attività economica organizzata. Tale
coesione non identifica necessariamente il ramo di azienda.
Le articolazioni funzionalmente autonome indicano o meglio sono funzioni organizzate e
identificabili, anche se strumentali o accessorie all’esercizio dell’impresa.
L’articolazione funzionalmente autonoma può ricomprendere un complesso di rapporti di lavoro e
beni di modico valore coordinati allo svolgimento di un’attività che, pur non rientrando nel ciclo produttivo
dell’impresa cedente, sia pur sempre accessoria e strumentale all’attività d’impresa dello stesso cedente.
Il trasferimento da parte dell’azienda può risolversi essenzialmente nel trasferimento dei rapporti di
lavoro quando tali rapporti siano contrassegnati da un elevato contenuto professionale della prestazione
lavorativa  oggetto del trasferimento non si risolve soltanto nel complesso dei rapporti di lavoro ma è
costituito anche da un bene immateriale quale il know –how ossia la competenza tecnica e professionale
particolarmente qualificata dei lavoratori trasferiti.
Decreto 2001 – articolazione funzionalmente autonoma doveva preesistere al trasferimento e
conservare nel trasferimento la propria identità.
La Cassazione ha escluso che un ramo di azienda possa essere disegnato e identificato solo al
momento del trasferimento e in esclusiva funzione di esso.
Il cedente e il cessionario possono delimitare al momento del trasferimento l’ambito di
articolazione funzionalmente autonoma oggetto del trasferimento e quindi individuare in quello stesso
ambito beni e rapporti giuridici che restano presso il cedente e quelli che sono oggetto del trasferimento.
Sia la normativa comunitaria che la legislazione italiana non riconoscono il diritto di opposizione al
trasferimento al lavoratore, ma il mero diritto alle dimissioni per giusta causa in caso di mutamento
sostanziale delle condizioni lavorative.

ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO


Modo più diffuso = potere di recesso del datore di lavoro e del lavoratore – denominati
rispettivamente licenziamento e dimissioni  entrambi negozi unilaterali recettizi.
Ulteriore modo = risoluzione consensuale o mutuo consenso.
Il licenziamento individuale è stato disciplinato nel tempo:
- Dalle norme del c.c. che regolano licenziamento at nutum (libero, senza obbligo di motivazione)
e licenziamento per giusta causa. Il primo può essere anche intimato oralmente e in ogni caso
senza obbligo di motivazione, per quanto riguarda il secondo – la giusta causa è una causa che
non consente la prosecuzione del rapporto.
- Legge 604/1966  principio di necessaria giustificazione del licenziamento, obbligo della forma
scritta e giustificato motivo. Il licenziamento per giustificato motivo, con preavviso, è
determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro
(giustificato motivo soggettivo) ovvero da ragioni inerenti alla produttività, organizzazione del
lavoro (giustificato motivo oggettivo). È stata introdotta inoltre una sanzione per l’ipotesi di
licenziamento privo di giustificato motivo e di giusta causa e cioè la riassunzione del lavoratore
o il pagamento al medesimo di un’indennità da 2 a 6 mesi(TUTELA OBBLIGATORIA). Questa
legge ha regolato anche alcune ipotesi di licenziamento discriminatorio
- Art. 18 St. lavoratori ha stabilito invalidità del licenziamento illegittimo  licenziamento
annullabile se privo di giusta causa o giustificato motivo, nullo a norma di legge stessa o
inefficace per mancanza di forma scritta dell’intimazione. In caso di licenziamento illegittimo il
lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro (TUTELA REALE) oltre al risarcimento
del danno mediante corresponsione di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di
fatto non inferiore a 5 mensilità (questo fino alla legge Fornero che in alcuni casi ha previsto
solamente il pagamento dell’indennità ma non la reintegrazione)
- Legge 108/1990  in caso di licenziamento ingiustificato da parte dei datori di lavoro,
imprenditori e non imprenditori, con più di 15 dipendenti la norma prevedeva la tutela reale,
con meno di 15 dipendenti la tutela obbligatoria.
- Legge 92/2012 (riforma Fornero)  ha raggruppato le fattispecie di licenziamento illegittimo:
1- Licenziamento discriminatorio o altre ipotesi di licenziamento nullo
2- Licenziamento ingiustificato per mancanza di giusta causa o giustificato motivo
soggettivo
3- Licenziamento ingiustificato per mancanza di giustificato motivo oggettivo
Il suo scopo era l’eliminazione della sanzione di reintegrazione al di fuori dell’ipotesi di licenziamento nullo,
anche se in realtà questa è stata prevista anche in alcuni casi di licenziamento privi di giusta causa o
giustificato motivo (discrezionalità del giudice).
Licenziamento discriminatorio = licenziamento determinato da un motivo riconducibile a una delle
ipotesi di discriminazione previste dalla legge. Cause tassative che sono alla base del divieto di
discriminazione possono essere politiche, religiose, età, sesso, razza, lingua.
Nelle organizzazioni di tendenza, rispetto ai dipendenti che svolgono mansioni di tendenza, il
licenziamento non è considerato discriminatorio ed è quindi ammesso quando il motivo coincida con
l’ideologia politica o credo religioso perseguiti dalla stessa organizzazione.
Divieti di licenziamento pena la nullità (art. 18):
- Licenziamenti intimati per causa di matrimonio
- Licenziamenti intimati durante la gravidanza e fino al compimento di un anno del bambino
- Licenziamento determinato per un motivo illecito determinante
La legge Fornero ha confermato la nullità del licenziamento discriminatorio. La declaratoria della
nullità del licenziamento comporta la sanzione della reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro, a
prescindere dal numero dei dipendenti in azienda e indipendentemente dal motivo formalmente addotto
dal datore di lavoro. In aggiunta, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno che viene determinato
mediante un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale ricevuta dal lavoratore e comunque non
inferiore a 5 mensilità. L’onere della prova ricade sempre sul datore di lavoro che deve versare anche i
contributi previdenziali e assistenziali.
Il lavoratore può richiedere, in luogo della reintegrazione e in aggiunta al risarcimento la risoluzione
del rapporto di lavoro con pagamento di un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di
fatto.
Giusta causa  prima tesi : g. causa è costituita esclusivamente da un inadempimento del
lavoratore; seconda tesi = g. causa può essere costituita non solo da inadempimento del lavoratore ma
anche da qualsiasi atto o fatto, pur non collegato direttamente con l’esecuzione lavorativa, è idoneo a far
venir meno la fiducia tra le parti. Il licenziamento per giusta causa determina l’immediata cessione del
rapporto di lavoro quindi esonera il datore dall’obbligo di preavviso.
Giustificato motivo soggettivo  costituito da notevole inadempimento degli obblighi contrattuali
del lavoratore e prevede obbligo di preavviso. La differenza tra questo e la giusta causa è costituita dalla
diversa intensità dell’inadempimento e dal grado di colpa del lavoratore.
L’onere della prova circa la ricorrenza di una giusta causa o di giustificato motivo soggettivo di
licenziamento è posto a carico del datore.
L’inadempimento del lavoratore è posto anche alla base del licenziamento disciplinare, che è
qualsiasi licenziamento imputabile, a titolo di colpa al lavoratore  copre l’area di giustificato motivo
soggettivo e in parte quella di giusta causa.
Quando non ricorrano gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo
soggettivo, la sanzione applicata varia in base al numero dei dipendenti : più di 15 – si applica tutela
obbligatoria, il licenziamento ingiustificato è valido, ma illecito quindi monetizzabile; meno di 15- reg. dalla
l. 92/2012, il giudice deve accertare preliminarmente se ricorrono o meno gli estremi del giustificato motivo
soggettivo o della giusta causa e nel caso di accertamento negativo, dichiara illegittimità del licenziamento
e applica sanzione di reintegrazione solo quando accerti insussistenza del fatto contestato o quando accerti
che il fatto contestato, pur sussistente, rientra tra le condotte punibili con sanzione conservativa sulla base
delle previsioni dei contrati collettivi quindi il giudice annulla il licenziamento e da diritto alla reintegrazione
sul posto di lavoro, condannando il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore
a 12 mensilità.
In alternativa alla reintegrazione il lavoratore può optare per un’indennità sostitutiva pari a 15
mensilità della retribuzione globale di fatto, non soggetta però a contribuzione previdenziale.
Giustificato motivo oggettivo  costituito dalle esigenze oggettive dell’azienda, ossia da ragioni
inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. L’onere
della prova è posto a carico del datore di lavoro  previsto controllo di legittimità, che ha come oggetto
due elementi: decisione imprenditoriale, considerata nella sua effettiva sussistenza e non pretestuosità o
arbitrarietà e il nesso di causalità tra la scelta imprenditoriale e il licenziamento. Il datore di lavoro deve
dare anche prova dell’inevitabilità del licenziamento (obbligo non espressamente previsto).
Anche qui, nelle ipotesi in cui non ricorra il giustificato motivo oggettivo, la sanzione varia in base al
numero dei dipendenti. Infatti nelle aziende con meno di 15 dipendenti si applica la tutela obbligatoria
(licenziamento valido, ma ingiustificato quindi monetizzabile), mentre in quelle con più di 15 dipendenti
esistono due ipotesi : prima – il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto della data del
licenziamento e condanna il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva tra 12 e 24
mensilità; seconda – “manifesta insussistenza del fatto posto” , il giudice può annullare licenziamento con
condanna del datore alla reintegrazione del lavoratore e pagamento di indennità risarcitoria fino a 12
mensilità  non deve solo sussistere la scelta organizzativa del datore di lavoro ma deve anche essere
provato dal datore che la soppressione del posto di lavoro è la diretta conseguenza di tale scelta.
Casi di obbligo di reintegrazione nel giustificato motivo oggettivo :
- Licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica allo svolgimento della mansione per
usura, inidoneità per infortunio o malattia, ma utilizzabile in mansioni differenti o inferiori
- Licenziamento intimato per preteso superamento, rivelatori insussistente, del periodo di
comporto.
Ipotesi di licenziamenti ad nutum:
1. Il licenziamento del dirigente  per i dirigenti la disciplina collettiva prevede un regime di
stabilità convenzionale che rende più oneroso per il datore di lavoro il licenziamento del
dirigente. Il datore infatti è tenuto a pagare al dirigente un’indennità supplementare
commisurata all’età e all’anzianità di servizio qualora il collegio di conciliazione e arbitrato
ravvisi che i licenziamento è privo di giustificatezza, ferma restando la validità del
licenziamento.
2. Lavoratori in prova
3. Utrasessantenni che abbiano maturato diritto alla pensione
4. Lavoratori domestici
5. Familiari
6. Atleti professionisti
La comunicazione del licenziamento deve avvenire per iscritto; nell’ipotesi di intimazione in forma
orale si applica la stessa sanzione del licenziamento discriminatorio, cioè condanna del datore di lavoro alla
reintegrazione sul posto con risarcimento di almeno 5 mensilità della retribuzione globale di fatto. Il
licenziamento intimato per iscritto deve contenere specifica motivazione.
Il licenziamento per giusta causa attinente all’esecuzione della prestazione e per giustificato motivo
oggettivo deve garantire al lavoratore un contraddittorio con il datore di lavoro, in modo da consentire al
primo di presentare proprie difese.
È stata introdotta la possibilità di ogni datore di revocare il licenziamento intimato al dipendente. La
revoca può essere effettuata entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione al datore dell’impugnazione
del licenziamento; non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti in caso di illegittimità del
licenziamento ed il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità.
Per i datori occupanti fino a 15 dipendenti il licenziamento intimato in violazione dell’obbligo di
motivazione del licenziamento è inefficace, con diritto alla riammissione sul posto di lavoro e al
risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni non corrisposte, mentre la violazione delle garanzie
procedurali previste per il licenziamento disciplinare comporta l’applicazione della tutela obbligatoria.
Per le imprese con più di 15 dipendenti, in materia di vizi formali e procedurali, la disciplina
sanzionatoria è stata attenuata escludendo la reintegrazione  situazioni nelle quali il lavoratore si limita a
contestare la regolarità formale e procedurale dell’intimazione, a fronte di tre ipotesi diverse:
- Caso di licenziamento per colpa intimato in violazione del procedimento disciplinare
- Violazione dell’obbligo di comunicazione della motivazione nella lettera di licenziamento
- Inosservanza della procedura di conciliazione obbligatoria preventiva, in materia di
licenziamento per motivo oggettivo
Il giudice, in presenza di uno di questi tre vizi formali condanna il datore di lavoro al pagamento solo di
un’indennità risarcitoria onnicomprensiva di entità minore, tra 6 e 12 mensilità.
Quando al vizio procedurale o formale si accompagna uno sostanziale si applica il più rigido regime
sanzionatorio previsto per il licenziamento nullo o ingiustificato.
Procedura di conciliazione preventiva nel giustificato motivo oggettivo  imprese con più di 15
dipendenti, il datore di lavoro che intenda procedere ad un licenziamento per motivo oggettivo deve
preventivamente comunicare alla Direzione territoriale di lavoro i motivi del licenziamento e le eventuali
misure di outplacement offerte al lavoratore - si apre una procedura di conciliazione volta ad esaminare
eventuali misure alternative al recesso.
In mancanza di una soluzione conservativa del rapporto si profilano due ipotesi: in caso di esito
positivo della conciliazione, il rapporto di lavoro si risolve per mutuo consenso e il lavoratore potrà essere
affidato a un’agenzia per il lavoro con il fine di trovare una migliore ricollocazione professionale, in caso di
esito negativo, il datore di lavoro potrà comunicare il licenziamento che avrà effetto dal giorno della
comunicazione con il quale il procedimento di conciliazione è stato avviato.
Il licenziamento deve essere impugnato, pena la decadenza, e l’impugnazione deve essere
notificata o comunicata al datore di lavoro, con impugnazione anche solo in via stragiudiziale ma comunque
idonea a rendere nota la volontà di impugnare, nel termine di 60 giorni della ricezione della comunicazione
del licenziamento. Un ulteriore termine di decadenza è di 180 giorni si applica a tute le ipotesi di
illegittimità del licenziamento, con eccezione per i licenziamenti inefficaci perché intimati oralmente.
Dimissioni = costituiscono un negozio unilaterale recettizio che non necessita di accettazione da
parte del datore di lavoro e al quale sono applicabili le disposizioni del codice civile in tema di annullamento
del contratto per vizi della volontà e per incapacità naturale al momento di compiere l’atto. Sussiste solo
l’obbligo del preavviso salvo giusta causa di risoluzione immediata del rapporto di lavoro.
Il contratto di lavoro può essere inoltre sciolto per mutuo consenso, o dissenso.
Problematica delle c.d. dimissioni in bianco = schermo per consentire al datore di lavoro di sottrarsi
ai vincoli della disciplina sui licenziamenti individuali.
Viene previsto un meccanismo di convalida della volontà del lavoratore di dimettersi e di risolvere
in maniera consensuale il rapporto. Il datore di lavoro entro 30 giorni dalla ricezione della comunicazione
del lavoratore di dimettersi o di stipulare un negozio di risoluzione consensuale, deve invitare il prestatore a
convalidare le dimissioni stesse presso la Direzione Territoriale del Lavoro o a sottoscrivere la conferma
della scelta  dimissioni sottoposte a una vera e propria condizione sospensiva: qualora il datore non
recapiti l’invito alla convalida entro 30 giorni, le dimissioni o la risoluzione contrattuale saranno ineficaci.

SEZIONE II – LICENZIAMENTI COLLETTIVI


Non sono regolati dalla legge 604/1966 ma la nozione è stata elaborata dalla giurisprudenza.
Vengono previste due fattispecie di licenziamento collettivo:: per messa in mobilità e per riduzione
del personale. La principale differenza tra le due sta nel fatto che la prima è collegata strettamente alle
vicende della cassa integrazione straordinaria precedentemente intervenuta, riguardo ai lavoratori che non
possono essere reintegrati in azienda al termine del programma di risanamento, la seconda invece
prescinde dal ricorso alla Cassa integrazione guadagni straordinaria.
Messa in mobilità riguarda dipendenti delle imprese che, ammesse al trattamento straordinario di
integrazione salariale, ritengano di non essere in gradi di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e
di non poter ricorrere a misure alternative. La procedura di mobilità interviene all’esito del programma di
risanamento previsto per la cassa integrazione guadagni straordinaria. Le imprese che decidono di
ricorrervi devono preventivamente comunicare alla r.s.a. e alle rispettive associazioni di categoria una serie
di informazioni, la mancanza delle quali costituisce condotta antisindacale. È previsto inoltre un obbligo di
esame congiunto tra le parti allo scopo di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare
l’eccedenza del personale e in caso di mancato accordo l’esame continua davanti alla direzione provinciale
del lavoro che propone alle parti soluzioni alternative  = obblighi che favoriscono un accordo.
La legge favorisce ma non impone la conclusione dell’accordo nell’ambito della procedura di
mobilità sicché, esaurita la procedura sindacale e quella amministrativa, con o senza accordo sindacale
l’impresa può collocare in mobilità, cioè licenziare i lavoratori eccedenti con esclusione dei dirigenti.
Soltanto una volta terminata la procedura di mobilità, il datore di lavoro può comunicare per iscritto e nel
rispetto dei termini di preavviso il licenziamento a ciascuno dei lavoratori interessati e trasmettere
all’ufficio regionale del lavoro e alle associazioni di categoria l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità con
indicazione delle modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta.
Licenziamento per riduzione del personale  riguarda datori di lavoro che occupino più di 15
dipendenti. Il licenziamento è collettivo se riguarda più di 5 dipendenti nell’arco di 120 giorni all’interno
della stessa unità produttiva. Tali licenziamenti possono dipendere da una riduzione di attività o
trasformazione di essa. Ai lavoratori licenziati deve essere riconosciuta l’indennità di mobilità.
L’individuazione dei lavoratori da mettere in mobilità avviene in relazione alle esigenze
tecnologiche e amministrative dell’impresa e secondo criteri stabiliti dal contratto collettivo, in mancanza
dei quali secondo criteri stabiliti dalla legge.
I licenziamenti intimati senza forma scritta, in violazione delle procedure e dei criteri di scelta dei
lavoratori erano inefficaci fino al 2012 quando le diverse sanzioni sono state individuate secondo la gravità
del vizio che caratterizza l’atto di recesso:
- Se il licenziamento è stato intimato senza forma scritta  regime di reintegrazione +
risarcimento
- Licenziamento viziato da violazione della procedura art. 4  licenziamento resta efficace, ma il
datore deve pagare indennità tra 12-14 mensilità
- Licenziamento intimato in violazione dei criteri di scelta dei lavoratori regime di
reintegrazione, ma risarcimento non può superare 12 mensilità

SEZIONE III – AMMORTIZZATORI SOCIALI


Ammortizzatori sociali = insieme di misure pubbliche di sostegno al reddito del lavoratore, erogate
in funzione indennitaria rispetto a situazioni di mancanza di retribuzione per assenza di lavoro.
- Ammortizzatori che presuppongono l’estinzione del rapporto di lavoro – si annoverano
principalmente le indennità di disoccupazione e di mobilità.
- Ammortizzatori che presuppongono la sospensione dello stesso – cassa integrazione, contratti
di solidarietà difensivi, fondi bilaterali.
Ammortizzatori sociali in deroga = trattamenti a sostengo del reddito del lavoratore, anche essi
distinti in strumenti di tipo conservativo e di tutela contro la disoccupazione involontaria. Rispetto a questi
trattamenti la legge riconosce la concessione anche in deroga alla legge = misure introdotte sulla base di
norme eccezionali e di durata limitata in quanto basate su risorse finanziarie stanziate di volta in volta.
Cassa integrazione guadagni = istituto sorto a tutela degli operai dell’industria, in origine destinato
ad intervenire nei casi di impossibilità oggettiva della prestazione, perciò non imputabile al datore di lavoro.
Essa era finanziata con i contributi dello stato e delle imprese e gestita dall’Inps, assicurava l’integrazione
della retribuzione nei casi di sospensione totale o parziale del lavoro per brevi periodi di tempo a causa di
interventi non imputabili agli imprenditori ne agli operai e quando risultasse certa la loro riammissione
nell’attività d’impresa. Con il tempo questo istituto ha assunto la funzione di sostegno anche dell’impresa,
intervenendo anche in casi di semplice difficoltà della stessa e dalle imprese industriali è stato
progressivamente esteso ad altri settori produttivi.
L. 223/1991 ha riordinato i diversi interventi della cassa integrazione prevedendo
- Garanzia di un sostegno all’impresa in occasione di crisi temporanee con esclusione di
finalità assistenziali
- Previsione della mobilità come alternativa all’intervento della Cig straordinaria, quando sia
venuta meno ogni prospettiva di ripresa dell’attività produttiva
La disciplina attuale prevede due gestioni della Cassa integrazione una ordinaria (Cigo) e una
straordinaria (Cigs). La prima prevede due cause integrabili: situazioni aziendali dovute a eventi transitori
non imputabili all’imprenditore ne agli operai e sospensioni determinate da situazioni temporanee di
mercato; ha quindi la funzione di sostenere il reddito dei lavoratori nel caso di contrattazioni non volontarie
dell’attività produttiva e la durata massima è di 3 mesi; sono esclusi dal trattamento apprendisti e lavoratori
a domicilio.
La Cigs invece prevede come cause inderogabili sospensioni determinate da processi di
ristrutturazione, riorganizzazione; crisi aziendale; riduzione dell’orario di lavoro stabilito con accordo
sindacale al fine di evitare licenziamenti.
L’intervento della Cigs è disposto per sostenere il reddito dei lavoratori di fronte alle situazioni
strutturali idonee a determinare una durevole eccedenza del personale, diversamente dalla Cigo, che
presuppone la ripresa dell’attività e il mantenimento dell’organico.
Nell’ipotesi di ristrutturazione, riorganizzazione e riconversione aziendale la durata massima del
trattamento dell’integrazione salariale non può superare i due anni e l’impresa deve presentare un
programma di risanamento. Sono ammesse due deroghe di 12 mesi ciascuna.
Cigo e Cigs in ogni caso non possono avere una durata superiore a 36 mesi nell’arco di 5 anni.
Il datore di lavoro non deve effettuare discriminazioni e deve essere attuata una rotazione in modo
tale da ripartire il sacrificio della sospensione tra tutti i lavoratori.
Il datore di lavoro che abbia proposto domanda di ammissione all’intervento della cassa
integrazione si trova in una situazione di interesse legittimo e non di diritto soggettivo e la liberazione
del’imprenditore dall’obbligo retributivo si perfeziona con il provvedimento amministrativo di ammissione
al trattamento di integrazione salariale. In caso di mancato accoglimento della domanda, o di riconosciuta
illegittimità del provvedimento amministrativo il datore di lavoro resta obbligato al pagamento della
retribuzione e al risarcimento del danno subito dal lavoratore per la sospensione senza trattamento, salvo
patto contrario o impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Di regola il datore corrisponde mensilmente il trattamento di integrazione salariale per Cigo o Cigs,
sotto forma di anticipo Cig a carico Inps per poi beneficiare del conguaglio.
Una causa integrabile della cassa integrazione straordinaria è costituita dalle riduzioni di orario di
lavoro tramite contratto di solidarietà interno. Questo viene stipulato tra imprenditore e sindacati
maggiormente rappresentativi e prevede la riduzione dell’orario di lavoro e retribuzione dei dipendenti
dell’impresa e la concessione da parte dell’inps dell’integrazione salariale per un periodo non superiore a
24 mesi ma prorogabile per la stessa durata, allo scopo di evitare licenziamenti.
Imprese situate in ambito Cigs  integrazione salariale dei contratti, originariamente commisurata
al 60% della retribuzione globale perduta per la riduzione dell’orario di lavoro è stata alzata al 80%; non
sussiste alcun limite massimo legale al trattamento di integrazione.
Anche i lavoratori fuori dall’ambito di applicazione della Cigs possono beneficiare di contratti di
solidarietà non solo in caso di licenziamento collettivo ma anche al fine di evitare licenziamenti plurimi
individuali per giustificato motivo oggettivo.
Il contratto di solidarietà opera nei confronti di tutti i lavoratori, iscrivendosi in una fattispecie
complessa e comprensiva del provvedimento ministeriale di ammissione all’integrazione salariale; non
legittima la riduzione di orario e di retribuzione ove non segua l’effettiva concessione della cassa
integrazione.
Il contratto di solidarietà interno non deve essere confuso con quello esterno, che impegna i datori
di lavoro ad assumere nuovo personale a fronte della riduzione dell’orario di lavoro e della retribuzione dei
lavoratori dipendenti della stessa impresa.
La l.92/2012 sostituisce l’indennità di mobilità, di disoccupazione non agricola a requisiti normali e
ridotti e l’indennità di disoccupazione edile con l’assicurazione sociale per l’impiego.
Indennità di disoccupazione  spetta a lavoratori licenziati o dimessi per giusta causa. Il
trattamento si interrompe con la cancellazione del lavoratore da tale elenco. L’indennità di disoccupazione
ordinaria può essere richiesta con requisiti normali o ridotti. Nel primo caso l’assicurato può far valere
almeno 2 anni di assicurazione e almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l’inizio periodo di
disoccupazione. Nel secondo caso invece l’anzianità di servizio richiesta è minore.
Dal 2013 L’assicurazione sociale per l’impiego (ASPI) sostituisce l’indennità di disoccupazione e
sostituirà progressivamente anche l’indennità di mobilità. Questa è prevista per tutti i lavoratori dipendenti
ed è estesa anche agli apprendisti e ai soci lavoratori di cooperativa che abbiano stabilito un rapporto di
lavoro subordinati. L’ASPI verrà corrisposta anche a lavoratori che abbiano perduto involontariamente la
propria occupazione; l’indennità mensile si riduce qualora il periodo di fruizione dell’ASPI superi una certa
durata. Dal 2016 il trattamento avrà durata massima di 12 mesi per lavoratori di età inferiore a 55 anni e di
18 mesi per gli altri.
Mini- ASPI  trattamento riservato a coloro che non hanno tutti i requisiti per accedere all’ASPI;
assorbe l’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti. Per usufruirne i soggetti devono avere lo stato di
disoccupazione e 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi e la durata massima è pari alla metà
delle settimane di contribuzione maturate nell’ultimo anno.
Fondi di solidarietà bilaterali = appositi fondi privi di personalità giuridica, che presentano una
doppia natura: da un lato sono enti bilaterali costituiti mediante accordi collettivi e contratti collettivi, e
dall’altro entro 3 mesi successivi devono essere istituiti come gestioni presso Inps con decreto ministeriale
che ne determina non solo le aliquote di finanziamento ma anche l’ambito specifico di applicazione. La loro
istituzione è obbligatoria per tutte le imprese escluse dalla Cassa integrazione che al contempo occupino
più di 15 dipendenti.

TUTELA DEI DIRITTI DEL PRESTATORE DI LAVORO


Le norme inderogabili limitano il potere del lavoratore di disporre dei diritti riconosciuti dalle stesse
norme al lavoratore  il legislatore impedisce che il lavoratore disponga dei suoi diritti a vantaggio dello
stesso datore di lavoro.
Esistono due regimi che regolano indisponibilità dei diritti del lavoratore: quello dell’indisponibilità
assoluta, secondo al quale non possono formare oggetto di atti di disposizione i diritti attribuiti da norme di
legge che vietano ogni atto e patto contrario e comunque stabiliscono espressamente la nullità e quello
dell’indisponibilità relativa e anche qui la norma concerne diritti derivanti da norme inderogabili di legge e
di contratto collettivo, di tal che non è sempre agevole distinguere i diritti assolutamente indisponibili da
quelli relativamente indisponibili.
Art. 2113 considera meramente annullabili gli atti di disposizione dei relativi diritti perché impone al
lavoratore l’onere di impugnarli entro un termine di decadenza di 6 mesi dalla data di cessazione del
rapporto  il legislatore ha presunto che in costanza di rapporto il lavoratore avrebbe potuto rinunciare
all’impugnazione. Se invece l’atto di disposizione è successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, il
termine di sei mesi decorre dalla data in cui la rinuncia o la transazione è avvenuta.
La mancata impugnazione nel termine di decadenza determina l’inoppugnabilità dei suddetti atti di
disposizione.
Il regime dell’annullabilità si applica agli atti di disposizione dei diritti esistenti e non gli atti di
disposizione dei diritti futuri.
Il regime dell’indisponibilità relativa varrebbe anche per i diritti al risarcimento del danno derivante
dalla violazione dei diritti assolutamente indisponibili. Il regime dell’indisponibilità relativa agli atti di
disposizione indurrebbe a ritenere che i lavoratori non possono disporre dei loro diritti. In realtà così non è,
perché a determinate conciliazioni non si applicano le disposizioni dei primi 3 commi dell’art. 2113 c.c. e
cioè alle conciliazioni avvenute in sede giudiziale dinanzi alle commissioni istituite presso la direzione
provinciale del lavoro, in sede di arbitrato libero o presso le associazioni sindacali comparativamente più
rappresentative oppure dinanzi alle commissioni di certificazione.
L’osservanza di queste procedure serve a neutralizzare la posizione di squilibrio del lavoratore di
fronte al datore di lavoro.
Quietanze a saldo (liberatorie) = dichiarazioni con le quali il lavoratore riconosce di avere ricevuto
quanto a lui spettante e di non avere nulla altro da pretendere  dichiarazioni di scienza e carenti di
volontà dispositiva.
Rinuncia tacita  l’inerzia o l’acquiescenza del lavoratore rilevano come atti negoziali di
disposizione del relativo diritto soltanto a seguito di un’indagine rigorosa del giudice ed in presenza della
consapevolezza dell’esistenza del diritto di un’univoca volontà abdicativa del lavoratore titolare del diritto.
La prescrizione è un modo di estinzione del diritto determinato dall’inerzia del titolare del diritto
per un determinato periodo di tempo. Essa determina l’estinzione del diritto quando il titolare non lo
esercita per il tempo stabilito dalla legge e inizia a decorrere dal giorno in cui questo diritto può essere fatto
valere. Essa, a differenza dalla rinuncia, non è un atto negoziale.
La giurisprudenza costituzionale successiva alle normative sui licenziamenti individuali stabilisce un
diverso regime di prescrizione a seconda che il rapporto sia resistente o non resistente. Per i rapporti
resistenti la prescrizione decorreva secondo la regola generale, ovvero dal momento in cui il diritto poteva
essere fatto valere, mentre per i rapporti non resistenti la prescrizione decorreva dalla cessazione del
rapporto.
La prescrizione dei crediti retributivi è quinquennale, mentre per gli altri diritti decennale.
Accanto alle prescrizioni estintive vi sono anche quelle presuntive, che non determinano estinzione
del diritto ma soltanto la presunzione legale che esso sia stato esercitato, determinando l’inversione
dell’onere della prova, che ricade sul creditore.
La decadenza determina l’estinzione del diritto per il decorso oggettivo del tempo soltanto nei casi
e nei tempi stabiliti dalla legge. una volta esercitata l’impugnazione, quindi evitata la decadenza, il diritto
rimane soggetto alle disposizioni che regolano la prescrizione.
l.183/2010  richiede un termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento e
pone un termine di 180 giorni per il successivo deposito del ricorso o per la comunicazione alla controparte
della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, pena l’inefficacia. Questa nuova disposizione si
applica anche al recesso del committente dai rapporti di collaborazione coordinata o a progetto, al
trasferimento individuale, all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro e alla cessazione
del contratto di lavoro.
E’ stato abolito il tentativo obbligatorio di conciliazione presso la direzione provinciale del lavoro;
laddove il tentativo sia esperito, il termine di decadenza per il deposito del ricorso resta sospeso.
La legge stabilisce particolari garanzie per i crediti da lavoro. Già in precedenza era stato istituito il
fondo di garanzia TFR; attualmente ne è previsto uno per il pagamento dei crediti da lavoro non corrisposti
in caso di insolvenza del datore di lavoro. Questo provvede al pagamento degli ultimi 3 mesi di rapporto
rientranti nei 12 precedenti alla data del provvedimento di apertura concorsuale. L’importo non può essere
superiore ad una somma pari a tre volte la misura massima del trattamento di integrazione salariale
straordinaria e non è cumulabile con il trattamento medesimo fruito nei 12 mesi precedenti. Al lavoratore
viene attribuita una causa legittima di prelazione nel soddisfacimento sui beni mobili dell’ex datore di
lavoro. In caso di appalto o di opera di servizio, è prevista l’azione diretta da parte del lavoratore
dipendente dall’appaltatore nei confronti del committente per il soddisfacimento dei propri crediti e il
committente è obbligato in solido con l’appaltatore entro 2 anni dalla cessazione dell’appalto.
I crediti retributivi sono impignorabili, se non nella misura di 1/5 per i tributi dovuti allo Stato ed in
uguale misura per ogni altro credito.
Può essere disposto il sequestro dei beni immobili , mobili o somme dovute al creditore
(lavoratore) nei limiti previsti per il pignoramento.
I crediti dichiarati non impignorabili non sono compensabili e quindi nemmeno i crediti retributivi.
Il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di danaro per crediti da
lavoro, deve determinare, oltre agli interessi legali, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore
per la diminuzione del valore dal suo credito  credito da lavoro resta un credito di valuta e il giudice
applica l’indice dei prezzi calcolato dall’Istat per scala mobile per i lavoratori dell’industria. Non si richiede
l’ulteriore messa in mora da parte del creditore, sicché la rivalutazione monetaria è pronunciata dal giudice
contestualmente alla condanna del datore di lavoro debitore.
All’orientamento secondo il quale gli interessi devono esser computati sulla somma rivalutata si
contrappone un altro secondo il quale gli interessi devono essere computati solo sulla sorte capitale senza
temere conto della rivalutazione.
Le Sezioni unite hanno affermato il principio che gli interessi legali devono essere calcolati sul
capitale rivalutato con scadenza periodica dal momento dell’adempimento fino allo soddisfacimento del
creditore.
Convenzione di arbitrato o patto commissorio = negozio giuridico attraverso cui le parti deferiscono
a giudici privati la decisione di una o più controversie tra le stesse sorte o che potrebbero sorgere in
relazione ad un determinato rapporto di diritto sostanziale.
Le forme di convenzione di arbitrato sono il compromesso, che è l’accordo stipulato tra le parti per
deferire ad arbitri una o più controversie tra esse già insorte in relazione ad un determinato rapporto
giuridico sostanziale, redatto in forma scritta; e la clausola compromissoria, che è il patto inserito dalle parti
in un contratto, attraverso il quale si assoggettano ad arbitrato le controversie nascenti in un determinato
rapporto sostanziale di natura contrattuale.
Sono previsti due tipi di arbitrato: rituale e irrituale. Il primo si ha quando le parti attribuiscono agli
arbitri una funzione di decisione giurisdizionale, mentre il secondo si ha quando le parti conferiscono agli
arbitri un mandato per risolvere una controversia mediante atto negoziale. Il secondo si differenzia dal
primo per la maggior libertà delle parti nella determinazione delle modalità di svolgimento.
Il lodo arbitrale irrituale del diritto del lavoro ha efficacia di titolo esecutivo.

TIPOLOGIA DEI RAPPORTI FLESSIBILI


Un rapporto di lavoro subordinato è flessibile perché un requisito della prestazione o del rapporto
di lavoro determina l’applicazione di una disciplina che deroga quella del lavoro subordinato nell’impresa a
tempo pieno e indeterminato con il duplice scopo di ridurre i costi per l’impresa e di attenuare il codice
protettivo.
Le norme flessibili, pur derogando alla disciplina del tipo, non ne compromettono l’unità e non sono
costitutive di tipi legali distinti.  rapporti flessibili sono sottotipi di lavoro subordinato nell’impresa, non lo
sono invece i rapporti speciali. Ai rapporti flessibili si applica in via diretta e non in via analogica la disciplina
del tipo legale per la parte non derogata dalla disciplina flessibile.

SEZIONE I – IL LAVORO A TEMPO DETERMINATO


Il contratto a tempo determinato è un contratto di lavoro subordinato a cui il datore di lavoro e il
lavoratore convengono di apporre un termine. Questo è consentito solamente in casi tipizzati dalla legge, al
di fuori dei quali si reputava a tempo indeterminato.
L’introduzione progressiva di limiti al potere di recesso del datore di lavoro ha determinato un uso
più frequente del contratto a tempo determinato.
Nel 1987 la legge ha affidato ai sindacati il potere di individuare ulteriori ipotesi di apposizione del
termine rispetto a quelle già previste. Inoltre con la direttiva 99/70/CE si sono aggiunti diversi obiettivi quali
la garanzia del rispetto del principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori
a tempo indeterminato e la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di rapporti di
lavoro a tempo determinato.
La direttiva lasciava agli Stati ampia libertà di scelta in ordine all’introduzione di causali che
legittimano l’apposizione del termine. Dal 2001 inoltre è consentita l’apposizione del termine alla durata
del contratto a fronte di ragioni tecniche, produttive, organizzative e sostitutive, salvo ipotesi di divieto 
fattispecie generale; ragioni devono essere contraddistinte, se non dal requisito della eccezionalità o
straordinarietà, almeno dal requisito della temporaneità.
L. 247/2007  il contratto di lavoro subordinato è generalmente a tempo indeterminato.
2008  ammessa stipula del contratto a tempo determinato per ragioni riferibili alla ordinaria
attività del datore di lavoro.
L. 92/2012  allo scopo di favorire l’occupazione, permette la prima assunzione a tempo
determinato anche in assenza di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo, ossia
causali.
Non è chiaro se le ragioni devono essere connotate dalla temporaneità dell’esigenza di lavoro, o
correlate ad occasioni di lavoro non ontologicamente temporanee, purché oggettive, ossia sussistenti in
concreto e connesse in modo univoco alle esigenze aziendali. Quest’ultima interpretazione sembra la più
corretta che considera tra le condizioni oggettive idonee a determinare l’apposizione del termine al
contratto di lavoro anche il raggiungimento di una certa data. Sarebbe quindi possibile assumere a termine
anche a fronte di ragioni non ontologicamente temporanee. Non vi sarebbe una sostanziale differenza tra
le ragioni che consentono di assumere a tempo indeterminato e quelle poste alla base di un’assunzione a
tempo determinato, salvo l’obbligo di specificare queste ultime per iscritto nel contratto.
Questa ricostruzione non è stata accolta dalla giurisprudenza maggioritaria, che opta per
un’interpretazione restrittiva ed esige la temporaneità delle ragioni giustificatrici dell’apposizione del
termine.
Il problema delle ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine è destinato a perdere gran parte
della sua rilevanza dopo la legge 92/2012. La stipula del contratto a tempo determinato è oggi consentita a
prescindere dalla sussistenza di ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive, purché il contratto
abbia durata massima di 12 mesi e si tratti del primo rapporto a tempo determinato tra le stesse parti.
Il contratto c.d. “acausale” non può essere prorogato ne rinnovato. Tale contratto è destinato a
divenire la regola per le assunzioni a tempo determinato, con il rischio di favorire un elevato tasso di
rotazione tra lavoratori, soprattutto quelli meno qualificati.
La clausola del termine è inefficacia in mancanza di forma scritta o qualora le ragioni siano indicate
in modo generico, alternativo o mediante un mero rinvio alla normativa. Nel caso di insussistenza in
concreto delle ragioni dettagliatamente indicate per iscritto nel contratto, la sanzione non è l’inefficacia, ma
la nullità del termine.
In entrambe le ipotesi prospettate il lavoratore ha comunque diritto alla ricostruzione di un
rapporto a tempo indeterminato.
La proroga è ammessa
- Solo per contratti di durata iniziale inferiore a tre anni. In ogni caso la durata iniziale del
contratto sommata a quella della proroga non può eccedere i tre anni
- Una sola volta
- A condizione che sia richiesta da ragioni oggettive
- Purché si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stipulato a tempo
determinato.
Se la proroga deve riferirsi alla stessa attività lavorativa per la quale era stato stipulato il contratto
dette ragioni devono essere identiche o simili a quelle che avevano determinato l’assunzione a termine.
Al datore di lavoro spetta l’onere della prova della obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano
la proroga. In mancanza di tale prova, la proroga deve considerarsi ingiustificata.
Diversa della proroga è la continuazione di fatto del rapporto dopo la scadenza del termine
inizialmente fissato o successivamente prorogato. È previsto un periodo di tolleranza durante il quale il
lavoratore ha diritto a maggiorazioni retributive. Qualora il rapporto continui oltre tale periodo, il contratto
si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.
Il rinnovo consiste invece nella stipula di un nuovo contrato a tempo determinato a seguito della
scadenza del precedente  vi è una successione di contratti a tempo determinato e le misure prese della
direttiva 99/70 sono:
- Previsione di ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo
- Limite di durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato
successivi
- Limite al numero dei rinnovi.
Il contratto può avvenire solo in presenza di ragioni tecniche, sostitutive, organizzative, nonché nel
rispetto di un periodo minimo di assenza di lavoro, tra la scadenza di un contratto e la stipula del
successivo. La prima condizione deriva dalla generale previsione di ragioni giustificatrici di ogni contratto a
termine, mentre la seconda è un retaggio della normativa previgente e non è attuativa della direttiva.
Un limite alla durata massima totale dei contratti a tempo determinato successivi è stato introdotto
dal 2008 con la previsione di una tetto di 36 mesi, comprensivi di proroga e rinnovi, per i rapporti tra lo
stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore ed aventi ad oggetto mansioni equivalenti,
indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro.
Il meccanismo non si applica alla stipula di un unico contratto a termine non prorogato.
Il limite dei 36 mesi di durata massima complessiva dei contratti a tempo determinato successivi
può essere derogato dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale. Detti contratti possono stabilire che i limiti alla successione di contratti
a termine si applichino mediante individuazione di una durata massima superiore ai 36 mesi. Il lavoratore e
il datore di lavoro possono superare il limite legale di 36 mesi o il diverso limite eventualmente stabilito dai
contratti collettivi stipulando un ulteriore contratto a termine per una sola volta a condizione che le
organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul
piano nazionale abbiano previsto tale ipotesi, mediante l’indicazione della durata dell’ulteriore contratto a
termine; la stipula dell’ulteriore contratto a tempo determinato avvenga presso la direzione provinciale del
lavoro competente per territorio; il lavoratore sia assistito da un rappresentante di una delle organizzazioni
sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale alla quale lo stesso lavoratore sia
iscritto o conferisca mandato.
Con la prima assunzione le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative possono
individuare, in luogo della previsione legislativa di libera apposizione del termine per una durata massima di
dodici mesi, una diversa disciplina nell’ambito di specifici progressi organizzativi, nel limite di 6% del
personale impiegato nell’unità produttiva. Le stesse organizzazioni possono determinare, mediante
contratti collettivi nazionali, limiti quantitativi e cioè la percentuale massima di contratti a termine che
possono essere conclusi in azienda.
I contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul
piano nazionale, possono derogare alle disposizioni legali relative al diritto di precedenza nelle assunzioni a
tempo indeterminato dei lavoratori a termine.
La clausola del non regresso è quella clausola dell’accordo quadro allegato alla direttiva 99/70 che
impone un raffronto tra la normativa nazionale, previgente alla direttiva e quella successiva che ad essa dia
attuazione e impedisce che la modifica si risolva in un peggioramento delle tutele del lavoratore a tempo
determinato.
Per i rapporti di lavoro alle dipendenze delle P.A. viene stabilito che in presenza di esigenze
temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili
previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa. Ne consegue che il
contratto a termine, nel settore pubblico, sarà legittimo solo a fronte di esigenze temporanee ed
eccezionali e non anche in presenza di ragioni di carattere meramente oggettivo.

SEZIONE II – GLI ALTRI RAPPORTI FLESSIBILI


Per contratto di lavoro a tempo parziale si intende un contratto di lavoro subordinato nel quale
viene fissato un orario di lavoro inferiore rispetto al tempo pieno.
La riduzione dell’orario di lavoro rispetto al tempo pieno può avvenire secondo tre modelli:
orizzontale( giornaliero) , verticale(tempo pieno ma per alcuni giorni, settimane o mesi ) , misto.
Il contratto a tempo parziale deve essere stipulato in forma scritta ai fini della prova e deve
contenere la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale
dell’orario con riferimento al giorno, settimana, mese, anno. Sia la durata che la collocazione possono
variare grazie alle clausole flessibili ( collocazione) e clausole elastiche (durata); anche queste subordinate
alla forma scritta.
I contratti devono indicare anche le modalità e le condizioni attraverso le quali il prestatore di
lavoro può richiedere l’eliminazione o la modifica delle clausole elastiche e flessibili, fermo restando che il
diritto al ripensamento può essere esercitato da particolari categorie di lavoratori anche in assenza di
disposizione pattizia.
Oltre alle clausole flessibili ed elastiche il datore di lavoro può richiedere lo svolgimento di lavoro
supplementare, in aggiunta a quello normale di lavoro, sino al limite dell’orario a tempo pieno.
E’ ammesso altresì lo svolgimento di prestazioni di lavoro straordinario, cioè eccedenti il normale
svolgimento orario di lavoro.
In mancanza di forma scritta del contratto, richiesta solo ad probationem, il lavoratore può
richiedere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno a decorrere
dall’accertamento giudiziale e con diritto alla retribuzione per le prestazioni rese nel periodo antecedente
all’accertamento. La medesima disciplina si applica anche alle ipotesi di mancanza della indicazione scritta e
della durata della prestazione.
Retribuzione  deve essere proporzionata al ridotto orario di lavoro a tempo parziale, così come gli
scatti di anzianità e il premio di rendimento.
Nel caso di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, ai fini della
determinazione dell’ammontare del trattamento di pensione si computa per intero l’anzianità relativa ai
periodi a tempo pieno e in modo proporzionale all’orario effettivamente svolto nel tempo parziale.
In caso di infortunio o malattia, la durata del periodo di conservazione del posto è equivalente a
quella determinata per i lavoratori a tempo pieno, salva la facoltà per i contratti collettivi di quantificare
una durata diversa per i lavoratori assunti con contratto part time di tipo verticale.
La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale deve avvenire mediante
accordo delle parti individuali, risultante da atto scritto. Prima di effettuare assunzioni part – time, il datore
è tenuto a darne informazione ai lavoratori a tempo pieno impiegati nello stesso ambito.
Lavoratori con particolari difficoltà oncologiche hanno diritto alla trasformazione del rapporto di
lavoro da tempo pieno a tempo parziale. Per la trasformazione a tempo pieno da tempo parziale non sono
necessari obblighi di forma.
Diritto di precedenza al tempo pieno – riconosciuto direttamente dalla legge ai lavoratori che
abbinano trasformato il rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale e in caso di
violazione della precedenza da parte del datore di lavoro, il lavoratore avrà diritto al risarcimento del danno
in misura corrispondente alla differenza tra l’importo percepito e quello dovuto.
Il contratto di lavoro intermittente può essere concluso per lo svolgimento di prestazioni di
carattere discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da
associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o
territoriale ovvero per periodi predeterminati nell’arco della settimana del mese o dell’anno.
Questo contratto può essere concluso da soggetti con meno di 24 anni di età ovvero con più di 50
anni.
Il lavoro intermittente può articolarsi in due tipologie: la prima, il lavoratore si mette a disposizione
del datore di lavoro quando risponde alla chiamata; nella seconda c’è anche l’ulteriore obbligo di garantire
la propria disponibilità per l’eventuale chiamata nei periodi in cui la prestazione non viene svolta.
In assenza delle giustificazioni oggettive e soggettive si applica la disciplina del lavoro subordinato.
È vietato il ricorso al lavoro intermittente in sostituzione dei lavoratori in sciopero, in caso di
licenziamenti collettivi o sospensione dei rapporti o riduzione dell’orario con diritto al trattamento di
integrazione salariale nei confronti di lavoratori che svolgano mansioni identiche. Se il lavoratore
intermittente si obbliga a rispondere alla chiamata, percepisce per questa disponibilità un’indennità che so
aggiunge al trattamento economico spettante al lavoratore intermittente per i periodi di effettiva
esecuzione della prestazione.
La misura dell’indennità deve essere pattuita nel contratto individuale e deve essere determinata
dal contratto collettivo e comunque in misura non inferiore al minimo fissato per legge.
Anche per il lavoratore intermittente vale il principio della non discriminazione.
Il lavoratore che non risponde alla chiamata perché malato o oggettivamente impossibilitato è
obbligato ad informare il datore di lavoro e l’indennità non è dovuta nel periodo di indisponibilità. Se il
lavoratore non adempie tempestivamente all’obbligo di informazione, l’indennità non è dovuta per 15
giorni, indipendentemente dalla durata dell’impossibilità. Il rifiuto ingiustificato alla chiamata costituisce
inadempimento e determina risoluzione del contratto e congruo risarcimento del danno.
Il lavoro ripartito è quel contratto mediante il quale due lavoratori assumono in solido
l’adempimento di un’unica e identica obbligazione lavorativa nella quale ogni lavoratore resta
personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa. Devono
essere indicati tuttavia la misura percentuale e la collocazione temporale del lavoro giornaliero,
settimanale, mensile o annuale che si prevede venga svolto da ciascun lavoratore. Le parti hanno la
possibilità di concordare in ogni momento modifiche e sostituzioni dell’orario di lavoro. In questo caso è
prevista la traslazione del rischio dell’impossibilità della prestazione da un coobbligato ad un altro, allo
scopo di garantire l’adempimento integrale e non parziale dell’unica obbligazione dedotta in contratto.
In caso di impedimento di entrambi i coobbligati trovano applicazione le norme generali in tema di
impossibilità definitiva e temporanea.
Il rapporto si estingue in caso di licenziamento o dimissioni di uno dei due coobbligati.

TIPOLOGIA DEI RAPPORTI SPECIALI


Le discipline di questi rapporti alternano il vincolo di subordinazione o modificano la clausola del
contratto di lavoro subordinato o, ancora, non sono inerenti all’esercizio di un’impresa.
Tra il rapporto di lavoro subordinato nell’impresa e i rapporti speciali non esiste una relazione di
tipo – sottotipo, perché la specialità si determina negativamente in ragione all’assenza di un elemento
tipico della fattispecie disegnata dall’art. 2094 c.c.
Questo articolo non individua un trattamento minimo uniforme, le discipline speciali identificano
altrettanti tipi legali; la disciplina del lavoro subordinato nell’impresa si applica per analogia ai rapporti
speciali.

SEZIONE I – CONTRATTI CON FINALITA’ NORMATIVE


Il contratto di formazione è un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato
contrassegnato dall’obbligo ulteriore del datore di lavoro di fornire una formazione al prestatore di lavoro.
L’inadempimento di tale obbligo determina la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato
ex tunc.
Nel settore privato questo contratto è stato sostituito con il contratto di inserimento, tipologia
contrattuale a sua volta eliminata dalla l. 92/2012.
Contratto di tirocinio  specialità del rapporto deriva dalla coesistenza di due obbligazioni in capo
al datore di lavoro, quella di corrispondere un compenso e quella finalizzata alla formazione
dell’apprendista. Il tirocinio è tradizionalmente qualificato come contratto a causa mista, ma in realtà ha
una sua causa specifica che coincide parzialmente con quella del lavoro subordinato nell’impresa. Al
termine del tirocinio il lavoratore consegue gli ulteriori obiettivi connessi alla finalità formativa del
rapporto.
Questo contratto ha quindi doppia finalità: formativa e occupazionale e la disciplina è contenuta nel
Testo unico dell’apprendistato. L’obiettivo del T.U. è semplificare il quadro normativo di riferimento,
rendere l’apprendistato il principale canale di ingresso dei giovani nel mercato di lavoro.
Sono previste quattro tipologie di apprendistato:
1. Apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere  è la tipologia di apprendistato più
importante e più utilizzata. Possono essere assunti con contratto di apprendistato
professionalizzante soggetti tra i 18 e i 29 anni. La durata è stabilita dagli accordi
interconfederali e dai contratti collettivi in ragione all’età dell’apprendista e del tipo di
qualificazione contrattuale da conseguire. La durata massima non può essere superiore a 3 anni
ovvero 5 per e figure professionali dell’artigianato individuate dalla contrattazione collettiva di
riferimento. La formazione di tipo professionalizzante e di mestiere, svolta sotto la
responsabilità dell’azienda, è indispensabile ed è solo integrata dall’offerta formativa, interna o
esterna all’azienda, per non più di 120 ore nel triennio. Nel caso di attività stagionali, i contratti
collettivi nazionali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente
più rappresentative possono prevedere specifiche modalità di svolgimento dell’apprendistato
professionalizzante, anche a tempo determinato
2. Apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale  rivolto a soggetti tra 15 e 25
anni, attraverso il quale può anche essere assolto l’obbligo di istruzione nell’ambito del più
generale sistema di istruzione e formazione professionale. A differenza del primo tipo, questo
mira alla qualifica formale e non ad un’effettiva qualificazione professionale; la durata non può
superare i 3 anni ovvero 4 in caso di diploma regionale.
3. L’apprendistato di alta formazione e di ricerca  rivolto a soggetti tra 18 e 29 anni al fine di
conseguire un diploma di istruzione secondaria superiore, titoli di studio di alta formazione.
4. Apprendistato finalizzato alla qualificazione o riqualificazione professionale dei lavoratori in
mobilità  profili più importanti sono la forma scritta; la previsione di una durata minima del
contratto non inferiore a sei mesi; le garanzie retributive degli apprendisti, con il divieto di
retribuzione a cottimo e i limiti alla possibilità di sotto – inquadramento; garanzie volte a
rendere effettiva la formazione; estensione agli apprendisti delle tutele previdenziali in materia
di infortuni sul lavoro e malattie professionali, malattia, invalidità e vecchiaia, maternità e
assegno familiare; il particolare regime del recesso del datore di lavoro, collegato alla
qualificazione dell’apprendistato come rapporto a tempo indeterminato.
Trascorso il periodo di formazione il rapporto non si estingue se non attraverso un atto di recesso.
In mancanza, esso continua a tempo indeterminato. Durante il periodo di formazione vige per le parti il
divieto di recedere senza giusta causa o giustificato motivo.
Sono previste agevolazioni contributive per i datori di lavoro che assumono apprendisti e li
mantengono in servizio, fermo restando il numero massimo complessivo di apprendisti, che non può
superare il rapporto di 3 a 2 rispetto alle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso il
medesimo datore di lavoro.
Le sanzioni previste sono di due tipi: per la violazione degli obblighi formativi, riprese dalla
previgente normativa e quelle stabilite per la violazione della clausole dei contratti collettivi che dettano
disciplina generale. Nella prima ipotesi viene prevista una sanzione solamente economica in capo al datore
di lavoro e solo alla duplice condizione che l’inadempimento nell’erogazione della formazione sia di
esclusiva responsabilità di quest’ultimo e risulti tale da impedire la realizzazione delle finalità
dell’apprendistato. Nella seconda ipotesi sono previste sanzioni amministrative pecuniarie.
I tirocini formativi o stage sono stati introdotti al fine di realizzare momenti di alternanza scuola
lavoro e di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro. Essi si
distinguono dai contratti di apprendistato perché manca lo scambio tra prestazione lavorativa e
retribuzione e perché l’attività di tirocinio è svolta solo in funzione della formazione e dell’orientamento
professionale. I tirocini si realizzano mediante l’intervento di tre soggetti: ente promotore, datore di lavoro
ospitante e tirocinante. Il primo stipula la convenzione con il datore che si impegna ad inserire il tirocinante
nella propria organizzazione al fine di consentire la maturazione dell’esperienza professionale; la
convenzione deve essere corredata da un progetto formativo o di orientamento.
Il tirocinio può avere finalità curriculari, di inserimento ovvero di orientamento. I primi si
caratterizzano per essere percorsi di formazione inclusi nei piani di studi delle università o di istituti
scolastici ed hanno l’obiettivo di affinare l’apprendimento attraverso esperienze pratiche nei luoghi di
lavoro. I tirocini di inserimento sono mirati invece ad agevolare l’ingresso o il reinserimento nel mondo del
lavoro dei soggetti inoccupati o disoccupati e possono avere durata massima di sei mesi; il tirocinio di
inserimento può riguardare anche soggetti svantaggiati e in questo caso non avrà durata superiore a 12 o
24 mesi. Infine, i tirocini di orientamento professionale sono diretti a realizzare momenti di contatto con il
mondo lavorativo e possono avere una durata massima di 6 mesi, attivati anche in alternanza con i corsi di
studio.
I soggetti promotori sono tenuti ad assicurare i tirocinanti contro i rischi da infortunio sul lavoro e
da responsabilità civile verso i terzi, con una copertura estesa anche alle altre attività eventualmente svolta
dal tirocinante fuori dall’azienda.
Nel 2012 sono state introdotte alcune novità quali la durata, che non può essere superiore a 18
mesi e una congrua indennità.
Tirocini estivi  promossi durante le vacanze estive a favore di un adolescente o di un giovane,
regolarmente iscritto ad un ciclo di studi presso l’Università o un istituto scolastico di ogni ordine e grado,
con fini orientativi e di addestramento pratico; ha durata massima di 3 mesi ed è da svolgere tra la fine di
un anno accademico o scolastico e l’inizio del successivo.

SEZIONE III- IL CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO


Art. 2227 c.c. vietava l’interposizione nel cottimo e cioè vietava all’imprenditore di affidare a propri
dipendenti lavori a cottimo da eseguirsi da prestatori di lavoro subordinato assunti e retribuiti direttamente
dai dipendenti medesimi. La violazione di tale divieto imponeva all’imprenditore di rispondere
direttamente nei confronti dei prestatori di lavoro assunti dal proprio dipendente nei limiti delle
obbligazioni da quest’ultimo assunte.
L. 1369/ 1960  vieta in modo rigoroso la dissociazione tra il soggetto che effettivamente utilizza
la prestazione lavorativa e il soggetto che si limita ad assumere e a retribuire il lavoratore perché ha esteso
soggettivamente e oggettivamente la fattispecie interpositoria vietata e ha previsto sanzioni più incisive nel
caso di violazione dei suddetti divieti. Infatti la sanzione determinava la costituzione del rapporto di lavoro
dei lavoratori occupati in violazione dei divieti sanciti dalla legge con l’imprenditore che avesse
effettivamente utilizzato le loro prestazioni.
Una deroga a questa legge è stata la l. 196/1997 che ha previsto il lavoro interinale e consentiva alle
imprese, in presenza di causali giustificative di natura temporanea, di provvedere al fabbisogno di lavoratori
senza assumerli direttamente avvalendosi di agenzie di fornitura professionale di manodopera debitamente
autorizzate. Ad esse l’utilizzatore poteva rivolgersi per acquisire, attraverso un contratto commerciale, la
disponibilità della prestazione lavorativa per il tempo strettamente necessario alle esigenze della propria
attività produttiva.
La nuova disciplina della somministrazione di lavoro è completata dalla nuova disciplina degli
appalti e da quella del distacco e sostituisce nel lavoro privato la vigente normativa in materia di
intermediazione e interposizione nei rapporti di lavoro. l’imprenditore può utilizzare una prestazione
lavorativa senza stipulare il tipico contrato di lavoro, concludendo un contratto commerciale, che può
essere di somministrazione o di appalto.
La somministrazione di lavoro è esercitata esclusivamente da agenzie autorizzate e continua ad
essere caratterizzata da un rapporto triangolare fondato su dure contratti, quello tra agenzia e utilizzatore
(di somministrazione – commerciale) e quello tra lavoratore e agenzia (subordinato).
Esistono due tipi di somministrazione: quella a tempo determinato, che riproduce sostanzialmente
il lavoro interinale, e quella a tempo indeterminato; entrambe possono essere effettuate anche a tempo
parziale. La somministrazione a tempo indeterminato è ammessa solo in presenza di causali legittimanti la
cui individuazione è affidata a una casistica legale e contrattuale.
Varie tipologie di attività: forme di consulenza informatica, direzionale, di marketing, gestione call
center, pulizia, custodia, portineria, trasporto, esecuzione di servizi di cura e assistenza alla persona.
Somministrazione a termine  ricorso consentito secondo una clausola aperta a fronte di ragioni
oggettive di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività
dell’utilizzatore.
Vi sono una serie di casi in cui il ricorso alla somministrazione a termine non è soggetto alla
sussistenza per ragioni oggettive come ad esempio per la prima missione di qualsiasi lavoratore per la
durata massima di 12 mesi; per l’assunzione di particolari categorie di soggetti (lavoratori svantaggiati,
soggetti precettori di ammortizzatori sociali); per ulteriori ipotesi individuate dai contratti nazionali di
lavoro.
Il contratto di somministrazione deve essere stipulato per iscritto e contenere 11 elementi di cui i
primi 5 sono richiesti pena la nullità (estremi dell’autorizzazione, numero dei lavoratori, motivo del ricorso
alla somministrazione, indicazione dei rischi per la salute, data di inizio e durata del contratto).
Circostanze la cui omessa indicazione è soggetta a sanzione amministrativa: mansioni di adibizione,
luogo, orario, trattamento economico e normativo, obblighi reciproci. Tutto deve essere comunicato per
iscritto.
Il contratto di lavoro tra dipendente e agenzia può essere a tempo termine o a tempo
indeterminato. Non vi è corrispondenza tra la tipologia di somministrazione e quella del contratto di lavoro.
I lavoratori somministrati svolgono la propria attività nell’interesse nonché sotto la direzione e il
controllo dell’utilizzatore. Il potere direttivo e organizzativo della prestazione, che è l’elemento qualificante
del contratto di lavoro subordinato, compete all’utilizzatore in virtù del contratto commerciale. Se
l’esercizio del potere direttivo compete all’utilizzatore, risulta notevolmente alterato il vincolo di
subordinazione nel rapporto di lavoro che lega il lavoratore al somministratore. Quest’ultimo viene privato
di uno dei poteri tipici che competono al datore di lavoro nel lavoro subordinato.
L’esercizio del potere direttivo e organizzativo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto è il
criterio che distingue il contratto di appalto dal contratto di somministrazione.
Nel distacco, la dissociazione tra soggetto che figura formalmente come datore di lavoro e soggetto
che esercita il potere direttivo è solo funzionale e temporanea e non genetica e definitiva come nella
somministrazione di mano d’opera.
L’assegnazione del dipendente a mansioni diverse da quelle dedotte in contratto compete anche
essa all’utilizzatore, sul quale grava un obbligo di tempestiva informazione scritta all’agenzia, inosservanza
del quale ne comporta l’esclusiva responsabilità per le differenze retributive o per il risarcimento del danno
dovuto al prestatore occupato in mansioni superiori o inferiori.
Il potere disciplinare è riservato al somministratore. Il rischio dell’impossibilità temporanea grava
sull’agenzia che deve sostituire il lavoratore impedito, al quale competeranno le ordinarie tutele previste
per la generalità dei lavoratori in caso di sospensione. Nel caso in cui il prestatore di lavoro sia assunto con
contratto a tempo indeterminato, nel medesimo è stabilita la misura dell’indennità mensile di disponibilità
corrisposta dal somministratore al lavoratore per i periodi nei quali il lavoratore stesso rimane in attesa di
assegnazione.
Spetta all’agenzia ogni decisione sull’estinzione del rapporto con il lavoratore somministrato, ante
tempus per giusta causa se assunto a termine o per giusta causa o per giustificato motivo, se assunto a
tempo indeterminato.
La struttura tipica del contratto di lavoro subisce, nel caso della somministrazione, un’alterazione
del vincolo di subordinazione tale da annoverarlo tra i contratti speciali.
Tutti gli obblighi retributivi e contributivi fanno capo all’agenzia di somministrazione, in qualità di
titolare del contratto di lavoro, alla quale l’impresa utilizzatrice dovrà rimborsare le somme corrispondenti
per i periodi di lavoro prestati a suo favore.
I lavoratori somministrati hanno inoltre diritto a condizioni di base di lavoro e di occupazione
complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore.
Viene conservata la solidarietà dell’utilizzatore con il somministratore per il pagamento delle
retribuzioni e per il versamento dei relativi contributi previdenziali non soddisfatti dal somministratore. La
solidarietà non sussiste e l’utilizzatore risponde in via esclusiva quando adibisca il lavoratore a mansioni
diverse da quelle contrattualmente stabilite senza averlo preventivamente comunicato al somministratore.
I lavoratori somministrati godono di una serie di garanzie a tutela della salute e della sicurezza sul
lavoro, possono esercitare preso l’utilizzatore i diritti sindacali e ad essi spettano tutele previdenziali.
L’impresa utilizzatrice invece è l’unica responsabile nei confronti dei terzi per i danni ad essi arrecati dal
lavoratore nell’esercizio delle sue mansioni.
L’inosservanza delle causali giustificative o degli elementi del contratto commerciale richiesti a pena
di nullità integra l’ipotesi di somministrazione irregolare  il lavoratore può chiedere la costituzione ex
tunc del rapporto di lavoro con l’utilizzatore, nella tipologia concretamente posta in essere dall’agenzia
come conferma la precisazione che tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o per la
gestione del rapporto si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la
prestazione.
In caso di violazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi del contratto di somministrazione, alla
sanzione civile si aggiunge una sanzione amministrativa.
L’esercizio non autorizzato dell’attività di somministrazione, il ricorso a soggetti non autorizzati
ovvero l’aver percepito compensi da parte del lavoratore in cambio di un’assunzione presso un utilizzatore
ovvero in cambio della stipulazione di un contratto di lavoro o avvio di un rapporto di lavoro con
l’utilizzatore dopo una missione presso quest’ultimo sono comportamenti penalmente sanzionati.
Le sanzioni previste confermano che l’attività di somministrazione di mano d’opera non è libera ma
deve esser circondata da particolari cautele.
L’apparato sanzionatorio descritto non riguarda solo la somministrazione di manodopera ma anche
l’appalto e il distacco i quali danno luogo a somministrazione irregolare.
Tutte le attività di lavoro prestate mediante il contratto di somministrazione possono essere fornite
ricorrendo anche al contratto di appalto di servizi. Il contratto di appalto si distingue dalla somministrazione
per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare dall’esercizio del
potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione
da parte del medesimo appaltatore, del rischio di impresa.
Codici di buone pratiche  indicano un insieme di indici presuntivi che tengano conto della
rigorosa verifica della reale organizzazione dei mezzi e dell’assunzione effettiva del rischio di impresa da
parte dell’appaltatore e perciò dovrebbe fornire indicazioni e prefigurare situazioni che consentano di
individuare più agevolmente i casi di interposizione illecita, e cioè di somministrazione irregolare, rispetto a
quelli di appalto genuino.
In caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in
solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori entro il limite di due
anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi compreso il tfr, le
ritenute fiscali e i contributi previdenziali dovuti. Resta escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili, di cui
risponde solo il responsabile dell’inadempimento.
In caso di sostituzione di un appaltatore ad un altro, che espleti il medesimo servizio in virtù di un
nuovo contratto di appalto, l’acquisizione da parte dell’appaltatore subentrante del personale già
impegnato presso il primo appaltatore in forza di legge, di contrato collettivo nazionale di lavoro o di
clausola del contratto di appalto non costituisce trasferimento d’azienda.

SEZIONE III – GLI ALTRI RAPPORTI SPECIALI


Il rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti pubblici economici è considerato da diversi decenni
soggetto alle disposizioni del codice civile, perciò di natura privatistica, mentre il rapporto di lavoro dei
dipendenti dello Stato e degli altri enti pubblici era regolato da una disciplina pubblicistica sul presupposto
che il dipendente fosse in uno stato di soggezione e non di parità nei confronti della pubblica
amministrazione.
In realtà il pubblico dipendente era legato all’amministrazione da un duplice rapporto: quello
organico che gli attribuisce la titolarità delle funzioni amministrative e lo legittima ad esercitare i poteri
connessi all’ufficio di cui lo stesso è titolare nell’interesse dell’amministrazione e quello di servizio che
regola i diritti e gli obblighi tra le parti.
Dopo la privatizzazione del pubblico impiego è stata riaffermata la primazia delle disposizioni del
codice e delle leggi speciali nonché della contrattazione collettiva e individuale come fonti di disciplina dei
rapporti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sul presupposto ormai acquisito che la pubblica
amministrazione come datore di lavoro si colloca in una posizione di parità con la controparte.
Le amministrazioni pubbliche operano con i poteri del privato datore di lavoro.
L’organizzazione degli uffici e dei rapporti di lavoro deve essere finalizzata ad accrescere l’efficienza
dell’amministrazione, razionalizzare il costo del lavoro, realizzare migliore utilizzazione delle risorse umane.
Le P.A. esercitano un potere di organizzazione a contenuto generale di nature regolamentare, di macro
organizzazione secondo principi stabiliti dalla legge e da un altro lato un potere di micro organizzazione che
si estrinseca nelle determinazioni di contenuto puntuale e specifico e si colloca in ambito esclusivamente
contrattuale.
La potestà di autorganizzazione della pubblica amministrazione continua a prevalere sui poteri della
stessa P.A. come datore di lavoro funzionalizzando il potere direttivo dello stesso e la prestazione di lavoro
all’esercizio del servizio pubblico o della funzione pubblica.
Il rapporto organico viene in evidenza e quindi continua ad esser configurabile ogni qualvolta il
dipendente sia investito di funzioni, mentre il rapporto di servizio si è trasformato in un rapporto di origine
contrattuale.
La natura pubblica del datore di lavoro e degli interessi da questo perseguiti comportano deroghe
rilevanti e numerose; le più importanti riguardano il sistema delle fonti, i dirigenti pubblici, il potere
disciplinare, le mansioni, i rapporti flessibili.
Il trattamento economico è determinato dai contratti collettivi e l’amministrazione garantisce ai
propri dipendenti parità di trattamento contrattuale  principio di parità di trattamento retributivo a
parità di mansioni vale nel lavoro pubblico, mentre non ha fondamento nel lavoro privato.
La dirigenza pubblica è stata organicamente riformata dalla l. 145/2002 e dal decreto Brunetta; tra
gli aspetti più importanti si segnalano il conferimento, la revoca degli incarichi dirigenziali e la particolare
disciplina della responsabilità dirigenziale e il c.d. spoils system.
L’incarico di funzioni dirigenziali è conferito mediante un provvedimento amministrativo che ne
definisce l’oggetto e la durata e fissa gli obiettivi da conseguire con riferimento alle priorità, ai piani e ai
programmi definiti dall’organi di vertice nei propri atti di indirizzo. Si tiene conto delle attitudini e delle
capacità del singolo dirigente che saranno valutate con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva
annuale e negli atti di indirizzo del Ministro.
La disciplina degli incarichi dirigenziali viene qualificata come inderogabile da parte dei contratti
collettivi.
Per quanto riguarda la responsabilità dei dirigenti è stato riaffermato con forza il principio che
affida ad essi soltanto la responsabilità di direzione amministrativa, distinta dalla responsabilità di indirizzo
politiche che invece compete al ministro. I dirigenti di uffici dirigenziali generali sono responsabili del
risultato dell’attività svolta dagli uffici ai quali sono preposti, della realizzazione dei programmi e dei
progetti loro affidati, della gestione delle risorse umane e finanziarie loro assegnate. Il mancato
raggiungimento degli obiettivi e l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano
l’impossibilità del rinnovo dello stesso incarico dirigenziale e la revoca dell’incarico ovvero il recesso dal
rapporto di lavoro.
Il decreto Brunetta ha introdotto la sanzione della decurtazione della retribuzione di risultato di una
quota fino all’80% in caso di colpevole violazione da parte del dirigente del dovere di vigilanza sul rispetto
degli standard qualitativi e quantitativi fissati dall’amministrazione.
Spoils system  prima della riforma del 2002 prevedeva che gli incarichi di funzioni dirigenziali di
livello apicale potessero essere confermati, modificati o rinnovati entro 90 giorni dal voto sulla fiducia al
Governo; in mancanza di provvedimento espresso, decorso il termine, gli incarichi si intendevano
confermati fino alla loro naturale scadenza. L’attuale disciplina sposta un modello di spoils system più
accentuato, prevedendo allo scadere dei 90 giorni, l’automatica cessazione degli incarichi di funzioni
dirigenziali apicali.
La materia disciplinare è stata quasi integralmente riformata dal decreto Brunetta che ha introdotto
importanti novità. Trova applicazione l’art. 2106 c.c. e la competenza a regolare la tipologia delle infrazioni
e delle relative sanzioni è demandata ai contratti collettivi. L’esercizio del potere disciplinare è considerato
obbligatorio, salvo giustificato motivo, e l’inerzia o il ritardo da parte del dirigente responsabile viene a sua
volta sanzionato disciplinarmente. È fatto divieto alla contrattazione collettiva di istituire procedure di
impugnazione delle sanzioni disciplinari.
Mansioni  lavoratore può essere adibito a mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di
inquadramento. L’assegnazione a mansioni superiori è prevista in casi tassativi e non dà diritto alla
promozione automatica ma soltanto al maggior trattamento retributivo.
Eccedenze del personale  ultimata la procedura sindacale, l’amministrazione colloca in
disponibilità il personale non impiegato presso la stessa amministrazione ovvero non riallocato presso altra
amministrazione, corrispondendogli un’indennità pari all’80% della retribuzione per un periodo massimo di
24 mesi.
Nel rispetto delle disposizioni sul reclutamento del personale le pubbliche amministrazioni
potevano avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale.
Attualmente, le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro
subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall’art. 35.
Il ricorso alle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal
codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa è ammesso solo per rispondere a
esigenze temporanee ed eccezionali e sempre nel rispetto delle procedure di reclutamento.
La violazione delle disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, non
può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche
amministrazioni. Al diritto del lavoratore interessato al risarcimento del danno derivante dalla prestazione
di lavoro in violazione di disposizioni imperative corrisponde l’obbligo delle amministrazioni di recuperare
le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo
o colpa grave. Al dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile non può esere
erogata la retribuzione di risultato.
Per le controversie di lavoro la giurisdizione appartiene al giudice ordinario e la competenza è
devoluta al giudice del lavoro; rimane al giudice amministrativo la cognizione sulle controversie in materia
di concorsi e relative al personale non contrattualizzato.
Valutazione della performance  affidata agli organismi indipendenti di valutazione della
performance che sostituiscono i servizi di controllo interno.
Anche il lavoro a domicilio è un contratto speciale e ad esso si applicano le norme che regolano il
lavoro subordinato in quanto compatibili con il particolare vincolo di subordinazione che contrassegna
questo tipo di contratto.
Lo svolgimento della prestazione nel proprio domicilio libera il lavoratore dal vincolo di orario; la
subordinazione è esclusa dalla saltuarietà e occasionalità delle prestazioni e non anche dal rifiuto di
svolgere una commessa per l’impossibilità di eseguirla nei rigidi termini indicati dal datore di lavoro. Non
valgono ad escludere la subordinazione né l’iscrizione del prestatore di lavoro all’albo delle imprese
artigiane, né l’emissione di fatture per il pagamento delle prestazioni lavorative eseguite. La subordinazione
non è esclusa se il lavoratore a domicilio si avvalga dell’aiuto accessorio dei componenti della famiglia, ma
non salariati e apprendisti.
Telelavoro = lavoro a distanza  indica un’attività di lavoro svolta fuori dei locali dell’azienda
attraverso l’uso di un’apparecchiatura telematica. Il telelavoratore si avvale di una posizione di lavoro nel
proprio domicilio o mobile oppure in un luogo distante dalla sede dalla quale gerarchicamente dipende, o
in centro di lavoro comune che ospita lavoratori che dipendono da imprese diverse. La posizione di lavoro è
costituita da un computer, da una stampante e da una linea telefonica dedicata ed utilizzata dal lavoratore
che opera su una base datti contenuta nella memoria di un computer interattivo e consente la trasmissione
e la ricezione di dati dal computer centrale. I contatti possono essere anche meno intensi, cioè off – line.
Il telelavoro è disciplinato dalla contrattazione collettiva e limitatamente al settore pubblico, anche
dalla legge. Esso costituisce una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle
tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa
potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa.
Il telelavoratore fruisce dello stesso trattamento economico/normativo, può esercitare i diritti
sindacali e gode di specifiche tutele in materia di sicurezza e salute; ha una più flessibile gestione dell’orario
di lavoro. Il telelavoratore è retribuito a tempo, se si tratta di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 2094; nel
caso sia lavoro a domicilio, la retribuzione sarà a cottimo e solo in questo caso è considerato rapporto di
lavoro speciale.
Lavoro domestico  definito come lavoro prestato per il funzionamento della vita familiare con
mansioni specifiche o generiche e con retribuzioni in danaro. Si tratta di un rapporto volto a soddisfare un
bisogno personale del datore e non strumentale all’esercizio dell’attività professionale dello stesso.
Ai domestici non si applica la disciplina del collocamento ed è vietata la mediazione, ma è prevista
una procedura semplificata per la dichiarazione di assunzione consistente nella comunicazione all’Inps. Il
lavoratore ha diritto ad un conveniente periodo di riposo durante in giorno e a non meno 8 ore la notte,
quando vive presso l’abitazione del proprio datore di lavoro; ha diritto ad un riposo settimanale e a un
periodo di festa di diversa durata a seconda delle categorie impiegatizia o manuale e dell’anzianità di
servizio. La retribuzione è parzialmente in natura per i lavoratori che vivono in famiglia. Al lavoratore
domestico non si applica la normativa sui licenziamenti individuali e quindi può essere licenziato ad nutum,
salvo preavviso.
Lavoro sportivo  qualifica di professionista riconosciuta all’atleta della federazione nazionale
competente e lo distingue dall’atleta dilettante. Il lavoro dell’atleta è autonomo quando l’attività sportiva
sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione o di più manifestazioni; l’atleta non sia
contrattualmente vincolato a partecipare alle sedute di allenamento o di preparazione; la prestazione non
superi le 8 ore settimanali o 5 giorni al mese; negli altri casi il lavoro è subordinato.
Se il contratto è a tempo determinato il lavoratore con il suo consenso può essere ceduto ad altra
società; se è a tempo indeterminato il lavoratore ha diritto a preavviso e non si applica normativa in
materia di licenziamenti individuali.
Le federazioni nazionali possono prevedere il pagamento di un’indennità di preparazione, dovuta
dalla società con la quale è cessato il rapporto del professionista, alla società che lo ha costruito con lo
stesso professionista un nuovo rapporto.
Rapporto di lavoro nautico  normativa contenuta nel codice della navigazione. Il rapporto di
lavoro subordinato o autonomo è preceduto da un’iscrizione in appositi albi o registri in base a determinati
requisiti. Il conseguimento dell’iscrizione avviene al termine di un procedimento anche contenzioso, ma è
esclusa ogni discrezionalità amministrativa, salvo il potere del ministro per la sospensione temporanea
delle iscrizioni. La sospensione o la cancellazione degli albi danno luogo alla impossibilità temporanea o
permanente della prestazione con le conseguenti questioni che sorgono quando lo svolgimento del
rapporto di lavoro sia subordinato al conseguimento di un’autorizzazione amministrativa.
Il contratto di arruolamento è redatto nella forma dell’atto pubblico davanti all’autorità marittima,
e per il personale di volo è redatto per atto scritto.
I datori che intendono assumere o trasferire all’estero lavoratori italiani devono presentare
richiesta di autorizzazione al ministero del Lavoro e della previdenza sociale e il Ministero degli affari esteri
ha l’obbligo di accertare che le condizioni di lavoro degli stati di destinazioni offrano idonee garanzie di
sicurezza per il lavoratore.
I contributi dovuti per i lavoratori italiani operanti in Paesi extracomunitari non convenzionati sono
calcolati su retribuzioni convenzionali determinate dal Ministero del Lavoro, di concerto con il Ministro del
Tesoro e quello delle finanze con riferimento e comunque in misura non inferiore ai contratti collettivi
nazionali di categoria raggruppati per settori omogenei.
I lavoratori italiani disponibili a svolgere attività all’estero sono tenuti ad iscriversi presso l’apposita
lista di collocamento tenuta dall’ufficio regionale del lavoro del luogo di residenza che rilascerà il nulla osta
all’assunzione; il datore che intenda procedere all’assunzione o al trasferimento del lavoratore all’estero
deve presentare un’apposita richiesta al Ministero del Lavoro e della previdenza sociale e questo
provvederà al rilascio entro 75 giorni.
In mancanza di scelta delle parti o nonostante la scelta di una legge meno favorevole al lavoratore,
al contratto è applicabile la legge del paese in cui il lavoratore compie abitualmente il suo lavoro.
Per i lavoratori UE vige il principio di libera circolazione – art. 39 Trattato CE; i lavoratori possono
offrire la propria prestazione lavorativa in tutto il territorio dell’UE godendo dello stesso trattamento dei
lavoratori presenti in quel determinato stato. I cittadini europei possono soggiornare in Italia per 3 mesi
senza che venga loro richiesto alcun adempimento, salvo documento di identità valido, periodo nel quale
possono concludere contrati di lavoro subordinati o avviare attività autonoma.
Oltre alla libertà di circolazione, viene stabilita la libertà di stabilimento e quella di libera
prestazione dei servizi. La prima consiste nel diritto del cittadino di spostarsi in qualsiasi altro Stato membro
al fine di svolgervi un’attività autonoma in modo stabile e continuativo alle condizioni definite dalle
legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini; mentre la seconda attribuisce il
diritto in via temporanea un’attività autonoma di carattere industriale, commerciale, artigianale e di libera
professione, alle stesse condizioni imposte ai cittadini del paese ove la prestazione è fornita.
Il diritto alla libera circolazione è riconosciuto anche al familiare extracomunitario del lavoratore
comunitario.
Lavoratori dei paesi neo comunitari  assunzione effettuata secondo disciplina degli altri lavoratori
comunitari.
La disciplina del lavoro da parte dei soggetti extracomunitari è contenuta nel testo unico
dell’immigrazione. L’ingresso di lavoratori extracomunitari deve avvenire in modo regolato, mediante
individuazione di anno in anno di quote di ingresso che tengano conto dell’effettiva richiesta di lavoro; il
datore di lavoro deve far richiesta presso lo sportello unico per l’immigrazione, al quale verrà rilasciato un
nulla osta alla stipula del contratto di lavoro che verrà comunicato all’ufficio consolare del paese di
residenza del lavoratore per rilascio visto d’ingresso.
Per l’ottenimento del visto il lavoratore extracomunitario deve dimostrare di disporre di idonee
risorse economiche e dei requisiti richiesti dalla legge italiana per lo svolgimento di ogni singola attività.

IL LAVORO AUTONOMO

IL CONTRATTO D’OPERA, IL CONTRATTO D’OPERA INTELLETTUALE


Il lavoro autonomo non è regolato dal codice civile come fattispecie, ma ad esso è dedicato il titolo
III del libro V che contiene la disciplina delle fattispecie del contratto d’opera e del contratto d’opera
intellettuale.
Nello schema della locazione rilevano le operae o l’opus e quindi l’attività o il risultato che
costituiscono l’oggetto dei rispettivi contrati di locazione, piuttosto che l’autore delle operae e dell’opus e
cioè la persona del lavoratore.
La disciplina contenuta nel codice del 1942 prende atto che nel contratto di lavoro e nel contratto
d’opera le opere e l’opus non sono separabili dalla persona del lavoratore e quindi avvia il processo che
culminerà nel disegno solidale della Costituzione di riconoscimento della implicazione della persona nei
rapporti di lavoro.
Art. 35 Cost.  autorizza il legislatore a riconoscere, rispettando il canone della ragionevolezza, i
diritti costituzionalmente garantiti, a tutela della dignità della persona, a ogni forma di lavoro personale
indipendentemente dal fatto che il rapporto sia subordinato.
Le norme costituzionali in materia di lavoro individuano e garantiscono principi e valori e perciò non
sono applicabili direttamente dal giudice alle fattispecie concrete di lavoro subordinato o di lavoro
autonomo ma richiedono in entrambi i casi la mediazione legislativa.
La tutela del lavoratore autonomo, se si eccettua quella previdenziale, è rimasta per lungo tempo
ferma alla disciplina civilistica del contrato d’opera, in realtà scarsamente applicata e povera di garanzie, e
alla disciplina dei tipi di lavoro autonomo regolati dal libro IV delle obbligazioni, con poche norme di tutela
del lavoro dei diversi prestatori ad eccezione del lavoro dell’agente, tutelato anche da una cospicua
disciplina collettiva. Soltanto nel 2003 il legislatore, introducendo la fattispecie del lavoro a progetto ha
previsto per i collaboratori autonomi alcune rilevanti tutele.
Il prestatore d’opera non è un imprenditore ma un piccolo imprenditore o lavoratore autonomo.
Art. 2082  imprenditore = colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine
della produzione o dello scambio di beni o servizi.
Art. 2222  contratto d’opera; prestatore d’opera compie un’opera o un servizio con il lavoro
prevalentemente proprio.
La professionalità, ossia lo svolgimento continuativo e prevalente di una determinata attività e
l’organizzazione di beni e del lavoro altrui da parte dell’imprenditore sono i dati che distinguono
quest’ultimo dal prestatore d’opera. Il prestatore d’opera è sempre una persona fisica, e la sua prestazione
è contrassegnata dall’intuitus personae e dalla fiducia che riguarda l’esecuzione personale dell’obbligazione
di facere del prestatore d’opera.
I requisiti del contratto d’opera sono la contestualità, l’onerosità, la commutatività e l’instantaneità
dell’adempimento. Il contratto d’opera è un contratto consensuale ad effetti obbligatori: le parti si
obbligano a compiere il servizio o l’opera e a pagare il corrispettivo. Esso è un contratto oneroso, a
differenza dell’appalto per il quale si stabilisce che il corrispettivo deve essere in danaro, per questo sono
ammissibili anche beni diversi dal danaro. La mancata determinazione del corrispettivo non determina la
nullità del contratto d’opera né lo tramuta in altra fattispecie tipica perché in mancanza del corrispettivo
suppliscono gli usi e le tariffe e in difetto il compenso è determinato dal giudice in relazione al risultato
ottenuto e al lavoro necessario per ottenerlo.
Il contratto d’opera è commutativo e non aleatorio sicché in caso di difficoltà o onerosità
dell’esecuzione, in assenza di una disciplina specifica, tale contratto rimane soggetto alla disciplina generale
prevista dall’art. 1467. Esso non è un contrato di durata, tuttavia quando l’opus sia ripetuto e quindi gli
opera siano collegati da nesso di continuità, la ripetizione degli stessi finisce per soddisfare non più un
interesse istantaneo ma durevole del committente e quindi si è in presenza di un rapporto di durata.
L’oggetto del contratto d’opera consiste in un’opera o un servizio. Il termine “opera” generalmente
si riferisce al risultato dell’obbligazione di facere consistente nella modificazione di una cosa, effettuata con
il lavoro prevalentemente manuale o tecnico del prestatore d’opera, distinguendosi in ciò il contratto
d’opera da quello d’opera intellettuale. Il concetto di servizio si distingue da quello di opera perché pur
presupponendo un’obbligazione di facere non comporta la trasformazione della materia.
Disciplina  nel contratto d’opera il committente, pur avendo il potere di impartire istruzioni al
prestatore d’opera e di controllare la conformità della prestazione alle condizioni stabilite dal contratto,
non ha tuttavia la disponibilità dell’attività del prestatore. Egli, essendo tenuto ad eseguire l’opus a regola
d’arte, può anche non accertare supinamente le istruzioni su modalità tecniche idonee al perseguimento
del risultato per non intercorrere in possibili responsabilità verso il committente per i vizi o le difformità
finali. Se il prestatore d’opera non procede all’esecuzione dell’opera secondo le condizioni stabilite nel
contratto e a regola d’arte, il committente, trascorso inutilmente il termine entro il quale il prestatore di
opera deve uniformarsi alle condizioni stabilite del contratto, può recedere dallo stesso con effetto ex tunc
e fatto salvo l’obbligo del prestatore al risarcimento dei danni.
L’esercizio facoltativo del potere di recesso può considerarsi una forma di autotutela privata
riconosciuta dalla legge al committente, al quale spetterà la restituzione del corrispettivo, se già versato e in
aggiunta il risarcimento dei danni subiti.
Dal momento dell’accettazione dell’opera compiuta decorrono i termini di prescrizione del diritto al
corrispettivo del prestatore d’opera e del diritto del committente alla consegna dell’opera. L’accettazione
determina il trasferimento del rischio dal prestatore al committente e mentre libera il prestatore dalla
responsabilità per difformità o vizi noti o facilmente riconoscibili dal committente, non lo libera quando egli
stesso abbia occultato i vizi dell’opera altrimenti riconoscibili.
I diritti del committente, nel caso di difformità o vizi dell’opera, sono regolati come nel contratto di
appalto, prevedendo in tal modo una disciplina, che in parte si discosta da quella generale. In caso di
inesatto adempimento, il committente può chiedere l’esecuzione in forma specifica anche da parte di un
terzo a spese del prestatore d’opera o una riduzione del corrispettivo, salvo il risarcimento in caso di colpa
del prestatore d’opera.
Il risarcimento può essere rimedio concorrente con quelli precedentemente indicati in presenza di
vizi eliminabili, o rimedio esclusivo se i vizi non siano eliminabili. E’ comunque stabilita la risoluzione del
contratto nell’ipotesi in cui le difformità e i vizi dell’opera siano tali da renderla totalmente inidonea alla sua
destinazione.
Recesso  le parti possono recedere in corso di esecuzione, senza che per questo il recesso
convenzionale o la risoluzione abbiano effetto sulle prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione. Il
committente che receda ad esecuzione iniziata è obbligato a tenere indenne il prestatore d’opera dalle
spese sostenute, dal lavoro eseguito e dal mancato guadagno.
Secondo la giurisprudenza il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva di qualsiasi
rapporto di durata a tempo indeterminato perché soddisfa l’esigenza di evitare la perpetuità del vicolo
obbligatorio in sintonia con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto.
Oltre al recesso e alla risoluzione è prevista dal codice un’ulteriore causa di estinzione del rapporto
d’opera e cioè l’impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione dell’opera non imputabile ad alcuna delle parti.
Impossibilità parziale = riduzione della controprestazione e anche il recesso, quando venga meno
un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.
Art. 2228 obbliga il committente a corrispondere al prestatore d’opera il compenso per il lavoro
svolto in relazione all’utilità della parte dell’opera compiuta. Se il lavoro svolto non presenta alcuna utilità
per il committente, avuto riguardo alla parte dell’opera compiuta, lo stesso committente può recedere
senza corrispondere alcun compenso. In caso di contrasto, sarà il giudice a valutare se il lavoro svolto abbia
un’utilità per il committente.
Iscrizione in albi o elenchi  art. 2231 indica che il prestatore non iscritto non ha azione per il
pagamento della retribuzione, esclude che lo stesso prestatore possa promuovere un’azione di
ingiustificato arricchimento nei confronti del cliente, mentre ammette la soluti retentio.
L’esecuzione della prestazione intellettuale da parte del non iscritto ad apposito albo determina la
nullità assoluta del rapporto per contrarietà a norme imperative, provando il contratto di qualsiasi effetto,
ivi compenso per il prestatore.
Secondo la prevalente dottrina il contratto d’opera intellettuale stipulato da chi non è iscritto deve
considerarsi invalido limitatamente allo svolgimento degli atti per i quali è necessaria l’iscrizione all’albo.
Art. 2232 consente che il prestatore d’opera si avvalga di sostituti o ausiliari, a meno che tale forma
di collaborazione sia incompatibile con l’oggetto della prestazione.
Il carattere personale dell’adempimento non è escludo dall’adempimento a mezzo di terzi.
Il prestatore d’opera, avvalendosi dell’aiuto di terzi, risponde dei loro fatti dolosi o colposi.
Il professionista che si avvalga di sostituti nei casi in cui non è consentito, è inadempiente; mentre il
mandatario che si faccia sostituire senza autorizzazione dal mandante risponde dell’operato di colui che lo
sostituisce.
Con il decreto Bersani è stato abrogato definitivamente il divieto di fornire all’utenza servizi
professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo
restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero – professionale deve essere esclusivo, che il
medesimo professionista non può partecipare a più di una società do professionisti e che la specifica
prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti preventivamente indicati, sotto la propria
personale responsabilità.
Alla responsabilità civile del prestatore d’opera intellettuale si aggiunge quella penale o disciplinare
qualora il professionista nell’eseguire l’incarico commetta reati o violi norme proprie dell’ordine o collegio a
cui appartiene.
La diligenza del professionista nell’esecuzione della prestazione di lavoro intellettuale deve essere
valutata avendo riguardo alla natura dell’attività esercitata.
L’inadempimento del professionista sussiste nei limiti della colpa, tenuto conto della natura
dell’attività esercitata, indipendentemente dal raggiungimento del risultato.
Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il professionista
risponde solo nei limiti del dolo o colpa grave.
Il professionista, come il cliente è tenuto a concludere e ad eseguire il contratto d’opera con
correttezza e buona fede; è tenuto quindi già nella fase preliminare a informare il cliente del possibile esito
negativo o positivo della prestazione professionale.
Il professionista è tenuto altresì a mantenere il segreto professionale e non deve assumere
contemporaneamente la cura di interessi contrari a quelli del cliente; può trattenere i documenti per il
tempo strettamente necessario alla tutela dei propri diritti secondo leggi professionali.
Al creditore/ cliente che affermi responsabilità contrattuale del professionista spetta la prova
dell’obbligazione mentre a quest’ultimo spetta provare la sua assenza di colpa.
La corresponsione del compenso sostituisce l’obbligazione principale del cliente nei confronti del
professionista; tale obbligo sorge quando la prestazione è ultimata. La misura del compenso deve essere
adeguata all’importanza e al decoro della professione e previamente comunicata al cliente con un
preventivo di massima e successivamente pattuita al momento del conferimento dell’incarico.
La disciplina del recesso dal contratto d’opera intellettuale non si limita a prevedere il recesso del
cliente ma contempla anche quello per giusta causa del prestatore d’opera intellettuale. In caso di recesso
del cliente, questi è tenuto al rimborso delle spese sostenute e al compenso per l’opera svolta, mentre
nulla è dovuto per il mancato guadagno.
Art. 2237 c.c. ammette recesso per giusta causa del prestatore d’opera che si identifica con ogni
fatto non attinente all’esecuzione della prestazione che alteri il rapporto fiduciario tra le parti. Qualora
sussista una giusta causa il prestatore ha diritto al rimborso delle spese e al compenso dell’opera svolta, da
determinarsi in rapporto con l’utile per il cliente, mentre è escluso l’obbligo del compenso per l’opera
svolta quando non sia risultato utile. Se manca la giusta causa il prestatore recedente si rende
inadempiente secondo principi legali. Anche in presenza di una giusta causa, il recesso deve essere
esercitato osservando l’obbligo di correttezza in modo da non recare pregiudizio al cliente.
Il rapporto d’opera intellettuale si estingue per compimento dell’opera, scadenza del termine,
mutuo dissenso, recesso di una delle parti, risoluzione del contratto.
La cancellazione dell’albo risolve il contratto in corso di esecuzione; in questo caso il prestatore
d’opera ha diritto al rimborso delle spese incontrate e ad un compenso adeguato all’utilità del lavoro
compiuto.
Professionista e impresa  art. 2238 prevede 2 ipotesi: attività del professionista come elemento
di un’organizzazione in forma di impresa e ipotesi in cui il professionista assume la posizione di datore di
lavoro non imprenditore nei confronti dei sostituti e collaboratori. Nell’ipotesi in cui l’attività professionale
è organizzata in forma d’impresa individuale, l’imprenditore è commerciale e tra professionista e cliente
possono instaurarsi due rapporti: uno avente ad oggetto i servizi resi dall’impresa e l’altro avente ad
oggetto la prestazione d’opera intellettuale del professionista non in qualità di imprenditore  i rapporti
rimangono perfettamente distinti e conservano la loro autonomia.

I RAPPORTI DI LAVORO AUTONOMO DI DURATA


Nel contratto d’opera la prestazione non è individuata dal tempo, subìto invece dalle parti.
L’apposizione di un termine al contratto d’opera serve a stabilire la durata massima per l’esecuzione
dell’opus, e la maggiore o minore durata della prestazione non comporta una variazione della
controprestazione che è invece commisurata al risultato.
Il prestatore d’opera è adempiente nel momento in cui consegna al committente l’opus perfectum
 la prestazione di lavoro nel contratto d’opera, pur richiedendo un lungo periodo di tempo, sia diretta a
soddisfare un interesse durevole del committente; questo contratto non può essere annoverato tra i
contratti di durata.
Nel codice civile non esiste la fattispecie del lavoro autonomo continuativo.
Contratto di agenzia  disciplinato per la prima volta dal codice del 1942, come tipo legale; ha la
sua origine nell’area del mandato commerciale. Esso è tutelato anche da una copiosa disciplina collettiva
oltre che dal codice civile. L’iscrizione nel ruolo assolve ad una funzione di pubblicità e di accertamento dei
requisiti di idoneità morale e tecnica degli agenti, anche in relazione al carattere fiduciario dell’attività
svolta nell’interesse degli imprenditori preponenti. Le normative comunitarie e di attuazione non
modificano lo schema del contratto di agenzia.
Lo schema di questo contratto, pur non confondendosi con quello del mandato, tuttavia presenta
elementi a questo riconducibili che richiama per l’agente gli obblighi del commissionario.
Le istruzioni che il preponente o il mandante impartiscono all’agente o al mandatario non sono
assimilabili alle direttive che il datore di lavoro impartisce al prestatore di lavoro subordinato perché in
quest’ultime presuppongono la continuità della disponibilità da parte del datore di lavoro del
comportamento del lavoratore. Viceversa, nel contratto di agenzia le istruzioni presuppongono soltanto la
continuità della prestazione dell’agente rivolta a soddisfare un interesse durevole del preponente e non
implicano una forma di controllo del tempo di lavoro dell’agente.
Quando l’attività dell’agente sia svolta in forma di piccola impresa, il rapporto tra agente e
committente rientra tra quelli dell’art. 409 cc (carattere professionale). Quando invece l’attività è svolta in
forma di impresa, cioè l’attività personale dell’agente non è prevalente rispetto all’organizzazione dallo
stesso predisposta, il rapporto di agenzia che intercorre tra agente e preponente non è soggetto a rito del
lavoro.
Sulla prestazione effettuata dall’agente non iscritto al ruolo esiste una giurisprudenza della
Cassazione molto variegata. Gli albi possono soddisfare esigenze di carattere amministrativo, ma l’iscrizione
ad essi non è considerato requisito di validità del contratto di agenzia perché non richiesto dalla direttiva
europea. La Cassazione ha ritenuto tuttavia di adeguarsi alla tesi della Corte di Giustizia sostenendo la
necessità di disapplicare la normativa nazionale interna sul ruolo degli agenti perché in contrasto con le
disposizioni della direttiva.
Tratti fisionomici dei rapporti di collaborazione art. 409 c.c. sono continuità, coordinazione,
carattere personale della prestazione lavorativa. Per quanto riguarda il primo, la prestazione d’opera
continuativa può riferirsi sia all’esecuzione di un’attività, sia alla ripetizione di più risultati collegati da un
nesso di continuità; in entrambi i casi la soddisfazione delle parti è durevole – primo caso, la continuità è
riferita non solo all’esecuzione della prestazione ma anche all’adempimento della prestazione, nel secondo
caso all’adempimento quindi raggiungimento di più risultati. Nel contratto d’opera,viceversa, la prestazione
soddisfa l’interesse del committente nel momento in cui viene portata a termine, quindi non è riconducibile
alla categoria dell’art. 409 cc. I rapporti di consulenza sono di durata  la continuità della prestazione
rileva non soltanto quando sia prevista dal programma negoziale ma anche quando sia stata di fatto
continuativa.
Il requisito della coordinazione mette in evidenza il profilo organizzativo del rapporto di lavoro, nel
senso che indica il collegamento funzionale tra l’attività del prestatore d’opera e quella del committente, e
postula che la prima sia svolta in connessione con la seconda per il raggiungimento della finalità alla quale
mira il committente.
Mentre il collegamento funzionale nel lavoro subordinato si realizza attraverso l’esercizio del
potere direttivo configurato come potere di conformazione della prestazione dovuta e potere di
determinare le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, nel lavoro coordinato tale collegamento
si realizza soltanto attraverso l’esercizio del potere di conformazione della prestazione dovuta o nella
richiesta di adempimento dell’unica prestazione dedotta in contratto  differenza di ordine qualitativo e
non quantitativo tra il potere direttivo del datore di lavoro nel rapporto di lavoro subordinato e il potere di
coordinamento del committente, che si estrinseca soltanto nel potere di conformazione della prestazione
convenuta con il lavoratore coordinato; quest’ultimo non deve stare a disposizione ma determinare anche
da solo le modalità di esecuzione della prestazione nei limiti delle condizioni pattuite.
Carattere prevalentemente personale della prestazione  costituisce il criterio principale secondo
la giurisprudenza per decidere se un rapporto rientra nel novero di quelli indicati dall’art. 409 c.c. Il
carattere prevalentemente personale va inteso nel senso che il prestatore d’opera può avvalersi di
collaboratori, ma l’apporto degli stessi deve risultare suvvalente rispetto allo svolgimento personale della
sua prestazione di lavoro. la valutazione del giudice deve tenere conto non solo del numero dei
collaboratori ma anche della natura meramente esecutiva delle loro prestazioni.
Il principio della retribuzione sufficiente riguarda esclusivamente il lavoratore subordinato e
pertanto non può essere invocato in tema di compenso per prestazioni lavorative autonome. Se il
corrispettivo non convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo tariffe, spetta al giudice la
sua determinazione.
Presunzione relativa di continuità e coordinazione laddove ricorrano almeno due dei seguenti
presupposti:
- Che la collaborazione abbia una durata complessivamente superiore ad almeno otto mesi
nell’arco dell’anno solare e per i due consecutivi
- Che il corrispettivo derivante da tale collaborazione costituisca più dell’80% dei corrispettivi
complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco dello stesso anno solare per due
anni consecutivi
- Che il collaboratore disponga di una postazione di lavoro presso una delle sedi del
committente.
La presunzione di coordinazione determina l’integrale applicazione della disciplina del lavoro a
progetto. In presenza di almeno due requisiti il rapporto si presume autonomo salvo prova contraria,
sennonché una volta presunta l’autonomia, lo stesso rapporto, evidentemente non riconducibile ad un
progetto specifico, sarà immediatamente riqualificato ex lege in termini di subordinazione.
Lavoro parasubordinato o coordinato = non indica fattispecie tipica, ma modalità di svolgimento
della prestazione di lavoro in una serie di rapporti che hanno natura e origine diverse.
La collaborazione deve avere per oggetto la prestazione di attività senza vincolo di subordinazione a
favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi
organizzati e con retribuzione periodica prestabilita  comprende figure professionali che operano sia
all’esterno dell’impresa che quelle espulse dal processo produttivo a seguito di processi di
esternalizzazione.
I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa godevano prima di una tutela esclusivamente
processuale ai soli fini dell’applicazione del nuovo rito di lavoro. risultavano privi di una disciplina
sostanziale, con eccezione dell’art 2113 che comprende nel proprio campo di applicazione gli atti dispositivi
di diritti derivanti da norme inderogabili della legge e di contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti
di cui art. 409 c.p.c. equiparando i collaboratori continuativi e coordinati ai lavoratori subordinati per
l’applicazione delle tutele e delle garanzie. Nel tempo vi è stata una serie di interventi che coinvolgono al
proprio interno collaborazioni continuative e coordinate e per questi rapporti è stata prevista una specifica
contribuzione previdenziale istituendo un’apposita gestione dell’INPS ai fini dell’estensione. Ai lavoratori
parasubordinati è stata estesa anche la tutela per gli infortuni e le malattie professionali seppur
limitatamente a quei lavoratori che svolgano attività considerate dalla legge a rischio di infortunio o che
esercitino le proprie mansioni in modo non occasionale su veicoli a motore condotti personalmente. La
ripartizione dell’onere contributivo tra collaboratore e committente rimane fissata nella misura di un terzo
e due terzi.
La finanziaria del 2001 ha previsto la totalizzazione dei periodi contributivi, al fine di garantire una
più adeguata prestazione pensionistica ai collaboratori.
Ulteriori tutele sono state riconosciute alla fine degli anni 90 come gli assegni familiari, indennità di
malattia e di maternità o paternità. È stato poi aggiunto il divieto di adibizione al lavoro della collaboratrice
coordinata nel periodo di gravidanza e post – partum con annesso diritto alla corresponsione di indennità di
maternità.
In tema di ammortizzatori sociali, dal 2010 il legislatore ha disposto che anche i periodi di lavoro
svolti esclusivamente mediante collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, possano essere
computati ai fini della maturazione del diritto all’indennità di disoccupazione ordinaria non agricola.
Il principio di automaticità delle prestazioni non è applicabile ai rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa. Il collaboratore riceve tutte le tutele previste per la sicurezza sul lavoro e nella
misura in cui svolga l’attività nei luoghi di lavoro del committente.
Prescrizione dei crediti da lavoro  previsto termine di 5 anni per tutto ciò che deve pagarsi
periodicamente ad anno o in termini più brevi. Laddove il compenso sia corrisposto con tempi e modalità
diversi, dovrebbe ritenersi applicabile il termine di prescrizione ordinaria decennale.
La nuova disciplina dei termini di impugnazione del licenziamento invalido nel lavoro subordinato è
stata estesa a licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del
rapporto di lavoro, ovvero alla legittimità del termine apposto a contratto; al recesso del committente nei
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità di pagamento.

IL LAVORO A PROGETTO
Legislatore 2003  ha preso atto dell’elevato numero di collaborazioni continuative e coordinate
fittizie e ha predisposto la disciplina del lavoro a progetto con l’obiettivo di eliminare le collaborazioni
continuative e coordinate non genuine. La riforma ha introdotto una fattispecie inclusiva, cioè che ricalca
quella dell’art 409 c.p.c. con aggiunte dell’apposizione del termine e del progetto; secondo un altro
orientamento invece la fattispecie del lavoro a progetto è esclusiva e in coerenza con la ratio
antifraudolenta della nuova disciplina, tendono a valorizzare i connotati del lavoro a progetto al fine di
distinguerlo dalle collaborazioni continuative e coordinate esistenti.
Con la riforma del mercato del lavoro, il legislatore ha preso atto delle difficoltà interpretative
sollevate degli art. 61 ss ed è intervenuto sulla disciplina del lavoro a progetto introducendo modifiche che
incidono sia sul versante della fattispecie che su quello sanzionatorio.
2012  nuova definizione del contratto di lavoro a progetto. In essa si prevede espressamente che
il progetto sia funzionalmente collegato ad un determinato risultato finale. Il progetto non può ridursi ad
una mera descrizione delle mansioni del collaboratore o ad una formula del tutto indeterminata senza
accennare gli obiettivi da raggiungere, infatti questi devono risultare per iscritto.
Il progetti continua ad essere caratterizzato dal requisito della specificità che conferma che la
preventiva individuazione del risultato da realizzare deve avvenire in termini analitici e dettagliati, anche se
non deve essere tale da pregiudicare l’autonomia del collaboratore nell’esecuzione della prestazione; il
progetto non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente né
comportare lo svolgimento dei compiti meramente esecutivi o ripetitivi. L’esclusione di quest’ultimi sembra
legificare l’opinione che esclude la legittimità del lavoro a progetto per lo svolgimento di attività semplici e
ripetitive. Tale esclusione però non deve indurre a ritenere che il contratto a progetto sia compatibile
unicamente con prestazioni che richiedono una professionalità elevata e una capacita specialistica elevata.
La facoltà dei contratti collettivi di individuare i compiti meramente esecutivi o ripetitivi non incide
sull’applicabilità del precetto legislativo, nel senso che la preclusione legislativa a svolgere tali compiti
mediante il contratto a progetti sussiste anche in assenza di un’elencazione dei contratti collettivi.
Il progetto costituisce l’oggetto del contratto e viene determinato dal committente; nonostante
questo deve essere gestito autonomamente dal collaboratore. La gestione incontra un limite nel
coordinamento con l’organizzazione del committente; il coordinamento conferma il collegamento
funzionale del rapporto di collaborazione a progetto con l’organizzazione del committente.
Il coordinamento non sussiste nel contratto d’opera e si atteggia diversamente nel lavoro
subordinato. Il prestatore di lavoro subordinato durante lo svolgimento del rapporto resta a disposizione
del datore, mentre il collaboratore continuativo e coordinato si obbliga ad eseguire la prestazione
convenuta su richiesta del committente secondo modalità di luogo e tempo pattuite al momento della
conclusione del contratto o concordate di volta in volta.
Il contratto di lavoro a progetto può, a seconda dei casi, atteggiarsi sia come contratto di durata in
senso tecnico, sia come contratto ad esecuzione istantanea. Nel primo caso si ha sia quando ha ad oggetto
lo svolgimento per il tempo stabilito dalle parti, di attività lavorativa sia quando ha ad oggetto la ripetizione,
nel tempo stabilito dalle parti, dello stesso opus o servizio. Quando invece ha ad oggetto la realizzazione di
un unico opus o servizio allora si deve escludere la possibilità di qualificarlo come contratto di durata.
Il contrato di lavoro a progetto deve essere formulato in forma scritta e deve contenere la durata
della prestazione di lavoro, la descrizione del progetto, il corrispettivo, i tempi e le modalità di pagamento,
rimborso spese; le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sull’esecuzione della
prestazione; le eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore. La forma non scritta
non determina la nullità, ma è rilevante sul piano della prova.
Il compenso del collaboratore deve tenere conto anche dei compensi corrisposti sulla base dei
contratti collettivi nazionali di riferimento, in mancanza di contrattazione specifica. Compenso = in
proporzione alla quantità e qualità del lavoro eseguito.
Art. 2225 – nel contratto d’opera abilita il giudice a determinare il corrispettivo in relazione al
risultato ottenuto e al lavoro necessario per ottenerlo, se non convenuto dalle parti; nel contratto d’opera il
rischio grava sul prestatore d’opera, in ultima istanza (quando l’opera è ultimata).
Art. 36 Cost – lavoratore subordinato ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e
alla qualità del suo lavoro.
In ogni caso il lavoro eseguito, per dare luogo ad un compenso proporzionato deve presentare
un’utilità oggettiva per il committente.
Viene previsto l’obbligo di riservatezza e divieto di concorrenza, così come viene riconosciuto anche
il diritto di invenzione del collaboratore a progetto.
Viene riconosciuto al solo lavoratore a progetto il diritto ad un periodo di sospensione del rapporto
senza corrispettivo sia in caso di gravidanza, che di malattia o infortunio. Negli ultimi due casi però, quando
la sospensione supera il sesto della durata stabilita nel contratto ( più di 30 giorni) il committente può
recedere dal contratto. Malattia o infortunio non comportano una proroga del rapporto per il periodo di
sospensione, mentre vi è prevista per la gravidanza per un periodo di 180 giorni.
La forma di estinzione propria del contratto a progetto è la realizzazione del progetto, al
compimento dell’opus o servizio – l’estinzione si verifica anche prima della scadenza del termine apposto al
contratto. Il contratto di lavoro a progetto è necessariamente a termine. È possibile recedere solo per giusta
causa; il collaboratore può recedere anche secondo diverse causali o modalità, ma sempre con preavviso
(secondo regie pattizio). Le ipotesi di estinzione del rapporto quindi sonno:
- Realizzazione del progetto
- Recesso ante tempus in presenza di giusta causa
- Recesso del committente per inidoneità del collaboratore impeditiva della realizzazione del
progetto
- Recesso ante tempus del collaboratore a progetto per causali o con modalità stabilite nel
contratto.
L’indennità viene prevista per i collaboratori a progetto che, in presenza di determinate condizioni
contributive ed entro determinate soglie reddituali, hanno svolto attività in regime di mono – committenza
con riferimento al rapporto cessato.
Nella riconduzione a un progetto, il programma di lavoro o fare di esso dei contratti, i diritti
derivanti da un rapporto di lavoro già in essere possono essere oggetto di rinunzie o tassazioni tra le parti in
sede di certificazione del rapporto di lavoro.
I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno
specifico progetto sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato sin dalla
data di costituzione del rapporto.
Tesi della presunzione legale assoluta  la mancata individuazione del progetto determina
automaticamente la conversione del contratto in un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e
indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto, senza possibilità per il committente di sottrarsi a
questa sanzione ( non accolte prestazioni prive del vincolo di subordinazione). Per superare dubbi di
legittimità costituzionale è stata formulata una tesi della presunzione legale relativa, ammettendo la
possibilità del committente di fornire prova contraria.
L’esistenza di un progetto non esclude la natura subordinata del rapporto se le modalità di
esecuzione della prestazione sono effettivamente subordinate.
Al giudice è vietato sindacare nel merito delle scelte dell’imprenditore, non può precludergli di fare
il suo mestiere, ossia qualificare il contrato avendo riguardo non solo all’esistenza del progetto ma anche al
comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto.
Il requisito della coordinazione è per un verso un criterio debole e cedevole rispetto alla
prorompente invadenza ed elasticità della subordinazione, la quale può sovrapporti alla prima.

IL LAVORO OCCASIONALE E IL LAVORO OCCASIONALE DI TIPO


ACCESSORIO
Il lavoro occasionale è identificato da due parametri non omogenei costituiti dalla durata non
superiore a 30 giorni e dal compenso percepito non superiore a euro 5000. Esso si distingue dal lavoro a
progetto per la mancanza del progetto.
Il rapporto di lavoro accessorio per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività
lavorative di natura meramente occasionale che non danno luogo a compensi maggiori di euro 5000 nel
corso dell’anno solare. Chi intende avvalersi di prestazioni di lavoro accessorio deve acquistare appositi
buoni orari, numerati e datati, con i quali retribuisce il prestatore che li presenterà poi all’incasso a
determinati soggetti autorizzati dalla legge; il valore nominale del buono incorpora la contribuzione Inps e
Inail per il prestatore e la commissione per costo gestione servizi.
I compensi derivanti da lavoro accessorio sono esenti da qualsiasi imposizione fiscale, non incidono
sullo stato di disoccupato e innocupato e si computano ai fini della determinazione del reddito necessario
per la concessione del permesso di soggiorno. In assenza dei requisiti richiesti per legittimo ricorso al lavoro
accessorio sarà applicabile la disciplina alla quale è riconducibile il rapporto.

LA PRESTAZIONE DI LAVORO NEI CONTRATTI ASSOCIATIVI E NELLE


ORGANIZZAZIONI NO PROFIT

I CONTRATTI ASSOCIATIVI
La prestazione di lavoro può essere dedotta anche nei contratti associativi. In quelli di tipo tecnico si
rileva l’esercizio in comune di una determinata attività destinata a soddisfare un comune interesse, una
comunanza di scopo e una comune assunzione del rischio. I contratti di tipo atecnico (partecipativi) sono
invece contraddistinti da una più generica partecipazione dei contraenti al risultato dell’attività economica.
Il risultato dell’attività economica è interno alla causa del contrato. Il socio o l’associato partecipano
agli utili e alle perdite in ragione dell’esercizio in comune dell’attività mentre la partecipazione agli utili del
lavoratore subordinato è un criterio di commisurazione della retribuzione a lui dovuta come corrispettivo
del lavoro prestato.
Nelle società di persone lo svolgimento della prestazione di lavoro del socio è oggetto di
conferimento e il contratto sociale è la fonte di questo conferimento.
Il rapporto di lavoro subordinato tra socio e società di persone è ammesso qualora a prestazione
non integri un conferimento e sia svolta sotto il controllo gerarchico di un altro socio. Non è ammissibile
invece il rapporto subordinato tra socio amministratore unico e società.
Nelle società di capitali è vietato il conferimento di prestazioni d’opera o di servizi poiché tali
prestazioni, non essendo valutabili con esattezza non offrono sufficienti garanzie sulla corrispondenza tra
capitale sottoscritto e capitale versato dal socio.
La nuova disciplina prevede l’emissione da parte della società per azioni, a fronte dell’apporto di
soci o di terzi di opere o di servizi, di strumenti finanziari che attribuiscono ai loro possessori diritti
patrimoniali o diritti di partecipazione alla gestione della società. Pertanto l’esecuzione di tali prestazioni
consente la partecipazione del socio agli utili, nonché all’amministrazione della società, secondo modalità
stabilite dallo statuto.
Per i soci delle società di capitali vale il principio della responsabilità limitata, in forza del quale il
socio può essere contemporaneamente anche lavoratore subordinato della stessa società salvo il dubbio
per il socio in posizione dominante. Tali rapporti sono soggetti alla disciplina del processo di lavoro, ma non
comportano l’obbligo di iscrizione all’Inps.
La qualità di collaboratore nell’impresa riconosciuta all’amministratore non sembra sufficiente a
ricondurre nella fattispecie del lavoro subordinato il rapporto di amministrazione. Sembra evidente invece
l’analogia tra disciplina che regola le responsabilità del mandatario con quella che regola le responsabilità
dell’amministratore.
La coesistenza di due rapporti, di lavoro subordinato e di amministrazione in capo alla stessa
persona è ammissibile, a condizione che l’amministratore sia soltanto un componente del consiglio di
amministrazione o abbia competenze determinate come amministratore delegato e sia pertanto soggetto
alle direttive e al controllo dell’organo collegiale.
Contratto di associazione in partecipazione  l’associante attribuisce all’associato una
partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato
apporto, che è acquisito al patrimonio dell’associante stesso. L’associazione in partecipazione non
presuppone necessariamente l’esistenza di un’impresa. Inoltre, in mancanza di diversa pattuizione
contrattuale, il diritto dell’associato di partecipare agli utili deve essere riferito non agli utili di bilancio, che
potrebbero conglobare elementi patrimoniali non provenienti dall’attività di gestione, bensì agli utili
d’esercizio, cioè quelli che emergono dai profitti. Il diritto agli utili ha carattere periodico e sorge
indipendentemente dalla presentazione del rendiconto.
Nel contrato di associazione in partecipazione la posizione dell’associato che apporta lavoro si
distingue nettamente da quella del lavoratore subordinato, anzitutto per le modalità di esecuzione della
prestazione di lavoro; il potere dell’associante di impartire direttive all’associato è più generico del potere
direttivo del datore di lavoro nei confronti del lavoratore subordinato perché l’associato non è a
disposizione dell’associante.
Per il rischio economico dell’impresa, che grava sull’associato e non sul lavoratore subordinato, in
caso di mancata percezione degli utili, al rischio di avere lavorato senza un corrispettivo.
La corresponsione di un fisso in favore dell’associato non esclude l’aleatorietà del contratto purché
sia attribuita a titolo di acconto.
La partecipazione agli utili attribuiti ai prestatori di lavoro subordinato deve essere determinata in
modo tale da escludere il rischio d’impresa. I tratti caratteristici dell’associazione in partecipazione con
apporto di lavoro sono:
- Sussistenza in capo a chi assume le scelte di fondo nell’organizzazione dell’impresa, di un
generico potere di impartire le direttive
- La presenza in capo al prestatore di lavoro dell’obbligo di apportare lavoro e di un potere di
controllo sulla gestione economica dell’impresa che si risolve in particolare in un obbligo di
rendiconto periodico da parte dell’associante
- La partecipazione agli utili e alle perdite
La distinzione tra fattispecie di lavoro subordinato e fattispecie dell’associazione in partecipazione
con apporto di lavoro, pur essendo chiara in linea astratta, nel concreto svolgimento del rapporto diventa
più problematica perché la prestazione di lavoro dell’associato può essere eseguita in una situazione di
dipendenza e di materiale assoggettamento alle direttive dell’associante.
La riforma del lavoro del 2012 cerca di porre un freno all’utilizzo dell’associazione in partecipazione
in frode al lavoro subordinato; viene prevista una limitazione numerica dei rapporti di associazione in
partecipazione con apporto di lavoro stipulabili. Il numero degli associati impegnati in una medesima
attività non può essere superiore a tre e nel caso in cui viene superato il rapporto si considera ope legis di
lavoro subordinato a tempo indeterminato, ma con tutti gli associati il cui apporto consista anche in una
prestazione di lavoro, e non soltanto con loro che siano stati assunti oltre tale soglia.
Nel caso in cui manchi un’effettiva partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa o dell’affare,
o sia omessa la consegna del rendiconto, si presume che sussista un rapporto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato tra associante e associato.
L’inversione dell’onere della prova è poi esclusa qualora l’apporto di lavoro dell’associato risulti
connotato da competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi.
Ai fini dell’applicazione del rito del lavoro, l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro,
nella misura in cui sia contrassegnata dalla continuità e coordinazione e quindi dalla integrazione della
prestazione lavorativa dell’associato nell’impresa dell’associante, è annoverabile tra i rapporti dell’art. 409
cpc.
Sono espressamente esclusi dall’obbligo contributivo gli associati in partecipazione iscritti in albi
professionali, in quanto già soggetti ad altre forme di previdenza.
Le cooperative sono definite dalla legge società a capitale variabile con scopo mutualistico. Nelle
cooperative di produzione e lavoro i soci, oltre ad essere titolati del diritto alle prestazioni mutualistiche
concorrevano ad attuare lo scopo mutualistico proprio dell’impresa oltre che agli utili.
La cooperativa che intendeva procurarsi le prestazioni lavorative del proprio socio lavoratore
doveva concludere con lui un ulteriore e distinto contratto di lavoro, autonomo o subordinato o
parasubordinato. Dal 2003, pur conservando la duplicità dei rapporti che intercorrono tra socio lavoratore e
cooperativa di lavoro, è stata sottolineata di nuovo la centralità del rapporto sociale.
In passato al socio lavoratore subordinato si applicava integralmente lo Statuto dei lavoratori con
esclusione dell’art. 18 St. lav. e quindi anche la normativa sulla tutela obbligatoria contro i licenziamenti
ingiustificati.
Il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle
previsioni statutarie. L’unitarietà della posizione lavorativa del socio sembra riemergere prepotentemente
fino ad eliminare la tutela obbligatoria dei licenziamenti individuali dei soci lavoratori.
La società cooperativa è obbligata a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico
complessivo proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai
minimi previsti per le prestazioni analoghe dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della
categoria affine.
Le cooperative sono tenute a determinare, con regolamento interno approvato dall’assemblea, la
tipologia dei rapporti da istaurare con i soci lavoratori e a indicare i contratti collettivi applicabili ai rapporti
di lavoro subordinato.
Le disposizioni che derogano in peius le clausole del contratto collettivo sono nulle.
Risulta esclusa la disciplina del rito del lavoro alle controversie aventi per oggetto la prestazione
mutualistica, idest la prestazione lavorativa nella società cooperativa di lavoro.
I diritti sindacali si esercitano in quanto compatibili con lo status del socio lavoratore; ai soci
subordinati invece si applica lo statuto in modo parziale.
Lavoro familiare  familiari sono il coniuge e i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il
secondo. Il familiare per il lavoro svolto non ha soltanto diritto al mantenimento secondo la condizione
patrimoniale della famiglia ma anche alla partecipazione agli utili e ai beni acquistati con essi, nonché agli
incrementi dell’azienda. Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e quelle sulla gestione sono adottate a
maggioranza dai familiari partecipanti all’impresa. Il diritto di partecipazione è intrasferibile, salvo che
avvenga a favore di un familiare con il consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla
cessazione della prestazione di lavoro, e in caso di alienazione dell’azienda.
Agricoltura  unico rapporto rimasto in vigore è la soccida, nel quale il soccidante e il soccidario si
associano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle
attività connesse al fine di ripartire l’accrescimento di bestiame e altri prodotti che ne derivano.

LE ORGANIZZAZIONI NO PROFIT
I requisiti dell’attività di volontariato sono la personalità, spontaneità e gratuità delle prestazioni
svolte tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte senza fini di lucro anche indiretto ed
esclusivamente per fini di solidarietà. Le eventuali erogazioni patrimoniali corrisposte dall’organizzazione al
volontario sono ammissibili soltanto nella veste di rimborsi delle spese effettivamente sostenute dallo
stesso per lo svolgimento dell’attività.
Il rapporto che lega il volontario all’organizzazione può essere qualificato di lavoro gratuito, e in
quanto regolato dalla legge è anche tipico.
Il volontario presta la sua opera non per conto proprio ma attraverso un’organizzazione, quindi la
sua attività è soggetta alle direttive dell’organizzazione.
Il requisito della spontaneità riferito all’attività del volontario significa che l’adesione e permanenza
nell’organizzazione non corrispondono all’adempimento di un obbligo, ma il volontario, dopo aver aderito,
e prima di avere manifestato la volontà di recedere, è obbligato a svolgere le prestazioni secondo le
modalità previste dallo statuto o determinate dal preposto.
Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla
promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini.
Per svolgere le proprie attività, le cooperative sociali si avvalgono di soci volontari che prestano la
loro opera gratuitamente come volontari nelle organizzazioni di volontariato e di soci ordinari come i soci
delle cooperative di produzione e lavoro.
I soci volontari non possono superare la metà del numero complessivo dei soci. Ad essi non si
applicano contratti collettivi e le norme di legge in materia di lavoro subordinato o autonomo, escluse
quelle sugli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e ai soci volontari spettano solo i rimborsi spese.
Le persone svantaggiate sono soci ordinari e costituiscono almeno il 30% dei dipendenti.
Per agevolare l’inserimento lavorativo le cooperative sociali possono stipulare convenzioni quadro
su base territoriale.

CERTIFICAZIONE DEI CONTRATTI DI LAVORO


La certificazione può avere ad oggetto tutti i contratti in cui sia dedotta direttamente o
indirettamente una prestazione di lavoro.
La sua funzione principale è quella di ridurre il contenzioso in materi a di lavoro e non soltanto in
materia di qualificazione dei contratti di lavoro.
È considerata lo strumento per stabilire a quale tipologia negoziale le parti abbiano inteso far
ricorso (esatta qualificazione del rapporto di lavoro e del contratto)  qualificazione tra autonomia e
subordinazione.
Gli enti preposti sono individuati negli enti bilaterali, Direzioni provinciali del lavoro, Province,
Università registrate in apposito albo, Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Le parti potranno
liberamente scegliere tra questi , ferma restando la possibilità per i soggetti abilitati di costituire una
commissione unitaria di certificazione.
Procedimento: l’inizio deve essere comunicato alla Direzione territoriale del lavoro che ne dà
informazione alle autorità pubbliche interessate agli effetti della certificazione e deve concludersi entro 30
giorni dal ricevimento dell’istanza.
L’atto di certificazione deve essere motivato con indicazione del termine e dell’autorità per
l’impugnazione e deve indicare esplicitamente gli effetti.
La certificazione da luogo ad un accertamento di tipo amministrativo; effetti di questo permangono
sia nei confronti delle parti sia verso i terzi interessati.
Nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole il giudice
non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, salvo erronea qualificazione del contratto, vizi di consenso
o difformità.
Nell’ipotesi di certificazione di contratti in corso di esecuzione gli effetti si producono al momento
nell’inizio del contratto, solo nel caso in cui la commissione certificatrice abbia accertato che anche
l’esecuzione in fase precedente si sia svolta correttamente.
Contratti non ancora sottoscritti  effetti si producono quando le parti sottoscrivono i contratti.
L’atto può essere impugnato davanti al giudice ordinario per erronea qualificazione oppure
difformità del programma negoziale certificato e successiva attuazione o vizi di consenso. È prevista
impugnazione presso il TAR competente per territorio per l’annullamento dell’atto di certificazione per
violazione del procedimento o eccesso di potere.

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