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Capitolo II – LE FONTI DEL DIRITTO

1. Delimitazione dell’indagine
Il fenomeno giuridico prende forma in una serie di regole istituzionali e organizzative. Il
complesso di queste regole costituisce un sistema, un’entità omogenea e conclusa i cui
elementi risultano fra loro coordinati. Da ciò deriva che il sistema trova il suo fondamento nel
principio ordinatore e nei valori ad esso collegati ed è disciplinato da altre regole dirette a
stabilire gli organi e le procedure per la sua formazione e i modi in cui le regole devono
essere coordinate.
Abbiamo quindi: a) una serie di valori che assicurano la vigenza del sistema e lo legittimano;
b) una serie di regole in cui questi valori vengono fissati in una formulazione linguistica; c)
una serie di regole che stabiliscono gli organi e le procedure per la produzione delle regole
sub b); d) una serie di regole per il coordinamento del sistema nel suo interno.
Ad esempio, si pensi alla nostra costituzione che è espressione, tra gli altri, del valore
“eguaglianza”. Fino a quando questo valore sarà presente nella comunità, il sistema o quella
parte di sistema che su di esso si regge potrà dirsi vigente e legittimo. Inoltre, il valore
eguaglianza è formulato nella costituzione in alcune regole costituzionali (artt. 3, 29,51) che
ne fissano i termini. Occorre però che esso trovi attuazione, vale a dire che altre regole lo
rendano concretamente operante. L'atto attraverso cui si raggiunge questo risultato è la legge,
nel senso che la legge, non potendo operare discriminazioni di alcun genere, deve assicurare
l'eguaglianza (formale). L'organo a cui è affidata la funzione legislativa è il Parlamento. Il
Parlamento, tuttavia, nel formulare la legge non può, operare discriminazioni tra i cittadini,
incontra cioè dei limiti nella regola istituzionale all'art.3; Il che significa che quest'ultima
regola è sovraordinata alle regole emanate dal Parlamento. Le due regole (quella
costituzionale e quella contenuta nella legge) devono essere fra loro coordinate in un rapporto
che vede la prima in una posizione di preminenza; In caso contrario legge del Parlamento
sarebbe costituzionalmente illegittima e la Corte costituzionale potrebbe dichiararne
l’illegittimità.
Quindi potremmo dire che il fenomeno giuridico trova la sua prima origine nella necessità
dell'uomo di associarsi ad altri uomini per perseguire certi interessi e tutelare valori, ma, si
esteriorizza negli atti (e nei fatti) che pongono le regole istituzionali ed organizzative.
Quando parliamo di valori supremi sui quali si fonda l'ordinamento ci riferiamo a qualcosa
che gli dà vita, che lo legittima. Tali valori immanenti e astratti devono trovare la loro
formulazione in una proposizione linguistica che ne possa precisare i termini e la portata, e
costituisca una fonte del diritto positivo, intendendo per diritto positivo quello posto in essere
dagli organi a ciò espressamente deputati nelle forme e nei modi previsti e sia effettivamente
vigente.

2. La norma giuridica
Lo studio delle fonti del diritto positivo presuppone la conoscenza del concetto di norma
giuridica. La giuridicità di una norma si misura in base alla sua attitudine ad assicurare la
stabilità e la continuità nel tempo di un gruppo sociale. Questa è la differenza fondamentale
che isola le norme giuridiche e dalle altre norme sociali (morali, religiose, di costume) in
quanto solo la norma giuridica determina e specifica gli interessi per il cui soddisfacimento il
gruppo si è costituito. Inoltre, una regola religiosa può essere seguita o no da ciascun
individuo e della sua osservanza si risponde soltanto davanti alla propria coscienza. Quando
però un gruppo sociale ritiene essenziale, per la sua la possibilità e per la sua pacifica
convivenza, adottare questa regola, la fa propria e la traduce in una norma, inserendola in un
sistema garantendone l’osservanza e applicando, nel caso, una misura punitiva (sanzione).
Quindi le norme giuridiche sono enucleate da formulazioni linguistiche che: a) evidenziano
gli interessi propri del gruppo; b) prescrivono i modi ed i limiti con i quali soggetti possono o
devono perseguire interessi; c) determinano gli organi e le procedure per accettare dichiarare
inosservanza delle prescrizioni; d) stabiliscono la sanzione da applicare nei confronti di chi
non ha osservato la norma, al fine di ripristinare l'ordinamento giuridico violato e di
assicurare la certezza dei rapporti giuridici.
I destinatari delle norme sono tutti i consociati (tutti posso agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti art. 24 Cost) od alcuni di essi, individuabili sulla base di determinate
caratteristiche (i capaci e i meritevoli art. 34 Cost.); ma non è escluso che le norme possano
avare come destinatari singoli individui (ad es. La legge che attribuisce la pensione alla
vedova di una illustre personalità). Le norme possono anche indirizzarsi anche ad organi e
soggetti dello Stato-apparato (“Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge,
può con decreto motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione” art.74 Cost.).
A) La norma per essere giuridica deve essere positiva, vale a dire deve annunciare un
interesse effettivamente vigente nella comunità o predisporre gli strumenti necessari per il
suo soddisfacimento e la sua tutela. Così inteso, la positività si connette strettamente al
carattere della effettività intesa come concreta efficacia della norma. La effettività si può
intendere in due sensi: in senso prescrittivo-deontologico o in senso storico-esistenziale. Il
primo senso significa che una norma giuridica è tale solo se concretamente efficace e
applicabile; nel secondo significa che la norma giuridica gode o ha goduto in un determinato
periodo storico di concreta efficacia e applicazione. Per il primo significato bisogna essere
molto cauti, per non correre il rischio di una convalida indiscriminata della forza che si
identificherebbe con il diritto. Per dare una risposta si potrebbe dire che l’effettività delle
norme giuridiche si valuta all'interno di un sistema dato, al di fuori del quale i principi
fondamentali potrebbero essere distorti, incompatibili e privi di qualsiasi forma convalidante.
Infatti, il mutamento dei principi fondamentali toglie legittimazione giuridica a tutto
l'apparato normativo e istituzionale.
B) La norma giuridica è coattiva, nel senso che, qualora l'interesse della comunità richieda la
sua puntuale osservanza, l'ordinamento appresta gli strumenti (sanzioni) affinché il precetto
normativo sia eseguito anche contro la volontà o in assenza della volontà del destinatario.
Nell’ipotesi in cui la violazione della norma sia tale da impedire il soddisfacimento o la tutela
dell'interesse protetto, anche in via coattiva, la sanzione consisterà nell’applicazione di una
misura punitiva verso colui che non ha obbedito. Coattività e sanzione vanno pertanto quali
elementi che si integrano l'un l'altro.

Tuttavia, va detto che non tutte le norme giuridiche esprimono un comando assistito, in caso
di inosservanza, da una sanzione, poiché accanto alle norme coattive si pone un'altra
categoria di norme che coattive non sono. Si pensi infatti alle norme che attribuiscono
capacità, diritti, potestà, situazioni giuridiche attive in genere, alle norme istituzionali, le
norme organizzative, alle norme permissive che cioè prevedono come lecite determinate
azioni od omissioni, alle norme definitorie, alle norme promozionali e alle c.d. norme di
incentivazione (consistenti nel promettere una ricompensa: ad esempio, una facilitazione, un
contributo finanziario, a chi adotta un determinato comportamento). Tali norme sono
comunque al pari delle altre, dotate del carattere della positività, inserite in un sistema
normativo e non possono non essere rispettate; esprimono quindi un interesse meritevole di
tutela. Ad esempio, si esamini il comma I dell’art.1 Cost.: è evidente che i valori che esso
enuncia richiedono il rispetto da parte di chiunque operi nell'ordinamento. O, ancora, l'art.
769 c.c.(donazione) la cui norma serve come modello per definire un atto giuridico come
donazione o no. Inoltre, alcune delle norme sopra menzionate, pur non essendo assistite da
una sanzione puntuale, per la loro stessa natura richiedono di essere attuate. I fini in esse
previsti devono, nel corretto funzionamento del sistema, essere soddisfatti. Sono queste, in
particolare, le norme promozionali (o programmatiche) presenti nella nostra Costituzione, le
quali determinano i fini intorno ai quali la comunità statale si è costituita ed il cui
perseguimento ha ritenuto essenziale. Si pensi a questo riguardo, l'art.4 comma I Cost.: “La
Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che
rendano effettivo questo diritto”: in questa norma il fine da raggiungere è chiaramente
determinato ed è cioè la piena occupazione. Ora la Repubblica è impegnata a promuovere le
condizioni perché questo fine venga conseguito. Questo impegno acquista rilievo giuridico
sotto un duplice profilo: uno positivo, nel senso che le autorità alle quali spetta questo
compito devono attivarsi e promuovere le condizioni per eliminare la disoccupazione; ed uno
negativo, nel senso che non possono essere consentite attività che contrastino con il fine
predetto.

C) Il carattere della esteriorità della norma giuridica consiste in ciò che essa, a differenza di
altre regole, disciplina la vita di relazione e ne organizza i modi di svolgimento. Questo
carattere si può comprendere meglio facendo riferimento a quelle regole per esempio
igieniche come il lavarsi ogni mattino la cui osservanza non ha alcuna incidenza sullo
svolgimento della vita associata; per cui la loro osservanza è frutto di autodeterminazione e
non può essere imposta. Invece la osservanza (anche coattiva) delle norme giuridiche è
richiesta per il loro essere espressione o strumento di attuazione dei valori vigenti in una
comunità.

D) La generalità consiste nell’attitudine della norma di regolare categorie di fatti o di


comportamenti senza riferimento a situazioni o soggetti determinati. Si pensi a questo
riguardo all'art. 43, comma I, cod. civ. (il domicilio di una persona...) o all'art. 53, comma I,
Cost. (tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche…).

D2) Collegata alla generalità è l’astrattezza, in quanto la norma finisce col disporre in via
preventiva ed ipotetica e secondo uno schema logico in base al quale se si verifica l'evento A
deve verificarsi l'evento B; ovvero, dato il comportamento e lo stato di fatto A, si ha l’effetto
B. Si pensi all’art. 575 cod. pen. (Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la
reclusione non inferiore ad anni ventuno). È da notare che tale carattere è ormai controverso
in quanto si ritiene che non valga più a definire la giuridicità della norma in una società come
l'attuale, sempre più frammentata in gruppi che richiedono trattamenti normativi differenziati
e adeguati alle esigenze. Tuttavia, il venir meno del carattere della generalità e
dell'astrattezza, pregiudica la stabilità dell’ordinamento e la certezza del diritto.
Il carattere della generalità e dell'astrattezza è di grado inferiore nelle norme speciali (con le
norme che rispetto a quelle generali, sta nel rapporto di species a genus) e nelle norme
eccezionali (che contengono una deroga alla norma generale).
Mantenendoci sul carattere della generalità e dell’astrattezza, è possibile differenziare il
concetto di “disporre” in generale ed in astratto per tutti i possibili casi futuri ed il concreto
“provvedere” nei singoli casi particolari, in attuazione sulla base ed entro i limiti di norme
antecedentemente poste (CRISAFULLI). Infatti, dubbi possono sorgere sulla natura delle
leggi c.d. personali, cioè di quelle leggi che hanno per destinatari soggetti singoli e
determinati e in genere delle leggi con le quali vengono assunti provvedimenti concreti (e
quindi non astratti), con riferimento a situazioni e a soggetti determinati e che sono definite
leggi- provvedimento. Sembra comunque che tali atti legislativi posseggano la forza propria
della legge e degli atti ad essa equiparati ma non la natura normativa; cioè non contengono
norme giuridiche.
Se così non fosse infatti, non vi sarebbe la necessità di distinguere la volizione espressa in
una norma con la volizione espressa nel provvedimento amministrativo o nella sentenza
essendo dotate anch’esse della positività, della coattività e della esteriorità. Per meglio
chiarire, si prenda in esempio l'atto amministrativo dell’autorità comunale con cui si dispone
l'espropriazione di un bene immobile e la legge con la quale il Parlamento espropria una
determinata impresa i servizi pubblici essenziali ed abbia carattere di preminente interesse
generale. In entrambi i casi, gli effetti dell'espropriazione consistono nel trasferimento della
proprietà del bene dall'espropriato all'espropriante, ma ciò che muta è la forma dell'atto con
cui l'espropriazione viene effettuata: nel primo caso l’espropriato potrà esperire i normali
ricorsi in sede amministrativa e giudiziaria; nel secondo, l'espropriato non avrà altra difesa se
non quella indiretta di un'impugnativa per illegittimità costituzionale per vizi formali o
sostanziali dell'atto.
Le leggi-provvedimento costituiscono uno dei casi di deroga al principio della divisione dei
poteri, dato che non spetterebbe al legislatore ordinario emanare atti a contenuto concreto.

Tuttavia, questo accade oggi molto spesso in virtù del fatto che lo Stato, essendo responsabile
di una struttura sociale giusta, svolge funzioni che non si inquadrano più esattamente nelle
forme di attività dello Stato di diritto. In altre parole, la legge provvedimento è lo strumento
di cui oggi fa uso il legislatore per raggiungere in via diretta ed immediata alcuni fini propri
dello Stato sociale. È bene comunque porre dei limiti, sebbene la Costituzione non vieti che
la legge assuma un contenuto concreto. Quindi il legislatore non è legittimato a disporre a suo
piacimento nel campo proprio del potere esecutivo, perché il principio della divisione dei
poteri ne uscirebbe stravolto.

In conclusione, possiamo definire la norma giuridica come “una prescrizione generale ed


astratta che identifica ed enuncia gli interessi vigenti in un gruppo sociale od appresta le
procedure per la loro tutela ed il loro concreto soddisfacimento e della quale, pertanto,
deve essere garantita all'osservanza”.

3. Fonti di produzione e fonti sulla produzione; fonti-atti e fonti-fatti; fonti


dirette e fonti indirette; fonti di cognizione.
Le norme giuridiche sono normalmente desumibili da una formulazione linguistica scritta
(che assume la forma tipica, ed il nomen iuris, degli atti normativi: legge, decreto-legge,
regolamento), per conferire loro un certo grado di certezza e di stabilità. Testo scritto e norma
sono due entità distinte da non confondere, in quanto la norma è esterna all’atto che l’ha
posta e non si identifica con la statuizione legislativa (detta formula normativa o
disposizione) risultante da un singolo articolo o da più articoli di un testo normativo. Spetta
infatti all’interprete enucleare la norma dalla situazione legislativa, tenuto conto, oltre che dei
principi generali, dell’insieme delle disposizioni di quel testo o di altri testi connessi
(MORTATI).

In presenza di una fonte del diritto, è dato distinguere:


A) l'aspetto formale, cioè l'atto in quanto posto in essere secondo una determinata procedura
(la legge, il decreto-legge)
B) l'aspetto sostanziale, cioè il contenuto dell'atto, ciò che è con l'atto viene disposto (formula
normativa, disposizione);
C) la norma giuridica desumibile dall’atto secondo i criteri sopra enunciati. La norma può
essere desunta anche da un comportamento (consuetudine).

Si definiscono fonti normative gli atti ed i fatti mediante i quali vengono poste (prodotte) le
norme giuridiche. La fonte è lo strumento tecnico predisposto o riconosciuto
dall’ordinamento che serve a produrre il diritto oggettivo. Per questo vengono definite fonti
di produzione. Inoltre, le fonti di produzione vengono a loro volta predisposte o riconosciute
dall’ordinamento, nel senso che questo disciplina gli organi e le procedure necessarie alla
produzione delle norme. Ad esempio, l'art. 70 Cost. (“La funzione legislativa è esercitata
collettivamente dalle due camere”) stabilisce quali organi sono deputati a produrre le leggi,
mentre l'art. 72 Cost. determina la procedura per la formazione delle leggi. In questi casi
siamo in presenza di una fonte di produzione (nella specie di norme organizzative) che è, al
tempo stesso, fonte sulla produzione, cioè fonte di norme che determinano gli organi e le
procedure di formazione del diritto. Le fonti sulla produzione sono contenute nella
Costituzione, per il rilievo non soltanto formale e sostanziale che assumono. Infatti, si
comprende quale importanza abbia stabilire a chi e mediante quali procedimenti spetti di
produrre norme costitutive dell’ordinamento.

A loro volta le fonti sulla produzione derivano anch'esse da una fonte, cioè da un atto o un
fatto che determina il modo in cui devono essere poste. Tale fonte nel nostro ordinamento
corrisponde all'art.1 del d.lgs. luogotenenziale 151/1944, secondo cui la nuova Costituzione
dello Stato doveva essere deliberata da un'assemblea costituente eletta a suffragio universale
diretto e segreto dal popolo italiano. Si è quindi demandato ad un'assemblea elettiva di
operare le scelte circa gli organi delle procedure di produzione delle norme e circa gli
interessi essenziali da tutelare.

Le fonti normative si distinguono in fonti-atti e fonti- fatti. le fonti-atti sono costituite da


manifestazioni di volontà espresse da un organo dello Stato-soggetto o di altro ente a ciò
legittimato dalla Costituzione e trovano la loro formulazione in un testo normativo (fonti
scritte). Le fonti-fatti consistono in un comportamento oggettivo (consuetudine od uso) o in
atti di produzione giuridica esterna al nostro ordinamento e che pertanto vengono assunte
come fatti (trattato internazionale) (l'uno e gli altri riconducibili alla categoria delle fonti non
scritte). Tale distinzione acquista rilevanza pratica perché aiuta a delimitare la competenza
della Corte costituzionale che è chiamata a sindacare la conformità alla Costituzione delle
fonti-atti (e non delle fonti-fatti), più in particolare, delle leggi e degli atti aventi forza di
legge, dello Stato delle regioni.

Altra distinzione è quella tra fonti dirette e fonti indirette: si hanno le prime quando la fonte
prevista è regolata nello stesso ordinamento; le seconde quando essa è disciplinata in un
ordinamento esterno a quello dello Stato. In quest'ultimo caso è necessario che la norma
prodotta sia recepita e resa efficace nell’ordinamento in cui la si vuole applicare attraverso
procedure.

Tra le fonti del diritto viene annoverata anche la necessità, come elemento intrinseco
legittimante di un’attività che, senza di esso, sarebbe contrario al sistema legale. Per
comprendere meglio, è opportuno distinguere dallo stato di necessità, che è previsto negli
ordinamenti come condizione e presupposto per l’emanazione di un atto o il compimento di
attività in deroga all'ordine prestabilito delle competenze. Si pensi all'art. 77 o agli artt.13 e
14 della nostra Costituzione. Invece la necessità come fonte, opera a volte contro
l'ordinamento ed è connessa strettamente ad un fatto che ha la forza di imporsi come
normativo. La necessità diviene fonte del diritto cioè quando occorre far fronte a situazioni
eccezionali, non previste né prevedibili, al fine di salvaguardare i valori essenziali
dell’ordinamento. Proprio per questo, essendo evidente che si ricorre a strumenti extra legali,
questa finisce con l'essere uno strumento politico e contingente.

Si ricordano inoltre le fonti di cognizione, che stanno ad indicare i documenti ufficiali nei
quali vengono racchiuse le disposizioni normative (la raccolta ufficiale degli atti normativi
della Repubblica italiana).

4. Le fonti sulla produzione nell’ordinamento italiano


Nel nostro ordinamento le fonti sulla produzione sono contenute nella Costituzione, nelle
leggi costituzionali e in altri testi legislativi.
Esse sono: legge costituzionale; legge ordinaria; legge delegata; decreto legge; regolamenti
governativi; referendum abrogativo di leggi statali o di atti aventi valore di legge; statuto
Sardegna, statuto Trentino Alto Adige, statuto Friuli Venezia Giulia, statuto Sicilia, statuto
Valle d'Aosta (referendum abrogativo, propositivo e consultivo); referendum abrogativo di
leggi delle regioni di diritto comune; il contratto collettivo di lavoro; Regolamenti
parlamentari; Regolamenti della Corte costituzionale; Statuti regionali speciali; statuto
Sicilia, statuto Sardegna, statuto Trentino Alto Adige, statuto Friuli Venezia Giulia, statuto
Valle d'Aosta (norme di attuazione degli statuti speciali); statuti delle regioni ordinarie;
statuto Sicilia, statuto Sardegna, statuto Trentino Alto Adige, statuto Friuli Venezia Giulia,
statuto Valle d'Aosta (leggi regioni a statuto speciale); Legge ragioni a statuto ordinario;
statuto Sicilia, statuto Sardegna, statuto Trentino Alto Adige, stato Friuli Venezia Giulia,
statuto Valle d'Aosta (regolamenti regioni a statuto speciale); regolamenti regioni a statuto
ordinario; statuto Trentino Alto Adige (leggi provinciali); adattamento automatico; Legge di
autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali qualora contenga l'ordine di esecuzione.

1) Nelle fonti sopra riportate non è menzionata la Costituzione in quanto essa è sovraordinata
a tutte le altre fonti e non può essere compresa in un ordine da essa creato, anche se secondo
un'altra tesi la Costituzione rientrerebbe invece al primo posto tra le leggi costituzionali in
quanto deliberata dall’Assemblea costituente e promulgata dal capo provvisorio dello Stato.
2) il procedimento di formazione di alcune di queste fonti è disciplinato in altri testi
normativi e questo vale per: a) regolamenti normativi, per i quali l'art. 87 li menziona in
merito alla loro emanazione attribuita al presidente della Repubblica, per cui bisogna fare
riferimento, per le fasi precedenti alla legge 1988/400; b) referendum abrogativi di leggi delle
regioni di diritto comune, la cui disciplina è rinviata gli statuti; c) regolamenti delle regioni di
diritto comune, per i quali si rinvia allo statuto regionale per la pubblicazione; d) regolamenti
della Corte costituzionale, essendo la relativa potestà attribuita alla Corte.
3) altre fonti non sono previste nella costituzione anche se esse devono trovare in questa la
loro legittimazione. Si pensi ai bandi militari il cui fondamento potrebbe essere rinvenuto
nell’art. 78; e alle c.d. “fonti comunitarie” o dell'Unione europea, cioè regolamenti, le
direttive e dalle decisioni in cui fondamento si fa risalire all’ art. 11; agli statuti ed ai
regolamenti delle province dei comuni ed agli statuti e ai regolamenti degli enti pubblici non
territoriali la cui legittimità potrebbe ricollegarsi al principio di autonomia del decentramento.
4) la Costituzione non menziona la consuetudine come fonte-fatto e si limita a legittimare
come fatti normativi “le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.

A norma degli artt. 3 e 4 delle Preleggi, il potere regolamentare di autorità diverse dal
Governo deve essere esercitato nei limiti delle rispettive competenze; i regolamenti così
emanati non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti del Governo. A questo
riguardo la Corte costituzionale si è pronunciata a favore della legittimità costituzionale dei
regolamenti ministeriali, sostenendo che una legge o un atto avente stessa efficacia di legge
formale può attribuire al ministro la potestà di emanare norme regolamentari poiché è al
legislatore è consentito di conferire il carattere di fonte dell'ordinamento ad atti diversi da
quelli previsti negli artt. 70 a 82. Il problema è quello di comprendere i limiti di questi
regolamenti. Una risposta corretta la contiene la legge 400/1988 a norma della quale i
regolamenti ministeriali e interministeriali possono essere adottati nelle materie di
competenza del ministro o di autorità subordinate al ministro o in materie di competenza di
più ministri quando la legge espressamente conferisca tale potere. Inoltre, i regolamenti
ministeriali e interministeriali non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti
del governo e devono essere comunicate al presidente della Repubblica prima della loro
emanazione.

Per le fonti di produzione guardare il manuale (schema)

5. La delegificazione, la semplificazione normativa ed il meccanismo c.d.


taglia-leggi
L’eccessiva produzione legislativa ha innescato il problema della delegificazione. Si tratta di
esaminare se è possibile porre un freno all’inflazione delle leggi (in Italia sono in vigore circa
50.000 leggi) sottraendo al legislatore il potere disciplinare la materia che non sia legislativa,
delegificando così intere materie o settori di materie per attribuirne la competenza al potere
esecutivo. Accogliendo la tesi del Nigro, secondo cui l'organizzazione dei pubblici uffici è
attribuita non legislatore ma al potere esecutivo che godrebbe di una vera “riserva di
regolamento”, il problema sarebbe risolto. Tuttavia, a volte l'emanazione di una legge in una
materia non legislativa si rende necessario perché è detta materia è già disciplinata da una
legge, così che il regolamento (subordinato ad essa) non può intervenire a modificare le
norme in essa contenute. E allora non resta che “delegificare” la materia. La delegificazione
in senso tecnico consiste nel “decongestionare il Parlamento da attività superflue alle funzioni
che esso dovrebbe svolgere”, attraverso il ricorso ad una legge tipica avente per oggetto e fine
il trasferimento di certe discipline dalla sede legislativa a quella regolamentare (Lavagna). È
stata così creata quella riserva di regolamento per tutte le amministrazioni dello Stato, anche
ad ordinamento autonomo in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica
amministrazione. La legge 234/2012 autorizza il governo, nelle materie di cui all’art 117,
comma II, già disciplinate con legge, ma non coperte da riserva assoluta, a dare attuazione
alle direttive o regolamenti emanati ai sensi del citato art. 17 della legge 400/1988. Inoltre,
l'art. 20 della legge 59 del 1997 stabilisce che il governo, sulla base di un programma di
priorità, presenta al Parlamento, entro il 31 maggio di ogni anno, un disegno di legge per la
semplificazione ed il riassetto normativo, volta a definire per l'anno successivo, gli indirizzi,
criteri, le modalità e le materie di intervento. Tale disegno prevede l'emanazione sia di decreti
legislativi sia di regolamenti per le norme regolamentari di competenza dello Stato. Negli
ultimi anni si è assistito a interventi di delegificazione su interi settori normativi; questo è
avvenuto attraverso la legge annuale di semplificazione come la legge 50 del 1999. Tale
legge prevede inoltre l'effettuazione delle analisi di impatto della regolamentazione (AIR),
che consiste in una valutazione preventiva degli effetti di ipotesi di intervento normativo e
costituisce un supporto alle decisioni dell'organo politico di vertice dell'amministrazione sulle
opportunità dell'intervento stesso. Si prevede anche la verifica dell'impatto della
regolamentazione (VIR) consistente nella valutazione del raggiungimento delle finalità e
nella stima dei costi e degli effetti prodotti da atti normativi sull'attività dei cittadini e delle
imprese e sulle pubbliche amministrazioni. Sempre allo scopo di semplificare la legislazione,
la legge 246 del 2005 ha delegato il governo ad adottare decreti legislativi che individuino le
disposizioni statali anteriori al 1° gennaio 1970 delle quali si ritiene indispensabile la
permanenza in vigore. Si stabilisce infatti che, decorso un anno dalla scadenza del termine
previsto dalla norma esame, tutte le disposizioni legislative non comprese nei suddetti decreti
sono abrogate. Si è pertanto creato un meccanismo taglia-leggi, che opera attraverso
un’abrogazione generalizzata e implicita, ad una scadenza prestabilita, della legislazione
antecedente ad una certa data. L'art. 14 della legge 246 del 2005 prevede alcuni principi e
criteri direttivi per l'individuazione delle disposizioni “indispensabili” ed esclude dalla sua
applicazione alcuni testi normativi ( codice civile, codice penale, codice di procedura civile,
disposizioni preliminari e di attrazione e ogni altro testo che rechi la denominazione di codice
o di testo unico, disposizioni sull'ordinamento degli organi costituzionali e di rilevanza
costituzionale, disposizioni sull'ordinamento delle magistrature…). Il Governo è poi
intervenuto nello stabilire quali disposizioni relative siano indispensabili e ha sottratto alcune
disposizioni all’effetto abrogativo sopracitato. Dalla delegificazione devono essere distinte: a)
la deregulation, consistente nella riduzione dell'intervento dei poteri pubblici nelle attività
economiche visto che esso non è riuscito a migliorare l'allocazione delle risorse la
distribuzione del reddito; b) la denazionalizzazione o privatizzazione che si ha quando lo
Stato titolare di un’impresa decide di ritirarsi da tali campi intervento per affidare ai privati la
relativa disciplina che obbedirà alle regole del libero mercato; c) la deburocratizzazione che
rende più agile ed efficiente la P.A. eliminando norme che appesantiscono l'attività
amministrativa.

6. I criteri per comporre le fonti in sistema


La varietà delle fonti richiede un coordinamento in sistema, per il quale esistono alcuni
criteri: quello gerarchico, consistente nell’ordinare e coordinare le fonti secondo la loro
diversa efficacia loro attribuita dall’ordinamento (fonte superiore prevale su quella inferiore),
quello cronologico (lex posterior derogat priori) e quello della separazione delle
competenze( in base al quale l’efficacia delle fonti viene distinta in base alla sfera, territoriale
o materiale in cui essa opera). Bisogna però comprendere il significato di efficacia (o forza)
delle fonti. L’efficacia può essere assunta in un significato formale che sostanziale. Se lo
riferiamo alle fonti come atti o fatti mediante i quali vengono prodotte le norme, esso acquista
natura sostanziale e indica l’attitudine della fonte ad immettere nell’ordinamento regole come
norme giuridiche; se invece lo riferiamo (con riferimento solo alle fonti-atto) alle fonti intese
come atti emanati da determinati organi secondo certe procedure, il termine efficacia allora
acquisterà un significato formale. La gran parte delle leggi e delle fonti, in quanto produttive
di diritto, avranno efficacia sia formale che sostanziale.
Ciascuna fonte avrà una sua misura di efficacia, data dall’ambito in cui essa può produrre il
diritto, e quest’ambito viene predeterminato dall’ordinamento che attribuisce ad ogni fonte
una sua forza (efficacia formale).
Venendo al concreto, nella scala gerarchica delle fonti, la preminenza è assegnata alla legge
approvata dal Parlamento (legge formale), che costituisce la fonte primaria. Ragioni storico-
politiche motivano questa preminenza (si pensi al passaggio dallo Stato assoluto allo Stato
moderno che è costituito dalla sottrazione al sovrano del suo potere di emanare norme
costitutive per affidarlo ad assemblee costituite ad hoc) anche se questa preminenza non
corrisponde quella del Parlamento sugli organi di governo.

La Carta costituzionale non contiene una elencazione completa delle fonti di produzione,
tuttavia vi sono alcuni punti fermi relativi:
a) alla previsione di una fonte: la legge costituzionale è posta al di sopra di tutte le altre.
Mediante tale fonte, si può procedere, alla revisione o alla deroga della Costituzione,
mentre le fonti in contrasto con la legge costituzionale possono essere dichiarate
costituzionalmente illegittime e perdere di ogni efficacia.
b) Alla preferenza assegnata alla legge del Parlamento, alla quale la Costituzione riserva
la disciplina di alcune materie, infatti l’esercizio della funzione legislativa è attribuita
alle due Camere (art.70)
c) Alla disciplina costituzionale degli atti aventi forza di legge (decreti legislativi e
decreti-legge), con la previsione di limiti sia all’oggetto, sia alle modalità ed ai
presupposti dell’esercizio del potere normativo del Governo.

Efficacia sostanziale pari alla legge del Parlamento si deve riconoscere al referendum
abrogativo di una legge o di un atto avente valore di legge. Essendo fine del referendum
quello di far venir meno norme già esistenti, è anche vero che l’abrogazione di una o più
norme non può considerarsi come un fenomeno a sé stante che si esaurisce nel
referendum, poiché provoca nell’ordinamento una serie di reazioni a catena. Il primo è
dato dal fatto che una determinata fattispecie o materia, fino a quel momento disciplinata,
cessa di esserlo in seguito all’abrogazione della norma. In secondo luogo, l’ordinamento
potrà essere chiamato a provvedere colmando il vuoto normativo, per cui esso finisce per
essere diverso da quello precedente all’abrogazione. Per queste ragioni si ritiene che il
referendum abrogativo abbia pari efficacia sostanziale a quella della legge del
Parlamento. (conclusione avvalorata dalla sent. 199/2012 della Corte costituzionale)

È poi controversa l’ammissibilità fra le fonti dei bandi militari, per la difficoltà di trovare
una norma che li legittimi nella Costituzione. Sebbene una risposta si potrebbe rinvenire
nello “stato di guerra” e quindi all’art.70, si tratterebbe pur sempre di una legittimazione
indiretta, poiché il Governo a cui vengono conferiti i poteri necessari in caso di guerra,
non può essere inteso se non come un organo complesso composto dal Presidente del
Consiglio, dai ministri e dal Consiglio dei ministri e non come l’insieme degli organi e
delle istituzioni che formano il potere esecutivo (di cui fanno parte le forze armate).
Sempre controversa è inoltre l’efficacia dei decreti con i quali si provvede all’attuazione
degli Statuti speciali, nonché al passaggio degli uffici e del personale dallo Stato alle
Regioni ad autonomia differenziata. Detti decreti, pur apparendo formalmente come
decreti legislativi, non pare che possano essere tali perché diverso è il fine per cui il
potere è stato conferito. Inoltre, la procedura per la loro emanazione è eccezionale, poiché
gli Statuti dispongono che le norme in esame siano emanate da una Commissione
paritetica o che sia quest’ultima ad elaborarle. Si deve tuttavia osservare che questa fonte
si pone come esclusiva, essendone ad essa riservata la disciplina. La Corte costituzionale
le ha annoverate tra le “norme interposte”.

Occorre inoltre osservare:


a) Che fra la legge ed alcune fonti ad essa equiparate esiste un rapporto di separazione.
Si pensi alle leggi regionali che possono essere emanate nelle materie, nei limiti e nei
principi stabiliti dalle leggi statali. Spetterà allo Stato stabilire i principi fondamentali
per ciascuna materia e alle Regioni di legiferare nei limiti di detti principi.
b) Che fra legge del Parlamento e gli atti governativi con pari efficacia (d.l. e d.lgs.), la
Costituzione riserva la preferenza alla prima, condizionando sia l’esercizio del
Governo alla previa emanazione di una legge del Parlamento che determini il tempo
entro il quale il Governo potrà legiferare i principi direttivi ai quali il Governo dovrà
uniformarsi, sia subordinando l’efficacia dei decreti legge alla conversione formale
entro 60 giorni dalla loro pubblicazione. Vi è da osservare che l’efficacia formale dei
decreti legislativi non coincide con la loro efficacia sostanziale, visto che quest’ultima
è subordinata alla legge di delega quando essa prevede i principi direttivi ai quali il
Governo deve adeguarsi; e che l’efficacia dei decreti-legge ha una vigenza limitata a
60 giorni, alla scadenza dei quali, se non è intervenuta la conversione in legge
formale, viene a cessare fin dall’inizio con effetto “retroattivo” ai sensi dell’art.77
comma III.

7.Le fonti aventi un’efficacia subordinata a quella della legge formale


Efficacia formale e sostanziale a quella della legge formale hanno i regolamenti governativi
di altre autorità. Tuttavia, i regolamenti non potranno immettere nell’ordinamento nuove
norme che siano in contrasto con la legge formale o con atti di eguale forza. I regolamenti
emanati da autorità diverse dal Governo, non potranno dettare norme contrarie a quelle dei
regolamenti del Governo. In realtà, a volte, esigenze pratiche si oppongono alla formalità
della gerarchia delle fonti, in quanto, per una maggiore duttilità della fonte regolamentare,
una legge può disporre l’abrogazione di norme vigenti, con effetto dall’entrata in vigore di
norme regolamentari con essa in contrasto (regolamenti autorizzati) o un regolamento può
disciplinare una materia non disciplinata dalla legge, ponendosi come unica fonte regolatrice.
In entrambi i casi l’efficacia del regolamento è pari a quella della legge, tuttavia non è
presente una pari efficacia formale, poiché i regolamenti sono sempre considerati come
inferiori alla legge e quindi non sottoponibili al giudizio di legittimità costituzionale ex art.
134 Cost., e pertanto, soggetti soltanto al giudizio di legittimità della giustizia amministrativa.
Inoltre, si ricordino i regolamenti non governativi, gli statuti ed i regolamenti degli enti
territoriali (Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni) e i regolamenti degli enti
pubblici non territoriali. Per i regolamenti non governativi, questi possono essere emanati da
singoli ministri (ministeriali), da più ministri (interministeriali), da organi centrali (comitati
interministeriali) o locali (comandanti di porto). Tali regolamenti sono subordinati alle fonti
primarie e ai regolamenti governativi.
Gli Statuti di Province e Comuni devono essere emanati rispettando i principi stabiliti dalla
legge, mentre i regolamenti degli stessi (regolamenti comunali in materia di polizia edilizia)
devono rispettare la legge e lo statuto.
Quindi la subordinazione del regolamento alla legge appare ormai piuttosto relativa, visto
alcuni regolamenti possono operare deroghe alla legge del Parlamento e dettare norme
riservate alla legge; d’altro canto, però, l’efficacia formale dei regolamenti non è la stessa
della legge, ai fini di un eventuale giudizio di legittimità davanti alla Corte Cost. A questo
proposito, il Mortati sostiene che, avendo alcuni regolamenti efficacia pari a quella della
legge, dovrebbero averla anche sul piano formale, garantendo così la possibilità di un
giudizio innanzi alla Corte; invece il Cheli, propone una tesi opposta, secondo cui i
regolamenti sono sempre subordinati alla legge formale e del tutto differenti dagli atti aventi
forza di legge. Resta una terza ipotesi che legittimando da un lato la potestà normativa del
Governo, dall’altro la circoscrive nei casi espressamente previsti, in modo tale che il Governo
non possa disattendere alla supremazia della legge del Parlamento. Tale ipotesi, presenta
delle considerazioni a proprio favore: l’incertezza della dottrina nell’attribuire efficacia
sostanziale ai regolamenti, l’opportunità di contenere il potere regolamentare del Governo e
la certezza nei gradi della normazione, facendo coincidere l’efficacia formale del
regolamento con quella sostanziale.

8. I regolamenti degli organi costituzionali e degli organi a rilevanza


costituzionale.
Tali organi possono darsi propri regolamenti che disciplinano la loro organizzazione interna,
il loro stato giuridico ed economico del personale e a volte il modo di esercizio delle loro
funzioni.
Per i regolamenti delle Camere, essi sono soltanto delle fonti subordinate alla Costituzione e
danno esecuzione o attuazione a norme in essa contenute. Ponendo la Costituzione una
“riserva di regolamento parlamentare”, questi regolamenti vanno ordinati secondo il criterio
della separazione delle competenze, cosicché la legge formale non può disciplinare la loro
materia.
I regolamenti della Corte costituzionale troverebbero il loro fondamento nella legge ordinaria
(ex. art 137) alla quale sono gerarchicamente subordinati come veri e propri regolamenti.
Anche se potrebbero essere ricollegati direttamente alla Costituzione, sostituendo il criterio
della gerarchia con quello della separazione delle competenze, riconoscendo, per questa via,
la loro natura di fonte primaria ma non di atto avente forza di legge.
I regolamenti della Presidenza della Repubblica troverebbero il loro fondamento negli artt. 3
e 4 della legge 1077/1948, secondo cui spetta al Presidente della Repubblica approvare i
regolamenti interni alla Presidenza, stabilendo lo stato giuridico ed economico e gli organici
del personale.
I regolamenti del Consiglio superiore della magistratura, ai sensi della legge 195/1958
possono disciplinare il funzionamento interno di tale organo e stabilire norme dirette alla
gestione elle spese.
I regolamenti del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro possono essere adottati,
limitatamente ad alcune materie, su proposta del Presidente del Consiglio, previa
deliberazione del Consiglio dei ministri e con decreto del Presidente della Repubblica.

Si comprende come soltanto per i regolamenti delle Camere esiste una riserva costituzionale
di competenza (con una conseguente separazione delle fonti). Negli altri casi, il criterio per
l’attribuzione della funzione organizzatrice va rivenuto nella posizione che tali organi
assumono nell’ordinamento costituzionale, in virtù delle garanzie di autonomia e di
indipendenza di cui godono. Si ricordi anche che esistono le disposizioni costituzionali che
tracciano un confine fra l’attività normativa del legislatore e quella di altri organi che godono
del potere di organizzazione. Si creano così due campi di intervento, con la conseguenza che,
se il legislatore deve disciplinare, entro certi limiti, l’organizzazione ed il funzionamento di
taluni organi senza incidere sulla loro autonomia, anche le norme organizzative “interne”
dovranno essere emanate entro i limiti delle disposizioni costituzionali o poste dallo stesso
legislatore. Rimane comunque un’ampia sfera di discrezionalità di cui il legislatore gode per
delimitare l’esercizio delle altrui attribuzioni.

9. La consuetudine
La consuetudine è una fonte subordinata sia alla legge formale che ai regolamenti (e quindi di
terzo grado). Per questo, l’art.8 delle “Disposizioni sulla legge in generale” dispone che gli
usi hanno efficacia nelle materie disciplinate dalle leggi e dai regolamenti solo quando sono
da essi richiamati. Si comprende quindi che sono ammesse soltanto consuetudini che
integrano e specificano il dettato legislativo (praeter legem). Nel nostro ordinamento inoltre è
ammessa l’abrogazione di una norma mediante desuetudine, che si ha quando i destinatari
pongono in essere, in modo reiterato e diffuso, un comportamento omissivo, cioè non
osservano un precetto legislativo.
La consuetudine è una fonte non scritta ed è una fonte-fatto. Si tratta di un fatto produttivo di
norme giuridiche e per questo è caratteristica. È un fatto perché consiste in un
comportamento uniformemente e costantemente diffuso nel tempo e nello spazio e posto in
essere da gruppi sociali presenti nell’organizzazione statale. È come un diritto creato dagli
stessi destinatari, in aderenza alle loro esigenze e bisogni. Tuttavia, è necessario che accanto
alla presenza di un fatto uniforme e costante nel tempo e nello spazio si ponga l’elemento
della c.d. opinio iuris ac necessitatis, cioè la credenza da parte dei destinatari che il
comportamento sia giuridicamente obbligatorio o conforme al diritto. Tale elemento, definito
anche come motivazione psicologica del comportamento, ha ricevuto critiche. Secondo alcuni
infatti si ritiene che, fino a quando non esiste la opinio iuris, la consuetudine non esisterebbe;
senonché si avrà l’opinio in quanto si ritiene come già esistente la norma consuetudinaria. È
un circolo vizioso. Quindi si può dire che l’opinio assume il carattere di elemento essenziale
al sorgere della consuetudine in un momento successivo, quando cioè finisce con l’ingenerare
la credenza della sua giuridica obbligatorietà. Tale elemento psicologico è necessario per la
consuetudine, ed ha una natura specifica che risiede nella credenza della obbligatorietà
giuridica del comportamento o della sua conformità al diritto. Inoltre, l’elemento psicologico
è dato dal comune convincimento dei singoli che esso sia conforme ai fini primari del gruppo
o che valga a comporre gli interessi confliggenti, per cui se non verrà osservato provocherà
una reazione sociale. La norma consuetudinaria esprime la sua peculiarità nel suo essere
norma che scaturisce dal modo in cui, di fatto, si perseguono i fini del gruppo. Ciò ci
permette di distinguere la consuetudine dalle altre regole come quelle di costume, di
correttezza ecc. Nel caso della norma, il comportamento è dato dal convincimento che esso
costituisce un modo per perseguire i fini dati, laddove negli altri casi, esso è dato
dall’opportunità, dall’educazione o dall’abitudine ecc.In ultimo, le consuetudini sono
racchiuse in una “Raccolta degli usi” affidata alle camere di commercio, industria ecc. Tali
usi, detti “mercantili” o “di affari” (“locali” quando hanno efficacia territorialmente limitata)
si riferiscono a vari ambiti dell’attività economica. Sia ben chiaro però che le “Raccolte” non
sono fonti del diritto, fonte restando la consuetudine. Per questo, gli usi contenuti nelle
raccolte si presumono esistenti fino a prova contraria (ex art. 9 “Disp. Sulla legge in gen.).

10. La consuetudine costituzionale


Tale consuetudine disciplina i rapporti tra organi istituzionali oppure istituti costituzionali;
sono dunque diversi i soggetti (organi dell’apparato autoritario dello Stato) che pongono in
essere il comportamento rispetto alla consuetudine tradizionale. Risulta diversa anche la
diffusione del comportamento, in quanto esso è posto in essere da un numero limitato di
soggetti (operatori del campo costituzionale o a volte un unico soggetto); riguardo alla
ripetizione, il comportamento può essere limitato a pochi casi soltanto. Risulta peculiare
anche l’elemento psicologico, poiché possono aversi consuetudini costituzionali contra
legem, che derogano cioè a norme costituzionali scritte, posto che tale deroga può essere
intenzionale e non dovuta ad un’interpretazione difforme della norma. Si pensi
all’introduzione del regime parlamentare in Italia che sarebbe avvenuta tramite via
consuetudinaria con una serie di comportamenti contrari allo Statuto del 48. Un criterio per
riconoscere l’esistenza della consuetudine costituzionale sembra quello di accertare la sua
conformità alla costituzione materiale(Mortati): detta costituzione può esprimere, e gli organi
istituzionali farsene portatori, norme integratrici di lacune esistenti nella costituzione formale
oppure, in ipotesi, ad essa contraria, pur sempre nei limiti dei principi fondamentali
dell’ordinamento, quali essi sono definiti dalle forze politiche che hanno dato vita alla
costituzione formale.

11.Le convenzioni costituzionali; le norme di correttezza costituzionale; la


prassi ed il precedente.
Secondo la tesi del Pizzorusso, tali sono definite extra-ordinem, nel senso che esse sono
contrapposte, assieme alla consuetudine contra-legem, alle fonti c.d. legali, ossia quelle fonti
ordinate in sistema.
Le convenzioni costituzionali sono regole di condotta che disciplinano l’esercizio delle
competenze degli organi costituzionali o un assetto temporaneo dello stesso ordine
costituzionale, e sono stabilite con un accodo, tacito o espresso, stipulato dagli operatori
politici. Esse intervengono negli spazi lasciati vuoti dalle norme regolanti l’esercizio delle
competenze, quindi sono vincolanti fino a quando gli operatori politici ritengono che valgano
come strumento per il raggiungimento dei fini. Si pensi al procedimento di nomina del
Governo, per il quale la Costituzione si limita a statuire che il Presidente della Repubblica
nomina il Presidente del coniglio e su sua proposta i ministri ex art. 92. Ora si sa che prima
della formazione, il Presidente della Repubblica procede con una serie di “consultazioni” per
consentire la formazione di un Governo che goda della maggioranza parlamentare. Quindi,
tale fase intermedia, è stata disciplinata in via convenzionale. Tali convenzioni hanno grande
rilevanza perché sono l’espressione del modo i cui gli operatori politici interpretano e
svolgono il ruolo a livello costituzionale. Inoltre, esse possono trasformarsi in consuetudini
qualora si stabilizzino nel tempo, trovando legittimità nella costituzione materiale.
La differenza tra le due sta nel fatto che la consuetudine è una convenzione stabilizzata nel
tempo ed è uscita dalla disponibilità dei soggetti originari che l’avevano stipulata quale
convenzione.
Le regole della correttezza costituzionale riguardano invece il comportamento dei singoli
individui operanti nell’ambito costituzionale (i parlamentari per es. tenuti ad osservare il c.d.
galateo parlamentare) oppure il comportamento degli organi costituzionali nei loro reciproci
rapporti improntati alla lealtà, cortesia e rispetto. La loro violazione provoca semplicemente
un generico biasimo e spesso l’applicazione di una sanzione.
La prassi (che assume rilevanza nel diritto amministrativo) consiste in una serie di atti (o di
fatti) posti in essere da organi costituzionali e indicativi del modo essi intendono l’esercizio
delle loro competenze. La prassi manca del carattere della continuità nel tempo, ma può
trasformarsi in consuetudine quando un mutamento od una integrazione della costituzione
formale, ad opera di quella materiale, legittimerà un atto o fatto extra ordinem ripetuto
costantemente e uniformemente nel tempo. Un esempio di prassi è la sospensione dell’attività
legislativa ed ispettiva delle Camere durante le consultazioni sino all’esito del voto. Anche le
convenzioni costituzionali possono trasformarsi in una prassi e se consolidate, in una
consuetudine (come sembra sia avvenuto nel caso delle “consultazioni”).
Il precedente consiste in un atto (o fatto) singolo a cui si uniforma, con le medesime
circostanze, l’attività dell’organo che lo ha posto in essere o di un diverso organo. Esso
rappresenta un modello di comportamento non vincolante. Mentre nel nostro ordinamento
l’efficacia del precedente è meramente persuasiva, negli ordinamenti anglosassoni, i giudici
devono osservare il principio dello stare decisis, cioè devono applicare, qualora la fattispecie
sia identica, la stessa massima già applicata da altri giudici.
Le consuetudini, le convenzioni, le norme di correttezza, la prassi e il precedente trovano
maggiore applicazione nelle assemblee legislative, posto che esistano norme non scritte per
l’organizzazione interna che formano il c.d. diritto parlamentare. Tutto questo al fine di
rendere duttile l’attività delle camere ed assicurare un dialogo con la realtà politica mutevole.

12. La giurisprudenza
Nell’ordinamento italiano, che si fonda sul diritto scritto, le decisioni dei giudici hanno un
valore, in quanto traggono la norma dalla sfera impersonale e astratta e la applicano al caso
concreto, al fine di renderla attuale e calarla del mondo degli interessi. Ad esempio, l’art. 923
cod. civ. che si occupa di enunciare uno dei modi di acquisto della proprietà, deve essere
interpretato dal giudice che stabilirà se il caso concreto si adegua alla previsione normativa,
cioè se la fattispecie concreta corrisponda alla fattispecie astratta. Si può ben comprendere
quale rilevanza abbia il processo interpretativo e come le sentenze siano uno degli strumenti
con cui l’ordinamento prede corpo e si attua.
Ancora più rilevante sarà il ruolo del giudice quando dovrà sciogliere il nodo derivante dalla
compresenza di più leggi, al fine di identificare la norma da applicare al caso concreto. In un
ordinamento come il nostro è infatti molto frequente che vi siano leggi vecchie di decenni:
oppure il giudice dovrà talvolta trarre la norma da formule legislative polisense o da concetti
indeterminati (i c.d. “concetti valvola”) la cui determinazione può variare a seconda delle
convinzioni sociali e della coscienza comune. O ancora dovrà chiarire il senso di una norma
espressa in un linguaggio non chiaro e impreciso.
Importa qui rilevare l’importanza che assume l’interpretazione giudiziale, al punto che si può
affermare che l’ordinamento si fonda proprio sulle sentenze della magistratura. Ed in questo
senso si può riconoscere alla giurisprudenza il valore di fonte del diritto. Ciò vale anche per
gli atti della P.A. che presuppongono un’interpretazione e l’applicazione al caso concreto. E
vale anche per l’attività dei privati che di continuo traggono dall’astratto e applicano norme
giuridiche. La sentenza del giudice, quando è definitiva, acquista uno spiccato carattere
normativo poiché diviene obbligatoria tra le parti, fa, cioè, stato fra le parti, i loro eredi o gli
aventi causa (art.2009 cod. civ.) e può essere opposta ai terzi.
La Corte di cassazione svolge la funzione di “nomofilachia” (art. 65 legge sull’ord.
giudiziario).
Inoltre, va ricordato che nel pronunciarsi sulla causa, il giudice può decidere secondo equità
quando il merito della causa riguardi diritti disponibili dalle parti e queste gliene facciano
concorde richiesta. Il giudice di pace decide sempre secondo equità. Ciò significa che il
giudice può creare egli stesso la regola da applicare, nei casi previsti, in modo da decidere
secondo criteri di ragionevolezza e giustizia che la norma scritta non sarebbe idonea ad
assicurare.

13. I contratti collettivi di lavoro.


Fonti del diritto sono i contratti collettivi di lavoro giacché, qualora siano stipulati da
sindacati registrati (c.d. Contratti collettivi di diritto pubblico), acquistano ex art.39 efficacia
obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. Si tratta
di fonti non statali e determinate autonomamente dalle associazioni dei lavoratori e dei datori
di lavoro. Se da un lato i contratti non possono contenere clausole in contrasto con leggi e
regolamenti generali, dall’altro sembra che si inseriscano nel sistema delle fonti secondo il
criterio della separazione delle competenze e, ove si osservi che per riservare un margine di
determinazione all’autonomia sindacale, leggi e regolamenti non possono disciplinare nei
dettagli la materia della contrattazione collettiva. Senza dubbio l’intervento del legislatore è
quanto mai opportuno ed essenziale per la tutela di tali interessi, pubblici o collettivi (come la
lotta all’inflazione) e con norme cogenti o norme suppletive o dispositivi. Oggi non essendo
stata emanata la c.d. “Legge sindacale” che dovrebbe regolare la procedura di registrazione
dei sindacati, non esistono sindacati-persone giuridiche e di conseguenza contratti collettivi di
lavoro di diritto pubblico. 
Il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici è regolato da contratti stipulati dall’agenzia per
la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) e dalle confederazioni
rappresentative sul piano nazionale. È interessante notare che nelle materie non soggette a
riserva di legge, eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto che introducano
discipline dei rapporti lavoro possono essere derogati da successivi contratti o accordi
collettivi. Sembra chiaro quindi che i contratti collettivi che disciplinano i rapporti di lavoro
dei pubblici dipendenti sono delle fonti del diritto. 

 14. La dottrina 
Non va annoverata tra le fonti l’interpretazione delle norme compiuta a fini scientifici dagli
studiosi del diritto (la c.d. “dottrina”) a differenza di quanto avveniva in epoca e lontane. La
norma tratta in via di interpretazione dottrinale non trova applicazione diretta ma soltanto
indiretta, qualora l’interpretazione venga fatta propria dagli operatori pratici del diritto. Non
per questo la funzione del giurista va qualificata come teorica e puramente confinata nel
mondo dell’astrazione.

  15.Fonti poste in ordinamenti esterni a quello italiano e loro efficacia


nell’ordinamento interno mediante: a) per le norme di diritto internazionale,
l’adattamento automatico e l’ordine di esecuzione. 
Gli ordinamenti esterni a quelli dello Stato possono essere di due tipi: generali e particolari.
Ordinamento generale per eccellenza è quello della comunità internazionale; ordinamenti
particolari sono quelli dei singoli Stati o di istituzioni (la Chiesa cattolica) non assimilabile ad
uno Stato. Vi è poi un terzo tipo di ordinamento che è dato all’unione di più Stati e che
potremmo definire intermedio fra quello dei singoli stati e quello della comunità
internazionale
La comunità internazionale costituita da tutti gli Stati sovrani si fa risalire alla Respublica
Christiana che collegò i popoli dell’Europa occidentale successivamente all’anno mille. Tale
comunità è del 1648 (Westfalia) con cui gli Stati affermarono la loro indipendenza piena da
ogni altra volontà, una comunità fra eguali. Mancando quindi un apparato sovraordinato che
pone delle norme regolatrici, la formazione del diritto che da essa emana (diritto
internazionale) avviene in via consuetudinaria e convenzionale, mentre per quanto riguarda
l’osservanza delle singole regole, essa è affidata ai singoli Stati sulla base di due principi:
pacta sunt servanda e consuetudo est servanda. Tuttavia, è presente sempre un’autorità
(senza la quale non si avrebbe una comunità) intesa come autorità sociale a cui gli Stati sono
sottoposti (QUADRI). Cioè il fenomeno autoritativo non prende corpo nella comunità
internazionale in un apparato sovraordinato, a meno che non lo si voglia riconoscere alla
organizzazione delle Nazioni Unite; quindi, i singoli Stati nel garantire l’osservanza delle
norme, non agiscono uti singoli, ma come strumento della volontà comunitaria che certe
norme vengano osservate.
In verità il principio secondo cui la comunità internazionale è una comunità fra eguali è
puramente teorico, poiché è, di fatto, gli Stati economicamente o militarmente più forti sono
in grado di determinare o di influenzare la volontà degli Stati minori (c.d. paternalismo
costituzionale).
Forme di collegamento fra il diritto internazionale e quello interno sono l’adattamento
automatico e l’ordine di esecuzione.
Quanto al primo, l’articolo 10 Cost. dispone che “l’ordinamento giuridico italiano si
conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Lo scopo della
norma è quello di adeguare il diritto interno a quelle norme di diritto internazionale (principi,
consuetudini generali) che sono generalmente riconosciute nella comunità internazionale.
Pertanto, il legislatore ordinario non può emanare norme in contrasto con le norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute, e, se lo facesse la legge sarebbe impugnabile
innanzi alla Corte costituzionale. Per lo stesso motivo sono costituzionalmente illegittime le
leggi emanate prima dell’entrata in vigore della Costituzione in contrasto con le norme di cui
si discute. Diverso è il rapporto fra le norme di diritto internazionale generalmente
riconosciute le norme costituzionali; queste ultime prevalgono sulle prime quali espressione
della volontà del costituente di derogare esso stesso al principio dell’articolo 10, con la
conseguenza che una legge ordinaria in contrasto con una norma di diritto internazionale ma
conforme ad una norma costituzionale sarebbe da considerare legittima. Il rapporto si inverte
quando il contrasto è susseguente, quale effetto di una modifica ad una norma di diritto
internazionale. In tal caso dovrebbe cedere la norma costituzionale, che non è più in armonia
con il principio dell’adattamento automatico, quindi gli organi di revisione costituzionale
dovrebbero obbligatoriamente modificare la norma stessa per adeguarla quella del diritto
internazionale modificata. Ciò è dovuto alla considerazione che alla modifica della norma
consuetudinaria non può non aver partecipato anche lo Stato italiano quale componente della
comunità. La Corte costituzionale, con la sent.238/2014 ha stabilito che le norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute devono cedere comunque rispetto alla tutela dei
diritti fondamentali delle persone, eventualmente lesi da soggetti o organi indipendenti dagli
Stati stranieri medesimi.
L’ordine di esecuzione riguarda il c.d. diritto internazionale pattizio, cioè le norme di diritto
internazionale prodotte dall’accordo (trattato, convenzione, dichiarazione, memorandum
d’intesa) fra due o più Stati diretto a regolare i loro rapporti in campo politico, commerciale,
civile e così via. Con la stipulazione dell’accordo (che nei trattati si ha con lo scambio delle
ratifiche) gli Stati contraenti sono tenuti ad adottare nel loro ordinamento tutte quelle misure
che si rendessero necessarie per dare esecuzione all’accordo, cioè ad adattare il loro
ordinamento alle norme di diritto internazionale pattizio. Questo può avvenire secondo due
procedure: a) l’emanazione di una legge o atto avente forza di legge e con cui vengono
prodotte le norme esecutive dell’accordo; b) con l’ordine di esecuzione, procedimento di
regola adottato. Quest’ordine è contenuto in una legge e consiste nella formula: “piena ed
intera esecuzione e data al trattato…” Nel primo caso è il legislatore statale a porre
direttamente le norme esecutive; nel secondo, il legislatore si limita ad operare un rinvio al
trattato, al quale l’interprete dovrà riferirsi per determinare il contenuto delle norme. Secondo
una prassi, in Italia, quando la ratifica del presidente della Repubblica dei trattati deve essere
preceduta, ex art. 80, da una legge di autorizzazione, le Camere impegnano il Governo ad
emanare le norme necessarie ad adattare il diritto interno al trattato. Anche se con questa
prassi, verrebbe eluso il precetto contenuto nell’articolo 76 Cost secondo cui la delega al
governo deve avvenire con una espressa manifestazione di volontà e con l’indicazione
dell’oggetto, del limite di tempo e dei criteri e principi direttivi. Non sarebbero necessarie né
leggi ad hoc né leggi contenenti ordini di esecuzione per adattare l’ordinamento al diritto
internazionale pattizio qualora si accetti la tesi del Quadri, secondo cui il rinvio all’articolo
10 della Costituzione ha per oggetto anche la norma “Pacta sunt servanda” con la
conseguenza che il Parlamento è chiamato ad autorizzare soltanto il capo dello Stato e che la
trasformazione del trattato in diritto interno avviene automaticamente.
Si ricordi, tra il diritto internazionale pattizio, la convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (CEDU). La Corte costituzionale aveva
riconosciuto alle norme della convenzione un’efficacia non superiore a quella tipica delle
leggi ordinarie, dovendosi ricondurre loro effetti alla legge di esecuzione prima citata. Si
trattava quindi di fonti esterne che richiedevano la responsabilità dello Stato tenuto a dare
esecuzione alle sentenze della Corte di Strasburgo. Nonostante ciò, però, la Corte
costituzionale aveva sempre riconosciuto a grande rilevanza le norme CEDU in quanto esse
stesse riguardano la tutela dei diritti fondamentali delle persone e quindi contengono valori e
principi che si rispecchiano nella Costituzione italiana. Veniva attribuita ad esse una forza
interpretativa molto importante ma non tale da consentire un vero scrutinio di legittimità
costituzionale di una legge ordinaria.
Le norme internazionali pattizio svolgono la funzione di integrare il parametro di
costituzionalità configurato alla norma costituzionale prima citata. Per questo motivo esse
sono indicate come “norme interposte” allo scopo di chiarire la posizione particolare delle
stesse, situate tra la norma costituzionale e le norme di legge ordinaria ritenuta in contrasto. E
così, le norme CEDU che non possiedono il rango costituzionale e non possono essere
parametro di controllo, traggono dalla norma costituzionale la forza tipica della costituzione
rigida. Il rapporto tra norma costituzionale norme interposte è di reciproco appoggio, cioè la
prima trae dalle seconde i contenuti normativi sostanziali da raffrontare alla legislazione
ordinaria e le seconde traggono dalla prima la forza di imporsi sulle leggi interne. Si ricordi
però che le norme CEDU sono sempre fonti sub-costituzionali, di cui deve essere accertata la
non difformità con la Costituzione. È previsto dall’art. 117 Cost. un organo giurisdizionale a
cui affidato il compito di interpretare e applicare le norme convenzionali. Le norme CEDU
interposte non sono quindi pure disposizioni della Convenzione e dei Protocolli, ma le norme
che da tali atti vengono tratte dall’opera interpretativa della corte di Strasburgo, le cui
pronuncia acquistano efficacia vincolante nell’ordinamento italiano, in quanto precisano il
contenuto effettivo degli obblighi internazionali. In ultimo, le sentenze gemelle del 2007 della
Corte costituzionale confermano l’efficacia delle fonti CEDU nell’ordinamento italiano.

16.B) per le norme di altri ordinamenti statali, la presupposizione e il rinvio


Si ha la presupposizione quando per interpretare e applicare una norma dell’ordinamento si
rende necessario il riferimento ad una norma contenuta in un ordinamento straniero. Ad es.
quando l’art. 295 c.p. punisce chi nel territorio dello Stato attenti alla vita o alla libertà del
capo di uno Stato estero, poiché nessuna norma dell’ordinamento giuridico italiano determina
la figura del capo di un altro Stato, ecco che ci si riferirà, di volta in volta, all’ordinamento
dello Stato di cui è Capo io soggetto passivo del reato.
Il rinvio quando in virtù di una norma posta nell’ordinamento interno, una norma di un altro
ordinamento viene ad essere applicata nello Stato. Questo tipo di rinvio è ammesso anche fra
norme appartenenti allo stesso ordinamento (fra legge e regolamento). Poiché però la
distinzione è ancora controversa, si rinviene a due diverse figure di rinvio: formale o non
ricettizio, materiale o ricettizio. Sì ha il rinvio formale quando lo Stato pone nel suo
ordinamento una norma che rinvia ad una norma di un ordinamento straniero, indicando però
i criteri per l’individuazione della stessa; si avrebbe il rinvio materiale quando la norma
dell’ordinamento statale (c.d. norma in bianco) rinvia alla norma di un ordinamento straniero
per farne proprio il contenuto, cioè per “nazionalizzarla”. E nel primo caso è chiaro che è la
norma straniera non entra a far parte dell’ordinamento italiano; nel secondo la norma
straniera viene identificata una volta per tutte, quindi anche mutando essendo abrogata nell’
ordinamento straniero, continuerà ad essere applicata nella sua formulazione originaria
nell’ordinamento interno. Comunque, i casi di rinvio ricettizio sono rari. Ci sono i casi di
rinvio non ricettizio. Essi si hanno quando si rende necessario disciplinare nell’ordinamento
interno fatti o rapporti che presentano elementi di estraneità per lo Stato. Si pensi ad una cosa
mobile o immobile situato all’estero o ai rapporti personali fra i coniugi di diversa
cittadinanza. Le norme di diritto interno che rinviano ad un ordinamento straniero per
disciplinare fatti o rapporti estranei rispetto allo Stato, costituiscono il diritto internazionale
privato. Dette norme sono sempre norme di diritto interno, la loro qualificazione del diritto
comune internazionale viene giustificata poiché esse disciplinano fatti o rapporti che, da un
lato interessano lo Stato nonostante il loro carattere di estraneità, li disciplina, e dall’altro
sono collegati con uno o più Stati stranieri (Morelli). Del come le norme di diritto
internazionale privato operano il rinvio, occorre osservare la presenza di un criterio di
collegamento grazie al quale viene individuato l’ordinamento straniero. Questi criteri
possono essere diversi (di fatto, giuridici, obiettivi, subiettivi, costanti, variabili).

17.Segue: c) per le norme dell’Unione Europea, l’art.11 Cost. in relazione al


trattato sul funzionamento dell’Unione Europea
Importanza hanno le cosiddette norme comunitarie o dell’Unione Europea, cioè le norme
emanate dagli organi dell’Unione, originariamente dagli organi della Comunità europea del
carbone dell’acciaio, cessato di esistere nel 2002, della Comunità economica europea e della
Comunità europea per l’energia atomica (CEEA o Euratom). Il trattato di Maastricht del 1992
che ha istituito l’Unione europea, ha modificato varie norme del trattato di Roma. Inoltre, il
quadro normativo è stato modificato dal trattato di Amsterdam del 1997, dal trattato di Nizza
del 2001 e da ultimo dal trattato di Lisbona del 2007.
A seguito di tali modifiche l’Unione si fonda su due trattati: quello sull’Unione Europea
(TUE) e quello sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). La difficoltà di superamento
della crisi economica ha indotto gli Stati membri, negli ultimi anni a stipulare nuovi trattati e
modificare il TFUE. Si allude alla modifica dell’articolo 136 del TFUE che prevede che gli
Stati membri che adottano l’euro come moneta possono istituire un meccanismo di stabilità
quando sia indispensabile salvaguardare l’eurozona nel suo insieme. Poco successiva alla
modifica dell’art. 136 è il trattato istitutivo del meccanismo europeo di stabilità (MES) siglato
allo scopo di rafforzare il meccanismo alla luce delle tensioni sui mercati internazionali nel
2012. Il Mes è costituito dalle parti contraenti come organizzazione finanziaria internazionale
con l’obiettivo istituzionale di mobilitare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla
stabilità. 
La legge 116 del 2012 autorizza il Presidente la Repubblica a ratificare il trattato istitutivo del
Mes e ne ha disposto l’esecuzione. Infine, durante il consiglio europeo del 2012, gli Stati
membri hanno firmato il trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’unione
economica e monetaria (c.d.fiscal compact). Il trattato raccoglie una serie di norme di finanza
pubblica e disciplina le procedure per il coordinamento delle politiche economiche. In
particolare, si segnala la presenza della “regola aurea” per cui il bilancio dello Stato deve
essere in pareggio o in attivo. Denaro vai a fanno parte 28 Stati: Austria, Belgio, Bulgaria,
Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia,
Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, (regno unito),
Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria.
In tali trattati si ricordino le fonti idonee a spiegare effetti anche negli ordinamenti degli Stati
membri dell’Unione, cioè le fonti che disciplinano comportamenti o enti o persone degli
stessi Stati. Gli atti dell’Unione che hanno funzione di disciplinare aspetti “interni” della vita
degli ordinamenti nazionali vengono accomunati sotto l’etichetta di “diritto comunitario” o
“diritto dell’Unione Europea” o comunitario.
I principali tipi di fonte del diritto dell’Unione Europea sono i regolamenti, le direttive e le
decisioni.
Ex art. 288 TFUE, “Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti suoi
elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri” mentre “la direttiva
vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva
restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”. Le due fonti
differiscono tra loro per: a) unico destinatario possibile della direttiva è lo Stato membro,
invece il regolamento può indirizzarsi a uno qualsiasi dei soggetti diritto interno.
b) regolamento è interamente obbligatorio, mentre la direttiva dà norme di scopo, lascia
libero il destinatario nella scelta dei mezzi e delle forme più opportune per realizzare il fine.
I caratteri propri del regolamento sono i seguenti: la portata generale che consiste in ciò che il
regolamento si dirige ad uno o più categorie di destinatari determinati astrattamente e nel loro
complesso. La obbligatorietà che caratterizza il regolamento rispetto ad altri atti non
vincolanti rispetto ad atti vincolanti ma non in tutti loro elementi. L’applicabilità diretta rende
efficace il regolamento all’interno degli ordinamenti degli Stati membri per il fatto stesso
della sua emanazione. Dal principio dell’applicabilità discende il regolamento a derogare
persino le leggi formali (il primato del diritto comunitario sul diritto interno). Alla base
dell’applicabilità diretta dei regolamenti nell’ordinamento italiano deve porsi l’ordine di
esecuzione dei trattati istitutivi della comunità e l’obbligo sorto per lo Stato italiano di
consentire che tali norme spieghino l’efficacia nel suo interno come se fossero proprie norme.
Nell’art. 11 Cost secondo cui l’Italia in condizioni di parità con gli altri Stati consente a
limitazione di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri pace e giustizia; promuove
e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. E si è ritenuto che le deroghe
alla situazione di cui si è detto (fonti esterne che sostituiscono alle fonti interne primarie
bonificata direttamente verso i soggetti) trovino la loro legittimazione del fatto che tali trattati
rientrano fra quelli con il quale l’Italia può consentire a limitazioni della sovranità quali sono
certamente quelle derivanti dal sistema delle competenze.
L’effetto caducatorio dei regolamenti dell’Unione di confronti le leggi statali preesistenti è
ormai riconosciuto. Quanto all’ipotesi inversa, se c’è una legge che sia possa modificare o
abrogare un regolamento, la Corte costituzionale, ha successivamente statuito che il
regolamento va sempre applicato, sia che segue sia che precede leggi ordinarie con esso
incompatibili; e che il controllo sulla compatibilità va lasciato alla cognizione del giudice
comune, pur dove esiste un apposito organo giudicante. L’applicazione diretta delle norme
dell’Unione al posto di quelle interne non può avere luogo nel caso delle direttive, la cui
attuazione richiede l’adozione di specifici atti normativi. La potestà legislativa dello Stato
delle Regioni è esercitata rispettando i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali. 
Quest’ultima norma deve essere vista come il fondamento complessivo della conformità del
diritto interno al diritto dell’Unione Europea. L’adeguamento dell’ordinamento italiano
all’ordinamento europeo è disciplinato ora con la legge 234 del 2012. La legge di delegazione
europea reca delle disposizioni per conferire al Governo deleghe legislative al fine di attuare
direttive nuove e decisioni quadro, allo scopo di garantire la conformità dell’ordinamento
nazionale a quello dell’Unione europea; disposizioni che autorizzano il governo a recepire in
via regolamentare le direttive; deleghe legislative per la disciplina sanzionatoria violazioni di
atti normativi dell’Unione Europea. La legge europea invece reca disposizioni modificative o
abrogative di disposizioni statali in contrasto con gli obblighi derivanti dall’appartenenza
all’Unione europea, disposizioni modificative o abrogative di disposizioni vigenti oggetto di
procedure di infezione; disposizione per attuare e assicurare l’applicazione di atti europea;
disposizioni occorrenti per dare esecuzione ai trattati internazionali.
Entrambi i disegni di legge sono presentati al presidente del Consiglio dei ministri o del
Ministro di concerto con il Ministro degli affari esteri o gli altri ministri interessati. Il disegno
di legge di delegazione europea deve essere presentato entro il 28 febbraio di ogni anno e può
essere seguito da un disegno di delegazione europea (secondo semestre) da presentarsi entro
il 31 luglio. Le direttive dell’Unione possono essere attuate mediante regolamento
governativo ai sensi dell’articolo 17 della legge 400 del 1988. Possono essere recepite con
regolamento ministeriale o interministeriale o con atto amministrativo generale del Ministro
ove di contenuto normativo. La legge 234 del 2012 ha disciplinato il processo di
partecipazione dell’Italia alla formazione e alla predisposizione degli atti dell’unione,
basando tale disciplina sui principi di attribuzione, di sussidiarietà, di proporzionalità, di leale
collaborazione. Per questi fini, viene istituito il comitato interministeriale per gli affari
europei (CIAE). Per quanto riguarda la fase ascendente della formazione degli atti
dell’Unione, la legge citata garantisce la partecipazione delle Regioni, delle Province
autonome di Trento e Bolzano, degli enti locali, delle parti sociali e delle categorie
produttive 
 
18.Le c.d. fonti atipiche e le leggi rinforzate
Parità delle fonti del nostro ordinamento costituzionale e la sua varietà può variare a seconda
che si adatti a quello della separazione delle competenze; esistono poi fonti di pari forza della
legge formale, fonti la cui forza attiva è potenziata o depotenziata ecc. E alla figura delle fonti
atipiche e rinforzate, presupponendo l’esistenza di una fonte efficace sia notifiche che
dovrebbe porsi come paradigma. Abbiamo notato che alcune fonti emanate dal potere
esecutivo (decreti-legge e decreti legislativi) hanno la stessa efficacia e la legge formale che
altre (regolamenti parlamentari che si occupano di disciplinare l’organizzazione e l’esercizio
delle funzioni dell’assemblea legislative e così via. Inoltre, talune fonti si distinguono dalle
altre di pari grado perché sono sottratte all’abrogazione mediante referendum, hanno cioè una
forza potenziata mentre, la fonte referendum abrogativo ha rispetto alle leggi una forza
depotenziata. Inoltre, vi sono fonti di parigrado che differiscono tra loro per un diverso
procedimento di formazione a cui sono chiamati alla partecipazione organi o enti estranei agli
organi cui il procedimento è affidato. Si pensi all’art. 132 Cost. A norma del quale, per poter
disporre la fusione di regioni esistenti o la creazione di nuove regioni, occorre non solo la
legge di revisione costituzionale ma anche che la fusione o la creazione venga richiesta da
tanti consigli comunali da rappresentare un terzo delle popolazioni, e che la proposta sia
approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse. Altro esempio di leggi
rinforzate è dato dalle leggi di amnistia e di indulto che, ex art.79, devono essere deliberate
con la maggioranza qualificata dei componenti di ciascuna camera.
Si ricordi inoltre che gli adempimenti previsti, estranei al procedimento legislativo in senso
stretto e aggiuntivi rispetto a questo, consistono in una partecipazione dal basso mediante atti
di iniziativa congiunta, non vincolanti, degli enti e ho delle popolazioni interessate alla
decisione politica che comunque formalmente resta sempre affidata agli organi legislativi. Per
cui ad essere rinforzata non è tanto la fonte atto quanto il momento partecipativo anche nella
disciplina prevista dall’Art punto otto Cost, i rapporti per le sei e le confessioni cattolica sono
regolati sulla base di intese con le relative rappresentanze: anche qui si avrebbe un
rafforzamento del momento partecipativo, a meno che non si ritenga che le intese sono anche
vincolanti, nel senso che, restando ferma la discrezionalità del parlamento in caso di
approvazione la legge non potrà discostarsi dal contenuto dell’intesa. Poiché sembra questa la
tesi da preferire, la legge regolatrice dei rapporti con le confessioni acattoliche definirsi
rinforzata per la partecipazione alla sua determinazione con soggetti diversi dagli organi
legislativi.

19.L’interpretazione dei testi normativi


La distinzione fra norma e fonte del diritto pone il problema dell’interpretazione. È necessaria
un’operazione intellettiva che colga il significato della norma stessa nel contesto
dell’ordinamento giuridico. Ciò che importa è che nella fase attuativa del diritto, la norma
ricavata dal testo si inserisca armonicamente nel sistema e trovi in esso la sua coerente
collocazione.
L’interpretazione dei testi normativi deve svolgersi secondo regole ricavabili e
predeterminate dal sistema. A questo proposito l’Art 12, comma I, delle disposizioni sulla
legge in generale si occupa di fornire un’indicazione interpretata nel seguente modo:
l’interprete di un testo normativo deve tener conto del significato grammaticale delle parole,
non isolatamente considerate, ma secondo la loro connessione sintattica (interpretazione
letterale), nonché dell’interpretazione del legislatore (ratio legis). Intenzione del legislatore è
un elemento obiettivo, non va cioè riferita alla volontà di coloro che hanno formulato il testo.
La formula legislativa, infatti, una volta approvata e quindi la norma da esso desumibile,
vivono di vita propria, per cui la mens legis si obiettivizza, va riferita alla norma in quanto
immessa nel sistema.
Tuttavia, non essendo la norma isolata, ma inserita in un sistema, essa va colta nelle sue
connessioni con le altre norme e deve armonizzarsi con i principi fondamentali che
assicurano la coerenza dell’ordinamento complessivamente considerato. (Interpretazione
sistematica).
L’interprete, una volta tratta la norma del testo sulla base dell’interpretazione letterale e della
Mens legis, dovrà “calare” la stessa nel sistema; potrà allora avvenire che il suo significato si
arricchisca (interpretazione estensiva) ovvero si restringa (interpretazione restrittiva). E
questo può avvenire ad esempio perché, pur restando immutate il testo, sono mutati i principi
fondamentali dell’ordinamento. In quest’ipotesi, ove la formulazione letterale del testo lo
consenta, il significato della norma dovrà essere adeguato ai nuovi e diversi principi
(interpretazione adeguatrice). Quest’ultima ha particolare importanza nel campo del diritto
costituzionale anche per l’indirizzo assunto dalla Corte costituzionale che fa carico al giudice
a quo di ricercare conforme a Costituzione. Può anche accadere che il testo normativo venga
interpretato e quindi applicato in diversa maniera. È un fenomeno fisiologico, poiché il
trascorrere del tempo determina un distacco sempre crescente fra il significato originario del
testo e quello che l’interprete gli attribuisce. Si parla in questo caso di interpretazione
evolutiva.
Proprio perché un testo normativo può ricevere varie e contrastanti interpretazioni, può
intervenire il legislatore per chiarire e precisare con legge o con atti adesso equiparato, il
significato del testo vincolando gli interpreti hanno le attribuirgliene uno diverso ma anche ad
applicarlo retroattivamente, tranne che si tratti di una legge penale nel caso in cui
l’interpretazione sia sfavorevole al reo (interpretazione autentica)

In merito a questo tipo di interpretazione, la Corte costituzionale ha ritenuto che essa si abbia


non solo in una situazione di incertezza dell’applicazione del diritto o di conflitto di
interpretazione ma anche quando la scelta ermeneutica imposta dalla legge stabilisca un
significato che poteva essere ascritto alla legge anteriore. La sentenza 374/2000 della stessa
Corte, ha stabilito che una legge di interpretazione autentica non può incidere sulle sentenze
passate in giudicato. Si sostiene che la legge quindi si limiti ad operare sul piano delle fonti
del diritto senza implicare una lesione dei principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e
giurisdizionale nonché della tutela dei diritti e degli interessi legittimi. 
Può avvenire anche che l'interprete non trovi una norma che disciplini una determinata
fattispecie. A questo riguardo soccorre l'articolo 12, comma 2 delle Preleggi, statuendo che
“Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle
disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si
decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato”. La norma da
applicare dunque sempre contenuta nel sistema, anche se inespressa. Spetterà all’interprete
ricavarla secondo il processo definito dell’interpretazione analogica, o dalle disposizioni che
disciplinano casi simili o materie analoghe (e via un raffronto fra le due fattispecie che
implica un giudizio di similitudine o di analogia fra le materie) (analogia legis) ovvero
mediante il ricorso ai principi generali dell'ordinamento giuridico (analogia iuris). Qui si
intendono i principi che presiedono all’intero ordinamento giuridico statale e non a settori o
parti di esso; per cui non possono non essere considerati i principi fondamentali di struttura,
istituzionali. L'interpretazione analogica non è consentita in materia penale (nella quale vige
il c.d. “favor libertatis”, per cui un fatto, per essere punito come reato, deve essere previsto
come illecito da una legge) oppure quando si tratti di rapporti e situazioni ritenuti eccezionali,
nei quali la singolarità della fattispecie non consente l'estensione analogica della norma
regolatrice). 
Può capitare che l'interprete non raggiunga i risultati voluti oppure ricorrendo all’analogia
legis e iuris. In tale eventualità, l'interprete dovrebbe prendere atto che nell’ordinamento
esiste una lacuna, cioè un vuoto normativo. Secondo altri invece non esisterebbero lacune;
Spetterà al giudice dichiarare la rilevanza giuridica della stessa pretesa avanzata in giudizio
sul presupposto errato dell'esistenza di una situazione giuridica soggettiva. il diritto, infatti,
non disciplina tutti i possibili comportamenti ed interessi individuali e collettivi, ma solo
quelli che una comunità sociale ritiene rilevanti e meritevoli di tutela punto così, ad esempio,
non è previsto nell'ordinamento generale un obbligo di mangiare o non mangiare un
determinato cibo.
Peraltro, l'ordinamento giuridico, completo sotto il profilo normativo, potrebbe non esserlo
sotto quello istituzionale dando luogo alle cosiddette lacune istituzionali. Si avrebbero tali
lacune quando un istituto normativamente previsto non sia stato in concreto costituito. Tali
lacune sono circoscritte all'organizzazione costituzionale dello Stato-istituzione. Si pensi alla
Corte costituzionale, al Consiglio superiore della magistratura, il Consiglio nazionale
dell'economia e del lavoro, le Regioni di diritto comune, la cui istituzione è avvenuta dopo
anni dall’entrata in vigore della Costituzione. Tuttora, poi, la nostra Costituzione non può
dirsi completamente attuata (art.39). Un ulteriore caso di lacuna istituzionale si avrebbe
quando un istituto per lo innanzi funzionante venisse a mancare (estinzione di una dinastia in
regime monarchico) 
 
20.L’interpretazione delle disposizioni costituzionali 
Particolare rilievo assume interpretazione delle disposizioni costituzionali per la natura stessa
di tali disposizioni dei quali vi è una più elevata carica di politicità dato che esse valgono ad
esprimere i valori e i fini politici fondamentali della comunità che si è organizzata in Stato.
Alcune disposizioni costituzionali contengono concetti polivalenti, suscettibili di diverse
interpretazioni a seconda del momento storico in cui ad esse viene data applicazione e
dalle forze politiche che lo rendono operanti (come devono intendersi, ad esempio, i fini
sociali o l'utilità sociale in contrasto con la quale non può svolgersi l'iniziativa economica
privata). Per questi motivi, siffatta interpretazione è stata istituzionalmente affidata
in Italia alla Corte costituzionale che è in grado più degli altri giudici, per la sua
composizione e l'estrazione dei suoi componenti, di cogliere il significato delle disposizioni
della Costituzione formale adeguandola ai mutamenti intervenuti nella Costituzione
materiale. Anche i cittadini devono interpretare la Costituzione e hanno il dovere di
osservarla, come singoli, come associati, il legislatore, i giudici, i pubblici amministratori e
gli organi di indirizzo politico. Ecco un'altra peculiarità dell'interpretazione costituzionale che
è data dalla varietà dei soggetti che sono chiamati osservare le disposizioni o a
darne attuazione. E questo spiega come l'interpretazione della Costituzione sia influenzata da
fattori politici, dal modo cioè in cui l'interprete opera il raffronto tra i fini ed i valori che egli
trae dalle disposizioni e la realtà nella quale opera. Può quindi accadere che l'interpretazione
del testo sia piegata alla cura di interessi contingenti o di interessi di parte e certamente
questo è un rischio che non si può evitare. Anche se la creazione di un organo come
la Corte costituzionale lo attenui non poco. Non è da escludere che la stessa Corte scelga, fra
le varie interpretazioni possibili, quella più idonea a conservare l'ordinamento giuridico
vigente ed i sottostanti equilibri politici. 

21. L’efficacia delle norme nel tempo e nello spazio 


La applicabilità delle norme giuridiche ha una sua dimensione temporale e
spaziale. Quanto alla prima, l'articolo 11 delle preleggi statuisce che “la legge non dispone
che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Tale regola indica che una norma non può
essere applicata a situazioni di fatto od a rapporti giuridici sorti e conclusosi anteriormente
alla sua entrata in vigore. L'irretroattività della legge è stata prevista limitatamente al campo
del diritto penale (“nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima del fatto commesso”); la Corte costituzionale dunque pur riconoscendo il
principio generale della irretroattività, ha statuito che esso non è mai assurto nel nostro
ordinamento alla dignità di norma costituzionale; né è stato elevato dalla vigente
Costituzione, se non per la materia penale e limitatamente alle norme più sfavorevoli per il
reo, ammettendo così la retroattività delle leggi interpretative e delle leggi finanziarie. 
Un problema più complesso è quello di stabilire fino a quel punto la legge possa disporre per
il passato. Non dovrebbero esservi dubbi che è una legge non possa applicarsi a rapporti
giuridici che al momento della sua entrata in vigore abbiano esaurito i loro effetti grazie ad
una sentenza passata in giudicato, di un arbitrato o di una transazione (teoria dei diritti
quesiti, cioè diritti acquistati definitivamente (LAVAGNA). La legge si applicherà ai rapporti
e alle situazioni che, al momento della sua entrata in vigore, non abbiano ancora esaurito i
loro effetti. Per il resto occorrerà proprio affidarsi alla prudente valutazione del legislatore,
come ha statuito la Corte costituzionale, il quale deve assicurare la certezza dei rapporti
giuridici. La deroga al principio della irretroattività non è invece consentita da parte dei
regolamenti che, in quanto fonti secondarie, non possono derogare per il criterio della
gerarchia, ad un principio contenuto in una fonte primaria. 
La legge spiega la sua efficacia nel tempo sino a quando una legge successiva o una fonte di
pari grado non la abroghi. L'abrogazione può essere tacita o espressa. È espressa quando la
legge successiva espressamente disponga che una legge precedente è abrogata; è tacita
quando le disposizioni della nuova legge siano incompatibili con quelle della legge
precedenti o quando la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore,
non potendo coesistere in questo caso due leggi che regolino per intero la stessa materia.
L'abrogazione di una legge o di un atto avente valore di legge può anche avvenire ad opera di
un referendum (art. 75 Cost.) e sarà sempre espressa. Si possono avere però leggi a termine,
che fissano esse stesse la durata della loro efficacia, o ad efficacia predeterminata dall'
ordinamento (come la legge di bilancio, la cui efficacia ha la durata di un anno; il decreto-
legge non può avere un'efficacia superiore ai 60 giorni); e le leggi la cui vigenza è
condizionata dalla persistenza di determinati stati di fatto o di diritto (leggi in periodo di
guerra) o la cui vigenza cessa con l'entrata in vigore di una legge. L'abrogazione non si
applica quando la legge anteriore sia speciale e quella successiva, invece, generale
(legi  speciali per generalem non  derogatur), ritenendosi che la disciplina generale non abbia
ragione di mutare quella dettata per singole fattispecie dal legislatore. 
Si ha poi un caso di disapplicazione delle leggi quando la Corte costituzionale ne dichiari la
illegittimità costituzionale. L’art 136 dispone che quando la Corte dichiara l’illegittimità
costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere
efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Detto articolo va letto
insieme all’art.30 della legge 87/1953, a norma del quale “le norme dichiarate incostituzionali
non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” e
all’art.1 della legge costituzionale 1/1948 e stabilisce i modi di instaurazione del giudizio
innanzi alla Corte. La decisione della Corte rende applicabile la legge stessa o un atto adesso
equiparato. 
Una questione che assume particolare rilevanza qui è quella della “durata” della Costituzione.
In realtà la sua vigenza non può avere limiti temporali prefissati, perché ogni costituzione è
posta per durare nel tempo. Una costituzione che prevedesse limite simile, rappresenterebbe
una contraddizione logica ancor prima che giuridica. Si vuole qui intendere che la
Costituzione, rispetto alle altre leggi, tende a maggiore intangibilità e durevolezza
(ESPOSITO) e deve durare quanto più lungo è possibile (PIERANDREI), mentre corrisponde
al suo naturale funzione l’esigenza della sua permanenza e durata nel tempo (MORTATI). La
durata della Costituzione è indeterminata, dipendendo sia da fattori esterni e sia dalla
persistenza nel tempo dei valori fondamentali normativizzati in essa. Può tuttavia accadere
che la costituzione contenga una serie di disposizioni che fissano i termini i tempi e i modi
della sua attuazione. È questo il caso di alcune delle 18 “Disposizioni transitorie” che
completano il testo della Costituzione. 
L’applicabilità delle norme giuridiche viene ricollegata al principio della “territorialità della
legge”, secondo cui l'efficacia delle norme vige nell’ambito territoriale entro il quale lo Stato
esercita la sua sovranità. Questo principio non è però esclusivo, perché rapporti e situazioni
sorti nel territorio dello Stato possono essere disciplinati da norme di altri ordinamenti, e
rapporti situazioni sorte nel territorio di un altro stato possono essere disciplinati da norme
dell'ordinamento italiano. Il primo caso è quello del rinvio dell’ordinamento italiano ad un
ordinamento straniero; il secondo quando è l'ordinamento straniero che rinvia quello italiano.
Si ricordi anche la efficacia diretta delle norme dell'Unione europea nel territorio dello
Stato, in deroga all'ordine costituzionale delle competenze. Il principio della territorialità va
dunque integrato, se è vero che tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato sono
soggetti alle sue leggi, è anche vero che la legge italiana si applica in alcuni casi, anche se il
suo destinatario si trova al di fuori del territorio dello Stato (efficacia extraterritoriale). Un
esempio si ha per gli atti e i fatti compiuti a bordo di una nave o di un aeromobile che si
trovino in luogo o spazio soggetto alla sovranità di uno stato estero. Tali atti o fatti sono
disciplinati dalle leggi italiane in tutti i casi in cui dovrebbe applicarsi la legge del luogo dove
l'atto è compiuto o il fatto è avvenuto.  
In un ordinamento con una pluralità di fonti legislative come quello italiano, l’ambito di
vigenza delle norme è suddiviso fra le varie fonti e quindi si hanno tre livelli territoriali di
applicabilità delle leggi: uno statale, uno regionale ed uno provinciale (limitatamente alle
province di Trento e di Bolzano). 

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