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Pragmatica 6 lezioni
Pragmatica - Sei lezioni Lezione I
La pragmatica ci fornisce gli strumenti per descrivere le pratiche della comunicazione in cui siamo
quotidianamente impegnati; essa vede nel linguaggio una forma d’azione: con le parole è possibile
non solo descrivere il mondo, ma cambiarlo. Dal significato all’uso La pragmatica è incentrata su
come un sapere comune (storico, sociale o ideologico) agisce sullo sfondo di un’interazione e,
confluendo in altri saperi (ad es. ciò che io so di te, delle tue opinioni e delle tue esperienze)
permette agli interlocutori di capirsi, nonostante molti passaggi siano saltati. La pragmatica si
occupa della lingua in una data situazione, è lo studio degli usi linguistici contestualizzati; e proprio
perché ogni cultura (e quindi ogni lingua) ha proprie connotazioni su espressioni e predicati, la
pragmatica non si occupa solamente di una lingua e della sua grammatica, ma anche di una cultura.
Dalla grammatica alla pragmatica Charles Morris, filosofo americano, definisce sintassi,
semantica e pragmatica, dando la prima definizione di quest’ultima. Unite, le tre discipline formano
la semiotica. La sintassi è lo studio delle relazioni dei segni tra di loro, mentre la semantica è lo
studio delle relazioni tra i segni e i loro referenti; la pragmatica è lo studio dell’uso dei segni, della
relazione tra i segni e coloro che li usano. Queste definizioni sono interpretabili in più modi, anche
opposti fra loro. Un utente del segno, ad esempio, può essere di due tipologie: una astratta che
prevede un “io” grammaticale, oppure una che presenta un “io” a tutto tondo che ha una sua
consistenza sociale, storica e psicologica. La concezione secondo cui il linguaggio serve a nominare
le cose è molto antica, ma non esiste qualcosa che ha per natura quel nome, sono i parlanti che lo
attribuiscono grazie ad un atto di riferimento che crea la realtà, selezionando di un oggetto le sue
caratteristiche. Denominare qualcosa non è un atto a sè stante, ma comporta aspetti pragmatici
dipendenti dal contesto: se dico “la modernità di Croce”, compio un atto di riferimento mediante un
atto di giudizio, eseguendo entrambi contemporaneamente. Utile per capire modi differenti di
pensare al linguaggio è lo schema di Nerlich e Clark (pag. 22): sono distinti un paradigma formale
e un paradigma funzionale, che rispondono diversamente a tre quesiti. Secondo il paradigma
formale una lingua è un insieme di frasi, secondo il paradigma funzionale è uno strumento
d’interazione sociale. Secondo il p. formale, la funzione primaria di una lingua è l’espressione del
pensiero, per il funzionale è la comunicazione. Nel p. formale, il correlato psicologico di una lingua
è la competenza, ovvero la capacità di produrre, interpretare e giudicare frasi; per il funzionale è
invece la competenza comunicativa, dunque l’abilità di condurre l’interazione sociale mediante la
lingua. Secondo il p. formale, la sintassi è autonoma rispetto alla semantica e la sintassi e la
semantica sono autonome rispetto alla pragmatica; dunque le priorità vanno dalla sintassi, alla
semantica e in ultimo alla pragmatica. Nell’altro paradigma la pragmatica è la cornice all’interno
della quale semantica e sintassi vanno studiate, inoltre la semantica è subordinata alla pragmatica e
la sintassi alla semantica. Il paradigma funzionale è quello che più si avvicina ad un’ottica
pragmatica, a cui interessa un saper fare e una buona formazione semantica, non soltanto un saper
dire sintatticamente corretto. Soprattutto, interessa un’appropriatezza del contesto,
un’appropriatezza pragmatica. Non basta valutare le frasi dal punto di vista della loro correttezza
grammaticale, bisogna studiare il discorso nel contesto in cui lo si trova. Dunque, il parlante-
modello della pragmatica è un individuo che non solo sa pronunciare enunciati corretti, ma agisce in
modo efficace; egli non solo sa produrre frasi sintatticamente corrette e semanticamente ben
formate, ma è un membro competente di un gruppo sociale che produce comportamenti adeguati ad
un certo tipo di situazione. Ha un’identità plurima che costruisce con il suo interlocutore durante il
discorso, in base all’interpretazione che dà del suo ruolo. Sono attori competenti ratificati che
dispongono criteri di appropriatezza metapragmatica e metacomunicativa. In pragmatica si passa da
un’eutaxia, buona formazione sintattica, all’eusemia, buona formazione semantica, per arrivare all’
eupraxia, un agire corretto ed efficace: il discorso si incentra non solo su un agire corretto, ma
dev’essere efficace, deve produrre risultati ed effetti. Ciò comporta una consapevolezza
metapragmatica, ovvero l’essere consapevoli delle regolarità del comportamento. Oltre che dalla
filosofia analitica, la pragmatica è stata nutrita dall’etnometodologia sul piano metodologico.
L’etnometodologia nasce in America grazie ad alcuni studiosi, i quali partivano dall’idea che i
membri di un gruppo sociale utilizzino metodi per svolgere le loro attività quotidiane, tra cui la
comunicazione; l'etnometodologia studia questi metodi. La competenza comunicativa Lo schema
SPEAKING (pag. 26), acronimo delle iniziali delle sue componenti, è stato ideato da Dell Hymes
con lo scopo di mettere a fuoco gli elementi di un evento linguistico (speech event). Quest’ultimo è,
ad esempio, una lezione o un’intervista. Secondo Hymes, la nostra competenza comunicativa
concerne sapere quando parlare e quando tacere, e il sapere di cosa parlare a chi, dove, quando e in
che modo. I fattori elencati da Hymes sono molteplici: situazione, scena, parlante, mittente,
ascoltatore e ricevente. Altri elementi sono: scopi, risultati; scopi, fini; forma del messaggio,
contenuto, chiave, canale, forme di discorso, norme di interazione, norme di interpretazione, generi.
Il campo di rilevanza di amplia, dalla competenza grammaticale si passa ad una competenza
generale, ad un saper stare al mondo: un discorso sarà appropriato in una situazione e non in
un’altra, un dato stile linguistico potrà essere usato in un contesto informale e non in uno formale,
viceversa il contrario. I Frames Il concetto di frame è un concetto esteso, riguardante il modo in cui
le nostre conoscenze sul mondo agiscono nella comprensione dei messaggi linguistici, esempi di
frames sono le lezioni universitarie, le udienze. Di frame ci sono definizioni provenienti da due
ambiti disciplinari differenti, le scienze cognitive e la micro-sociologia. Secondo Minsky, che ha
introdotto il concetto nelle scienze cognitive, i frames sono strutture fisse della nostra conoscenza
del mondo, situate nella nostra mente e che vengono riattivate, aggiornate e ampliate dalle
situazioni in cui ci troviamo, in un continuo processo di adattamento. Schank e Abelson proposero
il concetto di script in cui, rispetto al frame costituito da oggetti, si ha la preponderanza delle
sequenze temporali. Gli scripts sono rappresentazioni fisse della conoscenza su eventi ordinati
secondo una sequenza temporale. Che sia organizzato in frame o scripts, il nostro sapere influisce
sulla comprensione dei messaggi linguistici, permettendoci di colmare delle lacune di un discorso o
di un testo: quando si attiva un frame, si instaurano delle aspettative che influenzano la
comprensione; alcuni passaggi del discorso possono essere saltati o dati per scontati, l’interlocutore
che dispone del frame potrà recuperare i passaggi saltati adattando le sue conoscenze al nuovo
input. Il secondo concetto di frame è di Goffman, che vede nei frame scene di interazione
prototipiche, derivanti da strutture sociali e culturali. I frames sono realtà mentali, che non
includono solo conoscenze, ma anche emozioni; sono il risultato non solo di un sapere, ma anche di
un sentire. Il linguaggio come forma d’azione: la performatività Ciò è in linea con la tradizione
che, da Aristotele in poi, vede il linguaggio in modo descrittivo: in particolar modo, la priorità è
stata data al linguaggio apofantico, quello vero o falso, dunque a chi si occupa del linguaggio
interessa la verità o la falsità. Ma non è un qualcosa applicabile a tutto: è possibile dire di “vietato
fumare” se è vero o falso? In un caso del genere, in un divieto, la verità e la falsità non interessano;
la domanda che conta è che tale divieto sia valido o invalido. Austin, filosofo, è il primo a mettere a
fuoco il fatto che il linguaggio oltre che dire delle cose, le fa. Partendo da enunciati particolari,
come “battezzo questa nave Queen Elizabeth” o “sì” quando si pronuncia il “sì” ad una cerimonia
nuziale, Austin si accorge che in questi enunciati non si constata né ci si riferisce a qualcosa, ma si
dice quello che si compie e si compie quello che si dice: è questa la performatività. La distinzione
tra gli enunciati performativi e constatativi è la prima grande scoperta di Austin, ma tale scoperta
ben presto viene superata dal suo stesso creatore che scoprirà l’analogia tra i due tipi di enunciato,
in quanto la categoria degli impliciti li investe entrambi. Le condizioni di felicità degli enunciati
constatativi sono le condizioni grazie alle quali le affermazioni si considerano correttamente e
completamente eseguite, nel loro giusto e appropriato contesto (pag. 31). Le condizioni A
riguardano la preparazione, secondo cui le persone e le circostanze devono essere appropriate alla
procedura cui ci si richiama; le condizioni B riguardano la procedura che deve essere eseguita
- l’implicazione logica o implicitazione: non è possibile dire “tutti gli uomini arrossiscono, ma
nessun uomo arrossisce”, perché la prima frase implica logicamente la seconda;
- il dare per implicito: non ha senso dire “il gatto è sul tappeto, ma io non ci credo”, perché dire
implica credere;
- la presupposizione: non si può dire “tutti i figli di Paolo sono calvi, ma Paolo non ha figli”. Da
queste osservazioni deriva la teoria degli atti linguistici e il concetto di forza illocutoria: oltre al
significato, tutti i tipi di enunciati hanno una forza chiamata illocutoria, livello convenzionale per
cui un atto, se ratificato dall’interlocutore, diventa valido. La convenzionalità e la ratifica
dell’interlocutore mostrano come per Austin l’agire linguistico è tale perché non riguarda solamente
le intenzioni del parlante, ma anche le convenzioni sociali che si seguono in un contesto in cui
parliamo. Per Austin, io come interlocutore non solo ho il compito di comprendere quel che ascolto,
ma sono chiamato a riconoscere come valido un dato atto e ho un ruolo cruciale per il felice
compimento dell’atto stesso: si inaugura un nuovo modello dell’attività linguistica in cui il
linguaggio è una forma dell’agire sociale, che è dialogico e interpersonale.
Lezione II Atti linguistici: livelli di analisi e indicatori di illocuzione Dopo aver annullato la
dicotomia performativo-constatativo, Austin propone una teoria generale degli atti linguistici.
Secondo il filosofo, tale dicotomia sta alla teoria generale degli atti linguistici come una teoria
particolare sta a una teoria generale. Asserendo che ciascun enunciato, sia esso performativo o no, è
un atto, egli distingue tre dimensioni di analisi dell’atto linguistico: la dimensione locutoria, quella
illocutoria e quella perlocutoria. Austin parla dunque di atto locutorio, atto illocutorio e atto
perlocutorio; dato che nella teoria austiniana non esiste un atto che non sia anche illocutorio e
perlocutorio, si parla di livelli di descrizione. L’atto locutorio è un enunciato dotato di una struttura
grammaticale e di un significato, l’atto illocutorio è invece la scoperta austiniana, il livello per cui
un enunciato non solo ha un significato, ma anche una forza, cioè ha una funzione comunicativa
convenzionale in quel determinato contesto. È la forza illocutoria che mette a fuoco i modi in cui il
linguaggio è azione e ci permette di avanzare nella comprensione di ciò che accade quando usiamo
le parole. L’atto perlocutorio è il livello degli effetti del dire. Se si tratta di effetti programmati, si
parla di obiettivo perlocutorio: se si avverte qualcuno, l’obiettivo è mettere in guardia quel
qualcuno, ed è un obiettivo connesso all’avvertimento in sè, è un effetto prevedibile. Invece, se si
tratta di effetti non connessi del dire si parla di seguiti perlocutori: se si cerca di avvertire qualcuno
l’obiettivo è di metterlo in guardia, ma avvertendolo lo si può anche terrorizzare o offendere. Un
atto linguistico può anche comprendere entrambi: se si obbedisce all’ordine di qualcuno e con ciò
viene conseguito l’obiettivo perlocutorio, si possono anche avere seguiti perlocutori sorprendendo,
ad esempio, la persona di cui l’ordine si è eseguito perché in genere si è disubbidienti e non ci si
aspettava che si adempiesse all’ordine dato. Austin ritiene che la differenza tra illocutorio e
perlocutorio è nella convenzionalità: l’atto illocutorio è un atto convenzionale la cui forza
illocutoria è esplicitabile attraverso forme, come i verbi performativi; l’atto perlocutorio non è
convenzionale, non si hanno ad es. mezzi definiti con cui si può irritare qualcuno. Austin scopre
prima la performatività e poi gli atti illocutori grazie ad un elenco di verbi performativi, quei verbi
che solo alla prima persona del presente indicativo attivo fanno quello che dicono e dicono quello
che fanno; tali verbi sono anche verbi illocutori. Alcuni verbi illocutori hanno un uso performativo:
alla prima persona del presente indicativo attivo compiono l’atto che designano. Secondo Austin,
per individuare il tipo di atto linguistico bisogna guardare il modo del verbo: ad es. un imperativo
veicolerà un ordine, ma non è detto che sia così, in quanto con l’imperativo si può fare anche un
augurio, come in “passa una buona vacanza”. Il modo del verbo è dunque un indicatore di
illocuzione, ma non è il solo: lo è anche il tono della voce, insieme agli avverbi, i segnali non
verbali (come un’alzata di spalle) e le circostanze degli enunciati. Vi sono tre tipi di indicatori di
illocuzione:
1) Indicatori lessicali come i verbi illocutori o espressioni che rendono chiara l'interpretazione
dell’atto: ad es. il “per favore” rende chiaro che l’atto pronunciato è una richiesta;
2) Indicatori sintattici dati dal modo verbale e anche dal tempo verbale, infatti il futuro è un
indicatore illocutorio: dire “lo farò” fa capire che l’atto pronunciato è una promessa;
La classificazione austiniana di atti illocutori Ogni enunciato ha una forza illocutoria, e alcuni
enunciati hanno una forza illocutoria esplicita, resa tale da un verbo illocutorio. Dato che alcuni
verbi illocutori hanno un uso performativo e che gli enunciati performativi hanno la caratteristica di
autoverificarsi (fanno quel che dicono e dicono quel che fanno), performatività e illocutorietà
possono coesistere. L’elenco dei verbi di Austin prevede una serie di verbi collocati in cinque classi
differenti, rappresentanti diversi tipi di illocuzioni:
1) La prima classe è quella dei verdettivi, una categoria di atti che emettono un giudizio, una
valutazione; i verbi che rendono chiaro questo atto sono: giudicare, calcolare, stimare, valutare,
diagnosticare;
2) La seconda classe è quella degli esercitivi, costituita da verbi che prevedono l’azione di
un’autorità o di un diritto, come nominare, licenziare, votare per, ordinare, comandare, concedere,
avvertire, consigliare, esortare.
3) La terza classe è quella dei commissivi, in cui il parlante promette qualcosa o si impegna a una
certa linea di azione; i verbi sono: promettere, impegnarsi, proporre, giurare, scommettere,
sostenere, opporsi, acconsentire.
4) La quarta classe è quella dei comportativi, collegata al comportamento sociale, ai tipi di reazione
a diversi tipi di eventi/azioni; i verbi sono: scusarsi, felicitarsi, congratularsi, ringraziare,
applaudire, dare il benvenuto, augurare, benedire, maledire.
5) La quinta classe è quella degli espositivi, comprendente atti usati nell’organizzare il discorso e
nell’esposizione; i verbi sono: affermare, negare, asserire, classificare, menzionare, rispondere,
domandare, riferire, obiettare, dedurre, definire, concludere.
Secondo un’ipotesi Austin ha prodotto tale classificazione sulla base del prevalere di una
condizione di felicità sulle altre: negli esercitivi prevalgono le condizioni A, ovvero l’esistenza della
competenza; nei comportativi vi è la predominanza delle condizioni Г1 di sincerità, nei commissivi
sono decisive entrambe le condizioni Г, ovvero la creazione di un obbligo e il mantenerlo in
seguito. Tuttavia, questa è un’ipotesi che non regge del tutto, perché negli espositivi e nei verdettivi
non è chiaro quale sia la condizione di felicità prevalente. La classificazione di Searle Searle
distingue nell’atto linguistico due componenti sintattico-semantiche: la componente della forza
illocutoria F e la componente della proposizione (p): propone la formula F(p), dove la variabile F
assume valori diversi di forza illocutoria e (p) rappresenta la proposizione. La formula mostra che
una stessa forza può essere presente con contenuti proposizionali diversi e che viceversa, forze
illocutorie diverse possono avere lo stesso contenuto proposizionale. Inoltre, la formula serve per
schematizzare due tipi di negazione, l’interna e l’esterna: la prima si ha negando F, ad es. dicendo
“non ti prometto di venire”; la seconda negando (p) e dire “ti prometto che non verrò”. Searle
distingue le regole costitutive e le regole regolative: la prima crea un comportamento la cui
esistenza dipende dalla regola stessa, la seconda regola un comportamento la cui esistenza è
indipendente dalla regola stessa. Ad es. “il cavallo muove a gamma” è una regola costitutiva nel
gioco degli scacchi, in quanto tale regola crea un comportamento che è costitutivo del giocare a
scacchi; invece “gli ufficiali devono portare la cravatta a cena” regola un’attività della cena, che
esisterebbe anche senza l’esistenza di questa regola. Searle propone dodici dimensioni di variabilità
, dodici modi in cui gli atti illocutori possono variare (). Le più importanti dimensioni di variabilità
secondo Searle sono tre: lo scopo dell’atto, la direzione del vettore di adattamento tra parole e
mondo, lo stato psicologico espresso. Il vettore di adattamento è il rapporto tra mondo e parole dati
da un determinato tipo di atto illocutorio; la direzione del vettore può andare sia dal mondo alle
parole sia dalle parole al mondo: secondo Searle, ci sono illocuzioni che cercano di adattare le
parole al mondo (le constatazioni fatte sulla base di una situazione), mentre ce ne sono altre che
cercano di adattare il mondo alle parole (i comandi, le promesse). La classificazione degli atti
linguistici di Searle è più attenta ai fatti linguistici: per ogni categoria Searle fornisce dei criteri
linguistici per capire di che atto si tratti. Per ciascuna di queste classi Searle utilizza il criterio della
direzione di adattamento.
1) La prima classe è quella dei rappresentativi o assertivi, in cui vi sono molti degli espositivi di
Austin; la direzione di adattamento va dalle parole al mondo. Lo scopo di questa classe è impegnare
il parlante alla verità di ciò che esprime.
2) La seconda classe è quella dei direttivi (verbi come ordino, supplico, comando, chiedo), in parte
riprende gli esercitivi di Austin. Scopo dei direttivi è il tentativo, da parte del parlante, di indurre
l’ascoltatore a fare qualcosa. La direzione di adattamento è dal mondo alle parole e il contenuto
proposizionale riguarda un’azione futura.
3) La terza classe, identica all’austiniana, è quella dei commissivi, atti che hanno lo scopo di
impegnare il parlante ad una certa condotta. La direzione va dal mondo alle parole e anche qui la
proposizione riguarda un’azione futura del parlante.
4) La quarta classe è quella degli espressivi, simile ai comportativi di Austin. Non c’è alcuna
direzione di adattamento, la verità della proposizione espressa è data per scontata; ad es. “ti
ringrazio per avermi aiutato”, “mi congratulo per la tua laurea”.
5) Infine ci sono le dichiarazioni, la cui felice esecuzione di una delle sue componenti produce la
corrispondenza fra il contenuto proposizionale e la realtà. Ad es. se nomino qualcuno presidente,
questo qualcuno è presidente. Le dichiarazioni provocano delle modificazioni dello stato delle cose
a cui si riferiscono, unicamente in virtù del fatto che la dichiarazione è stata eseguita felicemente.
L’idea di Searle che solamente le dichiarazioni abbiano la capacità di fare quel che dicono e di dire
quel che fanno rende evidente la sua differenza da Austin: ad Austin in<teressa vedere le forme
dell’agire sociale attraverso il linguaggio e la validità o l’invalidità di quest’ultimo. Ciò che a Searle
interessa è l’enunciato che ha forza, in cui il tipo di teoria non è, come in Austin, la convenzionalità
per la quale un atto linguistico è felicemente compiuto seguendo una procedura convenzionale,
bensì l’intenzionalità: per compiere felicemente un atto linguistico devo avere certe intenzioni che
devono essere riconosciute dall’ascoltatore. Rispettare le condizioni costitutive equivale a compiere
felicemente un atto linguistico, esse sono di quattro tipi: la condizione preparatoria , la condizione
proposizionale, la condizione essenziale, la condizione di sincerità. Gli atti linguistici indiretti Gli
atti linguistici indiretti sono enunciati in cui si ha una non congruenza tra forma e funzione, gli
indicatori linguistici vanno in un senso e la funzione illocutoria (funzione comunicativa) in un altro.
In un atto indiretto, il parlante compie un atto illocutorio corrispondente a quel che dice, ma implica
uno scopo illocutorio che va oltre la forma: in “puoi passarmi il sale?” la forma è interrogativa ma
la funzione non è quella di una domanda, ma di una richiesta. Non è sempre facile interpretare
correttamente gli enunciati dove forma e funzione non sono congrue e per farlo si ricorre agli aspetti
del contesto. Inoltre, tale fenomeno non è solo limitato agli atti linguistici indiretti ma è un caso
frequente: a una stessa forma possono corrispondere diverse forze illocutorie, ad es. nel dire “è
molto tardi” posso constatare sia tardi o avanzare una scusa (“non posso fermarmi più a lungo”); e
uno stesso atto illocutorio può essere realizzato da più forme, ad es. “chiudi la finestra” al modo
imperativo e “chiudi la finestra?” alla forma interrogativa.
Lezione III • La forza illocutoria è un modo per pensare ad una sorta di interfaccia tra linguistico e
sociale; rispecchia una competenza metapragmatica, un saper fare a cui non corrisponde
necessariamente un saper spiegare come si fa. Sappiamo molte cose di questo tipo sul linguaggio:
capiamo se siamo davanti ad un invito, una scusa o un’affermazione (illocuzione intesa), ma
capiamo anche come quell’illocuzione è formulata, cogliendone il grado d’intensità, infatti
sappiamo distinguere un’affermazione incerta da una convinta. • L’unità di base per eccellenza della
pragmatica è il linguaggio in movimento, il linguaggio di qualcuno per qualcun altro, in cui un
soggetto prende la parola entro un contesto complesso e si muove verso un altro per fare delle cose;
è questa l’idea che ha del soggetto la retorica classica, e in questo senso l’odierna pragmatica ha
ereditato il progetto di studio della retorica classica. Tuttavia, alla pragmatica interessano le
procedure, il suo oggetto di studio sono i processi, in cui bisogna legare le analisi alle situazioni, a
realtà sia sociali che culturali che possono essere studiate sia a un macro-livello, relativo alla
cultura, sia a un micro-livello, relativo al tipo di attività; ad es. ad un macro-livello, l’idea della
promessa nelle Filippine non è la stessa che abbiamo noi, cambia l’idea stessa di “identità”. • L’idea
di pragmatica è, dunque, quella di una rete concettuale che consenta non solo di porre regole, ma
anche di spiegare come le persone riescano a comunicare. Il “perché” è importante così come il
“come”, cioè in base a quale meccanismo linguistico coinvolto è possibile capire cosa sta
succedendo in un dato contesto. L’idea di pragmatica dell’autrice è quella di una teoria allargata e
debole, che cerca di trovare regolarità a partire da inferenze legittimate da un contesto. Che la
pragmatica sia una teoria debole non è uno svantaggio bensì è necessario affinché possa essere un
raccordo tra discipline diverse, in quanto l’oggetto della pragmatica, l’agire in situazione e nel suo
costruirsi entro un certo tipo di attività diretta a scopi, è un oggetto che richiede un’analisi flessibile
entro cui rendere conto di questa complessità, cosa che in una disciplina forte e restrittiva non
risulterebbe facile. Un esempio di analisi • Vi sono due funzioni pragmatiche o livelli di
descrizione da affiancare per capire un discorso: alla descrizione contestuale, quella illocutoria di
atti linguistici compiuti che mette a fuoco la forza illocutoria, è affiancata quella co-testuale, la
descrizione di ciò che avviene in sequenza nella conversazione, tenente conto di ciò che c’è stato
prima e dopo un atto linguistico. Il co-testo è un termine tecnico della linguistica testuale che
designa la parte di testo che precede e che segue un enunciato. Nell’analisi conversazionale, la
posizione di un determinato enunciato è fondamentale: siamo in grado di capire le interazioni
verbali perché abbiamo un’idea delle strutture sequenziali; ad es. la sequenza domanda-risposta (in
analisi conversazionale coppia adiacente) caratterizza un’intervista. Dunque, per capire un
enunciato è necessario capire la forza illocutoria da esso veicolata, sia il suo ruolo rispetto a ciò che
viene prima e a ciò che viene dopo l’enunciato in questione. • Scopo dell’analisi è mettere in
funzione le categorie pragmatiche e di raccordarle ad altre: l’analisi è condotta sia dal punto di vista
illocutorio (o contestuale), sia da quello della sequenza (o co-testuale). Vi è anche l’analisi formale
e funzionale degli enunciati, assieme al loro scopo all’interno della conversazione, in termini di
funzione pragmatica contestuale, che concerne l’illocuzione, l’atto riportato è un saluto
cerimonioso, un comportativo secondo la categoria di Austin e un espressivo secondo quella di
Searle. Dal punto di vista del co-testo è un atto iniziale che dà via ad una sequenza, un atto avente lo
scopo di mostrare rispetto e deferenza verso il destinatario in questo caso è individuabile una
sintassi delle illocuzioni, che prevede una illocuzione dominante e altre secondarie (ad es. un atto
principale come una scusa per il ritardo può avvalersi di atti subordinati affinché il ricevente possa
accogliere tale scusa). L’atto centrale è “avvertendo”: il verbo illocutorio esercitivo fa capire che si
è a che fare con un avvertimento. Esso è preceduto da una serie di atti preparatori, da
un’autopresentazione che rende l’avvertimento non solo doveroso, ma anche attento a non tradire la
fiducia altrui. Dal punto di vista del co-testo, l’autopresentazione è un atto che prepara un altro atto,
quello dell’avvertimento, che avviene in “avvertendo il signore zio di un affare [...] serio” ecc.
Secondo la sequenza, stesso tale frammento enunciativo è l’introduzione del caso. - “Qualcheduna
delle sue, m’immagino”: Secondo la descrizione co-testuale, quest’atto è un commento e al tempo
stesso un segnale di via libera alle informazioni annunciate, come “ho capito, vai avanti”. Dal punto
di vista dell’illocuzione, ovvero la descrizione contestuale, è una supposizione; secondo gli atti
illocutori di Austin e Searle è un espositivo, ma blando, in quanto è una forma attenuata di
affermazione: il “m’immagino”, dal punto di vista della forma, è un verbo parentetico, termine
usato in linguistica per designare un’espressione non integrata sintatticamente nella frase e che può
essere staccata, posta prima, dopo o in mezzo all’enunciato; analoghi sono alcuni usi di “penso” e
“suppongo”. Per quanto riguarda la funzione, l’espressione del conte riduce il suo impegno
epistemico rispetto a ciò che afferma in tale proposizione, attenuandone la certezza e prendendone
quindi le distanze. Non solo, ne riduce anche la gravità portando il caso a qualcosa di noto. - “Per
giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio cugino. Ma è riscaldato…”: da un punto di
vista illocutorio l’enunciato è un verdettivo: è un giudizio, un’attribuzione di responsabilità. Di rado
gli atti linguistici hanno un profilo neutro essendo nel discorso reale rafforzati, attenuati e modulati
da diverse intensità che sempre cogliamo quando ascoltiamo; in questo caso il giudizio è rafforzato
dal “per giustizia” e dal “devo dire”. Dal punto di vista co-testuale, in questa sequenza la linea
argomentativa si sviluppa: dopo la presa delle distanze del conte zio e il suo supporre un’altra
malefatta del nipote, prende forma l’altra ipotesi, ovvero che si tratti di qualcosa di grave, dovuto
alla colpa altrui. - “e, come dico, non c’è che il signore zio, che possa…”: Attilio aveva già fatto
quest’affermazione: co-testualmente, l’enunciato è una ripetizione. Dal punto di vista
dell’illocuzione, è un’affermazione che serve a lusingare il conte zio. Attilio lascia strategicamente
l’enunciato incompleto con l’intento di coinvolgere discorsivamente l’interlocutore. - “Vediamo,
vediamo…”: Dal punto di vista dell’illocuzione, si tratta di un’esortazione a non dare per scontata
l’adesione, come se il conte zio volesse dire: “procediamo con calma”. Sequenzialmente, si tratta di
un rovesciamento delle aspettative che si consideravano implicite nella battuta precedente. Dal
punto di vista co-testuale, quindi, gli atti linguistici sono valutabili sia da una direzione cataforica,
ovvero rispetto a ciò che verrà detto dopo, sia da una direzione anaforica, ovvero rispetto a ciò che
è stato già detto. Cataforicamente, qui si tratta di un invito a procedere. - “C’è da quelle parti un
frate cappuccino che l’ha con Rodrigo; e la cosa è arrivata a un punto che…”: dal punto di vista
illocutorio, si tratta di un verdittivo con sfumature esercitive: è un’accusa, è il frate cappuccino che
“l’ha con Rodrigo”, non viceversa; l’enunciato vuole convincere della responsabilità del frate. Dal
punto di vista sequenziale, l’enunciato dà il via al resoconto di Attilio. - “Quante volte v’ho detto,
all’uno e all’altro, che i frati bisogna lasciarli cuocere nel loro brodo?”: formalmente, questo atto è
una domanda. Tuttavia il conte non sta domandando, sta affermando, e la sua affermazione è un
risentito rimprovero. Forma e funzione non sono congruenti, si è davanti a un caso di atto indiretto.
Co-testualmente c’è una sorta di interruzione del resoconto di Attilio. Anche le interruzioni,
considerate come indizi di conflittualità più o meno forte, sono importanti da un punto di vista
conversazionale. - “Basta il da fare che danno a chi deve… a chi tocca… - E qui soffiò”: dal punto
di vista illocutorio, è una sorta di affermazione. Dal punto di vista del co-testo, il conte zio aggiunge
dei motivi (atti subordinati) per seguire il suo consiglio (l’atto principale), venendo così motivato:
vi è una linea argomentativa che si delinea insieme alle illocuzioni e allo sviluppo sequenziale. Lo
scopo dell’enunciato è di darsi importanza e di mettere in rilievo la leggerezza comportamentale dei
nipoti. - “Signore zio, in questo, è mio dovere di dirle che Rodrigo l’avrebbe scansato, se avesse
potuto. È il frate che l’ha con lui, che ha preso a provocarlo in tutte le maniere…”: sul piano
illocutorio, si tratta di un atto verdittivo, in quanto viene attribuita una responsabilità.
Sequenzialmente, sul piano del co-testo, si tratta di ribadire l’innocenza di Rodrigo e la colpa del
frate. Si ha lo scopo di convincere il conte zio della versione manipolata dei fatti. - “Che diavolo ha
codesto frate con mio nipote?”: dal punto di vista illocutorio, è una vera domanda. Co-testualmente,
è l’inizio di un atteggiamento di solidarietà con Rodrigo: lo si può sostenere dal “codesto”, un
indicatore di lontananza non solo fisica, ma anche emotiva, rappresentante disprezzo. Si parla di
deissi empatica: c’è un “codesto” da una parte e, simmetricamente, “mio nipote” dall’altra. - “
Prima di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa professione di prendersela coi
cavalieri”: si è davanti a un caso di giudizio rafforzato; la strategia rafforzante consiste nel dare
come condiviso un giudizio che potrebbe risultare come opinione personale del parlante. Co-
testualmente, viene precisata la ragione dell’affermazione precedente, cioè che è il frate che ha
provocato Rodrigo. - “Costui protegge, che so io? una contadinotta di là; e ha per questa creatura
una carità… non dico pelosa, ma una carità molto gelosa, sospettosa, permalosa…”: dal punto di
vista illocutorio, è la presentazione di un rapporto fra Cristoforo e Lucia, ma come è formulata? Vi è
un caso di reticenza, all’interno della quale viene accennata una preterizione (“non dico pelosa”),
consistente nel dire qualcosa mentre si afferma di non dirla. Vi è anche una pausa e una studiata
esitazione: quest’ultima, giocando sul non detto, aggrava il giudizio. Co-testualmente, sono
introdotti argomenti con cui fomentare la tesi della colpa del frate: viene insinuato un attaccamento
morboso fra lui e Lucia; questa è inoltre descritta con due indicatori di disprezzo e atteggiamento
emotivo negativo (“quella là”). Il modello di Grice • Il lavoro in pragmatica di Grice, noto filosofo,
è uno di quelli di maggior successo. Le sue idee principali riguardano il significato che per Grice è
l’intenzione comunicativa del parlante, e la distinzione fra ciò che il parlante dice e ciò che implica.
Bisogna specificare che Grice ha in mente non una conversazione reale, ma una conversazione
ideale e idealizzata, ossia come dovrebbe essere. Grice sottolinea che l’agire comunicativo è
un’attività razionale, per cui prevede delle procedure che incanalano un agire razionale: se sto
facendo una torta, avrò bisogno di un guanto da forno e non di un martello (es. di Grice). Dunque,
nella conversazione Grice rintraccia gli stessi principi di razionalità che rintraccia il altre forme
dell’agire umano. L’idea fondamentale dalla quale parte Grice è quella del principio di
cooperazione (PDC), secondo cui nella conversazione le persone cooperano: il parlante devo
ritenere scontato che l’ascoltatore cooperi, che il suo atto linguistico abbia una rilevanza rispetto
allo scambio comunicativo in corso; se non si vede subito una rilevanza la si deve grazie ad una
serie di passi inferenziali; ed è qui che interviene l’idea di implicatura, necessaria per spiegare il
processo per giungere ad un'interpretazione: posso cercare di capire quello che tu volevi intendere
compiendo delle interferenze e attribuendoti delle intenzioni, capendo un senso non detto, ma
implicito.
Il PDC è uno dei capisaldi della pragmatica, è ciò che rispecchia il nostro adattamento alle
situazioni, consentendo di spiegare come facciamo a comprendere le mosse di un interlocutore e a
fargli comprendere le nostre. Dopo aver introdotto il PDC, Grice propone quattro categorie di
massime, linee di tendenza che converrebbe seguire nella conversazione, ma fortemente idealizzate
e normalmente violate:
- Quantità: 1. Dà un contributo tanto informativo quanto è richiesto 2. Non dare un contributo più
informativo di quanto è richiesto
- Qualità: 1. Non dire ciò che credi essere falso 2. Non dire ciò per cui non hai prove adeguate
1. Evita l’oscurità di espressione 2. Evita l’ambiguità 3. Sii breve (evita la prolissità non
necessaria) 4. Sii ordinato nell’esposizione
Grice parla di “violare una massima” e di “uscire dal raggio d’azione della massima” potendo, nel
primo caso, non avere intenzione di cooperare nel modo richiesto dalla massima o, nel secondo
caso, trovarsi davanti a un conflitto tra massime, in cui un parlante non può soddisfare una massima
senza violarne un’altra. • Nel caso in cui l’interlocutore veda implicature lì dove non ce ne sono si
parla di ipercooperazione, dove questi attribuisce al parlante intenzioni al di là delle sue; come ad
es. un’interpretazione metaforica ad un messaggio letterale. Esempi di Grice Gruppo A: Esempi in
cui non si viola alcuna massima, o almeno non è chiaro se una massima sia stata violata. 1) A, in
piedi accanto a una macchina evidentemente immobilizzata, viene avvicinato da B; ha luogo il
seguente scambio: A: “Sono rimasto senza benzina.” B: “Dietro l’angolo c’è un distributore”.
Commento: B violerebbe la massima “Sii pertinente” a meno che non pensasse, o che ritenesse
possibile, che il distributore sia aperto e abbia benzina da vendere; dunque egli implica che il
distributore è o potrebbe essere aperto ecc. 2) A: “Non sembra che Smith abbia una ragazza in
questo periodo” B: “È andato un sacco di volte a New york negli ultimi tempi” Commento: B
implica che Smith abbia, o possa avere, una ragazza a New York. In ambedue gli esempi, il parlante
implica ciò che si deve assumere che egli crea se si vuole preservare l’assunto che egli sta
osservando la massima della Relazione. • L’analisi di Grice sulla violazione delle massime e le
implicature può essere messa in relazione agli atti indiretti: il meccanismo di tali atti è descrivibile
anche in termini di implicatura perché anche in questo caso l’interlocutore, per tenere fermo il
principio di cooperazione, deve produrre una serie di inferenze.
condivido del tutto quel che dico: il parlante non si prende la responsabilità di dire “non mi è
piaciuto”, ma allo stesso tempo segnala che si dissocia dal suo dire. Contrariamente, potrebbe
risultare che chi risponde non si considera sufficientemente competente, non ritiene soddisfatta la
condizione A di Austin; pertanto preferisce delegare il parere richiesto a un esperto. Criteri per
identificare l’implicatura conversazionale Vi sono cinque criteri per capire cosa sia
un’implicatura conversazionale e di quale tipo di implicito sia coinvolto rispetto agli altri tipi di
impliciti.
alla Borsa di Milano”, “un altro” presuppone che non sia stato il primo, che ci siano stati altri
record. • Altri triggers sono i verbi fattivi, che presuppongono la verità della proposizione oggettiva
(in senso linguistico) dell’enunciato complemento innestato in essi, anche se il verbo viene negato.
Se dico “Marta sa che Copenhagen è la capitale della Danimarca”, ‘sapere’ funge da verbo fattivo.
Se lo nego, dicendo “Marta non sa che Copenhagen è la capitale della Danimarca”, rimane vero che
Copenhagen è la capitale della Danimarca. Anche ignorare e rimpiangere sono verbi fattivi; essi si
prestano a far passare come oggettivo qualcosa che è un’opinione personale: se dico “ la gente sa
che l’articolo 18 è di scarsa rilevanza”, faccio passare come un’informazione oggettiva ciò che è
un’opinione soggettiva. • I verbi implicativi similmente ai fattivi implicano la verità dell’enunciato
complemento ma, al contrario di questi, se sono negati perdono l’implicazione. Un esempio è
‘riuscire’: se dico “Mario è riuscito a passare l’esame” la parte implicata è “Mario ha passato
l’esame”; se si nega il predicato l’implicazione viene meno. • Un altro caso di elementi che
introducono presupposizioni è quello delle domande introdotte da “chi?”, “quando?”, “a che ora?”,
“dove?”, “perché?”. Es. “A che ora ha ucciso sua moglie?”, presuppone che l’interrogato abbia
ucciso la moglie.
• Altri casi di presupposizione si hanno nelle condizioni controfattuali, ad es. “prima che Giulia
arrivasse, la festa era noiosa” presuppone che Giulia sia arrivata. In tutti questi casi, gli impliciti
veicolati non sono legati ad un’espressione linguistica particolare. • Le condizioni necessarie per
compiere un atto linguistico, sia in un modello come quello austiniano che in altri, sono
interpretabili come supposizioni. Ad es. il fatto che qualcuno mi dia un ordine fa supporre che quel
qualcuno abbia un certo potere su di me; se dico che “Luca si è scusato con Giovanni” si
presuppone che Luca avesse prima offeso o irritato Giovanni. Tale meccanismo è importante per le
ripercussioni sulla comunicazione successiva: se non metto in discussione il potere di qualcuno
come nell'esempio dell’ordine, rendo valida la condizione di felicità preparatoria dell’ordine, ossia
il potere su di me; se non si controbatte si confermano le presupposizioni connesse al compimento
dell’atto linguistico. Lo stesso vale per le presupposizioni nel discorso: vi è una sorta di patto tra
parlante e interlocutore che Grice ha parzialmente colto con il PDC; tutto ciò che viene,
apertamente o meno, posto nel discorso, nella sua prosecuzione è presupposto e se non contestato
sul nascere, è difficile da controbattere in un secondo momento. • Vi sono casi di nominalizzazione
che possono essere letti in chiave presuppositiva: ad es. se dico “il miglioramento delle condizioni
di vita ha esteso il mercato dell’auto”, il fatto che “le condizioni di vita sono migliorate” è posto
come dato di fatto, ma non lo dico. • La presupposizione e l’implicatura convenzionale hanno
un’interfaccia in comune, data da un certo grado di convenzionalità. Nell’implicatura convenzionale
si tratta di significati derivati a posteriori e che spesso si sono consolidati attraverso processi di
grammaticalizzazione, mentre nella presupposizione il senso implicito si trova sul dizionario, la
parte presupposta è già registrata nel lessico (ad es. è implicito che nel verbo “tornare” io sia prima
andata via). Dopo Grice: scenari di ricerca • Alle massime griceane sono stati in seguito aggiunti
altri tipi di massime. Il contributo di Lakoff, risalente agli anni ‘70, concerne regole della
competenza pragmatica legate a un comportamento definito cortese, secondo cui nella
conversazione agiscono due massime importanti: “sii chiaro” e “sii cortese”, massime in conflitto
tra loro, perché la cortesia va a scapito della chiarezza, e viceversa. La Lakoff ha elaborato anche
alcune sottoregole, come “non ti imporre”, “offri delle alternative”, e “metti il tuo interlocutore a
tuo agio”; da ciò emerge chiaramente un certo grado di idealizzazione. Anche Leech ha integrato le
massime griceane con massime della cortesia, della generosità, dell’approvazione, della modestia,
ossia di tutto ciò che riduce al minimo il conflitto tra i parlanti e a massimizzare l’approvazione del
comportamento dell’altro. • Per quanto riguarda l’evoluzione teorica dei temi griceani (significato,
intenzioni del parlante, interferenze) si sono delineate due correnti di pensiero: l’una di studiosi
neo-griceani (come Levinson) legati all’originario progetto di Grice, e l’altra di studiosi post-
griceani, che hanno un loro progetto di tipo cognitivo e autonomo rispetto a Grice. Sperber e
Wilson, post-griceani, propongono come fondamentale dell’attività dialogica un unico principio di
pertinenza secondo cui l’essere umano, nel comprendere i messaggi linguistici, segue un principio
di pertinenza in cui la nostra mente tende a trarre la maggiore informazione al minor costo. Ma è
riduttivo. Ad es. la motivazione determina il tipo di interpretazione, è fondamentale per la
lunghezza del percorso inferenziale perché quanto più sono motivato, tanto maggiore è il numero di
interferenze che farò. Ne consegue che la cooperazione conversazionale è maggiore o minore a
seconda del tipo di interazione, ma in ogni caso un grado minimo di coinvolgimento è
indispensabile per attivare il PDC. • L’aspetto negoziale della conversazione, secondo cui questa è
una cosa che si costruisce negozialmente in due strada facendo, riporta ad una visione dinamica
dell’interazione, al processo di co-costruzione del senso messo in atto in una data situazione
comunicativa.
• Inoltre, più sono numerose le conoscenze condivise che gli interlocutori hanno e sanno di avere,
maggiore sarà la possibilità dei due di dare qualcosa per scontato nel corso delle loro conversazioni.
Lezione V un testo è legato a una situazione comunicativa, ha una forza illocutoria, ha una
dimensione orizzontale e lineare, è analizzabile come una sequenza di frasi. • Vi è una stretta
interconnessione tra pragmatica e linguistica testuale: non è possibile capire un testo senza un
contesto, essi sono inscindibili. L’interconnessione è analizzabile da un punto di vista storico,
teorico e metodologico. Da un punto di vista storico, la linguistica testuale è nata per superare le
inadeguatezze della linguistica frasale a spiegare meccanismi quali le anafore e le
pronominalizzazioni. Tutta la linguistica è sempre stata una linguistica frasale, in quanto la sua unità
di misura è sempre stata la frase, l’enunciato; ed è importante capire come sia stato possibile
passare da un’unità di misura “frase” a un’unità di misura “testo”, poiché tale passaggio non
comporta solo un’estensione dell’unità da studiare, ma essa è anche molto eterogenea.
Storicamente, la Textlinguistik è stata assorbita da una corrente più vasta, la discourse analysis,
entrambe confluite poi nella pragmatica; tuttavia le differenziazioni fra le due correnti erano forti:
- Discourse analysis: uno dei suoi centri fu Birmingham, era incentrata principalmente sui dati della
lingua parlata e dialogica. Gli studiosi della discourse analysis ponevano al centro dello studio il
nostro sapere interazionale. Interessati agli aspetti interattivi e alle condizioni contestuali che
permettono l’interpretazione e la produzione dei testi, volevano scoprire le proprietà sistematiche de
discorsi.
Da un punto di vista teorico: per capire un testo è necessario inserirlo in un contesto, ciò significa
capire quale sia la funzione pragmatica complessiva del testo preso in considerazione, ovvero quale
sia la sua macro-illocuzione. L’agire con le parole non è un’attività di un singolo parlante, ma un
qualcosa che richiede la presenza di un interlocutore; il tipo illocutorio da assegnare all’atto
linguistico viene negoziato durante l’interazione. Da un punto di vista metodologico: l’analisi
pragmatica deve estendersi ad esempi reali, a intere sequenze. Non è facile capire dove finisce un
atto e dove ne comincia un altro, e non è corretto far corrispondere un atto illocutorio ad una frase;
infatti un lungo enunciato può realizzare un unico atto e un unico enunciato può realizzare più atti
illocutori contemporaneamente. Inoltre, gli atti linguistici possono essere realizzati anche da
sequenze, e vi sono atti che necessariamente devono seguire questa realizzazione: un es. sono la
descrizione, la narrazione, la dimostrazione, l’argomentazione. In questi atti linguistici
necessariamente sequenziali, risulta molto chiaro il legame tra pragmatica e linguistica testuale. • Le
classificazioni di Austin e Searle non sono adeguate ad un’analisi del discorso reale, che prevede
spesso variazioni non tenute in considerazione nei loro modelli; esse hanno una rilevanza parziale
per l’analisi del discorso perché non sono prese in considerazione unità del comportamento
linguistico, ma concetti astratti evocati dai verbi illocutori. Uno scambio del tipo ringraziamento-
minimizzazione,
in cui ad un “grazie mille” si risponde “ di nulla, è stato un piacere”, può essere analizzato solo
riduttivamente: secondo una classificazione searliana, il secondo enunciato della coppia adiacente
potrebbe essere considerato come un’affermazione, ma in realtà è ben diverso, è una
minimizzazione dell’impegno sostenuto. È quindi evidente perché passare da unità di misura
frastiche al testo è stata una sorta di necessità. La coerenza • Per un approccio che prenda in
considerazione un testo, l’argomento più forte è la coerenza del dialogo, cioè il fatto che alcuni
segmenti linguistici siano interpretabili come aggiunte o repliche ad atti linguistici precedenti. • I
markers sono segnali discorsivi polifunzionali aventi una grande importanza sia da un punto di vista
sistemico, sia rituale: sono quei segnali che vanno dal “cioè”, al “praticamente”, al “diciamo” e al
“voglio dire”. • L’idea che sapere molte cose che riguardano il testo siano insite nella nostra
competenza metapragmatica, ha favorito l’interconnessione tra linguistica testuale e pragmatica:
sappiamo infatti distinguere un testo e un non-testo, capiamo se è appropriato o non lo è, sappiamo
quando è interrotto, incompiuto o mancante; possiamo trovare un titolo per un testo o un testo per
un titolo, come nel caso dei temi scolastici. • Molti linguisti hanno sostenuto che ciò che distingue
un testo da un non-testo è la proprietà della coerenza, quella proprietà che dà un senso globale ad un
insieme di frasi. Come sottolinea Maria Elisabeth Conte, vi è una distinzione tra coerenza in senso
privativo (in inglese consistency, in tedesco Widerspruchslosigkeit) e coerenza in senso positivo (in
inglese coherence, in tedesco Kohärence): nel primo caso c’è una coerenza che è un’assenza di
contraddizioni, nel secondo caso c’è una coerenza che non solo non prevede contraddizioni, ma
indica l’integrarsi delle parti in un testo che può essere riassumibile. Mentre la consistency non è
una necessaria proprietà dei testi ed è possibile produrre un testo contraddittorio mantenendo la sua
definizione di testo, la coherence è la condizione costitutiva del testo stesso, senza la quale esso non
può essere prodotto. • Tale definizione di coerenza è stata progressivamente abbandonata perché
non rispecchia la costitutiva essenza pragmatica della coerenza. Altri linguisti hanno scoperto che la
coerenza non è qualcosa che è nel testo, ma qualcosa che è nell’interprete. Maria Elisabeth Conte
parla, per l’idea di coerenza come proprietà immanente a un testo, di coerenza a parte obiecti;
mentre per l’idea di coerenza come interpretabilità a partire dal sapere di qualcuno parla di coerenza
a parte subiecti. Per questa seconda idea di coerenza si ritorna al principio di cooperazione: ritorna
fondamentale la cooperazione dell’interprete al fine di poter assegnare coerenza al testo. Il grado di
coerenza può variare a seconda della situazione in cui il testo è prodotto e interpretato; inoltre il
grado di coerenza è valutabile in base al grado di cooperazione richiesto, al tipo di testo con cui si è
a che fare e al tipo di discorso. Ci sono diversi frames che stabiliscono il grado di cooperazione e la
soglia di coerenza richiesta: basti pensare alla differenza tra testi orali, scritti, improvvisati e non
improvvisati. La coesione • Un’altra proprietà costituiva del testo è la coesione, che ha a che fare
con i meccanismi di superficie della coerenza, ovvero con la grammatica e con i mezzi che fungono
da legame fra le varie parti del testo. La coreferenza è un’identità referenziale, la ripresa di un
termine, il fatto che più costituenti linguistici denotino un’unica e stessa entità in enunciati che si
susseguono; essa non è la condizione costitutiva di un testo, a differenza del ruolo prioritario dei
meccanismi che vengono chiamati “di coesione”.
a) ripetizione delle stesse parole; essa è parziale se si riprende un sintagma in parte, totale se lo si
riprende tutto; b) sostituzione tramite parafrasi (in cui il testo si riformula con parole diverse ma dal
significato simile, ovvero con riprese anaforiche) o tramite la pronominalizzazione (uso di pronomi,
es. “egli”); c) ellissi, l’omissione di un elemento linguistico. L’ellissi transfrastica è l’omissione di
una ripetizione o di un pronome in enunciati diversi.
3) I connettivi, che collegano più parole o più frasi e che esprimono rapporti di senso instaurati tra i
diversi elementi del testo.
L’insieme degli elementi di ripresa che in un testo si riferiscono allo stesso antecedente (quindi
anche le marche verbali di numero e persona di un predicato) forma una catena anaforica.
L’antecedente che funge da prima menzione del referente è chiamato capocatena. • In linguistica
testuale si parla di anafora quando un elemento del testo fa riferimento a qualcosa che compare in
una sezione del testo che è precedente alla sequenza testuale in esame, al co-testo precedente; è un
rinvio all’indietro. Invece, si parla di catafora quando un elemento del testo fa riferimento ad una
sezione del testo successiva; è un rinvio in avanti. • Anche gli articoli, sia determinativi sia
indeterminativi, possono essere descritti all’interno di un’ottica testuale. Secondo Weinrich essi
hanno la funzione di dirigere l’attenzione del ricevente: cataforicamente verso l’informazione che
viene dopo nel caso degli indeterminativi; anaforicamente verso l’informazione data
precedentemente nel caso dei determinativi. • Anche la punteggiatura può essere analizzata in
un’ottica testuale, basti pensare al comune uso dei due punti, che prevedono una spiegazione o un
elenco; trasmettono l’istruzione di andare avanti nel testo per capire di cosa si tratta, hanno dunque
una funzione cataforica. • L’ellissi è un potente fattore di coesione testuale, perché consiste nella
mancanza di un elemento che va recuperato; recuperare l’elemento omesso significa ricostruire una
coerenza. Essa mostra la necessità, per capire il testo, di ricorrere al co-testo. La condizione per cui
qualcosa sia elisa è che sia recuperabile dal co-testo e dal contesto, senza che si danneggi la
chiarezza del messaggio. Gli incapsulatori anaforici • L’incapsulatore anaforico è un particolare
fenomeno di coesione che rende chiaro il legame tra pragmatica e testualità. Gli incapsulatori
evidenziano che non solo è necessario occuparsi di ciò che il testo dice, ma anche di ciò che
sottende. Inoltre, vi è una correlazione importante fra “chiarezza” di un testo e quantità di nessi
inferenziali richiesti per interpretarlo, recuperando l’antecedente di un incapsulatore.
L’incapsulazione è un meccanismo coesivo messo a fuoco da Wanda D’Addio Colosimo, attraverso
il quale parti di un testo possono essere riprese da un sintagma nominale definito; quindi
l’antecedente di un incapsulatore non è una parola, bensì un enunciato o anche una sequenza di essi.
Inoltre, ciò che viene ripreso può essere qualcosa di non testualizzato, ma che il testo ha trasmesso
come informazione implicita. • La funzione anaforica incapsulante viene svolta dai seguenti gruppi
preceduti dall’articolo determinativo o dall’aggettivo dimostrativo:
- nomi generali: questa cosa, questo fatto, la situazione, la questione; - deverbali: il progetto,
questo invito, l’innovazione, la chiusura;
- sintagmi più valutativi: questo declino, questo risultato o - con ulteriore incremento di valutatività:
questo increscioso episodio, tale condotta criminosa, questa delicata congiuntura, lo scandalo,
questo ricatto, la tragedia. Queste espressioni hanno in comune la presupposizione esistenziale del
sintagma nominale definito (ad es. è presupposto che ci sia un’innovazione, una tragedia ecc.); ma
hanno di diverso la quantità di informazione trasmessa (es. nel caso di riprese con nomi generali,
l’informazione trasmessa è minore rispetto all’ultima categoria che ne prevede un incremento). •
L’informazione trasmessa dall’incapsulatore è incrementata o ridotta rispetto all’informazione
1) Nel primo esempio, l’incapsulatore “la contesa” è motivato da quanto viene detto prima, dal co-
testo; esso descrive due posizioni contrapposte. La scelta è motivata dalla conoscenza lessicale
grazie alla quale sappiamo che “contesa” è una situazione in cui c’è una parte a favore di una tesi e
una a favore della tesi contraria.
2) Nel secondo esempio, l’incapsulatore “l’attentato” è un sintagma nominale definito per la cui
scelta non basta una conoscenza lessicale, ma è rilevante una conoscenza enciclopedica sul fatto
che, se c’è una minaccia di scoppio, allora siamo in presenza di un attentato. Si dà il nome di
“attentato” ad un frame attivato dagli eventi drammatici riferiti. Il termine è anche trigger, poiché fa
intervenire uno scenario grazie al quale è giustificato dire “l’esplosione” o “l’agguato”. Il percorso
testuale va dal generale al particolare e i segmenti che definiscono lo script “attentato”
(l’esplosione, l’agguato) vengono proposti in un secondo momento. In un caso come “l’esplosione”
si parla di anafora associativa: posso usare l’articolo determinativo perché è già in funzione lo
script “attentato”.
3) Nel terzo esempio, “Il drammatico incidente”, che ricompatta una grande porzione di testo,
indica un tipico incapsulatore grazie al quale l’informazione che si introduce diventa informazione
data sulla quale innestarne un’altra. Vi sono predicati che proiettano aspettative sul testo successivo,
tra cui “incastrata tra le lamiere della sua Mercedes”, che attiva il frame dell’incidente stradale. Il
predicato trigger è ‘schiantarsi’ (“si è schiantata contro un camion”), esso attiva uno script,
rispettato nelle sue fasi (l’intervento dei vigili del fuoco, il ricovero, la guarigione). Dopo ciò, il
cronista scrive “il drammatico incidente stradale” effettuando una valutazione. L’intervento
valutativo è però limitato: non è una valutazione soggettiva poiché gli eventi per cui il “drammatico
incidente” è tale sono stati già anticipati e motivati, oltre che ad essere impliciti nello script.
4) Anche nel quarto esempio l’incapsulatore “il disastro”, che ricompatta una larga porzione
testuale, contiene una valutazione fondata sui fatti esposti, che forniscono dati oggettivi e numerici
(“i dati parlano chiaro”)
5) Nel quinto esempio, l’incapsulatore “il guaio” ha come antecedente un’estesa parte di testo ed
esprime un giudizio soggettivo, preparato da valutazioni negative precedenti. L’autore formula dei
giudizi, dei verdettivi in senso austiniano; dicendo “il guaio” egli formula un giudizio posto come
un dato di fatto e, prima ancora, per effetto della presupposizione esistenziale del sintagma
nominale definito, viene presupposto che ci sia un guaio.
6) Nel sesto esempio (pag. 111), “questa visione è criticabile per molti aspetti” è un messaggio, c’è
una parte tematica (data) e una rematica (nuova, che aggiungo); è qualcosa su cui io predico
qualcos’altro. “Questa visione semplicistica” è un atto di valutazione “protetto”: l’autore non dice di
ritenerla semplicistica, ma oggettivizza la valutazione; è un’operazione che si avvale di un’inerzia
referenziale del sintagma nominale definito. Inoltre, è un atto referenziale compiuto mediante un
atto di riferimento.
7) Il sesto esempio (pag. 112) non è un caso di incapsulazione, ma vi è un tipo di ripresa anaforica
che tematizza la forza illocutoria di ciò che viene prima; si evince che l’anafora non solo può
riprendere una frase o un contenuto proposizionale, ma anche la forza illocutoria di un atto
linguistico. Quando un incapsulatore riprende, tematizzandola, una forza illocutoria della porzione
di testo precedente, si parla di anafora pragmatica.
8) Nell’ottavo esempio (pag. 112) vi è un esempio di anafora pragmatica in cui “il monito” riprende
la forza illocutoria di ciò che viene detto nel testo precedente, che viene riassunto in modo
compatto.
9) Nel nono esempio (pag. 113) vi è la necessità di ricorrere a una competenza metapragmatica per
interpretare l’incapsulazione. L’esempio suona strano sia da un punto di vista testuale, per ciò che
riguarda il co-testo; sia da un punto di vista pragmatico, per ciò che riguarda il contesto.
L’incapsulatore “alla cerimonia” è relativamente distante dalla parte del testo che viene ripresa,
ovvero una parte del contenuto semantico attivato dal verbo ‘inaugurare’; tuttavia le mie
conoscenze sul mondo, siano esse pensabili in termini di scripts o frames mi dicono che non
necessariamente un’inaugurazione è attuata con una cerimonia.
Dal nono esempio, si denota che: - il fattore “distanza” gioca un ruolo nella felicità
dell’incapsulazione; maggiore è la distanza e meno esplicita la ripresa, più difficile sarà interpretarla
correttamente; - il legame che unisce antecedente e incapsulatore non si regge solo su una
competenza lessicale, ma chiama in causa le nostre conoscenze sul mondo.
1) l’animatore, la persona fisica che pronuncia un atto locutorio a un dato momento; 2) l’autore,
colui che è all’origine di quanto viene detto, di un atto illocutorio; 3) il protagonista, la persona il
cui punto di vista è espresso nel momento dell’enunciazione e attraverso essa, è il locutore che
comunica avendo un’identità sociale ben definita. Anche tra i ruoli di ascoltatore e destinatario ci
possono essere distinzioni: io posso parlare a te ascoltatore, affinché un altro, il vero destinatario,
senta. • Un’altra idea di Goffman è quella di faccia: essa è l’immagine pubblica che ciascuno di noi
vuole sostenere. Due sono le sue componenti, la faccia positiva e la faccia negativa: la prima è tutto
ciò che va nella direzione dell’approvazione sociale dei nostri comportamenti; la seconda coincide
con la privacy, secondo cui il nostro territorio deve essere rispettato e difeso. Gli atti minaccianti
della faccia (face-threatening acts) sono atti linguistici che rappresentano potenziali minacce sia per
la faccia positiva sia per quella negativa; ad es. l’atto ‘richiesta’ minaccia tipicamente la faccia
positiva dell’interlocutore perché implica una sua possibile acquiescenza, ma minaccia anche la sua
faccia negativa, perché tale atto è una potenziale invasione del suo territorio. Il modello di cortesia
di Brown e Levinson Brown e Levinson, basandosi sullo studio di tre lingue, hanno utilizzato in
due riprese la teoria goffmaniana di “faccia”, ritraducendola in una categoria per loro fondamentale:
la cortesia. Secondo gli autori, i fenomeni della cortesia sono riconducibili a schemi universalmente
validi e applicabile a culture lontane tra loro. Nelle loro tabelle (pag 118, 119 e 120) vi sono i
diversi modi con cui il parlante può compiere un atto minacciante della faccia: egli può scegliere se
compiere l’atto in modo diretto e chiaro (on record) o in modo diretto e ambiguo (off record). Negli
schemi, P sta per “parlante”, As per “ascoltatore”, {A} per la classe di persone che condividono
desideri specifici, {X} sta per la classe di questi desideri. I tre fattori che determinano la scelta della
strategia atta a mitigare un atto minacciante della faccia sono: la distanza sociale (D) tra il parlante e
l’ascoltatore, il potere (P) del parlante sull’ascoltatore, il grado dell’imposizione contenuta nell’atto
(R, da rank) nella cultura in questione. La deissi • La parola “deissi” deriva dal greco ‘mostrare’, in
pragmatica ricopre quegli aspetti che vincolano le strutture linguistiche a dei contesti di
proferimento. Quando dico “questo libro” o “oggi piove”, per decodificare quel “questo” o
quell’”oggi” ho bisogno di sapere chi sta parlando, quando e dove; si tratta di segni che possono
essere interpretati solamente a partire da un contesto. • Esempi di segni deittici, o segni indicali,
sono i pronomi personali (io, tu), avverbi temporali (oggi, ieri, ora) e spaziali (qui, là, su, giù), il
dimostrativo “questo” e altre espressioni la cui decodificazione richiede la conoscenza delle
coordinate spazio-temporali del parlante. • La fonte enunciativa del parlante costituisce il punto
zero (Benveniste lo chiama istanza enunciativa) delle coordinate deittiche, senza il quale non è
possibile decifrare un messaggio. • L’origine deittica è formata da tre elementi: “io”, “qui”, “ora” (
ego, hic, nunc). Nella comunicazione è possibile cancellare uno o più elementi di questa triade:
nell’es. “la critica ne parla molto bene” in risposta a “com’è l’ultimo film di Almodovar?” (Lezione
IV), è possibile aggiungere che l’origine deittica dell’enunciazione (dell’ego) viene cancellata per
mettere in campo un altro enunciatore, che ha più competenza, da cui l’enunciatore reale può
dissociarsi. • Vi sono mezzi linguistici per cancellare altre componenti della triade deittica. La
cancellazione del presente per eliminare l’adesso (nunc enunciativo) può accadere per più ragioni,
come la cortesia: le forme di non-nunc sono grammaticalizzate dalla lingua attraverso, ad es,
l’imperfetto; “volevo due etti di prosciutto” al posto di “voglio due etti di prosciutto” è una forma
grammaticalizzata di non-nunc. Si può inoltre ricorrere alla narrazione al passato per parlare di
qualcosa in corso nel presente: invece di dire “io ho questa sensazione” si narra un’esperienza
precedente che funge da esempio. In questi casi, la narrazione è al posto di un’enunciazione in presa
diretta, è una via discorsiva strategica. • Le modalità di cancellazione di un elemento della triade
deittica dipendono dalle regole di codificazione e di decodificazione in atto di un frame. Ad es. la
scrittura scientifica spesso si avvale della cancellazione dell’ego, resa grazie all’uso della prima
persona plurale, la terza impersonale o le strutture al passivo che ottengono l’oggettivizzazione del
discorso; ma se io sono Umberto Eco, posso dire “io penso questo” o “io dico che”, perché il fatto
che io sia un’auctoritas valorizza ciò che dico e do all’uso della prima persona un valore ulteriore.
Il meccanismo dell’oggettivizzazione può andare sia nella direzione di un rafforzamento, sia di un
indebolimento della comunicazione. Può esserci, però, un’ambivalenza: sganciando l’ego o il nunc
dalla mia enunciazione non è necessariamente vero che io voglia proteggermi, ma posso voler
investire nell’enunciazione e renderla universalmente valida. Un’unica interpretazione non c’è: a
seconda del contesto e del co-testo, è possibile interpretare una data strategia come un’attenuazione,
2) Nel secondo ambito, il meccanismo è l’indirettezza in cui, mascherando gli indicatori di forza
espliciti come i verbi illocutori, si ottiene una strategica indeterminatezza sull’illocuzione. Spesso,
quanto più un’illocuzione è indiretta, tanto minore è il tentativo di forzare l’interlocutore verso una
certa direzione; l’idea di “indeterminatezza strategica” è stata tematizzata da Leech. (L’autrice
chiama siepi gli attenuatori illocutori)
3) Il terzo ambito è quello dell’origo deittica, in cui il meccanismo è quello di una de-
attualizzazione enunciativa, cioè uno sganciamento dell’ego-hic-nunc. (L’autrice chiama schermi
gli attenuatori che operano sull’istanza enunciativa).
In un atto linguistico, spesso ci sono sia cespugli che siepi, insieme ad altre forme di mitigazione. •
Uno stesso mitigatore può funzionare su ambiti diversi, mitigatori diversi possono agire su uno
stesso ambito.
Esempi di mitigazione (Es. pag 129 e 130.) Il primo gruppo di esempi, da 1 a 5, contengono dei
cespugli, sono esempi di mitigazione centrata sul contenuto proposizionale, sulla vaghezza.
3) Nell’esempio 3, in risposta alla domanda del primario “è ancora molto arrossata oppure no?”, c’è
una mitigazione data da “clinicamente” che realizza una modificazione restrittiva della validità
dell’atto assertivo. Avverbi come “clinicamente” sono chiamati dai linguisti “avverbi di ambito” o
“avverbi di punto di vista”, servono a ridurre l’ambito di validità dell’affermazione. Altri mitigatori
sono “così” e la costruzione “mi sembra”.
4) Nell’esempio 4 c’è il marker “be’” che, posto all’inizio di turno, indica che l’enunciato è il
risultato di una valutazione. Il condizionale “direi” è un predicato che regge un enunciato
complemento, e che attenua il grado di categoricità dell’atto verdettivo che viene mitigato. Infine
l’interiezione “eh”, avente intonazione ascendente, serve per chiedere un accordo. Tali mitigatori
sono fondamentali per rendere l’enunciato idoneo alla negoziazione, alla co-costruzione di senso
5) Nell’esempio 5 il “sarà stato” è un futuro epistemico, un tipo di futuro che attenua l’impegno alla
verità (commitment epistemico) dell’asserzione che, indebolita, diventa una semplice ipotesi, una
supposizione.
7) Nell’esempio 7 compare due volte “probabilmente”, e anche in questo caso l’ambito della
mitigazione è dal commitment del parlante al contenuto proposizionale. Ci sono anche segnali di
incertezza come le pause, che indeboliscono il grado della sottoscrizione del parlante alla
proposizione, tant’è che alla fine la diagnosi si rivela una mera ipotesi.
8) L’esempio 8 mostra come è possibile mitigare un atto senza passare da una modificazione di
grado a una modificazione di tipo. Data la presenza di elementi attenuativi, l’atto passa dall’essere
di un tipo illocutorio (un verdettivo) a un altro (un comportativo, l’espressione di un dubbio). Il
parametro della certezza epistemica interagisce con quello del ruolo sociale del medico, di cui fa
parte la copetenza; ma qui prevale una condizione di sincerità. “Magari” e “va a sapere” sono siepi
incentrate sull’illocuzione assertiva dell’impegno alla verità, invece “è un periodo così” e “qualcosa
del genere” sono cespugli che rendono la proposizione vaga. Inoltre il medico, rinunciando per un
momento alla sua competenza, ridefinisce la distanza psicologica con il suo paziente in una
direzione più paritaria.
9) Nel 9 si ha un altro esempio di uso combinato di cespugli e siepi. Ci sono quattro markers di
inizio turno (chiamati starters): sono “niente”, “mh”, “sì”, “allora”, segnalano tutti un’esitazione.
“Se ho capito bene” è un disclaimer, cioè una siepe che attenua la categoricità di un’affermazione.
“Ogni tanto” è un cespuglio.
Gli esempi 10, 11 e 12 illustrano schermi che hanno come centro l’istanza di enunciazione. La
mitigazione è in absentia, avviene ad un livello più astratto, per cui non si ha un’aggiunta come un
markers o una modificazione, ma una sostituzione: una scelta mitigata è al posto di un’altra scelta
enunciativa. L’atto è dislocato e c’è una cancellazione di uno dei tre elementi dell’origine deittica;
vi è dunque una defocalizzazione dell’istanza enunciativa, che viene messa sullo sfondo.
10) L’esempio 10 è un enunciato oggettivizzato. L’aggiunta “c’è scritto qui” rafforza il verdettivo,
l’autorità. C’è una defocalizzazione dell’enunciatore la quale, con un cambio di footing rispetto al
discorso precedente, viene ascritta ad un’altra fonte, impersonale e autorevole; la malattia è
identificata in modo univoco e preciso. Qui il parametro della personalizzazione è abbassato a
favore del parametro molto alto della precisione.
12) Nell’esempio 12, l’intenzione del medico è rendere lontana l’eventualità, necessaria e realistica,
dell’intervento chirurgico. Per farlo, dice “oltre a tutto”, uno schermo con il quale l’argomento
viene introdotto tangenzialmente rispetto al filo principale del discorso; si tratta di uno schermo
testuale che agisce sulla dispositio, sulla disposizione degli argomenti. C’è inoltre un elemento
sintattico, il “ci fosse da fare” e c’è un marker, “non so”. Vi è anche un avverbio valutativo,
“paradossalmente”, un marker stilistico che innalza il registro rendendolo più formale, ma che può
anche denotare imbarazzo nel momento in cui il medico deve far capire al paziente che si profila
realmente l’eventualità di un intervento.
Da questa rassegna, si denota che i mezzi di mitigazione sono utili a calibrare sia la ritrattabilità
dell’enunciato, sia le distanze fra gli interlocutori.