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È famoso l’esempio della «fila», che si forma davanti allo sportello di un ufficio o al botteghino di un teatro e che si atteggia
secondo un suo ordine (giuridico), al quale tutti i partecipanti devono sottostare e mediamente, in fatto, si sottopongono.
Il caso delle cosidette «categorie» (economiche, produttive, professionali) può essere particolarmente significativo per mostrare
come sia talvolta evanescente la linea di confine tra l’astratta ipostasi di una unità meramente concettuale, e la sussistenza,
invece, sociologicamente accettabile, di una vera collettività «diffusa». Ricorre la seconda ipotesi, e cioè siamo in presenza di vere
collettività, se ed in quanto si affermi nella massa degli individui che esercitano in modo stabile e continuativo una certa attività,
ed hanno perciò interessi in comune, la consapevolezza di essere tra loro legati da un interesse collettivo, riferibile alla categoria
come tale, pur se al tempo stesso proprio di tutti i soggetti che ne fanno parte; che non può essere soddisfatto che da tutti
insieme; che non si identifica con la somma degli interessi particolari e individuali di ciascuno, ma è l’interesse al loro
contemperamento, e può esigerne anzi il sacrificio parziale.
L’eventuale presenza di gruppi propriamente organizzati, o gruppi-«enti», non elimina il problema consistente nello stabilire caso
per caso se, dietro od oltre il gruppo-«ente», esista realmente una collettività «diffusa». Le incertezze della dottrina intorno alla
definizione della categoria professionale ne sono esempio eloquente: per alcuni, la categoria risolvendosi in mera astrazione; per
altri costituendo una “formazione sociale”, nel senso dell’art. 2 Cost. La quale, contiene due espliciti riferimenti a categorie: il
primo, nell’art. 39, laddove si prevede che i sindacati «registrati» possano stipulare contratti collettivi con efficacia normativa «per
tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce»; l’altro, nell’art. 99, a proposito del Consiglio nazionale
dell’economia e del lavoro, quando si parla di «categorie produttive» in esso rappresentate. In quest’ultimo caso, l’opinione più
autorevole esclude che la categoria produttiva sia una «formazione sociale», anche se può dar luogo a formazioni sociali, quali ad
es., i sindacati; nel caso, invece, dell’art. 39, la questione è più controversa.
A) Affinché si abbia un “ordinamento” sociale, si richiede una certa stabilità, oggettivamente rilevabile, del gruppo e
della sua organizzazione, per quanto elementare possa essere, che si costituisce con il consolidarsi dello scopo o
scopi perseguiti: ne segue che gli «ordinamenti» hanno una loro dimensione temporale durevole, in ciò distinguendosi
da un ordine sociale momentaneo, che si esaurisca in una volta sola. Da questo punto di vista, anche collettività allo
stato diffuso possono dar luogo a ordinamenti, pur non costituendo «enti» sociali in senso stretto e specifico.
B) Per aversi «ente» sociale, si richiede qualcosa di più, con particolare riferimento alle caratteristiche morfologiche
dell’elemento «organizzazione». Quali siano poi queste caratteristiche, in qual modo debba definirsi questo qualcosa
di più, è problema, però, al quale non ancora è stata data una risposta precisa e compiuta.
Nell’insieme, l’idea cui più o meno chiaramente si vuole alludere è quella di un «vincolo» associativo «più stretto» e
compatto, tale da dar vita ad un fenomeno sociale realmente unitario, che questa sua unità sia pertanto in grado di
manifestare ed affermare così nel proprio interno, nei confronti dei singoli componenti, come nei rapporti esterni.
Bisogna, perciò, anzitutto, che l’appartenenza al gruppo sia stabilmente predeterminata, anche se in modo implicito;
bisogna in secondo luogo, che il gruppo abbia una sua “organizzazione”, nel senso specifico e restrittivo di
distribuzione ordinata di compiti e mansioni con connessa predisposizione di mezzi materiali per il loro assolvimento.
È l’esistenza di un’organizzazione così intesa, che rende possibile distinguere, tra le svariate attività dei consociati,
quelle rivolte al perseguimento degli scopi del gruppo; com’è attraverso siffatte attività differenziate, che può
concretamente realizzarsi la subordinazione degli interessi particolari di ciascuno agli interessi generali e collettivi.
La collettività diventa un “ente”, che non è aggregato di soggetti, ma tutti li sovrasta ed in qualche modo li trascende.
Si adopera anche spesso l’espressione gruppi «istituzionali» o altre analoghe, derivate dalla parola « istituzione» che, nella
terminologia di SANTI ROMANO, sta a significare «ogni ente o corpo sociale (che) ha una struttura, un assetto, uno status,
un’organizzazione, più o meno stabile e permanente, che riduce ad unità gli elementi che lo compongono e gli conferisce una
propria individualità e una propria vita». Non è perfettamente chiaro se, per il ROMANO, siano «istituzioni» anche le collettività
“diffuse”, ovvero soltanto i gruppi a struttura più complessa e articolata, che la dottrina prevalente configura come «enti» sociali
veri e propri. Contrariamente a quanto mostrano implicitamente di ritenere coloro che adoperano espressioni derivate dal
vocabolo «istituzione» per caratterizzare, sotto l’uno o l'altro aspetto, questo secondo tipo di formazioni sociali, il pensiero del
ROMANO sembra anzi orientato piuttosto nel senso più largo, come risulta da qualche espresso accenno alle società «diffuse», e
come pare confermato dalla riconosciuta piena compatibilità tra il concetto di organizzazione e quello di comunità paritaria.
Bisogna dire che gli elementi richiesti dalla dottrina successiva per aversi gruppo propriamente organizzato (gruppo-ente, o
gruppo istituzionale), e non mero aggregato, finiscono per sfociare nella esigenza di una organizzazione autoritaria: della presenza,
cioè, entro il gruppo, di un «potere» sociale, cui i singoli siano sottoposti.
La concezione, qui accolta, delle norme come giudizi vincolanti tutti gli operatori giuridici e che adempiono nel loro insieme ad
una funzione prescrittiva, è abbastanza vicina alla formulazione più recente del pensiero di KELSEN. Per KELSEN, la norma non è
un “comando”, ma un “giudizio ipotetico che esprime il rapporto specifico di un fatto condizionante con una conseguenza
condizionata”, pur potendo configurarsi come un “imperativo”, ma in un senso del tutto particolare, in quanto, cioè, esprime la
doverosità (Sollen) di un certo atto o di una certa conseguenza: dove con il termine «Sollen», che si traduce con “dovere”, s’intende
non solo la prescrizione di un obbligo, ma altresì un permesso o una autorizzazione.
Questo dovere (Sollen) esprime solo il senso specifico in cui due fatti sono tra loro collegati da una norma giuridica.
Ferma restando, nell’ordine concettuale, la diversità tra «leggi» naturalistiche e «norme» (leggi della pratica), è tuttavia opportuno
prestare attenzione a taluni punti di contatto, che pur si danno, tra le une e le altre, fino al segno, in qualche ipotesi-limite, di
renderne problematica la linea divisoria. È noto, ad es., che lo schema causale di una legge naturalistica (se c’è A, c’è B) può
agevolmente invertirsi in schema prescrittivo (se si vuole B, si deve porre in essere A).
Da più parti si è cercato a volte di far rientrare tra le norme tecniche anche le norme giuridiche, o addirittura tutte le norme, in
genere, diverse dalla norma morale: più particolarmente, è stato talvolta osservato che anche le norme del diritto statale
sarebbero traducibili in altrettante norme tecniche, sol che si sposti l’accento dalla doverosità del comportamento al nesso
funzionale che lo collega alla conseguenza giuridica, in quanto suscettibile di configurarsi in termini teleologici («se non vuoi
andare in galera, devi astenerti da certe azioni»; «se non vuoi essere condannato al risarcimento dei danni, devi adempiere
l’obbligazione» ecc.). Ora, una analogia con lo schema della norma tecnica può ammettersi, semmai, limitatamente però ai
particolari specie di norme giuridiche, come quelle prescriventi le condizioni di validità degli atti giuridici, l'inosservanza delle
quali impedisce all’agente di conseguite lo scopo che aveva di mira. Andare oltre sarebbe esagerato ed inesatto: le conseguenze
disposte dalle norme giuridiche valgono anche per l’interprete «disinteressato» e d’altro canto, soltanto sopra un terreno
rozzamente psicologistico l’osservanza della norma da parte degli stessi operatori giuridici «attivi» può vedersi come scelta del
mezzo rivolto al fine di ottenere o di evitare certe conseguenze; nemmeno su questo terreno, comunque, 1’accostamento alle
norme tecniche potrebbe estendersi alle norme giuridiche sprovviste di «sanzione», e meno che mai alle norme meramente
“permissive” o “facoltizzanti”. Si pensi, del resto, a quanto accade allorché norme giuridiche assumano a proprio contenuto regole
o norme, tecniche: in questi casi il fine, cui la norma tecnica originaria era condizionata, non è più libero, ma implicitamente
prescritto, quindi presupposto e passa in secondo piano, mentre la necessarietà del comportamento rileva per sé stessa,
diventando vera doverosità. Prova ne sia che, anche se la norma tecnica fosse o si rivelasse sbagliata, quel comportamento
seguiterà ad essere giuridicamente doveroso, se e finché la norma di diritto che lo prescrive rimanga in vigore.
Diverso è il caso, che si verifica frequentemente di rinvio di norme giuridiche a norme tecniche: le quali però restano quello che
sono e valgono dunque per sé stesse, se ed in quanto se ne riscontri la verità.
Ma non vi sono solo leggi naturalistiche delle scienze della natura e delle scienze cosidette «esatte», e norme tecniche derivabili; le
moderne scienze della società si sforzano, infatti, di individuare nella fenomenologia sociale delle “costanti”, ossia delle relazioni
regolari e necessarie tra accadimenti diversi.
Ecco le cosidette “leggi sociali”, che non bisogna confondere con le «norme» sociali, configurandosi pur sempre come leggi di tipo
naturalistico (ma di un tipo naturalistico «attenuato»): previsioni di qualcosa che accadrà, e non necessità deontica che qualcosa
accada. Non sono mancati, tuttavia, tentativi di ridurre lo stesso concetto del diritto a mera previsione: si è detto, ad es., che la
sola definizione possibile della norma del diritto statale sarebbe la previsione attendibile che sarà osservata ed applicata come
norma di diritto. Pur respingendo queste concezioni estreme, non si potrebbe omettere di rilevare che esse racchiudono, tuttavia,
una giusta intuizione di certe difficoltà che talora si incontrano nella determinazione delle «fonti» e quanto al problema della
«effettività» dell’ordinamento. Si deve osservare che anche delle norme giuridiche importa talora riconoscere la reale efficacia: il
che vuol dire «verificare» storicamente se quei certi rapporti sociali si svolgano secondo leggi o regolarità esistenziali,
corrispondenti alla regolarità prescritta come doverosa dalle norme. Ed inversamente, ogni volta in cui si dice che la norma deriva
dal fatto, l’esistenza della norma si scopre attraverso un procedimento del tutto analogo a quello che conduce alla individuazione
di leggi sociali, in senso naturalistico: dalla constatazione e descrizione di un determinato modo di atteggiarsi della realtà sociale,
si argomenta cioè, la presenza di una norma, da valere come criterio per ulteriormente valutare fatti successivi, e che è altresi
criterio di valutazione di quello stesso fatto originario, da cui la norma è desunta. Leggi naturalistiche e norme, ordine esistenziale
e ordine normativo sembrano, allora, quasi confondersi tra loro.
3. Gli ordinamenti sociali come ordinamenti normativi. Socialità o statalità del diritto: la teoria della
pluralità degli ordinamenti giuridici
Ogni gruppo sociale, in tutto o in parte autorganizzantesi, è perciò un «ordinamento», nel duplice senso di complesso
di soggetti tra loro ordinati e di sistema regolatore della vita di relazione in cui il gruppo consiste e che in esso
ulteriormente si svolge. Ordinamenti siffatti sono ordinamenti giuridici, e giuridiche sono le regole o norme che
producono e nelle quali si manifesta il loro ordine interno. Si accoglie, così l’insegnamento delle dottrine che
riconoscono la pluralità degli ordinamenti giuridici e quindi la socialità del diritto (ubi homo ibi societas, ubi societàs
ibi jus), in contrapposto alla concezione tradizionale della statalità del diritto, che circoscrive il campo della
giuridicità ai soli ordinamenti statali e considera, per conseguenza, giuridiche le sole norme create o comunque
imposte e fatte valere da quel particolare tipo di ente sociale che si chiama modernamente lo Stato.
Le particolari caratteristiche dell’ordinamento statale possono influire, e concretamente influiscono, sull’efficacia
delle norme del diritto dello Stato, nel senso, ad es., che queste siano dotate del maggior grado storicamente
riscontrabile di efficacia, siano assistite da una forza di coercizione più intensa di altre, e via dicendo: ma siffatte
differenze rimangono sul piano quantitativo. Essendo lo Stato uno tra i possibili ordinamenti sociali, di natura
giuridica, identica natura non può non ravvisarsi negli altri ordinamenti sociali diversi dallo Stato.
Non è solo diritto, dunque, quello statale, ma si danno tanti sistemi di diritto quanti sono i gruppi sociali organizzati:
dal diritto internazionale, al diritto canonico, via via fino al diritto di un sindacato, di un partito politico, di un
qualsiasi circolo ricreativo o sportivo, per giungere al diritto di quelle che, secondo la valutazione fattane dal diritto
statale, sono associazioni a delinquere.
È il caso di sottolineare che anche la concezione statalistica è -a suo modo- pluralistica, poiché non disconosce di certo la
molteplicità degli ordinamenti statali nel tempo e nello spazio. Ciò che propriamente la differenzia dalla concezione che si suol
designare come «pluralistica» per antonomasia, cui qui si aderisce, è che, in quest’ultima, il pluralismo è politipico (rientrandovi i
più diversi ordinamenti), laddove il pluralismo insito nella prima è monotipico (riferendosi ai soli ordinamenti del tipo Stato).
4. La ricerca dei « caratteri differenziali » delle norme giuridiche dalle altre norme di condotta
Il motivo centrale delle più importanti correnti del moderno pensiero filosofico (da KANT in poi) sta nella distinzione,
che diviene spesso, anzi, radicale contrapposizione, tra morale e diritto; in questo secondo facendosi rientrare ogni
sorta di norme sociali, o addirittura qualunque specie di leggi o regole pratiche.
Così, quando si insiste sulla eteronomia del diritto, di contro alla autonomia della morale; sul carattere sempre
limitato, astratto e contingente delle valutazioni giuridiche, di contro all’assolutezza, universalità e concretezza della
valutazione morale, è chiaro che i contrassegni della giuridicità, lungi dall'essere esclusivamente propri del diritto
statale, ricorrono invece dovunque ci siano norme o regole di azione, astrattamente oggettivate e contrapposte al
concreto agire dei soggetti, ed insomma dovunque ci sia “sistema regolatore” della condotta umana. Non a caso,
infatti, si usa chiamare «legalistica» la morale precettistica (normativa), ritenendosi che, quando si traduce in una
serie di regole disciplinanti particolari e determinate situazioni, astrattamente tipizzate, l’etica perda la sua
universalità, per assumere forme e aspetti analoghi a quelli sotto cui ci si manifesta il diritto.
5. Segue: A ) Esteriorità
Secondo un’antica tradizione di pensiero, che si suole far risalire al THOMASIUS, quel che essenzialmente distingue il
diritto dalla morale è il carattere della “esteriorità”. Correttamente intesa, “esteriorità” significa:
a) che la norma giuridica, a differenza dalla legge morale, si configura come esterna al soggetto e contrapposta
alla sua volontà;
b) che la norma giuridica ha per suo primo e “naturale” oggetto l’azione, in quanto compiuta, “mai il volere un
fatto o un avvenimento”, e anche quando ha riguardo ai motivi del volere e in genere agli stati psichici del
soggetto, li assume in quanto oggettivati nell’azione ed esteriormente riconoscibili, e comunque sempre come
elementi e contrassegni dell’azione, suscettibili di caratterizzarla in uno o in altro modo.
In termini kantiani: il diritto si contenta di un’azione conforme al dovere, mentre la norma morale deve essere
ubbidita per sé stessa, con l’adesione interiore del soggetto.
Anche per lasciare al nostro discorso la massima capacità di espansione logica, senza ancorarlo a concezioni particolari, spesso
tra loro divergenti, si adopera una nomenclatura non impegnativa, quindi non rigorosa, ma sufficientemente indicativa dei
fenomeni che si espongono. «Diritto», «facoltà», «pretesa», «potere», come situazioni «di vantaggio», che dovrebbero rappresentare il
momento positivo o favorevole dell’asserito rapporto: senza dimenticare però che, nella dottrina, si è di volta in volta respinta la
figura della «pretesa», oppure quella della «facoltà»; si è ridotto il «diritto soggettivo» alla prima o alla seconda, ovvero lo si è
costruito come una combinazione di facoltà e pretesa, o lo si è invece identificato con il «potere»; e che la figura del «potere», nella
accezione qui accoltane, si colloca sopra un piano diverso. «Obbligo», «dovere», «onere», «soggezione», per esprimere invece il
momento negativo o passivo: ed anche qui, senza dimenticare che «dovere» ed «obbligo» sono, a volte, identificati tra loro, a volte
considerati come diversi, e che la figura dell’«onere» non è pacificamente ammessa.
A grandi linee, occorre distinguere due ipotesi:
A) Quando il dovere di un soggetto (per solito, una «pubblica autorità») è integrato da un obbligo di pretenderne l’adempimento
gravante sopra altro soggetto (anch’esso, una pubblica autorità), quel che certamente ricorre, in primo piano, è la figura della
sanzione o della garanzia: tra le due situazioni di dovere, e quindi anche tra i soggetti rispettivi, si costituisce, bensì, una relazione
giuridicamente ordinata, ma sarebbe tecnicamente improprio definirla un «rapporto giuridico».
B) Quando, invece, il meccanismo della garanzia sia rimesso alla «libera» iniziativa dell’interessato, e cioè la “possibilità di
pretendere” l’osservanza del dovere o l’adempimento dell’obbligo sia attribuita a titolo di facoltà o diritto, l'idea del “rapporto”
accenna veramente a prendere consistenza. Si tratterà, però, di regola, di un “rapporto” accessorio e secondario, che non
esaurisce l’intero fenomeno e non assorbe per intero, come proprio termine passivo o negativo, il dovere od obbligo primario del
pubblico ufficio, potendo questo sussistere anche da solo.
Diventa perciò questione di interpretazione del diritto positivo accertare se e quando ricorra l’uno o l’altro modo di relazione tra
doveri od obblighi di determinate autorità e «possibilità di pretendere» spettanti ad altri soggetti, pubblici o privati. Gli esempi
dell’ipotesi sopra riassunta alla lett. A) sono, nel nostro diritto pubblico, frequentissimi: obbligo di un’autorità amministrativa
superiore di sostituirsi a quella inferiore per il compimento di atti prescritti da legge, o di annullarne o riformarne gli atti contra
jus o viziati nel merito, quando lo richieda il pubblico interesse.
Un esempio dell’ipotesi sub B) dovrebbe rinvenirsi, almeno stando ad autorevoli e recenti indirizzi dottrinali, nel caso degli
«interessi legittimi» degli amministrati nei confronti dei doveri di condotta che le autorità amministrative sono tenute ad osservare
nell’esercizio delle loro funzioni.
I due gruppi di casi riassunti sub A) e sub B) possono d`altronde, talora, anche sovrapporsi. Al dovere (oppure, secondo altre
concezioni, all’onere) di un pubblico ufficio di emettere atti validi, conformandosi alle norme che ne regolano il procedimento e la
forma, può affiancarsi al tempo stesso cosi il dovere di annullamento di un ufficio superiore o di un organo di controllo, come
pure una possibilità di ricorso in sede di giurisdizione amministrativa attribuita a coloro che siano stati lesi in un loro interesse
legittimo dall’atto invalido.
Altro gruppo di casi è offerto, nel diritto costituzionale, dall'istituto dei « conflitti di attribuzione » tra Stato e Regioni o tra Regioni
nonché «tra i poteri dello Stato», ai quali sono da aggiungere i giudizi in via di azione che Stato e Regioni possono promuovere nei
confronti di leggi, rispettivamente regionali e statali, per incompetenza costituzionale. Enti ed organi, insomma, hanno azione
davanti alla Corte costituzionale per difendere l’integrità delle attribuzioni ad essi conferite da norme costituzionali, e perciò per
ottenere l’osservanza da parte dell’altro ente od organo delle norme che esso ha — comunque — il dovere di osservare
nell’esercizio delle sue funzioni. Cosi, se lo Stato emana una legge o adotta un provvedimento che sarebbe di spettanza di una
Regione, o t1ll’1nverso una Regione emana una legge o un provvedimento di spettanza dello Stato, c’è violazione di un dovere di
rispetto della competenza altrui, e conseguente invalidità; ma il far valere questa invalidità è rimesso alla iniziativa dell’ente
interessato,'e cioè o della Regione o dello Stato.
In tutti i casi richiamati, da un lato troviamo doveri che stanno di per sé, con carattere oggettivo; dall’altro troviamo tuttavia
anche una pretesa alla loro osservanza, che non si esaurisce sul piano processuale, non è, in altri termini, mera azione a difesa
dell’interesse generale oggettivo, ma presuppone una situazione soggettiva “favorevole” o “di vantaggio” e può implicare perciò la
sussistenza anche di un rapporto tra gli enti od organi contendenti.
Eppure, dopo tante critiche e confutazioni, deve riconoscersi che la tesi della bilateralità esprime, a suo modo, una
giusta intuizione del fenomeno giuridico. Come si è visto per la sanzione, anche la «bilateralità» ci rimanda dalla
singola norma all’ordinamento, e dallo schema formale delle norme ai loro possibili contenuti.
12. Relatività dei concetti «dommatici» di diritto (come norma e come ordinamento) e di «fonte» del diritto
Il concetto della pluralità degli ordinamenti giuridici trova il suo correttivo e il suo limite nel canone della “relatività
dei valori giuridici”: un medesimo fatto, uno stesso comportamento, possono ricadere nell’ambito di ordinamenti
diversi ed essere da ciascuno di questi valutati in modi e con effetti diversi, ed anche contrastanti. Quel che è lecito
per il diritto italiano, può essere illecito per il diritto di un altro Stato o per il diritto della Chiesa; quel che da noi è
vietato, può essere, all’inverso, obbligatoriamente prescritto dalle norme di un altro ordinamento.
Per le scienze giuridiche «dommatiche», quel che conta sono le valutazioni disposte dall’ordinamento considerato: è
ben possibile, ed anzi frequente, che, alla stregua di quest’ultimo, fenomeni cui sia da riconoscere natura di
ordinamenti giuridici, debbano invece ritenersi irrilevanti in quanto ordinamenti o addirittura qualificarsi
“antigiuridici”.
L’idoneità di un fatto a creare diritto è suscettibile di essere riconosciuta o negata da norme (le “norme sulle fonti”)
dell’ordinamento dato con il conseguente relativizzarsi della stessa figura della norma giuridica.
13. Segue: concetto logico-teoretico e concetto «dommatico» (o prescrittivo) delle “fonti del diritto”
Si parla a volte delle fonti per alludere al complesso dei fattori sociali, psicologici, economici, ideali, razionali, onde
nasce il diritto positivo; altre volte, più correttamente, per designare i fatti, in cui fenomenologicamente il diritto si
esprime, o, con maggior precisione ancora, le forme e i modi di produzione dei diritto (i fatti, cioè, “creativi di diritto”).
È quest’ultima l’accezione più pregnante e più esatta, perché scolpisce meglio di ogni altra il rapporto genetico che
unisce le norme giuridiche alle loro fonti evitando di far smarrire la differenza tra le fonti “di produzione” (che sono le
fonti vere e proprie) e le cosiddette fonti “di cognizione”: che non sono propriamente “fonti”, perché non producono
norme di diritto, ma servono alla loro conoscenza.
Quale che sia la nozione logico-teoretica delle fonti che si ritenga preferibile, sempre, comunque, si dovrà poi fare i
conti con il diritto positivo: poiché, da un lato, una parte soltanto dei fatti qualificabili in sede di logica astratta
normativi sono dal singolo ordinamento riconosciuti come proprie fonti; mentre d’altro lato, è anche possibile che un
determinato ordinamento assuma tra le proprie fonti fatti che, teoreticamente non sono normativi. Ecco, dunque,
che accanto al concetto logico-teoretico di fonte di diritto, trova posto il concetto delle fonti di un ordinamento
determinato: concetto, quindi, “prescrittivo” al pari di tutti i concetti della giurisprudenza dommatica, perché tratto
da quanto risulta positivamente stabilito (prescritto), anche se in modo implicito, dall’ordinamento considerato; e per
ciò stesso, concetto «storico-formale», perché privo di validità universale, ma relativo al singolo ordinamento in un
particolare momento del tempo, e persino in certa misura indipendente da considerazioni di sostanza.
Il concetto storico-formale, o prescrittivo, delle fonti di un ordinamento dato comprende soltanto quei fatti ed atti
giuridici, che l'ordinamento definisce tali legittimandoli a costituire il diritto oggettivo. E definendo le proprie fonti, ogni
ordinamento definisce, in fin dei conti, sé medesimo sotto l’aspetto normativo, stabilendo quali, tra le molte e
svariate disposizioni normative incessantemente prodotte nell’esperienza giuridica reale, siano da annoverarsi tra
quelle che lo compongono (e lo modificano) e dando perciò della norma giuridica (come “norma del diritto oggettivo
statale”) una configurazione, a sua volta, convenzionale e storicamente relativa anch’essa.
Nel quadro di un ordinamento dato, le fonti sono fatti ed atti “giuridici”, perché regolati da norme giuridiche, delle
quali costituiscono la “fattispecie”, al realizzarsi della quale è riconnessa la conseguenza dell’esserci le norme da essi
«prodotte»; abbandonando la prospettiva «dommatica» e collocandosi sopra un terreno di teoria generale la fonte da
intendersi fenomeno giuridico perché produce diritto, e non perché come tale regolata dal diritto).
In conclusione, sotto il profilo “dommatico” e cioè alla stregua di un ordinamento dato, per accertare se determinate
norme esistano come norme di diritto oggettivo, è necessario previamente accertare se siano state poste da fatti
legittimati dalla costituzione quali fonti del diritto stesso. Fonti e norme si determinano, cioè, in base ad un criterio
formale e legalistico sono o non sono tali, a secondo che cosi risulti disposto dalle norme costituzionali vigenti.