Sei sulla pagina 1di 7

Capitolo I

GLI ORDINAMENTI GIURIDICI


1. Gruppi e ordinamenti sociali: collettività diffuse e gruppi "enti" o "istituzionali". Organizzazione e
"autorità" (il problema della comunità internazionale)
Lo «Stato» è uno tra gli innumerevoli e svariati gruppi sociali organizzati nei quali si presenta articolata la vita
dell’uomo. Ma dire gruppo sociale organizzato significa dire gruppo ordinato, secondo determinate norme o regole,
che sono ad un tempo prodotto e condizione necessaria dell’esistenza stessa del gruppo.
L’idea di «organizzazione» richiama ed implica quella di «ordine», poiché organizzazione è, in termini generalissimi,
regolarità prestabilita di contegni umani per la realizzazione di interessi che trascendono gli interessi particolari dei
singoli componenti il gruppo. Qualunque forma di convivenza e aggregazione umana, pur se elementarissima ed
effimera, costituisce un gruppo in qualche modo organizzato e quindi ordinato. Persino una semplice riunione,
momentanea ed episodica, purché non meramente casuale, che sia determinata dall’esigenza di soddisfare un
comune interesse, potrebbe farsi rientrare in un simile larghissimo concetto di gruppo sociale.

È famoso l’esempio della «fila», che si forma davanti allo sportello di un ufficio o al botteghino di un teatro e che si atteggia
secondo un suo ordine (giuridico), al quale tutti i partecipanti devono sottostare e mediamente, in fatto, si sottopongono.
Il caso delle cosidette «categorie» (economiche, produttive, professionali) può essere particolarmente significativo per mostrare
come sia talvolta evanescente la linea di confine tra l’astratta ipostasi di una unità meramente concettuale, e la sussistenza,
invece, sociologicamente accettabile, di una vera collettività «diffusa». Ricorre la seconda ipotesi, e cioè siamo in presenza di vere
collettività, se ed in quanto si affermi nella massa degli individui che esercitano in modo stabile e continuativo una certa attività,
ed hanno perciò interessi in comune, la consapevolezza di essere tra loro legati da un interesse collettivo, riferibile alla categoria
come tale, pur se al tempo stesso proprio di tutti i soggetti che ne fanno parte; che non può essere soddisfatto che da tutti
insieme; che non si identifica con la somma degli interessi particolari e individuali di ciascuno, ma è l’interesse al loro
contemperamento, e può esigerne anzi il sacrificio parziale.
L’eventuale presenza di gruppi propriamente organizzati, o gruppi-«enti», non elimina il problema consistente nello stabilire caso
per caso se, dietro od oltre il gruppo-«ente», esista realmente una collettività «diffusa». Le incertezze della dottrina intorno alla
definizione della categoria professionale ne sono esempio eloquente: per alcuni, la categoria risolvendosi in mera astrazione; per
altri costituendo una “formazione sociale”, nel senso dell’art. 2 Cost. La quale, contiene due espliciti riferimenti a categorie: il
primo, nell’art. 39, laddove si prevede che i sindacati «registrati» possano stipulare contratti collettivi con efficacia normativa «per
tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce»; l’altro, nell’art. 99, a proposito del Consiglio nazionale
dell’economia e del lavoro, quando si parla di «categorie produttive» in esso rappresentate. In quest’ultimo caso, l’opinione più
autorevole esclude che la categoria produttiva sia una «formazione sociale», anche se può dar luogo a formazioni sociali, quali ad
es., i sindacati; nel caso, invece, dell’art. 39, la questione è più controversa.

A) Affinché si abbia un “ordinamento” sociale, si richiede una certa stabilità, oggettivamente rilevabile, del gruppo e
della sua organizzazione, per quanto elementare possa essere, che si costituisce con il consolidarsi dello scopo o
scopi perseguiti: ne segue che gli «ordinamenti» hanno una loro dimensione temporale durevole, in ciò distinguendosi
da un ordine sociale momentaneo, che si esaurisca in una volta sola. Da questo punto di vista, anche collettività allo
stato diffuso possono dar luogo a ordinamenti, pur non costituendo «enti» sociali in senso stretto e specifico.
B) Per aversi «ente» sociale, si richiede qualcosa di più, con particolare riferimento alle caratteristiche morfologiche
dell’elemento «organizzazione». Quali siano poi queste caratteristiche, in qual modo debba definirsi questo qualcosa
di più, è problema, però, al quale non ancora è stata data una risposta precisa e compiuta.
Nell’insieme, l’idea cui più o meno chiaramente si vuole alludere è quella di un «vincolo» associativo «più stretto» e
compatto, tale da dar vita ad un fenomeno sociale realmente unitario, che questa sua unità sia pertanto in grado di
manifestare ed affermare così nel proprio interno, nei confronti dei singoli componenti, come nei rapporti esterni.
Bisogna, perciò, anzitutto, che l’appartenenza al gruppo sia stabilmente predeterminata, anche se in modo implicito;
bisogna in secondo luogo, che il gruppo abbia una sua “organizzazione”, nel senso specifico e restrittivo di
distribuzione ordinata di compiti e mansioni con connessa predisposizione di mezzi materiali per il loro assolvimento.
È l’esistenza di un’organizzazione così intesa, che rende possibile distinguere, tra le svariate attività dei consociati,
quelle rivolte al perseguimento degli scopi del gruppo; com’è attraverso siffatte attività differenziate, che può
concretamente realizzarsi la subordinazione degli interessi particolari di ciascuno agli interessi generali e collettivi.
La collettività diventa un “ente”, che non è aggregato di soggetti, ma tutti li sovrasta ed in qualche modo li trascende.

Si adopera anche spesso l’espressione gruppi «istituzionali» o altre analoghe, derivate dalla parola « istituzione» che, nella
terminologia di SANTI ROMANO, sta a significare «ogni ente o corpo sociale (che) ha una struttura, un assetto, uno status,
un’organizzazione, più o meno stabile e permanente, che riduce ad unità gli elementi che lo compongono e gli conferisce una
propria individualità e una propria vita». Non è perfettamente chiaro se, per il ROMANO, siano «istituzioni» anche le collettività
“diffuse”, ovvero soltanto i gruppi a struttura più complessa e articolata, che la dottrina prevalente configura come «enti» sociali
veri e propri. Contrariamente a quanto mostrano implicitamente di ritenere coloro che adoperano espressioni derivate dal
vocabolo «istituzione» per caratterizzare, sotto l’uno o l'altro aspetto, questo secondo tipo di formazioni sociali, il pensiero del
ROMANO sembra anzi orientato piuttosto nel senso più largo, come risulta da qualche espresso accenno alle società «diffuse», e
come pare confermato dalla riconosciuta piena compatibilità tra il concetto di organizzazione e quello di comunità paritaria.
Bisogna dire che gli elementi richiesti dalla dottrina successiva per aversi gruppo propriamente organizzato (gruppo-ente, o
gruppo istituzionale), e non mero aggregato, finiscono per sfociare nella esigenza di una organizzazione autoritaria: della presenza,
cioè, entro il gruppo, di un «potere» sociale, cui i singoli siano sottoposti.

2. Norme della pratica e leggi naturalistiche. Norme sociali e norme tecniche


All’osservazione empirica un ordine sociale appare anzitutto come ordine esistenziale: c’è, in altri termini, una
determinata organizzazione, perché è storicamente riscontrabile lo svolgersi di un complesso di attività umane
secondo un particolare ordine, che consente all'osservatore di rappresentarsene l'insieme come costituente un
fenomeno sociale per sé stante, differenziantesi da altri. Ma, a meglio riflettere, questo ordine esistenziale non è se
non la proiezione, sul terreno della esperienza concreta, di un ordine deontologico, ossia normativo: quei certi rapporti
sociali si atteggiano e si svolgono in un determinato modo ma per una necessità di tipo deontologico. L’ordine c’è,
perché ed in quanto dev’esserci, configurandosi come un ordine imposto, che si è tenuti ad osservare e mantenere.
Poiché non vi potrebbe essere organizzazione ove i comportamenti degli associati fossero abbandonati alla arbitraria
spontaneità di ogni singolo, si deve constatare che ogni collettività comunque organizzata, per semplice che ne sia la
struttura, implica sempre un sistema regolatore della condotta dei consociati. Se e nella misura in cui questo sia
prodotto dalla stessa collettività, può dirsi che ogni organizzazione sociale si traduce in ordinamento normativo:
l’ordine del gruppo è legge del gruppo, specificandosi in un complesso di norme o regole delle azioni e delle situazioni
di coloro che lo costituiscono.
Tra le due constatazioni non c’è assoluta e puntuale corrispondenza. Da un lato, infatti, non tutte le leggi o norme
della condotta umana sono necessariamente collegate alla convivenza associata: basta pensare alla legge morale, che
è norma interiore del soggetto, anche quando abbia comunque riferimento ad altri, o alle norme tecniche.
D’altro lato, nel concreto intrecciarsi dei gruppi sociali, può accadere che taluni tra questi siano organizzati
dall’esterno: da norme o regole, cioè, le quali, anziché derivare dallo stesso spontaneo organizzarsi dei consociati,
fanno parte del «sistema regolatore» di una organizzazione più vasta e sovrastante. In questo senso, ed in casi del
genere, può aversi, dunque, organizzazione sociale senza che essa costituisca altresì un ordinamento vero e proprio.
Ecco, dunque, che a questo punto ci si affaccia dinanzi la figura della “legge”.
Leggi naturali:
- esprimono una correlazione di fenomeni secondo il principio di causalità (correlazione necessaria, o correlazione
statisticamente probabile);
- si scoprono, in base all’esperienza e all’osservazione della natura, consentendoci di prevedere il regolare ripetersi
degli effetti di certe cause, ed hanno perciò carattere propriamente esistenziale;
- con esse, si tratta di riscontrare sperimentalmente l’esattezza (la verità);
- con esse descriviamo ciò che è;
- hanno funzione conoscitiva.
Leggi della pratica:
- esprimono una relazione doverosa tra un fatto e una conseguenza;
- si impongono (o autoimpongono) per conseguire certe finalità, hanno quindi carattere e significato deontologico;
- con esse si tratta di riconoscere razionalmente la vigenza, la validità, l’opportunità, la giustizia ecc.
- con esse giudichiamo e valutiamo fatti, azioni e comportamenti umani.
- hanno funzione prescrittiva e valutativa.
L’idea del “comando” presuppone una duplicità di soggetti, dei quali l’uno pone ed impone il comando, mentre l’altro
ne costituisce il destinatario. Ma, anche ad accogliere la tesi imperativistica nella sua versione del comando
depsicologizzato, rimane sempre valida l’obiezione che - di solito - le norme giuridiche non si rivolgono a soggetti
determinati, ma ad astratte categorie di soggetti né determinati né individualmente determinabili.
In secondo luogo, la concezione imperativistica postula come necessaria conseguenza che da ogni norma debba
sorgere un obbligo, positivo o negativo (fare o non fare), mentre l’esperienza giuridica ci mostra frequenti esempi di
norme meramente permissive o facoltizzanti, alle quali nessun obbligo altrui fa puntuale riscontro.
Un ostacolo analogo alla teoria imperativistica è costituito dalle norme attributive di “poteri”, intesi questi come
possibilità, riconosciute a determinati soggetti, di produrre o concorrere a produrre con propri atti di volontà delle
“modificazioni giuridiche”. La circostanza che si danno a volte dei poteri che lo stesso soggetto cui spettano è
obbligato ad esercitare, non vale a superare l’obiezione, sia perché questa è una semplice eventualità, sia perché,
anche quando ricorre, il « potere » e l’obbligo si collocano su piani distinti e derivano da norme tra loro diverse.
Preferibile appare la tesi che considera le norme giuridiche come «giudizi» su contegni umani, cui conferiscono una
specifica rilevanza, con il ricollegarvi conseguenze giuridiche determinate. Astratte valutazioni di fatti astrattamente
tipizzati, dunque, e perciò anche criterio e metro per concretamente qualificare gli accadimenti della vita reale, in
conformità delle ipotesi normative. Ma giudizi e valutazioni vincolanti per tutti coloro che sottostanno all’ordinamento.
In questo risiede il nucleo di verità delle dottrine imperativistiche: il giudizio espresso nella norma è un giudizio in
termini di dover essere (« se c’è A, dev’esserci B »). Tutte le norme (giuridiche), quale che ne sia di volta in volta il
contenuto specifico, sono perciò giudizi che si impongono identicamente a tutti gli operatori giuridici.

La concezione, qui accolta, delle norme come giudizi vincolanti tutti gli operatori giuridici e che adempiono nel loro insieme ad
una funzione prescrittiva, è abbastanza vicina alla formulazione più recente del pensiero di KELSEN. Per KELSEN, la norma non è
un “comando”, ma un “giudizio ipotetico che esprime il rapporto specifico di un fatto condizionante con una conseguenza
condizionata”, pur potendo configurarsi come un “imperativo”, ma in un senso del tutto particolare, in quanto, cioè, esprime la
doverosità (Sollen) di un certo atto o di una certa conseguenza: dove con il termine «Sollen», che si traduce con “dovere”, s’intende
non solo la prescrizione di un obbligo, ma altresì un permesso o una autorizzazione.
Questo dovere (Sollen) esprime solo il senso specifico in cui due fatti sono tra loro collegati da una norma giuridica.
Ferma restando, nell’ordine concettuale, la diversità tra «leggi» naturalistiche e «norme» (leggi della pratica), è tuttavia opportuno
prestare attenzione a taluni punti di contatto, che pur si danno, tra le une e le altre, fino al segno, in qualche ipotesi-limite, di
renderne problematica la linea divisoria. È noto, ad es., che lo schema causale di una legge naturalistica (se c’è A, c’è B) può
agevolmente invertirsi in schema prescrittivo (se si vuole B, si deve porre in essere A).
Da più parti si è cercato a volte di far rientrare tra le norme tecniche anche le norme giuridiche, o addirittura tutte le norme, in
genere, diverse dalla norma morale: più particolarmente, è stato talvolta osservato che anche le norme del diritto statale
sarebbero traducibili in altrettante norme tecniche, sol che si sposti l’accento dalla doverosità del comportamento al nesso
funzionale che lo collega alla conseguenza giuridica, in quanto suscettibile di configurarsi in termini teleologici («se non vuoi
andare in galera, devi astenerti da certe azioni»; «se non vuoi essere condannato al risarcimento dei danni, devi adempiere
l’obbligazione» ecc.). Ora, una analogia con lo schema della norma tecnica può ammettersi, semmai, limitatamente però ai
particolari specie di norme giuridiche, come quelle prescriventi le condizioni di validità degli atti giuridici, l'inosservanza delle
quali impedisce all’agente di conseguite lo scopo che aveva di mira. Andare oltre sarebbe esagerato ed inesatto: le conseguenze
disposte dalle norme giuridiche valgono anche per l’interprete «disinteressato» e d’altro canto, soltanto sopra un terreno
rozzamente psicologistico l’osservanza della norma da parte degli stessi operatori giuridici «attivi» può vedersi come scelta del
mezzo rivolto al fine di ottenere o di evitare certe conseguenze; nemmeno su questo terreno, comunque, 1’accostamento alle
norme tecniche potrebbe estendersi alle norme giuridiche sprovviste di «sanzione», e meno che mai alle norme meramente
“permissive” o “facoltizzanti”. Si pensi, del resto, a quanto accade allorché norme giuridiche assumano a proprio contenuto regole
o norme, tecniche: in questi casi il fine, cui la norma tecnica originaria era condizionata, non è più libero, ma implicitamente
prescritto, quindi presupposto e passa in secondo piano, mentre la necessarietà del comportamento rileva per sé stessa,
diventando vera doverosità. Prova ne sia che, anche se la norma tecnica fosse o si rivelasse sbagliata, quel comportamento
seguiterà ad essere giuridicamente doveroso, se e finché la norma di diritto che lo prescrive rimanga in vigore.
Diverso è il caso, che si verifica frequentemente di rinvio di norme giuridiche a norme tecniche: le quali però restano quello che
sono e valgono dunque per sé stesse, se ed in quanto se ne riscontri la verità.
Ma non vi sono solo leggi naturalistiche delle scienze della natura e delle scienze cosidette «esatte», e norme tecniche derivabili; le
moderne scienze della società si sforzano, infatti, di individuare nella fenomenologia sociale delle “costanti”, ossia delle relazioni
regolari e necessarie tra accadimenti diversi.
Ecco le cosidette “leggi sociali”, che non bisogna confondere con le «norme» sociali, configurandosi pur sempre come leggi di tipo
naturalistico (ma di un tipo naturalistico «attenuato»): previsioni di qualcosa che accadrà, e non necessità deontica che qualcosa
accada. Non sono mancati, tuttavia, tentativi di ridurre lo stesso concetto del diritto a mera previsione: si è detto, ad es., che la
sola definizione possibile della norma del diritto statale sarebbe la previsione attendibile che sarà osservata ed applicata come
norma di diritto. Pur respingendo queste concezioni estreme, non si potrebbe omettere di rilevare che esse racchiudono, tuttavia,
una giusta intuizione di certe difficoltà che talora si incontrano nella determinazione delle «fonti» e quanto al problema della
«effettività» dell’ordinamento. Si deve osservare che anche delle norme giuridiche importa talora riconoscere la reale efficacia: il
che vuol dire «verificare» storicamente se quei certi rapporti sociali si svolgano secondo leggi o regolarità esistenziali,
corrispondenti alla regolarità prescritta come doverosa dalle norme. Ed inversamente, ogni volta in cui si dice che la norma deriva
dal fatto, l’esistenza della norma si scopre attraverso un procedimento del tutto analogo a quello che conduce alla individuazione
di leggi sociali, in senso naturalistico: dalla constatazione e descrizione di un determinato modo di atteggiarsi della realtà sociale,
si argomenta cioè, la presenza di una norma, da valere come criterio per ulteriormente valutare fatti successivi, e che è altresi
criterio di valutazione di quello stesso fatto originario, da cui la norma è desunta. Leggi naturalistiche e norme, ordine esistenziale
e ordine normativo sembrano, allora, quasi confondersi tra loro.

3. Gli ordinamenti sociali come ordinamenti normativi. Socialità o statalità del diritto: la teoria della
pluralità degli ordinamenti giuridici
Ogni gruppo sociale, in tutto o in parte autorganizzantesi, è perciò un «ordinamento», nel duplice senso di complesso
di soggetti tra loro ordinati e di sistema regolatore della vita di relazione in cui il gruppo consiste e che in esso
ulteriormente si svolge. Ordinamenti siffatti sono ordinamenti giuridici, e giuridiche sono le regole o norme che
producono e nelle quali si manifesta il loro ordine interno. Si accoglie, così l’insegnamento delle dottrine che
riconoscono la pluralità degli ordinamenti giuridici e quindi la socialità del diritto (ubi homo ibi societas, ubi societàs
ibi jus), in contrapposto alla concezione tradizionale della statalità del diritto, che circoscrive il campo della
giuridicità ai soli ordinamenti statali e considera, per conseguenza, giuridiche le sole norme create o comunque
imposte e fatte valere da quel particolare tipo di ente sociale che si chiama modernamente lo Stato.
Le particolari caratteristiche dell’ordinamento statale possono influire, e concretamente influiscono, sull’efficacia
delle norme del diritto dello Stato, nel senso, ad es., che queste siano dotate del maggior grado storicamente
riscontrabile di efficacia, siano assistite da una forza di coercizione più intensa di altre, e via dicendo: ma siffatte
differenze rimangono sul piano quantitativo. Essendo lo Stato uno tra i possibili ordinamenti sociali, di natura
giuridica, identica natura non può non ravvisarsi negli altri ordinamenti sociali diversi dallo Stato.
Non è solo diritto, dunque, quello statale, ma si danno tanti sistemi di diritto quanti sono i gruppi sociali organizzati:
dal diritto internazionale, al diritto canonico, via via fino al diritto di un sindacato, di un partito politico, di un
qualsiasi circolo ricreativo o sportivo, per giungere al diritto di quelle che, secondo la valutazione fattane dal diritto
statale, sono associazioni a delinquere.

È il caso di sottolineare che anche la concezione statalistica è -a suo modo- pluralistica, poiché non disconosce di certo la
molteplicità degli ordinamenti statali nel tempo e nello spazio. Ciò che propriamente la differenzia dalla concezione che si suol
designare come «pluralistica» per antonomasia, cui qui si aderisce, è che, in quest’ultima, il pluralismo è politipico (rientrandovi i
più diversi ordinamenti), laddove il pluralismo insito nella prima è monotipico (riferendosi ai soli ordinamenti del tipo Stato).

4. La ricerca dei « caratteri differenziali » delle norme giuridiche dalle altre norme di condotta
Il motivo centrale delle più importanti correnti del moderno pensiero filosofico (da KANT in poi) sta nella distinzione,
che diviene spesso, anzi, radicale contrapposizione, tra morale e diritto; in questo secondo facendosi rientrare ogni
sorta di norme sociali, o addirittura qualunque specie di leggi o regole pratiche.
Così, quando si insiste sulla eteronomia del diritto, di contro alla autonomia della morale; sul carattere sempre
limitato, astratto e contingente delle valutazioni giuridiche, di contro all’assolutezza, universalità e concretezza della
valutazione morale, è chiaro che i contrassegni della giuridicità, lungi dall'essere esclusivamente propri del diritto
statale, ricorrono invece dovunque ci siano norme o regole di azione, astrattamente oggettivate e contrapposte al
concreto agire dei soggetti, ed insomma dovunque ci sia “sistema regolatore” della condotta umana. Non a caso,
infatti, si usa chiamare «legalistica» la morale precettistica (normativa), ritenendosi che, quando si traduce in una
serie di regole disciplinanti particolari e determinate situazioni, astrattamente tipizzate, l’etica perda la sua
universalità, per assumere forme e aspetti analoghi a quelli sotto cui ci si manifesta il diritto.

5. Segue: A ) Esteriorità
Secondo un’antica tradizione di pensiero, che si suole far risalire al THOMASIUS, quel che essenzialmente distingue il
diritto dalla morale è il carattere della “esteriorità”. Correttamente intesa, “esteriorità” significa:
a) che la norma giuridica, a differenza dalla legge morale, si configura come esterna al soggetto e contrapposta
alla sua volontà;
b) che la norma giuridica ha per suo primo e “naturale” oggetto l’azione, in quanto compiuta, “mai il volere un
fatto o un avvenimento”, e anche quando ha riguardo ai motivi del volere e in genere agli stati psichici del
soggetto, li assume in quanto oggettivati nell’azione ed esteriormente riconoscibili, e comunque sempre come
elementi e contrassegni dell’azione, suscettibili di caratterizzarla in uno o in altro modo.
In termini kantiani: il diritto si contenta di un’azione conforme al dovere, mentre la norma morale deve essere
ubbidita per sé stessa, con l’adesione interiore del soggetto.

6. Segue: B) Generalità e astrattezza


Nemmeno sarebbe possibile fondare sui caratteri della generalità o della astrattezza, o sul concorso di entrambi, un
criterio logicamente valido di differenziazione delle norme giuridiche da altre norme.
È necessario accennare brevemente alle varie accezioni in cui si suol parlare della generalità ed astrattezza.
Assumendo la generalità in senso spaziale, ossia con riferimento alla cerchia dei soggetti cui le norme sono
direttamente applicabili, prima ancora che non valere come carattere differenziale, essa si rivelerebbe un connotato
privo di intrinseca consistenza: giacché sempre dipende dalla materia regolata, e quindi dall’ampiezza dell’ipotesi
normativa, se una norma (qualsiasi norma) sia più o meno generale, in questo primo significato dell’espressione.
Si pensi, guardando al diritto statale, alle norme applicabili a tutti (gli uomini), ed a quelle invece che si riferiscono ai
cittadini.
Assumendo invece, più correttamente, la generalità in senso temporale, come “ripetibilità” (possibilità di ripetuta
applicazione della norma, che non si esaurisca in una sola e puntuale situazione di fatto), anche norme che, a prima
vista, sembrano avere pochissimi destinatari si rivelano generali, perché applicabili a chiunque venga a trovarsi nella
situazione ipotizzata. La “generalità”, così intesa, acquista un suo significato rilevante, risolvendosi allora nella
«astrattezza», o meglio in uno degli aspetti sotto cui è possibile parlare di astrattezza (come impersonalità della
norma), ma non serve egualmente a diversificare norme da norme.
Muovendo da una diversa accezione della «astrattezza», potrà anche dirsi che qualunque norma, sia che concerna
una pluralità di situazioni possibili, sia che concerna un solo oggetto specifico, è in qualche modo astratta, perché
sempre astrae “da tutto ciò che costituisce l’individualità, irriducibile a tipo, di ogni manifestazione di attività”.
Anche il precetto contenuto nella sentenza o nel provvedimento amministrativo, e persino l’ordine singolo, non
considerano il caso cui si riferiscono “nella sua concretezza e nella ricchezza della sua vita, ma nelle sue
caratteristiche astratte e giuridiche” e perciò “anche gli atti ritenuti concreti regolano in realtà delle astrazioni
giuridiche”. In siffatto ordine di idee, svanirebbe, è vero, ma per tutte le norme, il contrassegno della generalità e nella
figura della norma rientrerebbero anche i precetti più strettamente individualizzati, in quanto essi pure astratti: con
la conseguenza che vi sarebbero norme più o meno astratte, le meno astratte fra tutte potendo allora dirsi,
convenzionalmente, concrete, senza con questo cessare di essere norme e senza possibilità di distinguere in sede
logica una categoria di norme cui soltanto spetterebbe la qualifica di giuridiche.

7. Segue: C) Coercibiiìtà e sanzione


Altro carattere differenziale delle norme giuridiche è quello della “coercibilità”, o meglio e con più largo riferimento,
della “sanzione”. Le norme giuridiche sarebbero, cioè, suscettibili di attuazione forzata (coercibili) e comunque
garantite dalla predisposizione, per l’ipotesi di trasgressione, di una “conseguenza sfavorevole” (sanzione), la
minaccia della quale si traduce a sua volta, in una forma di coazione psicologica.
Sono peraltro decisive in contrario le seguenti due osservazioni.
1- Non tutte le singole norme sono coercibili o puntualmente sanzionate.
2- Forme di sanzione, od anche casi di vera e propria coercibilità materiale, si rinvengono del pari in
ordinamenti sociali non riconducibili al tipo degli ordinamenti statali: sanzione è anche l’“autotutela. Le
stesse regole del costume, del galateo e dell’etichetta possono, molte volte, unirsi a forme diffuse e spontanee
di reazione collettiva alla loro violazione, che ne rappresentano anch’esse una rudimentale “sanzione”.
Parlare della sanzione come della previsione di una “conseguenza sfavorevole” derivante dalla trasgressione di una
norma vuol dire, evidentemente, affermare l’esistenza di una norma ulteriore (norma cosidetta “secondaria” o
“sanzionatoria”), che predispone la doverosità di quella tale conseguenza per il caso di inosservanza della prima
norma; egualmente, parlare di materiale coercibilità di una norma, vuol dire affermare che un’altra norma prevede
l’impiego della forza (la coazione) per attuare ad ogni costola norma primaria. Ma, se tutto questo è vero, sanzione e
coazione finiscono per risolversi nel collegamento tra norma “primaria” e norma “secondaria”: quest’ultima
conferendo alla prima il suggello della giuridicità.
Sono chiare le obiezioni che sorgono spontanee contro un tale modo di vedere.
Da un lato, infatti, esso conduce alla conclusione che norma “primaria” e norma “secondaria” sono strutturalmente
identiche; d’altro lato, risolte coazione e sanzione in contenuti di norme, alla stregua di quali elementi sarebbe
possibile poi affermare la giuridicità della norma sanzionatoria? Giuridica la norma A, perché integrata dalla norma
B, che dispone la sanzione, nella logica della teoria la giuridicità di quest’ultima dovrebbe dipendere unicamente
dall’essere a sua volta accompagnata da sanzione: quindi, giuridica anche la norma B, perché accompagnata dalla
norma C, che dispone la sanzione conseguente alla trasgressione di B, e cosi via via, com’è stato ripetutamente
osservato in dottrina, sino a giungere ad una norma, dietro la quale nessun’altra se ne rinverrebbe che le imprima,
sanzionandola, il suggello della giuridicità. Ed almeno di quest’ultima norma dovrebbe ammettersi, dunque, che sia
giuridica, sebbene sprovvista di sanzione: contraddicendosi cosi alla premessa.
A questa critica può replicarsi, bensì, che essa ha il torto di configurare un ordinamento giuridico come una
successione seriale aperta di singole norme, anziché come un sistema organico, la cui unità è piuttosto la risultante,
che non la somma, delle norme che lo compongono. In una concezione realistica, e perciò globale, dell’ordinamento,
ogni norma in qualche modo concorre a garantire l’osservanza delle altre, e nell’insieme, se l’ordinamento veramente
esiste, ossia possiede un certo grado di positività, non può contestarglisi una forza di costrizione, la quale almeno
indirettamente si riflette sopra ogni singola sua parte e perciò anche sulle diverse norme che lo compongono.
Ma, in tal modo argomentando, si abbandona il punto di vista della norma singola o della singola coppia norma
primaria — norma secondaria (sanzionatoria), per collocarsi nella più vasta e ricca prospettiva dell’ordinamento, cui
le norme appartengono. Sanzione e coazione non sono più contrassegni differenziali di certe norme soltanto (le
norme giuridiche), ma possibili contenuti di norme, la cui struttura rimane identica a quella di ogni altra; né sussiste
più un necessario costante collegamento tra norma «primaria » e norma “secondaria”.
8. Segue: D) Bilateralità
Stando all’assunto, la “bilateralità” dovrebbe intendersi come simmetrica corrispondenza tra l’“obbligo” di un
soggetto e il “diritto” di un altro, sempre e necessariamente risultante dalla norma giuridica. La quale si
caratterizzerebbe, dunque, perché istitutiva di una tale regolarità o interdipendenza di comportamenti.
Facile e fondato il rilievo, tante volte avanzato a critica di questa tesi, che essa non fa se non ipostatizzare in termini
che pretenderebbero avere assoluto valore logico un particolare fenomeno di un particolare e limitato settore
dell’esperienza giuridica, qual’è appunto il “rapporto giuridico” nel diritto privato, se non addirittura lo schema del
rapporto obbligatorio civilistico (esempio paradigmatico: quello tra creditore e debitore). Non tutta l’esperienza di un
ordinamento statale è riconducibile al «rapporto», come connessione tra diritto ed obbligo; non tutte le norme che
formano un ordinamento statale si concretano nell’attribuzione di diritti ed obblighi.
1° obiezione: Scendendo ad esaminare le singole obiezioni che ad essa sono state rivolte, si può scartare quella
fondantesi sulla pretesa assurdità di costruire i “diritti assoluti” come elementi di un’indefinita pluralità di rapporti,
aventi il loro termine opposto nell’obbligo negativo di tutti gli altri soggetti. Il “rapporto” è riscontrabile, sia che si
configuri l’obbligo negativo come implicitamente posto dalla norma che conferisce il diritto, sia viceversa che si
configuri il diritto quale effetto riflesso della imposizione dell’obbligo a tutti gli altri.
2° obiezione: Obiezione più consistente si trae dall’esistenza di situazioni soggettive di “potere”. Ne sono esempi, tra i
tanti, il potere del Capo dello Stato di sciogliere le Camere, o di concedere la grazia; i vari poteri spettanti alle
autorità amministrative nei confronti degli amministrati; come anche, nel campo del diritto privato, il potere di
ottenere l’annullamento o la rescissione di un negozio o lo scioglimento della comunione; il diritto di affrancamento
dell’enfiteuta. In tutti questi casi al potere di un soggetto non fa riscontro alcun obbligo o dovere altrui: colui nella
sfera del quale incide l’esercizio del potere, nulla deve fare; la sua posizione è meramente passiva, di “soggezione”.
Ma proprio in questa “soggezione”, può anche vedersi, ed è stata vista da parte della dottrina la situazione giuridica
contrapposta al “potere”: la quale, pur non essendo un obbligo, né un dovere in senso stretto, si atteggerebbe
tuttavia come una situazione necessitata, e perciò di vincolo del comportamento e di subordinazione dell’interesse.
3° obiezione: Più grave obiezione alla teoria della bilateralità sta nella esistenza di doveri od obblighi, ai quali non si
riesce a vedere quale situazione soggettiva di vantaggio o possibilità giuridica, e di chi, faccia puntuale riscontro.
Doveri ed obblighi siffatti si rinvengono, nel diritto penale, specie nei casi in cui l’interesse protetto dalla norma non
si localizza in alcun soggetto determinato: si pensi a molti dei reati classificati nel codice come reati «contro
l’economia pubblica» o «l’ordine pubblico» o addirittura «contro l’integrità e la sanità della stirpe»... Si rinvengono
altresì nel diritto costituzionale ed amministrativo: quei doveri, talora a contenuto generico, e quei numerosi obblighi
anche specifici, che incombono sulle autorità governanti «nel pubblico interesse» e l’adempimento dei quali ben può
essere minutamente regolato da norme, che, pur tendendo a garantirne l’attuazione, non determinano tuttavia il
sorgere corrispettivo in altri soggetti od organi di diritti o facoltà o pretese. Ad esempio: il dovere dello Stato di
assicurare la difesa esterna e la sicurezza interna della collettività, di provvedere alla pubblica igiene; il dovere,
espressamente sancito nell’art. 33 Cost. di istituire “scuole statali di ogni ordine e grado”, l’obbligo del Pubblico
ministero di esercitare l’azione penale.

Anche per lasciare al nostro discorso la massima capacità di espansione logica, senza ancorarlo a concezioni particolari, spesso
tra loro divergenti, si adopera una nomenclatura non impegnativa, quindi non rigorosa, ma sufficientemente indicativa dei
fenomeni che si espongono. «Diritto», «facoltà», «pretesa», «potere», come situazioni «di vantaggio», che dovrebbero rappresentare il
momento positivo o favorevole dell’asserito rapporto: senza dimenticare però che, nella dottrina, si è di volta in volta respinta la
figura della «pretesa», oppure quella della «facoltà»; si è ridotto il «diritto soggettivo» alla prima o alla seconda, ovvero lo si è
costruito come una combinazione di facoltà e pretesa, o lo si è invece identificato con il «potere»; e che la figura del «potere», nella
accezione qui accoltane, si colloca sopra un piano diverso. «Obbligo», «dovere», «onere», «soggezione», per esprimere invece il
momento negativo o passivo: ed anche qui, senza dimenticare che «dovere» ed «obbligo» sono, a volte, identificati tra loro, a volte
considerati come diversi, e che la figura dell’«onere» non è pacificamente ammessa.
A grandi linee, occorre distinguere due ipotesi:
A) Quando il dovere di un soggetto (per solito, una «pubblica autorità») è integrato da un obbligo di pretenderne l’adempimento
gravante sopra altro soggetto (anch’esso, una pubblica autorità), quel che certamente ricorre, in primo piano, è la figura della
sanzione o della garanzia: tra le due situazioni di dovere, e quindi anche tra i soggetti rispettivi, si costituisce, bensì, una relazione
giuridicamente ordinata, ma sarebbe tecnicamente improprio definirla un «rapporto giuridico».
B) Quando, invece, il meccanismo della garanzia sia rimesso alla «libera» iniziativa dell’interessato, e cioè la “possibilità di
pretendere” l’osservanza del dovere o l’adempimento dell’obbligo sia attribuita a titolo di facoltà o diritto, l'idea del “rapporto”
accenna veramente a prendere consistenza. Si tratterà, però, di regola, di un “rapporto” accessorio e secondario, che non
esaurisce l’intero fenomeno e non assorbe per intero, come proprio termine passivo o negativo, il dovere od obbligo primario del
pubblico ufficio, potendo questo sussistere anche da solo.
Diventa perciò questione di interpretazione del diritto positivo accertare se e quando ricorra l’uno o l’altro modo di relazione tra
doveri od obblighi di determinate autorità e «possibilità di pretendere» spettanti ad altri soggetti, pubblici o privati. Gli esempi
dell’ipotesi sopra riassunta alla lett. A) sono, nel nostro diritto pubblico, frequentissimi: obbligo di un’autorità amministrativa
superiore di sostituirsi a quella inferiore per il compimento di atti prescritti da legge, o di annullarne o riformarne gli atti contra
jus o viziati nel merito, quando lo richieda il pubblico interesse.
Un esempio dell’ipotesi sub B) dovrebbe rinvenirsi, almeno stando ad autorevoli e recenti indirizzi dottrinali, nel caso degli
«interessi legittimi» degli amministrati nei confronti dei doveri di condotta che le autorità amministrative sono tenute ad osservare
nell’esercizio delle loro funzioni.
I due gruppi di casi riassunti sub A) e sub B) possono d`altronde, talora, anche sovrapporsi. Al dovere (oppure, secondo altre
concezioni, all’onere) di un pubblico ufficio di emettere atti validi, conformandosi alle norme che ne regolano il procedimento e la
forma, può affiancarsi al tempo stesso cosi il dovere di annullamento di un ufficio superiore o di un organo di controllo, come
pure una possibilità di ricorso in sede di giurisdizione amministrativa attribuita a coloro che siano stati lesi in un loro interesse
legittimo dall’atto invalido.
Altro gruppo di casi è offerto, nel diritto costituzionale, dall'istituto dei « conflitti di attribuzione » tra Stato e Regioni o tra Regioni
nonché «tra i poteri dello Stato», ai quali sono da aggiungere i giudizi in via di azione che Stato e Regioni possono promuovere nei
confronti di leggi, rispettivamente regionali e statali, per incompetenza costituzionale. Enti ed organi, insomma, hanno azione
davanti alla Corte costituzionale per difendere l’integrità delle attribuzioni ad essi conferite da norme costituzionali, e perciò per
ottenere l’osservanza da parte dell’altro ente od organo delle norme che esso ha — comunque — il dovere di osservare
nell’esercizio delle sue funzioni. Cosi, se lo Stato emana una legge o adotta un provvedimento che sarebbe di spettanza di una
Regione, o t1ll’1nverso una Regione emana una legge o un provvedimento di spettanza dello Stato, c’è violazione di un dovere di
rispetto della competenza altrui, e conseguente invalidità; ma il far valere questa invalidità è rimesso alla iniziativa dell’ente
interessato,'e cioè o della Regione o dello Stato.
In tutti i casi richiamati, da un lato troviamo doveri che stanno di per sé, con carattere oggettivo; dall’altro troviamo tuttavia
anche una pretesa alla loro osservanza, che non si esaurisce sul piano processuale, non è, in altri termini, mera azione a difesa
dell’interesse generale oggettivo, ma presuppone una situazione soggettiva “favorevole” o “di vantaggio” e può implicare perciò la
sussistenza anche di un rapporto tra gli enti od organi contendenti.

Eppure, dopo tante critiche e confutazioni, deve riconoscersi che la tesi della bilateralità esprime, a suo modo, una
giusta intuizione del fenomeno giuridico. Come si è visto per la sanzione, anche la «bilateralità» ci rimanda dalla
singola norma all’ordinamento, e dallo schema formale delle norme ai loro possibili contenuti.

9. Conclusioni: le norme giuridiche come norme sociali


Qualunque carattere si voglia ritenere qualificante la giuridicità di una norma, il risultato cui si perviene non va oltre
la distinzione tra norme sociali e norme non sociali, senza che sia possibile ricavarne alcun criterio suscettibile di
delimitare, entro il genus delle norme sociali, una categoria di norme definibili, esse soltanto, giuridiche.
Vero è, bensì, che l’analisi di alcuni tra i pretesi caratteri differenziali delle norme giuridiche (la coercibilità e
sanzione, la bilateralità) ci ha rinviato dalla norma singola all’ordinamento in cui quella vive ed è efficace, ma anche
ponendosi dal punto di vista dell’ordinamento, la stessa impossibilità di una delimitazione precisa ed avente rigore
logico assoluto ci si ripresenterebbe al momento di distinguere ordinamenti giuridici da altri ordinamenti, sociali,
bensì, ma non giuridici.
È possibile, tutt’al più, su questo terreno, restringere la nozione di ordinamento giuridico a quelli pervenuti alla fase
organica, nei quali sia ravvisabile, cioè, un’organizzazione differenziata ed articolata. Si tratterebbe pur sempre di
una soluzione convenzionale, poiché si è dovuto constatare come sia praticamente impossibile operare un taglio
netto tra modi e modi di organizzazione e come lo stesso concetto di organizzazione vera e propria non sia esente da
ombre ed incertezze.
In particolare, ove si ritenesse che essenziale ad aversi vera organizzazione sia l’enuclearsi di un centro di potere, o
in altri termini che ordinamenti giuridici degni di questo nome siano quelli soltanto a struttura autoritaria,
rimarrebbe da fare i conti con l’ordinamento internazionale, e si rischierebbe di contraddire ad una delle esigenze
fondamentali onde è scaturita la dottrina pluralistica, che era proprio di spiegare realisticamente e senza preconcetti
statalistici la intrinseca natura giuridica di tale ordinamento. E, d’altro lato, nessun criterio differenziale si sarebbe
cosi individuato, poiché l’elemento «autorità» è presente nei più diversi ordinamenti sociali.
Dalle cose dette dovrebbe risultar chiaro che quella della pluralità degli ordinamenti giuridici è sia tesi logica che
affermazione storica: in sede logica, infatti, non si rinvengono ragioni che inducano a restringere il campo del diritto
a certi ordinamenti soltanto, mentre per altro verso la coesistenza di una molteplice varietà di ordinamenti
costituisce un dato irrefragabile dell’esperienza. Ciascuno di noi, ad es., appartiene ed è sottoposto a molteplici
ordinamenti, che possono anche talora contenere valutazioni tra loro confliggenti.
Ma, ciò che al giurista soprattutto interessa è la pluralità reale degli ordinamenti, il fatto, cioè, che questi diversi
ordinamenti ci siano, abbiano una loro effettività. Ordinamento effettivo vuol dire ordinamento in grado di
concretamente realizzarsi in uno stabile assetto di contegni e relazioni sociali, almeno mediamente conformi alle
norme che ne costituiscono l’aspetto deontologico: insomma, verificabile sperimentalmente in quel grande laboratorio
della scienza giuridica che è la storia.

10. La teoria del diritto come “istituzione”


La concezione sostenuta dal ROMANO è quella del diritto come «istituzione», intesa quest’ultima, come ente o corpo
sociale più o meno stabilmente organizzato. Bisogna por mente alla diversa premessa di carattere generale posta dal
ROMANO, con il far consistere il diritto nel fatto stesso della istituzione. Il vero punto differenziale della dottrina del
ROMANO, sta nel concetto che il diritto non è fenomeno normativo, ma modo d’essere della realtà sociale; “Sein” e
non “ Sollen”; ordine esistenziale, non ordine deontologico, le norme rappresentandone soltanto delle manifestazioni
secondarie e derivate onde l’equazione, “necessaria ed assoluta”, come la proclama il suo autore, diritto = istituzione.
Non è qui possibile addentrarsi in una analisi critica della equazione diritto = istituzione né soffermarsi sulle
obiezioni che le sono state ripetutamente rivolte: le quali tutte si riassumono, in sostanza, nell’esatto rilievo che
senza le norme non ci sarebbe l’istituzione, così che questa potrà ben dirsi “un fatto”, ma è un fatto ordinato, e
dunque conforme a certe norme o regole che necessariamente presuppone.
Ed invero, non sembra possibile disconoscere che quelle norme che il ROMANO vede come semplice prodotto
ulteriore del corpo sociale, si sono già prima postulate, all’atto di rivolgere l’attenzione ad un gruppo sociale assunto
come istituzione, giacché sono esse che, dandogli un ordine e perciò organizzandolo, ne fanno, precisamente, un ente
o corpo unitario, ossia una istituzione. Che un ordinamento normativo al quale non corrisponda un ordine reale e
che non si concreti perciò, esso stesso, almeno tendenzialmente e di massima, in fatto ordinato, sia vuota astrazione,
è certamente vero, tanto che proprio l’Autore che ha condotto alle estreme conseguenze la concezione normativistica
del diritto, il KELSEN, è anche, al tempo stesso, il massimo teorizzatore della dottrina della effettività, come conditio
sine qua non della validità dell’ordinamento giuridico; ma non è men vero che, senza le norme, il fatto resterebbe
naturalisticamente opaco ed amorfo, e non ci sarebbe allora, nel mondo dei fatti, l’«istituzione».

11. Valutazione d’insieme della teoria pluralistica e sue applicazioni


La concezione del diritto come istituzione ha fortemente contribuito a rafforzare le dottrine pluralistiche.
L’importanza della concezione pluralistica risiede soprattutto nel suo significato di canone euristico, che consente di
meglio intendere nella loro specifica natura una svariata serie di fenomeni dell’esperienza sociale, accomunati, pur
nelle loro diversità, dall’essere, tutti egualmente, fenomeni ordinamentali. Può darsi che la carica polemica di cui la
dottrina pluralistica apparve, all’inizio, cosi ricca, si sia, oggi, in parte esaurita, una volta raggiunto il risultato di
spezzare il nesso, che prima si reputava necessario, tra diritto e Stato, portando al riconoscimento della intrinseca
giuridicità di ordinamenti del tutto indipendenti da quelli statali e a questi non riconducibili.
Per merito della teoria pluralistica, l’esperienza giuridica svolgentesi a livello di un ordinamento statale moderno ha
rivelato una nuova dimensione, rimasta nascosta e, potrebbe dirsi, appiattita dietro gli schemi, spesso inadeguati,
foggiati dal diritto statale. Cosi, dietro una persona giuridica, pubblica o privata, può rinvenirsi un ordinamento, che
può essere come può non essere rilevante, in tutto o in parte, per l'ordinamento statale.
È da ascriversi tra gli sviluppi più interessanti della concezione pluralistica la problematica dei cosiddetti
“ordinamenti interni”: attributo, questo, da intendersi in relazione a un ordinamento maggiore e superiore, al quale i
primi sarebbero subordinati, restandone però distinti. In verità, a rigor di termini, “interni” dovrebbero dirsi, e sono
realmente, tutti gli ordinamenti comunque inclusi nell’ambito dell’ordinamento statale, siano da questo creati, siano
invece di formazione spontanea, come gli svariatissimi ordinamenti dì enti e gruppi privati, in cui liberamente si
articola la società civile sottostante al potere statale. Ma la formula degli “ordinamenti interni” vuole alludere, per
antonomasia, ad una più particolare figura di ordinamenti, che sarebbero “interni” rispetto all’organizzazione,
centralizzata, detentrice dell’autorità nei moderni ordinamenti statali: questa stessa organizzazione,
complessivamente considerata, od anche singole sue parti od articolazioni, riguardate dal di dentro, darebbero vita
ad altrettanti ordinamenti, in sé giuridici, sebbene privi di rilevanza nell’ordinamento generale. Tali ad es. sarebbero
«l’ordinamento amministrativo», corrispondente a quel complesso di organi e soggetti che costituiscono la pubblica
amministrazione (in senso soggettivo); gli ordinamenti delle Forze armate.
La figura degli ordinamenti interni sarà quindi riscontrabile solo dove l’entità organizzatoria che viene in esame sia in
grado di autoregolarsi, sia pur parzialmente, attraverso fonti proprie.
Rimane inammissibile parlare de li ordinamenti interni come di ordinamenti separati da quello generale dello Stato:
si tratta, invece, di articolazioni differenziate dell’ordinamento complessivo, e perciò tutt’al più di ordinamenti
“speciali”, nell’ambito dei quali si producono norme e possono esplicarsi attività che non rilevano direttamente
nell'ordinamento generale.

12. Relatività dei concetti «dommatici» di diritto (come norma e come ordinamento) e di «fonte» del diritto
Il concetto della pluralità degli ordinamenti giuridici trova il suo correttivo e il suo limite nel canone della “relatività
dei valori giuridici”: un medesimo fatto, uno stesso comportamento, possono ricadere nell’ambito di ordinamenti
diversi ed essere da ciascuno di questi valutati in modi e con effetti diversi, ed anche contrastanti. Quel che è lecito
per il diritto italiano, può essere illecito per il diritto di un altro Stato o per il diritto della Chiesa; quel che da noi è
vietato, può essere, all’inverso, obbligatoriamente prescritto dalle norme di un altro ordinamento.
Per le scienze giuridiche «dommatiche», quel che conta sono le valutazioni disposte dall’ordinamento considerato: è
ben possibile, ed anzi frequente, che, alla stregua di quest’ultimo, fenomeni cui sia da riconoscere natura di
ordinamenti giuridici, debbano invece ritenersi irrilevanti in quanto ordinamenti o addirittura qualificarsi
“antigiuridici”.
L’idoneità di un fatto a creare diritto è suscettibile di essere riconosciuta o negata da norme (le “norme sulle fonti”)
dell’ordinamento dato con il conseguente relativizzarsi della stessa figura della norma giuridica.

13. Segue: concetto logico-teoretico e concetto «dommatico» (o prescrittivo) delle “fonti del diritto”
Si parla a volte delle fonti per alludere al complesso dei fattori sociali, psicologici, economici, ideali, razionali, onde
nasce il diritto positivo; altre volte, più correttamente, per designare i fatti, in cui fenomenologicamente il diritto si
esprime, o, con maggior precisione ancora, le forme e i modi di produzione dei diritto (i fatti, cioè, “creativi di diritto”).
È quest’ultima l’accezione più pregnante e più esatta, perché scolpisce meglio di ogni altra il rapporto genetico che
unisce le norme giuridiche alle loro fonti evitando di far smarrire la differenza tra le fonti “di produzione” (che sono le
fonti vere e proprie) e le cosiddette fonti “di cognizione”: che non sono propriamente “fonti”, perché non producono
norme di diritto, ma servono alla loro conoscenza.
Quale che sia la nozione logico-teoretica delle fonti che si ritenga preferibile, sempre, comunque, si dovrà poi fare i
conti con il diritto positivo: poiché, da un lato, una parte soltanto dei fatti qualificabili in sede di logica astratta
normativi sono dal singolo ordinamento riconosciuti come proprie fonti; mentre d’altro lato, è anche possibile che un
determinato ordinamento assuma tra le proprie fonti fatti che, teoreticamente non sono normativi. Ecco, dunque,
che accanto al concetto logico-teoretico di fonte di diritto, trova posto il concetto delle fonti di un ordinamento
determinato: concetto, quindi, “prescrittivo” al pari di tutti i concetti della giurisprudenza dommatica, perché tratto
da quanto risulta positivamente stabilito (prescritto), anche se in modo implicito, dall’ordinamento considerato; e per
ciò stesso, concetto «storico-formale», perché privo di validità universale, ma relativo al singolo ordinamento in un
particolare momento del tempo, e persino in certa misura indipendente da considerazioni di sostanza.
Il concetto storico-formale, o prescrittivo, delle fonti di un ordinamento dato comprende soltanto quei fatti ed atti
giuridici, che l'ordinamento definisce tali legittimandoli a costituire il diritto oggettivo. E definendo le proprie fonti, ogni
ordinamento definisce, in fin dei conti, sé medesimo sotto l’aspetto normativo, stabilendo quali, tra le molte e
svariate disposizioni normative incessantemente prodotte nell’esperienza giuridica reale, siano da annoverarsi tra
quelle che lo compongono (e lo modificano) e dando perciò della norma giuridica (come “norma del diritto oggettivo
statale”) una configurazione, a sua volta, convenzionale e storicamente relativa anch’essa.
Nel quadro di un ordinamento dato, le fonti sono fatti ed atti “giuridici”, perché regolati da norme giuridiche, delle
quali costituiscono la “fattispecie”, al realizzarsi della quale è riconnessa la conseguenza dell’esserci le norme da essi
«prodotte»; abbandonando la prospettiva «dommatica» e collocandosi sopra un terreno di teoria generale la fonte da
intendersi fenomeno giuridico perché produce diritto, e non perché come tale regolata dal diritto).
In conclusione, sotto il profilo “dommatico” e cioè alla stregua di un ordinamento dato, per accertare se determinate
norme esistano come norme di diritto oggettivo, è necessario previamente accertare se siano state poste da fatti
legittimati dalla costituzione quali fonti del diritto stesso. Fonti e norme si determinano, cioè, in base ad un criterio
formale e legalistico sono o non sono tali, a secondo che cosi risulti disposto dalle norme costituzionali vigenti.

Potrebbero piacerti anche