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Elisabetta Basso
Ecole normale supérieure de Lyon
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CIERA: Programme de Formation et recherche 2018: "Approches historiques et philosophiques des savoirs anthropologiques en psychiatrie. France et Allemagne, XIXe-
XXIe siècle" View project
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Basterà forse, a un lettore avveduto, scorrere i titoli dei saggi che qui si
offrono perché egli abbia subito chiaro quel che non troverà in nessu-
no di essi e neppure nella somma delle loro intenzioni: una presenta-
zione complessiva, quand’anche sommaria, dei motivi e delle questioni
teoriche che si affollano (talvolta in un reciproco intreccio, più spesso
in aperta rivalità) a comporre il campo problematico dell’apriori, do-
vrebbe toccare ancora altre aree tematiche, percorrere ben più lunghi
giri storici di quanto qui si sia inteso fare. A prescrivere questa limita-
zione hanno certo concorso, almeno in parte, le circostanze esteriori in
cui è venuto a formarsi questo volume, il quale deve meno a un calco-
lato disegno preliminare e più a certe contingenze che hanno coinvolto
(non sempre prevedibilmente) gli autori. Ma perché non sembri così
che il curatore voglia smarcarsi in certo modo delle proprie responsa-
bilità, dirò invece che qualcosa del campo problematico dell’apriori mi
pare farsi ben visibile in questi testi.
Anzitutto, è chiaro, nell’impegno e nella mira particolari di ciascu-
no di essi a presentare ogni volta una specifica fisionomia della doman-
da sull’apriori. Ma poi, anche, nel gioco di rimandi e possibili intrecci
che si apre tra queste differenti declinazioni al loro semplice accosta-
mento. E di qui, l’inevitabile diversità delle prospettive che reggono
questi studi – diversità che è anzitutto quella delle tradizioni fi loso-
fiche a cui ogni testo attinge, ma anche, ovviamente, dalle vedute e
dello stile particolare di chi scrive – potrà offrire più di uno spunto a
cercarne collegamenti e incroci eventuali. Senza voler in alcun modo
ipotecare anticipatamente la lettura dei testi, credo però che una certa
complessa trama teorica potrebbe ben collegare il carattere “strumen-
tale” e “orientativo” dell’apriori nella psichiatria fenomenologica (“filo
ipotecata da percorsi riflessivi che ci stanno ormai alle spalle, per rico-
noscervi invece un luogo problematico che non cessa di mandarci ap-
pelli a cui dobbiamo ancora più di una risposta. Ma viene anche il sug-
gerimento che lo spazio teorico in cui dovremo anzitutto cercare queste
risposte si apra proprio nei margini tra le tante figure che il concetto di
apriori ha storicamente assunto e sollecitato, e sul filo di quella trama
che potrebbe infine collegarne le declinazioni diverse e irriducibili.
Luca Bisin
1
W. BLANKENBURG, Der Verlust der natürlichen Selbstverständlichkeit. Ein Bei-
trag zur Psychopathologie symptomarmer Schizophrenien, F. Enke, Stuttgart 1971,
tr. it. di F.M. Ferro e R.M. Salerno, La perdita dell’evidenza naturale. Un contribu-
to alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche, Raffaello Cortina, Mila-
no 1998, pp. 107-108 (corsivi nostri).
volta posto a problema nella forma della sua relazione con un “sog-
getto” che si ritiene definibile solo a partire da questa relazione stessa,
finirà per trovare la propria formulazione più adeguata nel concetto
fenomenologico di “mondo”. Più precisamente, è nel momento in cui
quel “legame con l’ambiente” di cui tratta tradizionalmente la biologia
viene avvertito e tematizzato in termini di sofferenza – o, per usare le
parole del malato di Blankenburg, di «mancanza», di «perdita» – che,
tanto il concetto naturalistico di “Umwelt” inteso come “mondo ex-
tra-soggettivo”, quanto quello filosofico-gnoseologico di “realtà” a esso
collegato finiscono per rivelarsi impotenti di fronte a quella relazione
eminentemente antropologica che è la malattia, e nella fattispecie la
malattia mentale. Sarà pertanto necessario sostituire all’impianto dua-
listico che fa da sfondo al “legame” di “soggetto” e “oggetto”, “inter-
no” ed “esterno”, “uomo” e “ambiente”…, una concettualità che sappia
finalmente rendere conto di quella «coincidenza totale della malattia e
del malato» – per dirla con Georges Canguilhem2 – attraverso la quale
si esplicita la «nostra situazione nel mondo»3, il nostro «dimorare nella
realtà»4. Ed è precisamente con questo intento che la psichiatria di cui
ci andiamo occupando mutuerà dalla tradizione fenomenologica – e,
come vedremo, più in particolare da quella heideggeriana – il concetto
di Dasein, di “essere-nel-mondo”.
Per chiarire tale passaggio, ci serviremo ancora una volta del testo
di Blankenburg dal quale siamo partiti e che per l’occasione abbiamo
scelto di prendere ad esempio:
2
G. CANGUILHEM, Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le patho-
logique, La Montagne, Clermont-Ferrand 1943; poi Le normal et le pathologique,
Presses Universitaires de France, Paris 1966 (200510), tr. it. di D. Buzzolan, Il nor-
male e il patologico, Einaudi, Torino 1998, p. 72. Su questo punto, si veda inoltre:
W. JACOB, Être-malade et maladie, in P. FÉDIDA - J. SCHOTTE (a cura di), Psychiatrie
et existence, “Décade de Cerisy, septembre 1989”, Millon, Grenoble 1991 (20073),
pp. 219-230.
3
G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico, cit., p. 135.
4
W. BLANKENBURG, La perdita dell’evidenza naturale, cit., p. 112.
10
5
Ivi, p. 108 (corsivi nostri).
6
Si tratta di espressioni che Blankenburg utilizza costantemente nel corso del-
le sue analisi: cfr. ivi, rispettivamente a pp. 67, 95 e a pp. 1, 26, 28, 67, 83, 84, 95,
150, 162, 163.
7
Cfr. ivi, p. 112.
8
Ivi, p. 107.
9
Ivi, p. 39, o «pre-intenzionale», p. 140.
10
Cfr. L. BINSWANGER, Über Ideenflucht, “Schweizer Archiv für Neurologie
und Psychiatrie”, 27, 2 (1932), pp. 203-217; 28, 1-2 (1932), pp. 18-26, 183-202; 29,
1 (1932), pp. 193 ss.; 30, 1 (1933), pp. 68-85; poi in volume, Orel Füssli, Zürich
1933 (ripr. facsim. Garland, New York 1980); poi in ID., Ausgewählte Werke, vol.
11
12
13
Ivi, p. 20: «L’antropoanalisi non formula tesi ontologiche circa un rapporto
modale che determini l’esserci, ma soltanto degli enunciati ontici: enunciati cioè
su constatazioni fattuali circa le forme e le configurazioni [Gestalten] della presen-
za, quali si presentano nella loro fatticità»; p. 25: «“Mondo” non significa soltanto
formazione di mondo, preliminare progetto di mondo, ma anche, in forza di que-
sto pre-ordinamento, di questa pre-formazione, il “come” dell’essere-nel-mondo e
dell’atteggiamento verso il mondo».
14
W. BLANKENBURG, La perdita dell’evidenza naturale, cit., p. 25.
15
L. BINSWANGER, Sulla fuga delle idee, cit., p. 194 (corsivi nostri).
13
14
15
16
27
R. KUHN - H. MALDINEY, Préface a L. BINSWANGER, Introduction à l’analyse
existentielle, tr. fr. di J. Verdeaux e R. Kuhn, Les Éditions de Minuit, Paris 1971,
pp. 7-24; ora in R. KUHN, Écrits sur l’analyse existentielle, a cura di J.-C. Marceau,
L’Harmattan, Paris 2007, pp. 57-82, p. 81.
28
E. MINKOWSKI, Phénoménologie et analyse existentielle en psychopathologie,
“L’Évolution Psychiatrique”, fasc. 1 (1948), pp. 137-185; poi in ID., Écrits cliniques,
textes rassemblés par Bernard Granger, Erès, Ramonville-Saint-Agne 2002, pp.
95-138, p. 100: «Lorsque je me familiarisais avec la pensée de Husserl, […] le bien
fondé du besoin de se libérer de tous les préjugés, de toutes les conceptions scien-
tifiques, de toutes les constructions qui venaient s’interposer entre notre regard et
les phénomènes eux-mêmes, en manquant leur essence, ne faisait que s’imposer
d’une manière impérieuse»; p. 101: «Lorsqu’il est question de phénoménologie en
17
psychopathologie, ce qui importe, c’est l’attitude que nous adoptons à l’égard des
faits en présence desquels nous sommes placés. C’est ce que nous pouvons appeler
l’attitude ou l’acte phénoménologique»; p. 104: «L’effort phénoménologique, cen-
tré sur les caractères essentiels, ne dépend nullement du nombre des cas exami-
nés. Par là il se sépare de toute statistique de même que de la méthode empirique
au sens courant du terme». p. 105: «Ce n’est pas tant à l’individuel en tant que
cas singulier que nous opposons le commun et le général, qu’à l’individuel en ce
qu’il a de contingent, de variable et d’inconstant nous opposons l’essentiel qui le
dépasse et le porte en même temps».
29
R. KUHN, Existence et psychiatrie, in P. FÉDIDA - J. SCHOTTE (a cura di), Psy-
chiatrie et existence, cit., pp. 47-67; poi in R. KUHN, Écrits sur l’analyse existentielle,
cit., pp. 201-232, p. 230 (tr. nostra).
30
E. MINKOWSKI, Phénoménologie et analyse existentielle en psychopathologie,
cit., p. 105: «Ce n’est pas tant à l’individuel en tant que cas singulier que nous
opposons le commun et le général, qu’à l’individuel en ce qu’il a de contingent,
de variable et d’inconstant nous opposons l’essentiel qui le dépasse et le porte en
même temps».
18
31
Non a caso, Minkowski intitolerà uno dei suoi interventi: Le notions bleu-
lériennes: voie d’accès aux analyses phénoménologiques et existentielles, rapporto
presentato al Congresso di Zurigo (1957), co-relatori: L. Binswanger e Van der
Horst, “Annales Médico-Psychologiques”, 15, 2 (1957), pp. 833-844; ripreso in ID.,
Au de-là du rationalisme morbide, L’Harmattan, Paris 1997, pp. 141-151. Si tratta
di una convinzione, tuttavia, che è chiara a Minkowski sin dagli anni venti. A
questo proposito, si vedano in particolare: E. MINKOWSKI, La genèse de la notion
de schizophrénie et ses caractères essentiels. (Une page d’histoire contemporaine de la
psychiatrie, “L’Évolution Psychiatrique”, 1 (1925), pp. 193-236; ID., La schizophré-
nie. Psycopatologie des schizoïdes et des schizophrènes, Payot, Paris 1927 (nuova ed.
Desclée de Brouwer, 1953; Payot, 19973), tr. it di G. Ferri Terzian e A.M. Farcito,
La schizofrenia. Psicopatologia degli schizoidi e degli schizofrenici, Einaudi, Torino
1998. Ma si veda inoltre: E. MINKOWSKI, Étude psychologique et analyse phénomé-
nologique d’un cas de mélancolie schizophrénique, “Journal de Psychologie Norma-
le et Pathologique”, 20 (1923), pp. 543-558, tr. it. di P. Caruso, Studio psicologico
e analisi fenomenologica di un caso di melanconia schizofrenica, in E. MINKOWSKI
- E.W. STRAUS - V.E. VON GEBSATTEL, Antropologia e psicopatologia, a cura di D.
Cargnello, Bompiani, Milano 1967: non sarà forse superfluo sottolineare come
quest’ultimo testo fosse stato concepito da Minkowski in occasione della 63° Ses-
sione della Società Svizzera di Psichiatria a Zurigo (1922), la stessa che vide Bin-
swanger impegnato nel suo intervento Sulla fenomenologia, cit.
32
Cfr. E. MINKOWSKI, Phénoménologie et analyse existentielle en psychopatholo-
gie, cit., p. 133 e ID., Psychiatrie et métaphysique. A la recherche de l’humain et du
vécu, “Revue de Métaphysique et de Morale”, 52 (1947), pp. 333-358, tr. it. a cura
di M. Francioni, Psichiatria e metafisica. Alla ricerca dell’umano e del vissuto, in
ID., Filosofia, semantica, psicopatologia, Mursia, Milano 1969, pp. 39-66, p. 53.
19
33
È particolarmente esplicito, a tal proposito, il modo in cui Minkowski conce-
pisce il polo “mondano” del suo concetto di “contatto vitale con la realtà”: cfr. ID.,
La schizofrenia p. 98: «“Realtà” è lungi dall’essere sempre sinonimo di “mondo
esterno”»; e ID., Vers une cosmologie. Fragments philosophiques, Montaigne, Paris
1936 (Aubier-Montaigne, 1967; ripr. fac-sim., Payot & Rivages, Paris 1999, présen-
tation de Jacques Chazaud), tr. it di D. Tarizzo, Verso una cosmologia: frammenti
filosofici, Einaudi, Torino 2005, pp. 169-170: «L’ambiente non deve essere confuso
con quello che, parlando di percezioni, defi niamo il “mondo esterno”, e dunque
non va scomposto in “elementi”. Va preso semmai come un tutto immenso e vi-
vente, nel quale solo in seguito l’uomo riesce a discernere – grazie ai procedimenti
analitici di cui dispone – certi esseri viventi, certi oggetti, e magari persino dei
fattori di eccitamento fisiologico».
34
ID., Phénoménologie et analyse existentielle en psychopathologie, cit. p. 133:
«L’analyse existentielle […] semble non seulement confirmer le principe du dou-
ble aspect mis en relief antérieurement, mais encore devoir étendre son champ
d’application».
20
35
Su questo tema, si veda A. TATOSSIAN, Eugène Minkowski ou l’occasion man-
quée, in P. FÉDIDA - J. SCHOTTE (a cura di), Psychiatrie et existence, cit., pp. 11-23,
che mostra appunto come l’indagine psichiatrica di Minkowski «non comporti la
riduzione fenomenologica e sia esente da qualsivoglia forma di orientazione tra-
scendentale» (p. 19; tr. nostra).
36
In questo senso, per parte nostra non possiamo che appoggiare l’espressione
di S. Valdinoci, che – nel qualificare la specificità del «trascendentale» psichiatri-
co rispetto a quello della tradizione fi losofica – ne parla in termini di dispositivo:
cfr. S. VALDINOCI, Un transcendantal d’existence en psychiatrie, in J.-F. COURTINE (a
cura di), Figures de la subjectivité. Approches phénoménologiques et psychiatriques,
Éditions du CNRS, Paris 1992, pp. 91-102 (p. 98).
37
W. BLANKENBURG, La perdita dell’evidenza naturale, cit., p. 19 (corsivi nostri).
Una prospettiva analoga è presentata anche da U. GALIMBERTI, Psichiatria e feno-
menologia, Feltrinelli, Milano 1979 (nuova ed. 2006; cfr. in particolare il § 7: La
«psicologia comprensiva» di Jaspers e le sue applicazioni in psicopatologia), che per
questa ragione defi nisce l’apriori psichiatrico – per distinguerlo dal trascenden-
tale fi losofico come forma pura, o ontologica – in termini di apriori esistenziale.
21
22
tutto ciò che noi definiamo come angoscia», ma debba piuttosto cerca-
re «un eidos riferito all’angoscia melanconica inteso come modello per
ogni possibile concreta attuazione di tutto ciò che ci appare come ango-
scia melanconica»41, Binswanger sottolinea il carattere essenzialmente
architettonico-strutturale dell’apriori psichiatrico e quindi la sua va-
lenza diagnostica, ovvero clinica. La guarigione da una patologia, infat-
ti, non ha nulla a che vedere con un’«autenticità» fondata «sullo sfondo
ontologico dell’essere esposto al nulla dell’angoscia»42, ma va riportata
a quella sorta di «esperimento della natura»43 che sono le «differenze
di costituzione del mondo degli alienati», delle differenze concernenti
la «“trama” dei “fili” delle funzioni trascendentali»44 che costituiscono
l’esperienza. Ma, a ben vedere, non era una posizione analoga quella
che veniva espressa dalla Daseinsanalyse allorché essa sceglieva di ri-
farsi all’ontologia heideggeriana del Dasein per scovare quei «momenti
costitutivi strutturali a priori»45 che definiscono la costituzione del chi
41
ID., Melanconia e mania, cit., p. 60 (corsivi nostri). Binswanger torna sul mo-
tivo della sua presa di distanza da Heidegger anche nella Premessa al suo Wahn,
Beiträge zu seiner phaenomenologischen und daseinsanalytischen Erforschung, Ne-
ske, Pfullingen 1965, pp. 107-132, tr. it. di G. Giacometti, Delirio. Antropoanalisi
e fenomenologia, ed. a cura di E. Borgna, Marsilio, Venezia 1990, pp. 73-90, p. 5:
«Se da un lato posso apprezzare sempre di più l’ontologia di Heidegger nel suo
significato puramente fi losofico, dall’altro, tuttavia, la distinguo sempre di più
dalla sua «applicazione» alla scienza, anche a quella della psichiatria. Sotto que-
sto aspetto ha acquistato invece per me sempre maggior rilievo la dottrina della
coscienza trascendentale di Husserl».
42
Ivi, p. 59.
43
Ivi, p. 21.
44
Ivi, p. 71 (corsivo nostro).
45
È emblematico, d’altronde, che Binswanger – pur nel suo approfondimen-
to della Daseinsanalyse in direzione husserliana – continui a trattare delle forme
patologiche dell’esistenza a partire dall’analisi dei momenti strutturali costitutivi
che le articolano: cfr. ID., Melanconia e mania, cit., pp. 19-20: «L’indagine fenome-
nologica e analitico-esistenziale in psichiatria non può ritenersi affatto conclusa
con la sola descrizione degli aspetti caratteristici dei “mondi” dei malati e della
“struttura antropologica” delle “forme di esistenza” contemplate dalla psichia-
tria, come a suo tempo mi sono espresso. Bisogna, invece, oltre a ciò, esaminare la
peculiarità di questi mondi nel loro costituirsi, in altre parole, studiarne i momenti
strutturali costitutivi e chiarirne le reciproche differenze costitutive».
23
e del come del malato nel suo mondo?46 Il ruolo dell’ontologia per la
ricerca psichiatrica – come spiegava Binswanger già nel suo articolo del
1931 su E. Straus – non rivendica le prerogative di un’interrogazione
filosofica radicale, «fondamentale» nel senso prettamente heideggeria-
no del termine, ma assume la valenza di un’opposizione a un’indagine
sulla «relazione» di uomo e mondo che intenda partire tanto dal pun-
to di vista positivo-scientifico, quanto da quello della «logica» e della
«teoria della conoscenza»47. L’«ontologia» messa in campo dall’analisi
esistenziale, dunque, ha sempre avuto il valore di una diagnosi «erme-
neutico-pratica»48, ed è precisamente questo che Binswanger afferma
implicitamente anche all’inizio degli anni sessanta – malgrado il suo
esplicito distanziarsi da Heidegger – allorché sostiene di aver «sempre
preso le mosse dall’ontologia heideggeriana, anche in questo scritto,
dove intendo descrivere le malattie mentali nella loro essenza»49.
46
ID., Der Fall Ellen West. Eine anthropologisch-klinische Studie, “Schweizer
Archiv für Neurologie und Psychiatrie”, 53 (1944), pp. 255-277; 54 (1944), pp.
69-117, 330-360; 55 (1945), pp. 16-40; poi in ID., Schizophrenie, Neske, Pfullingen
1957, studio n. 2, tr. it. di C. Mainoldi, Il caso di Ellen West, SE, Milano 2001, p.
59: «Impostiamo il problema delle forme della presenza muovendo dalle forme
del mondo in cui essa “vive”. Poiché “mondo” significa sempre non soltanto il che
cosa entro cui una presenza esiste, ma al tempo stesso il come e il chi del suo esi-
stere, le forme del come e del chi, dell’essere-in e dell’essere-se-stesso [Selbstsein]
risultano “spontaneamente” dalla caratterizzazione dei mondi in cui una tale esi-
stenza si svolge» (corsivi nostri).
47
ID., Geschehnis und Erlebnis, “Monatsschrift für Psychiatrie und Neurolo-
gie”, 80, 5, 6 (1931), pp. 243-273; poi in ID., Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, vol.
II: Zur Problematik der psychiatrischen Forschung und zum Problem der Psychiatrie,
Francke, Bern 1955; e in ID., Ausgewählte Werke (1994), cit., vol. III, pp. 179-203,
tr. it. di E. Filippini, Accadimento ed Erlebnis, in ID., Per un’antropologia fenome-
nologica, cit., pp. 303-330, p. 312.
48
Cfr. ID., Lebensfunktion und innere Lebensgeschichte, in «Monatsschrift für
Psychiatrie und Neurologie», 68 (1928), pp. 52-79; ora in Ausgewählte Werke, vol.
III: Vorträge und Aufsätze, cit. (1994), pp. 71-94, tr. it. di E. Filippini, Funzione di vita
e storia della vita interiore, in Per un’antropologia fenomenologica, cit., pp. 39-64.
49
ID., Melanconia e mania, cit., p. 17 (corsivi nostri). Non possiamo quindi
che trovarci d’accordo con R. De Monticelli, quando afferma che vi sarebbe uno
«stretto legame fra l’eredità husserliana in Binswanger e la sua correzione-integra-
zione dell’analitica esistenziale heideggeriana» [cfr. Binswanger et le pari de la phé-
noménologie psychiatrique, “Les Études Philosophiques”, 1-2 (1994), pp. 215-231;
24
poi come Amore e cura, in ID., L’ascesi filosofica. Studi sul temperamento platonico,
Feltrinelli, Milano 1995, cap. 7, pp. 152-168, p. 157]. Più radicalmente, qualcuno
sostiene invece che nel testo di Binswanger il “verbo” heideggeriano non sarebbe
che mera retorica, mentre la sostanza del discorso resterebbe husserliana [cfr. S.
VALDINOCI, Binswanger: une Métaphysique de la psychiatrie, in P. FÉDIDA (a cura di),
Phénoménologie, psychiatrie, psychanalyse, Echos-Centurion, Paris 1986 (Le Cer-
cle Herméneutique, Paris 2004) pp. 141-152; e ID., Une psychiatrie essentielle, in P.
FÉDIDA - J. SCHOTTE (a cura di), Psychiatrie et existence, cit., pp. 109-116, p. 111].
50
W. BLANKENBURG, La perdita dell’evidenza naturale, cit., p. 22: «Il termine
[ontologia] non denota qui una sorta di scienza dogmatica dell’essere. Al contra-
rio, ontologia fenomenologica significa, coerentemente con il suo senso metodolo-
gico, la liquidazione di ogni posizione dogmatica circa l’essere» (corsivo nostro).
51
Ivi, p. 21.
52
M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer Verlag, Halle 1927 (200118); poi in
ID., Gesamtausgabe, vol. II, a cura di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frank-
furt a.M. 1977, tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Utet, Torino 1969 (nuova ed. a
cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005), p. 47: «Ma si potrebbe obiettare che
si tratta di una massima [“Verso le cose stesse!”] chiaramente ovvia […]: non
25
26
85, p. 16 (poi edito singolarmente a cura di F. Polidori, Il sogno, tr. it. di M. Colò,
Cortina, Milano 2003).
55
H. MALDINEY, Comprendre, “Revue de Métaphysique et de Morale”, 66, 1-2
(1961), pp. 35-89; poi in ID., Regard, parole, espace, L’Age d’homme, Lausanne
1973 (1994), pp. 27-86, tr. it. di F. Leoni, Comprendere, in Pensare l’uomo e la fol-
lia: alla luce dell’analisi esistenziale e dell’analisi del destino, Einaudi, Torino 2007,
pp. 133-204 (pp. 197-198).
56
Cfr. ivi, p. 193: «Muovendosi esclusivamente tra le forme dell’In-der-Welt-
sein, l’analisi della presenza mette a nudo strutture e fondazioni molto diverse
da quelle individuate dall’analisi della psiche. […] Alle diverse strutture della
presenza, che esprimono, tutte, l’esistenziale di quella presenza in quanto essere
nel mondo, corrispondono altrettanti modi di abitare il mondo. […] Non è nostra
intenzione proporre una classificazione dei fenomeni espressivi; esposta com’è al
rischio dell’apriori» (tr. parzialmente modificata rispetto a quella di Leoni; cor-
sivo nostro).
57
H. MALDINEY, Psychose et présence, “Revue de Métaphysique et de Mora-
le”, 81, 4 (1976), pp. 513-565; poi in ID., Penser l’homme et la folie. A la lumière
de l’analyse existentielle et de l’analyse du destin, Jérôme Millon, Grenoble 1991
(19972), pp. 5-82, tr. it. di F. Leoni, Psicosi e presenza, in Pensare l’uomo e la follia:
alla luce dell’analisi esistenziale e dell’analisi del destino, cit., pp. 133-204, pp. 4-5.
27
28
61
ID., Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945 (195211), tr. it.
di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965 (19803;
Bompiani, Milano 2003), p. 492 (corsivo nostro). Si tratta di una direzione di ri-
cerca che non sfugge a Lantéri-Laura, che si sofferma – come appunto Merleau-
Ponty prima di lui – sul valore che la Gestalttheorie avrebbe rivestito per la ricerca
psicologica, nella misura in cui essa «ne prétend pas se situer hors du monde et
ne cherche pas à déterminer l’activité du sujet transcendantal», giacché «l’on ne
peut parler du sujet avant d’avoir décrit le champ perceptif» (La psychiatrie phé-
noménologique, cit., p. 177).
62
Ivi, p. 191: «Lo studio di un caso patologico ci ha dunque permesso di scor-
gere un nuovo modo di analisi – l’analisi esistenziale – che supera le alternative
classiche fra l’empirismo e l’intellettualismo, fra la spiegazione e la riflessione»; p.
234: «L’esistenza non è un ordine di “fatti” (come i fatti “psichici”) che si possa
ridurre ad altri o al quale si possano ridurre questi ultimi, ma l’ambito equivoco
della loro comunicazione».
63
Ivi, p. 400: «La mia inerenza a un punto di vista rende possibile la fi nitezza
della mia percezione e in pari tempo la sua apertura al mondo totale come oriz-
zonte di ogni percezione».
64
Cfr. ID., La structure du comportement, Presses Universitaires de France, Pa-
ris 1942 (19778; «Quadrige», 20022), tr. it. di G. Neri, La struttura del comporta-
mento, Bompiani, Milano 1963 (19702).
65
ID., Le métaphysique dans l’homme, “Revue de Métaphysique et de Morale”,
52 (1947), pp. 290-307; ripubblicato poi, con qualche modifica, in ID., Sens et non-
29
sens, Nagel, Paris 1948 (19666; Gallimard, Paris 1996, pp. 102-119), tr. it. di P. Ca-
ruso, Il metafisico nell’uomo, in ID., Senso e non-senso, Il Saggiatore, Milano 1962;
2004, pp. 107-121, p. 116.
66
L. BINSWANGER, Il caso Suzanne Urban, cit., p. 142: «“Percevoir – dice molto
bene Merleau-Ponty – c’est engager d’un seul coup tout un avenir d’expériences
dans un présent qui ne le garantit jamais à la rigueur. C’est croire à un monde”»;
«ora, anche i nostri malati credono in un mondo, anch’essi impegnano in un col-
po solo un intero futuro di esperienze in un presente, ma con la differenza che
questo presente cela già in se stesso ossia garantisce il futuro “in modo incon-
dizionato”. Lo spazio dell’esserci è a questo punto così angusto che non c’è più
“posto” né “tempo” per nuove esperienze dirette a controllare quella garanzia»
(il passaggio citato da Binswanger si trova in Fenomenologia della percezione, cit.,
p. 350; corsivo nostro).
67
M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, cit., p. 105.
68
ID., La struttura del comportamento, p. 204.
30
69
ID., Il metafisico nell’uomo, cit., p. 110.
70
Ivi, p. 116 «Le scienze dell’uomo, nel loro orientamento presente, sono meta-
fisiche o transnaturali nel senso che ci fanno riscoprire, con la struttura e la com-
prensione delle strutture, una dimensione d’essere e un tipo di conoscenza che
l’uomo dimentica nell’atteggiamento che gli è naturale. Ci è naturale di crederci
in presenza d’un mondo e d’un tempo che il nostro pensiero sorvola e di cui può a
volontà considerare ogni parte senza modificarne la natura oggettiva. La scienza,
al suo inizio, riprende e sistematizza tale credenza. Sottintende sempre un osser-
vatore assoluto in cui si faccia la somma dei punti di vista, e correlativamente una
geometria di tutte le prospettive».
71
Sul concetto weizsäckeriano di «atto biologico» come «genesi di forma», si
veda in particolare H. MALDINEY, L’existence en question dans la dépression et dans
la mélancolie, “L’Évolution Psychiatrique”, 54, 3 (1989), pp. 571-594; poi in ID.,
Penser l’homme et la folie, cit., pp. 83-115.
72
K. GOLDSTEIN, Der Aufbau des Organismus. Einführung in die Biologie unter
besonderer Berücksichtigung der Erfahrungen am kranken Menschen, M. Nijhoff,
Den Haag 1934.
73
M. MERLEAU-PONTY, Il metafisico nell’uomo, cit., p. 108.
31
74
L. BINSWANGER, L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, cit., p. 39. Il nome
del neurologo tedesco è costantemente presente anche nel saggio binswangeriano
Sulla fuga delle idee, cit.
75
M. HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., § 3, p. 26.
76
V. VON WEIZSÄCKER, Der Gestaltkreis: Theorie der Einheit von Wahrnehmen
und Bewegen, G. Thieme, Leipzig 1940 (G. Thieme, Stuttgart 19484); poi in Ge-
sammelte Schriften, ed. a cura di D. Janz, W. Rimpau, W. Schindler, P. Achilles,
M. Kütemeyer, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, tr. it. a cura di A. Masullo, La
struttura ciclomorfa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p. 247.
32
tratteggiata da Erwin Straus nel suo Vom Sinn der Sinne 77 – ma che
allo stesso tempo non ne ascrive le prerogative ultime alla forma vuota
di una soggettività trascendentale né tanto meno a un fondamento di
carattere ontologico-teoretico. È proprio per questo, d’altronde, che
Minkowski proporrà di sostituire al concetto heideggeriano di «esse-
re-nel-mondo» quello di «divenire nel mondo, o meglio, col mondo»78,
a significare l’insufficienza di un approccio filosofico che concepisca il
Dasein a prescindere dal suo carattere vitale 79. Ciò che deriva da una
tale impostazione, pertanto, è precisamente un apriori inteso come leg-
ge immanente di quella stessa realtà che esso intende spiegare, e non c’è
da stupirsi, allora, se è a questa forma «fenomenologica» della biologia
77
E.W. STRAUS, Vom Sinn der Sinne: ein Beitrag zur Grundlegung der Psycholo-
gie, Springer, Berlin 1931 (19562), pp. 10 ss.
78
E. MINKOWSKI, Le contact humain, “Revue de Métaphysique et de Morale”,
55, 2 (1950), pp. 113-127; poi in ID., Écrits cliniques, cit., pp. 139-156, tr. it. a cura di
M. Francioni, Il contatto umano, in ID., Filosofia, semantica, psicopatologia, cit., pp.
97- 112, p. 99. E H. Maldiney gli farà eco, nel suo saggio su L’existence en question
dans la dépression et dans la mélancolie, cit., p. 107: «Sentir ce n’est pas recueillir
des sensations: c’est sentir soi “et” le monde, soi “avec” le monde». È interessante
notare, peraltro, come a partire dalla distinzione di Straus Maldiney giunga a de-
lineare la sua originale concezione della presenza come transpassibilità, che pur-
troppo, in questo frangente, non abbiamo lo spazio per approfondire.
79
Cfr. E.W. STRAUS, Vom Sinn der Sinne, cit., p. 336. Straus giungerà pertanto
alla conclusione che il suo modo di concepire l’«essere-nel-mondo» non possa
essere inteso secondo l’accezione heideggeriana: cfr. ivi, nota 1, p. 373. È inte-
ressante notare come, a questo proposito, Straus citi in suo appoggio Binswan-
ger, che – nel suo Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins [Niehans,
Zürich 1942 (Reinhardt, München-Basel 19735), p. 471], avrebbe trattato l’esi-
stenza – nel senso ontologico heideggeriano – come un caso-limite antropologi-
co inaccessibile. Come esempio di tale caratterizzazione biologico-fenomenolo-
gica del concetto di Dasein, rimandiamo a R. KUHN, L’errance comme problème
psychopathologique ou déménager, in AA.VV., Présent à Henri Maldiney, l’Age
d’Homme, Lausanne 1973, pp. 111-131; poi in ID., Écrits sur l’analyse existentiel-
les, cit., pp. 83-110, p. 87: «Habiter ne veut pas simplement dire se trouver tou-
jours au même endroit et y demeurer, mais désigne une structure complexe de
la présence. Comme telle, elle renvoie à la relation de l’homme au monde. C’est
ce qu’implique, par exemple chez K. Goldstein, le concept d’organisme qui com-
prend l’homme avec son Umwelt. C’est aussi ce que V. v. Weizsäcker décrit dans
“le Cycle de la Forme” comme “cohérence”, c’est-à-dire comme l’unité du mou-
vement vivant et du monde perçu».
33
80
Sulla caratterizzazione non-kantiana dell’apriori di Weizsäcker, in particola-
re, rimandiamo all’Introduzione che P.A. Masullo antepone alla tr. italiana de La
struttura ciclomorfa, cit., pp. XI-XLIV (in particolare pp. XXXIX-XL). Ma si veda
anche: P.A. MASULLO, Patosofia. L’antropologia relazionale di Viktor von Weizsä-
cker, Guerini e Associati, Milano 1992, in particolare cap. 1, § 2: La concezione
biologica di Weizsäcker: cambiamento dei fondamenti epistemologici della biologia.
Nuova fisica e nuova biologia, pp. 34-44.
81
A questo proposito, si veda l’interessante critica che – a partire da Erwin
Straus – Georges Thinès (L’œuvre critique d’Erwin Straus et la phénoménologie, in
P. FÉDIDA - J. SCHOTTE, a cura di, Psychiatrie et existence, cit., pp. 79-93) muove al
«realismo ipotetico» di Konrad Lorenz: cfr K. LORENZ, Die Rückseite des Spiegels.
Versuch einer Naturgeschichte menschlichen Erkennens, R. Piper & Co., München
1973, tr. it. di C. Beltramo Ceppi, L’altra faccia dello specchio. Per una storia natura-
le della conoscenza, Adelphi, Milano 1974 (20026), p. 26: «Tutto ciò che noi uomini
sappiamo sul mondo reale deriva da meccanismi di informazione di origine fi loge-
netica, che ci comunicano elementi rilevanti dell’ambiente; essi sono costruiti in
modo molto più complesso, ma secondo gli stessi principi di quelli che scatenano
la reazione di fuga nel paramecio. […] Le nostre aspirazioni, per quanto riguarda
la speranza di comprendere il senso e i valori ultimi di questo mondo, sono mol-
to modeste. Invece teniamo molto, irremovibilmente, alla nostra convinzione che
tutto ciò che ci viene segnalato dal nostro apparato conoscitivo corrisponda a dati
di fatto reali del mondo extrasoggettivo. Questa posizione gnoseologica deriva dal
sapere che il nostro apparato conoscitivo stesso è un elemento del mondo reale,
il quale, proprio contrapponendosi e adattandosi a elementi altrettanto reali, ha
raggiunto la propria forma attuale» (corsivi nostri).
34
35
36
88
ID., Événement et psychose, in ID., Penser l’homme et la folie, cit., pp. 251-294,
p. 283; poi in J.-F. COURTINE (a cura di), Figures de la subjectivité. Approches phé-
noménologiques et psychiatriques, Centre National de la Recherche Scientifique,
Paris 1992, pp. 119-145, tr. it. di F. Leoni, Evento e psicosi, in Pensare l’uomo e la
follia, cit., pp. 95-131, p. 122.
89
ID., Psicosi e presenza, cit., p. 5.
90
L. BINSWANGER, Tre forme di esistenza mancata, cit., p. 187.
91
Ivi, p. 102 (corsivo nostro).
92
Cfr. ivi, p. 94: «È evidente quindi […] come la riuscita della vita umana di-
penda da una “giusta misura”. […] Questa armonia si rivela nella crescita e nella
genesi dell’articolazione dei rimandi, in un’articolazione che non sia una mera co-
ordinazione […]. Questa crescita noi la chiamiamo volentieri “vita”».
37
93
H. MALDINEY, Daseinsanalyse: phénoménologie de l’existant?, cit., pp. 9-26, p.
17: «Pas plus, en effet, que l’essence n’est pure idée, une situation n’est un simple
état de choses. Mais le vide qui les sépare ne doit pas davantage être nié. Il doit
être surmonté par un saut décisif. En allemand saut se dit Sprung, et Ursprung si-
gnifie l’origine. Elle s’inaugure avec le saut. Et le saut décisif, par quoi les essences
et les situations atteignent ensemble à leur sens d’être, à son origine, dans l’affir-
mation centrale de Martin Heidegger: “L’essence de l’homme est existence”…»;
p. 18: «Binswanger n’analyse donc pas l’image dans son résultat, mais dans son act
constitutif. Ces images, ai-je dit, sont toutes des auto-mouvements […]. Un auto-
mouvement instaure l’espace et le temps qui lui sont propres». Sulla «coestensivi-
tà» di biologia e psicologia a partire dal tema della struttura come «sistema signi-
ficativo» immanente al comportamento, rimandiamo ad A. MASULLO, Struttura,
soggetto, prassi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1994.
94
Sul tema della “dimensione estetica della presenza”, si veda in particolare:
H. MALDINEY, Le dévoilement de la dimension esthétique dans la phénoménologie
d’Erwin Straus, in W.R. VON BAEYER - R.M. GRIFFITH (a cura di), Conditio huma-
na: Erwin W. Straus on his 75. birthday, Springer, Berlin-Heidelberg-New York
1966; ora in ID., Regard, parole, espace, L’Age d’homme, Lausanne 1973 (1994),
pp. 124-146.
95
Cfr. M. FOUCAULT, Introduzione a Binswanger, cit., p. 32.
38
96
Ivi, p. 80.
97
Cfr. ivi, p. 78: «L’immaginario non è un modo dell’irrealtà, bensì un modo
dell’attualità».
98
V. VON WEIZSÄCKER, La struttura ciclomorfa, cit., p. 257: «Se ora noi abbiamo
conoscenza che la vita non può essere pensata senza l’attributo del patico allora si
può comprendere da ciò perché si possa giungere soltanto a un risultato parzia-
le quando noi presupponiamo il fenomeno vivente come derivabile dai processi,
siano essi fisici che psichici. Non è vero che ciò che appare vivente provenga da
un retrostante processo (psichico o fisico). La causa (Ursache) non è qui una cosa
(Sache). Il prefisso tedesco “Ur” non indica soltanto un’azione ma allude a un pri-
mo cominciamento (Anfang). Esso significava origine (Ursprung), ma purtroppo
questo significato si è usurato».
99
M. FOUCAULT, Introduzione a Binswanger, cit., p. 60.
39
100
Ivi, p. 61 (corsivi nostri).
40
101
L. BINSWANGER, L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, cit., p. 22.
102
Cfr. E. BORGNA, Per una psichiatria fenomenologica, in U. GALIMBERTI, Psi-
chiatria e fenomenologia, cit., pp. 9-47.
103
Cfr. L. BINSWANGER, Die Bedeutung der Daseinsanalytik Martin Heideggers
für das Selbsverständnis der Psychiatrie, in AA.VV, Martin Heideggers Einfluss auf
die Wissenschaften, Francke, Bern 1949, pp. 58-72; poi in Ausgewählte Vorträge und
Aufsätze (1955), cit., vol. II, pp. 264-278, tr. it. di G. Banti, L’importanza dell’ana-
litica esistenziale di Martin Heidegger per l’auto-comprensione della psichiatria, in
ID., Essere nel mondo, cit., p. 212: «La scienza è quindi “connessa” alla fi losofia
nel senso (e solo nel senso) che l’auto-comprensione di una scienza, nella misura
41
42
106
È questo il senso che sta alla base, ad esempio, della prospettiva avanzata da
Roland Kuhn circa l’opportunità di unire psicofarmacologia e «analisi esisten-
ziale»: cfr. Clinique et expérimentation en psychopharmachologie, “Psychanalyse
à l’Université”, 11, 41 (1986), pp. 105-116; poi in ID., Écrits sur l’analyse existen-
tielle, cit., pp. 149-165, pp. 164-165: «On ne connaît pas une telle structure [de
l’existence humaine] en faisant de la pharmachologie, on ne l’apprend pas non
plus par la psychopathologie généralisante qui se sert de l’induction pour trou-
ver des règles qui mènent à décrire et à comprendre l’existence de personnes
psychiquement malades. Seule une formation philosophique permet de connaî-
tre les directions fondamentales de réflexions qui conduisent à une expérience
authentique aussi bien de l’existence humaine normale que pathologique. […]
La découverte de l’effet antidépresseur de l’Imipramine […] était loin d’avoir été
un pur hasard, mais […] n’avait été possible que grâce à une formation phéno-
ménologique et «Daseinsanalytique», c’est-à-dire philosophique». Cfr. anche ID.,
Psychopharmacologie et analyse existentielle, “Revue Internationale de Psycho-
pathologie”, 1 (1990), pp. 43-67; poi in ID., Écrits…, cit., pp. 167-200. Si tratta di
un’impostazione che ha importanti conseguenze sul piano stesso della psicopato-
logia, giacché la creatività che caratterizza le genesi della forme patologiche, una
volta riconosciuta a livello diagnostico, andrà a costituire il punto di partenza per
l’elaborazione stessa della nosologia psichiatrica. A questo proposito, si veda il
ruolo che Lantéri-Laura riconosce alla fenomenologia nell’ambito della semiolo-
gia psichiatrica: cfr. G. DAUMÉZON - G. LANTÉRI-LAURA, Signification d’une sémio-
logie phénoménologique, cit.; e G. LANTÉRI-LAURA, Phénoménologie et critique des
fondements de la psychiatrie, “L’Évolution Psychiatrique”, 51, 4 (1986), pp. 895-
906; poi in ID., Recherches psychiatriques, vol. III: Sur la sémiologie, Sciences en
situation, Chilly-Mazarin 1994, pp. 529-540.
43
107
G. LANTÉRI-LAURA, La psychiatrie phénoménologique, cit., cap. 5: La phé-
noménologie et les sciences biologiques, pp. 157-192, p. 158 (tr. e corsivo nostri).
Anche qui ci sarebbe tutto un capitolo da aprire sull’importanza e soprattutto
il valore che la ricerca biologica ha assunto in particolar modo nell’ambito della
psichiatria fenomenologica francese. Non è un caso, ad esempio, che W. Blanken-
burg, pur nella sua lunga indagine sulle schizofrenie paucisintomatiche alla luce
della fenomenologia husserliana, è alla psichiatria francese che fa riferimento, e
proprio a proposito del problema del «contatto vitale con la realtà»: cfr. La perdi-
ta dell’evidenza naturale, cit., p. 26: «La linea di evoluzione del nostro pensiero si
orienta dunque nella direzione tracciata dall’ultimo Husserl e prende in conside-
razione tutto quel che è stato apportato, nel tempo, dalle varie scuole fenomeno-
logiche, in particolare da quella francese».
108
Cfr. P. FÉDIDA, Préface: Binswanger et l’impossibilté de conclure, in L.
BINSWANGER, Analyse existentielle, psychiatrie clinique et psychanalyse: discours,
parcours, Freud, Gallimard, Paris 1970, pp. 9-37.
44
109
Per una disamina completa e ragionata della storia dell’interpretazione fi-
losofica del progetto speculativo di Binswanger come “fraintendimento produtti-
vo” dell’ontologia heideggeriana, ad esempio, rimandiamo a S. BESOLI, «Vorwärts
zu Husserl», cit., nota 1, pp. 284-286.
110
Si vedano, ad esempio, le conclusioni a cui perviene la riflessione di Valdi-
noci sul trascendentale binswangeriano. Pur riconoscendo a quest’ultimo un’au-
tonomia indiscutibile rispetto alla concettualità fi losofica tradizionale – autono-
mia che gli deriverebbe dalla sua ascendenza clinica – Valdinoci finisce per pre-
figurare la necessità di «conceptualiser à neuf le plan culturel du phaïnomenon
d’existence», e di elaborare quindi, su questa base, una «Psychiatrie première»
fondata sull’idea di un’existence essentielle» (Un transcendantal d’existence en psy-
chiatrie, cit., p. 101). A questo proposito, si veda anche ID., Binswanger: une Méta-
physique de la psychiatrie, cit.
45
111
Cfr. E. MINKOWSKI, La schizofrenia, cit., p. 224.
46
*
Cito le opere di Kant senza l’indicazione dell’autore, adottando per le tre Cri-
tiche le seguenti sigle seguite dal numero di pagina e, tra parentesi quadre, dalla
pagina della relativa traduzione italiana:
KrV = Kritik der reinen Vernunft, Hartknoch, Riga 1781 (A), 17872 (B) [Critica del-
la ragion pura, tr. it. a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 20044]
KpV = Critik der practischen Vernunft, Kartknoch, Riga 1788 [Critica della ragion
pratica, tr. it. a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2004]
KU = Critik der Urtheilskraft, Lagarde und Friedrich, Berlin-Libau 1790 [Critica
del Giudizio, tr. it. a cura di M. Marassi, Bompiani, Milano 2004].
La sigla KGS si riferisce alle Kant’s gesammelte Schriften.
1
Quello kantiano sarebbe infatti «un sistema dell’idealismo superiore o, come
lo chiama l’Autore, trascendentale; un idealismo che abbraccia allo stesso modo
spirito e materia, che trasforma il mondo e noi stessi in rappresentazioni, e fa
sorgere tutti gli oggetti da apparenze in quanto l’intelletto le collega in una serie
esperienziale e la ragione cerca necessariamente, seppur vanamente, di estender-
le e unificarle in un sistema del mondo complessivo e compiuto» (CH.FR. GARVE
- J.G.H. FEDER, Rezension zu: Critik der reinen Vernunft von Imman. Kant. 1781,
in I. KANT, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft
wird auftreten können, a cura di K. Pollok, Hamburg, Meiner 2001, p. 183).
2
Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird
auftreten können, KSG, vol. IV, p. 373 nota.
47
3
Cfr. H. BLUMENBERG, Die Sorge geht über den Fluß, Suhrkamp, Frankfurt a.M.
1987, p. 56, tr. it. di B. Argenton, L’ansia si specchia sul fondo, il Mulino, Bologna
2005, p. 62.
48
4
G.F.W. HEGEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundris-
se (1830), in Gesammelte Werke, vol. 20, a cura di W. Bonsiepen e H.-C. Lucas,
Meiner, Hamburg 1992, p. 45, tr. it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofi-
che in compendio, vol. 1, Laterza, Bari 1980, p. 11.
5
Ivi, p 46, tr. it. p. 11.
6
Ivi, p. 44, tr. it. p. 9.
7
G.W.F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes, in Gesammelte Werke, vol. 9, a
cura di W. Bonsiepen e R. Heede, Meiner, Hamburg 1980, p.17, tr. it. di E. De
Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 9.
49
8
J.FR. HERBART, Historisch-kritische Schriften, in Sämmtliche Werke, a cura di
G. Hartenstein, vol. XII, Leopold Voss, Leipzig 1852, p. 669.
9
« Il fi losofo non deve rivestire con una uniforme gli oggetti che gli stanno di
fronte, deve piuttosto riconoscerli per ciò che sono e apprenderli nella figura in
cui essi gli si mostrano. Ma a questo assoggettarsi del ricercatore all’oggetto si oppo-
ne lo spirito maligno dell’idealismo, il quale è certo più antico della dottrina hege-
liana e del quale, purtroppo, già da lungo tempo, da epoche precedenti, conoscia-
mo la violenza che esso esercita su menti assai acute» (ivi, p. 669).
10
CH.H. WEISSE, Ueber den gegewärtigen Standpunkt der philosophischen Wis-
senschaft, in besonderer Beziehung auf das System Hegels, Leipzig 1829, p. 12.
11
Cfr. CH.H. WEISSE, Grundzüge der Metaphysik, Hamburg 1835, p. IV.
12
Cfr. FR.A. TRENDELENBURG, Logische Untersuchungen, I, Berlin 1840, pp. 91-
92; ID., Die logische Frage in Hegel’s System. Zwei Streitschriften, Leipzig 1843, p. 7.
13
ID., Logischen Untersuchungen, I, p. 91.
14
Ivi, I, p. 68.
15
Ibidem.
50
51
19
S. MAIMON, Versuch über die Transzendentalphilosophie, a cura di F. Ehrens-
perger, Meiner, Hamburg 2004, p. 9.
20
Ivi, p. 11.
52
senza alcun riguardo alla percezione, ciò che secondo essa deve [soll]
accadere proprio nella percezione, dunque a posteriori»21. Non certo
“chiara come il sole”, questa annotazione dice invece qualcosa di estre-
mamente difficile insinuando nel margine di quella virgola lo spazio
di una distanza (“senza alcun riguardo alla percezione”) abbastanza
ampia da accogliere la peculiarità – enigmatica fino all’indescrivibile,
come lo stesso Fichte avrà a sperimentare – dello sguardo trascenden-
tale, dell’esercizio riflessivo che involto in una circolarità, sì, ma ine-
vitabile e feconda 22, ritrova nella percezione quel che vi ha prescritto
senza alcun riguardo per essa. E nel mutamento di segno che viene
così all’apriori (non più un muss bensì un soll) si affaccia la stratifica-
ta complessità del suo modo peculiare di essere “regola”, di collocarsi
all’intersezione tra l’ideale eccedenza di una validità che reclama per
sé l’onerosa prerogativa dell’universale e del necessario, e la tangibile
concretezza delle cose in cui un tale valere si rende sì visibile, ma sem-
pre solo nello spazio determinato di una empiricità che, come ancora
vedremo, di quella prerogativa non sa neppure essere esempio.
A prudente distanza dalle intricatissime questioni circa lo statuto e
l’andamento della fichteana dottrina della scienza, noteremo però come
in questo strano ritrovarsi di un apriori disinteressato e di un aposterio-
ri quasi inatteso nella stratificata fisionomia della percezione, già s’in-
sinui la specifica attitudine di un soggetto su cui torneremo a interro-
garci e che fin d’ora si espone all’ambigua collocazione tra l’esercizio
riflessivo che porta faticosamente in luce le strutture a priori e il gesto
che nell’immediatezza del “fare esperienza” ne ha già sempre accolto la
21
J.G. FICHTE, Sonnenklarer Bericht an das größere Publikum über das eigentli-
che Wesen der neuesten Philosophie (1801), in Gesamtausgabe der Bayerischen Aka-
demie der Wissenschaften, vol. I/7: Werke 1800-1801, a cura di H. Lauth e H. Gli-
witzky, Fromann, Stuttgart - Bad Cannstatt 1988, p. 213.
22
«[...] Le regole in base a cui viene avviata quella riflessione, non sono ancora
dimostrate come valide ma vengono tacitamente presupposte come note e stabi-
lite. Solo molto più avanti esse sono dedotte dalla proposizione fondamentale, la
cui formulazione è corretta soltanto a condizione della correttezza di tali regole.
Ecco un circolo, eppure un circolo inevitabile» (J.G. FICHTE, Grundlage der ge-
samten Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wis-
senschaften, vol. I/2: Werke 1793-1795, a cura di R. Lauth e H. Jacob, Frommann,
Stuttgart - Bad Cannstatt 1965, pp. 255-256).
53
23
J.G. FICHTE, Versuch einer neuen Darstellung der Wissenscahftslehre, in Ge-
samtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, vol. I/4: Werke 1797-
1798, a cura di R. Lauth e H. Gliwitzky, Fromann, Stuttgart - Bad Cannstatt 1970,
p. 206. «Nella misura in cui si considerano quei risultati dell’idealismo [trascen-
dentale] in quanto tali, come conseguenze del ragionamento, essi sono l’apriori
nello spirito umano; e nella misura in cui si considerano quegli stessi risultati
come dati nell’esperienza, nel caso che ragionamento ed esperienza coincidano
davvero, li si dice a posteriori» (ibidem).
24
A cominciare, forse, proprio dal difficile nesso che potrebbe legare questa
formula a quella con cui Kant, nella prima Critica, dice dell’intelletto a priori che
esso «non potrà fare altro che anticipare la forma di una possibile esperienza in
generale» (KrV, ???. Sul senso di questa limitazione alla forma dell’esperienza cfr.
M. FERRARI, Categorie e a priori, il Mulino, Bologna 2003, pp. 50-51).
25
Così Fichte nel § 7 del Begriff der Wissenschaftslehre: «Per questo ufficio
non c’è dunque nessuna regola, e non c’è ne può essere alcuna. Lo spirito uma-
no fa alcuni tentativi, attraverso un cieco vagare perviene a un primo chiarore e
solo di qui passa nella pienezza del giorno. Da principio viene guidato da oscuri
sentimenti […]; e ancora oggi non avremmo alcun concetto distinto e ancora sa-
remmo sempre il grumo di terra che si è appena sottratto al terreno, se non avessi-
mo cominciato a sentire oscuramente ciò che solo in seguito abbiamo conosciuto
in modo distinto» (Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften,
vol. I/2: Werke 1793-1795, pp. 142-143).
54
tutte diversamente – nello spazio incerto tra queste due opzioni. Quello
che Hegel diceva essere il “gran principio” dell’empirismo («che ciò che
è vero, deve essere nella realtà ed esservi per la percezione»26), oppo-
nendolo alla sprezzante vacuità del dover essere e facendone la cifra stes-
sa del filosofare (il quale «non sa niente di ciò che solo deve essere e che,
per conseguenza, non è»27), potrebbe in effetti dirsi non meno principio
dell’idealismo trascendentale – a patto, certo, che si renda a quel “dover
essere” la consistenza non rigida di un valere che nell’esperienza conti-
nuamente si attesta e si misura. E le figure dell’“intuizione sublimata”
o dell’“astrazione anticipata” in cui Trendelenburg voleva significare
la vuota incongruenza della dialettica hegeliana, potrebbero ben ro-
vesciarsi di segno solo che vi si riconosca la convenienza complessa dei
movimenti eterogenei che reggono un’astrazione (quella trascendentale)
mai semplicemente distanziante – sì che l’insinuarsi segreto e silenzio-
so, dalla “porta di servizio”28, dell’esperienza nella dialettica, l’inatteso
“rimbalzare” sempre di nuovo delle rappresentazioni entro il pensiero
puro da cui erano state astratte29, potrebbe essere proprio l’indizio di
un idealismo che non soggiacia semplicemente allo “spirito maligno”
denunciato da Herbart.
Quella indicazione kantiana che nel 1783 nomina, in un non faci-
le intreccio di precedenza e determinatezza, il rapporto tra l’apriori e
l’esperienza vale dunque ad annunciare, al di là del contesto polemico
e ben oltre la sua marginale collocazione in una nota, l’indirizzo di una
tensione teorica intorno a cui si svolgeranno non poche delle vicende
speculative che, componendo l’intricatissima fisionomia del confronto
con l’opera kantiana, sono però ben lontane dal ridursi alla storicità
tutta determinata di un’aetas. Piuttosto, si troverà in esse, se non pro-
prio quella “doppia vita” del pensiero kantiano ipotizzata da Cassirer
(che nel contrasto tra le diverse posizioni nei confronti della fi losofia
critica vedeva il dispiegarsi, quasi dialetticamente, del suo pieno risul-
26
G.F.W. HEGEL, Enzyklopädie, p. 76, tr. it. p. 48.
27
Ivi, p. 76, tr. it. pp. 48-49.
28
Cfr. FR.A. TRENDELENBURG, Die logische Frage in Hegel’s System, p. 18.
29
Cfr. ID., Historische Beiträge zur Philosophie. Erster Band: Geschichte der Kate-
gorienlehre, Bethge, Berlin 1846, p. 361, tr. it. a cura di R. Pettoello, La dottrina
delle categorie nella storia della filosofia. Profilo e valutazione critica, Polimetrica,
Monza 2004, p. 169.
55
tato30), certo il segno di una storicità più pervasiva e ostinata che non ci
siamo affatto lasciati alle spalle, il farsi di uno spazio problematico nel
quale non abbiamo ancora cessato di muoverci.
Alla domanda sull’apriori si potrà allora rispondere negativamente
o anche invocarne la dissoluzione come insensata, ma, credo, non pri-
ma di aver accolto la giusta pretesa che Kant rivolgeva al suo recensen-
te e che avrebbe certo di che risuonare anche oggi: «Egli sembra non
intendere affatto di cosa veramente si tratta nell’indagine di cui io (fe-
licemente o infelicemente) mi occupo […]»31. Dire di che cosa davvero
si tratta (felicemente o infelicemente) nel problema dell’apriori (e in
quello del trascendentale, che vi sembra inestricabilmente connesso)
sembra essere divenuto oggi, a motivo delle tante risposte nel frattem-
po occorse, meno facile che il dire di cosa certamente non si tratta: non
si tratta, ad esempio, della rassicurante esibizione di un fondamento e
di un senso per la nostra esperienza delle cose, del rapporto tra appa-
renza e realtà in sé, della corrispondenza tra un esterno e un interno
della conoscenza, del problema della mente o del soggetto, del modo
di rispecchiare la realtà nella rappresentazione o nel linguaggio. Non
certo perché tali questioni non abbiano o abbiano avuto o possano
avere un preciso e importante legame con il problema dell’apriori, ma
perché esse significano già in qualche modo un domandare di grado
superiore, s’innestano – già articolandola – su una domanda che per
essere più elementare è forse anche più povera, certo non più facile.
Nel passaggio citato in apertura Kant ci invita a porci anzitutto su que-
sto piano più elementare, che è in effetti quello raggiungibile da un
termine, “apriori”, la cui forma originaria non è sostantivale bensì av-
verbiale, che nomina cioè non qualcosa bensì il modo di qualcosa. E in
fondo, tutta la difficoltà del problema dell’apriori si trova già espressa
in questo termine che sembra dire troppo e non dire però l’essenziale.
Dice troppo perché (come Kant opportunamente ci ricorda) quel-
lo che per noi è divenuto un sostantivo comodamente utilizzabile nei
titoli dei libri, nasce in verità come una locuzione complessa in cui si
30
Cfr. E. CASSIRER, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft
der neueren Zeit. Dritter Band: Die nachkantischen Systeme, in Gesammelte Werke,
vol. IV, a cura di M. Simon, Meiner, Hamburg 2000, pp. 2-3.
31
Prolegomena, KGS IV, p. 373.
56
32
H. COHEN, Kants Theorie der Erfahrung, B. Cassirer, Berlin 19183, p. 136.
57
con quell’idea di una legalità che sappia non soltanto insegnare ma an-
che imparare, non soltanto prescrivere ma anche accogliere. E l’ingom-
brante polivocità di quel termine che dice di volta in volta “a priori”
intuizioni e concetti, facoltà e conoscenze, rappresentazioni e giudizi,
analisi e sintesi, e che negli anni a venire non smetterà di caricarsi di
nuovi e impegnativi riferimenti, quella esuberanza di significati che sa-
remmo tentati di sancire come un difetto di precisione, potrebbe inve-
ce annunciare proprio il margine, necessariamente frastagliato, in cui
si esercita la reciprocità invocata da Trendelenburg.
Ciò che immediatamente carica la virgola di Maimon di uno spes-
sore inatteso, facendone quasi un segno trascendentale, sarà dunque
la tensione reciproca, ma non paritetica, che essa sembra istituire tra
l’aposteriori e l’apriori. Diremmo, infatti, che la fisionomia specifica-
mente trascendentale dell’apriori descriva uno spazio nel quale s’in-
tessono movimenti reciproci ma – ed è importante – non omogenei, a
costituire una regolatività complessa che non soltanto collega ciò che
nella percezione è e ciò che nella percezione deve essere, ma anche sem-
pre, viceversa, espone questo “dover essere” al compito cruciale – pena
la sua risoluzione in una presuntuosa vuotezza – di attestarsi e farsi in
certo modo visibile entro la policroma opacità di questa stessa percezio-
ne. Viceversa, e però non soltanto nella direzione opposta bensì anche
su un piano diverso e irriducibile, lungo dinamiche che incrociano l’at-
titudine prescrittiva della regola ma anche ne reclamano una specifica
flessione. Viene di qui il suggerimento che quella certa “esternalità”
dell’apriori rispetto all’esperienza, che sembra doversi irrimediabil-
mente risolvere in una frettolosa antecedenza, possa invece delineare
uno spazio denso e articolato, affollato di dinamiche che si svolgono
secondo più di una direzione e nel quale l’apriori non sta solo come
inizio ma sempre anche come bersaglio, non soltanto prescrive e dispo-
ne ma sempre anche accoglie e acconsente, ed è (come avverte Kant)
non soltanto “ciò che precede” ma sempre anche ciò che “a nulla più è
determinato”. Di questa struttura complessa Kant offriva al suo recen-
sente un’immagine da cui mi sembrano venire cenni e suggestioni che
sarà bene, per quanto è possibile, provare a cogliere: l’esperienza ri-
spetto a cui si dovrà misurare la presunzione dell’apriori, non è quella
che attenda, nuda, di sapere come deve svolgersi, è bensì un’esperienza
58
2. Assolutamente indipendente?
33
«Le alte torri e i grandi uomini metafisici (che a queste si assomigliano), in-
torno ai quali vi è di solito molto vento, non sono per me. Il mio posto è la fertile
bassura dell’esperienza […]» (Prolegomena, KGS IV, p. 373 nota).
34
J.G. HERDER, Verstand und Erfahrung. Eine Metakritik der Kritik der reinen
Vernunft. Erster Theil (1799), in Sämtliche Werke, vol. XXI, a cura di B. Suphan,
Olms, Hildesheim 1967, p. 23.
35
Ibidem.
36
Ivi, pp. 23-24.
37
J.H. LAMBERT, Neues Organon oder Gedanken über die Erforschung und Be-
zeichnung des Wahren und dessen Unterscheidung vom Irrthum und Schein, Wend-
ler, Leipzig 1764, § 637, p. 413.
59
e che essi possono venire impiegati nel loro significato più rigoroso e
assoluto solo quando vi si riconoscano semplici determinazioni concet-
tuali, rispetto a cui la questione se davvero si trovi nella nostra cono-
scenza qualcosa del genere «è una domanda del tutto diversa e in parte
davvero inutile»38. Eppure, è chiaro, ripetuto nel 1799 quel sospetto si
è caricato di un’insistenza nuova e ha trovato un’attinenza più urgente
e puntuale: l’intransigenza che farebbe dell’apriori una parola priva
di riferimento è quella che, nelle pagine introduttive alla seconda edi-
zione della Critica, dice conoscenze a priori solo quelle assolutamente
indipendenti, “schlechterdings unabhängig”, non da questa o quella
esperienza particolare, bensì da ogni esperienza39. Sicché si trova in
queste note di Herder quasi un’eco, certo involontaria, a uno dei tanti
anonimi recensenti dell’opera kantiana, il quale nel 1790, associandosi
all’esercizio (all’epoca assai frequentato) di tradurre in più accessibili
formulazioni il difficile linguaggio kantiano, chiedeva tra l’altro “Cosa
significa ‘indipendente da ogni esperienza’?”40.
La risposta di questo anonimo può tranquillamente accompagna-
re nell’oblio il nome del suo autore41, la domanda invece potremmo
senz’altro farla nostra ancora oggi. E non è forse inutile prendere nota
della contestualità, solo apparentemente occasionale, tra l’esame cri-
tico del difficile lessico kantiano e l’interrogazione del nesso che col-
lega (o forse risolve irrimediabilmente l’uno nell’altro) l’apriori a un
posterius dal quale esso riceverebbe il proprio significato e la propria
misura. Da questa coincidenza viene infatti il suggerimento che nel-
la vivace discussione, seguita all’apparizione della prima Critica, sulla
38
Cfr. ivi, §§ 638-639, p. 414.
39
«Nel seguito, per conoscenze a priori intenderemo quindi non già cono-
scenze tali che si verifichino indipendentemente da questa o da quella esperien-
za, bensì le conoscenze che sono assolutamente indipendenti da ogni esperienza»
(KrV, B 2-3 [47]).
40
Cfr. [ANONIMO], Fragen, die Ausdrücke: Unabhängig von aller Erfahrung; a
priori und a posteriori; desgleichen die Feinheit unsrer Anschauung des Raums be-
treffend, “Berlinisches Journal für Aufklärung” 7 (1790), pp. 200-211.
41
Cfr. ivi, pp. 205-207, con la curiosa – ovviamente inidonea – metafora del
figlio che dopo la morte dei suoi genitori è chiamato a mantenersi da sé, ciò che
dovrebbe “tradurre” in un’immagine accessibile la ragione pura nella sua indi-
pendenza dall’esperienza.
60
42
Esemplare in questo senso potrebbe essere proprio la vicenda della recensio-
ne Garve-Feder, che nella sua versione finale non mancava di esprimere un certo
maligno sarcasmo nei confronti della terminologia kantiana. Maligno, anzitutto,
in quanto la recensione mostra di non prestare alcuna attenzione alla specifica
complessità del linguaggio della Critica, ed è certo vero, come nota Jean Ferrari,
che «in nessun momento gli autori della recensione danno l’impressione di aver
compreso i termini “trascendentale”, che confondono con trascendente, o “aprio-
ri”, a cui danno un senso puramente psicologico di anteriorità temporale […]»
(J. FERRARI, La recension Garve-Feder de la Critique de la raison pure, 1782, in C.
PICHÉ (a cura di), Années 1781-1801: Kant, critique de la raison pure, vingt ans de
réception, Vrin, Paris 2002, p. 61). Da parte sua, Feder non mancherà di ribadi-
re il proprio sospetto (tutt’altro che isolato, come si sa) verso l’inconsistenza del
linguaggio kantiano nel recensire la Critica della ragion pratica (cfr. J.G.H. FEDER,
Kant, I.: Kritik der praktischen Vernunft. Riga: Hartknoch 1788: Rezension, “Phi-
losophische Bibliothek” 1, 1788, p. 218). Ma nella versione originale della recen-
sione alla prima Critica, la posizione di Garve su questo punto appare assai più
equilibrata. Garve resta certo convinto che sia possibile tradurre il linguaggio
della Critica in termini più accessibili, ma, avverte, «con una certa perdita di pre-
cisione» (“Allgemeine deutsche Bibliothek”, Anh. 37-52 Bd., 2. Abt., 1783, p. 840).
E aggiunge che «sarebbe ugualmente impossibile esprimere i pensieri dell’Autore
in tutta la loro peculiarità attraverso parole adatte a una fi losofia più popolare. La
sua terminologia è il fi lo di Arianna senza il quale anche l’intelletto più perspica-
ce non sarebbe in grado di condurre il proprio lettore attraverso l’oscuro labirin-
to dell’astratta speculazione. Anche se il lettore non vede chiaramente, tuttavia è
certo di tenere in mano il fi lo e confida in una via d’uscita» (ivi, p. 839).
61
verità della filosofia critica dovessero poter venire espresse in modo più
semplice e popolare di quanto fosse riuscito a Kant43, ma aggiugendovi
un riferimento alla necessaria “usabilità” del sistema kantiano (“wenn
es wirklich brauchbar werden soll…”) rivelava di questa sollecitazione
un senso che non proviene dalle istanze, non sempre nitide, della Po-
pulärphilosophie ed è invece tutto immanente alla filosofia critica. Per-
ché una certa istanza di “usabilità” appartiene davvero alle strutture
trascendentali, davvero ne misura la verità e ne abita la fisionomia ben
oltre l’esigenza di una loro chiarezza didascalica. E davvero qualcosa,
nel linguaggio della Critica, esorta a una visibilità che in quelle pagi-
ne non giunge a manifestarsi e in cui, credo, si decide non poco della
fisionomia specificamente trascendentale della domanda sull’apriori.
Si troverà allora molto più che un appunto personale in quell’annota-
zione, nella Prefazione del 1781, dove Kant riferiva le proprie esitazio-
ni circa l’opportunità di arricchire le argomentazioni della Critica con
«esempi o altri chiarimenti in concreto»44, di dare cioè a quelle argo-
mentazioni una chiarezza non solo discorsiva ma anche intuitiva45, non
solo logica ma anche estetica. Quel «primo abbozzo del lavoro», ove
esempi e chiarimenti «si inserivano realmente nei loro luoghi in modo
opportuno»46, vorremmo certo leggerlo: non soltanto per guadagnarci
quella “facilitazione” di cui – pessimi conoscitori della scienza47 – sen-
tiamo in verità di avere bisogno di fronte a più di un passaggio della
Critica; ma anche e soprattutto per ritrovarvi quella pregnanza empi-
rica delle astrattissime strutture concettuali kantiane, quella loro sem-
pre possibile “traduzione” nel linguaggio dell’esperienza di cui, infine,
non altri che lo stesso Kant avrebbe dovuto fornirci la chiave.
L’esercizio tentato da Herder, trovare cioè nella parola “apriori” e
nel suo uso possibile la misura di significatività di un apriori “assolu-
tamente indipendente” dall’esperienza, ha dunque almeno due moti-
vi di plausibilità, dei quali forse uno soltanto risponde alle originarie
intenzioni di Herder. Vi si esprime anzitutto quel nesso tra la ragione
43
Cfr. Briefwechsel, KGS X, p. 331-332 (è la lettera a Kant del 13 luglio 1783).
44
KrV, A XVIII [14].
45
Cfr. KrV, A XVII-XVIII [13-14].
46
KrV, A XVIII [14].
47
«[…] i veri conoscitori della scienza non hanno poi tanto bisogno di questa
facilitazione» (KrV, A XVIII [14]).
62
48
J.G. HERDER, Verstand und Erfahrung, p. 19.
49
Ibidem.
50
G. DELEUZE - F. GUATTARI, Qu’est-ce que la philosophie?, Les Éditions de Mi-
nuit, Paris 1991, p. 13.
51
«E in effetti non è possibile, di un libro il cui linguaggio deve anzitutto esser
reso noto al lettore, scrivere una breve recensione che non risulti assurda» (Brie-
fwechsel, KGS X, p. 330).
52
Cfr. Prolegomena, KGS IV, p. 262: «Accostarsi a una nuova scienza, che è del
tutto isolata e unica nel suo genere, col pregiudizio che la si possa valutare in base
alle proprie presunte conoscenze in altro modo acquisite, quando proprio que-
ste sono appunto ciò della cui realtà si deve anzitutto dubitare interamente, non
conduce ad altro che a credere di vedere ovunque ciò che era già noto altrimenti,
63
64
alla Critica, ove Garve insinua che il nuovo linguaggio del sistema kantiano «fac-
cia però spesso apparire la riforma intrapresa nella scienza stessa e la divergenza
rispetto ai pensieri di altri, più grandi di quanto non siano in realtà» (Briefwech-
sel, KGS X, p. 332).
57
Cfr. KrV, B 3 [47]. Herder occulta la distinzione kantiana in quanto ne accorpa
i due momenti nell’unica determinazione secondo cui le conoscenze a priori “han-
no luogo del tutto indipendentemente da ogni esperienza e a esse non è commisto
assolutamente nulla di empirico” (cfr. Verstand und Erfahrung, p. 23) – formula che,
presentata qui come una citazione testuale dalla Critica, in verità non lo è.
58
La soluzione di Herder a questa complicazione terminologica, ossia la sua
semplice elusione, non rimarrà isolata: si ricorderà, ad esempio, come Strawson
seguisse la medesima direzione considerando “puro” come una variante di “a
65
mi pare essere fatale, proprio perché sottace un nesso – quello tra indi-
pendenza e commistione – che è invece pieno di significati e costituti-
ve reciprocità. Alla formula dell’“assolutamente indipendente”, infatti,
viene di qui una complessità che la riscatta dal sospetto di eccessiva in-
transigenza e ne fa qualcosa di più e di diverso che un’asettica distanza
da ogni empiricità, perché si trova in essa almeno la disposizione ad ar-
ticolarsi secondo modi possibili di una “commistione” con l’empirico
di cui bisognerà vedere più da vicino il significato. E quella svista che
fa dire a Kant della medesima conoscenza (ogni mutamento deve avere
una causa) l’essere “nicht rein” (B 3) e l’essere “rein” (B 5) è certo mol-
to più che una disattenzione a cui porre rimedio, forse piuttosto l’eco
di risonanze che dovremo imparare a cogliere: all’accusa di contraddi-
zione Kant risponderà, com’è noto, al termine dello scritto Sull’uso dei
principi teleologici in filosofia59, ma che l’incoerenza si risolva qui, per
un verso, tramite una complicazione terminologica, per altro verso tra-
mite un supplemento di esemplarità60, invita quasi a riguardare quelle
pagine della Critica come il luogo di una tensione concettuale che vale
invece la pena di lasciar sussistere.
Nella difficile contiguità che viene a due differenti determinazioni
(il non essere commisto a nulla di empirico e il non essere dipendente
da nulla di empirico) dal fatto di incontrarsi in un medesimo termine,
nella costitutiva ambiguità che viene all’esempio dal fatto di poter si-
gnificare cose differenti (e chi potrà tenere in conto ogni occasione di
fraintendimento?, domanda Kant), accade infatti qualcosa che direm-
66
61
Cfr. G. DELEUZE - F. GUATTARI, Qu’est-ce que la philosophie?, p. 13.
62
KrV, B 1-2 [45-46]: «Che ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza,
non vi è certo alcun dubbio. […] Ma per quanto ogni nostra conoscenza incomin-
ci con l’esperienza, non per questo proprio tutte le conoscenze debbono sorgere
dall’esperienza».
63
Cfr. J.G. HERDER, Verstand und Erfahrung, p. 22.
64
L’edizione del 1781 si apriva infatti con l’indicazione dell’esperienza come
«il primo prodotto che il nostro intelletto costituisce, mentre elabora elabora la
materia greggia delle impressioni sensibili» (KrV, A 1 [45]).
67
65
Krv, B 34 [76].
66
Cfr. J. LOCKE, An Essay Concerning Human Unterstanding, l. III, cap. VII.
68
69
70
69
S. MAIMON, Versuch, p. 9.
70
CH. GARVE, Von der Popularität des Vortrages (1793), in Vermischte Aufsätze,
welche einzeln oder in Zeitschrift erschienen sind, Korn, Breslau 1796, pp. 339-340.
71
71
Cfr. S. MAIMON, Die philosophische Sprachverwirrung (1797), in Gesammelte
Werke, vol VII, pp. 430 ss.
72
Cfr. KrV, B 172-173/A 133-134 Anm. [215 nota 1].
73
KrV, B 173-174/A 134 [215-216].
72
74
Penso, in particolare, a quell’indicazione circa le regole usate come formule,
in cui potrebbe aprirsi un richiamo (forse non inutile) alla risposta nella Critica
della ragion pratica, circa la fecondità di una nuova “formula” per la legge morale
– richiamo tanto più significativo in quanto Kant richimava là anche la fecondità
delle formule in matematica.
75
«In effetti, i mezzi che favoriscono la chiarezza aiutano certo rispetto alle par-
ti, ma spesso distraggono riguardo alla totalità, perché non permettono che il let-
tore riesca abbastanza velocemente a dominare con lo sguardo il tutto; tali mezzi
inoltre, con tutti i loro splendenti colori, invischiano nondimeno e rendono irrico-
noscibile l’articolazione o la struttura del sistema […]» (KrV, A XIX [14-15]).
76
«Gli esempi sono contagiosi, soprattutto quando si tratti di una medesima
facoltà, la quale si illude naturalmente di avere in altri casi la stessa fortuna che
già le è toccata in un caso» (KrV, B 740/A 712 [713]).
73
74
L’ironia, non troppo velata, che l’ignaro recensente della Critica ri-
servava a questa cruciale aggettivazione, “trascendentale”, in cui Kant
risolveva il senso specifico del proprio idealismo (non altro, forse, che
una delle tante “selbstgeschaffenen Worten”77 dietro cui si nascon-
derebbe la povertà del pensiero kantiano), dovrà muoverci a più che
un sorriso indulgente. Perché se lo sconcerto verso la difficile novi-
tà del linguaggio kantiano si è ormai definitivamente stemperato, per
noi, nelle innumerevoli ripetizioni che continuamente ne diamo e ne
leggiamo, tuttavia non avremo anche la presunzione di credere che
il significato di quell’aggettivo ci sia divenuto oggi più trasparente
di quanto fosse allora a Feder e Garve. Forse anche per rispondere
a quell’ironica postilla, l’annotazione kantiana che abbiamo citato in
apertura muove dalla parola “trascendentale” e segue la forma di una
sua definizione: in quell’equilibrio, difficile da sostenere e da chiarire,
tra l’esperienza e quel che la precede, potrebbe trovarsi infatti ciò che
l’atteggiamento trascendentale semplicemente significa, ciò che ne de-
finisce la peculiarità ponendolo sul margine che separa e collega quelle
due opzioni ma – e ciò è importante – mai semplicemente sotto l’una o
l’altra di esse. Del resto, che vi sia nel trascendentale kantiano l’indica-
zione di un certo bilico e di una certa instabile sospensione, lo si trova
già annunciato nella definizione, più esplicita e famosa, che Kant ne
77
Cfr. J.G.H. FEDER, Kant, I.: Kritik der praktischen Vernunft. Riga: Hartknoch
1788: Rezension, “Philosophische Bibliothek” 1, 1788, p. 218.
75
76
81
S. MAIMON, Versuch, p. 8.
82
KrV, B 81/A 56-57 [113].
83
«Perché si dà sempre il pericolo di scivolare dalla sfera delle pure condizioni
del sapere nella sfera delle cose empiriche, di mutare rapporti puramente logici tra
le verità in relazioni concrete tra oggetti dati» (E. CASSIRER, Das Erkenntnispro-
blem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, in Gesammelte Werke,
vol IV, p. 4).
84
Ivi, p. 5.
77
85
Ibidem.
86
Cfr. E. CASSIRER, Die Philosophie der Aufklärung, in Gesammelte Werke, vol.
XV, a cura di C. Rosenkranz, Meiner, Hamburg 2003, p. 98.
78
87
«Si tratta infatti di null’altro che dell’inventario, ordinato sistematicamente,
di tutto ciò che noi possiamo possedere mediante la ragione pura. A questo propo-
sito nulla può sfuggirci, poiché ciò che la ragione trae completamente da se stessa
non può nascondersi, ed è piuttosto messo in luce proprio dalla ragione, non ap-
pena si è scoperto il principio comune di tutto ciò» (KrV, A XX [15]).
79
80
92
Non si danno, infatti, esempi dello spazio e del tempo (la cui rappresentazio-
ne non può essere desunta dall’esperienza, ma ne è a fondamento: KrV, B 38/A 23);
non si danno esempi della regolarità dei fenomeni (KrV, B 123/A 91); non si dan-
no esempi della realitates noumena (KrV, B 338-339/A 282), né dell’incondizionato
(KrV, B 649/A 621); non si dà esempio dell’unità sistematica della ragione (KrV,
B 709/A 681); non si dà esempio nell’esperienza di attuazione della legge morale
(KpV, 81), né della libertà (KpV, 84).
93
Träume eines Geistersehers, erläutert durch Träume der Metaphysik, KGS II,
p. 351.
81
94
Si pensi, un esempio tra i tanti, al § 30 della Krisis, ove Husserl rileva che
Kant «impedisce ai suoi lettori di tradurre il suo procedimento regressivo in con-
cetti intuitivi, impedisce qualsiasi tentativo di attuare una costruzione progressiva
che si rifaccia ad intuizioni originarie e assolutamente evidenti e che proceda per
gradi progressivi pure realmente evidenti. I suoi concetti trascendentali sono per-
ciò avvolti da una caratteristica oscurità, caratteristica nel senso che non può mai
essere tradotta, per ragioni di principio, in chiarezza, non può mai essere tasfor-
mata in una formazione di senso diretta e capace di evidenza» (E. HUSSERL, Die
Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie,
Hua VI, pp. 117-118, tr. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la feno-
menologia trascendenale, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 144-145).
95
«[…] Si può dire – ma non si dice gran cosa – che la fi losofia deve la sua prima
origine all’esperienza (all’aposteriori). In realtà, il pensiero è essenzialmente la ne-
gazione di un esistente immediato. Allo stesso modo, il mangiare si deve ai mezzi
di nutrizione, perché senza questi non si potrebbe mangiare: il mangiare viene in
verità, sotto questo aspetto, rappresentato come un ingrato, che distrugge ciò a
cui deve se stesso. E il pensiero, in questo senso, non è meno un ingrato» (G.W.F.
HEGEL, Enzyklopädie, p. 53, tr. it. p. 20).
82
83
84
[…] denn er fand, dass er nicht dem, was er in der Figur sahe, oder
auch dem blossen Begriffe derselben nachspüren und gleichsam da-
von ihre Eigenschaften ablernen, sondern durch das, was er nach Be-
griffen selbst a priori hineindachte und darstellte (durch Konstrukti-
on), hervorbringen müsse, und dass er, um sicher etwas a priori zu wis-
sen, er der Sache nichts beilegen müsse, als was aus dem notwendig
folgte, was er seinem Begriffe gemäß selbst in sie gelegt hat99.
99
KrV, B XI-XII [20]: «[…] egli trovò infatti che non doveva seguir le tracce di
ciò che vedeva nella figura, o anche del semplice concetto di questa, apprendendo
per così dire da ciò le sue proprietà, ma doveva trar fuori (mediante costruzione)
ciò che egli stesso, secondo concetti, aveva approfondito e presentato a priori.
Egli scoprì che per sapere sicuramente qualcosa a priori, non doveva attribuire
alla cosa alcunché, all’infuori di quanto seguiva necessariamente da ciò che egli
stesso, conformemente al suo concetto, aveva posto in essa».
85
100
La difficoltà, com’è noto, concerne in particolare la formula “sondern durch
das” che introduce la frase incidentale e lascia privo di oggetto il successivo verbo
“hervorbringen” (si veda in proposito la nota di Erdmann in KGS, vol. III, pp.
584-585). La traduzione di Colli, sopra riportata, accoglie l’emendamento di Adi-
ckes, che cancella la preposizione “durch”. Chiodi, che segue invece la versione
di Erdmann, traduce: «[…] poiché comprese che non doveva seguire ciò che via
via vedeva nella figura, né attenersi al semplice concetto della figura stessa, quasi
dovesse apprenderne le proprietà; ma doveva produrre la figura (costruendola)
secondo ciò che con i suoi concetti pensava e rappresentava in essa a priori; com-
prese cioè che per sapere con sicurezza qualcosa a priori, non doveva attribuire
alla cosa se non ciò che risultava necessariamente da quanto, conformemente al
suo concetto, egli stesso vi aveva posto» (Critica della ragion pura, tr. it. a cura di
P. Chiodi, Utet, Torino 1967, pp. 41-42).
86
101
«Tuttavia, sebbene gli schemi della sensibilità realizzino per la prima volta
le categorie, salta agli occhi il fatto che essi nondimento restringono anche tali ca-
tegorie, cioè le limitano entro condizioni che stanno al di fuori dell’intelletto (cioè
nella sensibilità). Perciò lo schema è propriamente solo il fenomeno, o concetto
sensibile di un oggetto, in accordo con la categoria […]» (KrV, B 185/A 146).
87
102
Prolegomeni, KGS IV, p. 281.
103
KrV, B 742/A 714 [714-715].
88
104
KrV, B 741-742/A 713-714 [714].
105
KU, 271 [421].
89
90
113
KrV, B 172/A 133 [215].
114
KrV, B 171/A 132 [214].
115
Cfr. KrV, B 353/A 296-297 [362].
116
Svelare e risolvere una parvenza è infatti «un servizio reso alla verità ben più
importante di quanto lo sia la confutazione diretta degli errori», e si trova in esso
anche una sorta di indulgenza verso chi ha commesso l’errore, «perché nessuno
concederà che egli abbia errato senza una qualche parvenza di verità, la quale
avrebbe forse potuto ingannare anche una personalità acuta [einen Scharfsinni-
gen]» (Logik, KGS IX, p. 56).
117
Cfr. Logik, KGS IX, pp. 53-54; Krv, B 351Anm. [360 nota 1].
118
KrV, B 763/A 735 [731]. Ho modificato la traduzione.
91
119
Cfr. KrV, B 353-354/A 297 [362].
120
Cfr. KpV, 134 [161].
121
Cfr. KU, 60 [147].
122
Cfr. KU, 57-59 [143-145].
123
M. FOUCAULT, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966, p. 255, tr. it. di
E. Panaitescu, Le parole e le cose, BUR, Milano 2004, pp. 262-263.
124
«Da un lato si pone il problema dei rapporti fra il campo formale e il cam-
po trascendentale (e a tale livello tutti i contenuti empirici del sapere vengono
messi fra parentesi e ogni loro validità viene sospesa); e, d’altra parte, si pone il
problema dei rapporti fra il campo dell’empiricità e il fondamento trascendentale
della conoscenza (l’ordine puro del formale, a questo punto, viene accantonato in
quanto non pertinente al fine di rendere conto della regione in cui si fonda ogni
esperienza, compresa quella delle forme pure del pensiero). Ma sia nell’uno che
nell’uno che nell’altro caso, il pensiero fi losofico dell’universalità non appartiene
allo stesso livello del campo del sapere reale; esso si costituisce sia come riflessio-
ne pura capace di fondare, sia come recupero capace di svelare» (M. FOUCAULT, Les
mots et les choses, p. ???, tr. it. p. 268).
92
125
Cfr. J. BENOIST, L’impensé de la représentation. Da Leibniz à Kant, “Kant-
Studien”, 1998 (89), pp. 300-317.
126
È il caso dell’osservazione circa il progresso del genere umano: «Forse di-
pende anche dall’aver scelto erroneamente il punto di vista dal quale riguardiamo
il corso delle cose umane, il fatto che esso ci appaia tanto contraddittorio. […] Ma
proprio questa è la sventura: il fatto che non siamo in grado di mutare il nostro
punto di vista quando si tratta della previsione di azioni libere» (Der Streit der
Fakultäten, KGS VII, p. 83).
93
127
Refl. 4997, KGS XVIII, pp. 55-56.
128
Cfr. KU, 169 [291].
129
KU, 320 [483].
130
KrV, B 502/A 474 [529].
94
95
1
Piaget defi nisce lo strutturalismo a partire dal concetto di “struttura”: «Una
struttura è un sistema di trasformazioni, che comporta delle leggi in quanto siste-
ma (in opposizione alle proprietà degli elementi) e che si conserva o si arricchisce
grazie al gioco stesso delle sue trasformazioni, senza che queste conducano fuori
dalle sue frontiere o facciano appello a elementi esterni. In breve, una struttu-
ra comprende questi tre caratteri: totalità, trasformazioni e autoregolazione» (J.
PIAGET, Le structuralisme, Puf, Paris 1968, tr. it. a cura di A. Bonomi, Lo struttu-
ralismo, il Saggiatore, Milano 1968, 1978, 1985, p. 37). Questa definizione trascu-
ra, a nostro avviso, l’impatto rivoluzionario che lo strutturalismo ha avuto sulle
scienze umane, e ciò solo dopo che la “struttura” è stata introdotta in linguistica
e antropologia. Vi è dunque una parziale soluzione di continuità tra le “strutture”
precedenti questa introduzione e la linguistica e antropologia strutturali, in cui la
struttura è posta esplicitamente come principio organizzatore e costituente di un
intero campo del sapere e dei suoi oggetti.
2
«Sotto il nome di strutturalismo si raggruppano le scienze del segno, dei sistemi di
segni. I fatti antropologici più diversi possono rientrarvi, ma solo nella misura in
cui essi passano per i fatti di lingua – cioè sono presi nell’istituzione di un sistema
del tipo Significante/significato e si prestano al reticolo di una comunicazione –
ricevendo da ciò la loro struttura […] le strutture che dovremo conoscere sono:
97
che restringe la pertinenza del termine alle ricerche sul segno). Noi
ci limiteremo a un ritorno retrospettivo sul concetto di “struttura”
nei due rami delle “scienze umane” in cui è unanimemente ricono-
sciuto che l’apporto del punto di vista “strutturalista” ha prodotto
una rifondazione delle basi stesse dei saperi in questione: parliamo
della linguistica strutturale inaugurata da Ferdinand de Saussure e
dell’antropologia strutturale creata da Claude Lévi-Strauss. In questi
due campi del sapere la “struttura” è invocata esplicitamente come
un apriori: cioè letteralmente come la condizione di possibilità della
consistenza (ratio essendi) e della conoscibilità (ratio cognoscendi) dei
fenomeni di cui linguistica e antropologia intendono produrre la co-
noscenza. La struttura è vista quindi non solo come il dispositivo di
generazione dei fenomeni offerti allo sguardo “immediato” del ricer-
catore, ma anche come il livello in cui deve collocarsi lo studio per
poter render ragione in modo rigoroso degli stessi fenomeni.
quelle che si prestano allo scambio tra gli uomini, in virtù della significazione
che esse generano tramite la loro articolazione su almeno due piani […] non si
tratta qui d’altro che di rappresentanti e di ciò che implica la rappresentanza.
Poiché, nel segno, ciò che vi è di nuovo non è il significato ma il suo rapporto
al significante […] è attraverso quest’ultimo che si defi nisce lo strutturalismo»
(F. WAHL, Introduction générale, in Qu’est-ce que le structuralisme?, Seuil, Paris
1968). Se Piaget defi niva lo strutturalismo in base al concetto generale di strut-
tura, in cui era ricompresa la struttura specifica della linguistica e dell’antropo-
logia strutturali, Wahl sembra defi nire la struttura e lo strutturalismo a partire
dai concetti della linguistica strutturale (e in particolare del suo uso nella rico-
struzione lacaniana della psicanalisi). Nessuno dei due procedimenti dà luogo a
osservazioni radicalmente erronee o fuorvianti, ma il primo ha l’inconveniente
di misconoscere l’originalità dell’uso della struttura in scienze umane, l’altro di
presupporre, come elemento defi nitorio dell’approccio strutturale, una serie di
concetti linguistici e semiologici che hanno senso solo una volta che la linguisti-
ca stessa sia stata convenientemente resa strutturale. In entrambi i casi, il pro-
blema del dispositivo strutturale messo all’opera da linguistica e antropologia
risulta secondario rispetto, in un caso a una “famiglia” di imprese scientifiche
disparate, nell’altro a una problematica incentrata sugli effetti del significante
nel suo uso lacaniano.
98
3
Apparso come libro nel 1916 a cura degli allievi di Saussure, il Corso è noto-
riamente la trascrizione-combinazione di anni di insegnamento orale. Per tutte le
notizie storiche e critiche in proposito si vedrà l’edizione, divenuta un riferimento
internazionale, a cura di Tullio de Mauro, condotta tenendo conto dei materiali
manoscritti, F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1967. Traia-
mo le nostre citazioni dalla decima riedizione del 1994.
4
EMILE BENVENISTE, “Structure” en linguistique, in Problèmes de linguistique gé-
nérale, 1, Gallimard, Paris 1966, p. 92.
5
F. GADET, Saussure. Une science de la langue, Presses universitaires françaises,
Paris 1987, pp. 58-59.
99
6
E. BENVENISTE, op. cit., pp. 95-96.
100
7
J. PIAGET, op. cit., p. 40.
101
8
JEAN-CLAUDE MILNER, Le périple structural, Seuil, Paris 2002, p. 28.
9
«Noi chiamiamo segno la combinazione del concetto e dell’immagine acusti-
ca» (F. DE SAUSSURE, op. cit., p. 85).
10
«L’entità linguistica non esiste che per la associazione del significante e del
significato […] appena si considera uno solo di questi elementi, essa svanisce; in-
vece d’un oggetto concreto ci si trova dinanzi una pura astrazione. In ogni mo-
mento si rischia di non percepire che una parte soltanto dell’entità credendo di
abbracciarla nella sua totalità […] Una sequenza di suoni è linguistica soltanto se
è il supporto di un’idea; presa in se stessa non è altro che materia di uno studio
fisiologico. La stessa cosa si ha col significato, se lo si separa dal suo significante.
Concetti come casa, bianco, vedere ecc., considerati in se stessi, appartengono alla
psicologia; essi diventano entità linguistiche soltanto per associazioni con imma-
gini acustiche; nella lingua un concetto è una qualità della sostanza fonica, così
come una determinata sonorità è una qualità del concetto» (Saussure, op. cit., p.
125). Saussure parla perlopiù di materialità sonora e di immagine acustica. Tutta-
via, egli afferma esplicitamente che le cose non cambiano per la lingua scritta: in
essa si ha comunque un concetto associato a un’immagine psichica, che nel caso
specifico non rappresenta dei suoni ma dei fregi tracciati su una superficie: il si-
gnificante del segno scritto sarebbe immagine visiva, e non acustica. Ciò che im-
porta è che i due lati del segno sono inseparabili: l’uno è una “qualità”, un “attri-
buto”, dell’altro, cioè l’altro gli fa da sostrato, da supporto. Il segno come “oggetto
concreto” non esiste all’infuori di questo legame.
102
11
Come osserva Tullio de Mauro nelle ricche note di commento al Cours, «Per
Saussure non vi è significante là dove non vi è significato, non vi è significante se
non come recto d’un verso semantico, e le “unità irriducibili” non hanno signi-
ficato, non sono segni, ma elementi costitutivi di un segno» (F. DE SAUSSURE, op.
cit., p. 419).
103
∗⎯a
Oggetti ∗⎯b Nomi
∗⎯c
12
F. DE SAUSSURE, op. cit., pp. 83-84.
104
a ⎯ b ⎯c
13
F. DE SAUSSURE, op. cit., pp. 409-410.
14
O. DUCROT, Le structuralisme en linguistique, Seuil, Paris 1968 (come parte
dell’op. cit. Qu’est-ce que le structuralisme?), pp. 18-19 dell’edizione separata.
105
positività degli ordini delle lingue non può venire tematizzata, e che
la lingua stessa, nella pluralità delle sue realtà, non riesce a diventare
un oggetto proprio: «Posto di fronte a configurazioni linguistiche che
gli paiono deviare dalla realtà intellettuale, il filosofo del XVIII secolo
rifiuta di prenderle come oggetto di studio […] Invece di cercare nella
diversità delle configurazioni delle costanti, delle regolarità […] egli le
riduce […] al solo ordine esistente, quello della ragione»15.
Poiché questa autonomizzazione della lingua – non più riflesso del-
la realtà esteriore ma oggetto dotato di un’organizzazione e di un fun-
zionamento propri – dipende dal legame tra significato e significante,
bisogna cercare di capire come avvenga questo legame. Ancora una
volta, è la struttura l’operatore che consente di unire sinteticamente
un’immagine acustica a un concetto. Questa sintesi non è però facile
da pensare. Abbiamo visto che ogni elemento della lingua è determi-
nato dalla propria articolazione con tutti gli altri elementi; ora sem-
bra invece che l’elemento della lingua, cioè il segno, sia determinato
dall’unità tra un certo significante e un certo significato. Ambedue le
tesi sono vere, ma si tratta di concepirne il rapporto – come si passa
dalla struttura (cioè dall’articolazione tra elementi) all’associazione di
un significato a un significante? Infatti, nel sistema della lingua, ogni
immagine acustica o grafica (ogni significante) è determinato dai suoi
rapporti con tutti gli altri significanti; e ogni concetto, cioè ogni signi-
ficato, dal suo rapporto con tutti gli altri significati. Ciascun elemento
appartiene a una serie di elementi della propria “specie”, ed è ciò che
è solo in virtù dei rapporti tra tutti questi elementi. Si tratta per Saus-
15
Ivi, p. 21. Ducrot ricorda come le cose inizino a cambiare già nelle teorie di
Wilhelm von Humboldt: «Humboldt si guarda bene dal dire […] che l’ordine
delle parole rappresenta quello dei pensieri […] L’importante, nella sua prospetti-
va, è che vi sia una regola, quale che sia […], in grado di fissare la situazione di cia-
scun termine in funzione di quella degli altri» (p. 30). Quindi, «le regolarità sco-
perte in ciascuna lingua sono […] largamente arbitrarie […] tecniche grazie alle
quali viene figurata l’unificazione del sensibile nell’esperienza […] Non si tratta
per Humboldt di trovare un tipo determinato di costruzione comune a tutte le
lingue e che rifletterebbe la forma immutabile del giudizio. Secondo lui, la ragio-
ne universale può esprimersi, non malgrado, ma entro, la specificità linguistica»
(p. 32), cosicché si trova in lui «l’affermazione, estranea al pensiero di Port-Royal,
di un’organizzazione linguistica autonoma» (p. 32).
106
16
Lo riprendiamo dall’opera citata di Françoise Gadet.
107
17
Di nuovo il tema è sviluppato nelle fonti manoscritte: «Ciò che davvero è ca-
ratteristico sono gli innumerevoli casi in cui è l’alterazione del segno che cambia
l’idea stessa e in cui si vede di colpo che non c’era nessuna differenza, di momento
in momento, tra la somma delle idee distinte e la somma dei segni distintivi. Due
segni, per alterazione fonetica, si confondono: l’idea, in una misura determinata
(determinata dall’insieme di altri elementi) si confonderà. Un segno si differen-
zia attraverso lo stesso processo cieco: infallibilmente si collega un senso a que-
sta differenza che è appena nata […] constatiamo subito la totale insipienza d’un
punto di vista che parte dalla relazione di una idea e d’un segno fuori del tempo,
fuori della trasmissione, che soltanto ci insegna, sperimentalmente, ciò che vale
il segno» (F. DE SAUSSURE, op. cit., p. 411). Per comprendere questo passo, bisogna
osservare che la terminologia di Saussure è talvolta oscillante: qui “idea” e “se-
gno” stanno rispettivamente per “significato” e “significante”, secondo l’uso poi
fissatosi definitivamente.
18
F. DE SAUSSURE, op. cit., pp. 85-86.
108
19
Ivi, p. 413.
20
Ivi, p. 87.
21
Il rifiuto di una somiglianza naturale tra i due lati del segno è cruciale nella
strategia saussuriana. La tesi di una tale somiglianza dipende ancora una volta
dalla visione “fi losofica” del linguaggio.
109
22
Così si esprime Saussure su questo punto capitale: «Psicologicamente, fatta
astrazione dalla sua espressione in parole, il nostro pensiero non è che una massa
amorfa e indistinta […] Preso in sé stesso, il pensiero è come una nebulosa in cui
niente è necessariamente delimitato. Non vi sono idee prestabilite, e niente è di-
stinto prima dell’apparizione della lingua […] Di fronte a questo reame fluttuan-
te, i suoni offrono forse di per se stessi delle entità circoscritte in anticipo? Niente
affatto. La sostanza fonica non è né più fissa né più rigida; non è un calco di cui
il pensiero debba necessariamente sposare le forme, ma una materia plastica che
si divide a sua volta in parti distinte per fornire i significanti di cui il pensiero ha
bisogno. Noi possiamo dunque rappresentarci il fatto linguistico nel suo insieme,
e cioè possiamo rappresentarci la lingua, come una serie di suddivisioni contigue
proiettate, nel medesimo tempo, sia sul piano indefinito delle idee confuse (A) sia
su quello non meno indeterminato dei suoni (B) […] Il ruolo caratteristico della
lingua di fronte al pensiero non è creare un mezzo fisico materiale per l’espressio-
ne delle idee, ma servire da intermediario tra pensiero e suono, in condizioni tali
che la loro unione sbocchi necessariamente in delimitazioni reciproche di unità
[…] Non vi è dunque né materializzazione dei pensieri, né spiritualizzazione dei
suoni, ma si tratta del fatto […] per cui il “pensiero-suono” implica divisioni e
per cui la lingua elabora le sue unità costituendosi tra due masse amorfe» (F. DE
SAUSSURE, op. cit., p. 137).
110
23
La sistematicità invocata da Saussure nella considerazione della lingua gli
è valsa una serie di accuse di “platonismo” (chissà poi perché debba essere così
infamante il platonismo?), di razionalismo astratto incapace di cogliere il dive-
nire storico della lingua, ridotta anzi a un reticolo immobile di rapporti astratti.
In realtà, queste accuse non hanno molto peso. L’arbitrarietà del segno, cioè la
dipendenza dalla struttura, è la condizione stessa della pensabilità di una storia
dei fenomeni di lingua. Ciò è stato ben colto da de Mauro: «Il segno linguistico è
arbitrario radicalmente, in entrambe le sue componenti, significato e significante;
di conseguenza la sola ragione che determini la particolare configurazione di un
significante o di un significato è il fatto che così e non diversamente lo delimitano
gli altri significanti o significati coesistenti con esso nel medesimo sistema […] ciò
significa che tutto il valore di un segno dipende, attraverso il sistema, dalla società
che tiene in vita in quel certo modo il complesso del sistema, e, quindi, dalle vi-
cende storiche della società […] sicché il valore linguistico è radicalmente sociale
e radicalmente storico» (F. DE SAUSSURE, op. cit., p. 424).
24
E. MELANDRI, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, il Muli-
no, Bologna 1968; Quodlibet, Macerata 2002, p. 57. Emile Benveniste ha d’altron-
de sottolineato come l’arbitrarietà del rapporto tra significante e significato sollevi
111
A questo punto è possibile vedere un po’ più nel dettaglio come fun-
zionano le associazioni tra segmenti. Su questo punto, la dottrina saus-
suriana è molto complessa. Noi non ci occuperemo che degli aspetti
inerenti il problema dell’apriori, cioè del rapporto tra la struttura e le
entità che essa rende possibili.
Le combinazioni di segni si differenziano in rapporti sintagmatici
e rapporti associativi: «Il sintagma dunque si compone sempre di due
o più unità consecutive (per esempio: re-lire; contre tous; la vie humai-
ne; Dieu est bon; s’il fait beau temps, nous sortirons ecc.). Posto in un
sintagma, un termine acquisisce il suo valore solo perché è opposto a
quello che precede o a quello che segue ovvero a entrambi»25. Natura
diversa hanno i rapporti associativi: «La parola enseignement farà sor-
gere inconsciamente nello spirito una folla d’altre parole (enseigner,
renseigner ecc., oppure armement, changement ecc., o ancora éduca-
tion, apprentissage ecc); per qualche aspetto, tutti hanno qualche cosa
di comune tra loro. Ognuno vede che queste coordinazioni sono d’una
specie affatto diversa rispetto alle prime. Esse non hanno per suppor-
to l’estensione; la loro sede è nel cervello; esse fanno parte di quel te-
soro interiore che costituisce la lingua in ciascun individuo. Noi le
chiameremo rapporti associativi»26. Saussure illustra il rapporto tra i
due tipi di rapporto con un’analogia di grande interesse: «Da questo
duplice punto di vista, una unità linguistica è comparabile a una parte
determinata di un edificio, ad esempio una colonna; questa si trova da
un canto in un certo rapporto con l’architrave che sorregge; tale orga-
nizzazione delle due unità egualmente presenti nello spazio fa pensa-
re al rapporto sintagmatico; d’altra parte, se questa colonna è d’ordine
dorico, essa evoca il confronto mentale con altri ordini (ionico, corin-
molti problemi – da quanto precede, risulta chiaramente che non può esistere un
significato autonomo rispetto ai significanti di cui dispone una lingua. Quindi,
l’associazione di un significato e di un significante in un segno è necessariamen-
te determinata dal sistema della lingua, dunque dalla struttura. L’arbitrarietà si
riduce allora a una tesi molto precisa: l’associazione dei due lati del segno non
dipende da una loro affi nità naturale, ma dall’operazione di doppia segmentazio-
ne attuata dalla struttura, in cui la struttura stessa si risolve. Il risultato di questa
operazione è dunque sintomo della struttura.
25
F. DE SAUSSURE, op. cit., p. 149.
26
Ivi, p. 150.
112
zio, ecc.), che sono elementi non presenti nello spazio: il rapporto è
associativo»27. Con la teoria dei rapporti associativi, ci troviamo al
cuore della teoria saussuriana, e quindi anche del problema dell’aprio-
ricità della struttura. Innanzitutto, si deve osservare il primato siste-
matico attribuito ai rapporti associativi rispetto a quelli sintagmatici:
i segni combinati nei sintagmi devono essere innanzitutto selezionati
a livello delle associazioni che li definiscono. Ogni segno che appare
in una catena sintagmatica vi appare “al posto di” tutti gli altri segni
astrattamente possibili e a esso associati. Per restare all’esempio saus-
suriano, in un sintagma in cui compaia enseignement, questo segno vi
compare a esclusione di tutti gli altri segni che hanno con lui qualcosa
in comune e che “fluttuano” attorno a lui; nondimeno, questi segni
esclusi, continuano a “fluttuare” attorno a enseignement, dimodoché il
significato dell’unico segno attualizzato sia determinato da un “intor-
no” di segni virtuali. Vi sono due celebri analogie saussuriane che aiu-
tano a comprendere questo meccanismo: quella scacchistica 28 e quella
ferroviaria. Il percorso di un treno, quale registrato sull’orario ferro-
viario, non è determinato solo dalle stazioni in cui esso effettivamente
ferma (che sarebbe il “sintagma” ferroviario), ma anche dai rapporti
differenziali con tutti gli altri treni, differenti tra loro per orario, tra-
gitto, binario, ecc. L’analogia scacchistica è forse più calzante: nel cor-
so della partita, un singolo pezzo può essere utilizzato in diverse mos-
se, la cui successione costituirà una serie sintagmatica. Queste mosse
sono decise dal giocatore con una certa libertà, e dipendono dall’an-
damento complessivo della partita. In questo, sono paragonabili alle
attualizzazioni dei segni nel contesto del commercio linguistico ordi-
nario. Ma, proprio come per i segni, la libertà di cui dispone un pezzo
non è assoluta: al contrario, essa è determinata dai suoi rapporti con
27
Ibidem.
28
«Di tutti i paragoni che potrebbero immaginarsi, il più dimostrativo è quel-
lo che potrebbe stabilirsi tra il gioco della lingua e una partita a scacchi. Da una
parte e dall’altra, si è in presenza di un sistema di valori e si assiste alle loro mo-
dificazioni. Una partita a scacchi è come una realizzazione artificiale di ciò che
la lingua ci presenta in forma naturale […] Il valore rispettivo dei pezzi dipende
dalla loro posizione sulla scacchiera, allo stesso modo che nella lingua ogni ter-
mine ha il suo valore per l’opposizione con tutti gli altri termini» (F. DE SAUSSURE,
op. cit., pp. 107-108).
113
tutti gli altri pezzi. Così, una torre potrà trovarsi in un certo numero
di posizioni non interamente predeterminate (a differenza, o almeno
così si spera, del percorso di un treno) e la cui attualizzazione si deci-
de di volta in volta a livello del contesto, cioè della partita; ma questo
insieme di posizioni possibili sarà defi nito differenzialmente rispetto
alle possibili posizioni, poniamo, del cavallo: tra le mosse possibili
con una torre non vi sono quelle possibili solo al cavallo, e viceversa.
In breve, a livello sia sintagmatico che associativo, i segni sono deter-
minati da tutti gli altri segni che essi stessi non sono: «Nella lingua, tut-
to si risolve in differenze»29. Un segno dunque non ha alcuna sostan-
za, la sua identità non è atomica, perché nessun segno è definibile e
individuabile aldifuori dei rapporti sistematici che lo uniscono e lo
oppongono a tutti gli altri in seno al sistema. Un’unità linguistica è
pertanto un fascio di rinvii ad altre unità, a tutte le entità della lingua
cui esso rimanda per qualche motivo. I rinvii possono defi nire delle
solidarietà sintagmatiche: «Quasi tutte le unità della lingua dipendono
sia da ciò che le circonda nella catena parlata, sia dalle parti successive
di cui esse stesse si compongono»30. Ma, per analizzare le parti del
sintagma, occorre prendere in conto le coordinazioni associative: «Si
osservi il composto dé-faire. Possiamo rappresentarlo su un nastro
orizzontale corrispondente alla catena parlata: dé-faire →. Ma simulta-
neamente, e su un altro asse, esistono nel subcosciente una o più serie
associative comprendenti delle unità che hanno un elemento comune
col sintagma, per esempio: décoller, déplacer, découdre, ecc., oppure
faire, refaire, contrefaire, ecc. Egualmente, se il latino quadruplex è un
sintagma, lo è perché anch’esso poggia su due serie associative: qua-
drupes, quadrifons, quadraginta, ecc., e simplex, triplex, centuplex, ecc.
Soltanto nella misura in cui le altre forme fluttuano intorno a défaire
o a quadruplex queste due parole possono venir decomposte in sotto-
unità, vale a dire sono sintagmi. Ad esempio défaire sarebbe in analiz-
zabile se le altre forme contenenti dé- o faire sparissero dalla lingua;
non sarebbe più che un’unità semplice e le sue due parti non sarebbe-
ro più opponibili l’una all’altra. Dato ciò, si comprende il gioco di
questo doppio sistema nel discorso. La nostra memoria tiene in riser-
29
Ivi, p. 155.
30
Ivi, p. 154.
114
115
32
Mi permetto, in proposito, di rimandare alla mia voce Archeologia, nel vol.
I dell’Enciclopedia Filosofica Bompiani, diretta da Virgilio Melchiorre e Massi-
mo Marassi.
116
33
F. DE SAUSSURE, op. cit., pp. 90-91.
34
Ivi, pp. 92-93.
117
35
Ivi, p. 93.
36
Ivi, p. 94.
118
119
120
121
della vita sociale», che l’etnologia «traesse la sua originalità dalla na-
tura inconscia dei fenomeni collettivi»37. Si tratterà allora di pensare
questi condizionamenti inconsci dell’agire sociale nei termini definiti
dalla linguistica saussuriana e post-saussuriana. Anche in questo caso,
il terreno è stato preparato da un accostamento tra cultura e linguag-
gio non ignoto all’antropologia precedente, e di cui Lévi-Strauss cita il
caso di Franz Boas: «Spetta a Boas il merito di avere, con straordinaria
lucidità, definito la natura inconscia dei fenomeni culturali, in pagine
in cui, assimilandoli da questo punto di vista al linguaggio, anticipava
lo sviluppo ulteriore del pensiero linguistico […] Dopo aver dimostra-
to che la struttura della lingua rimane sconosciuta da colui che parla
fino all’avvento di una grammatica scientifica, e che, anche allora, essa
37
CLAUDE LÉVI-STRAUSS, Introduction, in Antropologie structurale, Plon, Paris
1964, tr. it. di P. Caruso, Introduzione, in Antropologia strutturale, il Saggiatore, Mi-
lano 1990, 2002, p. 31. Lévi-Strauss riconduce questa formulazione relativa ai feno-
meni collettivi all’antropologo Edward B. Tylor che «dopo aver definito l’etnologia
come lo studio “della cultura o civiltà”, la descriveva come un complesso insieme
in cui si dispongono “le conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, usanze, e tutte
le altre capacità o abitudini acquisite dall’uomo in quanto membro della società”.
Orbene, è noto che, nella maggior parte dei popoli primitivi, è difficilissimo ot-
tenere una giustificazione morale, o una spiegazione razionale, di un’usanza o di
un’istituzione […] Anche quando si incontrano interpretazioni, queste hanno sem-
pre il carattere di razionalizzazioni o di elaborazioni secondarie: non c’è dubbio
che le ragioni inconsce per cui si pratica un’usanza, o si condivide una credenza,
sono lontanissime da quelle invocate per giustificarla». Peraltro, in questo, secon-
do Lévi-Strauss non vi è alcuna differenza tra i popoli “primitivi” e gli altri detti
civilizzati: «Anche nella nostra società, le buone maniere a tavola, gli usi sociali,
le regole del vestirsi e molti nostri atteggiamenti morali, politici e religiosi, sono
osservati scrupolosamente da ciascuno, senza che la loro origine e la loro funzione
reali siao state oggetto di ponderato esame. Agiamo e pensiamo per abitudine, e
l’inaudita resistenza opposta a deroghe, sia pur minime, deriva più dall’inerzia che
da una volontà cosciente di mantenere usanze di cui si capisca la ragione» (C. LÉVI-
STRAUSS, op. cit., p. 31. Le citazioni da Tylor sono tratte dall’opera Primitive cultu-
re, London 1871, vol. I, p. 1). Emerge qui una tendenza centrale in Lévi-Strauss,
quella di rifiutare ogni differenza radicale e invalicabile tra le culture e le usanze
dei popoli “primitivi” (più correttamente definiti “senza scrittura”) e le civiltà “svi-
luppate”, contro ogni dualismo categorico tra primitivi e civilizzati. Infatti, come
vedremo, le culture sono unite dalle strutture inconsce che organizzano credenze,
pratiche, istituzioni, ecc., e che in ciascuna cultura si attualizzano diversamente.
122
38
C. LÈVI-STRAUSS, op. cit., p. 32. Lévi-Strauss cita da F. BOAS (a cura di), Hand-
book of American Indian Languages, Bureau of American Ethnology, bollettino n.
40, 1911 (1908), parte I, p. 67 e pp. 70-71.
39
Ivi, p. 33.
123
40
Ivi, pp. 33-34.
41
C. LÉVI-STRAUSS, L’analisi strutturale in linguistica e in antropologia, in An-
tropologia strutturale, cit., p. 48. Lévi-Strauss parla di “fonologia” e “fonemi”. Si
tratta di termini derivati dalla linguistica post-saussuriana, in particolar modo da
quella di Nikolaj Trubečkoj (creatore appunto della fonologia) e Roman Jakobson
che hanno combinato l’insegnamento saussuriano con quello del linguista polac-
co J. Baudouin de Courtenay, inventore del termine “fonema”. Il fonema sarebbe
la più piccola unità distintiva della lingua, cioè «Il valore linguistico del fonema
a nasale in francese e, in generale, in tutti i fonemi di qualsiasi lingua, non è altro
124
ma, come Saussure fece con i segni, per poi risolverle nel reticolo del-
le relazioni sistematiche: «Ciò che generalmente si chiama “sistema di
parentela” comprende […] due ordini diversi di realtà. Ci sono, prima
di tutto, i termini con i quali si esprimono i vari tipi di relazioni fami-
liari. Ma la parentela non si esprime soltanto in una nomenclatura: gli
individui, o le classi di individui che adoperano i termini, si sentono
(o, secondo i casi, non si sentono) tenuti, ciascuno nei confronti de-
che quello di poter distinguere la parola che contiene questo fonema da ogni parola
che, ceteris paribus, contiene un altro fonema» (ROMAN JAKOBSON, La linguistica e
le scienze dell’uomo. Sei lezioni sul suono e sul senso, Introduzione di Claude Lévi-
Strauss, il Saggiatore, Milano 1978, p. 77). Come si vede, i fonologi riprendono
l’idea saussuriana che le entità linguistiche siano puramente relazionali e tragga-
no valore dal sistema in cui compaiono, non dalla determinatezza materiale dei
suoni: uno stesso suono può infatti avere valori diversi in diversi sistemi fonema-
tici: «Ciò che noi riconosciamo nel discorso non sono delle differenze fra i suoni
come tali, ma differenze nell’uso che ne fa la lingua, vale a dire differenze che,
senza avere significato proprio, sono impiegate a discriminare l’una dall’altra le
entità di un livello superiore» (ivi, p. 88). Tuttavia, il fonema dei fonologi è solo
una delle unità che Saussure individuava nella lingua e unificava sotto il termine
di “segno”. Per la nostra discussione dell’apriori strutturale, non vi è comunque
differenza di principio tra Saussure e questi suoi eredi. Segnaliamo la posizione
contraria di Jocelyn Benoist, per cui il modello fonologico di Trubeckoj forni-
rebbe una correzione materialista a Saussure, in cui resterebbe «una dimensione
d’”idealità” nella lingua in virtù della sua sistematicità che si oppone a […] una
costruzione come il fonema, prelevata dall’attività linguistica reale dei soggetti
enunciatori» (J. BENOIST, Le dernier pas du structuralisme, “Philosophie”, 98, 2008,
n. mon. Claude Lévi-Strauss: langage, signes, symbolisme, nature, p. 57); il che per-
mette a Lévi-Strauss di pensare una struttura che «si costituisce negli elementi re-
ali, concreti […] è un aspetto della sua apologia del bricolage in La pensée sauvage:
si opera con ciò che si ha, cioè esclusivamente con delle realtà» (ibidem). in realtà,
si è visto come per Jakobson e Lévi-Strauss, la sistematicità non sia un elemento
accessorio, poiché il fonema può essere individuato solo differenzialmente; vice-
versa, la metafora del “doppio taglio” dei due flussi mostra che un certo Saussure
non è indifferente alle virtualità della materia sensibile (o sensibil-ideale) della
lingua. È vero, come dice Benoist, che “lo strutturalismo è sempre uno struttura-
lismo dei corpi” (ibidem), ma la materialità dei corpi in questione è sempre quella
di una dimensione virtuale, la cui plasticità può fare da supporto all’idealità dei
sistemi – non vi è dunque opposizione tra idealità e realtà, tra sistemi strutturali e
elementi concreti, il concreto non potendo essere determinato che da un’attualz-
zazione sistematica delle sue virtualità.
125
42
Ivi, p. 51.
43
Ivi, p. 55. Lévi-Strauss cita A.R. R ADCLIFFE-BROWN, The Mother’sBrother in
South Africa, “South African Journal of Science”, 21 (1924).
44
Ivi, pp. 56-57.
45
Ibidem.
126
figlio), uniti fra loro da due coppie di opposizioni correlative, e tali che,
in ciascuna delle due generazioni in causa, esista sempre una relazione
positiva e una negativa […] questa struttura è la struttura di parentela
più semplice che si possa concepire e che possa esistere. È […] l’atomo
di parentela […] perché una struttura di parentela esista, occorre che
in essa si trovino presenti i tre tipi di relazioni familiari sempre dati
nella società umana, ovverosia: una relazione di consanguineità, una
relazione di parentela d’acquisto, una relazione di filiazione»46. Aldi-
fuori di questa struttura, non esiste parentela nel senso delle società
umane, in cui i legami sociali di ogni tipo non hanno un’esistenza pu-
ramente biologica: «Il carattere primitivo e irriducibile dell’elemento
di parentela […] risulta infatti, in modo immediato, dall’esistenza uni-
versale della proibizione dell’incesto. Tale proibizione equivale a dire
che, nella società umana, un uomo non può ottenere una donna se non
da un altro uomo, che gliela cede sotto forma di figlia o di sorella», da
cui il ruolo dello zio materno47. Si noti che l’atomo di parentela è alla
base di ogni tipo di relazione di parentela, non già come una norma
superiore che unificherebbe tutte le possibili relazioni “dall’alto”, ma
come un campo di relazioni elementari suscettibile di deformazioni
indefinite, e che, mediante tali variazioni sul proprio “tema”, genere-
rebbe logicamente ogni possibile relazione siffatta: «Tale struttura ele-
mentare, risultante da relazioni definite tra quattro termini, è per noi il
vero atomo di parentela. Non c’è esistenza che possa essere concepita o
data aldiquà delle esigenze fondamentali della sua struttura, e, d’altra
parte, esso è l’unica materia prima per costruire sistemi più complessi.
Giacché sistemi più complessi esistono; o, per essere più esatti, ogni
sistema di parentela è elaborato in base a questa struttura elementare
che si ripete, o si sviluppa, per integrazione di nuovi elementi»48. Lévi-
Strauss nega dunque che dalle sue analisi possa ricavarsi una forma di
parentela eticamente o culturalmente superiore alle altre. La fonda-
mentalità dell’“atomo” risiede solo nel suo ruolo di matrice di una serie
indefinita di variazioni possibili. In tal senso, esso rappresenta il mo-
mento in cui l’ordine dei dati naturali viene sottomesso a un altro ordi-
46
Ivi, pp. 59-61.
47
Ivi, p. 61.
48
Ivi, p. 63.
127
49
F. KECK, Claude Lévi-Strauss. Une introduction, Pocket/La Découverte, Paris
2005, p. 80.
50
C. LÉVI-STRAUSS, Les structures élémentaires de la parenté, Plon, Paris 1949,
p. 37.
128
51
Ivi, p. 54.
52
Risale notoriamente a Lucien Lévy-Bruhl la tesi per cui il pensiero dei pri-
mitivi non è governato dalla logica del principio d’identità, ma da un principio di
“partecipazione” per cui ogni cosa sarebbe indistinta rispetto alle altre, un prin-
cipio fondato sull’affettività. Il risultato di questa posizione è di scavare un fossa-
to invalicabile tra “noi” e i “primitivi”, e soprattutto di ipostatizzare una nozione
molto “filosofica” del pensiero dei civilizzati, il quale, non più di quello primitivo,
non è guidato da un principio di identità elementare – ciò che è implicito nelle
analisi di Saussure e Lévi-Strauss.
129
su e a partire da, le determinazioni sensibili del reale, che esso usa per
costruire sistemi simbolici53. In questo senso, tale pensiero non è uni-
camente pratico, ma è guidato da un interesse teoretico: «Il suo oggetto
primario non è di ordine pratico. Esso risponde a esigenze intellettuali,
prima, o invece, di soddisfare dei bisogni. La vera questione non è di
sapere se il contatto di un becco di picchio guarisce il mal di denti, ma
di sapere se è possibile, da un certo punto di vista, far “stare insieme”
il becco di picchio e il dente dell’uomo (congruenza di cui la formula
terapeutica costituisce solo un’applicazione ipotetica tra tante altre), e,
per mezzo di questi raggruppamenti di cose e di esseri, introdurre un
principio d’ordine nell’universo; la classificazione, quale che essa sia,
possiede infatti una virtù propria rispetto all’assenza di classificazio-
ne […] Ora, questa esigenza d’ordine è alla base del pensiero che noi
chiamiamo primitivo, ma solo nella misura in cui essa è alla base di
ogni pensiero: poiché è dal punto di vista delle proprietà comuni che
noi accediamo più facilmente alle forme di pensiero che ci sembrano le
più estranee»54. Dunque, si tratta di introdurre un ordine nel mondo
trasformando i suoi caratteri sensibili (ivi compresi i comportamenti e
le relazioni biologiche degli esseri viventi umani e non) in elementi di
un sistema strutturato. È secondo questa logica che i “primitivi” com-
pongono le loro classificazioni (caratterizzate da un’attenzione alle dif-
ferenze sensibili che il pensiero “civilizzato” ha perduto), e giungono a
vedere la realtà come un sistema di corrispondenze simboliche in cui
i diversi piani si simbolizzano vicendevolmente55: «Non sono le somi-
53
C. LÉVI-STRAUSS, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962.
54
Ivi, pp. 21-22. La tesi per cui il pensiero dei primitivi sarebbe guidato dall’uti-
lità immediata è stata sostenuta da Bronislaw Malinowski. In tal modo, però, l’an-
tropologo finisce per attribuire a tutte le culture un fondamento in comportamen-
ti tipici dell’homo oeconomicus “occidentale”, mentre la ricerca razionale dell’utile
attraverso il calcolo della relazione mezzi-fini in condizioni di risorse scarse è un
tipo di azione la cui razionalità non è disgiungibile dal sistema di rapporti cui
appartiene: quello cioè delle società occidentali a partire dalla rivoluzione indu-
striale. Malinowski commette quindi un errore simmetrico e complementare a
quello di Lévy-Bruhl.
55
Commenta un interprete francese di Lévi-Strauss, Patrice Maniglier: «Il pen-
siero selvaggio “attacca la realtà a livello del sensibile”[…] esso utilizza certi aspetti
della realtà sensibile per “spiegarne” altri: da cui i suoi altri nomi: logica del sen-
sibile, scienza del concreto, ecc. Esso procede per “corrispondenze” (come nella
130
131
sui caratteri materiali delle cose stesse, come si è già visto per le strut-
ture di parentela e i fenomeni biologici; è qui che il pensiero simbolico
è analogo al bricolage: come in quest’ultima attività gli stessi materiali
possono assumere una gamma di funzioni diverse, compatibili con i
loro caratteri materiali, ma non deducibili da essi, allo stesso modo il
pensiero simbolico può costruire diversi sistemi simbolici con gli stes-
si materiali, i cui caratteri possono divenire portatori di significazioni
differenti (come il bricolage può usare un martello altrettanto bene per
piantare un chiodo che per reggere uno sgabello…): «[Gli elementi su
cui agisce il bricolage] sono particolarizzati solo a metà: abbastanza per-
ché il bricoleur non abbia bisogno dell’equipaggiamento e del sapere
[dell’ingegnere]; ma non abbastanza perché ciascun elemento sia limi-
tato a un impiego preciso e determinato. Ogni elemento rappresenta un
insieme di relazioni, a un tempo concrete e virtuali; sono degli opera-
tori, ma utilizzabili in vista di operazioni qualunque all’interno di un
tipo»58. I materiali assumono funzioni che, da sola, la loro natura mate-
riale non può giustificare, perché, di per sé, essa ne tollererebbe diverse:
in tal caso la loro funzionalità è sottodeterminata; e, poiché questi carat-
teri materiali di per sé non decidono una funzione, essa verrà decisa dal
rapporto sistematico di alcuni caratteri con altri entro un sistema: in tal
caso, la funzionalità è surdeterminata. Si vede come la surdeterminazio-
ne e la sottodeterminazione siano complementari – l’una rappresenta
l’insufficienza della natura a fondare le leggi simboliche della vita socia-
le, mentre l’altra rappresenta l’azione del simbolico sulle forme naturali.
Anche i suoni sono sottodeterminati rispetto alle funzioni che assu-
mono in una lingua, surdeterminati dalle relazioni strutturali interne a
questa: il rapporto tra sur- e sotto- determinazione circoscrive dunque
l’azione dell’apriori rispetto ai materiali che organizza – essi cessano, in
virtù della sottodeterminazione, di essere vestigia della natura per dive-
nire parti surdeterminate di un sistema.
Il che porta a una conseguenza necessaria: l’uomo non ha mai a che
fare con la “natura” intesa come insieme puramente materiale. Tutto
132
ciò che è “naturale”, dai caratteri fisici degli animali, delle piante e
delle pietre ai comportamenti sessuali o alimentari, è già da sempre
esperito attraverso i sistemi simbolici in cui la mente umana59 lo inse-
risce. La materia è sempre, per l’uomo, una materia-in-forma, dotata di
significazione dal proprio essere supporto di relazioni simboliche. Si
possono allora sviluppare due linee di pensiero a partire da questa tesi.
La prima è incentrata sulla necessaria categorizzazione culturale della
natura: l’uomo non si troverebbe mai di fronte degli oggetti puramen-
te manipolabili, ma solo entità già culturalmente filtrate. Questa linea
è stata sviluppata in particolare da antropologi ispirati a Lévi-Strauss
come Lucien Sebag e Marshall Sahlins: «L’interferenza tra natura e
cultura […] nasce quindi […] da una culturizzazione della realtà na-
turale. La natura diviene cultura […] attraverso l’integrazione di un
certo numero di elementi naturali in un tipo d’ordine che caratterizza
la cultura. Ora, questa caratteristica è propria di ogni sistema simbo-
59
Ricordiamo che in francese “mente” si traduce con esprit. Le frequenti in-
vocazioni dell’esprit humain da parte di Lévi-Strauss hanno innescato – nel corso
di diatribe molto lontane – una polemica molto volgare da parte di Sebastiano
Timpanaro (personaggio non alieno da volgarità, come testimonia il capitolo sul-
lo strutturalismo contenuto in ID., Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970) che
voleva vedere a tutti i costi uno spiritualismo idealistico nel piuttosto positivista
e razionalista Lévi-Strauss. I veri spiritualisti cristiani, come Paul Ricoeur, han-
no invece sempre contestato a Lévi-Strauss il partito preso di fare della vitalità
soggettiva dello “spirito” un mero effetto della struttura. Ricoeur ha anche rifiu-
tato la tesi lévistraussiana di una uguaglianza formale di tutte le culture, oppo-
nendo un privilegio ermeneutico in favore dell’unica cultura che ha conosciuto
il messaggio biblico. La cultura sorta dal cristianesimo sarebbe l’unico oggetto
specificamente ermeneutico, cioè di cui è possibile interpretare il senso, mentre
per le altre culture l’approccio obiettivante di Lévi-Strauss sarebbe sufficiente. È
chiaro come questa impostazione non abbia nulla in comune con l’antropologia
strutturale lévistraussiana. La mente umana è la dinamica generatrice dei sistemi
simbolici in cui si risolve ogni cultura, e quindi coincide con la “messa in forma”
strutturale delle “cose”. L’inesistenza di un sistema simbolico privilegiato – ogget-
to meramente presunto di una disciplina sui generis – permette però di compren-
dere le leggi e le dinamiche di questa messa in forma: Lévi-Strauss proporrebbe
in tal senso una sorta di ermeneutica allargata, capace di mettere in questione la
costituzione stessa di un “mondo” qualunque per degli esseri umani qualunque,
senza la presupposizione ideologica di un dualismo tra una cultura privilegiata,
anomala, e il mare magnum delle altre.
133
lico […] essa può venir definita nel modo seguente: utilizzazione di
una materia […] che può essere naturale (colori, suoni, gusti, ecc.) o
culturale (quella fornita da sistemi semiologici già costruiti)»60. Per Se-
bag – discepolo marxista di Lévi-Strauss – si tratta di negare che esista
una razionalità economica-utilitaristica “naturale”, astorica e decultu-
ralizzata, in cui il soggetto calcolante della ratio oeconomica moderna
si troverebbe direttamente e senza mediazioni simboliche confrontato
alla natura delle cose da cui ricavare un’utilità: «L’allevamento di una
certa specie di animali, la pratica di una determinata coltura, sono il
prodotto d’un lavoro continuo dell’intelletto che si esercita su un certo
ambiente naturale; la fabbricazione di strumenti, il lavoro della terra,
l’utilizzazione ordinata e regolata del mondo animale presuppongono
una massa di osservazioni, di ricerche, di analisi, che […] non pren-
dono forma se non attraverso la mediazione di un sistema di pensie-
ro, che supera il piano teorico o semplicemente economico. In questo
senso questi ultimi non sono più “naturali” di qualsiasi altro aspetto
della società»61. Se Sebag si ispira al Marx che afferma «Un negro è
un negro. Soltanto in determinate condizioni egli diventa uno schiavo.
Una macchina filatrice di cotone è una macchina per filare il cotone.
Soltanto in determinate condizioni essa diventa capitale» (Karl Marx,
Lavoro salariato e capitale (1847), Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 46),
sostenendo quindi la relatività della razionalità tecnologica e economi-
ca al sistema dei rapporti sociali capitalistici, Sahlins, polemico con ciò
che nel marxismo resta comunque una naturalizzazione dell’attività
economica, si rifà piuttosto a Boas, da lui visto come un contempora-
neo spirituale e complementare di Marx: «Boas interpolò un elemento
soggettivo indipendente tra le condizioni obiettive e il comportamento
organizzato, tale che quest’ultimo non derivasse meccanicamente dal
primo […] il termine mediatore può essere definito grosso modo come
un’operazione mentale, generata dal contesto e dall’esperienza prece-
dente, che, guidando la percezione specifica i rapporti tra stimolo e
risposta […] il termine mediatore è la tradizione, il Völkergedanken
o modello dominante, che dà ordine nello stesso tempo alla relazio-
ne con la natura, alle istituzioni esistenti, e all’interazioni tra queste
60
LUCIEN SEBAG, Marxismo e strutturalismo, Feltrinelli, Milano 1972, p. 102.
61
Ivi, p. 207.
134
62
MARSHALL SAHLINS, Cultura e utilità, Anabasi, Milano 1994, pp. 82-83.
63
P. MANIGLIER, La culture, Ellipses, Paris 2003, pp. 57-58.
135
altà sensibile, cioè ciò che bisognerebbe spiegare, per spiegarne altri,
che possono poi essi stessi servire a loro volta da mezzi di spiegazione
[…] il bricolage appare come il modello di una logica dell’eteroclito che
permette di introdurre dell’ordine nel dato sensibile utilizzando la va-
rietà stessa del sensibile. Esso permette dunque di comprendere che le
strutture non sono già pronte nel cervello, ma che sono al contrario dei
mezzi di estrarre dalla realtà stessa un ordine virtuale che quest’ultima
racchiude in sé […] I sistemi non sono mai il frutto dell’applicazione
di un principio di totalizzazione dato in anticipo, ma una struttura è
prelevata nel contenuto stesso che è lei a strutturare»64. È chiaro che
queste due linee complementari lungo le quali si può sviluppare l’antro-
pologia lévi-straussiana corrispondono a una ulteriore dicotomia risolta
nel funzionamento dell’apriori strutturale. Quest’ultimo è principio di
ordinamento arbitrario del mondo sensibile e, al tempo stesso, mezzo
per prelevare da quest’ultimo delle possibilità latenti di significazione.
Un sistema simbolico è l’attualizzazione di una riserva simbolica che
appartiene virtualmente al materiale da ordinare, e in tal senso esso
attualizza tanto una possibilità della mente – cioè rende reale uno dei
possibili sistemi di rappresentazioni di cui questa è capace – quanto una
virtualità del mondo – cioè un possibile senso dell’infinita molteplicità
delle cose. Entrambi questi lati vanno tenuti presenti: trascurarne uno
significherebbe ricadere in un dualismo che potremmo chiamare dua-
lismo di codice e messaggio, laddove il codice è il sistema simbolico e
il messaggio è il mondo sensibile. Se consideriamo il mondo sensibile
come una materia inerte totalmente passiva di fronte alla messa in for-
ma strutturale finiamo per ipostatizzare il codice, e per credere che il
significato possa generare dal nulla l’esistenza materiale delle cose; se
consideriamo le cose stesse come portatrici di un senso univoco intera-
mente determinato da esse finiamo per ipostatizzare il messaggio, per
crederlo autotrasparente; in entrambi i casi si finisce quindi per blocca-
re la possibilità di una pluralità di sistemi simbolici e per negare la tra-
sformabilità di quelli esistenti: un codice che risolvesse interamente in
sé i messaggi non avrebbe mai bisogno di cambiare perché non si por-
rebbe mai il problema di una sua maggior o minor adeguazione a questi
ultimi; e un messaggio che contenesse già in sé l’unico codice entro cui
64
P. MANIGLIER, Le Vocabulaire de Lévi-Strauss, cit., pp. 7-8.
136
3. Conclusioni
65
J.-CL. MILNER, Le périple structural, Seuil, Paris 2002, p. 182.
137
66
Ivi, pp. 186-187.
67
«Empirica, matematizzata, la scienza moderna è anche strumentale […]La
scienza galileiana s’impone dall’inizio come teoria della tecnica e la tecnica si con-
cepisce come applicazione della scienza […] la scienza può […] rivelarsi non esser
altro che un frammento di tecnica trasformato in teoria; la tecnica può […] pre-
sentarsi come un frammento di scienza trasmutato in applicazione […] Allora non
è più vero che la natura definisca il luogo di ciò che sfugge all’azione e alla volontà
umane. Essa è piuttosto il luogo in cui possono esercitarsi, tramite l’intermedia-
rio della scienza, teorica o applicata, questa azione e questa volontà» (Ivi, p. 188).
138
68
Ivi, p. 195.
69
Ivi, pp. 195-196. Come abbiamo avuto modo di osservare in precedenza,
questa riconduzione della necessità nella soggettività umana prolunga un movi-
mento del XIX secolo: «All’inizio di questo secolo infatti si constatò […] che gli
uomini […] per effetto dei soli rapporti che essi costruiscono liberamente tra loro,
sono condotti a seguire dei vincoli altrettanto anonimi, altrettanto costanti, ove
essi si esercitano, altrettanto necessari e inesorabili delle leggi della natura, ma
eventualmente altrettanto variabili da un luogo a un altro, da un’epoca a un’altra,
dei costumi» (Ivi, p. 195).
70
Riprendiamo questa nozione allargata di “ermeneutica” da Enzo Melan-
dri: «La semiologia deve dirci quali fenomeni vadano intesi come segni e quali
139
no. L’ermeneutica deve darci la chiave interpretativa dei fenomeni segnici […] la
semiologia indica il luogo o i luoghi del “messaggio” e ci dice dove possiamo tro-
varlo; mentre l’ermeneutica studia il modo di leggerlo e ci dice con quali “codici”
possiamo ricavare informazioni utili» (E. MELANDRI, La linea e il circolo, cit., p.
671). L’ermeneutica è necessaria perché «il codice non può esser ricavato dal mes-
saggio per semplice induzione: occorre un’ipotesi la quale vada oltre il dato, per
poi cercare in questo la sua concreta verificazione» (ivi, p. 672). Ora, questo pri-
mato dell’ermeneutica, cioè del criterio di rilevanza in base al quale le cose sono
o meno significative, rischia di cadere nell’idealismo, defi nito come «la tendenza
a ridurre ogni questione ontologica a un problema di significato; cioè a riporta-
re ogni semiologia nell’ambito di un’ermeneutica» (ibidem). In tal caso, si ripro-
porrebbe un dualismo, poiché l’ontologia, cioè la determinatezza materiale delle
“cose”, non avrebbe più nessun rapporto con i criteri di significatività di questi
ultimi. D’altronde, rinunciare all’autonomia dei codici rispetto ai dati significa
presupporre «una preliminare divisione dei fenomeni in significativi e non-signi-
ficativi […] in tal caso la semiologia precede l’ermeneutica, ovvero l’ermeneutica
procede per mezzo di una chiave prefissata» (ivi, p. 673). L’unica soluzione è allar-
gare il significato dell’ermeneutica: «Per superare il dualismo categorico di cui di-
ciamo, occorrerebbe […] un criterio per ricavare la semiologia dall’ermeneutica,
e precisamente da un’ermeneutica non prefissata» (ibidem). L’ermeneutica deve
diventare, da mero discorso sull’autonomia dei codici e dei criteri interpretativi,
un discorso sull’instaurazione di detti codici e criteri, dunque un discorso nel cui
orizzonte il codice e il messaggio, le cose e il loro significato, sono visti nella loro
originaria comunicazione, prima di irrigidirsi in un dualismo: «L’ermeneutica
non è solamente interpretazione dei segni già costituiti e per così dire legalizzati
[…] ma è l’interpretazione che, presa in statu nascendi, fa di ogni cosa un segno»
(ivi, pp. 660-661). L’antropologia strutturale di Lévi-Strauss e la linguistica gene-
rale di Saussure sono appunto parti di questa “ermeneutica generale” evocata da
Melandri, in quanto tematizzano l’intreccio delle cose e del significato su di un
piano unitario, accessibile per regressione archeologica dai significati già costituiti,
dunque a partire dalle istituzioni semiologiche ed ermeneutiche vigenti. Per svi-
luppi ulteriori del tema mi permetto di rimandare, oltre che alla già citata voce
Archeologia, al mio contributo Oltre l’ontologia: dalla verità agli enti nel n° 5 della
rivista “Glaux”, dedicato appunto all’ontologia, e al volume curato dal sottoscritto
e da Alberto Gualandi della rivista “Discipline Filosofiche” intitolato L’epistemo-
logia francese e il problema del trascendentale storico.
140
stessi organizzati dalla struttura nell’atto medesimo con cui essa fornisce
loro un oggetto: vi è quindi una reciproca invaginazione della “mente” e
del “mondo”. Infatti, non si potrebbe parlare in nessun caso di un ri-
specchiamento nel senso di una corrispondenza biunivoca tra le cose e
la mente: ciò che esse hanno in comune è piuttosto la tendenza sponta-
nea a produrre ordine, cioè a stabilire delle differenze e ad articolarle.
Questo movimento di analisi della materia in un molteplice e di sintesi
del molteplice in un sistema si verifica spontaneamente nelle “cose” e nel
pensiero simbolico, che, perciò stesso, fa parte delle “cose”. Ma la corri-
spondenza tra la “logica” spontanea della realtà e quella che presiede
alla trasformazione della realtà in simbolo, introducendovi la dimensio-
ne dell’arbitrarietà, non può mai aver luogo: come tra codice e messag-
gio, vi è uno scarto reciproco tra le sintesi che si producono nella “natu-
ra” e quelle (simboliche) che hanno luogo nello “spirito”, sebbene questi
due poli non siano costituiti che in virtù del loro reciproco scarto, della
loro non-coincidenza. Il pensiero cerca di produrre ordine dalla sovrab-
bondanza di ordini naturali, e l’impossibilità di esaurire le virtualità di
questi ultimi genera la differenza tra pensiero e natura, la loro necessaria
inadeguazione. La matrice comune dei due poli è quindi la nuda presen-
za dell’ordine, che, emergendo dalle “cose stesse”, viene tradotto e rifrat-
to dalle pratiche simboliche mediante cui gli uomini entrano in risonan-
za con le molteplicità naturali. La seconda natura è quindi l’ulteriore
messa-in-ordine delle forme d’ordine sempre-già-date nella prima, e lo
scarto tra le due è l’effetto della non-coincidenza a se stesso dell’ordine
naturale, dell’impossibilità di quest’ultimo di ordinare se stesso dall’in-
terno, dunque dell’inesistenza di un Ordine dell’ordine – il che permet-
te allora un’infinità ulteriore ordinabilità. L’insegnamento attuale dello
strutturalismo potrebbe riguardare allora proprio questa coappartenen-
za non-fusionale tra la realtà e il pensiero, o, per usare termini più enfa-
tici, tra la Natura e lo Spirito. Suggerendo che tra questi poli si dia una
matrice comune, un ordine “puro”, che si dividerebbe in differenze e si-
stemi spontanei e simbolici in virtù del suo stesso squilibrio interno, l’aprio-
ri strutturale potrebbe alludere a un recupero dell’ispirazione schellin-
giana di una Naturphilosophie.
141
I. FONDAZIONE A PRIORI
1. Introduzione
i) il soggetto crede A
ii) il soggetto ha buone ragioni per credere A
iii) A è vera
143
1
Sulla fondazione a priori la letteratura è davvero sterminata. A titolo pura-
mente esemplificativo citiamo il classico BONJOUR 1998 e AUDI 1993. In lingua ita-
liana, poi, rimandiamo a GIORDANI 2002 dove viene affrontato anche il tema della
fondazione a priori.
144
2
Una nota terminologica. In ciò che segue chiameremo ‘formali’ le teorie i cui
oggetti sono astratti (cioè, non spazio-temporalmente collocati) e le cui proce-
dure di fondazione sono a priori. Esempi classici di teorie formali sono le teorie
matematiche (algebra, aritmetica, analisi, geometria, e così via). Le teorie formali
sono poi formalizzate, espresse cioè in un linguaggio regimentato e presentano
normalmente una struttura assiomatica. La nostra terminologia non è del tutto
standard dal momento che per ‘teoria formale’ si può intendere anche una teo-
ria non ancora interpretata. Dal nostro punto di vista, le teorie matematiche cui
facciamo riferimento sono considerate come interpretate rispetto ai loro modelli
intesi anche se questo è ovviamente problematico. Talvolta utilizzeremo il termi-
ne ‘eidetico’ per descrivere teorie che si occupano di oggetti non empirici e che
hanno procedure di fondazione a priori. Discuteremo in seguito alcuni aspetti di
queste tematiche.
145
2. Posizioni sull’apriori
Empirismo radicale
Gli empiristi radicali tendono a negare l’esistenza stessa della fondazio-
ne a priori. Capofila Quine (ma padre ispiratore Mill), questi pensatori
vogliono dimostrare che tutta la conoscenza umana è, in realtà, cono-
3
In questa esposizione ci riferiamo a BONJOUR 1998, pp. 3-27.
146
4
Bisogna ammettere che Quine, durante la sua produzione, modificò le sue
opinioni ontologiche. A fronte di un forte naturalismo, egli ammise come legit-
timi gli argomenti di indispensabilità. Riassumendo molto si può dire così: poi-
ché la scienza positiva postula entità teoriche che non sono esperibili e poiché la
scienza è l’unica forma di conoscenza autentica, allora è necessario ammettere
nella nostra ontologia, nel nostro ‘catalogo del mondo’, anche gli oggetti postu-
lati durante l’impresa scientifica. L’esempio più discusso tra gli argomenti di in-
dispensabilità è quello formulato insieme a H. Putnam sull’esistenza dei numeri.
Poiché non si può fare scienza senza numeri, i numeri devono esistere; o meglio,
dobbiamo costruire la nostra ontologia come se i numeri esistessero. Questo ar-
gomento è stato a lungo dibattuto e ha incontrato sia oppositori che sostenitori;
segnaliamo l’opposizione di Hartry Field che, in un certo senso, è più realista del
re e cerca di far vedere come la scienza (in particolare la fisica) possa essere svilup-
pata prescindendo da qualsiasi formalismo matematico. Cfr FIELD 1980; QUINE
2006, pp. 20-46; per una presentazione e una critica, cfr. SHAPIRO 2000.
147
Empirismo moderato
Questa posizione ci occuperà invece più a lungo perché, in un certo
senso, la discussione che segue prende come referente polemico pro-
prio la posizione dell’empirista moderato. Chi adotta questo punto di
vista crede che la conoscenza a priori esista ma ammette che sia di
natura esclusivamente linguistica e che, alla fine, non apporti reale in-
cremento epistemico. Si noti che le differenze con l’empirismo radicale
sono sfumate e dipendono dagli orientamenti teorici dei singoli autori.
In questa rassegna che, lo ricordiamo, è strumentale a quanto diremo
in seguito, differenzieremo i due approcci in base a questo principio:
per l’empirista radicale la conoscenza a priori è illusione; esiste solo la
conoscenza empirica. Per l’empirista moderato esiste una forma di giu-
stificazione a priori solo che non è informativa sul mondo, nemmeno
su tratti strutturali del mondo. È, al massimo, informativa sul linguag-
gio e sulle sue regole5. Insomma, l’empirista moderato afferma che
se un enunciato è fondato a priori allora è analitico, intendendo, con
quest’ultimo termine, il fatto che l’enunciato in questione non apporta
un incremento conoscitivo. Ciò che nega ogni impostazione empirista
(sia quelle più moderate che, a maggior ragione, quelle estreme) è l’esi-
stenza di un’intuizione razionale (o a priori o eidetica) che costituisca
il fondamento della giustificazione a priori. Come avremo modo di ve-
dere in seguito, la conoscenza linguistica, l’unica forma di conoscenza
5
Naturalmente si potrebbe obiettare che anche il linguaggio è un pezzo di
mondo. L’obiezione, però, non coglierebbe nel segno pur essendo di per sé valida.
E il motivo è che le categorie ontologiche che sono richieste perché il linguaggio
possa far parte del ‘mondo’ a pieno titolo sono tali che implicherebbero già il rico-
noscimento di una dimensione autentica dell’apriori. Chi nega questa nega anche
l’oggettività dei concetti e delle strutture linguistiche.
148
Razionalismo moderato
Il razionalista moderato, infine, ammette una dimensione autentica
della giustificazione a priori e basa quest’ultima su una forma di in-
tuizione razionale. Dato quindi un enunciato B, fondato a priori, non
è necessario che B sia analitico, ovvero non informativo. Esistono di-
mensioni della conoscenza che, vedremo, sono quelle riguardanti trat-
ti strutturali della realtà, che possono essere giustificate a prescindere
dal dato esperienziale. Per tornare all’esempio (1), è un tratto struttu-
rale della realtà (degli oggetti estesi) che sia impossibile la compresen-
za di due colori e quindi questa proposizione può essere giustificata in
base alla nostra intuizione razionale, senza bisogno di accedere empi-
ricamente ai corpi in questione. Come è facile notare, molti dei temi
discussi risentono di ambiguità semantiche notevoli: termini quali ‘a
priori’, ‘analitico’, ‘esperienza’ possiedono significati così complessi e
talvolta disparati che, senza una regimentazione linguistica appropria-
ta, si rischiano numerosi fraintendimenti. Ne è un esempio l’identifi-
cazione del concetto di ‘analitico’ con ‘tautologico’ o ‘privo di infor-
mazione’; anche questa semantizzazione è, in un certo senso, figlia del
rifiuto dell’apriori. Come avremo modo di vedere, guadagnando una
forma di razionalismo, è possibile mantenere il principio che tutto ciò
che è fondato a priori è analitico ma, nel contempo, allargare quest’ul-
timo concetto in modo da includere i tratti strutturali della realtà di
cui abbiamo discusso poc’anzi.
149
6
Cfr. FREGE 1893 e FREGE 1903; per una trattazione eccellente della contraddi-
zione nel sistema fregeano rimandiamo ai saggi di BOOLOS 1998. Una ricostruzio-
ne completa e dettagliata del sistema logico fregeano è in GIORDANI 2006.
150
7
Per un approfondimento vedi GALVAN 1997.
151
8
Le connessioni concettuali tra a priori, necessario, analitico sono oggetto di
numerose trattazioni. Rimandiamo, tra gli altri, a GIORDANI 2002, BONJOUR 1998,
BEALER 2000.
9
Potrebbe essere fonte di confusione l’utilizzo della lettera A come segno sia
per proposizioni che per stati di cose. A parte la posizione secondo cui le proposi-
zioni sono particolari stati di cose, è sottointeso che quando diciamo che una pro-
posizione è necessaria indichiamo, con ciò, che lo stato di cose descritto da quella
proposizione è necessario. Del resto, secondo alcuni, le proposizioni, in quanto
oggetti astratti, se esistono, esistono necessariamente. In ciò che segue non spe-
cificheremo tutte le volte se ci stiamo riferendo a stati di cose o a proposizioni:
dovrebbe risultare chiaro dal contesto.
152
(I) F<(A) → A
10
Cfr. KRIPKE 1980.
11
Ancora una specificazione sul problema del fallibilismo. Sposare un raziona-
lismo moderato non implica in nessun modo l’adozione di una posizione episte-
mologica generale scettica o fallibilista, anzi. Il razionalista è un ottimista episte-
153
mico e ritiene (secondo noi a ragione) che la fondazione a priori sia, in ogni caso,
la migliore e più sicura procedura di fondazione a disposizione.
12
Cfr. KRIPKE 1980.
154
che, nel caso di proposizioni fondate e vere, allora sia lecito conside-
rarle come necessarie.
La seconda parte della tesi di coincidenza riguarda la seguente im-
plicazione:
(II) A → F<(A)
13
Secondo la congettura di Goldbach ogni numero pari più grande di 2 è la
somma di due numeri primi. Benché si sia calcolato che la tesi vale per numeri
spaventosamente grandi non si ha ancora una dimostrazione che essa valga per
tutti i numeri pari.
155
14
Ciò non esclude, come abbiamo già detto in precedenza, che per garantirci
l’accesso epistemico a determinati significati sia di fatto imprescindibile il ricorso
all’esperienza. A tal proposito rinviamo alla discussione dell’esempio delle esten-
sioni colorate.
156
Esplicitando un po’ i punti (a) e (b), siamo giunti a dire che, di fat-
to, l’empirista dichiara che se un enunciato è fondato a priori questo
enunciato è analitico. Ciò significa, che nella procedura di giustifica-
zione, ci si basa esclusivamente sulla comprensione delle regole che
sovrintendono al linguaggio e non si fa in alcun modo riferimento a
forme di intuizione razionale. Questo orientamento teorico ha animato
buona parte degli esponenti del Circolo di Vienna fino al secondo do-
poguerra quando le posizioni si sono poi diversificate e sono diventate
più complesse. La sistemazione più organica e profonda di queste tesi
filosofiche ha visto la luce nella Sintassi logica del linguaggio di Rudolf
15
Cfr. GÖDEL 1995; le citazioni si riferiscono alla versione inglese.
157
16
CARNAP 1937, le citazioni si riferiscono alla traduzione italiana.
158
17
Sulla geometria bisognerebbe precisare che, secondo la visione neopositivi-
sta, questa veniva divisa in due parti: la prima di carattere puramente matematico
era considerata una teoria al pari dell’analisi e dell’aritmetica e quindi considera-
ta come un insieme di proposizioni analitiche; la seconda, detta geometria fisica,
possedeva un contenuto empirico benché dipendente in una certa misura dalla
convenzione. Cfr. TENNANT 2008, p. 101.
18
Abusata, ma sempre di grande impatto, la famosa dichiarazione di Frege:
«La parola ”vero” indica alla logica la direzione, così come il “bello” la indica
all’estetica e “buono” all’etica» (cfr. FREGE 1918, p. 3).
159
2. L’argomento di Gödel
19
Una nota terminologica. Nel dibattito attuale in fi losofia della matematica
si usano in maniera abbastanza libera le etichette di ‘realismo’ e ‘platonismo’. In
questa sede non ci interessa specificare maggiormente i dettagli di queste posizio-
ni ontologiche.
20
Paul Schilpp chiese a Gödel di redigere un saggio sulla fi losofia di Carnap
per la collana The Library of Living Philosophers. Sarebbe stato il terzo contri-
buto di Gödel dopo il lavoro del 1944 su Russell e del 1949 su Einstein. Nel Na-
chlass esistono ben sei versioni del saggio. I primi contatti tra Gödel e Schilpp
160
sono del 1954; nel 1959, pressato dall’editore, Gödel ammette di non voler pub-
blicare il testo.
21
Segnaliamo, in particolare, CONSUEGRA 1995 e GOLDFARB 1995; CROCCO 2003
e TENNANT 2008.
161
162
22
Citato molte volte dallo stesso Carnap.
163
23
Cfr. CARNAP 1937, pp. 189-190.
164
165
1. Intuizione e dimostrazione
25
Anche se, forse, l’atteggiamento fi losofico del matematico alla lavagna può
essere essenziale nello svolgimento del suo lavoro. A dire dello stesso Gödel, la
scoperta del teorema di completezza della logica dei predicati del primo ordine,
ottenuto nel 1930 è una semplice conseguenza del lavoro di Skolem. Tuttavia, fu
l’orientamento finitista di quest’ultimo a limitare la sua intuizione circa la possibili-
tà di estendere il risultato e ottenere così il teorema di completezza. L’atteggiamen-
to realista di Gödel lo avrebbe invece aiutato moltissimo in quella fase del lavoro.
166
2. Intuizione finitaria
167
1. ∀x (x' ≠ 0)
2. ∀x∀y (x' = y' → x = y)
3. Le equazioni definitorie per ognuna delle funzioni ricorsive primi-
tive
4. P(0) & ∀x(P(x) → P(x')) → ∀xP(x)
x+0=x
x + y' = (x + y)'
28
Per una presentazione tecnicamente dettagliata di PRA rimandiamo a GALVAN
1992, pp. 117 ss.
168
29
Cfr. GALVAN 1992, pp. 124-126 per alcune osservazioni su PRA.
169
30
Tralasciamo intenzionalmente il problema storiografico nell’attribuire una
posizione simile a Carnap. Benché infatti sostenesse la riduzione della matematica
a sintassi del linguaggio, il fi losofo austriaco incluse nella Sintassi procedimenti
e regole fortemente infinitari, quali ad esempio l’w-regola. Alcuni commentatori
(cfr. Friedman, ad esempio) sostengono che, per essere coerente, Carnap avreb-
be dovuto limitarsi solo a linguaggi e teorie finitari (come PRA). Tuttavia, lo stesso
Carnap specifica che è possibile maneggiare costrutti linguistici infinitari senza,
per questo, essere ontologicamente impegnati circa l’esistenza di insiemi infi niti.
Quanto sia effettivamente praticabile questa via è difficile dirlo.
31
Mentre è sensato chiedersi se PRA sia dimostrabilmente coerente. Ma la ri-
sposta è negativa per il secondo teorema di Gödel.
170
171
Bibliografia
AUDI 1993
The Structure of Justification, Cambridge University Press, Cambridge
(Mass.)
BEALER 2000
A theory of a priori, “Pacific Philosophical Quarterly”, 81, pp. 1-30
BONJOUR 1997
In Defense of Pure Reason, Cambridge University Press, Cambridge
BOOLOS 1998
Logic, logic and Logic, Harvard University Press, Harvard
CARNAP 1937
The Logical Syntax of Language, Paul, Trench, Trubner & Co., London, tr.
it. di A. Pasquinelli, La sintassi logica del linguaggio, Silva, Milano 1966
CONSUEGRA 1995
Kurt Gödel, Unpublished Philosophical Essays, Birkhauser Verlag.
CROCCO 2003
Gödel, Carnap and the Fregean Heritage, “Synthese”, 137, pp. 21-41
FIELD 1980
Science without numbers, Princeton University Press, Princeton
FREGE 1893-1903
Grungesetze der Arithmetik, Hermann Pohle, Jena
FREGE 1918
Der Gedanke: Eine logische Untersuchung, “Beiträge zur Philosophie des
deutschen Idealismus”, 1, pp. 58-77, tr. it. di R. Casati, Il pensiero. Una ri-
cerca logica, in Ricerche logiche, a cura di M. Di Francesco, Guerini, Milano
1988, pp. 43-74
172
GALVAN 1992
Introduzione ai teoremi di incompletezza, FrancoAngeli, Milano
GALVAN 1997
Non contraddizione e terzo escluso, FrancoAngeli, Milano
GIORDANI 2002
Teoria della fondazione epistemica, FrancoAngeli, Milano
GIORDANI 2006
Aritmetica di Frege, Pubblicazioni ISU, Milano
GÖDEL 1995
Collected Works. Vol. III, Oxford University Press, New York
GOLDFARB 1995
Introductory Note to “Is mathematics syntax of language?” in GÖDEL 1995,
pp. 324-333
KRIPKE 1980
Naming and Necessity, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)
QUINE 2006
Two Dogmas of Empiricism, in From a Logical Point of View, 2a edizione,
Harvard University Press, Cambridge (Mass), pp. 20-46
SHAPIRO 2000
Thinking about Mathematics, Oxford University Press, Oxford
TENNANT 2008
Carnap, Gödel and the Analyticity of Arithmetic, “Philosophia Mathemati-
ca”, 16, pp. 100-112
173
Prefazione 5
Elisabetta Basso
L’apriori nella psichiatria “fenomenologica” 9
Luca Bisin
L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale 47
Andrea Cavazzini
L’apriori strutturale nelle scienze umane
(linguistica e antropologia) 97
Ciro L. De Florio
Teorie formali e fondazione a priori 143
Finito di stampare
nel mese di xxx 2009
presso le Grafiche Reali (Milano)
Printed in Italy
Apriori.indd 176stats
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