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ETTORE MALNATI

CHIESA:POPOLO DI DIO

DAL

CONCILIO VATICANO II

A.A. 2013 - 2014


 

1.

La Chiesa realtà visibile e spirituale


 
 

Introduzione

Si vuole riflettere su la Chiesa che Cristo ha voluto visibile e spirituale nella storia, partendo
dall’’ecclesiologia del Concilio Vaticano II.
Ci farà da “piattaforma” il n.8 del primo capitolo della costituzione dogmatica Lumen Gentium.
Si pensa in tal modo di approfondire ed esporre quella teologia sulla Chiesa che il Concilio ha
recepito dai teologi come De Lubac, Danielou, Journet, Congar, Ratzinger etc, che hanno dato il
loro contributo per una profonda lettura sulla Chiesa istituita da Cristo quale nuovo Popolo di Dio
aperto all’intera umanità.
La fedeltà di Pietro, dei Dodici e della “vita nuova” della Comunità del Risorto, sono quegli
elementi significativi del primo nucleo di quella Ekklesia universale e locale insieme, che fa
muovere i primi passi, con l’azione dello Spirito Santo, a Gerusalemme e poi si diffonde e
costituisce nel mondo allora conosciuto.
In questo capitolo cercheremo di presentare la volontà cristica di un nuovo Popolo di Dio
santificato dallo Spirito Santo, avendo Cristo quale pietra angolare, sulla quale poggia Cefa-Simon
Pietro e gli altri Apostoli, in una comunione di fede, seguendo l’esemplarità di Cristo venuto per gli
ultimi e i peccatori.
La Chiesa è nel mondo quale mysterium salutis per rimuovere dal cuore dell’uomo e
dell’umanità intera gli effetti di quelle strutture di peccato che impediscono all’uomo di realizzare
l’identità impressagli dal Creatore a beneficio dell’intera creazione.
La Chiesa è presenza, dono e luogo teologico dove Dio in Cristo incontra, sana ed eleva l’uomo
e tutto l’uomo1.

                                                            
1
 CONC.VAT. II, cost past Gaudium et Spes n.22 

 
 

1.1 Cristo, Unico Mediatore, ha costituito la Chiesa

“Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenta la sua Chiesa
santa, comunità di fede, di speranza e di carità, quale organismo visibile, attraverso il quale
diffonde per tutti la verità e la grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo
mistico di Cristo, l'assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa
arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto
una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino. Per una analogia che
non è senza valore, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura
assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in
modo non dissimile l'organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per
la crescita del corpo (cfr. Ef 4,16).
Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e
apostolica e che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv
21,17), affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18ss), e costituì per
sempre colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15). Questa Chiesa, in questo mondo costituita
e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai
vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi
di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo,
spingono verso l'unità cattolica.”2

Il Concilio Vaticano II, come abbiamo sopra riportato, ci offre l’opportunità di riflettere
teologicamente sulla volontà e istituzione cristica della Chiesa e la sua realtà visibile e spirituale.
L’autorevolezza del suo fondatore sta nella di lui identità di “Unicus Mediator”3.
L’unicità della singolare mediazione di Gesù Cristo nella Nuova Alleanza (Eb 8, 6) oltre ad
essere legata al culto perfetto del “nuovo patto, che ha reso antico quello di prima” (Eb 8, 13) è
anche fonte ed occasione singolare in cui Dio costituisce il suo popolo e sarà il loro Dio ponendo le
sue leggi nella loro intelligenza, scrivendole nel loro cuore (cfr Eb 8,10) e facendo di Cristo il
Sommo Sacerdote dei beni futuri (Eb 9,11). Tutto questo si realizza nel sacrificio cruento di Cristo
Gesù che offrì se stesso a Dio (cfr Eb 9, 13). Proprio per questa sua obbedienzialità Cristo è

                                                            
2
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 8 
3
 Idem 

 
 

mediatore di un nuovo patto (Eb 9, 15) e quindi fondamento del nuovo popolo che Dio ha costituito
nel sangue di lui divenendo per Cristo così il loro Dio (Eb 8,10).
Questa mediazione cristica, la cui identità sta nell’incarnazione del Verbo e nel sacrificio di
Cristo Sommo ed eterno Sacerdote nella Nuova Alleanza, è il fondamento del nuovo Queal Jahwe
cioè della Chiesa: Convocazione di convocati dall’amore del Padre per opera dello Spirito grazie
all’azione del Mediatore che con la sua obbedienzialità sino alla morte di croce (Fl 2, 8) guadagnò a
Dio un popolo. Come il Verbo di Dio si è reso presente nella storia con l’incarnazione divenendo
vero uomo, pur rimanendo vero Dio, e condividendo gioie e dolori in modo concreto e visibile, con
uomini del suo tempo, ed offrendo gli effetti dell’opera sua all’intera umanità di tutti i tempi, così
quel popolo che lui ha guadagnato con la sua mediazione singolare ed unica è la visibile e reale sua
presenza mediatrice nella storia e per la storia dell’intera umanità.
La consapevolezza di questa originale verità la Comunità post-pasquale ha colto e si è posta alla
visibile “sequela Christi” sentendone tutta la portata salvifica che non poteva rimanere nei confini
del Popolo d’Israele ma doveva essere fatta conoscere, e quindi annunciata, all’intera umanità.
Matteo, alla conclusione del suo vangelo ci offre una testimonianza concreta di questa
consapevolezza degli Apostoli e della Comunità post-pasquale circa l’autorevolezza di Cristo e la
missione evangelizzatrice affidata agli apostoli per tutte le genti: “Mi è stato dato ogni potere in
Cielo e in Terra, andate dunque e ammaestrate tutte le genti battezzandole…” (Mt 28, 19-19).
È in questa consapevolezza dell’autorità che Cristo ha acquisito e ricevuto per la sua opera di
unico mediatore gradito al Padre di cui la resurrezione ne è testimonianza autorevole, che il Rabbi
Galileo dopo la resurrezione trasmette agli Apostoli il “munus docendi” (Mt 28,20) di ciò che Egli
ha loro fatto conoscere per convocare e costituire con l’Annuncio e la testimonianza anche con la
vita il nuovo popolo che è stato al Padre guadagnato dall’opera e dalla presenza del Verbo
incarnato.
Si tratta di una presa di coscienza, ascoltato il kerygma, a determinarsi, attraverso il dono della
conversione accolta ed accompagnata dall’iniziazione battesimale, a vivere una duplice koinonia:
a) verticale - con il mistero di quel Dio Comunione: Padre, Figlio e Spirito Santo, mediante
l’opera di Cristo nella quale veniamo “riabilitati” nella dignità perduta, e liberati dall’obex
dell’impoverimento adamitico e così costituiti Figli adottivi di Dio nel Figlio unigenito;
b) orizzontale - con coloro che il Cristo ha costituito Apostoli nel “religioso ascolto” di ciò che
hanno ricevuto e tramandano, nella comunione della preghiera, nella partecipazione alla fractio
panis, nell’attenzione, mediante la comunione dei beni, a chi è nella fatica o sofferenza (cfr At 2,
42).


 
 

Queste convinzioni che troviamo recepite dalla Comunità apostolica e sub apostolica sono la
testimonianza incontrovertibile che il “comando-attesa” del Risorto rivolto agli Undici “Rimanete
in Gerusalemme finché verrà a voi il Paraclito” (At 1,4) fu ritenuto e vissuto come essenziale per
essere, da parte di Apostoli e discepoli uomini e donne compresa la Madre di Gesù (At 1,14 ),
visibile ed efficace presenza, non solo a Gerusalemme, di coloro che avevano scelto di essere di
Cristo e rendere presente gli effetti della sua unica mediazione per un nuovo rapporto sacramentale
tra Dio e l’uomo.
La Chiesa come l’Incarnazione del Verbo nasce dall’obbedienza (cfr Fl 2, 5-8; At 1,14). Infatti
prima della sua Ascensione il Risorto dà “delle disposizioni agli Apostoli che si era scelti per mezzo
dello Spirito” (At 1, 2). Tra queste disposizioni vi è quella di rimanere a Gerusalemme per
“attendere l’adempimento della promessa del Padre, quella – disse – che voi avete udito da me:
Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni sarete battezzati in Spirito Santo” (At
1, 4-5).
Dopo l’Ascensione gli Undici obbediscono all’indicazione precisa data dal Risorto e ritornano a
Gerusalemme. Si “ritrovarono” in quel luogo “dove erano soliti riunirsi: vi erano Pietro e Giovanni,
Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo figlio di Alfeo, Simone lo
Zelota e Giuda figlio di Giacomo. Tutti erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad
alcune donne e a Maria la Madre di Gesù, e ai fratelli di lui” (At 1, 13-14).
È convinzione dell’autore del libro degli Atti che il radunarsi dei discepoli di Cristo nell’attesa
della epifania dello Spirito a Gerusalemme è obbedienza ad una Sua precisa disposizione che li
costituisce già “visibile convocazione di convocati”. In quei giorni – dice il libro degli Atti – “le
persone radunate erano circa centoventi” (At 1, 15).
Vi è dunque la consapevolezza e la constatazione che i discepoli del Rabbi Galileo, incontrato
ed ascoltato quale Risorto, desiderano iniziare un vissuto di reale e visibile Koinonia nella
continuità perfezionata dei “segni” che furono dell’Antico Patto in una prospettiva “ben
compaginata” nell’attesa della qualificazione che lo Spirito promesso avrebbe interiormente
comunicato a ciascuno ed alla Comunità dei discepoli “tutti radunati nello stesso luogo” (At 2,1).
Prima ancora dell’epifania del Paraclito nel giorno di Pentecoste – secondo l’autore degli Atti –
Pietro, alzandosi e prendendo la parola in mezzo a tutti (cfr At 1,15), indica la necessità di
ottemperare ad una lacuna nel Collegio dei Dodici creata dalla scelta disperata di Giuda di togliersi
la vita (At 1, 16-17). Pietro, che ha autorevolezza riconosciuta dal Collegio Apostolico proprio circa
il fatto fondamentale del cristianesimo che è la Resurrezione di Cristo di cui Simon Pietro ne è il
testimone qualificante (“Davvero il Signore è risorto è apparso a Simone” -Lc 24, 34), prende la
parola e chiede che sia completato il numero dei Dodici che richiama il numero delle dodici tribù


 
 

d’Israele. Dodici furono gli uomini scelti dal Rabbi Galileo che volle liberamente e “chiamò
apostoli, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni” (Mc
3, 14-15). Pietro dunque vuole che il criterio di Cristo Gesù sia perpetuato tra i Suoi che sono già
una realtà visibile e spirituale nello stile iniziato e voluto dal Rabbi Galileo affinché quale nuovo
popolo di Dio sia presente in ogni angolo della terra a favore dell’intera umanità. Vi faranno parte
non solo i figli d’Israele ma ogni persona che accoglierà il Vangelo proclamato con una vera
adesione a Cristo unico Mediatore e Salvatore e l’iniziazione alla vita in Cristo con il battesimo (Mt
28, 19), che introduce il credente nel nuovo popolo d’Israele, in virtù non della sua appartenenza
carnale al popolo di Giacobbe ma per la sua fede in Cristo e l’essere battezzato nello Spirito.
Già nella dimensione pre-pasquale il Rabbi Galileo ci viene presentato come Colui che vuole
“in sua compagnia” – come abbiamo visto – un collegio di dodici persone che chiama apostoli (Mc
3, 14). Qui vi è dunque la “registrazione” dell’evangelista di una azione di Gesù che ha dato vita ad
una realtà spirituale di sequela di coloro che saranno riconosciuti quali suoi discepoli. Ciò fu
talmente evidente che nei racconti della Passione Pietro viene riconosciuto come colui che “stava
con quell’uomo della Galilea, con Gesù” (Mc 26, 69-73).
È chiaro che attorno al Rabbi vi sono i Dodici e i discepoli e le donne. Vi è dunque un
discepolato che condivide una comunionalità ed una familiarità con Cristo ed è riconosciuto
all’esterno. Vi è anche una missione che i Dodici hanno in virtù della chiamata, oltre allo stare con
Cristo anche quello “di predicare e cacciare i demoni con il potere datogli da Lui” (Mc 3, 14-15).
Da questo passo del Vangelo di Marco giustamente da parte di alcuni teologi come Gerhard
Lohfink4 e Kurt Koch5 si evince che “la persona di Cristo Gesù e la figura dei Dodici sono
l’elemento di novità del Nuovo Testamento”.
Cristo e Apostoli e discepoli costituiscono la Comunità pre-pasquale che ha una precisa
missione, che sarà poi anche della Comunità post-pasquale, quella di annunciare la Buona Notizia e
cacciare i demoni. Vi è però un qualche cosa che non può mancare in quanto dona ai Dodici la loro
identità e autorevolezza nell’Annuncio: lo stare in compagnia della persona di Cristo. Questa è la
vita apostolica con il Rabbi Galileo che fa dei Dodici dei testimoni credibili ed efficaci nella
missione ad essi affidata di Cristo. Già nella realtà pre-pasquale su esplicita volontà del Rabbi
Galileo vi è una distinzione che è espressamente voluta da Cristo per una missione che in sé ha
anche una potestas.
È Lui il Cristo che sceglie “chi Egli volle” (Mc 3,13): i Dodici. La distinzione ministeriale non
viene dunque dalla Comunità ma da Cristo. È proprio in questa precisa volontà sottolineata dalla
                                                            
4
 GERHARD LOHFINK, Gottes Volksbegehren, Biblische Herausforderungen, München 1998, p. 259 
5
 KURT KOCH, La Chiesa di Dio, Comunità sulla strada della fede,  Città del Vaticano 2013, p. 21 

 
 

convinzione e fede della Comunità post-pasquale, dalla quale gli evangelisti ne danno
testimonianza, che la Chiesa nel suo svilupparsi nella storia ha in sé quella distinzione per il
ministero che viene conferito a quei battezzati che hanno la missione di rendere presente la
Ministerialità dell’Unico Mediatore a beneficio dell’intera umanità con l’Annuncio e la “liberazione
dalla schiavitù interiore”. Tutto ciò è segno di una realtà, quella del discepolo cristiano,
compaginata con dei ruoli la cui finalità è quella spirituale: “il mio regno non è di questo mondo”
(Gv 18,36).
È proprio con questa convinzione e certezza della volontà di Cristo che il Vaticano II può
affermare che Cristo ha voluto la Chiesa “quale organismo visibile attraverso il quale diffondere per
tutti verità e grazia”6. “La Chiesa è nata dalla libera decisione di Gesù, e deve la propria esistenza al
dono che Cristo ha fatto della sua vita sulla croce. Per tali ragioni il Concilio Vaticano II chiama
Gesù Cristo fondatore della Chiesa (LG 5)”7.
Questa conclusione della Commissione teologica internazionale è garanzia di ciò che sempre si
è ritenuto, con fondamento scritturistico, del Magistero e dei Padri latini e greci e dalla teologia sia
cattolica che ortodossa. Non si tratta solamente di una lettura teologica postuma ma, come abbiamo
visto, è la convinzione dell’era apostolica e sub-apostolica appresa e trasmessa dai gesti di Cristo
prima e dopo la Pasqua.
Un altro gesto fondativo da parte del Rabbi Galileo che esprime la sua volontà nell’orientare
alla realizzazione della Comunità visibile e presente nella storia è l’Ultima Cena di Gesù con i
Dodici. Infatti è in questo contesto della haburah pasquale ebraica che Cristo, la vigilia “della sua
Passione, fonda l’Eucarestia e crea definitivamente il Popolo della Nuova Alleanza”8.
Tutto il contesto dell’Ultima Cena sta a dimostrare come Cristo unico Mediatore “fonda una
Nuova Alleanza, tra Dio e la moltitudine umana, sul suo sangue, esponendo così il suo corpo, cioè
se stesso, per una Pasqua di liberazione dall’impoverimento antropologico e di Comunione con Lui,
vero pane di vita. Tutto ciò affinché l’umanità faccia esperienza efficace [in tutti i tempi] della
salvezza e redenzione operata dal Verbo incarnato fino all’estremo suo sacrificio, quale gesto
concreto d’amore che si estende, nel suo effetto, sino alla fine dei tempi”9.
La Nuova Alleanza che il sacrificio della croce si appresta a suggellare “suppone un Popolo
dalle dimensioni universali e proprio dalla consapevolezza dei discepoli del Risorto che perpetuano
la “Fractio Panis” vi è la prova della reale visibilità di questo discepolato che si sente chiamato ad
                                                            
6
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 8 
7
 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di ecclesiologia in occasione del XX anniversario dalla 
chiusura del Concilio Vaticano II, Città del Vaticano  1985, n. 11 
8
 KURT KOCH, La Chiesa di Dio. Comunità sulla strada della fede. Città del Vaticano 2013 pag. 22 
9
 ETTORE MALNATI, Eucarestia: Mistero della fede nel suo sviluppo teologico,  Siena 2012 pag. 44 

 
 

essere il Popolo della Nuova Alleanza che il Cristo volle già lì nell’Ultima Cena mentre si
consegna, una volta per tutte, ad essere il sacrificio a Dio gradito per e del nuovo Popolo che si è
stabilito nel suo sangue e che viene a realizzare le promesse profetiche”10.
Tutto questo sta ad indicare che Cristo Gesù ha voluto un Popolo (la Chiesa) che perpetuasse
quello che egli ha operato in comunione con il progetto del Padre ad efficace beneficio dell’intera
umanità di tutti i tempi.

                                                            
10
 JOSEPH RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’unique Alleance de Dieu, Parole et Silence, Paris 2005, pag. 52 

 
 

1.2 Lo Spirito santifica la Chiesa

“Compiuta l’opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr Gv 17, 4), il giorno di
Pentecoste fu inviato lo Spirito per santificare continuamente la Chiesa e i credenti avessero così
per Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cfr Ef 2, 18)”11.

Il nuovo Popolo di Dio acquistato da Cristo con il suo donarsi totalmente alla volontà del Padre
è costituito perché sia una “Comunità di fede, di speranza e di carità”12 e diffonda “su tutti la verità
e la grazia”13.
Si tratta dunque di una realtà visibile con identità e finalità che elevano spiritualmente i
discepoli di Cristo e li abilitano a vivere le virtù della fede, speranza e carità nella luce
dell’incorporazione a Cristo (la grazia) e nell’accoglienza “affettiva ed effettiva” della Verità che è
Cristo rivelatore del Padre e redentore di tutta l’umanità e di tutto l’uomo14.
L’opera del Cristo, sia prima che dopo la sua Pasqua di Resurrezione, ha svolto alcuni compiti
indispensabili e che solo il Verbo incarnato, quale nuova creazione, poteva realizzare:
a) sanare la natura umana dall’impoverimento della colpa adamitica offrendo giustificazione e
salvezza a coloro che sacramentalmente si “confondono” nel suo mistero di morte e resurrezione
(Ef 2, 6) con l’obbedienzialità del battesimo nello Spirito e nella fede in Lui. (Mc 16, 16).
b) annunciare l’imminenza del Regno di Dio “in tutta la Galilea, insegnando nelle loro
sinagoghe… e lo seguivano grandi folle dalla Galilea, dalla Decapoli e dai paesi oltre il Giordano”
(Mt 4, 23. 25). Così il Cristo fa conoscere la Buona Notizia che il Padre aveva dall’eternità
preparata per indicare all’uomo, creato a sua immagine e somiglianza (Gn 1, 27) e esistenzialmente
impoverito – nella sua relazione con il Creatore – dalla colpa di Adamo (Gn 3,1-13), l’opportunità
di una comunione generatrice di vita nuova che lo eleva a quella dignità di figlio adottivo di Dio. Il
Verbo Incarnato è instancabile a far giungere con la sua presenza e con il suo magistero la necessità
di far comprendere che i veri adoratori di Dio sono coloro che Lo “adorano in spirito e verità” (Gv
4, 23), in tutto consapevoli che Dio è Padre misericordioso e che Egli vuole misericordia e non
sacrifici. Perché l’umanità si convinca di ciò, Dio ha sacrificato il suo Figlio, il quale si è reso
obbediente, per la salvezza dell’umanità, sino alla morte di croce (Fil 2, 8).

                                                            
11
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 4 
12
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 8 
13
 Idem 
14
 CONC.VAT.II, cost past Gaudium et Spes n. 22 

 
 

c) chiamare i peccatori a conversione (Lc 19, 1-10) e rimettere i peccati (Lc 7, 48-50) di chi
pentito a Lui viene. Ciò perché il Popolo della Nuova Alleanza si edifichi sulle fondamenta dei
meriti di Cristo e dell’infinito amore di Dio che prova “più gioia per un peccatore pentito che per 99
giusti” (Lc 15, 7). Questo compito poteva realizzarlo solo il Verbo incarnato e lo svolge una volta
per tutte, a favore dell’intera umanità di tutti i tempi con la sua vita,passione e morte. Di
quest’opera di Cristo, realizzata nell’obbedienzialità più generosa al progetto del Padre di cui la
Resurrezione è il sigillo, il Cristo stesso deciderà che possa essere pienamente compresa dai Suoi e
dopo aver – il giorno della sua Resurrezione – soffiato su di loro dicendo “Ricevete lo Spirito Santo.
A chi perdonerete i peccati saranno perdonati” (Gv 20, 22-23) chiede “a coloro che aveva scelto”
(At 1, 2) di rimanere a Gerusalemme nell’attesa del Dono che il Padre aveva promesso e di cui Lui,
il Cristo, aveva parlato loro (cfr At 1, 4). Nella mens Christi, che ha voluto la presenza nella storia
del nuovo Popolo di Dio perché l’umanità potesse seguire ed accogliere verità e grazia15, vi è la
certezza della necessità dell’opera dello Spirito del Padre e del Figlio per “guidare alla verità tutta
intera” (Gv 16, 13) e compiere così l’opera di santificazione sia in ogni credente che nella intera
Chiesa. La Missione dello Spirito promessa dal Cristo ha il compito di orientare i credenti affinché
questi “per Cristo abbiano accesso al Padre in un solo Spirito”16. L’opera dello Spirito Santo che
procede dal Padre per il Figlio ed è persona divina come il Padre e il Figlio dell’unico Dio come
Cristo ce lo ha rivelato, ha la missione di “santificare continuamente la Chiesa”… e dimora nella
Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (1Cor 3, 16) e in essi prega e rende testimonianza
della loro adozione filiale (Gl 4, 6; Rm 8, 15-16 e 26)”17.
Il cardinale Charles Journet nella sua poderosa opera sulla Chiesa18 ha delle intuizioni
teologiche che lo stesso Concilio Vaticano II recepirà. A proposito della presenza e dell’opera dello
Spirito Santo sottolinea che “sarà per la Chiesa la sua personalità efficiente suprema, cioè la sua
anima increata che, assieme al Padre e al Figlio, la guidano attraverso la legge di una provvidenza
tutta speciale. Provvidenza che regge la Chiesa e fa di essa, malgrado gli sbagli e i difetti dei suoi
membri, una comunità indistruttibile, senza macchia né ruga, santa e immacolata. E d’altronde è
chiaro che il soggetto responsabile di questa comunità immortale e immacolata è l’umanità di
Cristo, personalità efficiente e strumentale di tutta la Chiesa: ma nei tempi del già e non ancora è lo
Spirito Santo la personalità estrinseca efficiente e suprema di tutta la Chiesa.

                                                            
15
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 8 
16
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 4 
17
 Idem 
18
 CHARLES JOURNET, L’Eglise du Verbe Incarné, vol. II Paris 1969 
10 
 
 

Lo Spirito Santo, infatti, è unito alla Chiesa nell’ordine dell’agire e assiste i suoi membri, siano
essi giusti o peccatori, sino alla Parusia, e il Verbo e lo Spirito Santo sono le persone divine che il
Padre ha inviato per la salvezza e redenzione del mondo… L’inabitazione dello Spirito Santo nella
Chiesa fa sì che questa viva sempre alla luce della carità, conformandosi al disegno perpetrato da
Dio sin dall’inizio dei tempi. Dunque lo Spirito Santo, è a due riprese la Forma unica per la quale
tutta la Chiesa sia modellata sull’esempio trinitario: in cielo, nel mistero della visione e dell’amore
beatificante nel tempo presente, nel mistero dell’inabitazione d’amore. Lo Spirito Santo, in poche
parole, è la Forma unificatrice increata della Chiesa nella sua realtà viatoria… La Chiesa infatti è il
luogo teologico e storico dove lo Spirito, agendo attraverso Cristo, fa apparire la pienezza della sua
grazia, tanto da poter dire che egli è l’anima increata e, la grazia cristica, la sua Anima creata”19.
L’inabitazione dello Spirito oltre ad aver fatto prendere coscienza ai Dodici di ciò che Cristo
voleva da loro ed a renderli testimoni coraggiosi dell’Annuncio e della edificazione delle Comunità
cristiane è quella dinamica che guida Pastori e christifideles laici allo splendore “per tutta intera la
verità”20 proprio come indica l’evangelista Giovanni (Gv 16, 13).
Tale assistenza è già percepita nella comunità post-pasquale ed espressa da Luca negli Atti con
l’affermazione di Pietro nel “Concilio” di Gerusalemme quando in ascolto delle difficoltà di alcuni
per l’evangelizzazione tra i Gentili e la problematica della circoncisione. Infatti Pietro, nel dare
delle indicazioni e raccomandazioni esordisce: “È parso allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi
altro peso all’infuori di queste cose necessarie” ( At 15, 28).
Questa convinzione che, senza offuscare la libertà, sia lo Spirito Santo che con i suoi sette doni
“sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio” “guida la Chiesa”21
soprattutto i sacri Pastori ed il loro Magistero è un dato di fatto.
Il Concilio Vaticano II, recependo la dottrina comune sia della Chiesa latina22 sia di quella
Orientale, afferma con convinzione che “Cristo Signore, Figlio di Dio vivo, venuto per salvare il
suo popolo dai peccati, e per santificare tutti gli uomini, come Egli era stato mandato dal Padre, così
mandò i suoi Apostoli che santificò dando loro lo Spirito Santo, affinché a loro volta, glorificassero
il Padre sopra la terra, e salvassero gli uomini, “per l’edificazione del Corpo di Cristo” che è la
Chiesa”23.
La “santificazione” degli Apostoli con il dono dello Spirito è offerta da Cristo perché la Chiesa
sia indefettibile nella fede e questa sia conservata e trasmessa nella verità originaria (apostolica);
                                                            
19
 ETTORE MALNATI, Ecclesiologia, sviluppo teologico, Lugano 2007 pagg. 133‐134 
20
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 4 
21
 Idem 
22
 CONC.VAT.I, Sessione IV cost.dog. De Ecclesia Christi c. 3 
23
 CONC.VAT.II, decr  Christus Dominus, n. 1 
11 
 
 

annunciata a tutti i popoli (cattolica) e nella Chiesa vi sia vera e piena comunione con ciò che Dio
ha rivelato nel suo Figlio e tra i singoli christifideles (una)24. E’lo Spirito Santo infatti che
garantisce la realizzazione delle note caratteristiche della Chiesa che sono: la sua apostolicità,
santità, cattolicità e unità, ovviamente con il concorso della libera volontà dei christifideles. È il
criterio dell’ ex opere operato e dell’ ex opere operantis proprio della sacramentalità cattolica che
esprime l’ efficacia comunionale della vita di grazia che è dono del Padre in Cristo Gesù per mezzo
dello Spirito Santo.
L’opera di santificazione dello Spirito è garanzia, nella Chiesa, di comunione e di distinzione
senza ledere la comune dignità propria di tutti i battezzati. Con il sacramento del Battesimo, nello
Spirito e nella verità, che la Chiesa amministra su mandato di Cristo, ogni fedele riceve la dignità di
figlio adottivo di Dio e “per la rigenerazione e l’unione dello Spirito Santo i battezzati vengono
consacrati a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere
del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di Colui che dalle tenebre li chiamò
all’ammirabile sua luce. Tutti quindi i discepoli di Cristo,perseverando nella preghiera e lodando
insieme Dio (cfr Rm 12, 1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi lo richieda, rendano
ragione della loro speranza della vita eterna (cfr 1Pt 3, 15).”25
L’elevazione alla figliolanza adottiva per i battezzati è ciò che Cristo ha acquistato con la sua
obbedienzialità alla volontà del Padre sino alla Croce ed è lo Spirito del Padre e del Verbo che la
comunica a chi accoglie Cristo. Si diviene figli di Dio nel Figlio Unigenito, costituendo con lui,
mediante l’opera dello Spirito, un solo Corpo (Rm 12, 4-5). Questa è la comune dignità per ogni
appartenente alla Chiesa. Vi saranno poi “varietà di doni o carismi e diversità di ministeri, anche
questi sostenuti dall’opera dello Spirito Santo. La comune dignità, che è il fondamento della
teologica unità nella Chiesa, è da individuarsi, come sottolinea il Vaticano II, nel fatto che ogni
cristiano ha quale fratello Cristo”.26 Ciò per la Chiesa è opera dello Spirito, come lo fu per
l’incarnazione del Verbo. Custode e via all’unità nella Chiesa è lo Spirito Santo che è anche fonte
della missione propria di ogni battezzato affinché sia “esercitata nella fede, nella speranza e nella
carità: virtù che lo Spirito Santo diffonde nel cuore di tutti i membri della Chiesa.”27
A colui che si inserisce nel discepolato cristico con l’accoglienza dell’Annuncio ed il Battesimo
viene “consegnato” il comando di Cristo: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro” (Mt 5, 48).

                                                            
24
 M. KEHL, La Chiesa. Trattato di ecclesiologia cattolica, Cinisello Balsamo 1995 pagg. 61‐62 
25
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 10 
26
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 32, p. 3 
27
 CONC.VAT.II, decr  Apostolicam Actuositatem, n. 3 
12 
 
 

Si tratta dell’impegno a realizzare la comune vocazione alla santità per tutti gli appartenenti al
mistico corpo di Cristo, siano essi Pastori, Religiosi o laici.28 Artefice principale accanto alla libera
volontà di ogni Battezzato è lo Spirito Santo che ha il compito di “muovere internamente ad amare
Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze (cfr Mt 12, 30), e ad
amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro (cfr Gv 13, 34)… si rivestano come si conviene agli
eletti di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di
pazienza (Col 3, 12) ed abbiano come frutti dello Spirito la santificazione (cfr Gal 5, 22; Rm 6, 22).
E poiché tutti commettiamo molti falli (Gc 3, 2) abbiamo continuamente bisogno della misericordia
di Dio e dobbiamo ogni giorno pregare: “Rimetti a noi i nostri debiti” (Mt 6, 12).”29

                                                            
28
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 40 
29
 Idem 
13 
 
 

1.3 Cristo, pietra angolare, edifica la Chiesa su Pietro e gli Apostoli

“Gli Apostoli, predicando ovunque il vangelo (Mc 16, 20), accolto dagli uditori per mozione
dello Spirito Santo, radunano la Chiesa universale, che il Signore ha fondato sugli Apostoli e ha
edificato sul beato Pietro, loro capo, mentre Gesù Cristo stesso è la pietra maestra angolare (cfr
Ap 21, 14; Mt 16, 18; Ef 2, 20)”30.

La lettura teologica dell’origine e dell’identità della Chiesa è necessario legarla a ciò che è
fondamentale dell’evento cristiano: la Resurrezione di Cristo. È infatti nel rapporto di Simon Pietro,
il primo e qualificato testimone del Risorto (fonte di credibilità dell’evento), degli Undici e degli
altri discepoli con il Risorto, che il Nuovo Testamento ci presenta il primo nucleo di credenti dal
quale è nata la Comunità di Gerusalemme che, nella sua dimensione “locale ed universale”, ha le
caratteristiche della Chiesa. Questa Comunità va oltre la dimensione del Cristo storico senza,
ovviamente, dimenticare che questi fu certamente all’inizio di un movimento religioso nel contesto
del mondo giudaico.
Ma è dopo la morte e resurrezione del Rabbi che i suoi discepoli daranno al nucleo originario la
forma di una Ekklesia che al Rabbi Galileo si rifà e che intenderà continuare la sua opera31. Il dato
però caratteristico di questa lettura è proprio in ciò che Simon Pietro e gli Apostoli focalizzano del
rapporto con Cristo e loro dopo la sua Pasqua e l’epifania dello Spirito a Pentecoste32. Tutto di ciò
che il Rabbi “ha detto e ha fatto” nella sua vita pubblica ritrova luce e senso per un rapporto nuovo
tra l’uomo e Dio, dove il fulcro è l’amore da sperimentare in una attenzione: fraterna tra i discepoli
e filiale con Dio. Questo Annuncio, che riceve autorevolezza dall’evento resurrezione, Pietro e gli
Apostoli non lo ritengono un “tesoro geloso” (Fil 2, 6) da non comunicare, bensì fanno di questo,
grazie all’azione dello Spirito, la ragione della loro missione e della loro vita, cominciando da
Gerusalemme e giungendo sino agli ultimi confini della terra.
La Comunità di Gerusalemme che si edifica, dopo la Pentecoste, nasce dalla predicazione di
Simon Pietro che parla con l’approvazione degli Undici (At 2, 14-36) e, richiesto da coloro che
avevano ascoltato l’Annuncio: “Che dobbiamo fare?”, Pietro risponde: “Pentitevi e ciascuno di voi

                                                            
30
 CONC VAT II, cost.dog. Lumen Gentium n. 19 
31
 J. HOFFMANN, La Chiesa e la sua origine, in Iniziazione alla pratica della teologia dogmatica, vol.II, Brescia 1986, p. 
86 
32
 E. MALNATI, I ministeri nella Chiesa,   Milano 2008, pagg. 11‐12 
14 
 
 

si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo a remissione dei vostri peccati; poi ricevete il dono
dello Spirito Santo” (At 2, 36-38).
Dalle risposte e adesioni di questi si costituisce de facto, secondo il libro degli Atti, in
Gerusalemme la Chiesa nella sua universalità che si sperimenta nella comunità locale. Infatti qui
sono presenti gli elementi fondamentali di una Comunità ecclesiale: ascolto degli insegnamenti
degli Apostoli, preghiera, spezzar del pane e carità (cfr At 2, 42). Ma con quale autorevolezza
Simon Pietro e gli Apostoli Annunciano, battezzano, ripresentano il sacrificio della Nuova Alleanza
con la “fractio panis” ed edificano le Comunità dei discepoli del Risorto? Ovviamente è doveroso
rifarsi non solo al mandato di Cristo ai Dodici prima della sua ascensione (Mt 28, 19) ma anche a
quanto Paolo riferisce del “comando” nel contesto dell’ultima Cena: “Fate questo in memoria di
me” (1Cor 11, 25; Lc 22, 19) che vediamo fedelmente presente in ogni Comunità dei discepoli di
Cristo.
Ciò che gli Apostoli compiono è in ragione di una fedeltà a quanti hanno da Cristo ricevuto,
come appunto Paolo stesso si premura di affermare: “quello che vi ho trasmesso l’ho ricevuto dal
Signore” (At 11, 23). Potremmo dire che gli Apostoli oltre alla loro chiamata da parte del Rabbi, nel
suo ministero durante la vita pubblica hanno ricevuto in quella “notte prima della sua passione” e
perfezionato poi nella Pentecoste, la “consacrazione nella verità”.
La Preghiera sacerdotale che l’evangelista Giovanni ci riferisce è preziosa testimonianza della
mens e della volontà di Cristo affinché i suoi apostoli possano essere dal Padre “santificati nella
verità” (Gv 17, 17) e continuare l’opera sua. Nel contesto di questa preghiera il Cristo “ricorda” al
Padre di essere stato mandato da Lui per realizzare, quale Unico Mediatore, l’opera di salvezza a
favore dell’intera umanità. Ora Egli che li ha scelti e inviati chiede al Padre, offrendo se stesso “in
sacrificio per loro” (Gv 17, 19), di far sì che anch’essi siano veramente consacrati al Padre (cfr Gv
17, 19).
Per poter comprendere il significato della consacrazione nella verità è doveroso richiamare ciò
che l’evangelista Giovanni intende per verità: “Per Giovanni la verità è la rivelazione offerta da
Cristo che si sintetizza nella persona stessa del rivelatore. Per il quarto evangelista Cristo non porta
solo la verità, ma è la verità. Consacrati nella verità gli Apostoli sono incorporati e trasformati
interiormente da Cristo nella sua specifica identità di profeta-sacerdote nella sua missione di unico
mediatore e redentore nell’attenzione sua propria di guadagnare al Padre l’umanità e farne il popolo
dei salvati per la vita del mondo”33.

                                                            
33
 E. MALNATI, I Ministeri nella Chiesa, op. cit. p. 61 
15 
 
 

La “vita del mondo” è offerta dal Padre attraverso l’opera di Cristo: Parola e Sacramento del
Padre, corroborata dallo Spirito. Questo non solo per il tempo in cui il Verbo Incarnato ha condiviso
gioia e speranza nell’impatto della sua vita terrena ma per tutti i tempi e per l’intera umanità
disseminata in ogni latitudine e di ogni cultura. Ecco allora la necessità di fare in modo che
l’efficacia dell’opera dell’Unico Mediatore possa essere presente sino al consumarsi della storia
mediante persone che, scelte storicamente dal Cristo e consacrate dal Padre nella Verità, cioè in
Cristo, continuino a far risuonare il Verbo ed offrire i Segni (sacramenti) con i quali chi liberamente
accoglie l’Annuncio e si fa battezzare fa esperienza di quella salvezza di cui la Chiesa è custode e
portatrice.
È di questa consapevolezza che Pietro e gli Apostoli si sentono investiti e divengono
annunciatori e realizzatori proprio in virtù di tale consacrazione nella verità di un nuovo culto in
spirito e verità già da Cristo richiamato nel dialogo con la Samaritana (Gv 4, 23). Un culto che
perfeziona quello antico e apre una Nuova e definitiva Alleanza offerta all’intera umanità che si
fonda sulla fede in Cristo Annunciato ed Accolto nella Chiesa, dove gli Apostoli sono garanti e
ministri di una salvezza che viene dall’Amore del Padre e che è per la vita del mondo.
Simon Pietro e il Collegio dei Dodici sono riconosciuti nel loro ruolo da parte dei discepoli del
Risorto. A Pietro si guarda come a colui che deve “confermare i fratelli nella fede” (Lc 22, 31); a
colui che, interprete della mens del Rabbi Galileo “rimpiazza” Giuda ed è assecondato dagli altri
Apostoli (At 1, 15-17); a colui che può dare risposte autorevoli per divenire discepoli di Cristo (At
2, 38); a colui per il quale, essendo stato incarcerato per la fede in Cristo, “tutta la Chiesa prega
intensamente” (At 12, 5); a Pietro è chiesto di giudicare l’operato infido di Anania e Saffira (At 5,
1-11).
Pietro pur svolgendo un ruolo di primo piano nell’evangelizzazione e nella vita della Comunità
è sempre parte del gruppo dei Dodici e con loro e per loro ha dignità e autorevolezza in rapporto
alla missione ricevuta da Cristo (Mt 28, 18-20; Mc 16, 15-18). Vi è però nei suoi confronti da parte
del gruppo dei Dodici e dei discepoli, la convinzione ed il riconoscimento che egli è il primo
testimone del Risorto e che su questa sua fede tutti sono tenuti a credere senza ulteriori dubbi (Lc
24, 38). “O. Cullmann fa poggiare il valore del primato petrino proprio sulla prima apparizione del
Risorto a Simon Pietro. E aggiunge che il compito di Pietro (nelle origini della teologia cristiana) è
stato certamente più grande di quello che noi siamo generalmente soliti ammettere”34.

                                                            
34
 O. CULLMANN, Saint Pierre, Neuchâtel 1952 p. 60 
16 
 
 

È necessario sottolineare l’espletamento del ministero petrino che non si svolge in uno
splendido isolamento ma in una Chiesa di fratelli, con i Dodici e gli apostoli responsabili di una
missione e di un ministero di maestri-testimoni.
Nel tempio Pietro è con Giovanni: guarisce lo storpio (At 3, 1-10); annuncia il Kerygma (At 3,
11-26); viene portato davanti al tribunale (At 4, 1-14). Pietro è con gli Apostoli a Gerusalemme
quando Paolo e Barnaba chiedono chiarimenti sul fatto della circoncisione o meno per chi,
provenendo dal paganesimo chiede di entrare nella Chiesa. “Gli apostoli e i responsabili della
Comunità di Gerusalemme si riunirono per esaminare questo problema. Dopo lunga discussione si
alzò Pietro” (At 15, 6-7). Dalla sua sapiente indicazione che sia ebrei che pagani si riconoscono
“salvati per mezzo della grazia del Signore Gesù” (At 15, 11), Giacomo riconosce l’autorevolezza
della decisione presa da Simon Pietro e chiede di farla divenire prassi (At 15, 13-21).
Pur nulla sminuendo del ruolo importante di Pietro nella proclamazione dell’Annuncio e della
edificazione delle Comunità cristiane è doveroso sottolineare, come è anche evidente sia dalla
redazione che dalla tradizione, che Simon Pietro, in rapporto alla Chiesa, non è la pietra angolare,
questa è Cristo ma è la roccia di fondazione che dà stabilità all’edificio che poggia e sorge sul
fondamento solido di Cristo.
Giustamente O. Cullmann parlando di Pietro lo chiama: “l’apostolo-roccia che a Gerusalemme
ha guidato la primitiva comunità ed è stato il primo a predicare il Cristo”35. L’autorevolezza di
Simon Pietro nella sua specificità rimane propria ed esclusiva come per i Dodici in quanto furono
resi a parte dei misteri del Regno (Mt 13, 11), ma il loro ministero a favore dell’Annuncio e
dell’edificazione dell’ekklesia non può mancare nella Comunità che Cristo ha costituito affinché sia
presente sino alla consumazione del tempo e della storia.
La successione apostolica è conditio sine qua non della volontà di Cristo di volere la Chiesa
quale presenza di salvezza per tutti i popoli sino alla sua Parusia. Come potrebbe realizzarsi
l’offerta di santificazione se il munus apostolorum fosse, come afferma Lutero, intrasmissibile? A
ciò già rispose il Concilio di Trento36. Certo il rapporto dei Dodici con i misteri del Regno rimane
intrasmissibile ma la missione che i Dodici hanno ricevuto con la loro “ricostituzione” dopo lo
“scandalo” della passione e la “potenza dall’alto” con l’epifania della Pentecoste è ciò che è
necessario per far sorgere e guidare la Comunità dei discepoli del Risorto. Infatti dal libro degli Atti
riscontriamo che nella Comunità oltre al nucleo dei dodici Apostoli (At 1, 2; At 1, 13-14; At 1, 15-
26) troviamo l’istituzione di un nuovo ministero voluto dai Dodici: i diaconi (At 6, 2).

                                                            
35
 Idem  
36
 DS 1768 
17 
 
 

Dei sette “diaconi” conosciamo l’operato di Stefano che sarà lapidato (At 6, 8-7, 60) e di
Filippo che evangelizza la Samaria e la via di Gaza (At 8, 5-40). Troviamo anche la figura dei
Presbiteri che con gli Apostoli (At 15, 2 ss) costituiscono il Consesso della Comunità protocristiana
di Gerusalemme. Con Simon Pietro e, anche dopo la sua partenza, Giacomo e i presbiteri
continuano ad avere un ruolo di primaria importanza per quella Chiesa. Anche fuori dalla Comunità
di Gerusalemme troviamo dei ministeri svolti da uomini denominati appunto episcopi o presbiteri
come a Mileto (At 20, 17.28) qui senza alcuna differenza ministeriale. Paolo nella lettera ai
Filippesi dà il compito di responsabilità della Comunità agli episcopi con i diaconi (Fl 1, 1). Le
lettere pastorali ci presentano un mono-episcopato (1Tm 3, 2; Tt 1, 7). Alcuni teologi indicano nella
1Tm 5, 17 la testimonianza di una prima distinzione tra il ministero degli episcopi da quello dei
presbiteri.37
La successione apostolica e la continuità dei ministeri sono comuni nella Chiesa apostolica e
sub-apostolica. Non vi può essere vera Chiesa senza la presenza di quei ministeri ordinati che la
edificano con l’autorevolezza dell’Annuncio, dello spezzar del Pane e dell’offerta della dinamica
dello Spirito presente nei segni da Cristo istituiti per la santificazione e incorporazione nel mistero
di Cristo da parte di chi “decide” di vivere la via del Vangelo nella Chiesa. Senza la presenza
esercitata dal munus petrino e quello apostolico non vi è la pienezza dell’identità di Chiesa che
Cristo ha voluto e di cui la successione apostolica è garanzia di efficacia.

                                                            
37
 cfr E. MALNATI, I Ministeri nella Chiesa op. cit. pagg. 94‐95 
18 
 
 

1.4 Unità e Unicità della Chiesa

“Questa è l’unica Chiesa di Cristo… che il Salvatore nostro, dopo la sua risurrezione, diede da
pascere a Pietro (cfr Gv 21,17), affidandone a Lui e agli altri Apostoli la diffusione e la guida (cfr
Mt 28,18ss)”.38 “Questa Chiesa, in questo modo costituita e organizzata come società, sussiste
nella Chiesa Cattolica”39.

È evidente che Cristo ha voluto che il nuovo Qahal Jahweh fosse uno ed unico sia pur diffuso
su tutta la terra. I Dodici “cum et sub Petro” sono attenti a questa unicità che ha proprio loro quali
garanti e guide volute da Cristo (Mt 10,1-42) il cui ministero dovrà durare sino alla fine dei secoli
(Mt 28,20), ovviamente mediante una concreta successione. “Non è possibile quindi dissociare il
popolo di Dio che è la Chiesa dai ministeri che la strutturano e specialmente dall’episcopato. Questo
alla morte degli Apostoli, diventa il vero ministero della comunità che i vescovi esercitano con
l’ausilio dei sacerdoti e dei diaconi. Da allora se la Chiesa si presenta come un popolo e una
comunione di fede, di speranza e carità, nel cui seno i fedeli di Cristo godono della vera dignità
cristiana, questo popolo e questa comunione sono provvisti di ministero e di mezzi di crescita che
assicurano il bene dell’intero corpo. Non si possono – dice il documento della Commissione
teologica internazionale – quindi separare nella Chiesa gli aspetti di una struttura e di una vita che
in essa sono intimamente associate tra loro”40. Operare questa separazione significherebbe attentare
a quella comunione da Cristo istituita.
La Nota explicativa previa, voluta da Paolo VI mediante una apposita Commissione (16 nov.
1964), per una corretta ermeneutica ecclesiologica della costituzione Lumen Gentium, con
chiarezza sottolinea il significato del concetto espresso dal termine “Comunione” tenuto in grande
considerazione dall’Antica Chiesa sia in Oriente che Occidente. Infatti così recita la Nota: “Per
[comunione] non si intende un certo vago affetto, ma una realtà organica che richiede forma
giuridica e insieme è animata dalla carità”41. La Commissione teologica internazionale così
commenta questo passo della Nota: “A questo punto ci si può coerentemente porre la questione
relativa alla presenza e alla portata dell’organizzazione giuridica della Chiesa. Se è il caso di
distinguere la funzione sacramentale ontologica dall’aspetto canonico-giuridico, ciò non toglie che
                                                            
38
 CONC.VAT.II, Cost.dog. Lumen Gentium n. 7 
39
 Idem n. 8 
40
  COMMISSIONE  TEOLOGICA  INTERNAZIONALE,  Temi  scelti  dell’Ecclesiologia  in  occasione  del  XX  anniversario  della 
chiusura del Concilio Vaticano II, 1984, n. 6. 1 
41
 CONC.VAT.II, cost.dog. Lumen Gentium: Nota explicativa previa n. 2 
19 
 
 

l’una e l’altra siano, a livelli diversi, assolutamente necessari alla vita della Chiesa. Tenendo
presente l’analogia parziale o relativa della Chiesa con il Verbo Incarnato, come viene sviluppata
dalla Lumen Gentium al n. 8, non dimentichiamo che “come la natura umana/assunta è a servizio
del Verbo divino come vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, in modo non
dissimile l’organismo sociale della Chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo che lo vivifica per la
crescita del corpo”.
L’analogia con il Verbo Incarnato permette di affermare che “quest’organo di salvezza” che è
la Chiesa va inteso in modo tale da evitare due eccessi tipici delle eresie cristologiche dell’antichità.
Così va evitato da un lato una specie di “nestorianesimo” ecclesiale, secondo cui nessun rapporto
sostanziale esisterebbe tra l’elemento divino e l’elemento umano; e, dall’altro, un “monofisismo”
ecclesiale, secondo cui tutto nella Chiesa sarebbe “divinizzato” e quindi senza i limiti, le deficienze
o gli errori dell’organizzazione, frutto dei peccati e dell’ignoranza umana… Ne consegue che la
legislazione ecclesiastica, benché fondata su un’autorità di origine divina, non può sottrarsi
all’influenza esercitata in misura più o meno notevole dall’ignoranza e dal peccato. In altri termini:
la legislazione ecclesiastica non è né può essere infallibile; ciò, evidentemente, non significa che
essa non abbia influenza sul mistero della salvezza. Negarle qualsiasi funzione positivamente
salvifica significherebbe, in fin dei conti, ridurre la sacramentalità della Chiesa ai soli sacramenti e
quindi attenuare [cioè impoverire] la visibilità della Chiesa nella sua vita quotidiana.”42
Abbiamo sentito il dovere di riportare questa lunga citazione della Commissione teologica
internazionale perché nel commento al concetto di Comunione della Nota explicativa previa è
pertinente ed autorevole insieme, oltre a dare allo stesso cammino ecumenico ed interreligioso il
senso di quella verità teologica e non meramente empirica della natura della Chiesa da Cristo voluta
e resa presente nella storia, grazie all’azione dinamica dello Spirito, e all’opera degli Apostoli.
La conformazione della dimensione istituzionale della Chiesa come si sviluppa mediante un
nucleo che annuncia, guida, santifica e ammaestra in nome di Cristo - Capo e Pastore con a capo
Pietro è un dato inscindibile per il “soggetto” Chiesa. Questa dimensione visibile o storica della
Chiesa è direttamente proporzionale alla sua realtà di “mistero” creata dallo Spirito Santo quale
compimento, pienezza e perpetuazione dell’evento di Cristo-Capo. Quindi la sua struttura
istituzionale completa – come richiama la Commissione teologica internazionale – e rende visibile,
in senso sacramentale, la sua identità di luogo teologico di salvezza in virtù, ovviamente non dei
meriti propri, ma di quelli di Cristo. La dimensione umana della Chiesa con la povertà dei suoi

                                                            
42
  COMMISSIONE  TEOLOGICA  INTERNAZIONALE,  Temi  scelti  dell’Ecclesiologia  in  occasione  del  XX  anniversario  della 
chiusura del Concilio Vaticano II, 1984, n. 6. 1 
 
20 
 
 

membri, è un forte richiamo al fatto che ciò che essa offre è opera dello Spirito ed è donato a tutti i
battezzati come un prezioso tesoro in vasi di creta (vedi S. Paolo la fede).
Tutto però nel mistero di Dio è doverosamente necessario e costituisce quell’unicità che fa di
ogni Comunità: la Chiesa di Cristo nella sua completezza.
Onde evitare irenismi ed equivoci il Concilio Vaticano II ha voluto sottolineare ed indicare che
il paradigma esaustivo dell’unica Chiesa sussiste nella Chiesa cattolica.43 Questa ponderata
espressione del “subsistit in”, che non ha nulla di antiecumenico, venne – a suo tempo – indicata da
P. G. Philips come occasione che avrebbe fatto “scorrere fiumi di inchiostro”44 come fece. La
Congregazione della Dottrina della Fede circa questo termine “subsistit” intervenne più volte sia
nella Notificazione in merito allo scritto di P. Leonardo Boff: Chiesa. Carisma e potere dove
l’autore affermava che la Chiesa di Cristo “può pure sussistere in altre Chiese cristiane”. Il
documento della Congregazione così si esprime: “Il Concilio aveva invece scelto la parola
“subsistit” proprio per chiarire che esiste una sola sussistenza della vera Chiesa, mentre fuori della
sua compagine visibile esistono solo “elementa Ecclesiae” che – essendo elementi della stessa
Chiesa – tendono e conducono verso la Chiesa cattolica”45.
Il Concilio Vaticano II già nel decreto sull’ecumenismo si era premurato di sottolineare che “la
pienezza della grazia e della verità [è] affidata alla Chiesa Cattolica… [in quanto] al solo Collegio
apostolico con a capo Pietro crediamo che il Signore abbia affidato tutti i beni della Nuova
Alleanza, per costituire l’unico Corpo di Cristo sulla terra, al quale bisogna che siano pienamente
incorporati tutti quelli che già in qualche modo appartengono al Popolo di Dio”46.
Questa sottolineatura che ha radici nella Scrittura e nella Tradizione è fondamentale per quella
che vuole essere una riflessione non solo teologica da parte di tutta la Chiesa e Comunità cristiane
in vista proprio dell’edificazione e recezione del “Cristo totale” di cui parla S. Agostino e, nella sua
Summa, S. Tommaso47. Non si tratta di argomenti accademici ma dell’efficacia stessa del mistero
salvifico nella storia. Infatti, proprio per questo “il Signore Gesù, unico Salvatore, non stabilì una
semplice comunità di discepoli, ma costituì la Chiesa come mistero salvifico: Egli stesso è nella
Chiesa e la Chiesa è in Lui (cfr Gv 15,1ss; Gal 3,28; Ef 4,15-16; At 9,5); perciò la pienezza del
mistero salvifico di Cristo appartiene anche alla Chiesa, inseparabilmente unita al suo Signore.
Gesù Cristo, infatti, continua la sua presenza e la sua opera di salvezza nella Chiesa e attraverso la

                                                            
43
 CONC.VAT.II, cost.dog. Lumen Gentium n. 8 
44
 G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vaticano II, Milano, 1975 p. 111 
45
  CONGR.  PER LA  DOTTRINA DELLA  FEDE, Notificazione  in merito allo  scritto  di  P.  Leonardo Boff:  Chiesa.  Carisma e 
Potere, EV9, 1426; dich Dominus Jesus n. 16 nota 56 
46
 CONC.VAT.II, decr. Unitatis Redintegratio n. 3 
47
 S. AGOSTINO, Enarrat. In Psalmos, Ps 90, Sermo 2,1; S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologie, III, q48, a. 2 ad 1 
21 
 
 

Chiesa (cfr Col 1,24-27), che è il suo Corpo (cfr 1Cor 12,12-13.27; Col 1,18)… perciò in
connessione con l’unicità e l’universalità della mediazione salvifica di Gesù Cristo, deve essere
fermamente creduta come verità di fede cattolica l’unicità della Chiesa da lui fondata. Così come
c’è un solo Cristo, esiste un solo (suo) Corpo, una sola sua Sposa: una sola Chiesa cattolica e
apostolica… I fedeli sono tenuti a professare che esiste una continuità storica – radicata nella
successione apostolica – tra la Chiesa fondata da Cristo e la Chiesa Cattolica”48.
La seria considerazione dell’unicità della Chiesa che “subsistit” nella Chiesa cattolica, come il
Concilio ha voluto sottolineare, viene ad essere per tutti i cristiani vera occasione di una profonda
riforma del proprio essere Chiesa o Comunità dando compimento a quegli “elementa Ecclesiae” che
già possiedono. È su questo punto che avrebbe realmente bisogno di un approfondimento il
cammino ecumenico. Ciò non va scambiato per un “ecumenismo di ritorno”, bensì per la
realizzazione con la rettitudine di tutti e d’apertura al dono dello Spirito, di quell’unicum tra Cristo
e la Chiesa che è il “Cristo totale” garanzia di completa efficacia della presenza nella storia del
mysterium salutis.
L’espressione riferita alla Chiesa Cattolica nella quale “subsistit” nella sua completezza
“qualitativa” la Chiesa istituita da Cristo, fu voluta dal Concilio per “armonizzare due affermazioni
dottrinali: da un lato che la Chiesa di Cristo, malgrado le divisioni dei cristiani, continua ad esistere
pienamente soltanto nella Chiesa cattolica, e dall’altro lato l’esistenza di numerosi elementi di
santificazione e di verità al di fuori della sua compagine, ovvero nelle Chiese e Comunità ecclesiali
che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa Cattolica”49. Ma riguardo a queste ultime,
bisogna affermare che “il loro valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità che è
stata affidata alla Chiesa Cattolica”50. La Commissione teologica internazionale proprio alla luce
del decreto conciliare sull’ecumenismo ci tiene a sottolineare che “Esistono al di fuori della Chiesa
cattolica non solo numerosi veri cristiani, ma anche numerosi principi di vita e di fede veramente
cristiani. La Chiesa cattolica può dunque parlare, con il decreto Unitatis Redintegratio, di “Chiese
orientali” e, per quel che concerne l’Occidente, di “Chiese e comunità ecclesiali separate”. Autentici
valori di Chiesa sono presenti nelle altre Chiese e comunità cristiane. Una tale presenza invita a che
tutti [cattolici e non cattolici] esaminino la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e,
com’è dovere, intraprendano con vigore l’opera di rinnovamento e di riforma”51.

                                                            
48
 CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dich “Dominus Jesus” n. 16 
49
 Idem 
50
 CONC.VAT.II, decr. Unitatis Redintegratio n. 3 
51
 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi scelti di Ecclesiologia, cit.  n. 9.3 
 
22 
 
 

Il decreto conciliare Unitatis Redintegratio con puntualità e chiarezza, proprio riflettendo e


facendo eco alla costituzione Lumen Gentium al n. 8, afferma che “solo per mezzo della cattolica
Chiesa di Cristo, che è lo strumento generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei
mezzi di salvezza”52. In tal modo il Concilio delinea con chiarezza quelli che sono i principi per un
autentico ecumenismo che nel dialogo ciascuna Chiesa e Comunità cristiana ricerca di “entrare in
possesso” di ciò che è proprio della Chiesa di Cristo nella sua cristica totalità salvifica.

                                                            
52
 CONC.VAT.II, decr. Unitatis Redintegratio n. 3 
23 
 
 

1.5 La Chiesa e il “Mysterium iniquitatis”

“Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la


Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza...
Come Cristo è stato inviato dal Padre ‘a dare la buona novella ai poveri, a guadagnare quelli che
hanno il cuore contrito’ (Lc 4,18), ‘a cercare e salvare ciò che era perduto’ (Lc 19,10), così pure la
Chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei
poveri e nei sofferenti l'immagine del suo Fondatore, povero e sofferente, si premura di sollevarne
l'indigenza e in loro intende di servire a Cristo”53.

L'esemplarità cristica è e deve essere il criterio fondamentale del modo di porsi della Chiesa
nella complessa realtà sociale e culturale in cui l'umanità vive ed opera. Il Verbo “pur sussistendo
nella natura divina... spogliò se stesso prendendo la natura di un servo” (Fil 2,6-7) e per realizzare la
redenzione da “ricco che era si fece povero” (2Cor 8,9). Spesso si è tentati di leggere il concetto di
povertà legato solo all'indigenza materiale che è ovviamente un aspetto di sofferenza per tutti ed è
spesso il risultato di un fallimento dovuto a diversi fattori tra i quali vi è una disistima dello stesso
soggetto nei confronti di se stesso o un approfittarsi smodato da parte di chi si lascia guidare nei
confronti del prossimo dall'egoismo o dall'indifferenza.
Questa situazione certo non può essere ignorata da chi ha a cuore il recupero e la difesa della
dignità della persona umana, sia come singolo che come comunità. La Chiesa con il suo Magistero
si è più volte espressa a tutela della persona e dei popoli stigmatizzati dalla fame, dallo sfruttamento
e dal sottosviluppo. Basterebbe richiamare le encicliche: Populorum Progressio di Paolo VI, la
Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II e la Caritas in Veritate di Benedetto XVI, e gli appelli
di Papa Francesco all'attenzione verso gli ultimi, anche nell'enciclica Lumen Fidei e la sua presenza
a Lampedusa tra gli immigrati vittime di regimi totalitari o di situazioni di estrema povertà.
La scelta per gli ultimi fu sempre presente nella Chiesa grazie a uomini e donne che spesero e
spendono tutta la loro vita sull'esempio di Cristo amico dell'umanità e di ogni uomo. La stessa
Chiesa apostolica che gli Atti degli Apostoli ci presentano, si è posta questa attenzione e ci offre
uno spaccato molto interessante, dal punto di vista teologico, della diversità di destinazione del
ministero. Anche da qui parte la riflessione sulla distinzione “di grado” (diaconato – presbiterato –
episcopato) nell'unico sacramento dell'ordine.

                                                            
53
CONC.VAT.II,  cost  dog  Lumen Gentium n. 8 
24 
 
 

I Dodici, convocati coloro che avevano scelto di seguire Cristo con la conversione ed il
Battesimo e così essere parte della Comunità del Risorto, comunicano che “non è opportuno che
loro lascino la Parola di Dio per servire alle mense. Perciò, fratelli, sceglietevi tra voi sette uomini
di buona reputazione, pieni di Spirito Santo e Sapienza, ai quali affideremo questo ufficio; e noi
continueremo ad applicarci alla preghiera e al ministero della Parola. Piacque a tutta l'assemblea
questa proposta” (At 6,2-5).
La preoccupazione dei Dodici è che nella Chiesa nessuno sia trascurato, soprattutto chi è
nell'indigenza, come la condizione sociale delle vedove ai tempi di Cristo che rimanevano esposte.
Perché questa attenzione possa essere ottemperata e quindi nessuno si senta disatteso per la sua
condizione sociale ecco che si vuole uno specifico ministero che garantisca e palesi il primato della
carità come concreta realizzazione di quella comunione fraterna (At 2,42) che la dignità battesimale
offre nella diaconia di Cristo. Il libro degli Atti sottolinea ancora che “tutti coloro che credevano
erano insieme e avevano ogni cosa in comune. Essi vendevano le loro proprietà e i loro beni e ne
distribuivano il ricavato fra tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,44-45). È questo clima che
ha stupito e questo amore fraterno è stato letto come la storicizzazione della fede in un Dio che è
amore e come tale si rapporta con l'umanità sacrificando il suo Figlio Unigenito per ridare ad ogni
uomo l'opportunità di riqualificare la sua identità di “immagine e somiglianza” divina (Gn 1,27)
superando l'ostilità fratricida di Caino (Gn 4,9) ed offrire invece la prospettiva cristica di “amatevi
gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34).
Le dimensioni da rimuovere per un'autentica e cristiana attenzione verso la povertà sono quelle
dell'indifferenza e dell’odio. Il messaggio evangelico è proprio, sull'esemplarità di Cristo, pregno di
un'antropologia dove il soggetto è aperto all'altro, soprattutto al più debole, per offrire speranza. E’
il contrario di un’antropologia implosa.
Ciò deriva al cristiano dal fatto che egli ha sperimentato, nella sua povertà di peccatore pentito,
l'infinita misericordia di Dio che perdona molti peccati a chi molto ama (cfr Lc 7,47).
Questa povertà riconosciuta, e a Cristo consegnata, genera redenzione, ma impegna anche ad
agire di conseguenza nell'edificazione di un rapporto nuovo con Dio e con il prossimo. L'amore di
Dio è visibile e diventa testimonianza nell'amore del prossimo come ci richiama Giovanni: “... la
carità è da Dio. E chi ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché
Dio è Amore. In questo si manifesta la carità di Dio verso di noi; che Dio mandò il suo Figlio
unigenito nel mondo, affinché per mezzo di Lui abbiamo la vita. In questo è la carità; che senza
aver noi amato Dio, Egli per primo ci ha amati e ha mandato il suo Figlio come propiziazione per i
nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amato così, anche noi dobbiamo amarci l'un l'altro” (1Gv 4,7-
11).

25 
 
 

La preoccupazione di togliere dall'umanità la povertà generata dal peccato (amartia) che con il
mysterium iniquitatis ha portato nel mondo e nei rapporti tra uomo e Dio, tra le persone, e tra
l'umanità e la creazione, l'inimicizia e il disordine, fa cogliere agli apostoli la portata del dono-
missione del Risorto a loro affidato nel cenacolo il giorno di Pasqua: “Ricevete lo Spirito Santo, a
chi rimetterete i peccati saranno rimessi...” (Gv 20,23). Vi è dunque esplicita e positiva volontà di
Cristo che, coloro che Egli ha chiamato e confermato nella missione di testimoni e annunciatori
della Buona Novella, portino nel mondo e nel cuore dell'uomo il perdono e quindi la liberazione
dalla povertà del peccato... È per la liberazione da questa povertà che il Verbo si è fatto carne e ha
realizzato la missione del servo sofferente già preannunciata dal Profeta Isaia “per far risorgere le
tribù di Giacobbe e convertire il resto di Israele” (Is 49,6). Ed è per questa opera che il Verbo si fa
povero tra i poveri e si fa vero uomo “impoverendosi” della gloria divina ed assumendo “vera
carne” per solidarizzare con ogni uomo in tutto tranne che nel peccato (Fil 2,7).
Questa sua kenosi, che è scelta di identitativa povertà da Cristo mantenuta sino alla Croce, è
gradita al Padre e diviene fonte di redenzione. È proprio in questa scelta solidale per sanare e
salvare chi è impoverito consumata dal Verbo Incarnato che, non solo il Cristo viene costituito
“luce delle genti per essere la salvezza fino all'estremità della terra” (Is 49,6), ma per luce riflessa la
Chiesa stessa diviene portatrice di ciò. Spesso nelle sessioni del Concilio Vaticano II, diversi Padri,
tra i quali spicca il vescovo mons. Ancel ausiliare di Lione, hanno auspicato e chiesto una Chiesa
povera, cioè libera come disse Paolo VI, nello stile di Cristo, che non ha servito alcun potente, bensì
la volontà del Padre e si è posto quale speranza per gli ultimi, i diseredati, gli esclusi, i peccatori. È
di questa scelta cristica che la Chiesa si deve rivestire. Prima ancora di incarnarsi in queste
situazioni di povertà la Chiesa deve essere povera della mentalità del mondo e rivestirsi di quella
conversione, a tutti i livelli dove al primo posto di ogni scelta vi sia la ricerca del Regno di Dio e
della sua giustizia ( Mt 6,33), libera da criteri meramente legati al “saeculum” e lasciarsi
corroborare, in tutto e per tutto, dal mysterium salutis del quale Essa è portatrice. Il Concilio
Vaticano II a più riprese esorta la Chiesa a non cedere alla tentazione e a non lasciarsi fiaccare dalle
tribolazioni ma usufruendo della “forza della grazia di Dio... non venga meno – per umana
debolezza – alla perfetta fedeltà [a Cristo] rimanendo degna sposa del suo Signore, e non cessi di
rinnovare se stessa”54.
La Chiesa, in tutte le sue componenti deve costantemente prendere coscienza di non perdere le
qualità del “lievito” e ovviamente esercitare la ragione per cui essa è nel mondo: offrire salvezza e

                                                            
54
Idem n. 9
26 
 
 

redenzione, grazie ad una vita veramente trasformata in Cristo. E ciò non solo nei singoli battezzati
ma anche nella dimensione della sua umana struttura.
La Chiesa deve essere “altra” nei confronti delle strutture di peccato. Deve porsi in alternativa
efficace ad esse divenendo “voce che grida nel deserto” (Lc 3,4) a favore della verità sull'uomo, non
temendo persecuzioni o emarginazioni.
È doveroso per ogni singolo battezzato e per l'intera Chiesa con il suo magistero e nell'ortoprassi
delle singole Comunità e di ogni christifideles, stigmatizzare quello stile ed operato del mysterium
iniquitatis che tanta parte ha in un mondo dove Dio è bandito dalle coscienze, i diritti naturali
misconosciuti, e l'uomo ubriaco di prospettive di emancipazione che lo portano lontano da una
civiltà degna di lui: immagine di Dio e “dominatore” della realtà creata secondo una antropo-
ecologia che promuove la vita, nella verità, giustizia e carità.
Questi principi fondamentali (verità, giustizia e carità) cardini della Dottrina Sociale della
Chiesa sono la ragione per cui ogni cristiano non può rimanere indifferente quando la famiglia
umana intraprende scelte o percorsi che impoveriscono l'uomo. La Chiesa sarà veramente povera se
saprà affrontare anche la persecuzione per tutelare quell'uomo per amore del quale il Figlio di Dio si
è incarnato ed ha sofferto l'umiliazione della croce, offrendo però l’opportunità di una nuova
umanità libera e proiettata verso un rapporto filiale con Dio e fraterno con ogni uomo.

27 
 
 

2.

Le immagini della Chiesa

28 
 
 

Introduzione

Il Concilio Vaticano II nel primo capitolo della costituzione dogmatica Lumen Gentium
presenta alcune immagini della Chiesa.
La fonte che legittima ciò è la stessa Sacra Scrittura. Infatti così recita il Concilio: “Come già
nell'Antico Testamento la rivelazione del regno viene spesso proposta in figure, così anche ora
l'intima natura della Chiesa ci si fa conoscere attraverso immagini varie, desunte sia dalla vita
pastorale o agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli sponsali, che si
trovano abbozzate nei libri dei profeti”55.
Già i Padri, come S. Ambrogio, amano presentare con alcune figure la Chiesa, offrendo delle
considerazioni che ne fanno scorgere o la sua natura o la sua missione. Anche per S. Ambrogio
Essa è simile “ad una vite che è gradita non solo per il profumo dei suoi fiori, ma anche per il succo
spremuto da essi, che forma un’alleanza di allegrezza e salute”56. Continua sottolineando che “come
la vite, anche il Popolo della Chiesa è piantato sulle radici della fede…Nella Chiesa vi sia una sola e
uguale libertà per tutti”57.
Il Vescovo di Milano paragona anche la Chiesa all’idea del mare, dove “il fragore delle onde è
simile al risuonare delle preghiere salmodiche dell’intero Popolo della Chiesa”58.
Nella Chiesa l’uomo, come nel mare, trova “l’acqua che lava il peccato, sulla quale aleggia la
brezza dello Spirito Santo”59.
Proprio cogliendo lo stile di Ambrogio si è voluto presentare le immagini che il Concilio ha
richiamato. In esse si è cercato di cogliere la portata teologica di cui sono foriere e di dare così
l’opportunità di indicare la pregnanza di ciò che la Sacra Scrittura intendeva comunicare con esse.
Si è iniziato con il presentare il significato della Chiesa come vigna e campo di Dio, dove si è
messa in luce la figura del Pastore e dell’antico olivo, focalizzando il valore dei due Testamenti e
l’icona di Cristo- vite.
Si è presa poi l’immagine della Chiesa-casa di Dio per l’umanità, sottolineando che questa,
avendo Cristo come pietra angolare, poggia sul fondamento degli Apostoli ed Essa è la casa
dell’intera umanità. In tal senso è doveroso l’annuncio “opportune ed importune” (2 Tm 4,2) “usque
ad extremum terrae”.

                                                            
55
 CONC.VAT II cost dog Lumen Gentium n.6 
56
 S.AMBROGIO, Exameron, I,49 
57
 S.AMBROGIO, Exameron, I,50 
58
 (cfr) S.AMBROGIO, Exameron, III,23‐24 
59
 idem 
29 
 
 

Si è vista la Chiesa come Tempio santo e nuova Gerusalemme, che richiama l’uomo all’incontro
con Dio, che lo attende per una conversione, ed alla sequela di Cristo. Il Tempio non può divenire
“una spelonca”, ma deve essere luogo di preghiera (Gv 2,16).
Da ultimo si è riflettuto sulla Chiesa-Sposa dell’Agnello, che pur essendo formata da peccatori,
la vita di grazia la rende per Cristo, Santa ed Immacolata.

30 
 
 

2.1 La Chiesa è ovile e gregge

“La Chiesa infatti è un ovile, la cui porta unica e necessaria è Cristo (cfr Gv 10,1-10). È
pure un gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che ne sarebbe il pastore (cfr Is, 40,11; Ez 34,11
ss), e le cui pecore anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al
pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il Pastore buono e principe dei pastori (cfr Gv 10,11; 1Pt 5,4),
il quale ha dato la vita per le pecore (cfr Gv 10, 11-15)”60.
Papa Bergoglio ci ha riportato a considerare la Chiesa secondo l'immagine del gregge e a
pensare il ministero nella Chiesa come la scrupolosa attività di un pastore che conosce le sue pecore
e ne “sente l'odore”. Si tratta di una immagine che ci spinge a portare la ministerialità secondo
quelli che sono i criteri del Vangelo. Gregge e Ovile sono proprio immagini che ci riportano alla
pedagogia e didattica usate da Cristo Gesù in diversi suoi insegnamenti che hanno colpito gli uditori
e che gli evangelisti ci hanno tramandato. Si tratta allora di cogliere la pregnanza di queste
immagini in rapporto alla Chiesa. Vediamole nella loro identità figurativa, in rapporto a ciò che
(noi) possiamo cogliere come mens cristica per il nuovo Popolo che il Signore Gesù ha voluto quale
“ovile” per l'intera umanità.
Vi è una figura che è accomunata all'ovile e al gregge: il Pastore. Il Concilio riferendosi
alla letteratura profetica (cfr Is 40,11; Ez 34,11 ss) indica quale capo dei Pastori e quindi il
principale pastore, Dio stesso. Questa teocrazia che poi viene resa concretamente presente
dall'opera dei pastori umani ci porta alla spiritualità veterotestamentaria. Per essa, Jahwe e chi
governa il popolo da Lui scelto, deve rapportarsi e preoccuparsi proprio come un Pastore nei
confronti delle sue pecore, cioè come colui che si prende cura del gregge, conosce le pecore per
nome, le pecore conoscono la sua voce, se qualcuna di esse si smarrisce, il pastore lascia nell'ovile
le novantanove e va in cerca di quella perduta; ha tenerezza con le più piccole o deboli, le prende
sulle spalle e le porta al sicuro.
Questo stile, in primis, è da attribuirsi a Dio e da sottolinearsi quale concreta attenzione
presente nell'opera di Dio in tutto il processo della Rivelazione e della Redenzione. Dal Decalogo
(Es 20,2) alle Beatitudini (Mt 5-7) vi è la presenza di questo stile del Pastore. “Il Decalogo – dice
Papa Francesco – non è un insieme di precetti negativi, ma di indicazioni concrete per uscire dal
deserto dell'“io” autoreferenziale, chiuso in se stesso, ed entrare in dialogo con Dio, lasciandosi
abbracciare dalla sua misericordia... Il Decalogo appare come il cammino della gratitudine; e questo
cammino riceve una nuova luce da quanto Gesù insegna nel Discorso della Montagna”61.
                                                            
60
CONC.VAT.II, Cost dog Lumen Gentium n. 6
61
Francesco: Lett. Encicl. Lumen Fidei n. 46
31 
 
 

Tutta la storia del popolo d'Israele ci presenta un Dio pedagogo e presente offrendo ogni
tipo di sostentamento: la manna, le quaglie, la nube, l'acqua a Massa e Meriba, la protezione dai
nemici, una terra dove “scorre latte e miele”, il Tempio, il re-pastore, i profeti, il Messia, il Kerigma
e la Chiesa - ovile del gregge per “la moltitudine” di chi crede. La Chiesa-Ovile deve essere
edificata per la “sicurezza” dei credenti. Non si tratta di apartheid gnostica o catara bensì di quella
preoccupazione cristica espressa dal Maestro quale preghiera al Padre nell'Ultima Cena: “Io prego
per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dati, perché sono tuoi. Ogni cosa mia è
tua e ogni cosa tua è mia e io sono glorificato in essi. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel
mondo mentre io vengo a te. Padre santo, conserva nel tuo nome coloro che tu mi hai dato, affinché
siano uno come noi... Non ti chiedo che li tolga dal mondo, ma che li preservi dal maligno” (Gv
17,9-11).
L'ovile è la ekklesia voluta da Cristo quale luogo dove i discepoli, come gli apostoli nel
Cenacolo in attesa del Paraclito, fanno esperienza della premura del Padre che avendoli avuti figli
nel Figlio unigenito con l'azione dello Spirito li “preserva dal maligno” (Gv 17,15).
Nell' ovile si entra, pastori e pecore, attraverso la porta che è Cristo. Chi non entra per la
porta non è amico delle pecore. Ciò significa che per appartenere al gregge, che il Padre ha ricevuto
dal Figlio, bisogna passare su quella porta sicura che è Cristo riconosciuto, accolto e seguito. Tutto
questo è presente nell'identità della Chiesa che si espleta nell'annuncio a chiunque e dovunque e
nell'economia sacramentale. Proprio a queste due dimensioni è necessario fare riferimento per poter
legittimamente costituire il gregge o esserne pastori. Coloro che desiderano accogliere l'annuncio e
essere parte del popolo della Nuova Alleanza devono scegliere di morire e risorgere con Cristo
mediante il Battesimo che, come afferma S. Ambrogio, è la porta dell'itineranza sacramentale
cristiana. Si tratta di considerare il Battesimo non solo come una ritualità purificatoria, come lo era
quello di Giovanni Battista, bensì come un'autentica incorporazione a Cristo, porta e buon pastore,
che prende su di sé il credente e lo introduce in quell'Ovile che è luogo del mistero di Dio Pastore e
Salvatore. Qui l'uomo viene redento e purificato dalla colpa adamitica e iniziato in un percorso di
salvezza che Cristo stesso ha guadagnato per lui con la sua morte e risurrezione.
L'apostolo Paolo a questo proposito sottolinea che “per mezzo del battesimo siamo...
sepolti assieme a Cristo nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della
gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Nel Battesimo
l'apostolo Paolo poi soggiunge che il cristiano è stato affidato ad “una forma di insegnamento”, cui
obbedisce di cuore” (Rm 6, 17). “Nel Battesimo l'uomo riceve anche una dottrina da professare ed
una forma concreta di vita che richiede il coinvolgimento di tutta la sua persona e lo incammina
verso il bene. Viene trasferito in un ambito nuovo, affidato a un nuovo ambiente, ad un nuovo modo

32 
 
 

di agire comune, nella Chiesa.”62


Ecco l’ovile, nuovo ambiente ricco di quella novità di vita che si distingue dai pericoli
della mentalità del mondo e viene protetto il gregge da quello “steccato” che è dono dello Spirito
che offre non divisione bensì distinzione e protezione per il gregge. All’interno dell’ovile protetto
dalla fortezza dello Spirito vi deve essere comunione fraterna. Una comunione e un “religioso
ascolto” del Pastore e dei pastori sapendo riconoscere la loro voce.
Questo indica che all’interno della Chiesa è necessario realizzare tra il Magistero e i fedeli
una sincera comunione sapendo riconoscere “la voce” di quella ministerialità apostolica voluta da
Cristo per la guida della sua chiesa. Già nel ministero del Cristo prima della Pasqua troviamo una
distinzione da lui voluta tra apostoli e discepoli (Mc 3,13; Mt 10,1-4; Lc 6,12-16). Ai Dodici, che
chiamò Apostoli, diede una missione di annunciare e battezzare (Mt 28,19) per edificare così il
Popolo della Nuova Alleanza; a Simon Pietro diede il compito di “confermare i fratelli nella fede”
(Lc 22,31) e il munus di pascere i suoi agnelli e le sue pecore (cfr Gv 21,15-16). La ministerialità
cristiana è tutta orientata a “pascolare il gregge su pascoli rigogliosi” che sono la fedeltà al
depositum fidei, la vita di costante unione con Dio che porta alla realizzazione della vocazione alla
santità63 che ogni battezzato ha e deve sviluppare.
Proprio dei Pastori è esercitare il ministero nello stile del servizio a imitazione di Cristo il
Buon Pastore. È compito di chi oggi nella Chiesa, grazie alla successione apostolica, continua
l’opera affidata da Cristo ai Dodici cioè i Vescovi, in comunione con il Successore di Pietro,
svolgere i tre munera che il Concilio Vaticano II richiama: insegnare64, santificare65 e governare66.
Questi sono la logica conseguenza della missione di annunciare in tutto l’orbe il Vangelo lasciando,
quale lievito di salvezza, la Chiesa-ovile dove i credenti, nella duttilità intelligente ed umile
rappresentata dalla figura delle pecore e agnelli di un gregge, si ritrovano a beneficiare delle
premure del Sommo Pastore e dei Pastori.
Il Concilio Vaticano II sottolinea infatti che “la cura di annunziare in ogni parte della terra
il Vangelo appartiene al corpus Pastorum (al corpo dei Pastori), ai quali tutti in comune Cristo diede
il mandato, imponendo un comune dovere, come già Papa Celestino raccomandò ai Padri del
Concilio di Efeso. Quindi i singoli Vescovi, per quanto lo permette l’esercizio del particolare loro
dovere, sono tenuti a collaborare tra di loro e con il successore di Pietro, al quale in modo speciale

                                                            
62
Idem n. 41
63
 CONC.VAT.II, cost dog  Lumen Gentium n. 40 
64
 Idem n. 25 
65
 Idem n. 26 
66
 Idem n. 27 
33 
 
 

fu commesso l’altissimo ufficio di propagare il nome cristiano”67. È dai “pascoli” dell’annuncio che
il gregge viene poi custodito nell’ovile.
I Pastori debbono poi sentire e fare propria la sensibilità di Cristo Pastore il quale ha la
consapevolezza di essere mandato anche alle pecore che non sono del suo ovile, proprio perché il
progetto salvifico nel cuore del Padre è che a tutti sia offerta la possibilità della salvezza e si realizzi
nel mondo “un solo ovile sotto un solo Pastore” (Gv 10,16). Perché ciò sia possibile, oltre
all’impegno di una evangelizzazione sempre e ovunque da parte di ogni battezzato, vi è anche uno
stile da realizzare che è quello della vera ed autentica comunione tra battezzati e tra Pastori e fedeli
laici. Cristo stesso indicò proprio nell’amore fraterno lo stupore per il mondo: “Da come vi amerete
riconosceranno che siete miei discepoli” (Gv 13,35). Ma vi è anche la necessità, nella pari dignità
per ogni battezzato di riconoscere la voce del Pastore, cioè nella Chiesa che Cristo ha voluto
“gerarchica”, come viene presentata in tutto il terzo capitolo della Costituzione Lumen Gentium del
Vaticano II, vi deve essere una “effettiva e affettiva” comunione tra Pastori e fedeli-laici.
Così si esprime il Concilio circa i Pastori e i fedeli laici: “I laici, come tutti i fedeli, hanno
diritto di avere abbondantemente dai sacri Pastori i beni spirituali della Chiesa soprattutto gli aiuti
della Parola di Dio e dei sacramenti; ad essi quindi manifestino le loro necessità e i loro desideri,
con quella libertà e fiducia che si addice ai figli di Dio e ai fratelli in Cristo… I laici, come tutti i
fedeli, con cristiana obbedienza abbraccino prontamente ciò che i Pastori, quali rappresentanti di
Cristo, stabiliscono come maestri e rettori nella Chiesa, seguendo in ciò l'esempio di Cristo, il quale
con la sua obbedienza fino alla morte ha aperto a tutti gli uomini la via beata della libertà dei figli di
Dio”68.
Vi sono ancora altre sottolineature che il Concilio presenta ai Pastori affinché senza
sopraffazione e timore guidino il gregge che Cristo ha acquistato con la sua missione.
Riportiamo questo passo: “Nell'esercizio del loro ufficio di padri e pastori, i Vescovi in
mezzo ai loro fedeli si comportino come coloro che prestano servizio; come buoni pastori che
conoscono le loro pecorelle e sono da esse conosciuti, come veri padri che eccellono per il loro
spirito di carità e di zelo verso tutti, di modo che tutti ben volentieri si sottomettano alla loro
autorità, ricevuta da Dio. Raccolgano intorno a sé l'intera famiglia del loro gregge, e diano ad essa
una tale formazione che tutti, consapevoli dei loro doveri, vivano ed operino in comunione di
carità... Amino i fratelli separati e raccomandino anche ai loro fedeli di trattarli con grande
cortesia e carità, favorendo così l'ecumenismo insegnato dalla Chiesa”69.

                                                            
67
 Idem n. 23 
68
 Idem n. 37 
69
 CONC.VAT.II, decr. Christus Dominus n. 16 
34 
 
 

2.2 La Chiesa è il campo e la vigna di Dio

“La Chiesa è il podere o il campo di Dio (1Cor 3,9). In quel campo cresce l'antico olivo, la
cui santa radice sono stati i Patriarchi, e nel quale è avvenuta e avverrà la riconciliazione dei
Giudei e delle genti (Rm 11,13-26). Essa è stata piantata dal Celeste Agricoltore come vigna scelta
(Mt 21,33-43, cfr. Is 5,1 ss). Cristo è la vera vite, che dà vita e fecondità ai tralci, cioè a noi, che
per mezzo della Chiesa rimaniamo in Lui, e senza di Lui nulla possiamo fare”70.

L’icona che il Concilio presenta della Chiesa “come campo nel quale cresce l’Antico
Olivo” ci richiama alla scrupolosa lettura dell’Antico Testamento e dell’attenzione di Dio per il
Popolo di Israele che ha la missione di educare l’umanità al monoteismo, al concetto di Dio
persona, alla sua trascendenza e alla attenzione provvida di Jahwè per e nel suo popolo. La Chiesa
che Cristo ha voluto ha nel prezioso patrimonio dei Patriarchi e Profeti, ma anche nella stessa storia
d’Israele, la sua preparazione; il suo culmine avverrà nella pienezza dei tempi con l’incarnazione
del Verbo e con la sua missione redentrice e nella teofania dinamica dello Spirito Santo a
Pentecoste.
Il patrimonio dell’Antica Alleanza fu anche il terreno e la spiritualità nei quali umanamente
è cresciuto Gesù e gli Apostoli. Cristo stesso ha affermato di non voler abolire la Legge antica bensì
di essere venuto a perfezionarla. È doveroso quindi, da parte dei discepoli di Cristo, cogliere la
pregnanza del messaggio presente nelle figure e negli insegnamenti della Legge antica. Ma tutto ciò
non per affermare un legalismo, che il Rabbi Galileo ha perfezionato con quell’“adorare il Padre in
spirito e verità” che la pienezza dei tempi ha portato (Gv 4,23). Ciò che Dio ha fatto con Israele
rimane per sempre come un dono immenso nei confronti dell’umanità, ed il Popolo dell’Antica
Alleanza, per la fedeltà di Dio, sarà per sempre il Popolo eletto.
È doveroso però considerare il messaggio e le figure che Dio ha incontrato e la missione
che ha dato loro come prefigurazioni di Cristo, apice della Rivelazione e segno tangibile dell’amore
di Dio verso l’umanità intera. Con la venuta di Cristo la missione del Popolo d’Israele lascia il
passo al nuovo Popolo di Dio allargando la figliolanza di Abramo a quelli che non appartengono,
secondo la carne, alla discendenza di lui, ma che sanno “ascoltare” la Parola che il Figlio è venuto a
proclamare (cfr. Gv 8,43) e in Lui credono. In Cristo va letto ciò che Dio ha fatto e ha operato
attraverso Abramo, Mosè e i Profeti. In tal modo ha pieno significato l’Antico Testamento ed ha

                                                            
70
 CONC.VAT.II, cost dog  Lumen Gentium n. 6 
35 
 
 

luce il nuovo.71 Tutta la Sacra Scrittura è da ritenersi, quale libro contenente “le verità divinamente
ispirate”72, in grande considerazione da parte dei cristiani, dando ad essa “l’obbedienza della fede…
presentandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà”73.
Il Concilio Vaticano II, volendo dissipare ogni dubbio circa l’importanza e la validità
dell’intero messaggio biblico, afferma: “La Santa Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e
canonici tutti (interi) i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché
scritti per ispirazione dello Spirito Santo (Gv 20,31; 2Tm 3,16; 2Pt 1,19-21; 2Pt 3,15-16), hanno
Dio come autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. Per la composizione dei libri sacri,
Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo Egli in
essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva
fossero scritte”74. È da ritenersi fondamentale, per la formazione dei cristiani e per la vita della
Chiesa, l’unità dei due Testamenti in quanto “Dio che ha ispirato i libri dell’uno e dell’altro
Testamento e ne è l’autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo Testamento fosse nascosto nel
Vecchio e il Vecchio diventasse chiaro nel Nuovo. Poiché, anche se Cristo ha fondato la Nuova
Alleanza nel suo sangue (cfr. Lc 22,20; 1Cor 11,25), tuttavia i libri del Vecchio Testamento,
integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno
significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5,17; Lc 24,27; Rm 16,25-26; 2Cor 3,14-16), che essi (a
loro volta) illuminano e spiegano”75. È convinzione profonda della Chiesa che “l'economia del
Vecchio Testamento era soprattutto ordinata a preparare, ad annunziare profeticamente (cfr. Lc
24,44; Gv 5,39; 1Pt 1,10) e a significare con vari tipi (cfr. 1Cor 10,11) l'avvento di Cristo redentore
dell'universo e del Regno Messianico”76. Antico e Nuovo Testamento uniti costituiscono quella
“Parola di Dio” che la Chiesa non solo proclama ma di essa deve vivere ed acquisire il criterio di
valutazione per la lettura della storia.
L’“Antico ulivo che cresce nel campo” non è solamente la Sacra Scrittura dell’Antico
Israele ma è lo stesso Popolo di Israele quale presenza religiosa che non può essere ignorato dalla
Chiesa, in quanto ne fu la sua preparazione e ancor oggi è testimonianza di una elezione ed una
missione divine per l’intera umanità. Se è doveroso il rispetto di ogni religione assicurando “agli
esseri umani il diritto alla libertà religiosa che si fonda sulla dignità della persona”77, a maggior
ragione per i credenti in Cristo è doveroso rapportarsi con fraterno rispetto al Popolo ebraico, in
                                                            
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 CONC.VAT.II,  cost dog  Dei Verbum n. 16 
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 Idem n. 11 
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 Idem n. 5 
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 Idem n. 15 
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 CONC.VAT.II, dich Dignitatis Humanae n. 9 
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quanto religione, promuovendo una mutua conoscenza, stima e “ottenendo soprattutto dagli studi
biblici e teologici un fraterno dialogo”78.
Con chiarezza il Concilio Vaticano II sottolinea che “la Chiesa non può dimenticare che ha
ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua
ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'Antica Alleanza, e che (essa stessa) si nutre dalla
radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i Gentili (Rm
11,17-24).
La Chiesa crede, infatti, che Cristo, la nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i Gentili per
mezzo della sua croce e dei due ha fatto una cosa sola in Se stesso (Ef 2,14-16)”79. Il Concilio
richiama e ricorda che “se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di
Cristo (Gv 19,6), tuttavia quanto è stato commesso durante la sua Passione, non può essere
imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo”80. È
proprio per questa convinzione che Papa Giovanni XXIII ha tolto dalla liturgia del Venerdì Santo il
termine “pro perfidis”. Ed è nella linea di rispetto e riconoscenza per le comuni radici, che
affondano nella misericordia di Dio, che si deve privilegiare tra le altre religioni il dialogo ebreo –
cristiano. Rigurgiti di antisemitismo debbono essere respinti proprio in virtù della fede del Nuovo
Popolo di Dio che Cristo ha acquistato con il suo sangue, nulla ricusando di ciò che è stato rivelato
ai Patriarchi e ai Profeti. Egli stesso nacque da Maria appartenente al Popolo d’Israele, e scelse gli
apostoli tra gli uomini di quel Popolo.
La Chiesa, istituita da Cristo, è dunque questo campo voluto dal Celeste Agricoltore, dove
vi è già e cresce l’“Antico Ulivo”, e in esso vi è anche piantata e cresce la vera vite: Cristo. Tante
sono nella Sacra Scrittura le figure del campo o della vigna nella quale il Padre manda operai
perché possa essere feconda e rigogliosa la sua vigna (cfr. Mt 20,1-8).
L’icona che vorremmo prendere in considerazione è quella che leggiamo in chiave
ecclesiologica nel Vangelo di Giovanni: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni
tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più
frutto… Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di
me non potete far nulla” (Gv 15,1-2.5).
La Chiesa che, quale vigna per l’umanità, ha nel Padre il vignaiolo va riconosciuta come il
luogo teologico dove è presente l’opera di Dio che ha dissodato il terreno e lo ha reso fertile grazie
a coloro (i Profeti, i Santi) che hanno creduto e vissuto nella comunione con Lui, nell’attesa della

                                                            
78
 CONC.VAT.II,  dich  Nostra Aetate n. 4 
79
 Idem n. 4 
80
 Idem 
37 
 
 

pienezza dei tempi. Il Popolo d’Israele, che ha vissuto nella fedeltà all’Alleanza antica, con i suoi
alti e bassi, ha reso buono il terreno dando all’umanità testimonianza di ciò che deve ritenere vero
nel rapporto con Dio. In tal senso l’umanità è pronta a cogliere i frutti dell’Antico olivo ed essere
parte della stessa vite che è piantata nel campo.
L’incarnazione del Verbo e la sua opera conclusasi con la sua passione, morte e
resurrezione, è presenza preziosa come una vite nella vigna di quella umanità che il Verbo incarnato
ha redento e salvato. Coloro che vengono ad essere parte dell’albero della vite attraverso l’annuncio
accolto ed il battesimo ricevuto vengono ad essere tralci di questa vite che è il Cristo vivo nella sua
Chiesa.
Non basta però essere immersi nella morte e resurrezione di Cristo una volta per tutte, è
necessario che il christifidelis viva di Cristo, con Cristo e per Cristo. Nella Chiesa vi è il costante
percorso della conversione dall’uomo vecchio all’uomo nuovo che non avviene solo con la buona
volontà del soggetto ma attraverso il dono dello Spirito che procede dal Padre per il Figlio ed opera
nel credente la santificazione, se questi corrisponde al dono della conversione. I segni che
comunicano l’opera salvifica di Cristo sono i sacramenti nella loro disposizione settenaria. Sono
essi i canali dove viene offerta la giustificazione, il perdono, la grazia sia santificante che attuale, e
tutto ciò che fa del credente un incorporato a Cristo. Non vi è predestinazione senza l’assenso del
soggetto umano. Staccarsi da Cristo con una esistenza lontana dal piano divino e priva dell’anima
della fede, che è la preghiera e la vita sacramentale, significa impedire alla linfa di portar vita,
atrofizzando la comunione tra Dio e il credente.
Certo la vita di chi ha scelto Cristo e vuole essergli testimone richiede una costante
“potatura” attraverso l’acquisizione delle virtù teologali (fede, speranza e carità) e quella duttilità
all’opzione fondamentale al Vangelo che porta in tutti il primato di Dio e la sequela di Cristo
“obediens usque ad mortem, mortem autem crucis” (Fil 2,8). Il discepolo di Cristo deve essere
unito al mistero del suo Signore non soltanto per sé ma anche per la missione che la fede comporta.
Essere nella Chiesa – vigna significa anche portare frutti di salvezza. Certo è Cristo la fonte della
salvezza, ma ogni cristiano in virtù del battesimo deve diffondere la Buona notizia “ammaestrando
tutte le genti” (Mt 28,19) e dando ad esse quella testimonianza di coerenza che genera stupore e
porta a desiderare di seguire Cristo. Il tutto ovviamente non può prescindere dall’unione reale e
sacramentale con Cristo: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
È necessario non solamente una conoscenza intellettuale della bontà della fede cristiana,
ma anche un incontro con Cristo. L’icona di Cristo vite nel campo implica una presa di coscienza
del dono grande del battesimo e della dignità che questo sacramento, espressamente richiesto dal
Risorto, offre al neo-credente: divenire un’unica cosa con Cristo. Essere cioè quel tralcio che se

38 
 
 

vuole portare frutto non può che rimanere sempre unito alla vite. È proprio grazie a questa unione
con Lui che il cristiano può compiere la santificazione del mondo e, nonostante la sua pochezza,
offrire frutti che possono generare la nostalgia di voler conoscere, incontrare e seguire Cristo. La
Vite è nel campo che il Padre ha provveduto, con i vari vignaioli, a dare l’opportunità alla Vite di
crescere e fruttificare per la gioia del Padrone del campo che provvede per la sua grande famiglia
che è l’umanità. In tal senso va considerata la Chiesa voluta quale nuovo Popolo di Dio vigna nuova
per la grande famiglia dell’umanità, necessaria per la salvezza. Infatti è in quel campo dissodato e
ripulito dai rovi che può crescere il grano.
Vi sarà anche la zizzania oltre alla vite ma grano e tralci fruttuosi saranno il segno
dell’amore di Dio che è humus per tutti. Alcuni ne useranno per il bene altri per la propria
condanna. Ma questo non spetta alla Chiesa ma alla fine dei tempi vi sarà la separazione e la
retribuzione e sarà compito del Padrone della vigna. Nel tempo della realtà viatoria la Chiesa è quel
campo dove l’Olivo Antico e la vite offrono i loro frutti a chi entra nella vigna come generoso
operaio o sa rimanere tralcio unito a quella vite che dona vita.

39 
 
 

2.3 La Chiesa è edificio e casa di Dio per l’umanità

“La Chiesa è detta edificio e casa di Dio (1Cor 3,9). Il Signore stesso si paragonò alla
pietra che i costruttori hanno rigettata, ma che è diventata la pietra angolare (Mt 21,42; At 4,11;
1Pt 2,7; Sal 117,22). Sopra quel fondamento la Chiesa è costruita dagli Apostoli (cfr. 1Cor 3,11) e
da esso riceve stabilità e coesione. Questo edificio viene chiamato in varie maniere: casa di Dio
(cfr. 1Tim 3,15), nella quale cioè abita la sua famiglia”81.

Da questo passo del Concilio Vaticano II, con una ricchezza di richiami scritturistici, risulta
evidente che l’Ekklesia, che si forma con l’adesione di chi accoglie il Kerigma e riceve il battesimo
nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, è un luogo concreto ben individuabile proprio
come un edificio. Il “materiale” con il quale è costruito sono gli stessi credenti che provenienti sia
dai giudei che dai gentili cioè di ogni cultura e paese si “appoggiano” sulla fede in Cristo quale
pietra angolare (Mt 21,42).
Si tratta di pietre che hanno una consistenza che viene loro da quella identità che le
accomuna: essere state scelte dai “costruttori”. Ogni cristiano, grazie alla sua presa di coscienza di
aver risposto alla chiamata alla fede, ad alla duttilità di lasciarsi coinvolgere in una realtà ben
compaginata dove sentirsi in comunione con ciascun credente in Cristo, attraverso la comune
“regula fidei” che ogni battezzato deve conoscere e vivere, viene così a formare, in modo visibile, la
Chiesa – Casa per l’umanità. Ovviamente la pietra angolare dove poggia l’insieme delle pietre, che i
costruttori hanno scelto e collocato, è Cristo, il preannunziato dai Profeti, l’atteso dalle Genti ed
anche Colui che non è stato riconosciuto dai Suoi: “ La luce vera, che illumina ogni uomo stava
per venire nel mondo. Egli era nel mondo, il mondo è stato fatto per mezzo di Lui, ma il mondo non
l’ha riconosciuto. E’ venuto nel mondo, ma i Suoi non l’hanno accolto. A coloro però che lo hanno
accolto, a questi Dio ha fatto un dono: li ha fatti diventare figli di Dio” (Gv 1.9-12).
L’essere Chiesa, e quindi dare forma concreta a questo “edificio spirituale”, essenzialmente
significa accettare Cristo quale pietra angolare. Fare della persona, della missione e dell’evento
Cristo, vero uomo e vero Dio, la ragione per cui i battezzati si ritrovano, si riconoscono e si lasciano
edificare “nell’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli, nella vita fraterna, nello spezzar del pane e
nella preghiera comune” (At 2,42). La fede e la dimensione ecclesiale del battezzato devono, per
forza di cose, essere Cristocentriche in modo coerente e concreto.
È da Cristo che gli Apostoli hanno appreso la “regula fidei” cioè il Credo e già la Chiesa
                                                            
81
 CONC.VAT.II, cost  dog  Lumen Gentium n. 6 
40 
 
 

dei primi secoli la consegna da professare e da vivere agli adulti che, nella veglia pasquale, vengono
con il battesimo accolti e integrati nella Comunità dei credenti in Cristo. Costituire dunque un
edificio ben compaginato significa essenzialmente conoscere e professare tutto ciò che è contenuto
nel Simbolo battesimale. Il Simbolo ha una importanza fondamentale per la specificità teologica del
cristiano che è tenuto alla fedeltà intellettuale e morale di ciò che ha professato. Se è vero che sin
dalla seconda metà del II secolo non vi è per le varie comunità cristiane una unica modalità liturgica
per la professione dei neobattezzati82 è altrettanto vero però che nelle varie Chiese cristiane si
confessa: “un unico Dio, in tre persone uguali e distinte: il Padre onnipotente, il Figlio unigenito
Gesù Cristo salvatore; lo Spirito Santo, la resurrezione della carne, la Chiesa cattolica”83.
Vi è poi la qualificante testimonianza alla fine del II secolo nell’Opera di S. Ireneo vescovo
di Lione che merita di essere riportata dove si dice che: “La Chiesa ben che è diffusa in tutto il
mondo fino alle estremità della terra, ha ricevuto dagli Apostoli e dai loro discepoli la fede in un
solo Dio Padre Onnipotente, che ha fatto il cielo e la terra e i mari con tutto ciò che vi è in essi: e in
un solo Cristo Gesù, Figlio di Dio, che si è incarnato per la nostra salvezza e in uno Spirito Santo,
che per mezzo dei Profeti ha annunciato le economie, gli avvenimenti, la nascita verginale, la
passione e la resurrezione dai morti, l’ascensione corporea nei cieli del diletto Cristo Gesù Signore
nostro e la sua parusia quando dai cieli egli apparirà alla destra del Padre per restaurare tutto e
risuscitare ogni carne di tutta l’umanità, affinché davanti al Cristo Gesù nostro Signore, Dio,
Salvatore e Re, ogni ginocchio si pieghi in cielo, negli inferi e in terra e che tutte le lingue lo
confessino ed egli applichi a tutti un giusto giudizio…”84
Anche S. Ignazio di Antiochia, indirettamente, prima di Ireneo ci offre un tassello
importante della fede della Chiesa sub apostolica che poi verrà codificata nei simboli: “Chiudete
dunque le orecchie ai discorsi di quelli che non vi parlano di Gesù Cristo, nato dalla stirpe di
Davide, nato da Maria, che fu realmente generato, che realmente soffrì persecuzione sotto Ponzio
Pilato, fu realmente crocifisso ed è morto sotto lo sguardo del cielo, della terra e dell’inferno; e che
fu realmente risuscitato dai morti”85.
Perché dunque l’edificio sia solido e ben compaginato al fine di essere la casa sicura che
Dio ha voluto per l’umanità sua famiglia ecco che i Costruttori (apostoli, loro successori e i
legittimi pastori) devono vigilare affinché il patrimonio della “fede offerta”, di cui il Simbolo è il
riferimento qualificante, sia tramandato e vissuto in conformità con quanto gli Apostoli hanno

                                                            
82
 E. MALNATI, I ministeri nella Chiesa, cit, p. 73 
83
 Idem p. 74 
84
 IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses I, 10,2 
85
 IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Trall. 9; cfr. Smir. 1; Magn. 11 
41 
 
 

appreso da Cristo. Per garantire inalterato il depositum fidei di cui la Rivelazione e la Tradizione
sono “veicoli” insostituibili, il Romano Pontefice e i Vescovi in comunione con Lui devono
svolgere il loro ufficio di maestri-testimoni con il loro magistero singolarmente nei Sinodi o nei
Concili.
Il Sommo Pontefice, in materia di fede, gode dell’infallibilità86. Ne è testimone tutta la
storia della Chiesa già nel libro degli Atti degli Apostoli e nei primi secoli sino al Concilio Vaticano
II. Vi è poi anche la ricerca teologica e l’intuizione pastorale dei segni dei tempi. Entrambi però,
come scrive anche J. Danielou “dipendono dall’episcopato che è il solo depositarsi
dell’insegnamento autentico e autorizzato nella Chiesa, ma è certo che anche i vescovi hanno
bisogno del lavoro dei teologi.
A rigore i vescovi potrebbero bastare a se stessi, come ha scritto Scheben: il corpo
episcopale insegnante non ha bisogno di altri organi per il complemento indispensabile della propria
autenticità e autorità. Certo, l’autorità di insegnamento del magistero non dipende da alcun
organismo, ma l’esercizio di questa autorità esige organi complementari, sia sul piano della
comunicazione, dell’insegnamento (che il vescovo non può svolgere da solo), sia sul piano della
ricerca teologica… Sul piano dell’insegnamento autentico i teologi sono certo essenzialmente
subordinati all’episcopato, tuttavia essi non ne sono per questo dei semplici strumenti”.87 Anche
l’intero Popolo di Dio che costituisce l’“edificio” partecipa pure, non certo al munus gubernandi ma
dell’ufficio profetico di Cristo comunicato ad ogni battezzato attraverso l’unzione dello Spirito che
offre al Popolo di Dio il dono “di non potersi sbagliare nel credere, questa sua proprietà è
manifestata mediante il soprannaturale “sensus fidei totius populi”… quando (il Popolo di Dio)
mostra il suo consenso in cose di fede e di morale. Infatti per quel senso della fede, che è suscitato e
sorretto dallo Spirito di verità, il Popolo di Dio sotto la guida del sacro magistero al quale
fedelmente conformandosi accoglie non la parola degli uomini ma, quale è in realtà, la parola di Dio
(cfr. 1Ts 2,13), aderisce indefettibilmente alla fede una volta trasmessa ai santi, con retto giudizio
penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita”88.
Il sensus fidelium è il tesoro dal quale il Magistero attinge e si confronta per sottolineare e
focalizzare questo o quell’aspetto verità della fede cristiana. È importante che nell’“edificio
spirituale” che è la Chiesa, i Pastori colgano i segni dei tempi, come auspicava Giovanni XXIII, per
offrire ciò di cui l’uomo ha bisogno nel metodo e nella sostanza del messaggio cristiano, e i
christifideles possano essere “davanti al mondo testimoni di comunione nella fede della Chiesa in

                                                            
86
 CONC.VAT.I, cost dog  Pastor Aeternus n. 4 (DS 3070) e CONC.VAT.II, cost. dog  Lumen Gentium n. 25 
87
 J. DANIELOU, La Nostra Chiesa, Milano (Rusconi) 1972, pagg. 109‐111 
88
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 12 
42 
 
 

una sinergia di intenti per essere nello spirito delle Beatitudini quel lievito evangelico in conformità
con la fede di tutta la Chiesa al fine di divenire veramente l’anima del mondo.89
L’“edificio” formato dalle pietre vive che sono i singoli discepoli di Cristo che la comune
fede e la fedeltà e fiducia nel “depositum” ha reso compatti, è stato voluto perché l’intera famiglia
umana possa usufruire e ritrovare riposo e riparo nella e dalla Chiesa stessa. Il Concilio Vaticano II
si premura di sottolineare la missione della Chiesa non solo nello specifico di una evangelizzazione
che porta al discepolato cristico ma anche all’importanza della Chiesa per la “città terrena”.
Così si esprime il Concilio: “La Chiesa, certo, perseguendo il suo proprio fine di salvezza,
non solo comunica all’uomo la vita divina, ma anche diffonde la sua luce con ripercussione, in
qualche modo, su tutto il mondo, soprattutto per il fatto che risana ed eleva la dignità della persona
umana, consolida la compagine dell’umana società e immette nel lavoro quotidiano degli uomini un
più profondo senso e significato”90. Il Concilio poi concretamente indica quale concreto aiuto vuole
offrire alla dignità della persona umana e del suo vivere come appartenente all’unica famiglia che è
l’umanità. “L’uomo, infatti, avrà sempre desiderio di sapere, almeno confusamente, quale sia il
significato della sua vita, del suo lavoro e della sua morte. E la Chiesa con la sua sola presenza nel
mondo gli richiama alla mente questi problemi. Ma soltanto Dio, che ha creato l’uomo a sua
immagine e che lo ha redento dal peccato, può offrire a tali problemi una risposta pienamente
adeguata, e ciò per mezzo della rivelazione compiuta nel Cristo, Figlio suo, fatto uomo. Chiunque
segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo. Partendo da questa fede, la Chiesa può
sottrarre la dignità della persona umana al fluttuare di tutte le opinioni, che per esempio o troppo
abbassano o troppo esaltano il corpo umano.
Nessuna legge umana vi è che possa porre così bene al sicuro la personale dignità e la
libertà dell’uomo, quanto il Vangelo di Cristo affidato alla Chiesa… Perciò la Chiesa, in forza del
Vangelo affidatole, proclama i diritti umani e riconosce e apprezza molto il dinamismo con cui ai
giorni nostri tali diritti vengono promossi ovunque”91.
La Chiesa è e deve essere la Casa dell’intera umanità dove ciascuno possa sentirsi accolto
nel dialogo e, dalla Chiesa stessa, tutelato e difeso. È proprio secondo questa concezione che va
vista la dottrina sociale della Chiesa con i suoi interventi nei confronti del mondo del lavoro, della
famiglia, del bene comune, della libertà religiosa e del dialogo con le altre religioni. La Chiesa è e
deve essere, con il suo magistero ma anche con le scelte profetiche dei christifideles sia laici che
presbiteri o religiosi, il segno tangibile dell’amore di Dio per tutti gli uomini. È proprio secondo

                                                            
89
 (Cfr.) CONC.VAT.II, cost  dog Lumen Gentium n. 38 
90
 CONC.VAT.II, cost past Gaudium et Spes n. 40 
91
 Idem n. 41  
43 
 
 

questa icona della Chiesa “casa di Dio per l’umanità” che va letta la Dichiarazione conciliare sulla
libertà religiosa e lo stesso dialogo interreligioso. Ciò non significa abdicare al primo fine per cui
“Dio ha fatto conoscere al genere umano la via, attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono
in Cristo trovare salvezza e divenire beati. Questa unica vera religione crediamo sussista nella
Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato la missione di comunicarla a
tutti gli uomini… E tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ordine a
Dio e alla sua Chiesa. Il Sacro Concilio professa pure che questi doveri attingono e vincolano la
coscienza degli uomini, e che la verità non si impone che in virtù della stessa verità”92. Senza mezzi
termini il Concilio dichiara “che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa… Inoltre
dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona
umana, quale si conosce, sia per mezzo della parola di Dio rivelata che tramite la stessa ragione”93.
La Chiesa dunque deve essere la casa dove si dà voce alla giustizia, alla verità, alla pace ed alla
carità. Anche questo è uno degli obiettivi delle presenze della Chiesa nel mondo: dare speranza e
voce a chi non ha voce.

 
                                                            
92
 CONC.VAT.II, dich Dignitatis Humanae, Proemio 
93
 Idem n. 2 
44 
 
 

2.4 La Chiesa è il tempio santo, la nuova Gerusalemme

“La Chiesa è detta… tempio santo, che i Santi Padri esaltano rappresentato in santuari di
pietra, e che la liturgia paragona alla Città santa, la nuova Gerusalemme. In essa infatti, quali
pietre viventi, veniamo a formare su questa terra un tempio spirituale (1Pt 2,5)”94.

Una icona significativa della Chiesa è quella di paragonarla al Tempio di Dio e alla Nuova
Gerusalemme. L’apostolo Paolo lo dice con sicurezza ai cristiani di Corinto: “Non sapete che siete
tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1Cor 3,16). Colui che ha accolto Cristo e grazie
alla sua incorporazione mediante il battesimo, ha ricevuto lo Spirito che lo orienta verso Dio non
solo nella preghiera è oggettivamente viva abitazione, della dinamica presenza di Dio.
Se l’uomo, come afferma S. Ireneo, è la gloria di Dio il cristiano ne è quel qualche cosa di
umano che Dio ha reso Santo, partecipandogli la stessa vita divina. Cristo stesso paragona la sua
persona al tempio: quando, scacciando i venditori afferma che il Tempio è casa di preghiera, gli
viene chiesto: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (Gv 2,18) e Gesù disse di sé:
“Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere… egli parlava del tempio del suo corpo”
(Gv 2,19.21). Presentare dunque l’assemblea dei discepoli di Cristo come il Tempio di Dio significa
indicare che le relazioni tra i credenti debbono essere improntate su criteri che sono propri di coloro
che hanno aperto la loro vita e il loro cuore al Vangelo di Cristo.
Il loro vivere deve essere una lode a Dio e la loro premura deve essere quella di onorare il
mistero che è stato loro donato con la fede attraverso una costante comunione con Dio: Padre, e
Figlio e Spirito Santo. Uno dei primi impegni sia del cristiano che della Chiesa è quello di vivere
alla presenza di Dio con la preghiera personale e liturgica, con la ricerca di una vita spirituale dove
sia evidente il primato di Dio e la ricerca costante di offrire, da parte dei pastori, e di coloro che
hanno fatto una scelta di ulteriore consacrazione nella sequela di Cristo con i consigli evangelici,
quel primato di Dio che fece dire a S. Teresa d’Avila: Dio mi basta. L’“aggiornamento” che il
Concilio ha auspicato per la Chiesa tutta nelle sue strutture e nei suoi membri aveva anche l’intento
di sottolineare questo primato di spiritualità e di grazia proprio perché è di questo che ogni cristiano
e la Chiesa tutta deve rivestirsi. Il Tempio non può essere snaturato o preso come occasione di
mentalità e attività che non sono proprie alla sua natura e al suo fine: “Non fate della casa del Padre
mio un mercato” (Gv 2,16).
Paolo VI, consapevole della necessità di dare alla Chiesa questo volto del Tempio indica la
                                                            
94
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 6 
45 
 
 

necessità di un “aggiornamento” o riforma della vita delle Comunità cristiane e delle loro strutture
proprio avendo di mira questo obiettivo: fare della Chiesa il Tempio dove Dio parla all’uomo e
l’uomo possa ascoltare Dio e parlargli di sé e dell’umanità. Nella sua prima enciclica Paolo VI
indica un triplice impegno per la Chiesa già adunata in Concilio da Giovanni XXIII e lo fa con
queste parole: “… Tre sono i pensieri, che vanno agitando l’animo Nostro quando consideriamo
l’altissimo ufficio, che la Provvidenza, contro i Nostri desideri e i Nostri meriti, Ci ha voluto
affidare nel reggere la Chiesa di Cristo, nella Nostra funzione di Vescovo di Roma e perciò di
Successore del beato Apostolo Pietro, gestore delle chiavi del regno dei cieli e Vicario di quel Cristo
che fece di Pietro il primo Pastore del suo gregge universale. Il pensiero che sia questa l’ora in cui
la Chiesa deve approfondire la coscienza di se stessa, meditare sul mistero che le è proprio,
esplorare a propria istruzione ed edificazione la dottrina, già a lei nota e (già) in questo ultimo
secolo enucleata e diffusa, sopra la propria origine, la propria natura, la propria missione, la propria
sorte finale, una dottrina non mai abbastanza studiata e compresa”95. Fatta questa premessa che si
conclude con la citazione del “mistero nascosto da secoli in Dio… affinché sia manifestato… per
mezzo della Chiesa” (Ef 3,9-10) espone il suo desiderio di “confrontare l'immagine ideale della
Chiesa, quale Cristo vide, volle ed amò, come sua Sposa santa ed immacolata (cfr. Ef 5,27) e il
volto reale, quale oggi la Chiesa presenta, fedele, per grazia divina, ai lineamenti che il suo Divin
Fondatore le impresse e (che) lo Spirito Santo vivificò e sviluppò nel corso dei secoli in forma più
ampia e più rispondente al concetto iniziale da un lato, all'indole della umanità ch'essa andava
evangelizzando e assumendo dall'altro; ma non mai abbastanza perfetto, abbastanza venusto,
abbastanza santo e luminoso, come quel divino concetto informatore lo vorrebbe. E deriva perciò un
bisogno generoso e quasi impaziente di rinnovamento, di emendamento cioè dei difetti, che quella
coscienza, quasi un esame interiore allo specchio del modello che Cristo di sé ci lasciò, denuncia e
rigetta. Quale sia cioè il dovere odierno della Chiesa di correggere i difetti dei propri membri e di
farli tendere a maggior perfezione, e quale il metodo per giungere con saggezza a tanto
rinnovamento, è il secondo pensiero che occupa il Nostro spirito… Il terzo pensiero… è quello delle
relazioni che oggi la Chiesa deve stabilire con il mondo…”96
Se la Chiesa nella sua identità deve essere il Tempio di Dio tra l’umanità è chiaro che deve
avere una coscienza della sua missione per l’uomo: essere il luogo teologico dove tutto parli
all’uomo di Dio e a lui si offra concretamente ciò che Dio ha rivelato ed ha offerto perché l’uomo
possa vivere nella dignità che il Creatore gli ha impresso. La Chiesa dunque non può deludere né
Dio né l’uomo. È per questo che essa “semper reformanda est” in ragione di quella credibilità che
                                                            
95
 PAOLO VI, enc Ecclesiam Suam n. 9‐10  
96
 Idem n. 11‐12‐13  
46 
 
 

deve stupire l’umanità essendo fedele alla ragione per cui Dio la ha voluta e nello stesso tempo
saper leggere i segni dei tempi per dare all’umanità annuncio e testimonianza di ciò che Dio in
Cristo ha preparato per un’umanità capace di svolgere il suo compito di immagine e somiglianza di
Dio e di promozione e tutela di ogni persona e dell’intera realtà creata.
Il Tempio è il luogo dove si sente la presenza di Dio e Dio incontra il suo Popolo, lo
rassicura con la sua misericordia, lo purifica con la sua Santità, lo nutre con la sua Parola, lo
conforta e rende forte nell’amore con i suoi sacramenti, gli offre speranza con l’impegno di una
azione pastorale, segno dell’attenzione di Dio Padre e Pastore. È questo che la Chiesa deve fare
proprio per esser Tempio del Dio vivente dove non vi è confusione tra il Tempio di Dio e gli idoli
(2Cor 6,16). Ecco il motivo dell’“aggiornamento” auspicato e voluto dal Concilio Vaticano II e
dalla affermazione-esortazione: “Ecclesia semper reformanda est”, che deve partire da ogni
battezzato che lo porti ad essere costantemente orientato a quella vocazione di santità che prenderà
nutrimento da una costante vita interiore dove la volontà del singolo e la grazia di Dio introducono
in una vita veramente trasformata in Cristo.
Così infatti richiama il Concilio anche in vista di una credibilità verso il cammino di un
ecumenismo profondo orientato verso un’unità spirituale: “Tutti i cattolici devono tendere alla
perfezione cristiana e sforzarsi, ognuno secondo la sua condizione, perché la Chiesa, portando nel
suo corpo l'umiltà e la mortificazione di Gesù (hai scritto Cristo), vada di giorno in giorno
purificandosi e rinnovandosi, fino a che Cristo se la faccia comparire innanzi risplendente di gloria,
senza macchia né ruga”97.
La Chiesa anche nell’impegno verso gli ultimi non può dimenticare che accanto alle opere
di misericordia corporale ci sono quelle spirituali. L’antropologia cristiana vede l’uomo nella sua
complessità sinergica di anima-corpo, materia-spirito ed è in tal senso che è tutto l’uomo che va
considerato nella sua emancipazione e promozione.
Fermarsi solo alle necessità o materiali o spirituali significa non dare l’attenzione che
merita il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio. L’unione ipostatica (natura divina e natura
umana nell’unica persona del Verbo) è l’icona che porta l’attenzione della pastorale verso le
esigenze spirituali, materiali, sociali, culturali e morali di tutto l’uomo. In tal senso il Concilio
Vaticano II senza alcun dubbio e alcun tentennamento sottolinea che “Nel mistero del Verbo
incarnato trova (vera) luce il mistero dell’uomo… Egli è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di
Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato”98. La Chiesa
con la sua presenza e la sua azione pastorale, la sua liturgia con i suoi percorsi culturali e caritativi
                                                            
97
 CONC.VAT.II, decr Unitatis Redintegratio n. 4 
98
 CONC.VAT.II, cost past Gaudium et Spes n. 22 
47 
 
 

deve essere quel lembo di mantello dove l’uomo possa conoscere, ascoltare se stesso e addentrarsi
nel mistero di Dio.
La Chiesa tempio non può nascondere o non far fare esperienza a credenti e non, di tutto
quel ricco bagaglio di spiritualità che durante i secoli ha potuto sperimentare e di cui è custode.
Basterebbe pensare all’esperienza monastica, alla spiritualità degli esercizi spirituali, alla direzione
delle anime alla vita devota di S. Francesco di Sales, a tutti quei movimenti sorti dopo il Concilio,
alla spiritualità ecumenica di Taizé, alla pietà eucaristica e del Cuore di Cristo che da Paray le
Monial ha debellato con il primato della misericordia la rigidità giansenista.
Vi è poi la spiritualità mariana, debitamente orientata alla centralità di Cristo, purificata,
come sottolinea Paolo VI nella Marialis Cultus, da devozionismi fatui, l’avvicinare i singoli e le
comunità cristiane alla Parola di Dio; l’Eucarestia posta al centro della vita della Comunità cristiana
dove ogni ministerialità è coinvolta, non in una mera ritualità, ma in un profondo rapportarsi e
lasciarsi coinvolgere dal mistero pasquale “ripresentato” per stupire e muovere a quel vivere da
creature nuove nutrite, convocate e inviate da Cristo pane di vita.
La Comunità cristiana non può abdicare ad essere Tempio di Dio senza snaturare se stessa
e deludere l’umanità. È proprio consapevole di essere Tempio di Dio che la Chiesa non può e non
deve ridursi ad una agenzia né socio-culturale né politico-rivoluzionaria, né istigatrice di violenza
come tesi o movimenti detti di liberazione vorrebbero. Ma neppure può disinteressarsi la
Chiesa-Tempio degli ultimi, dei diseredati, degli sfruttati, dei perseguitati, dei rifugiati, di chi cerca
giustizia sociale e di chi chiede rispetto per la vita e la pace. Tutto questo deve offrire la Chiesa
perché in lei nuova Gerusalemme, Tempio di Dio l’uomo con la sua povertà e le sue speranze è
atteso per assaporare la luce della fede attraverso l’incontro libero e desiderato con il suo Dio.
Questo è il Tempio che l’uomo cerca e di cui ha bisogno.
Tutto ciò che nella Chiesa vi è e si fa deve essere orientato all’evangelizzazione ed alla
promozione della persona umana proprio sullo stile del Verbo incarnato. Un’evangelizzazione che
nulla ha e deve avere di impositivo o repressivo ma neppure deve temere di annunciare e
testimoniare la singolarità e l’unicità di Cristo quale unico e vero salvatore dell’uomo. La Chiesa a
chi a lei si avvicina e si affaccia alla sua porta deve offrire pane e non sassi, ciò di cui essa è
depositaria e non surrogati. Papa Francesco a Rio de Janeiro nel luglio 2013 ai Giovani per la loro
Giornata mondiale disse: “Io non ho né oro né argento ma porto ciò che di più prezioso mi è stato
dato: Gesù Cristo!”99 In ciò il Vescovo di Roma ci ha fatto risuonare le parole di Pietro a
Gerusalemme: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo dò: nel nome di Gesù

                                                            
99
 FRANCESCO, Discorso alla cerimonia di benvenuto a Rio de Janeiro 22 luglio 2013 
48 
 
 

Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!” (At 3,6)


Sì la Chiesa deve essere questa Nuova Gerusalemme dove tutte le genti come le varie tribù
d’Israele salgono al Tempio del Signore perché lì vi è la sua presenza e lì nell’incontro e
nell’accoglienza della fede cristiana si può sperimentare quella comune cittadinanza che rende i
credenti e le persone di buona volontà intenti ad offrire concrete e reali proposte e soluzioni di pace
nella giustizia e verità. Gerusalemme è, nella letteratura biblica, la città della pace.
La Chiesa – Nuova Gerusalemme ha fatto e continua a fare suo l’anelito per una
convivenza pacifica tra le persone e tra tutti i popoli della terra. Il magistrale discorso di Paolo VI
alle Nazioni Unite è indice di questa attenzione per la pace che appunto la Chiesa assume come sua
missione per la Città dell’uomo.
Sono parole alle quali poi seguiranno scelte magisteriali come la Populorum Progressio e
atteggiamenti concreti della Chiesa sia da parte dei Nunzi o inviati speciali della Santa Sede o
movimenti fortemente impegnati nella promozione umana a tutto campo, tra i quali va ricordata
l’opera della Comunità di S. Egidio. Riportiamo le parole di Paolo VI: “Ringrazio il Signore di aver
avuto la fortuna di annunciare, in un certo senso agli uomini di tutto il mondo, il messaggio della
pace… Dobbiamo amare la pace, fare nostra la causa della pace, meditare sul vero significato della
pace… Servire la causa della pace, non usarla per scopi diversi… La pace deve essere fondata sui
principi morali e religiosi che la rendono sincera e stabile… Mai più la guerra, mai più la guerra…
La pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità”100.
Questa sensibilità al problema della pace per la “città terrigena” – per usare un termine di
S. Agostino - il Concilio Vaticano II la espleta anche nel messaggio all’umanità. Rivolgendosi alle
donne così si esprime: “Donne di tutto l’universo, cristiane e non credenti, a cui è affidata la vita in
questo momento così grave della storia, spetta a voi di salvare la pace del mondo”101. L’esempio per
una “tensione di pace” deve partire oltre che da ogni coscienza retta anche dalla vita stessa dei
credenti in Cristo. L’ecumenismo è uno di questi segni assieme al dialogo nella verità con le altre
religioni e con i non credenti. Non si tratta di opzionalità, è una tensione intrinseca al messaggio
evangelico. Infatti assieme all’impegno di evangelizzazione a tutto campo “il vangelo ha sempre
rappresentato un fermento di libertà e progresso e si dimostra ininterrottamente fermento di
fraternità, di unità e di pace”102.
La Chiesa è la Nuova Gerusalemme per tutti coloro che cercano vera fraternità e pace,
debbono poterla riscontrare nello stile di quella cattolicità dove il bene dell’uno è messo a

                                                            
100
 PAOLO VI, Discorso all’Assemblea dell’ONU, 4 ottobre 1965 
101
 CONC.VAT.II, Messaggio del Concilio all’umanità, 8 dicembre 1965 
102
 CONC.VAT.II, decr. Ad Gentes n. 8  
49 
 
 

disposizione dell’altro, evidenziando in tal modo come “il Popolo di Dio non solo si raccoglie da
diversi popoli, ma nello stesso interno si compone di diversi ordini. Poiché tra i suoi membri c’è
diversità sia per ufficio… sia per lo stato e tenore di vita… Tutti gli uomini sono chiamati a
[emulare] questa cattolica unità del Popolo di Dio, che presigna (prefigura) e promuove la pace
universale”103.

                                                            
103
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 13 
50 
 
 

2.5 La Chiesa è Sposa dell’Agnello

“La Chiesa… viene pure descritta come immacolata sposa dell'Agnello immacolato (Ap
19,7; 21,2 e 9; 22,17), sposa che Cristo «ha amato, e per essa ha dato se stesso, al fine di
santificarla» (Ef 5,26), che si è associata con patto indissolubile ed incessantemente nutre e ne
prende cura (Ef 5,29), che dopo averla purificata, volle a sé congiunta e soggetta nell'amore e nella
fedeltà (cfr. Ef 5,24), e che, infine, ha riempito per sempre di grazie celesti, onde potessimo capire
la carità di Dio e di Cristo verso di noi, carità che sorpassa ogni conoscenza (cfr. Ef 3,19).”104

L’immagine della Chiesa-Sposa ci richiama sia il dramma del profeta Osea sia alcuni
insegnamenti di Gesù circa gli invitati alle nozze. Entrambi i riferimenti biblici ci possono aiutare
ad approfondire teologicamente il tema della Chiesa-Sposa, che riceve luce, efficacia e santità dal
suo profondo e costante legame con Cristo lo sposo. La povertà e l’infedeltà dei membri della
Chiesa, come fu per il Popolo eletto, non sminuisce l’amore da parte dello Sposo.
Egli costantemente offre tutte quelle opportunità con i mezzi di grazia come i Sacramenti, i
vari percorsi di vita interiore e lo stesso mistero Pasquale ripresentato nell’anno liturgico, segni
questi di quell’amore fedele che rinsalda il legame che unisce Cristo a ciascun battezzato e alla
Chiesa tutta. La fragilità morale è intrinseca ad ogni uomo e, senza la vigilanza e la grazia, può
portare al peccato. Cristo stesso non esita ad ammonire quei giudei che gli avevano presentato
l’adultera perché fosse lapidata: “Chi di voi è senza peccato – disse – getti per primo la pietra contro
di lei” (Gv 8,7). Di fronte a questa categorica affermazione, “ se ne andarono uno per uno,
cominciando dai più anziani” (Gv 8,9) e Gesù rimase solo con la donna. Il messaggio che offre
all’adultera: “«Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». «Neanch’io ti
condanno – disse Gesù – va’ e d’ora in poi non peccare più».” (Gv 8,10-11, è la ragione della
missione del Verbo incarnato che non è venuto per condannare ma per salvare; non è venuto per i
sani ma per i malati (Lc 5,31), non è venuto per i giusti ma per i peccatori (Lc 5,32). Questa è anche
la missione della Chiesa non solo ab extra ma anche ab intra.
L’attenzione pastorale di chi è guida nella Chiesa e di tutti coloro che, attraverso una scelta
radicale per il Regno, hanno fatto propria la sequela Christi con i consigli evangelici, deve essere
presenza che concretamente porta e fa vivere questo stile di misericordia per il singolo credente e
per l’intera comunità attraverso una “vera conversione” dove l’amore di Dio diventa progetto di
vita.
                                                            
104
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 6 
51 
 
 

La dimensione di “sposa immacolata dell’Agnello” come appunto sottolinea il Concilio,


alla Chiesa non deriva da se stessa, ma a Lei viene data dal fatto di avere come sposo l’Agnello,
cioè Colui che toglie i peccati del mondo (Gv 1,29). L’opera di Cristo Gesù, come abbiamo già
avuto modo di ricordare, e della Chiesa, da Lui voluta, ha come obiettivo quello di togliere
l’umanità dall’impoverimento del mysterium iniquitatis e portare l’uomo ad essere elevato a quella
vita divina che in Cristo ci rende “santi e immacolati” in virtù dei suoi meriti.
Di questo è importante che ci si renda conto nella vita del singolo credente e dell’intera
Comunità. La Chiesa-Sposa deve costantemente ricercare di nutrirsi e abbeverarsi alle sorgenti della
vita di grazia con quella responsabilità di chi sa che, senza questa, viene a mancare in essa la
“santificazione che Cristo le ha acquistato” (cfr. Ef 5,26). Non basta una partecipazione agli
impegni ecclesiali a livello di coinvolgimento rituale, solidale, organizzativo o cultural-religioso, è
necessario ricercare e vivere in comunione di grazia con Dio, attraverso una tensione di una
profonda unione con Cristo fuggendo la tentazione di una religiosità “fai da te”. E’ doveroso invece
intraprendere un vero cammino di vita interiore secondo le molte spiritualità, di diverso sentire, che
lo Spirito ha fatto sorgere nella Chiesa.
Questa attenzione deve essere tra le principali tensioni del singolo cristiano e dell’intera
comunità dei discepoli di Cristo, in quanto l’umanità non è stata creata per il peccato ma, come dice
S. Tommaso, per un fine più alto.105 Certo la colpa adamitica ha minato l’intera umanità in ogni
singolo individuo “che ha causato la privazione all’istante della santità e la giustizia… a causa di
questo peccato di prevaricazione [Adamo] è incorso nell’ira e nell’indignazione di Dio e perciò
nella morte… e con la morte nella schiavitù di colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo (Eb
2,14); e tutto Adamo fu mutato in peggio nell’anima e nel corpo”106. Così descrive le conseguenze
“della trasgressione del comando di Dio” il decreto del Concilio di Trento sul peccato originale. Già
il Sinodo di Cartagine del 418 e quello di Orange del 529 avevano trattato delle conseguenze per
l’intera umanità del peccato di Adamo.
Vi è da dire che “il peccato di Adamo è uno solo per la sua origine”107, solo Adamo è il
reale “colpevole” ma nella sua posizione di “capostipite” il peccato “è trasmesso, mediante la
generazione e non per imitazione”108, ad ogni appartenente alla natura umana che ovviamente ne
porta, non solo le conseguenze, ma anche la colpa “come propria”109, senza la responsabilità di
averla commessa. Ad ogni appartenente alla natura umana tale colpa è imputata esistenzialmente,
                                                            
105
 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, III, 1, 3, ad 3 
106
 CONCILIO DI TRENTO: Denz.‐Schönm, 1511 
107
 Idem, 1513 
108
 Idem 
109
 Idem 
52 
 
 

impoverendo così l’uomo. Questo comporta il fatto che ogni persona – afferma il Magistero – non
può avere per sé la salvezza con la sola volontà naturale ma ha bisogno del dono di Dio110. La
risposta a questa situazione è una nuova umanità.
L’incarnazione del Verbo è questo Uomo nuovo che ha tolto il peccato per tutti, i cui effetti
saranno però oggettivamente donati a coloro che: accoglieranno il Kerigma e riceveranno il
battesimo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, e si lasceranno convocare quale sua
Chiesa. È dunque Cristo “colui che non aveva conosciuto peccato, e Dio lo fece peccato in nostro
favore” (2Cor 5,21) che può togliere l’umanità da questo “mysterium iniquitatis” ed offrire una
giustificazione che rende l’uomo gradito a Dio e capace di vivere quella positività antropologica,
dove l’unione con lui gli ridona ciò di cui ha bisogno per essere e vivere della santità che Cristo ha
guadagnato per la sua Sposa: la Chiesa. Giustamente ci ricorda S. Leone Magno: “L’ineffabile
grazia di Cristo ci ha dato beni migliori di quelli di cui l’invidia del demonio ci ha privati”111.
Rimane lapidaria l’affermazione dell’Apostolo: “Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia”
(Rm 5,20).
È dovere dunque per la Chiesa e per i singoli battezzati cercare e costantemente custodire
questa unione indissolubile con Cristo evitando di compiere opzioni fondamentali che interrompono
la vita di grazia con il peccato. Si lavora veramente per una umanità nuova se il primo obiettivo per
ogni discepolo di Cristo è quello di affidarsi ad una vera purificazione dall’uomo vecchio e
rivestirsi di quell’abito nuziale per essere dignitosi e graditi “al banchetto delle nozze” (Mt 22,1-
14).
È chiaro che la fragilità, che è propria della natura umana, porterà a delle infedeltà o a
situazioni di peccato. Cristo ha offerto agli Apostoli, il giorno di Pasqua, il potere di rimettere i
peccati. Nella prima predicazione a Gerusalemme a coloro che avevano ascoltato l’Annuncio viene
proprio chiesto questo: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri
peccati” (At 3,19) per formare così quella Sposa resa santa e immacolata dal mistero pasquale di
Cristo, che è morto al peccato, grazie al quale tutti i battezzati devono considerarsi “morti al
peccato” (Rm 6,11) e rivestiti della grazia di Cristo.
Di questo la Chiesa deve rivestirsi ed essere portatrice instancabile. Di questa vera vita di
conversione e profonda unione con Dio deve vivere la Chiesa, per essere l’efficace sposa di Cristo
che l’ha voluta così legata a sé per stupire e indurre l’umanità ad una conversione che “restauri”
l’uomo impoverito e bisognoso di conoscere chi egli è: immagine e somiglianza di Dio che si
rapporta con lui, grazie a Cristo, da Padre affinché si edifichi una fraternità tra tutti gli esseri umani
                                                            
110
 E. MALNATI, L’uomo da impoverito a Redento,  Lugano 2007 p. 61 
111
 S. LEONE MAGNO, Sermones, 73, 4: PL 54, 396 
53 
 
 

ed una figliolanza di grazia nel rapporto con Dio. La Chiesa non deve stancarsi mai di rendersi
bella, cioè ricca di quella carità che è amore di Dio e del prossimo, con una vita “immacolata” per
grazia.

54 
 
 

3.

Il mistero della Chiesa

55 
 
 

Introduzione

Riflettere su “la Chiesa” oltre all’aspetto istituzionale-giuridico, come si è fatto dopo il periodo
patristico dall’alto medio-evo sino all’XI secolo, è divenuto una necessità già a partire dal XVII
secolo, poi con il Concilio Vaticano I ed il Magistero di quel tempo e a partire da questo sino ai
teologi del XX secolo e al Concilio Vaticano II.
Vi è da sottolineare che i primi trattati di ecclesiologia possiamo farli partire dalla bolla di
Bonifacio VIII, Unam Sanctam, contro Filippo il Bello, re di Francia che, oltre a segnare la fine
del medio-evo, afferma la “superiorità” del Pontefice Romano su tutti i poteri cristiani.
Da questo documento del 1300 nel corso di trent’anni vennero pubblicati trenta trattati di
ecclesiologia, ovviamente nello stile istituzionale-giuridico. Si tratta di opere di diritto pubblico
ecclesiastico, più che di elaborati teologici che rafforzano il ruolo dell’autorità del ministero
petrino112.
Significativo di questo periodo è il trattato De Ecclesiastica potestate, dell’arcivescovo di
Bourges, Egidio Romano (1295-1316), dove appunto si sottolinea una ecclesialità giuridico-apicale,
in cui il Romano Pontefice è al vertice di ogni potestà, tanto che egli può essere identificato con la
Chiesa stessa.
Dopo un secolo si darà inizio ad una elaborazione della Chiesa in senso teologico. Sarà la
Summa de Ecclesia (1453) di Juan de Torquemada che darà maggior spazio alla riflessione
teologica anche se non sarà trascurato l’aspetto canonistico113.
Già nel primo libro di quest’opera l’autore dedica alla similitudine Chiesa-Corpo mistico di
Cristo ventisei capitoli, affermando con lapidaria convinzione: “Ecclesia sancta Dei nominata
legitur Christi Corpus”114.
Da lì vi sarà poi tutto un crescendo per cogliere la dimensione della Chiesa mistica in rapporto
al regno di Dio, al progetto divino di realizzare la salvezza e ad offrire l’opportunità all’intera
umanità di tutti i tempi di potersi decidere verso questo progetto-dono.
Il Vaticano II, i teologi della scuola sia romana che di Tubinga ed il Magistero dei Pontefici che
lo hanno preceduto e seguito (Leone XIII con l’enciclica Satis cognitum e Pio XII con la Mystici
Corporis), hanno orientato la riflessione teologica su:la Chiesa-sacramento e su: la Chiesa-Corpo
Mistico.
Presenteremo queste angolature sulla teologia della Chiesa.
                                                            
112
 E.MALNATI, Ecclesiologia.Sviluppo teologico, cit. p.65 
113
 Idem pp 65‐66 
114
 J.DE TORQUEMADA, Summa de Ecclesia, I,346; f.43 
56 
 
 

3.1 La Chiesa e il Regno di Dio

“Il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua stessa fondazione. Il Signore Gesù, infatti,
diede inizio alla sua Chiesa predicando la buona novella, cioè l'avvento del Regno di Dio da secoli promesso
nella Scrittura: « Poiché il tempo è compiuto, e vicino è il regno di Dio » (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo
Regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo. La parola
del Signore è paragonata appunto al seme che viene seminato nel campo (cfr. Mc 4,14): quelli che lo
ascoltano con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo (cfr. Lc 12,32), hanno accolto il Regno stesso
di Dio; poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (cfr. Mc 4,26-29)”115.

Uno degli aspetti importanti del mistero della Chiesa è legato al ministero stesso del Cristo
pre-pasquale. La vita pubblica del Rabbi Galileo è essenzialmente contrassegnata dalla sua
predicazione di cui ci parlano in particolare i vangeli di Marco e di Matteo: “Convertitevi, perché il
Regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17). Il Concilio Vaticano II vede in questa predicazione l’inizio della
Chiesa che ha nell’annuncio della buona Novella “l’avvento del Regno di Dio da secoli promesso
nella Scrittura”116. Con chiarezza senza tentennamenti il Vaticano II sottolinea che: “Cristo, per
adempire la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il Regno dei cieli e ci ha rivelato il mistero di
Lui, che con la sua obbedienza ha operato la redenzione per l’intera umanità. La Chiesa, ossia il
regno di Cristo già presente in mistero, per virtù di Dio cresce visibilmente nel mondo”117.
Il Regno di Dio annunciato dal Rabbi Galileo che “percorreva tutte le città e i villaggi,
insegnando nelle loro sinagoghe” (Mt 9,35), non è un’entità politico-religiosa che si instaura nella
storia con una forma clamorosa ed eclatante (Lc 17,20), infatti non si impone con la violenza, ma
patisce violenza. Il Regno dei cieli predicato da Gesù di Nazaret è un Regno escatologico che, sì,
inizia nel tempo ma avrà la sua piena realizzazione alla fine dei tempi con la Parusia di Cristo. Il
suo carattere è prettamente spirituale e portatore di salvezza.
Il Regno dei cieli predicato dal Rabbi Galileo è una realtà già presente nella storia e non è
ancora completamente realizzato in questa realtà viatoria. La sua forza non è in manifestazioni
visibili bensì, come dice Gesù, “è in mezzo a voi” (Lc 17,21), cioè dentro di voi. Al Regno dunque
ci si avvicina o meglio lo si accoglie con una conversione radicale facendo di Cristo colui che solo
può offrirci salvezza e redenzione. Il Regno di Dio porta l’uomo ad incamminarsi in una via dove
egli si spoglia della sua arroganza e dona a Dio il primato seguendo l’esempio di Cristo che “umiliò
se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fl 2,8). Questo annuncio di
                                                            
115
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 5 
116
 Idem 
117
 Idem n. 3 
57 
 
 

Gesù di Nazaret è il perfezionamento dell’invito del Battista nei confronti di chi a lui andava per
farsi battezzare nel deserto. Si trattava di una sensibilizzazione al cambiamento di vita nella
penitenza e nel segno del lavacro con acqua per saper poi, incontrato il vero Agnello che toglie i
peccati del mondo (Gv 1,29), porsi alla sua sequela dando spazio ad una vita nello Spirito. Infatti il
Battista fa questa testimonianza dell’opera di Cristo: “Ho contemplato lo Spirito discendere come
una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato
a battezzare nell’acqua mi disse: « Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che
battezza nello Spirito Santo »” (Gv 1,32-33).
Il Regno di Dio che Cristo annuncia si differenzia da alcune concezioni messianiche e
movimenti del tempo di Gesù che lo indicano come un evento frutto di una rivoluzione cosmica che
mette fine alla storia con la distruzione di tutte le nazioni: solo Israele sarà glorificato. Questa
prospettiva la troviamo nel libro: L’Assunzione di Mosè, scritto qualche anno prima della nascita di
Cristo. Sul Regno di Dio si sono versati, da parte di esegeti e teologi, fiumi di inchiostro. Vi sono
coloro che sostengono che il Regno di Dio non può esistere assolutamente nella storia118, altri
sottolineano che il Regno di Dio può esistere “connaturalmente” alla storia119, altri che è puramente
escatologico fuori dalla storia. Dagli insegnamenti di Cristo possiamo indicare la caratteristica
interiore e spirituale del Regno già annunciato dai Profeti e resosi “vicino” nella pienezza dei tempi
(Mc 1,15) in chi lo accoglie nella storia ma il regno non è della storia, anzi sarà per essa come il
lievito per la pasta.
Le condizioni per accoglierlo sono: “Convertirsi e credere al Vangelo” (Mc 1,15). Quindi
richiede un tempo di discernimento e di decisione. Questa è la dinamica prorompente nella vita
delle persone che lo accolgono interiormente. Se accolto, il Regno segna una grande rivoluzione
“nell’universo spirituale”120, dice Journet. All’inizio del cammino all’esterno non vi è alcuna
percezione. Certo i suoi effetti che cambiano la vita di chi lo accoglie si faranno sentire e vedere
poi. Il Concilio infatti paragona il Regno di Dio al granello di senape121, il più piccolo di tutti i semi
ma che crescendo potrà offrire tra i suoi rami ospitalità ai volatili (Mt 13,31-32). Anche la realtà
circostante indirettamente verrà coinvolta e trasformata da questo “seme” una volta attecchito nel
cuore e nella vita di chi ha accolto con evangelica radicalità la Buona Notizia. Non si può sottacere
però l’aspetto peregrinante ed escatologico del Regno che Gesù annuncia e che invita ad accogliere.
Nel discorso di Pietro a Pentecoste riportato dal libro degli Atti il Pescatore di Galilea non

                                                            
118
 CH. JOURNET, L’Eglise Sainte, Saint‐Maur 1999 pagg. 221‐230 
119
 Idem pagg. 230‐ 
120
 Idem pag. 249 
121
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 5 
58 
 
 

esita a citare il profeta Gioele indicando la pienezza dei tempi realizzata dall’evento Cristo come gli
ultimi giorni dove lo Spirito di Dio è effuso su “ogni carne” (At 2,17) [su tutti effonderò il mio
Spirito; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno ecc ecc]. Il concetto dell’ultimo giorno riferito
alla pienezza dei tempi con Cristo e dopo Cristo lo troviamo in diversi passi del Nuovo Testamento.
La lettera agli Ebrei inizia dicendo che: Dio avendo prima parlato ai nostri Padri in questi
“ultimi giorni” ha parlato a noi attraverso il suo Figlio: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei
tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a
noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Si legge nella lettera di Pietro che i credenti sono stati
guadagnati da Cristo attraverso il suo sangue prezioso. Gesù “ha svolto la funzione di Agnello puro
e senza macchia, conosciuto fin dalla fondazione del mondo ma rivelatosi alla fine dei tempi …ma
con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già
prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi; …”(1Pt 1,19-20).
Questo è il tempo di grazia a cui bisogna rispondere per accogliere il Regno e saper
affrontare il “combattimento” tra il Regno di Dio e il Regno del Principe di questo mondo.
L’obiettivo è proprio quello, mediante l’opera della Chiesa, di trasfigurare nella luce del Regno di
Dio, mediante la conversione di chi accoglie Cristo, l’umanità e l’universo intero, affinché quando
giungerà la Parusia tutto sia ricapitolato in Cristo nuova creazione – come dice Paolo – grazie al
germe di quel Regno fatto crescere con la grazia dello Spirito Santo nel cuore di chi ha creduto e
vissuto secondo i criteri di quel Regno di verità, di giustizia, di amore e di pace122 che è l’adesione a
Cristo nella Chiesa.
Questo è il tempo favorevole dove lo Spirito opera la spirituale trasformazione di chi si è
lasciato coinvolgere dall’annuncio, si è pentito dei suoi peccati e ha ricevuto il battesimo nello
“Spirito Santo” (Gv 1,33). È proprio con la venuta e l’opera del Verbo Incarnato che il Regno di
Dio, già – come abbiamo visto – annunziato dai Profeti, è entrato in quell’ultima fase che avendolo
reso veramente spirituale è divenuto un regno escatologico. Esso è già presente con efficacia nella
storia ma non è ancora giunto alla sua completa efficace realizzazione che va oltre il tempo presente
attraverso un pellegrinaggio che porta l’umanità e la storia all’avvento nella gloria di chi lo ha reso
presente in modo “sacramentale”, cioè efficace, con la sua morte e risurrezione.
Sarà proprio il Cristo glorioso e vincitore sul Principe di questo mondo, a dire: “Venite,
benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”
(Mt 25,34). Il Regno così inteso è e viene opposto alla Geenna, il luogo della morte eterna: “È
meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella

                                                            
122
 Prefazio di Cristo Re 
59 
 
 

Geènna” (Mc 9,47). La stessa prospettiva escatologica va sottolineata per il termine “vita”: infatti
quando si dice nei vangeli che coloro che hanno fatto il bene sorgeranno dalle tombe “per una
resurrezione di vita, e quanti fecero il male per una resurrezione di condanna” (Gv 5,29), si intende
la vita eterna nell’aldilà. Però è doveroso ricordare che l’espressione vita eterna, spesso nel vangelo
di Giovanni, inizia nella realtà viatoria cioè nel tempo presente: “Chi mangia la mia carne e beve il
mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54).
Parimenti troviamo in Paolo che la Chiesa che Cristo ha amato e per la quale è stato
crocifisso, che ha purificata con il battesimo perché Essa fosse davanti a Lui gloriosa e immacolata
(Ef 5,25-27) è certamente la Chiesa presente nella storia ma anche la Chiesa celeste. Il Regno sul
quale, dopo aver vinto l’ultimo nemico che è la morte, il Cristo cominciò già a regnare, ha una fase
nel tempo, perché a Lui sono sottomesse tutte le cose, ed Egli offrirà questa sua signoria e questo
suo regno al Padre che sarà tutto in tutti (1Cor 15,24-28). L’epistola agli Ebrei esorta i cristiani a
orientarsi verso “la città” futura (Eb 13,14) e a loro rammenta che hanno potuto avvicinarsi “alla
città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste (la Chiesa)… e a Gesù mediatore del’alleanza
nuova” (Eb 12,22.24) proprio nel tempo e grazie a Cristo e alla Chiesa.
Certo non possiamo in senso proprio equiparare la Chiesa al Regno di Dio, ma essa
continuando nel tempo l’opera iniziata da Cristo mediante l’annuncio e la conversione offre
all’uomo l’opportunità di fare propri i doni della salvezza e redenzione da Cristo “guadagnati” con
la sua passione, morte e risurrezione. In tal senso il Concilio Vaticano II così si esprime: “La Chiesa
fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e
abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il Regno di Cristo e di
Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l'inizio. Intanto, mentre va lentamente
crescendo, anela al Regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo Re nella
gloria”123.
L’incarnazione del Figlio di Dio ci indica che l’umanizzazione del Regno con i suoi effetti
di conversione e di grazia a vantaggio di tutto l’uomo e di ogni uomo, nel piano di Dio risulta
necessaria. Questo mistero che sana ed eleva l’uomo nella realtà viatoria ha la missione di offrire
una prospettiva escatologica. La Chiesa è nel tempo e nel mondo ma non può esaurirsi né nel tempo
né nel mondo? sensibile. Il Regno che Lei offre con l’Annuncio e i sacramenti, questi segni di un
amore di Cristo, orientano ed elevano l’uomo ad una vita divina il cui fine è vedere Dio come egli è
dopo un pellegrinaggio consumato in Cristo con Cristo e per Cristo.

                                                            
123
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 5 
60 
 
 

3.2 La Chiesa e il mistero della Salvezza

“L'eterno Padre, con liberissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà, creò l'universo,
decise di elevare gli uomini alla partecipazione della sua vita divina, e caduti in Adamo non li
abbandonò, ma sempre prestò loro gli aiuti per salvarsi, in considerazione di Cristo, Redentore, « il
quale è l'immagine dell'invisibile Dio, generato prima di ogni creatura » (Col 1,15). Tutti infatti gli
eletti il Padre fin dall'eternità « li ha distinti nella sua prescienza e li ha predestinati a essere
conformi alla immagine del Figlio suo, affinché Egli sia il primogenito tra molti fratelli » (Rm
8,29). I credenti in Cristo li ha voluti chiamare nella santa Chiesa, la quale, già prefigurata sino
dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del Popolo d’ Israele e nell'Antica
Alleanza, e stabilita negli ultimi tempi, è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà
glorioso compimento alla fine dei secoli”124.

L’apostolo Paolo nella lettera agli Efesini richiama, con semplicità e chiarezza, che coloro i
quali rispondono all’Annuncio e mediante il battesimo e l’opera dello Spirito vengono a costituire la
Chiesa di Cristo, sono stati, in virtù della prescienza di Dio-Padre eletti prima della fondazione del
mondo, quali figli adottivi, per mezzo di Gesù Cristo (Ef 1,4-5). Paolo poi, ci tiene a far conoscere
che cos’è e in che cosa consiste il mistero della volontà del Padre concepito dalla sua infinita
misericordia: “ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra” (Ef
1,10). Questo mistero ovviamente deve essere conosciuto e compreso da coloro che, avendo udito
“la parola della verità” hanno “creduto e ricevuto il sigillo dello Spirito Santo” (Ef 1,13) e sono la
Chiesa di cui Cristo è il capo (Ef 1,22).
Il progetto del Padre, nei confronti della creazione e dell’umanità impoverita dal peccato di
Adamo, ha l’intento di sanare e riscattare ciò che egli ha creato. Il “metodo”, se così possiamo dire,
che egli vuole fare suo è lo stesso di quello da lui usato nella creazione: operare per mezzo del
Verbo. Infatti Giovanni lo sottolinea nel Prologo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso
Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza
di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,1-3). Le missioni divine ab extra sia per la creazione
che quelle della redenzione hanno nel Padre colui che le progetta e vuole. Nella comunione
intertrinitaria vi è il Verbo che si dispone ad essere disponibile, senza perdere la sua distinta realtà di
persona e la sua volontà a realizzare il progetto del Padre, in tal modo ne diventa il tramite
necessario ed unico.
                                                            
124
 Conc Vat II, cost dog Lumen Gentium n. 2 
61 
 
 

Lo Spirito è presenza dinamica perché il progetto salvifico del Padre e l’opera del Verbo
possano offrire l’efficacia per cui sono state volute. È il Verbo l’immagine del Padre. È per mezzo
del Verbo con l’opera dello Spirito, che le cose create sono. È ancora per l’opera del Verbo
incarnato e quindi per la sua presenza nella storia che il piano di salvezza per l’umanità è proposto
dal Padre e realizzato da Cristo che, nell’obbedienza al Padre, ha fatto sì che ogni uomo possa
essere conforme all’immagine sua divenendo Lui primogenito tra molti fratelli “recuperati”
dall’impoverimento della colpa adamitica e “capaci” di scegliere la sequela Christi nella Chiesa.
Il mistero nascosto da secoli è dunque legato, per i suoi effetti sull’umanità, alla
conoscenza di questo disegno salvifico voluto dal “cuore” del Padre e che è a disposizione di ogni
uomo che lo vuole accogliere e sperimentare, sin dalla pienezza dei tempi, dove appunto “Dio
mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la
Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,4-5).
Questo è dunque il mistero che Cristo ha portato nella storia e ha rivelato ai suoi. Ciò non
solo perché i discepoli che Egli ha incontrato nella sua realtà viatoria fossero a conoscenza della sua
missione, ma bensì perché, tramite loro e la presenza nel tempo della Chiesa, tale mistero fosse fatto
conoscere, partendo dal Popolo d’Israele, a tutti i popoli della terra. Il mistero cioè di un Dio
Creatore che in una attenzione paterna si china sull’opera sua e su coloro che ha voluto fossero la
sua immagine e somiglianza tra le realtà create, affinché potessero riconoscere, nella libertà,
l’opportunità di credere all’Amore.
Il Verbo incarnato, Cristo Gesù, è la presenza concreta di questo Amore che “pur essendo
nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come
uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,6-8).
La Chiesa, essendo colei che offre questo mistero agli uomini di tutti i tempi e di tutte le
genti è già presente all’origine del piano di Dio, progettato fin dall’inizio del tempo. La Chiesa è
dunque legata intrinsecamente a questo Mistero essendo essa colei che lo custodisce e lo annuncia
e, in primis, ne è beneficiaria. Il Mistero di Cristo Redentore e la ricapitolazione di ogni creatura in
Lui, nuova Creazione, è sperimentato da ogni persona che si lascia coinvolgere nel mistero di Cristo
che ci comunica la sua santità invitandoci ad essere santi come Dio è santo (cfr. 1 Pt 1,15-16).
La Chiesa è presente nel mistero di Dio: Padre e Figlio e Spirito Santo proprio in ragione
del fatto che essa è il grembo di questa dimensione trasformante e trasformata di una santità che
vuole rendere l’uomo accetto e gradito a Dio stesso, perché in lui il Padre vede l’immagine del
Figlio suo impresso in chi si è unito per fede al mistero del Verbo incarnato che si è consegnato alla
morte di croce per liberare e sanare una natura umana privata della luminosità impressagli dal

62 
 
 

Creatore. Il mistero nascosto da secoli, così necessario per offrire quella santità di Dio all’umanità,
è affidato alla Chiesa che lo dispensa gratuitamente, come lo ha ricevuto, a tutti coloro che si
decidono di fare esperienza nella gestualità sacramentale che Essa ripresenta nei divini misteri della
liturgia. Il Concilio Vaticano II trattando appunto della natura della liturgia la lega strettamente al
mistero del Verbo incarnato ed alla sua missione offerta a “risanare i cuori affranti” (cfr. Is 61,1; Lc
4,18) quale medico di carne e di Spirito, Mediatore tra Dio e gli uomini. Infatti la sua umanità,
nell’unità della persona del Verbo, fu strumento della nostra salvezza. Per cui in Cristo avvenne la
nostra perfetta riconciliazione con Dio, ormai placato e ci fu data la pienezza del culto divino”125.
Questa portata salvifico-misterica che l’umanità gloriosa del Verbo con la sua
obbedienzialità ha offerto alla natura umana, viene appunto ad essere attuata e resa disponibile a chi
a Cristo si accosta attraverso “la liturgia mediante la quale, specialmente nel divin sacrificio
Eucaristico, si attua l’opera della nostra redenzione (cfr. Eb 13,14). Ciò contribuisce in sommo
grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina
natura della vera Chiesa”126.
La liturgia, che ovviamente non è da confondere con una mera ritualità, deve invece essere
come la presenza di Cristo nella sua Chiesa127, che offre, quale tesoro di grazia e di santificazione, il
mistero pasquale consumatosi nella sua morte e risurrezione e nella sua gloriosa Ascensione128, di
cui i sacramenti sono segni efficaci. Sottolinea il Concilio che “la liturgia è ritenuta come l’esercizio
del sacerdozio di Gesù Cristo, in essa per mezzo dei segni sensibili, viene significata e, in modo ad
essi proprio, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal Corpo Mistico di Gesù
Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale. Perciò ogni celebrazione
liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa è azione sacra per
eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa, allo stesso titolo e allo stesso grado, ne uguaglia
l’efficacia”129. Vista così ogni azione liturgica diviene l’occasione da non perdere e da vivere con
intensità come il “culmine e la fonte verso cui tende l’azione della Chiesa”130 come è stato per
l’umanità il mistero Pasquale di Cristo dal quale è sgorgata la redenzione e la salvezza grazie al
sangue di Cristo Gesù. L’azione liturgica, per operare gli effetti del mistero che ripresenta, richiede
una pastorale che prepari e disponga i fedeli a rendersi conto di ciò che sono chiamati a vivere e che
cosa deriva a loro con il lasciarsi cogliere dal mistero: “quella santificazione degli uomini e

                                                            
125
 CONC.VAT.II, cost. sulla Sacra Liturgia  Sacrosanctum Concilium n. 5 
126
 Idem n. 2 
127
 (Cfr.) idem n. 7 
128
 (Cfr.) idem n. 5 
129
 Idem n. 7 
130
 Idem n. 10 
63 
 
 

glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come loro fine, tutte le altre attività della
Chiesa”131. Per non sciupare il dono e far sì che possa fruttificare nella vita dei singoli credenti e
dell’intera Comunità “è necessario – dice il Concilio – che i fedeli si accostino alla sacra liturgia
con retta disposizione d’animo, conformino la loro mente alle parole che pronunziano e cooperino
con la grazia divina per non riceverla invano. Perciò i Pastori d’anime devono vigilare attentamente
che nell’azione liturgica non solo siano conservate le leggi che ne assicurano la valida e lecita
celebrazione, ma che i fedeli vi prendano parte consapevolmente, attivamente e fruttuosamente”132.
La Chiesa mentre è nella storia presenza e “deposito sacramentale” del mistero nascosto
nei secoli e rivelatosi e realizzatosi in Cristo, essa stessa è parte di questo mistero. De Lubac
afferma senza tentennamenti: “La Chiesa è un mistero di fede. Non diversamente – dice – dagli altri
misteri, essa supera la capacità e l’acume della nostra intelligenza. Più ancora essa è per noi come la
sede di tutti i misteri”133.Nella mens del progetto salvifico del Dio-Trino da offrire a tutti gli uomini
di tutti i tempi, la Chiesa non può che risultare necessaria a tale progetto, non certo per virtù propria
ma ovviamente in virtù dei meriti di Cristo. Infatti il Concilio così lo sottolinea: “Come Cristo ha
compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a
prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza”134. La Chiesa nella storia
offre i frutti della salvezza e in tal senso ne diviene necessaria. “[Cristo] stesso, inculcando
espressamente la necessità della fede e del battesimo, ha insieme confermato la necessità della
Chiesa, nella quale gli uomini entrano con il battesimo come per una porta”135. La Chiesa con la sua
identità di – come afferma De Lubac – sede di tutti i misteri svela e realizza per l’intera umanità il
mistero dell’amore di Dio che è Cristo via verità e vita (Gv 14,6 ) ed essa stessa viene costituita
“sacramento universale di salvezza che svela e insieme realizza il mistero dell’amore di Dio verso
l’uomo”136.

                                                            
131
 Idem 
132
 Idem n. 11 
133
 H. DE LUBAC, Meditazioni sulla Chiesa, Milano 1979 p. 7 
134
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 8 
135
 Idem n. 14 
136
 CONC.VAT.II, cost past Gaudium et Spes n. 45 
64 
 
 

3.3 La Chiesa: Corpo di Cristo

“Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e
risurrezione, ha redento l'uomo e l'ha trasformato in una nuova creatura (cfr. Gal 6,15; 2Cor 5,17).
Comunicando infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che
raccoglie da tutte le genti”137. “La Chiesa santa e cattolica, che è il Corpo Mistico di Cristo, si
compone di fedeli che sono organicamente uniti nello Spirito Santo da una stessa fede, dagli stessi
sacramenti e da uno stesso governo”138. “Capo di questo corpo è Cristo… Egli è il capo del corpo
che è la Chiesa”139.

La consapevolezza che la Chiesa è il Corpo Mistico di Cristo la troviamo già nei Padri. S.
Agostino infatti in un suo Sermone si chiede: che cos’è la Chiesa? E risponde: il corpo mistico di
Cristo140, sottolineando così il rapporto tra il Cristo glorioso e i battezzati ai quali è comunicata la
vita divina resa dinamica dallo Spirito Santo che è fonte di unità verticale e orizzontale: cioè con
Dio e con i fratelli. Per Agostino vi è un modo concreto per “saldare” questa Koinonìa tra Cristo
Capo e le membra del Corpo Mistico: l’unità sacramentale. Questa avviene quando i battezzati si
lasciano adunare visibilmente in un solo corpo (1Cor 10,17) nell’assemblea eucaristica141. Infatti
“l’accostamento dell’unione somatica con Cristo nell’Eucarestia, quale sua espressione
sacramentale visibile ed efficace, lega la dottrina agostiniana a quella di Tertulliano e Cipriano”142.
Vorrei ricordare anche la convinzione di Leone Magno nei confronti della Chiesa quale
Corpo di Cristo e lo fa con chiarezza quando esorta alla umana solidarietà ed alla cristiana carità
verso gli indigenti. Queste sono le sue parole: “Dovete provvedere, mossi da un sentimento di
universale benevolenza, a tutti gli indigenti, ma in modo speciale dovete ricordarvi di coloro che,
come membri del Corpo di Cristo, sono a noi strettamente congiunti nell’unità della fede cattolica.
Dobbiamo infatti molto di più ai nostri fratelli per la comunione di grazia, di quel che
dobbiamo agli altri per la compartecipazione di natura”143. L’idea che Leone Magno ha di Chiesa
Corpo Mistico è che essa deve essere edificante sì nella Koinonìa ma mai a scapito della fedeltà alla
verità. In questo senso Papa Leone presenta l’oneroso ma doveroso ministero della Chiesa di Roma

                                                            
137
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 7  
138
 CONC.VAT.II, decr  Orientalium Ecclesiarum n. 2 
139
 CONC.VAT.II, cost dog  Lumen Gentium n. 7 
140
 S. AGOSTINO, Serm. 45 
141
 (Cfr.) S. AGOSTINO, Serm. 272 
142
 E. MALNATI, Ecclesiologia, sviluppo teologico, cit  p. 39 
143
 S. LEONE MAGNO, Serm, 89, 1 
65 
 
 

sia di provvedere alla rimozione anche dei Pastori sostenitori di dottrine erronee sia di nominare
vescovi fedeli alla verità cattolica. Ciò è da lui bene sottolineato nella lettera all’Imperatore
Marciano144.
Durante l’arco della storia della teologia la concezione di Chiesa Corpo di Cristo sarà
sempre presente ma cederà il passo alla concezione che già fu di S. Ambrogio della Chiesa-Societas
o Chiesa-Città di Gerusalemme145 cioè ad una ecclesiologia “politica” e non “somatica”. Anche il
Concilio Vaticano I che pur nello schema De Ecclesia del 21 gennaio 1870 presentava la nozione di
Chiesa-Corpo Mistico scarterà questa e privilegerà quella di societas perfecta fortemente sostenuta
dal vescovo di Orléans Dupanloup in quanto l’immagine di Chiesa-Corpo Mistico “sembrava
astratta e mistica per poter realmente rafforzare la struttura ecclesiastica come appunto si chiedeva
al Concilio di fare”146. Saranno poi le scuole teologiche e i vari teologi come Wilhelm Wilmers147,
Tillmann Pesch148 e Camillo Mazzella 149
che creeranno quel clima teologico grazie al quale il
Magistero si pronuncerà con le encicliche: Satis Cognitum del 1896 di Leone XIII e la Mystici
Corporis del 1943 di Pio XII.
Prima del Concilio Vaticano II abbiamo De Lubac, con l’opera Corpus Mysticum150 e poi
con Meditazione sulla Chiesa al cap. quattro che delinea la sua tesi sulla Chiesa-Corpo Mistico.
Egli, facendo tesoro delle due encicliche sopra citate approfondisce l’identità del concetto di
Chiesa-Corpo Mistico di Cristo. Questo lo fa agganciandosi al fatto che il termine corpo mistico è
entrato nel linguaggio dei filosofi151. Egli infatti fa in modo che l’aggettivo “mistico” faccia proprio
anche qualche cosa del concetto di “mistero”; questo non inteso nel senso di invisibile, bensì come
“realtà divina e nascosta” che indica in modo inequivocabile quella Chiesa che è nella teologia di
Paolo il Corpo di Cristo.
Chiariti i termini della questione, è evidente che l’approfondimento teologico
dell’immagine paolina non può che accostarsi al “realismo” espresso anche nei confronti
dell’Eucarestia. Come l’Eucarestia è Corpo di Cristo, così lo è la Chiesa. Una dimensione realistico
misterica che può essere sufficientemente espressa con il termine ‘mistico’ come l’abbiamo
presentato sopra. Per comprendere a fondo la Chiesa nell’accezione di mistero storicizzante la
salvezza realizzata da Cristo, De Lubac giustamente si rifà al passo di Paolo nella prima lettera ai

                                                            
144
 S. LEONE MAGNO, Epistola 130, 1 
145
 S. AMBROGIO, Exameron, II, 87‐88 
146
 E. MALNATI, Ecclesiologia, sviluppo teologico,  cit. p. 84  
147
 Idem p. 92 
148
 Idem 
149
 Idem p. 93 
150
 H. DE LUBAC, Corpus Mysticum, L’Eucharestie et l’Eglise au Moyen Age, Paris 1949 
151
 H. DE LUBAC, Meditazione sulla Chiesa, Milano 1979, p. 79 
66 
 
 

Corinzi: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo
all’unico pane” (1Cor 10,17) dandoci così la testimonianza che già nella Comunità sub-apostolica
l’Eucarestia e la Chiesa sono parte di un solo mistero. De Lubac, riferendosi all’età della Scolastica
e in particolare a Pietro Lombardo nel suo commento al passo della 1Cor 10,17 e alle riflessioni
teologiche di S. Tommaso d’Aquino e a S. Bonaventura, evidenzia come si debba parlare della
Chiesa come Corpo Mistico di Cristo in un contesto eucaristico.
De Lubac insiste nel dire che presentare la Chiesa-Corpo Mistico significa evidenziare,
come nell’Eucarestia, “l’unione indissociabilmente spirituale e corporativa dei membri della Chiesa
con Cristo, presente nel sacramento (come afferma Origene).
La Chiesa è dunque il corpo per eccellenza, il più reale, il più assolutamente vero di tutti. È
il corpo definitivo, in rapporto al quale lo stesso corpo individuale di Gesù, senza togliere nulla alla
sua specifica verità, può essere chiamato ‘corpo figurativo’. Nel linguaggio scolastico è questa la
‘realtà’ del sacramento: res sacramenti. Dopo il signum tantum, dopo la res et signum, questa è la
res tantum, quella che non è più segno di una realtà ulteriore, perché è l’effetto ultimo del
sacramento, res ultima (Lc 22,19)”152. Con questa riflessione teologica estratta dalla teologia
sacramentaria di Tommaso153 e di Bonaventura154, De Lubac dà una solida base alla reciproca
causalità e interdipendenza tra Eucarestia e Chiesa, affermando ciò che poi diverrà pensiero della
teologia del Concilio e post-Concilio: “L’Eucarestia fa la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucarestia”.
Il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium “titolando il primo capitolo De Ecclesia
Mysterio e in esso trattando della Chiesa come Corpo Mistico, indica la volontà di recuperare tutto
il lavoro teologico prodotto in antecedenza su questo argomento e di segnare l’ecclesiologia nella
dimensione teologico-eucaristica, dove anche l’aspetto istituzionale supera la concezione
meramente giuridica, per lasciare il posto all’opera dello Spirito che, ascoltato, dà vita a carismi e
ministeri, tutti necessari per l’edificazione e l’opera della Chiesa nella storia.
L’idea elaborata nel Concilio del Corpo Mistico è una grande svolta, in quanto viene messo
in stretta relazione l’aspetto ecclesiologico con quello cristologico e trinitario a favore di una
pluralità di ruoli che vengono mantenuti non a scopo disciplinare, cioè per l’«ordine»
nell’Istituzione, bensì per garantire la communio ab intra ecclesiae nello stile non del «potere» ma
del servizio, al fine di rendere visibile nella storia la comunione intertrinitaria quale esemplarità
economico-salvifica.

                                                            
152
 Idem p. 82 
153
 S. TOMMASO D’AQUINO, In 4 Sent., d. 8, q. 2, a. 1 
154
 S. BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, In 4 Sent., d. 9, a. 2 q. 1 
67 
 
 

La Lumen Gentium che fa suo il criterio paolino di Corpo Mistico, puntando sulla necessità
della comunione tra coloro che, mediante i sacramenti, sono resi conformi a Cristo155; indica
concretamente una priorità nella comunione: quella con Cristo che ci porta a ricercare e a realizzare
in senso esistenziale-teologico quella tra i fratelli.
La dottrina conciliare vede nella reale partecipazione all’Eucaristia la causa efficiente –
potremmo dire – che ci eleva alla comunione con Cristo e tra noi156.
La comunione tra i credenti è necessaria non per la ricerca di un livellamento tra i doni dello
Spirito e i ministeri (quasi a rispondere a un’esigenza sociale di pari opportunità) ma per
riconoscere, apprezzare e facilitare la corresponsabilità per l’Annuncio alla quale tutti – in virtù del
Battesimo – siamo chiamati157.
Coloro che tra i fedeli-cristiani-laici rispondendo alla chiamata dello Spirito sono costituiti,
con l’imposizione delle mani, nel ministero ordinato, lo sono per servire quel sacerdozio comune
che, in virtù dell’incorporazione battesimale a Cristo, sacerdote, re e profeta, fa di tutti noi un
popolo sacerdotale.
Accogliendo e costruendo questa koinonia i battezzati si costituiscono in un solo corpo con
Cristo, per realizzare nella storia quella concreta ed efficace identità che è la Chiesa, luogo di
salvezza per tutti.
L’idea di corpo è dunque importante in ecclesiologia, proprio perché ci permette di
recuperare, nella dimensione salvifica, l’aspetto antropologico nella sua relazione intersoggettiva,
così significativa anche nella lettura delle relazioni tra le Persone divine. Questo va applicato non
solo nella valutazione tra Chiesa e Mondo o tra i singoli credenti, ma va considerato nel suo aspetto
verticale a partire dal rapporto Cristo-Chiesa e capo-membra.
Un rapporto questo che è conditio sine qua non per la realizzazione dello stesso Corpo
Mistico.
Infatti, non esiste la Chiesa quale Corpo di Cristo, se non è comunicato e accolto lo Spirito
del Verbo Incarnato158. Qui è sottolineata la convinzione che la Chiesa non può essere tale solo per
il desiderio di aggregazione di persone che vogliono associarsi e costituirsi in societas perfecta. Si
richiede, invece, essenzialmente la «contemplazione» di un progetto divino, al quale la persona
aderisce e vi si lascia condurre facendo spazio alla novità di vita ricevuta in dono. Tutta l’itineranza
sacramentale è da sintonizzare su questa convinzione personalmente storicizzata.

                                                            
155
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium, n. 7b. 
156
 Ibid. 
157
 Ibid., n. 31. 
158
 Ibid., n. 7a. 
68 
 
 

Non dunque sacramenti come gesti magici, ma «occasioni» volute da Cristo e assunte quali
suoi gesti per comunicare e iniziare quella relazione con il credente che così diviene parte viva del
Corpo Mistico e rende presente, in una realtà spazio-temporale, il Corpo di Cristo grazie
all’accoglienza dello Spirito di Cristo.
Questa tensione comunionale non può che sfociare in quella convinzione propria del
Vaticano II che è l’universale vocazione alla santità per tutti i battezzati159.
Certo anche il concilio sottolinea il valore della scelta radicale di coloro che, seguendo i
consigli evangelici, diventano profezia della tensione escatologica della Chiesa160. Ma ribadisce
inoltre che la Santità è unica per tutti, anche se ciascuno dovrà realizzarla nella propria vita.
Ogni fedele-cristiano sia esso laico, religioso o costituito nel ministero ordinato, vivendo
una profonda comunione di vita con Cristo, il Capo del Corpo, di cui egli è membro, storicizza
quell’«alterità» che Cristo ci ha offerto nel suo insegnamento evangelico, la vocazione alla santità
quale stile di coloro che accolgono il Regno di Dio.
Se unica è la vocazione alla santità e unico è il Corpo di Cristo nella storia, il Vaticano II
sottolinea ripetutamente che unico è lo Spirito che anima tutto il corpo della Chiesa, lo Spirito di
Cristo.
È su questa comunione di identità che si fonda non solo la medesima dignità tra i credenti in
Cristo e la necessaria diversità di funzioni delle varie membra all’interno dell’unico Corpo che è la
Chiesa, ma anche la profonda «solidarietà» che lega a vicenda ogni appartenente al Corpo di Cristo,
in virtù della sua incorporazione cristica: «se un membro soffre, soffrono con lui anche tutte le altre
membra; se uno è onorato gioiscono con lui tutte le altre membra» (1 Cor 12,26).
Contro ogni tendenza individualistica e solipsistica, questa prospettiva mette in risalto gli
aspetti sociali del dogma, perché ciascuno ha bisogno della mediazione di tutti coloro che «sono
stati congregati da tutte le genti»161 per realizzare quella «solidarietà di tutti verso tutti»162 che è la
concretizzazione del desiderio di Gesù: «amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 13,34).
Dall’approfondimento della dottrina del Corpo Mistico nasce l’ecclesiologia eucaristica o della
communio che diviene, come afferma Ratzinger, il vero cuore del concilio.
Tale ecclesiologia che individua nell’Ultima Cena il primo atto di fondazione della Chiesa e
lo lega all’evento pasquale di Cristo quale completamento e novità per un’Alleanza eterna, è il

                                                            
159
 Ibid., n. 40. 
160
 Ibid., n. 44c. 
161
 Ibid., n. 7. 
162
 H. DE LUBAC, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma, Roma 1964, p. 324. 
69 
 
 

criterio fondamentale per la lettura teologica della Chiesa locale. L’Eucaristia diventa in tal modo
quella fonte originante della comunità cristiana già indicata in At 2,42.
Il voler inserire la Chiesa all’interno della concezione del mistero eucaristico, significa
mettersi veramente in una lettura teologica di essa, accettando la dottrina del Corpo Mistico che ci
ricorda che «noi non facciamo la Chiesa», ma che solo lasciandoci adunare dallo Spirito (ecco le
assemblee eucaristiche) «diveniamo e siamo la Chiesa».
Ogni comunità eucaristica, avendo interamente Cristo, è già del tutto Chiesa. Puntare su
questa dimensione significa avviare un discorso ecclesiologico di respiro ecumenico. Infatti, l’idea
di ecclesiologia eucaristica fu espressa per la prima volta nella teologia ortodossa russa dell’esilio,
anche se ancora di sapore apologetico, e non sarebbe neppure lontana dalla «rappresentazione»
protestante della Chiesa, intesa come assemblea che ascolta la Parola di Dio in un determinato
luogo.
È chiaro che l’ecclesiologia conciliare non si accontenta di ciò, ma sottolinea il valore
essenziale per la Chiesa del «ricevere». Cioè del fatto che la fede deriva dall’ascolto e non è frutto
di proprie decisioni o riflessioni. «La fede infatti è “incontro” con ciò che io non posso escogitare o
produrre con i miei sforzi, ma che mi deve appunto – afferma Ratzinger – venire incontro»163.
Questa struttura dell’«incontrare» e del «ricevere» la chiamiamo «sacramento». È proprio in
questa «composizione» sacramentale (ricevere e incontrare) che trova ulteriore rafforzamento il
fatto che la Chiesa «non si può fare» ma solo ricevere dove essa è già realmente presente, cioè nella
Comunità sacramentale del suo Corpo: «Questa è la prima e importantissima cosa che il concilio ha
formulato in unità con i fratelli ortodossi. Ma Egli, Cristo, è dovunque sempre “uno solo” e perciò
io posso avere anche l’unico Signore solo nell’unità che Egli stesso è, nell’unità con gli altri che
sono anch’essi il suo Corpo e che, nell’Eucaristia, lo devono diventare. Perciò l’unità tra le
Comunità che celebrano l’Eucaristia non è un’aggiunta esteriore all’ecclesiologia eucaristica, bensì
la sua condivisione interna: solo nell’unità c’è l’uno. Per questo il Concilio richiama la
responsabilità propria delle Comunità ma esclude ogni loro autosufficienza.
Il Vaticano II porta avanti un’ecclesiologia per la quale l’essere cattolico, cioè la comunione
di tutti i credenti in Cristo di tutti i luoghi e di tutti i tempi, non è un elemento posteriore di tipo
organizzativo, ma grazia proveniente dall’interno e, allo stesso tempo, segno visibile della grazia
del Signore, il quale solamente può dare unità»164 ed edificare il suo Corpo quale luogo dove si
consuma la comunione tra Dio e gli uomini e tra questi come fratelli.

                                                            
163
 J. RATZINGER, L’ecclesiologia..., cit., p. 6. 
164
 idem 
70 
 
 

3.4 La Chiesa, sacramento in Cristo

“Essendo Cristo luce delle genti… questo Santo Concilio… ardentemente desidera con la
luce di Lui, splendente sul volto della Chiesa illuminare tutti gli uomini annunziando il Vangelo ad
ogni creatura (cfr. Mc 16,15). Siccome la Chiesa è in Cristo come sacramento o segno e strumento
dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti
Concili, intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la sua natura e la
sua missione universale”165.

Il Vaticano II, riflettendo sulla natura e missione della Chiesa da Cristo voluta166, sottolinea
quello stretto rapporto Chiesa-Cristo e dice che questa unione è come sacramento o segno e
strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità con tutto il genere umano. Ovviamente si tratta di
una lettura della Chiesa quale continuazione del mistero di Cristo salvatore e redentore nelle varie
fasi della storia, affinché ciò che il Verbo incarnato ha “detto e realizzato” fosse per tutto l’uomo e
per tutti gli uomini. “[Poiché] la Chiesa – dice il Concilio – ha ricevuto l’incarico di manifestare il
mistero di Dio, il quale è il fine ultimo personale dell’uomo, essa al tempo stesso svela all’uomo il
senso della sua propria esistenza, vale a dire, la verità profonda sull’uomo”167.
Come il Verbo incarnato, con la sua presenza nella storia da vero Dio e vero uomo, diviene
– come sottolinea E. Schillebeeckx – il Sacramento dell’incontro con Dio, così la sola presenza
della Chiesa presso i vari popoli diviene ed è questo sacramento dell’incontro tra l’umanità e Cristo
nella sua efficacia per il recupero e la promozione della dignità della persona umana, sia per la sua
realtà etica che spirituale.
Proprio tenendo conto di questo postulato, il Concilio sottolinea che: “la Chiesa [in quanto
presente nella storia con la sua efficacia cristica] può sottrarre la dignità della persona umana al
fluttuare di tutte le opinioni, che per esempio o troppo abbassano il corpo umano o troppo lo
esaltano. Nessuna legge umana vi è che possa porre così bene al sicuro la personale dignità e la
libertà dell’uomo, quanto il Vangelo di Cristo affidato alla Chiesa. Questo Vangelo, infatti, annunzia
e proclama la libertà dei figli di Dio, respinge ogni schiavitù… onora come sacra la dignità della
coscienza e la sua libera decisione, non si stanca di ammonire e raddoppiare tutti i talenti umani a
servizio di Dio e a bene degli uomini, tutti quanti, infine, raccomandando alla carità di tutti”168.

                                                            
165
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 1 
166
 (Cfr.) CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 5; e Decr. Unitatis Redintegratio n. 1 
167
 CONC.VAT.II, cost past Gaudium et Spes n. 41 
168
 Idem n. 41 
71 
 
 

Questa dinamica che potremmo chiamare in gergo teologico-sacramentale, sanante ed


elevante, è propria dell’opera di Cristo. Il fatto che ciò venga riconosciuto alla Chiesa “sacramento
in Cristo” ci spinge ad approfondire tale identità e sottolinearne così la portata salvifica, sia pur
delegata e riflessa, ma pur sempre di una efficacia intrinseca a chi si lascia coinvolgere da quella
comunione con Cristo Parola e sacramento.
In primis si tratta di presentare il concetto di sacramento proprio della teologia nel suo
sviluppo dalla Rivelazione, Tradizione e Magistero. Il concetto teologico di sacramento ha in Cristo
il suo baricentro e la ragion d’essere nella comunione degli effetti della soteriologia progettata dal
Dio Tri-uno a favore di una nuova umanità,resa giusta per grazia. Così infatti recita il Concilio di
Trento nella sua VII Sessione (1547) quale completamento della dottrina della giustificazione, nel
Decreto “De Sacramentis”: “tutti e sette i ‘segni della fede’ detti sacramenti sono stati istituiti da
Gesù Cristo169, nutrono la fede e conferiscono all’uomo la Grazia170.
S. Tommaso d’Aquino, riportando la convinzione di S. Ambrogio, afferma che: “Il Cristo
stesso compie tutti i sacramenti: è Lui che battezza, Lui che perdona i peccati; Egli è il vero
sacerdote che si è offerto sulla croce e per virtù del quale il suo corpo è consacrato giornalmente
sull’altare. Ma non potendo rimanere corporalmente presente a tutti i suoi fratelli, Egli si scelse dei
ministri”171. Tommaso d’Aquino rapporta i sacramenti all’Incarnazione172. “La Grazia, – egli
sottolinea – conferita dai Sacramenti, scaturisce dalla Passione di Cristo (si tratta di un segno
dimostrativo) e orienta il credente verso la pienezza della vita (è un segno profetico)”173. Per la
teologia il soggetto primario dei Sacramenti è il Cristo glorificato che, mediante il suo corpo e il
ministro “adeguato”, si fa presente ed agisce in ogni singolo sacramento. Se i “segni della fede”
sono atti di Cristo, nello stesso tempo però sono anche gli atti qualificanti della Chiesa che diviene
essa stessa luogo in cui i gesti di Cristo si realizzano con l’efficacia salvifica propria. Vi è
ulteriormente da dire che solo mediante questi segni, che la Chiesa storicizza, l’uomo può
ordinariamente incontrare Cristo che, con la sua umanità glorificata, introduce l’uomo nel rapporto
intercomunionale con Dio proprio di un figlio con il Padre. Tommaso d’Aquino dà questa
definizione di sacramento: “Est signum rei sacrae in quantum est sanctificans homines”174. Dunque
i sacramenti sono segni sacri, ma non tutti i segni sacri sono sacramenti. Infatti per S. Tommaso il

                                                            
169
 CONCILIO DI TRENTO: Denz.‐Schönm n. 1601 
170
 Idem n. n. 1605‐1606 
171
 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Contra Gentes, IV, 76 
172
 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., III, Prologo  
173
 E. MALNATI, I Sacramenti, Segni della prossimità di Dio, Milano 2004 pp. 70‐71 
174
 S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., III, 60,2 
72 
 
 

concetto di sacramento include l’effetto cioè la Grazia175. Al segno sono unite le parole, di modo
che parole e segno formano il sacramento che, in quanto simbolo, significa la Grazia e, in quanto
causa strumentale, la produce”176.
S. Bonaventura da Bagnoregio insiste sulla nozione di sacramento come rimedio, dove la
potenza di Dio agisce sotto l’apparenza dell’elemento sensibile. Questa tesi si ricollega a quella di
sacramentum-secretum di S. Isidoro e alle tesi di Ugo di S. Vittore facendo questa sintesi: “I
sacramenti sono segni sensibili istituiti da Dio come medicine, e in cui, sotto l’apparenza di cose
sensibili, operano in segreto la virtù divina; cosicché essi per somiglianza rappresentano, per
istituzione significano e per santificazione conferiscono qualche grazia spirituale, per la quale
l’anima viene guarita dalle infermità dei vizi, e a questo sono principalmente ordinati come a ultimo
fine”177.
Duns Scoto sottolinea la grande importanza del segno a cui corrisponde la comunicazione
della Grazia che – egli ribadisce – è data direttamente da Dio nel momento in cui il sacramento è
celebrato. Egli afferma che la Grazia non è nel sacramento ma nella volontà di Dio178.
In base a quanto abbiamo richiamato circa le caratteristiche essenziali dei sacramenti,
come la teologia li presenta in quanto istituiti da Cristo come segni efficaci per la salvezza,
comunicanti la Grazia, mediante la sua umanità gloriosa e presente nella Chiesa, possiamo
“leggere” la Chiesa alla luce di questa dimensione sacramentale. Infatti come la visibilità di Dio in
Gesù Cristo ha avuto un tempo, per gli uomini del nostro tempo umanamente Gesù è lontano quanto
Dio. Non lo possiamo né vedere né toccare. È la missione della Chiesa quella di prolungare nella
storia quella di Cristo, assumendo la continuità dell’efficacia salvifica del Verbo incarnato nello
svolgersi del tempo.
Questo perché, come afferma il Concilio Vaticano II: “Quando Cristo fu levato in alto da
terra, attirò tutti a sé (cfr. Gv 12,32); risorgendo dai morti (cfr. Rm 6,9) immise negli Apostoli il suo
Spirito vivificatore, e per mezzo di Lui costruì il suo Corpo, che è la Chiesa, quale universale
sacramento di salvezza”179. Che significa allora che la Chiesa è sacramento quando “stricte dicta”
vi è l’istituzione cristica dei sette segni efficaci della grazia appunto chiamati sacramenti?
Potremmo partire da questa verità: come Cristo è per l’umanità e il mondo il sacramento di Dio,
così la Chiesa è per l’umanità e il mondo il sacramento di Cristo. Così sottolinea il Concilio
Vaticano II: “[La Chiesa] per una debole analogia è paragonata al mistero del Verbo Incarnato.
                                                            
175
 Idem III, 60,2 ad 3 
176
 Ide, III, 60 et 62 
177
 S. BONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Breviloquio. P. 6 e 1 
178
 D. SCOTO, In 4 Sent., dist. 1, q. 5 n. 13 
179
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 48 
73 
 
 

Infatti come la natura assunta serve il Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui
indissolubilmente unito, in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito
di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cfr. Ef 4,16)”180. La Chiesa, che con la sua natura
e missione offre l’opportunità a chi si converte e accoglie il Regno di Dio da Cristo annunciato,
viene ad essere la casa o meglio il luogo teologico dove – attraverso la Parola e i segni efficaci della
fede – l’uomo incontra Cristo nuova creazione che lo introduce nel mistero della salvezza. Certo i
sacramenti sono stati istituiti da Cristo ma affidati alla sua Chiesa la quale ne diventa Colei che li
possiede e li offre a coloro che decidono di essere nella storia “in Cristo, con Cristo, per Cristo”. La
Chiesa diviene dunque quella realtà visibile necessaria per ottenere quell’efficacia meritata da
Cristo e consegnata, mediante infusione dello Spirito, alla ministerialità della Chiesa per
comunicare ed offrire la grazia cioè la fondamentale esperienza di salvezza.
La Chiesa, come lo sono i sette sacramenti, è un “segno” che rivela e comunica il mistero
della salvezza. Questa infatti è la sua missione, come fu – in senso di causalità efficace unica –
quella di Cristo. Certo la Chiesa non è un sacramento che viene a sostituirsi a Gesù Cristo. Essa non
è la fonte della Grazia. La Chiesa dipende da Gesù Cristo e ne trasmette la grazia che Lui ha
“guadagnato per l’intera umanità”. Si può però affermare, senza sminuirne o alterarne la natura e la
missione, che Cristo Gesù è il “sacramento del Padre” come la “Chiesa è il sacramento di Gesù
Cristo”. Se volessimo formulare una definizione di Chiesa sacramento potremmo forse così
affermare: la Chiesa è una realtà visibile presente nella storia, che rivela e ripresenta con l’efficacia
della Parola e dei sacramenti, il mistero di salvezza realizzato da Cristo nella pienezza dei tempi,
perpetuandolo e realizzandolo per chi accoglie l’Annuncio e si conforma a Cristo morto e risorto.

                                                            
180
 Idem n. 8 
74 
 
 

4.

Ministerialità per il Popolo di Dio

75 
 
 

Introduzione

Il Concilio Vaticano II dopo aver trattato nel capitolo II della Lumen Gentium della Chiesa
nuovo Popolo di Dio, dove sottolinea l’universalità di questo Popolo181, l’indole missionaria della
Chiesa182, il sacerdozio comune che è proprio di ogni battezzato183, e il rapporto tra la Chiesa e i
cristiani non cattolici184, tratta nel terzo capitolo della ministerialità o costituzione gerarchica della
Chiesa. Il tutto in una lettura di Chiesa comunione e di ministerialità quale servizio nello stile della
diaconia di Cristo. Si tratta di un capitolo che offre una lettura teologica al ministero ordinato
partendo dalla vocazione dei Dodici185 e dalla successione apostolica186 per trattare poi del
sacramento dell’episcopato187 e delineare il ministero dei vescovi con i tre munera dell’esercizio del
ministero episcopale: insegnare188, santificare189 e governare190.
Non viene trascurata la trasmissione dei ministeri: il ministero Petrino e la collegialità
episcopale191. Si tratta di una lettura della ministerialità ordinata o istituita o de facto alla luce dello
stile del Verbo incarnato in una attenzione orientata a comunicare, attraverso la Parola e i
Sacramenti, la comunione con Dio e quella fraternità che poggia in Cristo unico Sacerdote della
nuova Alleanza e pietra angolare – come abbiamo già richiamato – del Nuovo Popolo di Dio. La
Chiesa nuovo Popolo di Dio, guadagnato dalla missione e dal sacrificio di Cristo, non può non fare
riferimento e comunicare ciò che Cristo ha acquistato per donare redenzione e salvezza. La Chiesa
deve poter usufruire di una ministerialità che le assicuri l’efficacia della sua missione e quella
comunione intra-ecclesiale che sia esplicita icona della comunione intra-trinitaria dove vi è eguale
dignità e distinzione di persone ed operazioni. La Chiesa nella sua “costituzione gerarchica” deve
richiamarci nello stile e nell’efficacia, che le viene dall’opera dello Spirito, alla vita trinitaria.
E’ opportuno richiamare anche quella ministerialità che si espleta nelle Chiese particolari,
rendendole “presenza sacramentale” dell’opera di Cristo in un preciso contesto geografico e
culturale.

                                                            
181
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 13 
182
 Idem n. 17 
183
 Idem n. 10 
184
 Idem n. 15 
185
 Idem n. 19 
186
 Idem n. 20 
187
 Idem n. 21 
188
 Idem n. 25 
189
 Idem n. 26 
190
 Idem n. 27 
191
 Idem n. 22 
76 
 
 

4.1 Natura, fine e modalità del Ministero

“Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il Popolo di Dio, ha stabilito nella
sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il Corpo. I ministri che sono rivestiti di sacra
potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al Popolo di Dio, e perciò
hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino
alla salvezza”192.

La natura della ministerialità ordinata (Vescovo, Presbiteri, Diaconi) è legata – come


afferma il Concilio – alla volontà di Cristo di preoccuparsi e occuparsi di coloro che avendo accolto
l’Annuncio e aver ricevuto il Battesimo (Mt 28,19) vengono a essere costituiti quali membra vive
del suo Corpo Mistico che è la Chiesa, nuovo Popolo di Dio adunato dallo Spirito Santo (At 2,17).
È Cristo dunque che avendo scelto i Dodici (Mc 3,13-15) e avendo chiesto, dopo la sua
Resurrezione e Ascensione, che rimanessero a Gerusalemme per la teofania efficace dello Spirito
(At 1,4-5) che li avrebbe rinfrancati nella fede e resi maestri e testimoni del piano salvifico da lui
realizzato per l’intera umanità.
Essi avrebbero offerto, a coloro che si fossero lasciati cogliere dalla conversione e
dall’evento Cristo, una Comunità, dove attraverso l’Ascolto del magistero degli Apostoli, la comune
preghiera, lo spezzar del pane e la carità fraterna (At 2,42), si concretizzasse quell’Ekklesia da lui
voluta e che si diffondesse in tutto il mondo allora conosciuto. In questa Comunità dei discepoli del
Risorto era necessario che lo Spirito di Cristo guidasse il nuovo Popolo di Dio. La ministerialità
cristiana ha origine dall’iniziativa di Cristo Gesù, come la Chiesa stessa. Ciò è evidente già nella
fase pre-pasquale, come abbiamo già accennato – nella scelta dei Dodici da parte del Rabbi. Questo
stile cristico è già presente nel collegio apostolico e in Simon Pietro che dopo la Resurrezione e
Ascensione di Cristo volle ricomporre il numero del “collegio” dei Dodici voluto dal Maestro con
l’elezione di Mattia (At 1,15-26).
L’iniziativa di Cristo Gesù non è arbitraria e meramente umana. Essa è parte di un progetto
che porterà al Popolo della nuova Alleanza ed è suffragata dall’azione dello Spirito che donerà ai
Dodici la forza di essere testimoni di Cristo “fino ai confini della terra” (At 1,8). Sarà poi la
dinamica presenza dello Spirito del Padre e del Figlio che renderà efficace ogni gestualità
sacramentale del ministro ordinato dall’epoca apostolica sino ad oggi. Questo è evidente
nell’incontro post-pasquale di Cristo con gli Undici nel Cenacolo: “Ricevete lo Spirito Santo. A
                                                            
192
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 18 
77 
 
 

coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno
perdonati” (Gv 20,22-23).
Dagli scritti paolini risulta poi con evidente convinzione che ogni ministero è un dono fatto
dallo Spirito alla Chiesa, molto più importante del dono delle lingue e di quello di fare miracoli.
Questo perché il ministero ordinato è conditio sine qua non per l’edificazione della Comunità, la
crescita della Chiesa e la santificazione, con i sacramenti, del Popolo di Dio. L’affermazione della
Scrittura che ogni ministero è un dono fatto dallo Spirito Santo ad un membro della Chiesa, non per
lui stesso ma per il bene dell’intero Popolo di Dio, è di capitale importanza in quanto sottolinea che
la scelta viene dallo Spirito e interpella la libertà del soggetto.
Il carattere “carismatico” di un ministero conferma la sua indole “funzionale”, cioè che
nella comunità del Risorto non si è ministri per sé, ma per la Comunità e la santificazione dei
singoli battezzati. Ciò implica per la Chiesa un prendere atto che non è Essa che crea i suoi ministri,
ma ad essa spetta solamente di riconoscere, mediante il discernimento ecclesiale, coloro ai quali lo
Spirito comunica il suo dono per il bene della Comunità cristiana e la testimonianza per il mondo.
Questo è il compito della Chiesa e l’identità del ministro come la apprendiamo dalla bocca di Pietro
che ricorda al candidato al ministero che dovrà essere “ripieno di Spirito Santo” (At 6,3)”193. La
natura del ministero cristiano nella sua dimensione ontologica possiamo evincerla anche dalla
duplice designazione che S. Agostino dà del ministro ordinato. Egli infatti chiama il Vescovo e il
Presbitero: “Servus Dei” o “Servus Christi”.
Vi è dunque una relazione di dipendenza del ministro da Dio e da Cristo. Il termine servo
infatti indica una persona che è legata a colui per il quale ella svolge un ruolo, un compito o un
servizio. Uno è servo in relazione ad un altro. Se il ministro ordinato o l’apostolo viene definito
come servo di Gesù Cristo, ciò significa che la sua esistenza è determinata dal legame con Cristo e
la sua natura e dignità è data dal fatto che egli è al servizio di Cristo e quindi parla e agisce in nome
Suo che vuole poter, quale Pastore, provvedere alla sua Chiesa, nutrendola della Parola di verità e
dei sacramenti quali mezzi di grazia necessari a realizzare l’uomo nuovo, frutto della redenzione.
Essere inserito in Cristo Capo e Pastore mediante il sacramento dell’Ordine significa essere
a servizio del Corpo di Cristo che è la Chiesa e di ciascuno dei christifideles. La finalità del
ministero ordinato è quello di essere a servizio della nuova Alleanza. Così infatti sottolinea
l’apostolo Paolo: “[Cristo] ci ha resi capaci di essere ministri di una nuova alleanza, non della
lettera, ma dello Spirito” (2Cor 3,6). Ciò implica che il ministro ordinato della Comunità del
Risorto deve servire la nuova Alleanza ripresentando l’opera e l’efficacia di Cristo – Capo e Pastore

                                                            
193
 E. MALNATI, I Ministeri nella Chiesa, cit, p. 148 
78 
 
 

nella dimensione sacramentale dell’amore che è conversione e missione, nella duttilità a quella
ministerialità che, dalla successione apostolica con l’imposizione delle mani nel sacramento
dell’Ordine fa di un battezzato – che è già alter Christus – un ambasciatore, un servo di Cristo per il
Regno di Dio e gli dà “potestà” sul Corpo di Cristo (Eucarestia e Chiesa).
Ogni ministro ordinato realizza nella Chiesa e per essa l’autorevolezza e l’autorità di
Cristo. “La terminologia del Nuovo Testamento è eloquente e chiara su questo punto: Gesù dona ai
Dodici ‘autorità sugli spiriti immondi’ (Mc 6,7) indicando in tal modo che essi hanno il potere di
agire ufficialmente in suo nome. L’apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinzi, che è tra i
documenti cristiani più antichi, a proposito dell’incestuoso, è ancora più esplicito: «… io assente
con il corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato come se fossi presente colui che ha
compiuto tali azioni: nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati insieme a voi e il mio
spirito, con il potere del Signore nostro Gesù, questo individuo sia dato in balia di satana per la
rovina della sua carne, affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore»
(1Cor 5, 3-5). È in nome di Cristo che si corregge e si annuncia”194.
Il Concilio Vaticano II trattando dell’autorità con cui il Vescovo successore degli Apostoli
pasce e governa la sua Chiesa (particolare), così recita: “I Vescovi reggono le Chiese particolari a
loro affidate come vicari e legati di Cristo, col consiglio, la persuasione, l’esempio, ma anche con
l’autorità e la sacra potestà… Questa potestà, che personalmente esercitano in nome di Cristo, è
propria, ordinaria e immediata”195 e continua affermando che i Vescovi: “esercitando il loro potere,
secondo la loro parte di autorità, esercitano l’ufficio di Cristo, Pastore e Capo”196.
È dunque convinzione teologica suffragata dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione e dal
Magistero che “l’attualizzazione e l’esercizio dell’autorità di Cristo vengono tramandati da vari
soggetti nella Chiesa, che sono resi partecipi della consacrazione e della missione di Cristo per
mezzo degli Apostoli e i loro successori e che a loro viene legittimamente affidato il ministero
ecclesiastico di – come ricorda il Concilio – istituzione divina”197.
Se i ministri ordinati esercitano l’autorità per mandato e in nome di Cristo, allora gli altri
membri della Chiesa debbono riconoscerli e accoglierli come tali. Questo è anche il pensiero del
Rabbi Galileo riportato dall’evangelista Matteo (Mt 10,40) e lo vediamo realizzato nelle primitive
comunità cristiane. Paolo ne dà testimonianza nella sua lettera ai cristiani della Galazia: “ E quello
che nella mia carne era per voi una prova, non l’avete disprezzata né respinta, ma al contrario mi

                                                            
194
 Idem, pagg. 159‐160 
195
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 27 
196
 Idem n. 28 
197
 Idem 
79 
 
 

avete accolto come angelo di Dio, come Cristo Gesù”( Gl 4,14). Il Magistero conciliare, facendo
propria questa mens, non esita a ricordare all’intero popolo di Dio e a ciascun battezzato, dopo aver
ricordato ai Pastori i loro doveri nei confronti dei fedeli, che essi “debbono con cristiana obbedienza
abbracciare prontamente ciò che i Pastori, quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono come maestri
e rettori della Chiesa”198.
Ovviamente il “ministero dell’autorità” nella Chiesa deve rispondere alla custodia del
“depositum fidei”, alla realizzazione della Koinonìa ab intra Ecclesiae avendo per obiettivo l’offrire
nella verità e nella carità quella santificazione dei battezzati e la concreta realizzazione del Piano di
Dio come indicato dall’apostolo Paolo: “ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei
cieli e quelle sulla terra” (Ef 1,10).
Questa ministerialità che comprende il costante impegno o – come dice Papa Francesco –
lo zelo pastorale anche di edificare nella verità e nella carità le Comunità cristiane ci è suggerita
dalle indicazioni paoline che troviamo nella sua prima lettera ai Tessalonicesi quando senza
esitazioni ci fa comprendere che è dovere dei Pastori correggere ed educare alla vita di fede ed alla
sequela di Cristo. Così viene indicato da Paolo: “Vi esortiamo, fratelli: ammonite chi è
indisciplinato, fate coraggio a chi è scoraggiato, sostenete chi è debole, siate magnanimi con tutti.
Badate che nessuno renda male per male ad alcuno, ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti”
(1Ts 5, 14-15).
Il ministero, sia quello di insegnare e governare e anche quello della correzione fraterna
deve essere esercitato nello stile del servizio e non certo come un potere199. La distinzione tra
servizio e potere per il ministero cristiano è da ricercarsi “nell’identità stessa del ministero che, in
quanto dono per l’edificazione della Chiesa, è accolto ed esercitato non come una potestà, ma come
una risposta-dovere affinché lo Spirito, suo tramite, renda efficace questa presenza salvifica, per la
stabilità della comunione nelle comunità cristiane. Se dunque i ministri assicurano una funzione
nella Chiesa, che risponde a un dono dello Spirito e nello stesso tempo di Cristo servo, ne consegue
allora che coloro i quali hanno tale compito non devono (considerarsi ed) essere considerati come
dei potenti dominatori, bensì dei fratelli costituiti in autorità che si pongono con responsabilità a
servizio della Comunità nello stile di Cristo... Il potere del ministro non è in sé e per se stesso, ma
trae la legittimazione sia nell’istituzione e fondazione cristica sia nel suo determinarsi come servizio
a favore degli altri membri della Chiesa e della Chiesa stessa”200.
Che il ministero tra i discepoli di Cristo debba essere inteso come servizio lo troviamo

                                                            
198
 Idem n. 37 
199
 Idem n. 24 
200
 E. MALNATI, I Ministeri nella Chiesa,  cit. p. 167  
80 
 
 

nelle parole stesse di Gesù ai Dodici: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti
delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole
diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti.
Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita
in riscatto per molti”. (Mc 10, 42-45)

81 
 
 

4.2 La successione apostolica e la trasmissione del ministero degli episcopi,


dei diaconi e dei presbiteri

“La missione divina affidata da Cristo agli apostoli durerà fino alla fine dei secoli (cfr. Mt
28,20), poiché il Vangelo che essi devono predicare è per la Chiesa il principio di tutta la sua vita
in ogni tempo. Per questo gli apostoli, in questa società gerarchicamente ordinata, ebbero cura di
istituire dei successori. Infatti, non solo ebbero vari collaboratori nel ministero ma perché la
missione loro affidata venisse continuata dopo la loro morte, affidarono, quasi per testamento, ai
loro immediati cooperatori l'ufficio di completare e consolidare l'opera da essi incominciata
raccomandando loro di attendere a tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo li aveva posti a
pascere la Chiesa di Dio (cfr. At 20,28). Perciò si scelsero di questi uomini e in seguito diedero
disposizione che dopo la loro morte altri uomini subentrassero al loro posto. Fra i vari ministeri
che fin dai primi tempi si esercitano nella Chiesa, secondo la testimonianza della tradizione, tiene il
primo posto l'ufficio di quelli che costituiti nell'episcopato, per successione che decorre ininterrotta
fin dalle origini sono i sacramenti attraverso i quali si trasmette il seme apostolico. Così, come
attesta S. Ireneo, per mezzo di coloro che gli apostoli costituirono vescovi e dei loro successori fino
a noi, la tradizione apostolica in tutto il mondo è manifestata e custodita.”201

Il Concilio Vaticano II parlando della missione divina affidata da Cristo ai Dodici da Lui
scelti (Mc 3,13) chiamati “anche Apostoli” (Lc 6,13), e sottolineando che questa missione deve
durare e durerà sino alla fine dei secoli (Mt 28,20),si inserisce nella continuità e fedeltà della
Scrittura, della Tradizione e del Magistero della Chiesa indivisa. Infatti già i Padri Apostolici e poi
tutta la patrologia sia greca che latina ci danno per certa l’autenticità della successione apostolica
che avviene attraverso l’imposizione delle mani (At 6, 8.15-22; 1Tm 4,14; 2Tm 1,6) proprio in
ragione alla fedeltà della istituzione cristica della Chiesa che deve poter essere realizzazione e
ripresentazione dell’opera di Cristo per la salvezza dell’intera famiglia umana.
La successione apostolica nasce con la missione che i Dodici hanno ricevuto dal Risorto
dopo la loro ricostituzione. Infatti prima dell’Ascensione il Cristo li ha inviati in virtù del mandato
che Lui ha ricevuto dal Padre (Gv 20,21), e con la stessa autorità che a Lui conferisce il potere in
cielo e in terra (Mt 18,28), il Cristo lega alla missione degli Undici il diritto-dovere di tramandare
responsabilità, uffici e ministeri come appunto testimonia l’apostolo Paolo: “Io, infatti, ho ricevuto

                                                            
201
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 20 
82 
 
 

dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso” (1Cor 11,23).


Nella Comunità post-pasquale vediamo come gli Apostoli sentono il bisogno di
condividere con altri l’attenzione per le necessità anche materiali a favore dei membri della
Comunità. I Dodici vogliono privilegiare per il loro ministero “la Parola e la preghiera” (At 6, 2-4)
e per provvedere alla carità, per le vedove e le mense, scelgono sette uomini istituendo così – nello
stile di Cristo servo – il diaconato (At 6,2).
Questa decisione di distinguere e quindi “distribuire” la ministerialità con l’istituzione di
un altro “collegio” da parte dei Dodici, indica che vi è nella loro coscienza il fatto di poter e di
dover provvedere ad un ministero che promuova e realizzi quella fraternità e attenzione che il
Maestro ha chiesto ai suoi: “Amatevi come io vi ho amato” (Gv 13,34). Ai Dodici sembra ovvio
fare questa scelta affinché lo stile della diaconia di Cristo non ne abbia a soffrire a scapito di uno dei
criteri di ecclesialità (cfr At 2,42) che è appunto la concreta comunione che deve crescere tra coloro
che hanno scelto Cristo. Già dunque agli inizi della vita dell’Ekklesia, presente a Gerusalemme, vi è
chi si fa carico di compiere delle scelte per garantire una ministerialità plurima, distinta e
complementare: i Dodici. Sono loro che, chiedendo alla Comunità di scegliere sette uomini,
indicano le qualità che questi debbono avere per poter essere poi approvati per il ministero: godere
di “buona reputazione, pieni di Spirito [Santo]e di sapienza” (At 6,3).
Dei sette diaconi conosciamo in specie solo l’operato di Stefano e di Filippo: Stefano che
non si limita al servizio delle mense e alla carità a favore delle vedove (At 6,1) ma predica in
Gerusalemme di convertirsi a Cristo e di aderire alla Ekklesia nuovo Popolo di Dio. Per questo egli
da Erode sarà giudicato e condannato al martirio con la lapidazione (At 6,8 - 7,60). Filippo ci si
presenta quale evangelizzatore della Samaria e della via di Gaza (At 8, 5-40). Viene ospitato da
Paolo a Cesarea (At 21,8). Vi è dunque anche in questo richiamo la sottolineatura della missione
dell’Annuncio che è propria di chi abbraccia la via della sequela Christi e che giustamente il
Concilio Vaticano II dà come mandato battesimale.202
A maggior ragione chi ha un ministero come quello del diacono, pur non essendo inserito
nella ministerialità “del reggere la Comunità” come invece l’Episcopo e il Presbitero, non può
abdicare all’Annuncio e all’offerta del Battesimo (At 8,38). Il diaconato è quel ministero ordinato
che, pur non appartenendo alla ministerialità di Cristo-Capo, richiama a tutto il Popolo di Dio lo
stile del ministero che è appunto quello della diaconia cristica: essere servi per tutelare la fraternità
e la comunione.
Dagli scritti del Nuovo Testamento apprendiamo anche che accanto ai Dodici chiamati

                                                            
202
 (Cfr.) CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 33 
83 
 
 

Apostoli da Cristo Gesù (Lc 6,13) vi sono altre persone come Paolo, ad esempio, che vengono detti
apostoli distinti dai Dodici che hanno un ruolo importante sia nell’Annuncio che nella costituzione e
presidenza di Comunità cristiane. Il libro degli Atti (At 13, 3-4; 14,14) presenta accanto a Paolo,
Barnaba, anch’egli apostolo in quanto inviato dalla Chiesa di Antiochia per la prima missione
cristiana. Tra Paolo e Barnaba non tutto andrà liscio, comunque sia la figura e l’apostolato di Paolo
che quello di Barnaba rimangono luminosi nel quadro della diffusione dell’Annuncio e
nell’edificazione delle Comunità cristiane nell’epoca apostolica.
Nella lettera ai Romani Paolo menziona “Andrònico e Giunia, miei parenti (cioè ebrei) e
compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me” (Rm 16,7).
Non vanno dimenticati gli stretti collaboratori dell’Apostolo delle Genti Sila e Timoteo che già in
Macedonia ed Acaia (2Cor 1,19) portano il nome di apostoli; mentre dalle lettere ai cristiani di
Tessalonica vengono chiamati “apostoli di Cristo” (1Ts 1,1; 2Ts1,1). Paolo chiama Timoteo suo
“collaboratore” in quanto conosce ed esprime fedelmente il suo pensiero (1Cor 4,17) e inoltre ha gli
stessi suoi sentimenti e vuole che i suoi “collaboratori” vengano rispettati come se fosse lui stesso
(1Cor 16,11).
Le lettere paoline ci fanno conoscere gli apostoli delle Chiese che sono incaricati dalla
Comunità a far pervenire “le collette” alla Chiesa di Gerusalemme (cfr 2Cor 8,23). Tra questi
possiamo enumerare anche Epafrodito, che la Comunità di Filippi invia a Paolo (Fil 2,25). Da
quanto abbiamo accennato possiamo a ragione sostenere che sia nella Chiesa di Gerusalemme sia in
quelle ellenistiche vi erano dei credenti che, pur non essendo nel gruppo dei Dodici, vengono però
chiamati “apostoli”. Queste persone non possono essere paragonate ai Dodici che sono in una
posizione unica nei confronti della nascita della Chiesa.
“Ciò che ci può forse aiutare a comprendere l’appellativo «apostolo» in senso lato è lo
sviluppo dello stesso vocabolo che viene dato – nell’ultimo decennio del primo secolo – anche ai
missionari e ad altre persone che si impegnano nell’apostolato, pur non appartenendo ai Dodici.
Nelle opere di Ireneo203 e di Tertulliano204 i settantadue discepoli vengono detti apostoli”205 . Nella
Comunità di Gerusalemme troviamo accanto a Pietro e, dopo la sua partenza, accanto a Giacomo
dei presbiteri (At 21,18) uomini che hanno un ruolo di primaria importanza per la vita di quella
Chiesa. Sono appunto Giacomo e i presbiteri che, assente Pietro, hanno la responsabilità della
Comunità. Ciò che troviamo nel libro degli Atti, anche se con brevi accenni, sembra essere una
testimonianza di Luca nei confronti della continuità a Gerusalemme nel ministero di “guida” tra

                                                            
203
 IRENEO DI LIONE, Adv. haer. II, 21,1 
204
 TERTULLIANO, Adv. Marc. 4,4 
205
 E. MALNATI, I ministeri nella Chiesa,  cit. p. 120 
84 
 
 

Pietro e Giacomo tra gli Apostoli e i presbiteri206.


Anche fuori della Comunità protocristiana di Gerusalemme troviamo gli episcopi e i
presbiteri. A Mileto nella Comunità paolina si citano sia i presbiteri (At 20,17 ) che gli episcopi (At
20,28) senza però sottolineare le differenze tra i due ministeri. Sembra appunto che i termini siano,
per il ruolo, sinonimi. Mentre nella lettera ai Filippesi Paolo saluta gli episcopi come responsabili
della Comunità coadiuvati dai diaconi (Fil 1,1). Le lettere pastorali ci presentano invece un mono-
episcopato (1Tm 3,2; Tt 1,7). Comunque vi è da dire che sembra non esserci da queste citazioni un
chiaro e distinto ruolo tra episcopo e presbitero. Alcuni indicano in 1Tm 5,17 la testimonianza di
una prima differenza tra episcopi e presbiteri. È comunque certo che nelle comunità cristiane
subapostoliche vi è la presenza del ministero dell’episcopo, del presbitero e del diacono con una
elasticità e diversità di mansioni. La successione apostolica e la continuità stabile dei ministeri per
le Comunità sono comuni.
La Chiesa cattolica nel suo Magistero sostiene che la successione apostolica è una verità
riconosciuta e creduta dalla Chiesa sia di Oriente che di Occidente. Questa dottrina è sottolineata in
diversi documenti a partire dal Concilio di Sens con la condanna di alcune posizioni di Abelardo207,
nel Concilio di Firenze208, nella Bolla Exurge Domine di Leone X209, nella XXIII Sessione del
Concilio di Trento210, nella Mystici Corporis di Pio XII211 e nel Concilio Vaticano II212. “Il
Magistero e la teologia cattolica fondano la successione apostolica sulla missione mediante
l’imposizione delle mani… considerata come opus operatum della mediazione sacramentale. Tale
gesto è prettamente biblico e indica, non solo una propiziazione benedicente (Gn 49, 9.14.20) ma
anche un segno di una consegna e di una abilitazione a compiti particolari (Nm 8,10; 11,16; 13,10;
27, 15-23; Dt 35,9).
Mosè infatti impone le mani a Giosuè e ai settanta anziani; il popolo impone le mani sui
leviti; il sommo sacerdote nel giorno del Kippur al capro ecc. Con l’imposizione delle mani Giosuè
diviene la nuova guida del Popolo con gli stessi poteri e lo “spirito di saggezza” di Mosè. Al capro
espiatorio venivano trasferite le colpe del Popolo. I leviti venivano con l’imposizione delle mani
abilitati a svolgere quegli uffici nel culto che erano di competenza del Popolo di Dio. La Comunità
protocristiana di Gerusalemme e i Dodici conoscevano la portata del segno dell’imposizione delle
mani come lo intendeva la tradizione veterotestamentaria. Si trattava di una “trasmissione” di
                                                            
206
 CONCILIO DI SENS,  D.S. 753 
207
 Idem 732 
208
 CONCILIO DI FIRENZE D.S. 1318 
209
 D.S. 1476 
210
 CONCILIO DI TRENTO D.S. 1768 
211
 D.S. 3804 
212
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 20 
85 
 
 

autorevolezza e magisterialità a favore della guida del popolo. Nella Nuova Alleanza questo viene
completato anche inserendo la presidenza nel culto, la guida della Comunità e la “potestà” di
istituire i responsabili delle nuove comunità locali, come ci testimonia la prima lettera di Paolo a
Timoteo. Secondo il Nuovo Testamento l’imposizione delle mani è il mezzo di una trasmissione di
potestà che va oltre il limite materiale della potestà rabbinica, e va vista come il tramandare della
missione cristica per un ministero a beneficio del Popolo di Dio. L’imposizione per un ministero è
altra cosa della impetrazione comandata dal Risorto sugli ammalati assicurandone la guarigione (Mt
16,18) o quelle imposizioni impetratorie fatte da Pietro e Giovanni in Samaria (At 8,17) o quelle di
Paolo nei confronti dei discepoli di Efeso (At 19,6).
Per la trasmissione di un munus ministeriale si può fare riferimento all’imposizione su
Saulo e Barnaba ad Antiochia (At 13,3) e a quella di Paolo nei confronti di Timoteo e Tito (1Tm
4,14; 2Tm 1,6), dove l’apostolo prevedendo l’impossibilità sua a raggiungere le Chiese da lui
fondate, impone loro le mani con il collegio dei presbiteri. Timoteo e Tito non dovranno solamente
conservare il depositum fidei (1Tm 1, 3-7), ma anche assicurare la continuazione dell’opera
apostolica, istituire dei presbiteri locali (Tt 1,5) usando una autorità superiore ad essi annunciata (Tt
1,9; 2, 1-15).
Vi è da dire che l’imposizione delle mani per gli episcopi già nella Chiesa subapostolica,
pur ricevendo la successione apostolica, non possono essere storicizzatori del primo ruolo
apostolico che è irripetibile per i Dodici in quanto strettamente legato alla rivelazione e
all’ispirazione che si conclude, nella sua fase storico-evolutiva, con gli Apostoli213. Infatti la
teologia e la Tradizione sia della Chiesa d’Oriente e di quella Latina, affermano che “la Rivelazione
si chiude con l’ultimo degli Apostoli, proprio perché il rapporto che ebbero con il Verbo della Vita”
fu un legame tra Lui e i Dodici in quanto persone che storicamente stettero ed ebbero l’esperienza
della sua compagnia.
Gli episcopi però sono veri successori dei Dodici, anche se non sul piano – come dice
Congar – della assoluta parità, ma quali continuatori, riconosciuti, del ruolo di maestri, pastori e
guide di una Chiesa. “La loro autorità teologico-ecclesiale deriva proprio da questa successione,
relativa ad una autorità di ministero ordinato: alla guida, alla edificazione delle comunità (nel senso
di discernere i carismi per il bene della Chiesa), all’Annuncio, alla fractio panis e alla santificazione
del popolo di Dio. Autorità questa che ad essi deriva da quella degli Apostoli (Mt 28, 18-20), i quali
furono gli autori di tale ministero [che a Cristo risale] confermando in essi i primi loro successori…

                                                            
213
 Cfr. Y. CONGAR – P. ROSSANO, Proprietà essenziali della Chiesa, in Mysterium Salutis, vol. 7 Brescia 1972, p. 651 
86 
 
 

Sono anch’essi però sottoposti alla Tradizione…”214


È doveroso chiederci: in che cosa consiste o quali sono gli elementi che costituiscono
formalmente la tradizione apostolica? Stando alla Sacra Scrittura e in particolare al pensiero di
Paolo (2Tm 2,2) possiamo dire che la successione apostolica si fonda anzitutto sul conservare
integra la vera dottrina, appresa dagli Apostoli, essere maestri di fede nella sequela di Cristo con la
vita e la predicazione215 e succedere in un ruolo di guida in una Comunità cristiana. Le potestà della
successione vengono trasmesse, come abbiamo sottolineato, mediante l’imposizione delle mani216
che fa del soggetto un membro del Collegio episcopale e quindi un successore degli Apostoli nel
ministero ordinato come episcopo di quella Chiesa particolare. Ciò però richiede una comunione
con la fede della Chiesa. L’invio nell’antichità di lettere sinodali in occasione dell’elezione di un
episcopo da parte del Vescovo di Roma e degli altri Patriarchi, voleva proprio significare la
comunione dell’eletto con la fede di tutta la Chiesa.
Mi sembra opportuno qui richiamare che “la successione apostolica – come afferma J.
Ratzinger – non è un potere puramente formale, bensì una partecipazione alla missione per il
Vangelo”217. È proprio in ragione di ciò che nella Comunità cristiana primitiva il concetto di
successione e trasmissione si compenetrano. Il Concilio Vaticano II presenta e ripropone la
convinzione della Tradizione e del Magistero circa la relazione tra trasmissione e successione218 che
si effettua sul soggetto mediante la preghiera e l’imposizione delle mani.

                                                            
214
 E. MALNATI, I ministeri nella Chiesa,  cit. p. 97‐98 
215
 IRENEO DI LIONE, Adv. haer. III, 3, 1: PG 7, 848  
216
 IPPOLITO DI ROMA, La Tradizione Apostolica, 2 
217
 J. RATZINGER, Les principes de la théologie catholique, esquisse et matériaux, Paris 2005 p. 273 
218
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium nn. 20‐21 
87 
 
 

4.3 Ministeri nella e per la Chiesa particolare

“La Diocesi è una porzione del Popolo di Dio, affidata alle cure pastorali del Vescovo, coadiuvato
dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore, e, per mezzo del Vangelo e
dell’eucarestia, unita nello Spirito Santo, costituisca una Chiesa particolare, nella quale è presente
e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica, apostolica”219.

Qui il Concilio Vaticano II ci sottolinea il valore della Chiesa presente in un luogo, quale
porzione dell’universale nuovo Popolo di Dio che appunto viene chiamata: Chiesa particolare, cioè
presenza dell’ Ekklesia, da Cristo voluta, in una realtà geografico-socio-culturale. È nella Chiesa
particolare infatti che si invera la Chiesa universale in quanto in essa sussiste l’unica Chiesa
cattolica220. Questa porzione del popolo di Dio è costituita da christifideles laici, da battezzati
consacrati nel seculum e nella vita religiosa. Tutti fanno necessario riferimento a quella
ministerialità ordinata, degli episcopi e dei presbiteri che sono costituiti per l’edificazione e il
governo della Comunità con lo stile della diaconia.
Senza la ministerialità ordinata che fa del cristiano, mediante l’imposizione delle mani, una
reale presenza di Cristo – Capo e Pastore, non vi può essere né il perdono dei peccati quale frutto
della conversione accolta, né l’efficacia sacramentale dello spezzar del pane che è quel Corpo di
Cristo che, con la potenza dello Spirito per divino disegno del Padre, fa la Chiesa, né la relazione di
quella carità che evidenzia lo stile di Cristo.
Potremmo dire che è proprio nella Chiesa particolare che appare con speciale evidenza la
necessità e varietà dei ministeri ordinati, voluti da Cristo sia quelli istituiti e attuati dalla Chiesa
antica e conservati sino ad oggi nella Chiesa Orientale e latina221. Vi sono poi i ministeri de facto
come quello del catechista che ha una grande importanza nella trasmissione della fede non solo per
l’iniziazione cristiana. Ogni ministero, sia pur in modo diverso, è ordinato al servizio della
comunione e santificazione dell’intero Popolo di Dio, offrendo e condividendo una sacramentale e
mistica conoscenza di Cristo, un proficuo ascolto della Parola e una forte esperienza di vita interiore
con Dio e di fraternità con ogni battezzato. La ministerialità offerta per la vita della Chiesa
particolare indirettamente ha un risvolto nei confronti della società civile dove la Chiesa particolare

                                                            
219
 CONC.VAT.II,  decr Christus Dominus n. 11 
220
 CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA  n 883 
221
 Dopo il Concilio Vaticano II, Paolo VI con il motu proprio Ministeria Quaedam (15 agosto 1972) rinnova la disciplina 
circa gli ordini minori e  il  suddiaconato. Con il motu proprio Ad Pascendum (15 agosto 1972) stabilisce nella Chiesa 
latina il diaconato permanente. 
88 
 
 

è presente, perché più la Comunità cristiana viene accompagnata ad una vita autenticamente
evangelica, più è presenza riconoscibile di Cristo nel suo contesto storico. La parte preponderante di
ogni Chiesa particolare è formata dai fedeli-laici che nei vari campi: famiglia, lavoro, volontariato,
impegno ecclesiale, impegno socio-politico o nella vita consacrata nel mondo, e nell’arte debbono
poter usufruire della ministerialità e dell’azione pastorale di chi, nella Chiesa, ha un “mandato” per
il ministero. La Chiesa particolare è il luogo dove è percepita e tutelata la comune dignità di ogni
battezzato, è promossa l’evangelizzazione, è garantita la distinzione dei ruoli, onorata la fedeltà al
depositum fidei e promosso il dialogo tra Chiesa e mondo.
A servizio e garanzia di tutto ciò, e di molto altro come il discernimento dei carismi, vi è
particolarmente la ministerialità che realizza la dinamica attenzione di Cristo Capo e Pastore: cioè
quella del Vescovo e dei Presbiteri con Lui. Il sacerdozio ministeriale è voluto e orientato a
beneficio del sacerdozio battesimale comune ad ogni discepolo di Cristo. Vi è una distinzione di
222
carattere ontologico tra i due in ragione proprio del fatto che è il primo a sostenere e, con i
sacramenti offerti, a donare quell’efficacia e maturazione cristica al sacerdozio comune. Sia il
sacerdozio ministeriale che quello battesimale esprimono nella Chiesa particolare un intimo e
necessario rapporto tra pastori e fedeli, impegnati tutti a realizzare sia la comune vocazione alla
santità, sia il Corpo di Cristo che è la Chiesa nella verità e nella carità sia l’annuncio del Vangelo a
tutti senza preconcetti e paure (Ef 4,17).
Il Popolo di Dio, presente in “una parte” geografica della famiglia umana, ha nel suo
“grembo”, grazie alla successione apostolica e alla trasmissione dei ministeri, coloro che espletano
il sacerdozio ministeriale con “la potestà sacra”223 di cui ogni ministero è portatore. La missione
precipua dei ministeri ordinati (come l’episcopato e il presbiterato) è quella di “formare e reggere il
popolo sacerdotale, compiere il sacrificio eucaristico in persona di Cristo offrendolo a Dio a nome
di tutto il Popolo”224. Vediamoli in particolare:

                                                            
222
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium  n. 10 
223
 Idem 
224
 Idem 
89 
 
 

4.3.1 Formare il popolo sacerdotale alla testimonianza evangelica


Già nella Chiesa sub-apostolica noi troviamo che vi è un ministero riconosciuto con il
termine di didascalon, cioè di maestro, distinto da quello dell’episcopo, ma anche l’episcopo è detto
didascalon. Il ministero del didascalon doveva essere abbastanza diffuso se nella lettera di Giacomo
troviamo la raccomandazione che non vi siano troppi didascali (Gc 3,1) e soprattutto che i discepoli
di Cristo non vadano in cerca di “nuovi maestri, che sviino dalla verità” (2Tm 4,3). [Verrà giorno,
infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si
circonderanno di maestri secondo i propri capricci.]
Nella Comunità cristiana tardo-apostolica questo carisma era approvato e, tranne le
eccezioni che abbiamo accennato, ben accolto. L’apostolo Paolo ci fa sapere che chi possiede
questo carisma deve metterlo a frutto affinché “cresca la comunità” (1Cor 14,23) [tutto avvenga per
l’edificazione] e “tutti possano imparare” (1Cor 14,31). Sempre dall’apostolo Paolo sappiamo che
non si tratta solo di un carisma da esercitarsi occasionalmente dall’uno o dall’altro. Paolo ci
riferisce, in tre delle sue lettere, che nella Comunità cristiana esistono delle persone che sono
preposte, in modo stabile, ad espletare questo dono-servizio dell’insegnamento225 e vengono
appunto chiamate Didascali (Rm 2,20; 1Cor 12, 28-29; Ef 4,11). Lo stesso Pastore di Erma cita tale
ministero con l’ufficio dell’episcopo e del diacono.226 Questo titolo viene dato a coloro che hanno
cooperato alla predicazione del Vangelo e hanno sostituito gli Apostoli divenendo apostoli in senso
lato. All’appellativo di apostolo spesso troviamo aggiunto nel Nuovo Testamento anche quello di
didascalo (1Tm 2,7; 2Tm 1,11) indicando in tal modo la pienezza del ministero apostolico ed
episcopale. La testimonianza la troviamo anche negli scritti del Pastore di Erma.227
Per Ignazio di Antiochia i veri maestri del nuovo Popolo di Dio sono gli episcopi228 che non
hanno altra verità che quella del Signore e degli Apostoli.229
Essere maestri nel e per il popolo cristiano è dato a coloro che ripresentano, con la loro
ministerialità, Cristo Capo e Pastore, cioè i vescovi e presbiteri.
Il Concilio Vaticano II ribadisce la dottrina di sempre sul fatto che i Vescovi “nell’esercizio
del loro ministero di insegnare debbono annunciare il vangelo di Cristo agli uomini [quindi al
mondo intero]… invitandoli nella fortezza dello Spirito o confermandoli nella pienezza della fede…
Insegnino quale sia, secondo la dottrina della Chiesa, il valore della persona umana, della sua libertà
e della stessa vita fisica; il valore della famiglia, della sua unità e stabilità, e della procreazione ed
                                                            
225
 (Cfr.) E. MALNATI, I ministeri nella Chiesa,  cit. pp. 120‐121 
226
 ERMA, Vis. III, 5,1 
227
 ERMA, Sim. IX, 15,4 
228
 IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Eph. 16,2 
229
 IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Magn. 6,2 
90 
 
 

educazione della prole; il valore del consorzio civile e delle sue leggi…, il valore del lavoro e del
riposo, delle arti e della tecnica; il valore della povertà e dell’abbondanza dei beni materiali. E da
ultimo espongano come debbano essere risolti i gravissimi problemi sollevati dal possesso dei beni
materiali, dal loro sviluppo e dalla loro giusta distribuzione, dalla pace e dalla guerra e dalla fraterna
convivenza di tutti i popoli.”230
Questa sensibilità, che è propria dei principi della dottrina sociale della Chiesa, i Pastori –
sia vescovi che presbiteri231 – debbono farla conoscere e “farla passare” come attenzione per il bene
delle persone e della famiglia umana perché l’opera dei fedeli laici, presenti e operanti nella realtà
del secolo, possa realmente contribuire a quella promozione e tutela della dignità della persona e del
rispetto del diritto naturale in ogni cultura. Infatti attraverso questa educazione del progetto
antropologico naturale nella sua rispondenza alle vere esigenze esistenziali della persona e della
giustizia e verità delle relazioni tra gli appartenenti alla natura umana sta la vera emancipazione e il
vero progresso per i singoli e l’intera famiglia umana. Anche di questo la Comunità cristiana, i
singoli fedeli debbono essere edotti e spronati dall’insegnamento e dall’impegno formativo profuso
dai Pastori.
Oltre a questa formazione del Popolo di Dio per la missione nel mondo è dovere, di chi ha il
compito di essere maestro, di educare ogni singolo battezzato e l’intera Chiesa particolare alla
conoscenza ed alla testimonianza del patrimonio della fede cristiana. Coloro che sono stati costituiti
mediante “la preghiera e l’imposizione delle mani”, da parte dei successori degli Apostoli, debbono
prodigarsi in tutti i modi perché la fede cristiana sia conosciuta nella sua originalità e verità,
soprattutto da coloro che la hanno abbracciata. È proprio dei Vescovi e dei Presbiteri di “esporre in
modo consono la dottrina cristiana secondo le necessità del tempo in cui viviamo”232. Questa
dottrina – dice il Vaticano II – non solo deve essere difesa da chi è pastore, ma essi “devono
stimolare anche i fedeli a difenderla e propagarla. Tale insegnamento deve essere fatto in modo da
dimostrare la materna sollecitudine della Chiesa verso tutti gli uomini sia fedeli sia non fedeli”233.
Dice espressamente il Concilio che “ai Vescovi [spetta] il dovere di avvicinare gli uomini e
di sollecitare e promuovere un colloquio con loro. Ma perché in questi salutari colloqui la verità
vada sempre unita alla carità, e la comprensione con l’amore, è necessario non solo che essi si
svolgano con chiarezza di linguaggio, con umiltà e mitezza ma anche che in essi ad una doverosa
prudenza si accompagni una vicendevole fiducia”234. Le Chiese particolari debbono essere educate
                                                            
230
 CONC.VAT.II, decr. Christus Dominus n. 12 
231
 CONC.VAT.II, decr. Presbyterorum Ordinis n. 3 
232
 CONC.VAT.II, decr. Christus Dominus n. 13 
233
 Idem 
234
 Idem 
91 
 
 

al dialogo partendo dalla formazione, in questo senso, dei Presbiteri235 e di ogni battezzato, come
appunto chiede Paolo VI nella sua prima Enciclica236 e che il Concilio recepisce con queste parole:
“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti
coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo,
e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”237.
Vi è poi l’impegno da parte di chi è maestro nella Chiesa ad educare “i cristiani che sono
cittadini, dell’una e dell’altra città, di sforzarsi a compiere fedelmente i propri doveri terreni,
facendosi guidare dallo spirito del vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui non abbiamo una
cittadinanza stabile ma che crediamo in quella futura, pensano di poter per questo trascurare i propri
doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli
secondo la vocazione di ciascuno… Ai laici spettano, anche se non esclusivamente, gli impegni e le
attività temporali”238. I Ministri ordinati – afferma il Catechismo – oltre alla formazione alla vita
buona del Vangelo, ed alle virtù cristiane e alla vita sacramentale “sono responsabili della
formazione alla preghiera dei loro fratelli in Cristo. Servitori del buon Pastore [essi] sono ordinati
per guidare il Popolo di Dio alle vive sorgenti della Preghiera: la Parola di Dio, la Liturgia, la vita
teologale, l’Oggi di Dio nelle situazioni concrete”239.
Il Concilio Vaticano II, apertis verbis, indica nei Presbiteri gli educatori alla fede valutando
così l’insostituibile presenza del Presbitero come maestro in una comunità locale, quale è la
parrocchia.
Così recita il Concilio: “spetta ai sacerdoti, nella loro qualità di educatori nella fede, di
curare, per proprio conto o per mezzo di altri, che ciascuno dei fedeli sia condotto nello Spirito
Santo a sviluppare la propria vocazione specifica secondo il Vangelo, a praticare una carità sincera
ed operativa, ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati. Di ben poca utilità sarebbero le
cerimonie più belle o le associazioni più fiorenti, se non sono volte ad educare gli uomini alla
maturità cristiana240.”

                                                            
235
 CONC.VAT.II, decr. Optatam Totius n. 19 
236
 PAOLO VI, enc Ecclesiam Suam n. 5 
237
 CONC.VAT.II , cost  past. Gaudium et Spes n. 1 
238
 Idem n. 43 
239
 CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA  n2686 
240
 CONC.VAT.II, decr. Presbyterorum Ordinis n. 6 
92 
 
 

4.3.2 Reggere il Popolo di Dio


“La consacrazione episcopale conferisce pure, con l'ufficio di santificare, gli uffici di
insegnare e governare, i quali però, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella
comunione gerarchica col Capo e con le membra del Collegio”241.
“I principali collaboratori del vescovo [diocesano] sono i parroci, ai quali come a pastori
propri, è affidata la cura delle anime, in una determinata parte della diocesi, sotto l’autorità dello
stesso vescovo. Nell’esercizio di questa cura religiosa, i parroci con i loro collaboratori devono
svolgere la loro missione di insegnare e di governare in modo che i fedeli e le comunità parrocchiali
si sentano realmente membri non solo della diocesi, ma anche della Chiesa universale”242.
Il nuovo codice di Diritto Canonico pubblicato da Giovanni Paolo II ma già auspicato da
Giovanni XXIII e che recepisce lo spirito dell’ecclesiologia del Vaticano II, trattando della potestà
di governo nella Chiesa così recita: “La potestà di governo, detta anche potestà di giurisdizione, è
nella Chiesa per istituzione divina: ne hanno la capacità, a norma delle disposizioni di legge, le
persone insignite dell’ordine sacro”243.
La guida di una Chiesa particolare da parte dei ministri ordinati: il Vescovo con il suo
Presbiterio, i Presbiteri-Parroci con i loro collaboratori presbiteri, diaconi, laici, deve essere
espletata “in mezzo ai loro fedeli comportandosi come coloro che prestano servizio (Lc 22, 26-27);
come buoni pastori che conoscono le loro pecorelle e sono da esse conosciuti; come veri padri che
eccellono per il loro spirito di carità e di zelo verso tutti; di modo che tutti ben volentieri si
sottomettano alla loro autorità ricevuta da Dio”244. Ciò vale, con competenze diverse, sia per i
Vescovi che per i Presbiteri. Il Concilio pensa e vuole il presbitero-Parroco come, quale principale
collaboratore del Vescovo, guida di una porzione della Chiesa particolare, sotto l’autorità e in
comunione con il Vescovo.245
Il ministero di guida in una Chiesa particolare o in una Comunità parrocchiale ovviamente
non può staccarsi né dalla dottrina né dalle prassi della Chiesa universale. Ciò presuppone che i
Vescovi, in virtù della loro sacramentale consacrazione, siano in gerarchica comunione col Romano
Pontefice e con i membri del Collegio episcopale, esercitino il loro ministero in fedeltà al depositum
fidei e in sinergia con il ministero petrino, a beneficio dell’unità della Chiesa e della fede cristiana
con uno stile di diaconia a servizio del vangelo e della verità sull’uomo. La potestà, che i Vescovi
esercitano in nome di Cristo, a beneficio della comunione e della verità nelle loro Chiese particolari,
                                                            
241
 CONC.VAT II, cost  dogm Lumen Gentium n. 21 
242
 CONC.VAT II, decr Christus Dominus n. 30 
243
 CIC  can. 129 
244
 CONC.VAT II, decr. Christus Dominus n. 16 
245
 Idem n. 30 
93 
 
 

“è propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in ultima istanza sottoposto alla
suprema autorità della Chiesa… In virtù di questa potestà i Vescovi hanno il sacro diritto e davanti
al Signore il dovere di dare leggi ai loro sudditi, di giudicare e regolare tutto quanto appartiene al
culto e all’apostolato”246. Il Concilio indica con chiarezza quello che è lo stile di colui che presiede
e guida una Chiesa o una Comunità: “l'esempio del Buon Pastore, che è venuto per servire e non per
essere servito (cfr. Mt 20,28) e dare la sua vita per le pecore (cfr. Gv 10,11). Assunto di mezzo agli
uomini e soggetto a debolezza, può benignamente compatire a quelli che peccano, per ignoranza o
errore (cfr. Eb 5,1-2). Non rifugga dall'ascoltare i sudditi, che cura come veri figli suoi ed esorta a
cooperare alacremente con lui”247.
Nel governo di una Chiesa particolare, quale aiuto al Vescovo, sono stati istituiti degli
organismi di Comunione come il Consiglio Episcopale248, il Presbiterale che è d’obbligo249 e quello
Pastorale250, nelle Parrocchie sono auspicati i Consigli pastorali251. L’esercizio di governo più
significativo del vescovo per la sua Chiesa particolare è l’indizione e la celebrazione del Sinodo
quale “assemblea di sacerdoti e di altri fedeli di una Chiesa particolare opportunamente
designati…”252. “Il Sinodo diocesano è presieduto dal Vescovo diocesano, che tuttavia, per le
singole Sessioni del Sinodo, può delegare il Vicario generale o un vicario episcopale a svolgere tale
funzione”253. “Nel Sinodo diocesano l’unico legislatore è il Vescovo diocesano, tutti gli altri
membri del Sinodo hanno solo voto consultivo”254.
Ordinariamente il Vescovo espleta la potestà ordinaria di governo attraverso il Vicario
generale che ha potestà ordinaria su tutta la Diocesi255 e i vicari episcopali “ai quali compete ipso
iure la medesima potestà del Vicario generale ma solo relativamente a quella parte di territorio, o a
quel genere di affari, o a quei fedeli di un particolare rito o ceto, per i quali è stato costituito…”256.
“Spetta inoltre al Vescovo diocesano governare la Chiesa particolare che gli è stata affidata,
con potestà legislativa, esecutiva e giudiziaria a norma del diritto. Il Vescovo… esercita la potestà
giudiziaria sia personalmente che mediante il Vicario giudiziale e i giudici…”257.

                                                            
246
 CONC.VAT II,  cost dogm Lumen Gentium n. 27 
247
 Idem 
248
 CIC  can. 473 
249
 Can. 495 
250
 Can. 511 
251
 Can 536 par. 1 
252
 Can. 460 
253
 Can. 462 par. 2 
254
 Can. 466 
255
 Can. 475 par. 1 
256
 Can. 479 par. 2 
257
 Can. 391 par. 1 e 2 
94 
 
 

4.3.3 Compiere il Sacrificio eucaristico


I ministri ordinati come i Vescovi e i Presbiteri hanno il compito specifico di annunciare la
Parola e di offrire alla Comunità cristiana quei mezzi di grazia voluti da Cristo che sono necessari
per realizzare e vivere quella novità esistenziale che il Verbo incarnato ha donato quale nuova
Creazione all’umanità intera. Nella Chiesa particolare questo patrimonio si rende operativo ed
efficace con i sacramenti che hanno il loro apice nella celebrazione eucaristica che è valida ed
efficace grazie alla ministerialità ordinata esercitata dal Vescovo e dai Presbiteri “che sono stati
scelti di mezzo agli uomini e sono stati investiti della loro dignità per gli uomini, in tutto ciò che si
riferisce a Dio, affinché offrano doni e sacrifici per i peccati”258.
La centralità di questo percorso che dona ad ogni appartenente al Popolo di Dio i mezzi per
realizzare la comune vocazione alla santità a cui ogni battezzato deve tendere, è proprio la
celebrazione dell’Eucaristia. Il Concilio infatti esorta i ministri ordinati, Vescovi e Presbiteri,
affinché: “Mettano perciò in opera ogni loro sforzo, perché i fedeli, per mezzo della S.S. Eucaristia,
conoscano sempre più profondamente e vivano il mistero pasquale, per formare un Corpo più
intimamente compatto, nell'unità della carità di Cristo, perseveranti nella preghiera e nel ministero
della parola, pongano ogni loro impegno, perché tutti quelli che sono affidati alle loro cure siano
concordi nella preghiera e frequentino i Sacramenti, crescano nella grazia, e siano fedeli testimoni
del Signore”259.
Lo stretto legame tra eucarestia, vita di grazia, edificazione della Chiesa e unità dei discepoli
di Cristo è una tematica costante che troviamo in tutta la tradizione sia patristica che teologica, dalla
Didaché a Ignazio di Antiochia, da Agostino a Tommaso d’Aquino. Il Vaticano II non poteva tacere
lo stretto legame tra Eucarestia e Chiesa particolare in quanto nella tradizione antica spesso per
l’Eucarestia e la Chiesa si usavano gli stessi termini: Agàpe, Koinonìa, Corpus Christi.
Quando una Comunità celebra, con la presidenza del Vescovo e del Presbiterio, “l’Eucarestia
come evento locale – scrivono Rahner e Ratzinger – non solo si attua nella Chiesa [ la presenza di
Cristo], ma è la Chiesa che, nel significato più intenso, diventa pienamente evento nella
celebrazione locale dell’Eucarestia”260.
L’Apostolo Paolo sottolinea che la Comunità cristiana sussiste in quanto Comunità
eucaristica costituita sul fondamento degli Apostoli per diventare Tempio santo del Signore (cfr. Ef
2, 18-21). Da ciò risulta che Cristo non è presente solo nelle specie eucaristiche per sostenere il
Popolo che Lui ha acquistato al Padre con il sacrificio della croce, ma è anche presente

                                                            
258
 CONC.VAT II,  decr. Christus Dominus n. 15 
259
 Idem 
260
 K. RAHNER ‐ J. RATZINGER, Episcopat und Primat, Friburgo i. Br. 1961 p. 26 
95 
 
 

nell’Eucaristia per vivificare e qualificare la comunione con ogni membro del suo Mistico Corpo,
dando senso e richiamando la Comunità cristiana all’unità nella carità tra tutte le Chiese particolari,
vivendo ed annunciando la comune profezia di fede in Cristo Gesù (1Cor 12,3). Nella Chiesa
particolare, grazie “alle cure pastorali del Vescovo, coadiuvato dal suo presbiterio… e
dell’Eucarestia, è presente e opera la Chiesa di Cristo, una, santa, Cattolica e Apostolica”261.

                                                            
261
 CONC.VAT II, decr. Christus Dominus n. 11 
96 
 
 

4.4 Il ministero di Pietro: trasmissione e successione

Il Concilio Vaticano II così presenta l’istituzione cristica, la perpetuità e la missione del


ministero petrino: “ Gesù Cristo, Pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli
Apostoli come egli era stato mandato dal Padre (cfr. Gv 20,21), e volle che i loro successori, cioè i
vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Affinché poi lo stesso episcopato
fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il
fondamento perpetuo e visibile dell'unità della fede e della comunione. Questa dottrina della
istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del Romano Pontefice e del
suo infallibile magistero, il Santo Concilio la propone di nuovo a tutti i fedeli perché sia
fermamente creduta”262.
Il ruolo svolto da Simon Pietro dopo l’Ascensione del Risorto e il “battesimo nello Spirito
Santo” il giorno di Pentecoste all’interno della Comunità post-pasquale può essere indicato come
quello di un servizio di preminenza, da tutti riconosciuto in vari momenti e testimoniato dal libro
degli Atti. Si veda ad esempio quando a Simon Pietro ci si rivolge per avere una risposta autorevole
(At 2,37ss.; At 3,12; At 4,8; At 5,29); quando giudica situazioni delicate che si erano create
all’interno della Comunità come quella di Anania e Saffira (At 5,1ss.) o di Simone Mago (At
8,9ss.); quando decide l’elezione di Mattia in sostituzione di Giuda (At 10,34ss.); quando interviene
al Concilio di Gerusalemme (At 15,6ss.), dove sono riuniti gli Apostoli e i Presbiteri. Qui Simon
Pietro con autorevolezza riconosciuta “si alza per primo” (At 15,7) [Sorta una grande discussione,
Pietro si alzò e disse loro] sostenendo per i battezzati la libertà della legge mosaica e narrando
quanto egli stesso ha fatto per l’ammissione dei Gentili nella nuova economia salvifica. Poi viene
ascoltato il resoconto di Paolo e Barnaba. Da ultimo, Giacomo, responsabile della Chiesa di
Gerusalemme, ribadendo i concetti di Simon Pietro propone la “clausola” di opportunità per non
dare scandalo agli ebrei in quanto – egli afferma – “in ogni città Mosè ha chi lo predica nelle
sinagoghe” (At 15,21). [Fin dai tempi antichi, infatti, Mosè ha chi lo predica in ogni città, poiché
viene letto ogni sabato nelle sinagoghe].
Questa autorevolezza riconosciuta e ricercata dalla Comunità post-pasquale ha un punto di
qualificazione nel fatto che per la veridicità del Risorto il qualificato teste è Simon Pietro. Infatti
nel racconto lucano dei discepoli di Emmaus (Lc 24,34) gli Undici credono già che il Rabbi è
risorto prima di averlo visto e ne trasmettono la fede ai discepoli di Emmaus affermando che il
Signore è veramente Risorto ed è apparso a Simone.
                                                            
262
 CONC.VAT II, cost dogm. Lumen Gentium n. 18 
97 
 
 

L’apparizione a Pietro è in funzione della fede del gruppo dei Dodici affinché non si
“disperdano”, credano “senza vedere” e sappiano, sulla testimonianza di Simon Pietro, essere
annunciatori della Resurrezione (Lc 24,34). La Resurrezione di Cristo è l’evento caratterizzante la
fede cristiana. Il fatto che gli Apostoli e la Comunità post-pasquale diano credibilità a questo evento
in virtù della testimonianza di Simon Pietro, ciò indica l’autorevolezza che questo Apostolo ha tra i
Dodici e nella Chiesa grazie alla missione data da Cristo al Pescatore di Galilea come la troviamo
nei testi del Primato: confermare i fratelli nella fede (Lc 22,31s); legare e sciogliere (Mt 16,12) e
pascere pecore e agnelli (Gv 21, 15-17).
Le fonti neotestamentarie ci presentano Simon Pietro che per primo, seguito dagli Undici
che ovviamente ne riconoscono il ruolo, è impegnato nella proclamazione del Kerigma proprio a
Gerusalemme e poi spostandosi nelle varie città della Palestina con anche un interessamento
concreto per le modalità di inserimento nella Comunità di Discepoli del Risorto non solo dei Giudei
ma anche di coloro che provenivano dal mondo pagano.
Circa l’impegno missionario di Simon Pietro la Tradizione scritturistica ne attesta l’antichità
da collocare già nel quadro palestinese che è previsto da At 1,8. Se così non fosse risulterebbe: a)
artificiosa tutta la prima parte degli Atti; b) incomprensibile l’autorità di Pietro a Gerusalemme; c)
scarsamente fondato il parallelo Pietro-Paolo in Gal 2, 7-8, che non può essere pensato astraendolo
dallo scarto cronologico della missione ai pagani rispetto a quella tra gli ebrei. Poco probabile
invece è l’esatta storiografia del quadro teologico degli Atti che vorrebbe far risalire a Simon Pietro
la prima evangelizzazione dei Gentili. Nonostante quanto si possa valutare la storicità delle
tradizioni su Cornelio, questo particolare risulta confessionalmente “innocuo”, in quanto suppone
una prospettiva universalistica nella missione del Pescatore di Galilea.
Anche una analisi sommaria, non superficiale però, della Tradizione conferma le grandi
linee dei dati della Rivelazione nei confronti della figura e del ruolo di Simon Pietro nella primitiva
Comunità cristiana. La sua ministerialità e la missione nella Chiesa risultano ben fondate nel
progetto, nell’azione e nelle parole del Cristo pre e post-pasquale.
La missione di Simon Pietro nei confronti degli Apostoli e della Chiesa non deve essere
considerata indipendentemente dalla sua vicenda personale né dalla sua responsabilità per la fede
dei fratelli né dalla sua stessa fede. La posizione di Pietro nella Chiesa non è ben compresa qualora,
contro il dato generale del Nuovo Testamento, viene pensata in uno splendido isolamento.
Il primato di Pietro è in una Chiesa di fratelli responsabili di un’unica missione. Il testo di
Mt 16, 18-19 parla in modo esplicito dei poteri di Simon Pietro e indirettamente della struttura della
Chiesa. Infatti se il Pietro, persona storica, è destinato a scomparire, la sua missione rimarrà per
tutta la durata del Regno di Dio sulla terra. Quindi il ministero petrino acquisisce in rapporto

98 
 
 

all’Ekklesia una dimensione di storicità e di necessità, in quanto ciò è implicitamente ma realmente


collegato sia all’edificazione del nuovo Qahal Jahweh sia alla tutela e promozione dell’autenticità
delle fede. Pur con questo ministero e carisma vi è da dire, suffragati dalla Redazione e dalla
Tradizione, che Simon Pietro, non è la pietra angolare della Chiesa, in quanto questa è Cristo.
Simon Pietro però è la pietra di fondazione ma ne occorrono molte altre per costruire l’edificio ben
compaginato.
Da testi scritturistici riferenti al primato possiamo affermare senza manipolazioni che la
ministerialità di Simon Pietro non è strutturale ma storica. Mi spiego. Egli deve in modo particolare
“aiutare” Gesù Cristo a gettare le fondamenta della Chiesa, ma non è lui la pietra angolare. Però è
lui – afferma anche Cullmann – “l’Apostolo-roccia che a Gerusalemme ha guidato la primitiva
Comunità ed è stato il primo a predicare il Cristo. Non è soltanto l’organizzatore che noi siamo
soliti rappresentarci e che si interessa delle sole questioni pratiche. Il compito di Pietro (nelle origini
della teologia cristiana) è stato certamente più grande di quello che noi siamo generalmente soliti
ammettere”263. Le intenzioni del Rabbi Galileo di fondare una “realtà” duratura – come abbiamo
visto – appaiono dal discorso di Mt 16, 18-19 e dai tanti passi paralleli presenti nel Nuovo
Testamento. Se dunque la Chiesa deve sopravvivere nella storia – secondo la mens Christi – non
può rimanere acefala e disorganizzata. Pertanto quel “confirma fratres” che Cristo dà a Simon
Pietro deve essere una costante per coloro che accoglieranno l’Annuncio e si porranno alla sequela
del Risorto nel Nuovo Popolo di Dio.
La Chiesa nata a Gerusalemme e presente in ogni parte del mondo nelle Chiese particolari,
ha bisogno, per l’unità nella verità e nella comunione verticale o orizzontale, del ministero di
Pietro-roccia come una attenzione costante ed attuale. Durante l’era apostolica questa ministerialità
era esercitata, come abbiamo richiamato, dal Pescatore di Galilea, ma non poteva esaurirsi con il
martirio di Pietro questo ministero, avendo voluto Cristo la Chiesa presente oltre le persone fisiche
degli Apostoli, deve essere presente nella Chiesa di tutti i tempi. Se dunque Gesù Cristo ha voluto la
Chiesa perché fosse quel “luogo teologico” di salvezza per la vita del mondo, la successione e
quindi la presenza del ministero petrino come quello apostolico è intrinseco al mistero della Chiesa
stessa.
Si tratta allora di ben comprendere il ministero e il ruolo di Simon Pietro come “roccia”
sulla quale Cristo, pietra angolare, edifica la sua Chiesa, come “detentore delle chiavi”, come
“primo” che fortifica i fratelli nella fede con il suo carisma, come “pastore” che raccoglie e pasce il
gregge. È evidente che il Nuovo Testamento presenti Simon Pietro quale “figura tipo” del ministero

                                                            
263
 O. CULLMANN, Saint Pierre, Disciple ‐Apôtre – Martyr, Neuchâtel – Paris 1952 p. 60 
99 
 
 

apostolico con una singolare ed unica ministerialità nella Chiesa e per la Chiesa “dischiudendo così
un’ulteriore possibilità di guardare ad un ministero petrino permanente”264, che potremmo
considerare l’“Episcopo” incaricato della Chiesa universale in nome di Cristo “supremo Pastore” e
nello stile di un primato, cioè quel primo singolare tra i Dodici, con ruolo primaziale, inserito nel
Collegio apostolico che ha in sé le Colonne dell’Ekklesia.
Se concordiamo con coloro che sostengono la singolarità e l’unicità del carisma di Simon
Pietro e che il ruolo del Pescatore di Galilea non può essere trasmesso nella sua totalità, siamo
altrettanto convinti però che ciò non esclude la continuazione di un Ministero petrino nella Chiesa
guidata dallo Spirito, fra coloro che continuano la missione apostolica. Tale autorità fu riconosciuta
alla Chiesa di Roma e al suo Vescovo già dai Padri Apostolici, a partire da Ignazio di Antiochia, per
non parlare di quanto possiamo arguire dalla Lettera di Clemente alla Chiesa di Corinto.
Se ci si può trovare in una certa difficoltà nell’indicare come concretamente sia pervenuta
alla Chiesa di Roma tale potestas, non vi è alcuna perplessità invece nel vedere come questa Chiesa
ed il suo Vescovo sono coscienti del “carisma petrino”, lo esercitano ed è a loro riconosciuto dalle
altre Chiese come un dovere-diritto, a beneficio della koinonia interecclesiale, della tutela del
Depositum Fidei e dell’unità.
Tale ministero fu, ed è, esercitato dalla Chiesa di Roma e dal suo Vescovo. Essa è convinta
di essere la sola a possedere un simile ministero265, che le è riconosciuto sostanzialmente ed
apertamente sin dai primi secoli del Cristianesimo anche tra i Patriarchi della Pentarchia, prima
della rottura con l’Oriente266. Tale prestigio nei confronti della Chiesa di Roma e del suo Vescovo,
lo possiamo trovare inoltre nella considerazione che i Padri dei grandi Concili dei primi secoli
avevano anche nei confronti dei suoi legati e dei documenti che esprimevano il punto di vista del
Vescovo di Roma su questioni riguardanti l’interpretazione o la difesa della fede, dell’intera Chiesa
di Cristo.
Nell’antico mondo cristiano non vi era dubbio circa l’importanza della Chiesa di Roma in
rapporto alle altre Chiese particolari, in quanto in essa fu presente e tramandata la testimonianza
degli apostoli Pietro e Paolo, che qualificarono il configurarsi della Comunità cristiana della città
capitale dell’impero. L’importanza della Chiesa di Roma nei confronti delle altre Chiese particolari,
però, non sta nel fatto che questa fosse la Chiesa della sede del potere imperiale, bensì che in essa, e
per essa, si prodigarono i due grandi Apostoli e che Pietro ne fu, anche se non forse il primo, il
                                                            
264
 R. PESCH, Ciò che era visibile in Pietro è passato nel Primato, in Congregazione per la dottrina della fede, Il Primato  
del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa, Città del Vaticano 1998 p. 40 
265
 J.‐M. TILLARD, Chiesa di Chiese, L’Ecclesiologia di Comunione, Brescia 1989, 301. 
266
 H. MAROT, La collégialité et le vocabulaire épiscopal du Ve au VIIe siècle, in AA.VV., La collégialité épiscopale. 
Histoire et théologie, (Unam Sanctam, 52) Paris 1965. 
100 
 
 

responsabile e riconosciuto Pastore della Comunità cristiana di Roma, con tutta quella autorità e
particolarità che gli era propria. In virtù di questa singolare prerogativa petrina alla Chiesa locale di
Roma e al suo Vescovo è riconosciuto il primato e quella singolare autorità apostolica nei confronti
delle altre Chiese particolari anche prestigiose in quanto ad apostolicità.
Si tratta però di un primato legato al “servizio” di koinonia ed esemplarità per tutte le
Chiese, e che costituisce uno specchio dove: «Si vede ciò che si deve vedere in tutte (le Chiese), si
ode ciò che si deve udire in tutte, si celebra ciò che si deve celebrare in tutte, si riceve ciò che si
deve ricevere in tutte, si difende ciò che si deve difendere in tutte. Un solo elemento fa eccezione:
appunto questa funzione di essere in questo modo “prima”... e “memoriale” perpetuo della volontà
del Signore... Tutto ciò essa lo ha da Pietro»267 per realizzare quel confirma fratres che ha Cristo
quale “autore”.
Secondo quanto abbiamo accennato, il Vescovo di Roma, perché Vescovo della Chiesa di
Pietro, è tra i Vescovi il “vicario” o “detentore” del mandato cristico a beneficio della comunione e
dell’unità nella fede, che fu di Pietro. È per questo che il pontefice Romano deve essere visto come
colui che tra gli altri Vescovi è il «primo nella comunione di tutti», ed il «primo per tutti» in ragione
di quel «conforto decisionale ultimo» a beneficio dell’autorità del Collegio episcopale in rapporto
alla fede, alla comunione e all’unità della Chiesa.
È dunque nella missione dell’episcopato in quanto tale che bisogna leggere il carisma
petrino. Il Concilio Vaticano II non ne fa un Vescovo al di sopra del Corpo episcopale, ma un
Vescovo tra i Vescovi, e la ragione sta nel fatto che per la Teologia cattolica il papato non è un
sacramento, bensì «una maniera particolare – come afferma Tillard – di mettere in opera la grazia
episcopale sacramentale, comune»268.
In modo particolare e nel senso di “responsabilità ultima” il Vescovo di Roma, in ragione
della consacrazione episcopale (in primis) ed in quanto designato a presiedere la Chiesa di Pietro (in
specie), deve realizzare la sollecitudo omnium ecclesiarum che è legata alla grazia episcopale ed in
quanto tale è di tutti i Vescovi. Ma in lui prevede una forma particolare di esercizio del sacramento.
Come Pietro fu con gli altri Apostoli testimone qualificato del Risorto, in eguale portata, pur avendo
all’interno dei Dodici un primato che sussiste nel, con e per il Collegio apostolico, così in modo non
eguale, ma analogo, avviene sia per il Vescovo di Roma nei confronti del Collegio episcopale, sia
per la Chiesa di Pietro nei confronti delle altre Chiese particolari, senza nulla togliere alla

                                                            
267
 J.‐M. TILLARD, Chiesa di Chiese, L’Ecclesiologia di Comunione, cit., 343. 
268
 Ibid. 302. 
101 
 
 

correponsabilità di tutti i Vescovi e delle varie Chiese locali per la diffusione del Vangelo269, e alla
prerogativa “specifica” del Romano Pontefice.
Infatti così ebbe a sottolineare Paolo VI: «Abbiamo coscienza di essere il Vescovo di Roma,
coscienza che giustifica e sostiene quella che noi abbiamo di essere Pontefice. Noi infatti abbiamo
coscienza di avere la terribile missione di essere Vicario del Cristo sulla terra e quindi il Pastore
supremo e il capo visibile della Chiesa universale, in quanto successore di san Pietro sulla sede di
Roma»270.
Se dunque il Vescovo di Roma e successore di Pietro è il primo per responsabilità,
dobbiamo però sottolineare che la sua missione e il suo particolare ministero primaziale di Vescovo
della Chiesa di Pietro, quale supremo custode della comunione271, non possono essere intesi come
una sospensione dell’autorità dei Vescovi nelle loro Chiese particolari. L’appellativo di «Pastore
supremo della Chiesa» o di «Pastore della Chiesa universale» riportato nel Concilio Vaticano II272
nei confronti del Romano Pontefice, non intende sminuire l’autorità dei singoli Pastori delle varie
Chiese locali. Anche lo stesso Vaticano I nella Pastor Aeternus, citando Gregorio Magno273,
sostiene che la funzione primaziale del Vescovo di Roma non è vera se by-passa l’autorità del
Vescovo della Chiesa particolare, ma è vera, legittima ed efficace nella misura in cui «afferma,
consolida e difende» il ruolo di ogni Vescovo per la sua Chiesa. Potremmo dire allora, con Tillard,
che il servizio petrino «consiste nel mantenere nell’inquietudine dell’universale (della catholica) il
ministero di ciascun Vescovo e nel conservarlo ad ogni costo nelle esigenze dell’infrangibile
solidarietà della comunione»274.
Tale affermazione ci aiuta a superare una concezione meramente giuridica del ministero
petrino, ponendo invece l’accento su ciò che già nel II secolo le varie Chiese locali si attendevano
dalla Chiesa di Roma e dal suo Vescovo. L’idea di Ignazio di Antiochia, che indica la Chiesa di
Roma come colei che presiede alla carità, è il fondamento dell’idea della necessità che Egli ha di
questo bene incommensurabile, che è la comunione nella fede – oggetto specialissimo della carità di
Dio –, e quindi esige che vi sia chi si occupi e preoccupi per sua missione, in virtù del mandato di
Cristo.

                                                            
269
 PIO XII, Fidei Donum, in AAS (1957) 245‐246. CONCILIO VATICANO II, Decr. Ad Gentes, n. 19 e 38; Decr. Presbyterorum 
Ordinis, n. 6 e 10; Decr. Christus Dominus, n. 36. 
270
 PAOLO VI, DC 74 (1977) 105, 101. 
271
 CONC.VAT  I, cost dogm. Pastor Aeternus (DS 3050). 
272
 CONC.VAT II, cost  dogm. Lumen Gentium, 22. Vedi anche Nota praevia, nn. 3‐4. 
273
 GREGORIO MAGNO, Epist. 8, 30; PL 77, 933 C. 
274
 J.‐M. TILLARD, Chiesa di Chiese, L’Ecclesiologia di Comunione, cit., 312. 
102 
 
 

Anche tra le varie Chiese del mondo della Riforma, in modi diversi, si sta riscoprendo
l’importanza e il dono che per la Chiesa è l’Episcopè.
Forse le conclusioni della loro ricerca non collimeranno con la dottrina cattolica, ma è pur
sempre un apprezzare quella mediazione umana che, in virtù dell’Incarnazione, diviene la via
obbligata per la presenza nella storia dell’integrità dell’Annuncio.
Della presenza e dell’esercizio del carisma petrino, ha necessità la Chiesa intera, in quanto
perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità, sia dei Vescovi, sia della moltitudine dei
fedeli275.
L’unità è una delle prerogative fondamentali della Chiesa. Proprio in funzione della sua
missione di servitore della Comunione e dell’unità: il Vescovo di Roma e successore di Pietro ha il
dovere e il diritto di esercitare sempre, e liberamente, la piena potestà sulla Chiesa, in virtù del suo
ufficio di Vicario e di Pastore della Chiesa intera276.
Così la volontà di Cristo, espressa a Simone e recepita da tutti i Dodici, si storicizza in modo
umano ma vivificata dallo Spirito. In tal modo la Comunità dei Discepoli del Risorto sente nel
ministero petrino la concreta presenza di quell’amore che ha reso capace il Padre di permettere la
kenosi del suo Unigenito (Fil 2,5) divenuto questi Signore, perché si fece servo usque ad mortem.
Sarà grande agli occhi di Dio chi nella Chiesa vivrà il ministero di servo.
È in questo stile che il Vescovo di Roma si presenta ai Vescovi dell’Orbe cattolico: Servo
dei servi di Dio, secondo l’affermazione di Gregorio Magno.
Ed è in questa tensione del “servire”, che il successore di Pietro promuove la Collegialità e
tutela con il suo Magistero l’inalterabilità del Depositum Fidei.

                                                            
275
 CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, n. 882 e CONC.VAT II, cost. dogm. Lumen Gentium, n. 22. 
276
 Cfr CONC.VAT II, decr. Christus Dominus, n. 2. 
103 
 
 

5.

Il fedele laico nel popolo di Dio e nel mondo

104 
 
 

Introduzione

In questa parte tratteremo di colui e di coloro che in virtù del battesimo e per la loro scelta di
vita sono costituiti quali fedeli-laici. La loro dignità la ricevono dalla incorporazione a Cristo
Sommo ed eterno sacerdote della Nuova Alleanza; la loro vocazione è implicita proprio grazie al
battesimo che oltre a togliere il peccato originale li immette in quel nuovo e definitivo Popolo di
Dio che è la Chiesa. Proprio grazie a questo appartenere al Popolo di Dio il fedele-laico è presenza
di quel sacerdozio – comune che, mediante il suo essere ed operare nella sequela Christi, rende lode
a Dio ed offre quella consecratio mundi che al fedele-laico risulta essere la sua vocazione e
missione.
Il fedele-laico è dunque inserito nella Comunità ecclesiale grazie alla sua fede in Cristo e nel
battesimo. Il suo essere parte del Popolo di Dio lo abilita e impegna ad offrire la sua disponibilità a
svolgere, personalmente o in realtà associative, un concreto impegno a favore dell’apostolato
all’interno della Chiesa. Ciò lo deve compiere con senso di servizio per l’edificazione del Popolo di
Dio e per un’efficacia evangelizzatrice negli ambienti in cui vive ed opera.
Tutto ciò il fedele laico non lo compie come se fosse una “ Chiesa nella Chiesa”, ma in
rettitudine e comunione con i sacri Pastori.
La Comunione con i sacri Pastori non può essere solo formale bensì foriera di quella verità
evangelica che costruisce un legame di “religioso ascolto” effettive et affettive. Senza questo
atteggiamento viene ad essere pregiudicata quella comunione e quello stile da storicizzare che ci è
indicato nella vita trinitaria. La Chiesa infatti non può che essere icona della Trinità nella storia.
Il campo specifico però della missione del fedele-laico è il mondo e l’umanità. Il Concilio, e
poi lo sottolineerà Paolo VI, il fedele-laico deve orientare le realtà temporali a Dio, deve offrire con
le sue scelte illuminate dalla fede e dalla carità una speranza nelle problematiche che riguardano la
verità sulla persona umana e sul suo vivere a carattere familiare, educativo, lavorativo e politico-
sociale. Il criterio del fedele-cristiano-laico non può essere dettato da principi o schemi ideologici –
come ha richiamato anche Papa Francesco – bensì da quella solidarietà evangelica che vuole il bene
dell’uomo immagine di Dio e dell’intera umanità quale famiglia dei figli di Dio perché, come dice
Giovanni XXIII nella Pacem in Terris, si tuteli e migliori l’ordine impresso dal Creatore di cui
l’uomo è destinatario. È importante che nel fedele-laico cresca il sensu Ecclesiae che non può
essere scevro da quei criteri di ecclesialità presenti nella comunità post-pasquale: fedeli
all’insegnamento degli Apostoli, assidui nella preghiera, ed allo Spezzar del Pane e costruttori di
comunione (cfr. At 2,42). Senza questa attenzione non si è Chiesa e non risulta evidente - per il
mondo e per l’uomo che cerca senso -la dignità, la vocazione e la missione del fedele-cristiano-laico
105 
 
 

a lui impressa e offerta dall’essere nel battesimo morto e risorto in Cristo, quale vera novità per
l’umanità.
Si presenterà inoltre la dignità e la missione della donna, sia nella Chiesa che nella
Comunità civile.
L’impegno della donna nel mondo del lavoro e in quello della vita civile è sottolineato da
Giovanni XXIII come uno dei segni dei tempi che vanno colti e valorizzati per un vero bene
comune.

106 
 
 

5.1 Identità e dignità del fedele – cristiano – laico

“Con il nome di laici si intendono qui tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell'ordine
sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a
Cristo col battesimo e, costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell'ufficio
sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la
missione propria di tutto il popolo cristiano. L’indole secolare è propria e peculiare dei laici”277.

Partendo dall’etimologia del termine laico si evince che esso ci richiama l’idea di “popolo”
e qui di Popolo di Dio. Il fedele-laico è dunque colui che è parte di un popolo in virtù di una scelta o
di una origine. Nel nostro caso si tratta di una decisione libera che ha, a monte, la determinazione
di seguire Cristo con la conversione ed il battesimo. Questa duttilità implica un divenire nuova
creatura (Gal 6,15; 2Cor 5,17) in quanto il battesimo offre alla persona una trasformazione interiore
che la toglie dall’impoverimento inflitto dalla colpa adamitica alla natura umana e ad ogni persona
che viene in questo mondo.
Il battesimo inserisce il neo-credente nel mistero di morte e resurrezione di Cristo facendo di
lui un incorporato alla persona di Cristo glorificato. In lui la morte e risurrezione di Cristo vengono
comunicate in virtù del sacramento, come il prezzo della liberazione e dell’elezione, ed anche di
una nuova identità del soggetto che riceve il battesimo facendo di lui un “alter Christus”.
Sottolineare, come fa il Vaticano II, che il cristiano-laico è con il battesimo incorporato a Cristo278,
significa affermare che l’identità del battezzato va ricercata nell’effetto della “novità” prodotta dal
battesimo che offre al neo-battezzato la figliolanza adottiva di Dio nel suo Figlio Unigenito. Se
nella creazione Dio ci ha resi immagine e somiglianza Sua (Gen 1,26), affinché tutte le attività
terrene fossero coordinate dall’uomo, con l’evento Cristo – consumatosi sulla Croce e nella
Resurrezione.
Egli ha dato la possibilità a tutti coloro che avessero scelto la sequela del Risorto, mediante
la fede ed il battesimo, di divenire figli adottivi di Dio. Questa catarsi è necessaria se si vuole
usufruire dei benefici acquistati da Cristo per rendere l’uomo libero dall’impoverimento adamitico e
a lui offrire un nuovo rapporto con Dio, quello di un figlio nel Figlio. La differenza quindi tra il
laico-cristiano e chi cristiano non è, sta proprio fondamentalmente in questa incorporazione nel

                                                            
277
 CONCILIO VATICANO II, cost. dogm. Lumen Gentium,  n. 31 
278
 (Cfr.) CONCILIO VATICANO II, idem nn. 11, 15, 31, 32 
107 
 
 

Figlio Unigenito di Dio che il battesimo rende possibile279. È chiaro che questa mistica realtà va
presentata nella sua pregnanza teologico-sacramentale che, più di ogni altra ottica, ci aiuta a
comprendere l’identità del battezzato. L’incorporazione tra il battezzato e Cristo è una unità mistica
ma reale al corpo crocifisso e glorioso di Cristo. Il Magistero post-conciliare ribadisce questa azione
ed efficacia sacramentale nel soggetto quando sottolinea, senza mezzi termini, che “mediante il
sacramento [del battesimo] Gesù unisce il battezzato alla sua morte per unirlo alla sua Risurrezione
(Rm 6, 3-5), lo spoglia dell’uomo vecchio e lo riveste dell’uomo nuovo ossia di se stesso. ‘Quanti
siete stati battezzati in Cristo – dice l’apostolo Paolo – vi siete rivestiti di Cristo’ (Gal 3,27; Ef 4,
22-24; Col 3, 9-10). Ne risulta che ‘noi pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo’ (Rm
12,5)”280.
Questa mistica incorporazione ha in sé la ‘dinamica’ di rendere il laico-cristiano capace di
agire in persona Christi nell’ambito, soprattutto, della realtà secolare, storicizzando così
quell’attenzione divina per la salvezza nelle varie realtà in cui il battezzato è inserito e opera.
Questa unità mistica tra il fedele-cristiano e il Verbo incarnato è la contrapposizione
dell’impoverimento esistenziale provocato dalla colpa del “vecchio Adamo” all’intera umanità. Il
fatto stesso che con il battesimo questo “grave impedimento”, grazie ai meriti di Cristo unico
Mediatore, sia rimosso, porta ogni persona, che si decide per Cristo e riceve il battesimo, ad essere
presenza nella temporalità di una umanità che ha in sé una tensione e una potenzialità oltre
l’impoverimento adamitico. È proprio questa novità che fa del fedele-cristiano una concreta
tonificazione a favore di una riprogettazione del rapporto uomo – Dio, uomo – mondo.
Si tratta però, da parte del fedele-laico, di corrispondere a questa unione con Cristo facendo
della sua vita una autentica testimonianza dello stile delle Beatitudini quale concreta risposta a
seguire, in tutto e per tutto, ciò che Cristo ha chiesto ai suoi: “Come io ho amato voi, così amatevi
anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34) e aggiunge: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti”
(Gv 14,15).
Fatta questa scelta il fedele-laico non deve lasciarsi irretire dalle logiche del mondo ma
costantemente richiamarsi alla logica di Cristo lasciandosi modellare dallo Spirito del Vangelo. Per
fare ciò ha bisogno di quei mezzi di grazia che sono i sacramenti, la preghiera e l’imitazione di chi
ha fatto veramente di Cristo il suo modello di vita. L’incorporazione a Cristo fa del battezzato,
come recita l’orazione dopo il rito del battesimo prima della consegna della veste bianca e del cero,
colui che partecipa ai tre uffici di Cristo: quello sacerdotale, profetico e regale. In tal modo il
battezzato rende presente quella diaconia che il Verbo incarnato ha voluto fare suo stile di vita per
                                                            
279
 GIOVANNI PAOLO II, esort. apost. Christifideles laici n. 11 
280
 Idem n. 12 
108 
 
 

togliere l’umanità dal suo impoverimento e aprire all’uomo, desideroso di verità, le porte della
salvezza che il Padre ha voluto per l’intera umanità donando il suo Figlio Unigenito quale
Redentore. Sì, la persona che accoglie la fede e si immette nell’itineranza cristiana mediante il
sacramento del battesimo viene ad essere partecipe dei “munera Christi” che Egli, a pieno titolo,
non solo possiede ma deve espletare sull’esempio del suo Signore. Vediamoli in particolare:

5.1.1. Partecipazione all’ufficio sacerdotale di Cristo

Ciò che rende partecipe il fedele-laico all’ufficio sacerdotale di Cristo è il suo inserimento
nel Popolo di Dio mediante il battesimo, soprattutto la sua incorporazione a Cristo. Il fedele-laico
che dunque è un’unica mistica realtà con Cristo deve, in modo altro ma concreto, espletare, a
beneficio della Salvezza, il sacerdozio di Cristo. Come Cristo ha saputo donare se stesso divenendo
offerta efficace e gradita al Padre per la riappacificazione tra Dio e l’uomo, così il fedele-laico deve
“compromettersi” orientando la realtà secolare secondo il piano divino. Ciò avverrà se il laico farà
in modo che la sua vita sia in profonda comunione con lo Spirito del Padre e del Figlio rendendo
così il suo lavoro, la sua gioia, la sua sofferenza, il suo amore, la sua ricerca, la sua solidarietà, il
suo impegno di evangelizzazione, un’“azione di grazia”. Così viene appunto descritta l’identità e la
dignità del fedele-cristiano-laico nella lettera di Pietro: “quali pietre vive siete costruiti anche voi
come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio,
mediante Gesù Cristo… Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che
Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla
sua luce meravigliosa” (1Pt 2, 5.9).
L’impegno sacerdotale del cristiano-laico è dunque quello di trasfondere nella realtà
secolare, dove egli vive e opera, il primato di Dio e aiutare l’umanità ad educarsi ed edificarsi in
quei valori naturali che sono la stigmata messa dal Creatore nella natura umana per una umanità
degna dell’uomo immagine e somiglianza di Dio, come lo ha voluto il Creatore.
Una delle singolarità teologiche messe in evidenza dal Concilio Vaticano II è il concetto di
sacerdozio comune quale realtà propria che ogni cristiano-laico riceve e possiede con la
rigenerazione e l’unzione battesimale.281 Questa dottrina fu già timidamente accennata in due
documenti di Pio XII: nella Mediator Dei282 e nell’allocuzione Magnificate Dominum283 ma troverà
nel Vaticano II la sua chiara esposizione senza compromettere la portata e la dimensione ontologica

                                                            
281
 CONCILIO VATICANO II, cost. dogm. Lumen Gentium,  n. 10 
282
 PIO XII, lett. encicl. Mediator Dei n. 84 
283
 PIO XII, alloc. Magnificate Dominum, in AAS 46 (1954) 669 
109 
 
 

del sacerdozio ministeriale. Per presentare il concetto teologico di sacerdozio comune nel quale il
laico-cristiano è inserito senza nulla togliere al sacerdozio ministeriale il Concilio Vaticano II ci
tiene a sottolineare che nella Nuova Alleanza ogni sacerdozio proviene da Cristo Sommo Sacerdote,
unica sorgente di ogni dignità o servizio spirituale284 e che pur essendovi differenze tra l’uno e
l’altro non solo di grado ma anche essenziali, essi però sono ordinati l’uno all’altro285 proprio
perché entrambi poggiano sullo stesso fondamento: Cristo unico sommo ed eterno Sacerdote della
Nuova Alleanza. La differenza tra ministri ordinati e laici non è nella mancata partecipazione dei
munera Christi ma nel modo diverso di parteciparvi. Il ministro ordinato infatti è sacerdote in
persona Christi Capitis, il laico in quanto Corpo di Cristo è componente efficace di quel Popolo
sacerdotale che è la Chiesa formata, per il novanta per cento, da fedeli-laici. È proprio il fatto che
con il battesimo il fedele laico viene ad essere inserito costituito membro del Popolo di Dio che egli
viene ad essere presenza della ministerialità che è propria del Popolo di Dio: la sua dimensione di
sacerdotalità potremmo definirla cosmico-secolare. Tale ministerialità che parte in nuce dal
Creatore all’umanità prima della colpa adamitica (Gen1,28 ) si concretizza nella presenza del Popolo
di Dio dell’Antica Alleanza che ha il compito di richiamare il monoteismo e il vero culto a Dio e si
perfeziona nella pienezza dei tempi con Cristo che inaugura un nuovo popolo aperto all’intera
umanità che, in Lui, può fare, dell’intera creazione e dell’uomo redento, la vera gloria di Dio.

5.1.2 Partecipazione all’ufficio profetico di Cristo

Nel linguaggio biblico il termine profeta indica una persona che parla in nome di Dio o
annuncia un progettodivino. Cristo, secondo questa accezione, è profeta, in quanto non solo ha
testimoniato con la sua vita la sua obbedienza al Padre, ma ha annunciato agli uomini il Regno di
Dio. Il Concilio sottolinea che questo ruolo profetico Cristo non lo ha esaurito nella sua vita terrena
ma lo continua nella storia “fino alla piena manifestazione della gloria”286 nel “giorno” della sua
Parusia.
Questo compito il Cristo lo affida all’intero nuovo Popolo di Dio e a ciascun suo discepolo.
Tale ufficio è conferito ai fedeli con il battesimo che, unendoli a Cristo, ad essi comunica anche
l’aspetto del ruolo profetico che Cristo vuole che la sua Chiesa storicizzi nel mondo, perché la
testimonianza e l’opera salvifica del Verbo incarnato possa essere offerta a beneficio di tutta
l’umanità. Il paradigma è la persona e l’evento Cristo, annunciatore del Regno del Padre. Questo

                                                            
284
 (Cfr.) CONCILIO VATICANO II, cost. dogm. Lumen Gentium n. 10 
285
 Idem 
286
 Idem n. 35 
110 
 
 

suo ufficio deve continuare nella storia – dice il Concilio – “non solo per mezzo della gerarchia…
ma anche per mezzo dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni e li provvede del senso della
fede e della grazia della Parola, perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana,
familiare e sociale.
Essi si mostrano figli della promessa se, forti nella fede e nella speranza, mettono a profitto
il tempo presente (cfr. Ef 5,16; Col 4,5) e con pazienza aspettano la gloria futura (cfr. Rm 8,25)…
così i laici diventano efficaci araldi della fede delle cose sperate (Eb 11,1), se senza incertezze
congiungono ad una vita di fede la professione della fede”287. La funzione profetica, il laico la può
esercitare – dice il Concilio – nella vita matrimoniale e familiare, lì “i coniugi hanno la propria
vocazione, per essere l’uno all’altro e ai figli testimoni della fede e dell’amore di Cristo”288.
Riflettendo sull’approfondimento del munus profetico che il battesimo conferisce al fedele
cristiano, il Magistero contemporaneo sottolinea che proprio: “la partecipazione all'ufficio
profetico di Cristo… abilita e impegna i fedeli-laici ad accogliere nella fede il Vangelo e ad
annunciarlo con la parola e con le opere, non esitando a denunciare coraggiosamente il male. Uniti a
Cristo, il «grande profeta» (Lc 7,16), e costituiti nello Spirito «testimoni» di Cristo Risorto, i fedeli-
laici sono resi partecipi sia del senso di fede soprannaturale della Chiesa che non può sbagliarsi nel
credere sia della grazia della parola”289.
Per il fedele-laico partecipare al munus profetico di Cristo significa volere e lasciarsi
coinvolgere ad essere testimone del Vangelo nella vita di ogni giorno ovunque e comunque, nulla
disprezzando di ciò che Cristo stesso ha amato: i poveri e i peccatori quale “Buon Samaritano”
dell’intera umanità.

5.1.3. Partecipazione all’ufficio regale di Cristo

La dimensione regale di Cristo si è pienamente realizzata nella sua obbedienza al Padre


dall’incarnazione sino alla sua crocifissione come appunto sottolinea il Concilio: “Cristo, facendosi
obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre, entrò nella gloria del suo Regno; a lui sono
sottomesse tutte le cose, fino a che Egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature, affinché Dio
sia tutto in tutti. Questa potestà egli [Cristo] l'ha comunicata ai discepoli, perché anch'essi siano
costituiti nella libertà regale”290.

                                                            
287
 Idem 
288
 Idem 
289
 GIOVANNI PAOLO II, esort.  apost. Christifideles laici n. 14 
290
 CONCILIO VATICANO II, Cost. Dogm. Lumen Gentium n. 36 
111 
 
 

Per quanto riguarda la consapevolezza della trasmissione del munus profetico di Cristo a
coloro che si pongono alla sua sequela mediante la fede ed il Battesimo, il Magistero post-conciliare
così si esprime: “Per la loro appartenenza a Cristo Signore e Re dell'universo, i fedeli laici
partecipano al suo ufficio regale e sono da lui chiamati al servizio del Regno di Dio e alla sua
diffusione nella storia. Essi vivono la regalità cristica, anzitutto mediante il combattimento
spirituale per vincere in se stessi il regno del peccato (Rm 6,12), e poi mediante il dono di sé per
servire, nella carità e nella giustizia, Gesù stesso presente in tutti i fratelli, soprattutto nei più piccoli
(Mt 25,40)”291.
Secondo quanto abbiamo richiamato è convinzione apostolica che la regalità di Cristo è
fondata sulla Kenosi del Verbo incarnato rendendolo duttile alla volontà del Padre per realizzare la
redenzione e la salvezza dell’umanità sino al sacrificio della Croce. È proprio questa sua duttilità
che rende Cristo Gesù, nel suo “rendersi in tutto simile a noi [uomini]” gradito al Padre che lo
costituisce Signore non solo per l’umanità ma per l’intero cosmo (Fil 2, 8-9). La Signoria di Cristo
ha quale fine quello di far sì che “Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15, 27-28). “Questo è l’evento e il
luogo teologico più alto di tutta la redenzione, dove – grazie al sacrificio di Cristo – se l’uomo
pronuncia il suo sì, ricopre e rivitalizza in sé quella presenza dinamica di Dio che lo porta ad un
profondo rapporto di comunione con Lui, tanto da divenire realtà a Lui riservata, cioè
consacrata”292.
Impostato così il problema c’è da dire che la regalità di Cristo è strettamente legata alla sua
“diaconia” che prima di essere gestualità è stata voluta quale identità per la missione redentrice da
parte del Verbo nell’atto di accogliere il progetto del Padre. Questa identità e stile fatto proprio dal
Verbo incarnato fa di Lui “l’Agnello docile che salva il gregge”293.
Questa “proprietà” e questo stile di Cristo rimane certamente a Lui nella sua unicità salvifica
ma viene trasmesso con il battesimo anche a coloro che si decideranno per Cristo testimoniandolo
nella storia. Il munus regale di Cristo il fedele-laico lo renderà operante, come sottolinea il Concilio
Vaticano II: vincendo in sé il regno del peccato294, portando i fratelli al Regno di Dio295,
instaurando tutte le cose in Cristo296.

                                                            
291
 GIOVANNI PAOLO II, Esort. Apost. Christifideles laici n. 14 
292
 E. MALNATI, Teologia del laicato, nel Magistero della Chiesa, Lugano (CH) 2005, p. 38 
293
 Messale Romano, Domenica di Pasqua: Sequenza 
294
 CONCILIO VATICANO II, cost. dogm. Lumen Gentium n. 36 
295
 Idem 
296
 Idem 
112 
 
 

5.2 Vocazione e missione del fedele – cristiano – laico nel mondo

“Grava su tutti i laici il glorioso peso di lavorare perché il disegno di salvezza raggiunga
ogni giorno più tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutta la terra. Sia perciò loro aperta qualunque
via affinché, secondo le loro forze e le necessità dei tempi, anche loro attivamente partecipino
all'opera salvifica della Chiesa.”297.

L’impegno di evangelizzazione è intrinseco ad ogni battezzato che deve espletarlo anzitutto


con la testimonianza della vita nei vari ambienti in cui egli consuma l’esistenza. Il fondamento della
missione evangelizzatrice del fedele-laico è nel sacerdozio-comune che ogni cristiano riceve e
quindi possiede con la rigenerazione e l’unzione battesimale298. In virtù proprio di questa
incorporazione a Cristo e dell’inserimento nel Popolo di Dio il fedele-laico è presenza vera di quel
popolo sacerdotale che è foriero di liberazione e di salvezza per l’intera umanità. La vocazione e
missione del fedele-laico sta ed è essenzialmente nell’“orientare le realtà temporali a Dio”299.
Così Paolo VI delinea la primaria missione del fedele-laico: “I laici la cui vocazione
specifica pone in mezzo al mondo e alla guida dei più svariati compiti temporali, devono esercitare
con ciò stesso una forma singolare di evangelizzazione. Il loro compito primario e immediato non è
l'istituzione e lo sviluppo della Comunità ecclesiale – che è il ruolo specifico dei Pastori – ma la
messa in atto di tutte le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nelle
realtà del mondo. Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato
della politica, della realtà sociale, dell'economia; così pure della cultura, delle scienze e delle arti,
della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale; ed anche di altre realtà
particolarmente aperte all'evangelizzazione, quali l'amore, la famiglia, l'educazione dei bambini e
degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici penetrati di spirito
evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in esse, competenti nel
promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta
e soffocata, tanto più questi in realtà senza nulla perdere né sacrificare del loro coefficiente umano,
ma manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno al servizio
dell'edificazione del Regno di Dio, e quindi della Salvezza in Cristo Gesù”300.
Da queste sottolineature del magistero post-conciliare risulta evidente il luogo privilegiato

                                                            
297
 CONCILIO VATICANO II, cost. dogm. Lumen Gentium n. 33 
298
 Idem n. 10 
299
 Idem n. 31 
300
 PAOLO VI, esort. ap. Evangelii Nuntiandi n. 70 
113 
 
 

della missione del fedele-laico che è tutto ciò che riguarda l’uomo e la temporalità nel suo
complesso, senza nulla escludere di ciò che preoccupa l’uomo come persona e il suo vivere sociale,
culturale, economico, spirituale ed affettivo. Ovviamente questo impegno-missione del fedele-
cristiano-laico (uomo e donna) presuppone che abbia a cuore la verità sull’uomo e sul mondo e si
inveri in questo compito dopo aver concretamente risposto, in modo adeguato, alla “vocazione alla
santità” verso la quale egli è chiamato in modo perentorio dal giorno del suo battesimo. La
vocazione alla santità il laico la deve perseguire non estraniandosi dalle realtà temporali bensì deve
considerare e “guardare alle attività della vita quotidiana come occasioni di unione con Dio e di
compimento della sua volontà, e anche di servizio agli altri uomini portandoli alla comunione con
Dio in Cristo”301.
Il primo grande compito del fedele-laico è quello di realmente assomigliare a Cristo fratello
dell’umanità che per essa si dona compiendo in tutto la volontà del Padre. Prima di decidersi e
intraprendere qualsiasi apostolato, il laico-cristiano deve staccarsi dalla mentalità del mondo (Rm
12,2) “cambiando i propri pensieri, i propri gusti secondo la volontà di Dio, correggere i propri
difetti, che spesso noi vantiamo come nostri principi e nostre qualità, cercare una continua
rettitudine interiore di sentimenti e di propositi, lasciarsi guidare veramente dall’amore di Dio e, di
conseguenza, dall’amore del prossimo, ascoltare davvero la parola del Signore, e abituarci a
percepire con umiltà e silenzio interiore la voce dello Spirito Santo, alimentare quel senso della
Chiesa che ci rende facile comprendere quanto di divino e quanto di umano vi è in essa, rendendoci
disponibili con le semplificazioni e le rinunce, che ci abilitano alla carità e alla sequela logica e
generosa di Cristo, questa è la riforma che prima di ogni altra a noi è domandata”302.
Realizzare questa vocazione per la missione del laico-cristiano nella temporalità non è certo
facile ma è necessario compiere questa autentica riforma interiore. Di ciò è consapevole e lo
sottolinea nel suo magistero Paolo VI quando afferma: “Come può un uomo comune nel nostro
tempo conformare la propria vita a un ideale autentico di santità… oggi per di più quando tutto è
messo in «contestazione»… quando tutto è secolarizzato e dissacrato… può oggi un uomo essere
veramente cristiano? E può un cristiano essere veramente santo? Può la nostra fede essere davvero
un principio di vita concreta e moderna?... Rispondiamo di sì”303.
Il laico-cristiano potrà vivere la sua tensione di santità nel mondo e per il mondo se avrà
quale modello Cristo e a Lui e alla sua opera si affiderà proprio come dice l’apostolo Paolo “in tutte
queste cose siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8, 37). Per il cristiano-laico

                                                            
301
 GIOVANNI PAOLO II, esort. ap. Christifideles laici n. 17 
302
 PAOLO VI, Discorso del 7 agosto 1968 
303
 PAOLO VI, Discorso del 3 luglio 1968 
114 
 
 

vivere la sua tensione di santità nel mondo significa far sì che tutte le realtà temporali dove l’uomo
vive, fatica, gioisce, progetta, lavora e muore devono essere orientate – come dice il Concilio – a
Dio sullo stile di Cristo, che è colui che rivela all’uomo tutto l’uomo.
Si tratta di impegnarsi per una antropologia di verità sull’uomo e sul suo agire perché
realmente si promuovano i valori fondamentali della persona umana e si costruisca un habitat
sociale, culturale, familiare e civile su quei valori non negoziabili che fanno della vita della persona
e dell’intera famiglia umana una realtà veramente degna dell’uomo immagine e somiglianza di Dio.
“Il modello teologico da tenere presente è il mistero dell’incarnazione letto dalla Comunità cristiana
post-pasquale. Infatti per essa il Cristo è Colui che ha preso su di sé le nostre infermità (Is 53,4; Mt
8,17) e ha fatto di noi delle creature nuove (2Cor 5,17), in quanto Egli nella condivisione della
nostra povertà ha voluto riordinarci a Dio riscattando anche la morte, in quanto il suo sacrificio è
stato un morire “per noi” (1Cor 15,3).
La novità proposta da Cristo annunciata dalla Comunità post-pasquale si fonda sulla sua
morte e resurrezione, viste come l’erompere del rinnovamento escatologico (2Cor 5,17; Ap 21,1).
Questa novità però non deve essere intesa come un’aggiunta alla progettualità salvifica dell’agire
divino solamente ab extra, bensì come dice il libro del Qoèlet: “Quel che è stato sarà e quel che si è
fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole” (Qo 1,9), il tutto è già, noi potremmo dire in
quanto si tratta di portare a Dio chi scientemente da Lui si era sganciato, affinché non abbia la
morte ma la vita”304. Così Gregorio di Nissa presenta il mistero dell’Incarnazione del Verbo divino:
“Dio ha preso la povertà della mia carne affinché io [l’uomo] riceva la ricchezza della sua
divinità”305.
Se dunque Cristo ha operato questa novità in Sé e per noi quale uomo reso nuovo
dall’unione ipostatica divenuta storia con l’obbedienza del Verbo, in ogni frangente storico – dopo
l’evento incarnazione – è dovere dei discepoli di Cristo essere profezia di questa novità tra l’intera
famiglia umana e presso ogni uomo di ogni tempo e di ogni cultura. Questa novità antropologica, di
cui il cristiano laico è annunciatore e testimone, consiste nel fatto che la persona umana e l’intera
creazione raggiunga la sua perfezione entitativa nella misura in cui si rapporta con Dio, ponendolo
quale Realtà Ultima e garante della sua qualità di persona, che non può non aprirsi ai valori
trascendenti che donano senso alla fatica del vivere.
Questa liberazione e promozione esistenziale operata da Cristo potrà essere conosciuta ad
accolta proprio grazie alla missione del cristiano-laico che con il suo apostolato nel mondo richiama
e offre questo riscatto. Svolgendo con attenzione e responsabilità questa missione il fedele laico
                                                            
304
 E. MALNATI, Teologia del laicato, nel Magistero della Chiesa, Lugano 2005 p. 84 
305
 GREGORIO DI NISSA, PG 35, 325 
115 
 
 

promuove concretamente, nella verità e giustizia, la dignità della persona umana e del suo vivere.
La dignità della persona (uomo e donna)è sottolineata dal Magistero della Chiesa come: “il
bene più prezioso che l’uomo possiede”306, in quanto è proprio la dignità personale che “costituisce
il fondamento dell’eguaglianza di tutti gli uomini tra loro… [e anche il diritto-dovere] della
partecipazione e della solidarietà: [infatti] il dialogo e la comunione si radicano in ultima analisi su
ciò che gli uomini sono, prima e più ancora che su quanto essi hanno”307. Il Concilio Vaticano II a
tale proposito toglie ogni dubbio: non vi è situazione umana in quanto tale che non debba essere
doverosamente considerata, valutata e promossa dai fedeli-laici quale loro missione. Proprio perché
il tutelare e promuovere la dignità umana è uno dei doveri del cristiano, in quanto, e in ciò ben
volentieri ci ripetiamo, il Figlio di Dio ci ha redenti “diventando simile agli uomini” (Fil 2,7). E
nella sua vita pubblica privilegiando le periferie esistenziali dell’umanità, sottolineò il valore della
persona anche nella sua precarietà, indicando così anche ai suoi discepoli di ogni tempo di fare
altrettanto.
Il determinarsi da parte del fedele-cristiano-laico, per la promozione della dignità della
persona umana è un’esigenza teologica, cioè connessa con la sua fede da vivere e testimoniare nel
proprio sitz im leben tonificando in senso teologale la stessa solidarietà che diviene frutto della virtù
teologale della carità.
La preoccupazione morale del Magistero della Chiesa nel chiedere al laico-cristiano, uomo e
donna, di determinarsi a favore della dignità dell’uomo sta proprio nella dimensione della
creaturalità della persona umana che, a causa della colpa adamitica, prova nel suo profondo quasi
una dualità. Il Concilio così si esprime: “è proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si
contrastano a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, [l’uomo] sperimenta in mille modi i suoi
limiti; dall’altra parte si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita
superiore”308. Proprio in ragione di questa esistenziale verità antropologica il fedele-laico può e
deve offrire un aiuto alle persone affinché possano dare una adeguata risposta nella verità a questi
interrogativi esistenziali che oggi si trovano in un conflitto tra una legalità politica che spesso
mortifica o addirittura offusca la verità sulla vera promozione della dignità umana. È in tal senso
che il laico-cristiano si deve “compromettere” nel fare opinione anche con il suo impegno sia
culturale sia politico a tutti i livelli. Si tratta di un servizio sulla verità dell’uomo come Dio lo ha
voluto: maschio e femmina, cultore della vita e custode del creato.

                                                            
306
 GIOVANNI PAOLO II, esort. ap. Christifideles laici n. 37 
307
 Idem  
308
 CONCILIO VATICANO II, cost. past. Gaudium et Spes n. 10 
116 
 
 

5.3 La missione del fedele-laico nella Chiesa

“Come partecipi della missione di Cristo sacerdote, profeta e re, i laici hanno la loro parte
attiva nella vita e nell'azione della Chiesa. All'interno delle Comunità della Chiesa la loro azione è
talmente necessaria che senza di essa lo stesso apostolato dei pastori non può per lo più
raggiungere la sua piena efficacia... Nutriti dall'attiva partecipazione alla vita liturgica della
propria comunità, partecipino con sollecitudine alle opere apostoliche della medesima; conducano
alla Chiesa gli uomini che forse ne vivono lontani; cooperino con dedizione generosa nel
comunicare la Parola di Dio, specialmente mediante l'insegnamento del catechismo, mettendo a
disposizione la loro competenza rendono più efficace la cura delle anime ed anche
l’amministrazione dei beni della Chiesa. La parrocchia offre un luminoso esempio di
apostolato...”309

Oltre al campo proprio della missione del fedele-laico che è la realtà secolare, il laico, quale
partecipe della missione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, non può disattendere la vita della
Comunità cristiana della quale egli è parte integrante con la stessa dignità dei ministri ordinati. Le
forme di questo impegno possono essere, come sottolinea il Concilio, sia in forma di un apostolato
individuale310 o in forma associativa311. Sia l’uno che l’altro “devono sgorgare… dalla fonte di una
vita veramente cristiana (Gv 4,14), [che] è la prima forma e la condizione di ogni altro apostolato
dei laici, anche di quello associato”312.
È proprio attraverso l’apostolato che i laici cooperano anche all’edificazione della Chiesa.
Spesso l’apostolato individuale “è di grande necessità e di grande urgenza in quelle regioni in cui la
libertà della Chiesa è gravemente impedita. In tali difficilissime circostanze i laici, supplendo, come
possono, i sacerdoti, mettono in pericolo la stessa propria libertà e talvolta anche la vita, insegnano
la dottrina cristiana a coloro vicino ai quali vivono, li indirizzano nella vita religiosa e nel pensiero
cattolico, li inducono a ricevere con frequenza i sacramenti e a coltivare la pietà, soprattutto quella
eucaristica… L'apostolato individuale ha luogo particolarmente in quelle regioni dove i cattolici
sono pochi e dispersi”313.
Oltre ovviamente all’impegno di un apostolato personale a favore della comunione
ecclesiale e dell’educare alla fede ed alla vita sacramentale, il fedele-cristiano-laico può scegliere di
                                                            
309
 CONCILIO VATICANO II, decr. Apostolicam Actuositatem n. 10 
310
 Idem nn. 16‐17 
311
 Idem nn. 18‐19 
312
 Idem n. 16 
313
 Idem n. 17 
117 
 
 

svolgere la sua missione nella Chiesa attraverso l’apostolato associato. Tale tipo di impegno
“corrisponde felicemente alle esigenze umane e cristiane dei fedeli e al tempo stesso si mostra come
segno della comunione e dell'unità della Chiesa in Cristo che disse: « Dove sono due o tre riuniti in
mio nome, io sono in mezzo a loro » (Mt 18,20). Perciò i fedeli esercitino il loro apostolato in
spirito di unità. Siano apostoli tanto nelle proprie comunità familiari, quanto in quelle parrocchiali e
diocesane, che già sono esse stesse espressione dell’indole comunitaria dell'apostolato, e in quelle
libere istituzioni nelle quali si vorranno riunire”314.
Vi è poi la preoccupazione ecclesiologica del Concilio che è quella di far sì che ogni
battezzato viva il senso di Chiesa che non può essere imploso in una dedizione alla sola
associazione ma deve, questa, aiutare i suoi membri laici e se stessa a partecipare alla missione
della Chiesa universale che si realizza nelle Chiese particolari. Così infatti sottolinea il Concilio:
“Le associazioni non sono fini a se stesse, ma devono servire a compiere la missione della Chiesa
nei riguardi del mondo; la loro incidenza apostolica dipende dalla conformità con le finalità della
Chiesa e dalla testimonianza cristiana e dallo spirito evangelico dei singoli membri e di tutta
l'associazione… Salvo la dovuta relazione con l’autorità ecclesiastica i laici hanno il diritto di
creare associazioni”315.
Fatta questa doverosa premessa, uno dei compiti del fedele-laico all’interno del Popolo di
Dio è quello di vivere e testimoniare in ogni ambito l’“indole secolare”316. Ciò, anche all’interno
della Chiesa, implica la impegnativa missione di promuovere la conoscenza e la tutela dei diritti
naturali che danno valore e senso alla persona umana. Giovanni XXIII infatti nella sua enciclica
Pacem in Terris pone proprio lo sguardo qualificante della dottrina sociale della Chiesa sulla
centralità della persona soggetta di diritti e doveri317.
Sono proprio i diritti della persona umana che, posti come punto apicale di ogni civiltà e
società, costituiscono il senso vero della laicità. La Chiesa nella sua prassi e nella sua elaborazione
culturale non può trascurare i valori della laicità. Se lo facesse significherebbe rinunciare al dialogo,
al primato della coscienza e alla responsabilità di ciascuno verso la ricerca e il possesso della verità.
Non cogliere o soffocare questo clima significherebbe rinnegare l’atteggiamento voluto dal
Concilio Vaticano II, per una Chiesa in comunione con se stessa e con il mondo, al fine di essere
ciò che Cristo ha voluto che essa fosse: Sacramento di salvezza nel e per il mondo. Il concetto di
laicità è importante che venga acquisito da ogni fedele-laico e dall’intero Popolo di Dio per essere

                                                            
314
 Idem n. 18 
315
 Idem n. 19 
316
 CONCILIO VATICANO II, cost. dogm. Lumen Gentium n. 31 
317
 (Cfr.) GIOVANNI XXIII, Lett. enc. Pacem in Terris nn. 5‐20 
118 
 
 

“sale della terra” (Mt 5,13) e “luce del mondo” (Mt 5,14). Già nel II secolo dell’era cristiana
l’anonimo autore della lettera Ad Diognetum sottolineava il valore della laicità per i cristiani,
quando scriveva appunto che questi non dovevano segregarsi dalla società del loro tempo, in
ragione proprio dell’universalità della fede che proponevano318.
Non affrontare e prendere in considerazione le problematiche antropologiche o etiche
presenti nel vivere sociale e culturale del proprio tempo, sarebbe come rifiutare l’invito del Signore
“a lavorare nella sua vigna” (Mt 20,2). Oggi c’è bisogno di sottolineare anche, come attenzione del
Popolo di Dio, la cultura della laicità che nulla toglie al valore del sacro, in un certo senso lo libera
da quell’isolamento “di casta” dove spesso lo ha relegato una certa concezione di religione che ha le
sue radici in quel duo genera christianorum del Decreto di Graziano del 1140 dove appunto si
afferma che “vi sono due generi di cristiani. L’uno legato al servizio divino e dedito alla
contemplazione ed alla preghiera… costituito dai chierici e dai monaci. L’altro è il genere dei
cristiani al quale appartengono i laici… Ad essi è consentito possedere beni temporali, ma soltanto
in uso…, è lecito sposarsi, coltivare la terra, essere arbitri in giudizio, essere parte in causa, offrire
oblazioni sull’altare, pagare le decime…”319 Spesso il decreto di Graziano viene citato come il
documento che è all’origine della strutturazione gerarchico-giuridica della Chiesa. In esso però
troviamo anche le “radici remote del riconoscimento di una funzione propria dei laici”320. “Di
questo rapporto la Chiesa ha necessità, per svolgere la sua missione, e pertanto non può non
considerare e non conoscere il senso del concetto di laicità del mondo e non acquisire una sua
laicità nell’essere e nell’operare quale segno di Salvezza”321.
Questa laicità della Chiesa deve essere promossa in primis dal cristiano-laico che già vive
nella complessità delle realtà temporali il suo impegno di credente, e si concretizza in una
mutazione di atteggiamenti: far riscoprire ai battezzati la loro responsabilità di evangelizzatori e
testimoni e collaboratori nell’edificare la comunità, far superare il “sospetto” nei confronti del
mondo da considerare come “la vigna”322 nella quale il Signore ci ha inviati. Questo atteggiamento
è importante da far accogliere ed assumere dall’intera Comunità cristiana affinché questa acquisisca
un nuovo modo di porsi nella missione evangelizzatrice nel mondo.
Papa Francesco sintetizza tutto ciò nello stile della speranza e della misericordia. Questa è la
laicità che la Chiesa, grazie ai fedeli-laici, deve fare sua nello stile auspicato da Giovanni XXIII e
dal Concilio Vaticano II.
                                                            
318
 Ad Diognetum 6,1 
319
 Decretum Gratiani, c. 12, q I, c 7 
320
 B. FORTE, Laicato e laicità. Saggi ecclesiologici, Casale Monferrato 1986 p. 33 
321
 E. MALNATI, Teologia del laicato, nel magistero della Chiesa, Lugano 2005 p. 117 
322
 GIOVANNI PAOLO II, esort. ap. Christifideles laici n. 1 
119 
 
 

Comunicare questo “humus” è contribuire ad una reale conversione nello stile del rapporto
Chiesa-mondo indicato dal Vaticano II e creare i presupposti per una valorizzazione del positivo
esistente già nel vissuto dell’uomo. Questa laicità permette alla Chiesa di superare la visione
agostiniana del mondo, per lasciare il posto, senza irenismi, a quella visione della Gaudium et Spes
che esorta la Chiesa ad essere amica dell’umanità e pellegrina con essa, per una autentica
promozione integrale dell’uomo, alla luce dell’uomo nuovo che è Cristo.
Accanto alla missione della laicità che rende la fede luminosa e luce vera per ogni uomo e
donna, sia questi peccatore o santo, povero o ricco, insipiente o saggio ecc., il laico-cristiano,
accanto a chi è costituito nel ministero ordinato, è chiamato a fare sua la disponibilità per far
crescere la Comunità ecclesiale nella comunione con Dio e con i fratelli. Il Magistero
contemporaneo, grazie ad una presa di coscienza del laicato cattolico di essere corresponsabile
dell’edificazione della Comunità ecclesiale, indica al laico-cristiano dei campi, anche nella Chiesa,
dove egli si prodighi nell’espletare quell’impegno che gli deriva dal “Battesimo; dalla
Confermazione e, per molti di loro, dal Matrimonio”323. È proprio la loro incorporazione a Cristo
grazie ai sacramenti che fa dei fedeli-laici sia degli operatori di evangelizzazione nel mondo sia dei
collaboratori dei sacri-pastori per la Comunità ecclesiale, affinché questa cresca e sia viva
“esercitando ministeri diversissimi, secondo la grazia e i carismi che il Signore vorrà loro
dispensare”324. Queste funzioni che il cristiano-laico svolge sono denominate dal Magistero
contemporaneo “ministeri non ordinati”325 e sono legittimamente riconosciuti326 e quindi fanno
parte della strutturazione e organizzazione della Chiesa particolare. Non si tratta dunque di attività
suppletoria ma di ministeri veri e propri, sia istituiti che de facto (come quello del catechista) in
quanto hanno la loro radice nella sacramentalità non solo del battesimo sia perché furono presenze,
preziose e riconosciute, già all’origine della Chiesa327.
Paolo VI nel motu proprio Ministeria Quaedam (1972) ha istituito per i laici due ministeri: il
lettorato e l’accolitato dando così presenza significativa ed istituzionale al fedele-laico nella
Comunità ecclesiale anche nella Liturgia che ha una importanza essenziale nell’edificazione della
Chiesa. Ciò non deve però creare una “clericalizzazione” dei ministeri non istituiti. Se ciò avvenisse
verrebbe tradito l’impegno per una promozione del laicato nella liturgia e nella catechesi, rischiando
così di creare di fatto una struttura ecclesiale parallela a quella fondata sul sacramento

                                                            
323
 Idem n. 23 
324
 PAOLO VI, esort. ap. Evangelii Nuntiandi n. 73 
325
 Idem 
326
 Idem 
327
 Idem 
120 
 
 

dell’Ordine328. Anche il fedele-laico non “istituito” in alcun ministero è esortato ed ha la facoltà di


svolgere, in una Comunità ecclesiale dove non vi fosse il presbitero, “il ministero della Parola, a
presiedere alle preghiere liturgiche, ad amministrare il battesimo e distribuire l’Eucarestia”329. Tutto
questo ovviamente deve avvenire in comunione con coloro che tra il Popolo di Dio sono stati
costituiti Pastori. Ad essi infatti spetta di formare adeguatamente i fedeli-laici a conoscere la loro
identità, vocazione e missione, affinché sappiano responsabilmente svolgere la loro missione nella
Chiesa e nel mondo330, a beneficio del Regno di Dio e dell’unità della Chiesa. I fedeli laici sono
inoltre chiamati “a far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa”331. È in tal
senso che il fedele-laico ha il diritto-dovere di partecipare attivamente in quegli organismi di
comunione suggeriti dal Concilio e presenti nelle Chiese particolari come ad esempio il Consiglio
pastorale diocesano e parrocchiale e quello degli affari economici. L’obiettivo ovviamente è quello
di fare della Chiesa la casa che Dio ha preparato per l’umanità dove in Cristo e grazie a Cristo ogni
uomo trova salvezza e redenzione. Ciò ovviamente si realizza sia costruendo un clima di comunione
o di amicizia cristiana che sappia dare un concreto e disinteressato aiuto alle necessità332, sia
offrendo il proprio consiglio quale servizio all’evangelizzazione ed alla comunione sia
partecipando alla vita della Chiesa in forma personale333 o associativa334.

                                                            
328
 GIOVANNI PAOLO II, esort. ap. Christifideles laici n. 23 
329
 Codice di Diritto Canonico, can. 230 par. 3 
330
 GIOVANNI PAOLO II, esort. ap. Christifideles laici n. 23 
331
 CONCILIO VATICANO II, cost. dogm. Lumen Gentium n. 37 
332
 CONCILIO VATICAno II, decr. Apostolicam Actuositatem n. 4  
333
 GIOVANNI PAOLO II, esort. ap. Christifideles laici n. 28 
334
 Idem n. 29 
121 
 
 

5.4 Dignità e missione della donna

“Siccome ai nostri giorni le donne prendono parte sempre più attiva in tutta la vita sociale,
è di grande importanza una loro più larga partecipazione anche nei vari campi dell’apostolato
della Chiesa”335.
“Nel Cristianesimo, infatti, più che in ogni altra religione, [già lo aveva sottolineato
Giovanni XXIII nella Pacem in Terris n. 22], la donna ha, fin dalle sue origini, uno speciale statuto
di dignità, di cui il Nuovo Testamento ci attesta non pochi e non piccoli aspetti…; appare
all’evidenza che la donna è posta a far parte della struttura vivente e operante del Cristianesimo in
modo così rilevante che non ne sono forse ancora state elencate tutte le virtualità”336.

Anzitutto vogliamo sottolineare che trattando del concetto di laico il Magistero intende
espressamente uomo e donna volendo così togliere ogni discriminazione e nello stesso tempo
assicurare la giusta presenza della donna nella Chiesa e nella società. Questo criterio permette “una
considerazione più penetrante e accurata dei fondamenti antropologici della condizione maschile e
femminile, determinata a precisare l’identità personale della donna nel suo rapporto di diversità e di
reciproca complementarietà con l’uomo, non solo per quanto riguarda i ruoli da tenere e le funzioni
di svolgere, ma anche e più profondamente per quanto riguarda la sua struttura e il suo sigillo
personale… Impegnandosi nella riflessione sui fondamenti antropologici e teologici della
condizione femminile, la Chiesa si rende presente nel processo storico dei vari movimenti di
promozione della donna, vi apporta il suo contributo, ma prima e più ancora la Chiesa intende in
tale modo obbedire a Dio che, creando l’uomo «a sua immagine e somiglianza»: «maschio e
femmina li creò» (Gn 1,27)”337. Inoltre non può ignorare che Cristo Gesù promuove e valorizza
questa bipolarità in rapporto alla sua sequela.
Giovanni Paolo II non esita a sottolineare che “Sin dall’inizio della missione di Cristo la
donna mostra verso di Lui e verso il suo mistero una speciale sensibilità che corrisponde ad una
caratteristica della sua femminilità. Occorre dire inoltre che ciò trova particolare conferma in
relazione al mistero pasquale, non solo al momento della croce, ma anche all’alba della
risurrezione. Le donne sono le prime presso la tomba. Sono le prime a trovarla vuota. Sono le prime
ad udire: «Non è qui. È risorto come aveva detto» (Mt 28,6). Sono le prime a stringergli i piedi (cfr.

                                                            
335
 CONCILIO VATICANO II, decr. Apostolicam Actuositatem n. 9 
336
 PAOLO VI, discorso del 6 dicembre 1976 
337
 GIOVANNI PAOLO II, esort. apost. Christifideles laici n. 50 
122 
 
 

Mt 28,9). Sono anche chiamate per prime ad annunciare questa verità agli apostoli”338. Dopo aver
richiamato il ruolo della donna riportato dagli evangelisti nei vangeli, Giovanni Paolo II scrive che
“Quanto è stato detto finora circa l’atteggiamento di Cristo nei riguardi delle donne conferma e
chiarisce nello Spirito Santo la verità sull’eguaglianza dei due: uomo e donna. Si deve parlare di
una essenziale parità… L’uguaglianza evangelica, la parità della donna e dell’uomo nei riguardi
delle grandi opere di Dio, quale si è manifestata in modo così limpido nelle opere e nella parole di
Gesù di Nazareth, costituisce la base più evidente della dignità e della vocazione della donna nella
Chiesa e nel mondo”339.
Nella scia del Vangelo, la Chiesa delle origini si discosta dalla cultura del tempo e chiama la
donna a compiti connessi con l’evangelizzazione. Nelle sue lettere l’apostolo Paolo ricorda, anche
per nome, numerose donne per i vari compiti da loro svolti nelle prime comunità cristiane (cfr. Rm
6, 1-15; Fil 4, 2-3; Col 4,15; 1Cor 11,5; 1Tm 5,16). Ciò sta a dimostrare la pari dignità tra uomo e
donna che non annulla però la diversità, che forma quella complementarietà già impressa dal
Creatore volendoli maschio e femmina. Ciò che oggi fa problema e diviene argomento di dibattito è
il fatto che “nella partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa, alla donna non è conferibile
il sacramento dell’Ordine, e pertanto non può compiere le funzioni proprie del sacerdozio
ministeriale. È questa una disposizione che la Chiesa ha sempre ritrovato nella precisa volontà,
totalmente libera e sovrana, di Gesù Cristo che ha chiamato solo uomini come suoi apostoli. Una
disposizione che può trovare luce nel rapporto tra Cristo sposo e la Chiesa sposa”340.
Per comprendere appieno questa diversità di funzioni senza intaccare la comune dignità né
l’uguaglianza per la Chiesa tra l’uomo e la donna, bisogna partire dal fatto che il ministero ordinato
non è legato ad una maggiore dignità o perfezione della natura del battezzato, è invece collocato
nell’ambito del servizio quale funzione341 a favore della crescita spirituale dei singoli credenti e
dell’edificazione del Popolo di Dio quale ripresentazione sacramentale di Cristo Capo e Pastore. È
proprio questo stretto legame tra Cristo, che ci ha meritato grazia e santificazione con il suo mistero,
e colui che si decide a seguirlo attraverso l’itineranza sacramentale, che induce la Chiesa, pena la
nullità dell’effetto del sacramento stesso, a interpretare in senso rigido la volontà positiva di Cristo
circa il ministero ordinato previsto solo per i Dodici e non per le donne che pur dalla Galilea lo
hanno seguito sin sotto la croce. Se è vero, come è vero ciò che abbiamo richiamato, onestamente
questa esclusione non può essere considerata una diminutio per la donna, bensì una diversa presenza

                                                            
338
 GIOVANNI PAOLO II, lett. apost. Mulieris Dignitatem n. 16 
339
 Idem 
340
 GIOVANNI PAOLO II, esort. apost. Christifideles laici n. 51 
341
 Idem 
123 
 
 

nel servizio dell’evangelizzazione e nella comunione sia nella Chiesa che nel mondo. In tal senso
dopo il Concilio la Congregazione per la Dottrina delle fede (1976) nella Dichiarazione Inter
Insigniores dà i limiti e la posizione del Magistero circa questa problematica. Per quanto riguarda il
Presbiterato e l’Episcopato, la Chiesa Cattolica e Ortodossa non avendo mai pensato di scavalcare
la volontà positiva espressa da Cristo, non si ritengono autorizzate a pensare al Presbiterato o
all’Episcopato per le donne. Giovanni Paolo II il 22 maggio 1994, quale risposta all’ordinazione di
donne al Presbiterato da parte della Chiesa Anglicana, ribadisce la posizione negativa della Chiesa
cattolica342 con la Lettera Ordinatio Sacerdotalis. In questo pronunciamento del Magistero si
riconfermano le posizioni della Dichiarazione Inter Insigniores e si chiede di guardare alla donna
nella Chiesa non secondo i parametri delle “pari opportunità”, e neppure come problema di dottrina
ma come questione di ermeneutica teologica generale che non può prescindere dalla mens Christi di
cui la Tradizione fa fede343.
Chiarito questo punto quale servizio alla verità e non certo per mortificare, il Magistero
contemporaneo, da un’analisi sulla presenza della donna nella Comunità sub-apostolica come ci
riferiscono gli Atti344 e le lettere di Paolo345, individua una gamma di ambiti dove la donna è
chiamata non solo a svolgere la sua missione di evangelizzazione ma anche di autentica promozione
a tutela della dignità dei valori propri del consesso umano che solo lei può svolgere.
Uno dei compiti particolari che la donna dovrebbe fare proprio sia nella società che nella
Chiesa è quello dell’“ordine dell’amore” criterio qualitativo della sua dignità. Infatti così si esprime
Giovanni Paolo II: “Se non si ricorre a quest’ordine e a questo primato, non si può dare una risposta
completa ed adeguata all’interrogativo sulla dignità della donna e sulla sua vocazione”346. Oggi più
che mai, in questa cultura dell’effimero caratteristica della post-modernità con tutte le sue
contraddizioni, è necessario indicare che è missione e vocazione della donna, specie cristiana, far sì
che il tessuto culturale e sociale si renda realmente consapevole che “l’amore [vero] è una esigenza
ontologica ed etica della persona. La persona deve essere amata, perché solo l’amore corrisponde a
quello che è la persona”347. Ciò sta ad indicare – come sostiene il Magistero – che “la donna
rappresenta un valore particolare come persona umana e, nello stesso tempo, come persona
concreta, per il fatto della sua femminilità. Questo riguarda tutte le donne e ciascuna di esse,
indipendentemente dal contesto culturale in cui ciascuna si trova e dalle sue caratteristiche

                                                            
342
 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, lett. apost. Ordinatio Sacerdotalis n. 1 
343
 Idem n. 2 
344
 Cfr. At 18, 26‐27; At 21,9 
345
 Cfr. Rm 16, 1‐2; 1Cor 11, 2‐16; 1Cor 11,5; 1Cor 14, 34‐35; Gal 3,28; Col 4,15; Fil 1‐2; 1Tm 2, 11‐12; 1Tm 3,11 
346
 GIOVANNI PAOLO II, lett. apost. Mulieris Dignitatem n. 29 
347
 Idem 
124 
 
 

spirituali, psichiche e corporali come, ad esempio, l’età, l’istruzione, la salute, il lavoro, l’essere
sposa o nubile”348. Uno dei primi impegni-missione per la donna è quello di promuovere l’ordine
dell’amore senza del quale l’intera famiglia umana sarebbe compromessa e impoverita. Questo va
promosso e realizzato a tutti i livelli: nel matrimonio, nel celibato volontario per il Regno, nella
maternità, nell’impegno sociale, nel campo della vita nazionale e internazionale. Questo
inserimento nei vari tessuti della società e della Chiesa, dell’ordine dell’amore, da parte delle donne
è quel “segno dei tempi” indicato da Giovanni XXIII quale missione e presa di coscienza della
dignità della donna349, che non può mancare, dove – come spesso oggi riscontriamo – il concetto di
amore sovente riveste angolature ambigue ed estetico-utilitaristiche.
I Padri Conciliari affidano alle donne quale “apostolato urgente e prezioso” l’educare alla
350
pace . Il Magistero contemporaneo chiede alla donna di prendere coscienza e stigmatizzare quella
“presente mentalità che considera l’essere umano non come una persona ma come una cosa, come
oggetto di compra-vendita, a servizio dell’interesse egoistico e del suo piacere; la cui prima vittima
di tale mentalità è la donna”351.
Vi è poi la famiglia fondata sul matrimonio, sacramento considerato quale “immagine e
partecipazione del patto di amore del Cristo e della Chiesa che rende manifesta a tutti la viva
presenza del Salvatore nel mondo e la genuina natura della Chiesa, sia con l’amore, la fecondità
generosa, l’unità e la fedeltà dei coniugi, sia con l’amorevole cooperazione di tutti i suoi
membri”352. Alla concretizzazione di questo amore coniugale e familiare ed alla tutela della vita
nascente sono chiamati l’uomo e la donna che hanno fatto proprio il sacramento del matrimonio,
divenendo così testimoni “di fedeltà e di armonia nell’amore oltre che nella sollecitudine dei figli,
facendo la loro parte nel necessario rinnovamento culturale, psicologico e sociale a favore del
matrimonio [uomo e donna] e della famiglia [monogamica]”353. In questo contesto “la donna ha un
ruolo suo proprio che le deriva dal carisma della maternità, vista non solo come frutto dell’unione
matrimoniale ma in modo particolare come risultante di quella “conoscenza” biblica che
corrisponde all’unione dei due in una sola carne”354.

                                                            
348
 Idem 
349
 (Cfr.) GIOVANNI XXIII, enc. Pacem in Terris n. 22 
350
 CONCILIO VATICANO II, Messaggio all’umanità, 8 dicembre 1965 (v. alle Donne) 
351
 GIOVANNII PAOLO II, esor. apost. Familiaris Consortio n. 24 
352
 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E PACE. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 219 
353
 CONCILIO VATICANO II, cost. past. Gaudium et Spes n. 49 
354
 E. MALNATI, Teologia del laicato nel Magistero della Chiesa, Lugano 2005, p. 68 
125 
 
 

5.5 Relazioni tra Laici e Pastori nella Chiesa

“I laici, come tutti i fedeli, hanno il diritto di ricevere abbondantemente dai sacri pastori i
beni spirituali della Chiesa, soprattutto gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti; ad essi quindi
manifestino le loro necessità e i loro desideri con quella libertà e fiducia che si addice ai figli di
Dio e ai fratelli in Cristo. Secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la
facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della
Chiesa…... I laici, come tutti i fedeli, con cristiana obbedienza prontamente abbraccino ciò che i
pastori, quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono in nome del loro magistero e della loro autorità
nella Chiesa…. I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità
dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro
degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino
perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa…..Da questi familiari rapporti tra i
laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa”355.

La medesima dignità che il cristiano acquisisce con il Battesimo non preclude, all’interno
del Popolo di Dio, una diversità di ministeri, del resto già presenti nella Chiesa apostolica (1
Corinzi 12, 28-31).
Tale distinzione ha le sue radici nella volontà cristica che è orientata all’unità dei Suoi
(Giovanni 17, 21).
Tra fedele-cristiano-laico e sacri-pastori non vi può che essere una costante ricerca di
convergenza, comunione e dialogo se si vuole raggiungere lo scopo per cui il Signore ha voluto la
Chiesa.
Questa tensione non è fondata su un’opportunità orizzontale, bensì su un fatto teologale. Ciò
implica sia per i pastori che per i laici-cristiani una responsabilità nei confronti della comune
missione affidata da Cristo: per l’edificazione della Comunità dei Discepoli e l’annuncio della
“Buona Notizia” a tutte le genti.
Il Magistero conciliare così vede questa mutua tensione: “I laici, come tutti i fedeli, hanno
diritto di ricevere abbondantemente dai sacri-pastori, i beni spirituali della Chiesa, soprattutto gli
aiuti della Parola di Dio; a essi quindi manifestino le loro necessità e i loro desideri, con quella
libertà e fiducia che si addice ai figli di Dio e ai fratelli di Gesù Cristo. Secondo la scienza,
competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere

                                                            
355
 CONC.VAT.II, cost dog Lumen Gentium n. 37 
 
126 
 
 

il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa” 213.


Qui si parla di un diritto del fedele-cristiano-laico nei confronti dei sacri-pastori a essere
iniziati all’autentica comprensione e acquisizione sia dei “beni spirituali” che degli “aiuti della
Parola di Dio”.
Non a caso il Concilio inizia il paragrafo 37 della Lumen Gentium titolato “Relazioni con la
Gerarchia” in quest’ottica.
Il fedele-cristiano-laico che è presenza di Chiesa tra le realtà temporali nella sua dimensione
interna al Popolo di Dio, non può che chiedere e avere, con coloro che egli riconosce guide della
Comunità, in virtù della loro appartenenza – mediante il sacramento dell’Ordine – a Cristo-Capo,
quei mezzi necessari a svolgere il suo ruolo di testimone di Cristo nel mondo.
Si tratta dunque di un rapporto necessario che costituisce un dovere per i sacri-pastori e un
diritto per il laico-cristiano.
Infatti è indispensabile per ogni battezzato usufruire dei “beni spirituali” quali i sacramenti,
onde poter essere, sul piano della grazia, a Dio unito e quindi offrire se stesso affinché Cristo possa
operare e salvare in quel contesto della storia.
I fedeli-cristiani-laici, essendo incorporati al Popolo di Dio, devono essere dei “tralci vivi”,
uniti cioè a Cristo e perciò hanno bisogno di sentire vivo il desiderio di poter essere adeguatamente
iniziati alla conoscenza di quei beni spirituali, che costituiscono il patrimonio di una vita aperta
all’opera dello Spirito.
Questa ricerca di comunione con la vocazione alla santità, costituisce il primo scambievole
aiuto tra pastori e laici. Nei confronti dei sacri-pastori il fedele-laico ha il diritto di trovare in essi:
dei maestri sicuri che sappiano promuovere e scoprire i carismi presenti tra il Popolo di Dio, quali
attenzioni dello Spirito per le esigenze dei vari tempi e degli interpreti sapienti di quel “depositum
fidei” che è patrimonio dell’intera Chiesa.
Il rapporto che si deve stabilire tra il “munus” dei sacri-pastori e il laico-cristiano è quello
di Cristo nei confronti del Padre: fedeltà, ascolto, incarnazione operativa, testimonianza originale:
cioè obbedienza.
356
Già negli scritti di Pietro viene sottolineato questo concetto ripreso dal Concilio
affermando che il cristiano è colui che viene santificato dallo Spirito Santo perché sappia obbedire a
Cristo (1 Pt 1, 2).
L’esercizio del Magistero da parte dei sacri-pastori è un impegno di responsabilità e fedeltà
nei confronti della trasmissione leale del dato rivelato che implica, da parte di tutto il Popolo di Dio,

                                                            
356
 ibid 
127 
 
 

“religioso ascolto”.
Ciò non deve essere inteso dal laico-cristiano come una sudditanza bensì considerato come
la necessaria ottica – già fatta propria da Cristo nei confronti della volontà del Padre – che l’intero
Popolo di Dio deve acquisire, affinché lo stile della Redenzione sia perpetuato in ogni dimensione
della storia. Secondo questa presentazione il rapporto di obbedienza del fedele-cristiano-laico al
Magistero dei sacri-pastori significa: incarnare Cristo essendo di Cristo e vivendo per Cristo.
È necessario – per poter raggiungere un rapporto autentico e adulto – che sia i sacri-pastori
sia i laici-cristiani conoscano il reciproco ruolo nei confronti della missione alla quale, come
battezzati, tutti sono stati chiamati anche se non solo con diversità di ruoli.
Ciò non per opportunità organizzativa, bensì come risposta e continuità con quanto gli
Apostoli hanno fatto, fondando le varie Comunità cristiane (Tt 1, 5; 1 Cori 4, 15) sotto l’azione
dello Spirito.
Un aspetto importante del rapporto tra laici e pastori è quello del dialogo e del consiglio. Il
Concilio Vaticano II ritiene importantissimo questo stile tanto da farne un dovere per i vescovi e i
presbiteri357 e auspica l’istituzione di un dialogo permanente a tutti i livelli, da quello
internazionale, nazionale, interdiocesano, diocesano, parrocchiale ecc.358 .
Il concetto di Chiesa-comunione si fonda proprio sull’ascolto e sulla corresponsabilità di
tutto il Popolo di Dio nei confronti delle grandi urgenze della società contemporanea, nelle varie
parti del mondo.
La Chiesa che è “sale della terra” e “luce per le genti” non può disattendere queste urgenze,
quindi per forza di cose – se vuole essere nella storia in modo fattivo – deve acquisire questo stile di
ascolto e corresponsabilità.
Ruolo importante del fedele-cristiano-laico, in virtù proprio del fatto di essere stato educato
ad avere “viva coscienza di essere un membro della Chiesa”359 , è quello di far conoscere ai sacri-
pastori il suo parere su cose concernenti il bene della Chiesa nello stile evangelico360.
Il Concilio a questo proposito non circoscrive né mette limiti alle problematiche nei
confronti delle quali il laico-cristiano può offrire il suo parere. Fa leva invece sull’identità del laico
il quale deve avere “prestigio”361 “scienza” e “competenza”363 .
362

Vediamo di cogliere il senso di queste qualità.


                                                            
357
 CONC.VAT. II, decr. Apostolicam Actuositatem n. 25 
358
 Ibid n.26 
359
 GIOVANNI PAOLO II, esort. ap. Christifideles Laici n.28 
360
 CONC. VAT. II, cost dogm. Lumen Gentium   n.37 
361
 ibid 
362
 ibid 
363
 ibid 
128 
 
 

a) Prestigio: si intende non certo il censo o il rango, bensì la maturità umana e cristiana del
fedele-laico che ne fa una persona credibile, per il suo amore alla Chiesa e la ponderatezza
nel giudizio. Deve vivere anzitutto la vita della Comunità cristiana in modo concreto:vita
liturgica,sacramentale, caritativa. Essere in famiglia testimone cristiano del suo ruolo e
nella vita lavorativa o civile deve essere riconoscibile come colui che, in comunione con il
magistero della Chiesa,è presenza di quei valori non negoziabili che sono vera promozione
della dignità della persona umana e di una civiltà degna dell’uomo immagine e somiglianza
di Dio. Deve essee inoltre attento a quel dialogo sia nella Chiesa che nei confronti delle
altre presenza cristiane e religiose, senza irenismi o integralismi, persuaso che Cristo è
Colui che rivela all’uomo tutto l’uomo364 ed è l’unico Mediatore che offre salvezza e
redenzione all’umanità impoverita esistenzialmente dalla colpa adamitica.

b) Scienza. I fedeli laici, in virtù proprio del loro essere inseriti nel saeculum attraverso il loro
lavoro materiale, sociale, educativo,intellettuale, artistico, acquisiscono ed hanno acquisito
nel loro campo un’autorevolezza specifica data dalla conoscenza richiesta per il loro
impegno. Questa scienza, che viene resa preziosa dall’esperienza del vivere con le
problematiche che interpellano il quotidiano, è un patrimonio che non può esaurirsi solo per
il soggetto o il suo ambito di impegno lavorativo o sociale. Anche la Comunità ecclesiale
della quale è parte il fedele laico ha il dovere-diritto, attraverso gli organismi ecclesiali di
comunione, di avvalersi di quella esperienza scientifica per indicare nelle scelte
antropologiche, educative, economiche, socio-politiche e internazionali di cui il Magistero
deve tener conto quale fedeltà alla Rivelazione, come non contraddittoria o contraria ad
un’onesta ricerca scientifica. Scienza e fede non sono antitetiche, bensì complementari per
una libera ed integrale verità sull’uomo e un suo agire in conformità a quel diritto naturale
che è di tutti e per tutti quale fondamento di un’umanità rispondente alla sua dignità, degna
di chi è “rivestito” di razionalità, responsabilità, relazionalità, che fanno di una persona e di
una collettività soggetti esistenzialmente virtuosi, come appunto richiede chi è persona
umana

c) Competenza. Il Concilio chiede che il fedele laico sappia offrire a coloro che sono guide
nella comunità cristiana e maestri-testimoni della fede le proprie competenze nei campi in
cui il battezzato è inserito ed opera. Oggi più che mai è importante richiedere, da parte dei
sacri pastori, ed offrire, da parte dei fedeli laici, quelle competenze nel campo pedagogico,
affettivo e familiare, affinchè la pastorale possa essere mirata e metodologicamente incisiva
                                                            
364
 CONC VAT II, cost.past. Gaudium et Spes n.22 
129 
 
 

riguardo a certe situazioni che non possono essere poste in atto con superficialità.
Ovviamente in tali progettualità non vi può né vi deve essere l’asservimento ideologico,
spesso latente, bensì una valutazione attenta a ciò che è doveroso offrire a situazioni di
disagio, ma sempre nel criterio di scelte evangeliche offerte da una fedeltà alla verità
antropologica, che ha le sue radici nel diritto naturale, all’ascolto del patrimonium fidei di
cui il Magistero ne è qualificato interprete, ed alle esigenze dell’uomo del suo tempo con
quella carità ed autonomia di associarsi, sentito i Pastori, mai contro Dio, mai contro chi è
impoverito. Ciò sempre nella verità, nella giustizia, nella libertà e nell’amore.
Caratteristiche queste già presenti nella dottrina sociale della Chiesa e ribadita da Giovanni
XXIII nella Pacem in Terris. I sacri Pastori non possono illudere i fedeli laici, non
indicando ciò che è proprio del battezzato che si “compromette” con la povertà del suo
tempo. Il fedele laico non può eludere o tanto meno contrapporsi al magistero della Chiesa
in campo di fede e di morale, senza con ciò attentare alla verità e alla comunione.

130 
 

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