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“L’apriori nella psichiatria fenomenologica”. In. Lo sguardo in anticipo.


Quattro studi sull’apriori. Ed. Luca Bisin. Milano. Edizioni di Sofia, 9-48.

Chapter · January 2009

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1 author:

Elisabetta Basso
Ecole normale supérieure de Lyon
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LO SGUARDO IN ANTICIPO
Quattro studi sull’apriori

A cura di Luca Bisin

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© 2009 - Edizioni di Sofia
Associazione culturale “Il Mondo di Sofia”
Via Giuseppe Piolti de’ Bianchi, 2
I-20129 – Milano

Phone +39 0292875662


Fax +39 02700536747
Email: acilmondodisofia@tiscali.it
Catalogo e sito internet: www.ilmondodisofia.it
In vendita in formato digitale su www.philobook.com

Prima edizione giugno 2009


Tutti i diritti riservati
ISBN 978-88-6375-007-2

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Prefazione

Basterà forse, a un lettore avveduto, scorrere i titoli dei saggi che qui si
offrono perché egli abbia subito chiaro quel che non troverà in nessu-
no di essi e neppure nella somma delle loro intenzioni: una presenta-
zione complessiva, quand’anche sommaria, dei motivi e delle questioni
teoriche che si affollano (talvolta in un reciproco intreccio, più spesso
in aperta rivalità) a comporre il campo problematico dell’apriori, do-
vrebbe toccare ancora altre aree tematiche, percorrere ben più lunghi
giri storici di quanto qui si sia inteso fare. A prescrivere questa limita-
zione hanno certo concorso, almeno in parte, le circostanze esteriori in
cui è venuto a formarsi questo volume, il quale deve meno a un calco-
lato disegno preliminare e più a certe contingenze che hanno coinvolto
(non sempre prevedibilmente) gli autori. Ma perché non sembri così
che il curatore voglia smarcarsi in certo modo delle proprie responsa-
bilità, dirò invece che qualcosa del campo problematico dell’apriori mi
pare farsi ben visibile in questi testi.
Anzitutto, è chiaro, nell’impegno e nella mira particolari di ciascu-
no di essi a presentare ogni volta una specifica fisionomia della doman-
da sull’apriori. Ma poi, anche, nel gioco di rimandi e possibili intrecci
che si apre tra queste differenti declinazioni al loro semplice accosta-
mento. E di qui, l’inevitabile diversità delle prospettive che reggono
questi studi – diversità che è anzitutto quella delle tradizioni fi loso-
fiche a cui ogni testo attinge, ma anche, ovviamente, dalle vedute e
dello stile particolare di chi scrive – potrà offrire più di uno spunto a
cercarne collegamenti e incroci eventuali. Senza voler in alcun modo
ipotecare anticipatamente la lettura dei testi, credo però che una certa
complessa trama teorica potrebbe ben collegare il carattere “strumen-
tale” e “orientativo” dell’apriori nella psichiatria fenomenologica (“filo

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Prefazione

conduttore metodologico” che non ha altro scopo che quello di forni-


re una guida e un indirizzo allo psichiatra nell’osservazione di vissuti
psichici) e la problematica trascendentale/kantiana del “darsi un filo
conduttore”, l’istanza strutturalista di una sistematicità immanente e
autoregolativa e il dibattito nelle scienze formali circa la possibilità di
una fondazione del sapere che interamente circoscritta al piano sintat-
tico. E mi piace segnalare, in tal senso, la felice coincidenza per cui la
scelta di ordinare i testi in base a un criterio volutamente disimpegnato
(l’ordine alfabetico degli autori), ne abbia infine disposto un accosta-
mento significativo, in cui figure di un’apriorità “in azione”, per così
dire, radicata nell’attitudine e nei metodi propri di saperi particolari
(psichiatria, biologia, linguistica, antropologia…) si alternano a istan-
ze che (almeno nelle intenzioni) ambiscono a una funzione fondativa
trasversale ai vari saperi, modi di un’apriori implicato fin dall’inizio
nella specifica costituzione di una certa “fatticità” (la malattia menta-
le, l’atto biologico, la lingua, i fenomeni sociali) si accostano a figure di
un’apriorità che si istituisce in una certa distanza da ogni empiricità e
sul fi lo di una certa attitudine formale (quella, molto diversa, della fi-
losofia trascendentale e della logica – e anche qui, credo, affiora un filo
che varrebbe la pena di svolgere).
Così, il lettore che voglia seguire nella sua interezza il percorso trac-
ciato nelle pagine seguenti dovrà, certo, anche sostenere gli scarti e i
dislivelli che indubbiamente vi si aprono da un testo all’altro. E però,
forse, sarà esposto proprio così alla possibilità e all’onere di intravede-
re i passaggi tra di essi, di valutare, ad esempio, ciò che in un apriori
“concreto” e filosoficamente “disimpegnato” possa incitare a una ri-
flessione di ordine fondativo, o, viceversa, in una considerazione for-
male dell’apriori possa insistere verso la sua specifica concrezione in
un ambito particolare dell’esperienza.
Non che questi rimandi debbano segnare linee possibili di conver-
genza o di composizione tra le prospettive che qui si presentano, né at-
tenuare in qualche modo l’eterogeneità (talvolta la rivalità esplicita) tra
di esse. Piuttosto, credo che essi valgano a dire la matrice radicalmente
composita della problematica dell’apriori e come essa si istituisca in un
contesto necessariamente articolato. Di qui viene certamente un rinno-
vato invito (se mai ce ne fosse bisogno) a guardare alla nozione di aprio-
ri come a qualcosa di più che una figura concettuale definitivamente

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Prefazione

ipotecata da percorsi riflessivi che ci stanno ormai alle spalle, per rico-
noscervi invece un luogo problematico che non cessa di mandarci ap-
pelli a cui dobbiamo ancora più di una risposta. Ma viene anche il sug-
gerimento che lo spazio teorico in cui dovremo anzitutto cercare queste
risposte si apra proprio nei margini tra le tante figure che il concetto di
apriori ha storicamente assunto e sollecitato, e sul filo di quella trama
che potrebbe infine collegarne le declinazioni diverse e irriducibili.

Luca Bisin

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ELISABETTA BASSO

L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

1. Dalla psicopatologia alla “Daseinsanalyse”

Nella sua opera più celebre – La perdita dell’evidenza naturale (1971) –


lo psichiatra tedesco Wolfgang Blankenburg riporta in poche righe
molto eloquenti il caso clinico di “G.”:

G. non tralasciava mai di ripetere che gli mancava un qualche tipo


di tramite, quello che consente al soggetto sano di stabilire legami con
l’ambiente e consente, in generale, ogni possibilità di legame, assicuran-
do al contempo la distanza necessaria1.

Se abbiamo scelto di partire da questa constatazione è perché essa


mostra in modo chiaro qual è il problema di fondo da cui prende le
mosse la corrente della psichiatria di cui ci apprestiamo a tracciare il
contorno. Tale proposizione, infatti, porta in primo piano l’interroga-
tivo filosofico nel cui ambito si situa questo particolare settore del pen-
siero psichiatrico che, sin dai suoi esordi – nei primi anni venti del No-
vecento – ha inteso sottrarsi all’impostazione meramente nosologico-
psicopatologica della psichiatria “classica” per interrogare la struttura,
la configurazione o lo stile che caratterizza il legame fra “soggetto” e
“ambiente”. Si tratta di un passaggio che merita tutta la nostra filosofi-
ca attenzione, nella misura in cui il secondo termine del rapporto, una

1
W. BLANKENBURG, Der Verlust der natürlichen Selbstverständlichkeit. Ein Bei-
trag zur Psychopathologie symptomarmer Schizophrenien, F. Enke, Stuttgart 1971,
tr. it. di F.M. Ferro e R.M. Salerno, La perdita dell’evidenza naturale. Un contribu-
to alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche, Raffaello Cortina, Mila-
no 1998, pp. 107-108 (corsivi nostri).

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Elisabetta Basso

volta posto a problema nella forma della sua relazione con un “sog-
getto” che si ritiene definibile solo a partire da questa relazione stessa,
finirà per trovare la propria formulazione più adeguata nel concetto
fenomenologico di “mondo”. Più precisamente, è nel momento in cui
quel “legame con l’ambiente” di cui tratta tradizionalmente la biologia
viene avvertito e tematizzato in termini di sofferenza – o, per usare le
parole del malato di Blankenburg, di «mancanza», di «perdita» – che,
tanto il concetto naturalistico di “Umwelt” inteso come “mondo ex-
tra-soggettivo”, quanto quello filosofico-gnoseologico di “realtà” a esso
collegato finiscono per rivelarsi impotenti di fronte a quella relazione
eminentemente antropologica che è la malattia, e nella fattispecie la
malattia mentale. Sarà pertanto necessario sostituire all’impianto dua-
listico che fa da sfondo al “legame” di “soggetto” e “oggetto”, “inter-
no” ed “esterno”, “uomo” e “ambiente”…, una concettualità che sappia
finalmente rendere conto di quella «coincidenza totale della malattia e
del malato» – per dirla con Georges Canguilhem2 – attraverso la quale
si esplicita la «nostra situazione nel mondo»3, il nostro «dimorare nella
realtà»4. Ed è precisamente con questo intento che la psichiatria di cui
ci andiamo occupando mutuerà dalla tradizione fenomenologica – e,
come vedremo, più in particolare da quella heideggeriana – il concetto
di Dasein, di “essere-nel-mondo”.
Per chiarire tale passaggio, ci serviremo ancora una volta del testo
di Blankenburg dal quale siamo partiti e che per l’occasione abbiamo
scelto di prendere ad esempio:

Un approfondimento degli aspetti strutturali di questo particolare


rapporto con il mondo permette di concludere che simili espressioni
non provengono dalla lettura, dall’immaginazione e nemmeno dal

2
G. CANGUILHEM, Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le patho-
logique, La Montagne, Clermont-Ferrand 1943; poi Le normal et le pathologique,
Presses Universitaires de France, Paris 1966 (200510), tr. it. di D. Buzzolan, Il nor-
male e il patologico, Einaudi, Torino 1998, p. 72. Su questo punto, si veda inoltre:
W. JACOB, Être-malade et maladie, in P. FÉDIDA - J. SCHOTTE (a cura di), Psychiatrie
et existence, “Décade de Cerisy, septembre 1989”, Millon, Grenoble 1991 (20073),
pp. 219-230.
3
G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico, cit., p. 135.
4
W. BLANKENBURG, La perdita dell’evidenza naturale, cit., p. 112.

10

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

delirio, ma corrispondono al tentativo di manifestare […] un quid


che attiene al mutamento direttamente vissuto del proprio essere-
nel-mondo5.

È interessante notare come lo psichiatra tedesco, nel caratterizzare


il vissuto del malato preso a oggetto nel suo saggio, ovvero l’ebefrenico
che accusa la «perdita dell’esperienza naturale», delinei una sottile ma
allo stesso tempo fondamentale distinzione fra il “rapporto con il mon-
do” da una parte e, dall’altra, l’“essere-nel-mondo”. Se il malato non
riesce più a trovare «appoggio» o «ancoraggio»6 in quel mondo con il
quale pure egli è in rapporto, è perché quest’ultimo è divenuto mera
“realtà esterna”, ha perso cioè quella «mondanità»7 che costituisce la
condizione di «ogni possibilità di legame» fra un “soggetto” e il suo
“ambiente”. Il “mondo”, insomma, cessa di essere la nostra “dimora”
nel momento in cui esso viene concepito e vissuto come esteriorità, nel
momento in cui il nostro “essere-nel-mondo” come «relazione di reci-
procità tra esser-chiamato-a-rispondere e poter-rispondere»8 si dissol-
ve nel rapportarsi estrinseco di un soggetto conoscente e di una realtà
esteriore da conoscere. Ecco allora in che senso viene chiarendosi la
distinzione evidenziata da Blankenburg a partire dal vissuto patolo-
gico della perdita di quel «rapporto antepredicativo con il mondo»9
che si esplicita mediante il concetto di Dasein. Giacché alla base della
stessa possibilità di conoscere, della stessa possibilità di ogni rappor-
to oggettivo con il reale sta quell’«essere-in-familiarità, abitualità, evi-
denza, naturalità…» con un “mondo della vita” che altro non è che il
polo mondano del Dasein stesso10. Ed è pertanto in questi termini che

5
Ivi, p. 108 (corsivi nostri).
6
Si tratta di espressioni che Blankenburg utilizza costantemente nel corso del-
le sue analisi: cfr. ivi, rispettivamente a pp. 67, 95 e a pp. 1, 26, 28, 67, 83, 84, 95,
150, 162, 163.
7
Cfr. ivi, p. 112.
8
Ivi, p. 107.
9
Ivi, p. 39, o «pre-intenzionale», p. 140.
10
Cfr. L. BINSWANGER, Über Ideenflucht, “Schweizer Archiv für Neurologie
und Psychiatrie”, 27, 2 (1932), pp. 203-217; 28, 1-2 (1932), pp. 18-26, 183-202; 29,
1 (1932), pp. 193 ss.; 30, 1 (1933), pp. 68-85; poi in volume, Orel Füssli, Zürich
1933 (ripr. facsim. Garland, New York 1980); poi in ID., Ausgewählte Werke, vol.

11

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Elisabetta Basso

lo psichiatra tedesco intende iscriversi in quella corrente del pensie-


ro psichiatrico che prende le mosse dalla nozione fenomenologica di
«essere-nel-mondo – non in quanto struttura ontologico-formale ma in
quanto evento che si realizza in modificazioni molteplici»11 – per com-
prendere quelle peculiari forme di esistenza che sono le malattie menta-
li. E Blankenburg a questo proposito lo dice chiaramente, riproponen-
do in questo modo i propositi espressi dal suo referente psichiatrico
privilegiato, Ludwig Binswanger. Come quest’ultimo aveva ripreso il
concetto heideggeriano di Dasein, privandolo della sua valenza esclusi-
vamente ontologica, per porlo quale “struttura”, quale chiave di lettu-
ra o «filo conduttore»12 per penetrare nell’organizzazione trascenden-

I: Formen missglückten Daseins, ed. a cura di M. Herzog, Asanger, Heidelberg


1992, pp. 1-231, tr. it. di C. Caiano, Sulla fuga delle idee, introduzione di S. Mi-
stura, Einaudi, Torino pp. 72-73: «Il “mondo” non è una realtà esistente “in sé”,
che possa essere copiata o rappresentata in immagine semplicemente per mezzo
della percezione o del pensiero, ma è un universo di trascendenze costituite. […] “Il
mondo” in cui l’uomo “è già sempre gettato” non è in alcun modo qualche cosa
come “la natura” che egli può semplicemente conoscere»; p. 74: «Questo è il mon-
do originario, rispetto al quale il mondo della scienza, per esempio nel senso della
scienza della natura, è un’astrazione realizzata in base a un metodo ben determi-
nato»; p. 77: «Se quindi non esiste un soggetto senza mondo, se l’individualità è
piuttosto ciò che è il suo mondo in quanto mondo suo, allora, diciamo, non esiste
un pensiero neutro di un soggetto neutro»; p. 82: «La correlazione esistente tra
la struttura dell’uomo e la struttura del suo mondo […] si può solo fondare sulla
relatività, ossia sul rimando e il rinvio reciproco dialettico dei concetti di uomo
(io) e di mondo in generale»; pp. 83-84: «Abbiamo così visto come il progettare o
il costituire (antropologico-soggettivo) un mondo […] e il progetto di mondo (an-
tropologico-oggettivo) […] rimandano completamente l’uno all’altra e come essi
non siano altro che due espressioni per una sola e stessa «funzione» intenzionale,
a un polo della quale sta il «soggetto» esistente nel modo di questo progettare il
mondo, dall’altro polo il mondo che è nel modo di questo progetto».
11
W. BLANKENBURG, La perdita dell’evidenza naturale, cit., p. 25.
12
L. BINSWANGER, Über die daseinsanalytische Forschungsrichtung in der Psychi-
atrie, “Schweizer Archiv für Psychiatrie und Neurologie”, 57 (1946), pp. 209-235;
ora in Ausgewählte Werke, vol. III: Vorträge und Aufsätze, ed. a cura di M. Herzog,
Asanger, Heidelberg 1994, pp. 231-257, tr. it. di C. Mainoldi, L’indirizzo antropoa-
nalitico in psichiatria, in ID., Il caso Ellen West e altri saggi, a cura di F. Giacanelli,
Milano, Bompiani 1973, p. 33: «[...] La conoscenza della struttura o della costitu-
zione fondamentale della presenza ci fornisce un fi lo conduttore sistematico per
condurre sul terreno pratico l’indagine antropoanalitica».

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

tale dell’esistenza patologica intesa quale «progetto di mondo»13, allo


stesso modo Blankenburg coglie l’“essere-nel-mondo” come «punto di
partenza» per elaborare una metodologia clinica che dovrà basarsi an-
zitutto su delle «descrizioni dettagliate» dei vissuti psicopatologici14.
Ora, può suonare quanto meno strano o paradossale, all’orecchio di
un fenomenologo di stretta osservanza, il proposito avanzato da que-
ste indagini psichiatriche che intendono partire dal “dettaglio”, dal-
la contingenza di un vissuto per rendere conto nientemeno che della
“struttura trascendentale” del Dasein e, sulla base di questa, tornare a
spiegare la contingenza stessa. E in effetti, la posta in gioco più mar-
catamente filosofica della psichiatria cosiddetta “fenomenologica” sta
tutta qui, nel tentativo di pensare a un principio esplicativo – il trascen-
dentale appunto – che sia immanente a quella realtà stessa di cui esso
intende offrirsi come la spiegazione. Questa è precisamente l’alterna-
tiva che l’ottica daseinsanalitica intende fornire a un pensiero psichia-
trico che rischierebbe altrimenti, ai suoi occhi, d’irrigidirsi nelle gri-
glie imposte dalla tradizione scientifico-positivista della psicopatolo-
gia. Binswanger lo afferma esplicitamente d’altronde, nel momento in
cui assegna alla Daseinsanalyse il compito di «interpretare dall’interno
il progetto del mondo» dell’uomo psichicamente malato, «ossia par-
tendo da criteri a lui immanenti»15. Ciò non significa naturalmente far
assurgere dei vissuti individuali a criteri analitico-esplicativi validi uni-
versalmente, così come non può significare che l’indagine psichiatrica
debba limitarsi alla contingenza del caso di volta in volta analizzato. La
critica che, a torto o a ragione, lo psichiatra svizzero muove a Jaspers e
al concetto di “Einfühlung” sta tutta qui: la Daseinsanalyse non intende
arrestarsi a una «fenomenologia descrittiva delle manifestazioni sog-

13
Ivi, p. 20: «L’antropoanalisi non formula tesi ontologiche circa un rapporto
modale che determini l’esserci, ma soltanto degli enunciati ontici: enunciati cioè
su constatazioni fattuali circa le forme e le configurazioni [Gestalten] della presen-
za, quali si presentano nella loro fatticità»; p. 25: «“Mondo” non significa soltanto
formazione di mondo, preliminare progetto di mondo, ma anche, in forza di que-
sto pre-ordinamento, di questa pre-formazione, il “come” dell’essere-nel-mondo e
dell’atteggiamento verso il mondo».
14
W. BLANKENBURG, La perdita dell’evidenza naturale, cit., p. 25.
15
L. BINSWANGER, Sulla fuga delle idee, cit., p. 194 (corsivi nostri).

13

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Elisabetta Basso

gettive della vita psichica»16, ma mira a compiere un passo ulteriore,


quel passo che Binswanger può inaugurare attraverso l’incontro con la
fenomenologia husserliana e con la Daseinsanalytik heideggeriana. Si
tratta, insomma, di trovare un criterio metodologico alternativo a quel-
lo positivista tradizionale, ma non per questo meno “scientifico” nel
suo intento di offrire una spiegazione rigorosa di quelle peculiari «for-
me di esistenza mancata» che sono i vissuti psicopatologici. Ecco allo-
ra in che senso la fenomenologia si offre come la via privilegiata verso
quel tipo di “comprensione” a cui mira la nuova psichiatria: il monito
husserliano a volgersi al fenomeno «senza partito preso»17, a «com-
prenderlo a partire da se stesso, nel modo in cui si dà da se stesso»18 per
coglierne l’«essenza» o «norma»19 intrinseca, viene dunque ripreso da
Binswanger allo scopo di rintracciare nel «fatto» patologico quell’«in-
dirizzo per l’esperienza»20 che ne costituisce la «ragione» e quindi la
spiegazione immanente. L’“essenza” husserliana e, in seguito, la “strut-
tura” del Dasein heideggeriano – scelta considerata più consona a una
ricerca, quale quella psichiatrica, tutta incentrata sulla fatticità della
presenza umana «nel mondo»21 – vengono dunque fatte assurgere al
16
Cfr. ID., Melancholie und Manie. Phänomenologische Studien, Günter Neske
Verlag, Pfullingen 1960, tr. it. di M. Marzotto, Melanconia e mania. Studi fenome-
nologici, Boringhieri, Torino 1971; 2006, p. 17.
17
Cfr. E. MINKOWSKI, A la recherche de la norme en psychopathologie, “L’Évolu-
tion Psychiatrique”, fasc. 1 (1938), pp. 67-91, p. 89.
18
L. BINSWANGER, Sulla fuga delle idee, cit., pp. 245-246 (corsivi nostri).
19
ID., Drei Formen missglückten Daseins, Niemeyer, Tübingen 1956; poi in ID.,
Ausgewählte Werke, vol. I: Formen missglückten Daseins, ed. a cura di M. Herzog,
Asanger, Heidelberg 1992, tr. it. di E. Filippini, Tre forme di esistenza mancata,
Bompiani, Milano 2001, p. 226: «Il singolo “fatto” può essere “compreso” solo a
partire dall’essenza, la quale funge da “norma” imprescindibile per il fatto».
20
Cfr. ID. Studien zum Schizophrenieproblem: Der Fall Suzanne Urban, in
“Schweizer Archiv für Neurologie und Psychiatrie”, 69 (1952), pp. 36-77; 70
(1952), pp. 1-32; 71 (1952), pp. 57-96; poi in ID., Schizophrenie, Neske, Pfullingen
1957, studio n. 5, pp. 359-470; e in ID., Ausgewählte Werke, vol. IV: Der Mensch
in der Psychiatrie, ed. a cura di A. Holzhey-Kunz, Asanger, Heidelberg 1994, pp.
210-332, tr. it. di G. Giacometti, Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia, a
cura di E. Borgna e M. Galzigna, Marsilio, Venezia 1994, p. 141.
21
Si tratta di una posizione che per Binswanger è chiara sin dalla sua confe-
renza del 1922, nella quale la fenomenologia a cui lo psichiatra fa riferimento
è ancora soltanto quella husserliana: Über Phänomenologie, “Zeitschrift für die

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

ruolo di strumento, di «filo conduttore metodologico»22 per un’anali-


si tesa a scovare, attraverso le forme molteplici attraverso cui si mani-
festano le malattie mentali, quel nucleo strutturale, quell’apriori che
fornisca anche la chiave per affrontarle. È in questi termini – e solo
in questi termini dunque, ovvero a prescindere da qualsiasi caratte-
rizzazione filosoficamente “forte” della nozione di apriori – che Bins-
wanger può permettersi di qualificare la Daseinsanalyse come «com-
prensione trascendentale»23, in quanto quello strumento in grado di

gesamte Neurologie und Psychiatrie”, 82 (1923), pp. 10-45; ora in Ausgewählte


Werke, vol. III: Vorträge und Aufsätze, cit., pp. 35-69, tr. it. di E. Filippini, Sulla
fenomenologia, in Per un’antropologia fenomenologica. Saggi e conferenze psichia-
triche, ed. a cura di F. Giacanelli, Feltrinelli, Milano 1970 (20073), pp. 5-38, p.
25: «La psicopatologia è e rimane una scienza di esperienza, una scienza di fatti:
e pertanto non vuole né pretende innalzarsi fi no alla visione delle pure essenze
nella loro assoluta universalità». Ma si vedano anche: Il caso Suzanne Urban, cit.,
p. 146: «Pur persuaso dal significato imperituro, fi losofico e scientifico, del me-
todo fenomenologico puro, non resto sul terreno dell’“intuizionismo assoluto”
rappresentato da Husserl»; e I D., Tre forme di esistenza mancata, cit., p. 211: «A
differenza di ciò che avviene per Husserl, non scompare per noi la “fatticità del
mondo naturale”». Altri rappresentanti illustri di questa corrente «esistenziale»
della psichiatria continueranno a condividere questa interpretazione della feno-
menologia husserliana avanzata da Binswanger. Si veda ad esempio, in ambito
francese, G. LANTÉRI-LAURA, La psychiatrie phénoménologique. Fondements phi-
losophiques, Presses Universitaires de France, Paris 1963, pp. 176-177: «La phé-
noménologie de Husserl […] ne se passe pas dans le monde; elle ne peut, après
la réduction transcendantale, s’intéresser qu’à des essences, et, plus particuliè-
rement, aux essences qui caractérisent l’activité positionnelle du sujet transcen-
dantal et demeurent ainsi parfaitement étrangères au monde. La phénoménolo-
gie est donc la science a priori des essences et seulement des essences propres à
l’activité de l’ego transcendantal».
22
L. BINSWANGER, L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, cit., pp. 33-34: «Che
la struttura dell’essere-nel-mondo sia in grado di fornirci un simile filo conduttore
metodologico dipende però dal fatto che con essa ci si offre una norma e perciò la
possibilità di fissare con esattezza scientifica le deviazioni da questa norma [...]. Se
per esempio possiamo parlare di vita maniacale o, meglio, di forma di esistenza
maniacale, ciò vuol dire che siamo riusciti a stabilire una norma che abbraccia e
domina tutti i modi di espressione e di comportamento che noi definiamo “ma-
niacali” [...] l’essente non è mai accessibile all’uomo come tale, ma sempre e sol-
tanto in e attraverso un determinato progetto di mondo».
23
ID., Il caso Suzanne Urban, cit., p. 175.

15

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Elisabetta Basso

superare il riduzionismo tanto di un approccio meramente psicologi-


co, quanto biologico-positivista delle esperienze psicopatologiche, per
cogliere in queste esperienze stesse, attraverso l’analisi del loro «modo
strutturale»24, ovvero della loro organizzazione trascendentale, quella
«struttura dell’esserci che rende possibili tutti gli altri fenomeni carat-
teristici che sotto il profilo clinico diagnostichiamo come sintomi schi-
zofrenici e come psicosi schizofreniche»25.
Non è un caso quindi se la nostra disamina ha preso le mosse dalla
prospettiva fenomenologica offerta da Blankenburg, da questo allievo
di Heidegger e di Binswanger che sa cogliere in modo particolarmen-
te chiaro il significato che la fenomenologia ha assunto storicamente
per la ricerca psichiatrica, allorché sottolinea come la «svolta empirico-
positivista» che quest’ultima avrebbe impresso alla nozione fi losofica
tradizionale di trascendentale la ponga a una distanza irrecuperabile
rispetto agli intenti teoretici della filosofia «pura»26. Il senso che il con-
cetto di apriori acquista qualora venga utilizzato quale principio espli-
cativo immanente di un comportamento, di una forma di esperienza,
è di natura eminentemente metodologica, non ha insomma null’altro
24
Ivi, p. 179: «Compreso, ma non nel senso della sua genesi psicopatologica,
bensì sotto il profi lo di un’analisi dell’esserci, il delirio è soltanto se lo si “compren-
de” come modo strutturale e decorso strutturato, determinato a priori, dell’esser-
ci o dell’essere nel mondo».
25
Ivi, p. 187. Si tratta di un’intuizione metodologica che viene mantenuta anche
quando – a partire dagli anni sessanta – Binswanger approfondisce la Daseinsa-
nalyse indirizzandola in un binario trascendentale-egologico di matrice esplicita-
mente husserliana: cfr. Melanconia e mania, cit., p. 103: «Ricerchiamo […] un me-
todo, una linea direttiva secondo cui poterci avvicinare all’essenza del malumore
melanconico e maniacale in quanto tali e alla loro antinomia».
26
W. BLANKENBURG, La perdita dell’evidenza naturale, cit., nota 8, pp. 27-28:
«Quel che viene fi losoficamente rappresentato come struttura formale aprioristi-
ca, diviene qui oggetto di ricerche fenomenologico-descrittive in quanto edificio
fattuale colto in una metamorfosi permanente. La svolta empirico-positivistica
impressa così al concetto di “trascendentale” non corrisponde agli intenti fi loso-
fici tradizionali. Non può essere compito di questo scritto giustificarla. Per farlo
bisognerebbe entrare nel merito delle presupposizioni implicate nell’utilizzazio-
ne tradizionale di questo concetto. Può essere messa in dubbio l’opportunità di
restare legati a un termine così sovraccarico di significato come è il termine “tra-
scendentale”. Ma fino a oggi non ne è stato trovato nessuno che potese risultare
più adeguato».

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

scopo al di fuori di quello di fornire una guida, un “indirizzo” allo


psichiatra che intende affrontare i vissuti patologici una volta abban-
donati gli strumenti della psicologia e della psicopatologia tradizionali.
Come Roland Kuhn e Henri Maldiney affermano esplicitamente nella
loro Préface alla raccolta di saggi binswangeriani edita in Francia nel
1971, i concetti fondamentali della Daseinsanalyse – vale a dire le strut-
ture a priori dei vissuti – non sono degli «esistenziali» da concepire a
parte rispetto all’esistente, ma ne costituiscono le «dimensioni» a un
tempo «immanenti e trascendenti». La stessa «analisi esistenziale», al-
lora, non può essere compresa limitatamente al suo piano teorico, giac-
ché essa non ha ragion d’essere se non «in atto»27.
E si tratta di una prospettiva che proprio in Francia ha registrato
un ampio successo, se si pensa al modo in cui E. Minkowski, sin dagli
anni venti del secolo scorso, ha dato corpo a questa esigenza di com-
prensione fenomenologico-strutturale che la psichiatria ha avvertito
nei confronti della psicopatologia. È a partire dalle analisi minkow-
skiane, infatti, dalle indagini di questo psichiatra che fa costantemente
riferimento all’“attitudine” di Husserl senza tuttavia adottarne, in sen-
so rigorosamente tecnico, la progressione “trascendentale”, che divie-
ne forse più facile comprendere il significato che la nozione di apriori
assume anche all’interno del programma speculativo di Binswanger. Il
ruolo che la fenomenologia gioca nella dinamica della comprensione
psichiatrica – sostiene Minkowski – sta tutto nel valore dell’approccio,
dell’“attitudine” che lo psichiatra adotta nei confronti di quei “fatti”, o
meglio, quei “fenomeni” di fronte ai quali egli si pone28. La volontà di

27
R. KUHN - H. MALDINEY, Préface a L. BINSWANGER, Introduction à l’analyse
existentielle, tr. fr. di J. Verdeaux e R. Kuhn, Les Éditions de Minuit, Paris 1971,
pp. 7-24; ora in R. KUHN, Écrits sur l’analyse existentielle, a cura di J.-C. Marceau,
L’Harmattan, Paris 2007, pp. 57-82, p. 81.
28
E. MINKOWSKI, Phénoménologie et analyse existentielle en psychopathologie,
“L’Évolution Psychiatrique”, fasc. 1 (1948), pp. 137-185; poi in ID., Écrits cliniques,
textes rassemblés par Bernard Granger, Erès, Ramonville-Saint-Agne 2002, pp.
95-138, p. 100: «Lorsque je me familiarisais avec la pensée de Husserl, […] le bien
fondé du besoin de se libérer de tous les préjugés, de toutes les conceptions scien-
tifiques, de toutes les constructions qui venaient s’interposer entre notre regard et
les phénomènes eux-mêmes, en manquant leur essence, ne faisait que s’imposer
d’une manière impérieuse»; p. 101: «Lorsqu’il est question de phénoménologie en

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liberarsi dai pregiudizi trasmessi dalla tradizione psicopatologica, per


dirla con Roland Kuhn, non sta tanto in «dichiarazioni patetiche sul-
la necessità di un mutamento radicale del nostro orientamento scien-
tifico» che ci porti a «un livello più elevato di comprensione o che ci
faccia discendere agli inferi dell’esistenza umana»29, quanto piuttosto
nel creare le condizioni per rendere possibile un’intuizione che metta
in luce i caratteri «essenziali» dei vissuti patologici. Ora, questa intui-
zione dell’«essenza», pur nell’assonanza che certamente essa mantiene
con il progetto dell’epoché husserliana, non possiede tuttavia né il ca-
rattere, né la finalità teoretico-trascendentale di quest’ultima, come già
abbiamo avuto modo di sottolineare attraverso i propositi espliciti del
programma di Binswanger. E Minkowski lo mette in luce in modo an-
cora più chiaro, nella misura in cui identifica quel carattere «essenzia-
le» del fenomeno patologico con il trouble générateur che sta alla base
delle sue manifestazioni o sintomi. Questo carattere «generale», «es-
senziale» o «comune» della malattia non è dell’ordine di un concetto
o di una categoria, ma di una struttura che sta nello stesso tempo oltre
e nella variabilità, individualità e contingenza empirica delle espres-
sioni sintomatiche, e alla quale lo psichiatra deve «risalire» per poter
comprendere queste espressioni stesse30. Tali osservazioni ci interessa-
no in modo particolare per mostrare come il riferimento alla fenome-

psychopathologie, ce qui importe, c’est l’attitude que nous adoptons à l’égard des
faits en présence desquels nous sommes placés. C’est ce que nous pouvons appeler
l’attitude ou l’acte phénoménologique»; p. 104: «L’effort phénoménologique, cen-
tré sur les caractères essentiels, ne dépend nullement du nombre des cas exami-
nés. Par là il se sépare de toute statistique de même que de la méthode empirique
au sens courant du terme». p. 105: «Ce n’est pas tant à l’individuel en tant que
cas singulier que nous opposons le commun et le général, qu’à l’individuel en ce
qu’il a de contingent, de variable et d’inconstant nous opposons l’essentiel qui le
dépasse et le porte en même temps».
29
R. KUHN, Existence et psychiatrie, in P. FÉDIDA - J. SCHOTTE (a cura di), Psy-
chiatrie et existence, cit., pp. 47-67; poi in R. KUHN, Écrits sur l’analyse existentielle,
cit., pp. 201-232, p. 230 (tr. nostra).
30
E. MINKOWSKI, Phénoménologie et analyse existentielle en psychopathologie,
cit., p. 105: «Ce n’est pas tant à l’individuel en tant que cas singulier que nous
opposons le commun et le général, qu’à l’individuel en ce qu’il a de contingent,
de variable et d’inconstant nous opposons l’essentiel qui le dépasse et le porte en
même temps».

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nologia da parte di questa corrente della psichiatria che – nell’ottica


di Minkowski – rimonterebbe all’intuizione bleuleriana della distin-
zione, nella schizofrenia, di un aspetto «ideo-affettivo» da un altro,
più fondamentale, concernente la «relazione del malato con la realtà»31
– nasca non tanto allo scopo di «fondare» filosoficamente il sapere
psichiatrico, quanto piuttosto dall’esigenza teorica di dar voce e spie-
gare un’intuizione sorta originariamente nel campo dell’osservazione
e della prassi clinica. Se con il «principio del doppio aspetto» – come
lo definisce Minkowski32 – la psichiatria era riuscita a staccarsi tanto
dal pregiudizio “psicologista”, quanto da una clinica fondata preva-
lentemente sul postulato positivista determinato a leggere nei disturbi
mentali le alterazioni delle facoltà psichiche elementari, dall’altro essa
poteva riconoscersi una profonda affinità con quell’attitudine fenome-

31
Non a caso, Minkowski intitolerà uno dei suoi interventi: Le notions bleu-
lériennes: voie d’accès aux analyses phénoménologiques et existentielles, rapporto
presentato al Congresso di Zurigo (1957), co-relatori: L. Binswanger e Van der
Horst, “Annales Médico-Psychologiques”, 15, 2 (1957), pp. 833-844; ripreso in ID.,
Au de-là du rationalisme morbide, L’Harmattan, Paris 1997, pp. 141-151. Si tratta
di una convinzione, tuttavia, che è chiara a Minkowski sin dagli anni venti. A
questo proposito, si vedano in particolare: E. MINKOWSKI, La genèse de la notion
de schizophrénie et ses caractères essentiels. (Une page d’histoire contemporaine de la
psychiatrie, “L’Évolution Psychiatrique”, 1 (1925), pp. 193-236; ID., La schizophré-
nie. Psycopatologie des schizoïdes et des schizophrènes, Payot, Paris 1927 (nuova ed.
Desclée de Brouwer, 1953; Payot, 19973), tr. it di G. Ferri Terzian e A.M. Farcito,
La schizofrenia. Psicopatologia degli schizoidi e degli schizofrenici, Einaudi, Torino
1998. Ma si veda inoltre: E. MINKOWSKI, Étude psychologique et analyse phénomé-
nologique d’un cas de mélancolie schizophrénique, “Journal de Psychologie Norma-
le et Pathologique”, 20 (1923), pp. 543-558, tr. it. di P. Caruso, Studio psicologico
e analisi fenomenologica di un caso di melanconia schizofrenica, in E. MINKOWSKI
- E.W. STRAUS - V.E. VON GEBSATTEL, Antropologia e psicopatologia, a cura di D.
Cargnello, Bompiani, Milano 1967: non sarà forse superfluo sottolineare come
quest’ultimo testo fosse stato concepito da Minkowski in occasione della 63° Ses-
sione della Società Svizzera di Psichiatria a Zurigo (1922), la stessa che vide Bin-
swanger impegnato nel suo intervento Sulla fenomenologia, cit.
32
Cfr. E. MINKOWSKI, Phénoménologie et analyse existentielle en psychopatholo-
gie, cit., p. 133 e ID., Psychiatrie et métaphysique. A la recherche de l’humain et du
vécu, “Revue de Métaphysique et de Morale”, 52 (1947), pp. 333-358, tr. it. a cura
di M. Francioni, Psichiatria e metafisica. Alla ricerca dell’umano e del vissuto, in
ID., Filosofia, semantica, psicopatologia, Mursia, Milano 1969, pp. 39-66, p. 53.

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nologica che incitava a cogliere la «ragione», l’«universalità» e quindi


l’esplicazione dei fenomeni in seno alla loro stessa particolarità empiri-
ca. La démarche di questa psichiatria che muove dai singoli casi clinici
per cogliere in essi una struttura generale a un tempo immanente e tra-
scendente tale singolarità, di questa psichiatria alla ricerca di una mes-
sa a punto concettuale per le proprie intuizioni cliniche, finisce quindi
per adottare la concettualità e la terminologia della fenomenologia per
munirsi di quegli strumenti teorici di cui essa ancora mancava. Più in
particolare – in parte l’abbiamo visto – l’idea che il nucleo strutturale
della patologia mentale si giocasse tutto a partire dalla configurazione
assunta dalla relazione fra il malato e il «mondo», non poteva non tro-
vare nel concetto heideggeriano di Dasein proprio quella forma e quel-
le argomentazioni teoriche di cui questa psichiatria era alla ricerca33.
Ecco allora perché Minkowski non esita a sovrapporre il principio
del «doppio aspetto» dei disturbi mentali alla stessa Daseinsanalyse
binswangeriana34, e si tratta di un’indicazione che non possiamo sotto-
valutare se davvero vogliamo comprendere la valenza che la concettua-
lità fenomenologica – e più precisamente la nozione di apriori – assu-
me all’interno della psichiatria «esistenziale». A ben vedere, in effetti,
laddove Binswanger si serve degli strumenti della fenomenologia per
elaborare un vero e proprio discorso sul metodo psichiatrico, le analisi
minkowskiane sembrano non andare oltre un riferimento alle nozioni

33
È particolarmente esplicito, a tal proposito, il modo in cui Minkowski conce-
pisce il polo “mondano” del suo concetto di “contatto vitale con la realtà”: cfr. ID.,
La schizofrenia p. 98: «“Realtà” è lungi dall’essere sempre sinonimo di “mondo
esterno”»; e ID., Vers une cosmologie. Fragments philosophiques, Montaigne, Paris
1936 (Aubier-Montaigne, 1967; ripr. fac-sim., Payot & Rivages, Paris 1999, présen-
tation de Jacques Chazaud), tr. it di D. Tarizzo, Verso una cosmologia: frammenti
filosofici, Einaudi, Torino 2005, pp. 169-170: «L’ambiente non deve essere confuso
con quello che, parlando di percezioni, defi niamo il “mondo esterno”, e dunque
non va scomposto in “elementi”. Va preso semmai come un tutto immenso e vi-
vente, nel quale solo in seguito l’uomo riesce a discernere – grazie ai procedimenti
analitici di cui dispone – certi esseri viventi, certi oggetti, e magari persino dei
fattori di eccitamento fisiologico».
34
ID., Phénoménologie et analyse existentielle en psychopathologie, cit. p. 133:
«L’analyse existentielle […] semble non seulement confirmer le principe du dou-
ble aspect mis en relief antérieurement, mais encore devoir étendre son champ
d’application».

20

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

fenomenologiche che resta dell’ordine di un’ispirazione, di un’intuizio-


ne35. Eppure, entrambi rivendicano un’appartenenza o per lo meno una
sorta di debito teorico nei confronti dello “spirito” di quella corrente
filosofica. A noi sembra che una tale considerazione si riveli quanto
mai istruttiva ai fini della disamina che ci siamo proposti, giacché con-
tribuisce a darci ragione nel sostenere come il concetto di apriori che
la psichiatria esistenziale mutua dalla tradizione fenomenologica per-
manga all’origine – nonostante le elaboratissime costruzioni teoriche
di Binswanger e dei suoi “allievi” – uno strumento finalizzato alla clini-
ca. Più che possedere un ben preciso statuto teoretico, insomma, esso
avrebbe anzitutto un ruolo, quello di fornire una chiave di lettura, una
leva su cui puntare per aprire uno spiraglio che consenta allo psichiatra
di penetrare in quei «mondi» altrimenti incomprensibili che sono i vis-
suti psicopatologici36. È in quest’ottica, d’altronde, che Blankenburg –
malgrado le critiche che il suo “maestro” Binswanger aveva mosso alla
“Verstehende Psychologie” – colloca anche Jaspers all’interno di que-
sto spazio fenomenologico-trascendentale dischiuso dalla ricerca di
un apriori che anch’egli ravvisa come immanente alle manifestazioni
psicopatologiche, un apriori o “essenza” che «non si costituirebbe in
senso proprio come tema», ma che si «limita a funzionare – per l’ap-
punto – quale strumento della descrizione e dell’ordinamento»37. E lo

35
Su questo tema, si veda A. TATOSSIAN, Eugène Minkowski ou l’occasion man-
quée, in P. FÉDIDA - J. SCHOTTE (a cura di), Psychiatrie et existence, cit., pp. 11-23,
che mostra appunto come l’indagine psichiatrica di Minkowski «non comporti la
riduzione fenomenologica e sia esente da qualsivoglia forma di orientazione tra-
scendentale» (p. 19; tr. nostra).
36
In questo senso, per parte nostra non possiamo che appoggiare l’espressione
di S. Valdinoci, che – nel qualificare la specificità del «trascendentale» psichiatri-
co rispetto a quello della tradizione fi losofica – ne parla in termini di dispositivo:
cfr. S. VALDINOCI, Un transcendantal d’existence en psychiatrie, in J.-F. COURTINE (a
cura di), Figures de la subjectivité. Approches phénoménologiques et psychiatriques,
Éditions du CNRS, Paris 1992, pp. 91-102 (p. 98).
37
W. BLANKENBURG, La perdita dell’evidenza naturale, cit., p. 19 (corsivi nostri).
Una prospettiva analoga è presentata anche da U. GALIMBERTI, Psichiatria e feno-
menologia, Feltrinelli, Milano 1979 (nuova ed. 2006; cfr. in particolare il § 7: La
«psicologia comprensiva» di Jaspers e le sue applicazioni in psicopatologia), che per
questa ragione defi nisce l’apriori psichiatrico – per distinguerlo dal trascenden-
tale fi losofico come forma pura, o ontologica – in termini di apriori esistenziale.

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stesso Binswanger, d’altronde, non sembra allontanarsi poi molto da


tale impostazione, allorché – nell’ultima fase della sua ricerca – tratta
della «comprensione trascendentale» della melanconia, ovvero della
«struttura a priori che sta alla base di ogni contenuto delirante», per
distinguerla dall’approccio psicologico-contenutistico (biografico o ca-
ratterologico) a cui tradizionalmente si era votata la psichiatria nel suo
tentativo di staccarsi dai metodi delle scienze naturali38. Per questo
motivo non ci deve stupire l’“oscillazione” che lo psichiatra svizzero
compie nella direzione della speculazione costitutivo-trascendentale
husserliana39. In realtà, ciò che in questa «svolta» resta immutato è
quell’intento fenomenologico-strutturale che allo stesso modo aveva
guidato il suo autore, all’inizio degli anni trenta, a rivolgersi al Dasein
per cogliervi quei «momenti strutturali costitutivi a priori che defini-
scono l’architettura di ciò che è ogni volta il tutto del mondo dell’es-
sere-nel-mondo e lo determinano nel suo genere proprio»40. Ma non
solo. Nel momento in cui Binswanger sottolinea la distanza che ai suoi
occhi separa la prospettiva «genetico-trascendentale» dalla Daseinsa-
nalyse vera e propria, egli non solo sembra finalmente rendersi conto
dell’autentico significato che Heidegger aveva assegnato al piano «on-
tologico» della sua analitica del Dasein, ma in questo modo si trova
implicitamente a chiarire anche l’uso che egli stesso aveva fatto – nella
fase appunto heideggeriana dell’«analisi esistenziale» – dell’ontologico
nella sua differenza dall’ontico. Affermando come lo psichiatra non
possa considerare «l’eidos ontologico “della” angoscia, elaborato da
Heidegger, come “modello” per ogni possibile concreta attuazione di

A questo proposito, si veda anche J. NEEDLEMAN, Critical Introduction to Ludwig


Binswanger’s Existential Psychoanalysis, in L. BINSWANGER, Being in the World:
Selected Papers, Basic Books, New York 1963, pp. 7-146, tr. it. di A. Angioini e
G. Banti, Essere nel mondo, Astrolabio, Roma 1973, pp. 13-144 (in particolare
pp. 31-36).
38
L. BINSWANGER, Melanconia e mania, cit., pp. 38-39.
39
Per un approfondimento di questo tema specifico, rimandiamo a S. BESOLI,
«Vorwärts zu Husserl»: il pendolo della ricerca binswangeriana e il suo oscillare ver-
so il compimento della fenomenologia, in ID., Ludwig Binswanger. Esperienza della
soggettività e trascendenza dell’altro: i margini di un’esplorazione fenomenologico-
psichiatrica, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 283-418.
40
L. BINSWANGER, Sulla fuga delle idee, cit., p. 197.

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tutto ciò che noi definiamo come angoscia», ma debba piuttosto cerca-
re «un eidos riferito all’angoscia melanconica inteso come modello per
ogni possibile concreta attuazione di tutto ciò che ci appare come ango-
scia melanconica»41, Binswanger sottolinea il carattere essenzialmente
architettonico-strutturale dell’apriori psichiatrico e quindi la sua va-
lenza diagnostica, ovvero clinica. La guarigione da una patologia, infat-
ti, non ha nulla a che vedere con un’«autenticità» fondata «sullo sfondo
ontologico dell’essere esposto al nulla dell’angoscia»42, ma va riportata
a quella sorta di «esperimento della natura»43 che sono le «differenze
di costituzione del mondo degli alienati», delle differenze concernenti
la «“trama” dei “fili” delle funzioni trascendentali»44 che costituiscono
l’esperienza. Ma, a ben vedere, non era una posizione analoga quella
che veniva espressa dalla Daseinsanalyse allorché essa sceglieva di ri-
farsi all’ontologia heideggeriana del Dasein per scovare quei «momenti
costitutivi strutturali a priori»45 che definiscono la costituzione del chi

41
ID., Melanconia e mania, cit., p. 60 (corsivi nostri). Binswanger torna sul mo-
tivo della sua presa di distanza da Heidegger anche nella Premessa al suo Wahn,
Beiträge zu seiner phaenomenologischen und daseinsanalytischen Erforschung, Ne-
ske, Pfullingen 1965, pp. 107-132, tr. it. di G. Giacometti, Delirio. Antropoanalisi
e fenomenologia, ed. a cura di E. Borgna, Marsilio, Venezia 1990, pp. 73-90, p. 5:
«Se da un lato posso apprezzare sempre di più l’ontologia di Heidegger nel suo
significato puramente fi losofico, dall’altro, tuttavia, la distinguo sempre di più
dalla sua «applicazione» alla scienza, anche a quella della psichiatria. Sotto que-
sto aspetto ha acquistato invece per me sempre maggior rilievo la dottrina della
coscienza trascendentale di Husserl».
42
Ivi, p. 59.
43
Ivi, p. 21.
44
Ivi, p. 71 (corsivo nostro).
45
È emblematico, d’altronde, che Binswanger – pur nel suo approfondimen-
to della Daseinsanalyse in direzione husserliana – continui a trattare delle forme
patologiche dell’esistenza a partire dall’analisi dei momenti strutturali costitutivi
che le articolano: cfr. ID., Melanconia e mania, cit., pp. 19-20: «L’indagine fenome-
nologica e analitico-esistenziale in psichiatria non può ritenersi affatto conclusa
con la sola descrizione degli aspetti caratteristici dei “mondi” dei malati e della
“struttura antropologica” delle “forme di esistenza” contemplate dalla psichia-
tria, come a suo tempo mi sono espresso. Bisogna, invece, oltre a ciò, esaminare la
peculiarità di questi mondi nel loro costituirsi, in altre parole, studiarne i momenti
strutturali costitutivi e chiarirne le reciproche differenze costitutive».

23

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e del come del malato nel suo mondo?46 Il ruolo dell’ontologia per la
ricerca psichiatrica – come spiegava Binswanger già nel suo articolo del
1931 su E. Straus – non rivendica le prerogative di un’interrogazione
filosofica radicale, «fondamentale» nel senso prettamente heideggeria-
no del termine, ma assume la valenza di un’opposizione a un’indagine
sulla «relazione» di uomo e mondo che intenda partire tanto dal pun-
to di vista positivo-scientifico, quanto da quello della «logica» e della
«teoria della conoscenza»47. L’«ontologia» messa in campo dall’analisi
esistenziale, dunque, ha sempre avuto il valore di una diagnosi «erme-
neutico-pratica»48, ed è precisamente questo che Binswanger afferma
implicitamente anche all’inizio degli anni sessanta – malgrado il suo
esplicito distanziarsi da Heidegger – allorché sostiene di aver «sempre
preso le mosse dall’ontologia heideggeriana, anche in questo scritto,
dove intendo descrivere le malattie mentali nella loro essenza»49.

46
ID., Der Fall Ellen West. Eine anthropologisch-klinische Studie, “Schweizer
Archiv für Neurologie und Psychiatrie”, 53 (1944), pp. 255-277; 54 (1944), pp.
69-117, 330-360; 55 (1945), pp. 16-40; poi in ID., Schizophrenie, Neske, Pfullingen
1957, studio n. 2, tr. it. di C. Mainoldi, Il caso di Ellen West, SE, Milano 2001, p.
59: «Impostiamo il problema delle forme della presenza muovendo dalle forme
del mondo in cui essa “vive”. Poiché “mondo” significa sempre non soltanto il che
cosa entro cui una presenza esiste, ma al tempo stesso il come e il chi del suo esi-
stere, le forme del come e del chi, dell’essere-in e dell’essere-se-stesso [Selbstsein]
risultano “spontaneamente” dalla caratterizzazione dei mondi in cui una tale esi-
stenza si svolge» (corsivi nostri).
47
ID., Geschehnis und Erlebnis, “Monatsschrift für Psychiatrie und Neurolo-
gie”, 80, 5, 6 (1931), pp. 243-273; poi in ID., Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, vol.
II: Zur Problematik der psychiatrischen Forschung und zum Problem der Psychiatrie,
Francke, Bern 1955; e in ID., Ausgewählte Werke (1994), cit., vol. III, pp. 179-203,
tr. it. di E. Filippini, Accadimento ed Erlebnis, in ID., Per un’antropologia fenome-
nologica, cit., pp. 303-330, p. 312.
48
Cfr. ID., Lebensfunktion und innere Lebensgeschichte, in «Monatsschrift für
Psychiatrie und Neurologie», 68 (1928), pp. 52-79; ora in Ausgewählte Werke, vol.
III: Vorträge und Aufsätze, cit. (1994), pp. 71-94, tr. it. di E. Filippini, Funzione di vita
e storia della vita interiore, in Per un’antropologia fenomenologica, cit., pp. 39-64.
49
ID., Melanconia e mania, cit., p. 17 (corsivi nostri). Non possiamo quindi
che trovarci d’accordo con R. De Monticelli, quando afferma che vi sarebbe uno
«stretto legame fra l’eredità husserliana in Binswanger e la sua correzione-integra-
zione dell’analitica esistenziale heideggeriana» [cfr. Binswanger et le pari de la phé-
noménologie psychiatrique, “Les Études Philosophiques”, 1-2 (1994), pp. 215-231;

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Coglie dunque nel segno Blankenburg, quando – per chiarire ap-


punto il senso dell’utilizzo psichiatrico dell’«ontologia» – parla di
quest’ultima in termini di «ontologia regionale dell’anormalità psichi-
ca», ovvero di uno strumento eminentemente metodologico atto a de-
lineare e delimitare le strutture o regolarità caratteristiche dei modi
d’essere patologici 50. L’“ontologia” binswangeriana del Dasein, pertan-
to, come anche l’indagine genetico-trascendentale che la approfondi-
sce negli anni sessanta, si risolve in ultima analisi nella messa in luce
delle forme, dei modi di essere secondo i quali la «presenza» umana
costituisce se stessa e il mondo nel quale essa vive. Ed è in questo sen-
so, allora, che il concetto di apriori, che costituisce il fi lo conduttore
della Daseinsanalyse lungo tutto il percorso della sua lunga vicenda
teorica, si rivela essere nient’altro che quel paradossale puntello meto-
dologico atto «a mettere in evidenza, a posteriori, quel che è stato sem-
pre co-intuito e co-percepito»51. Paradossale, certo, nella misura in cui
tale apriori si offre quale principio esplicativo immanente a quelle stes-
se forme di esperienza, comportamenti o vissuti che attraverso di esso
si tratta di analizzare. Ma non è forse questa in fin dei conti, quell’«ov-
vietà» della fenomenologia alla quale lo stesso Heidegger rimandava
nelle pagine di Essere e tempo?52

poi come Amore e cura, in ID., L’ascesi filosofica. Studi sul temperamento platonico,
Feltrinelli, Milano 1995, cap. 7, pp. 152-168, p. 157]. Più radicalmente, qualcuno
sostiene invece che nel testo di Binswanger il “verbo” heideggeriano non sarebbe
che mera retorica, mentre la sostanza del discorso resterebbe husserliana [cfr. S.
VALDINOCI, Binswanger: une Métaphysique de la psychiatrie, in P. FÉDIDA (a cura di),
Phénoménologie, psychiatrie, psychanalyse, Echos-Centurion, Paris 1986 (Le Cer-
cle Herméneutique, Paris 2004) pp. 141-152; e ID., Une psychiatrie essentielle, in P.
FÉDIDA - J. SCHOTTE (a cura di), Psychiatrie et existence, cit., pp. 109-116, p. 111].
50
W. BLANKENBURG, La perdita dell’evidenza naturale, cit., p. 22: «Il termine
[ontologia] non denota qui una sorta di scienza dogmatica dell’essere. Al contra-
rio, ontologia fenomenologica significa, coerentemente con il suo senso metodolo-
gico, la liquidazione di ogni posizione dogmatica circa l’essere» (corsivo nostro).
51
Ivi, p. 21.
52
M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer Verlag, Halle 1927 (200118); poi in
ID., Gesamtausgabe, vol. II, a cura di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frank-
furt a.M. 1977, tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Utet, Torino 1969 (nuova ed. a
cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005), p. 47: «Ma si potrebbe obiettare che
si tratta di una massima [“Verso le cose stesse!”] chiaramente ovvia […]: non

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Elisabetta Basso

Del carattere «strumentale» dell’apriori psichiatrico si sono accorti


in modo particolarmente acuto quei filosofi e psichiatri francesi che – a
partire dagli anni quaranta – cominciano a dar voce, importandola in
Francia, all’opera di Binswanger53. Ci sarebbe tutto un capitolo da scri-
vere sulla peculiarità e sulle ragioni speculative che stanno alla base
della ricezione francese della Daseinsanalyse, ma purtroppo in queste
pagine non abbiamo lo spazio per ripercorrerne le tappe. Quel che ci
interessa più da vicino, per il momento, è invece rimarcare come questi
autori abbiano da subito saputo cogliere l’originalità del trascendentale
fenomenologico-psichiatrico rispetto a quello della tradizione filosofi-
ca, kantiana, husserliana, heideggeriana… È estremamente rivelativo,
ad esempio, come il giovane Michel Foucault – nella sua Introduzione
alla traduzione francese del saggio binswangeriano del 1930, Sogno ed
esistenza – interpreti il programma della Daseinsanalyse proprio a pre-
scindere dalla categoria del trascendentale, e ne lodi precisamente la
capacità di fornire un approccio al «“fatto” umano» che «non rinvia
l’antropologia a una forma a priori di speculazione filosofica»54. Hen-
ri Maldiney assegna un significato analogo al riferimento che la psi-

si vede perché un’ovvietà come questa dovrebbe comparire espressamente nella


qualificazione di una particolare ricerca. In realtà si tratta di un’“ovvietà” in cui
vogliamo vedere chiaro». Ma si veda anche ID., Zollikoner Seminare. Protokolle -
Gespräche - Briefe, Klostermann, Frankfurt a.M. 1987, tr. it. a cura di E. Mazzarel-
la e A. Giugliano, Seminari di Zollikon. Protocolli seminariali - Colloqui - Lettere,
Guida, Napoli 1991, p. 57: «Il difficile è dire lo stesso, e il massimamente difficile
è: dire lo stesso dello stesso».
53
Sebbene il nome dello psichiatra svizzero ricorra già alla fine degli anni venti
in diversi passaggi degli scritti di Minkowski, è solo a partire dalle opere di Mer-
leau-Ponty degli anni quaranta che Binswanger riceve quell’attenzione fi losofica
che guiderà poi – all’inizio degli anni cinquanta – la traduzione francese di alcuni
dei suoi lavori. A questo proposito, rimandiamo a J.-C. MARCEAU, L’analyse exi-
stentielle entre phénoménologie, psychiatrie et psychanalyse, in R. KUHN, Écrits sur
l’analyse existentielle, cit., pp. 17-39; ma si veda anche lo stesso R. KUHN, L’œuvre
de Ludwig Binswanger, son origine et sa signification pour l’avenir, in P. FÉDIDA (a
cura di), Phénoménologie, psychiatrie, psychanalyse, cit., pp. 29-40; poi in R. KUHN,
Écrits sur l’analyse existentielle, cit., pp. 131-148.
54
M. FOUCAULT, Introduction à L. Binswanger, «Le rêve et l’existence», Desclée
de Brouwer, Paris 1954, pp. 9-128; ora in Dits et Écrits, 1954-1988, ed. a cura di D.
Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 1994 (ed. in quarto, 2001), vol. I, pp. 65-118,
tr. it. L. Corradini, in L. BINSWANGER, Sogno ed esistenza, SE, Milano 1993, pp. 11-

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

chiatria “esistenziale” apre nella direzione della fenomenologia, nella


misura in cui sottolinea come il programma husserliano di “tornare
alle cose stesse” coincida certamente con l’intento dell’analisi psichia-
trica delle espressioni patologiche, a prescindere, però, dal rimando a
una soggettività di tipo trascendentale puro fondamentalmente priva,
ai suoi occhi, di quel radicamento al reale al quale la psichiatria non
può rinunciare55. Se davvero l’«analisi della presenza» intende mette-
re a nudo le forme dell’«essere-nel-mondo», ovvero i differenti «modi
di abitare il mondo», sarà a patto di considerare tali forme in quanto
strutture e non in quanto categorie a priori56. Ciò che conta, insomma,
nell’analisi di un caso, è riuscire a «portare all’evidenza e far propria
la domanda immanente alla sua esistenza in questione», «evitando di
applicare le norme di una “saggezza acquisita altrove»57. Anche il pro-
gramma fenomenologico di G. Lantéri-Laura costituisce un esempio
particolarmente esplicito di questa operazione; esso rappresenta anzi
una sorta di messa a punto di carattere generale del significato che la
fenomenologia tedesca ha via via assunto nell’ambito della psichiatria
filosofica in Francia. E anche fra le pagine del suo celebre lavoro del

85, p. 16 (poi edito singolarmente a cura di F. Polidori, Il sogno, tr. it. di M. Colò,
Cortina, Milano 2003).
55
H. MALDINEY, Comprendre, “Revue de Métaphysique et de Morale”, 66, 1-2
(1961), pp. 35-89; poi in ID., Regard, parole, espace, L’Age d’homme, Lausanne
1973 (1994), pp. 27-86, tr. it. di F. Leoni, Comprendere, in Pensare l’uomo e la fol-
lia: alla luce dell’analisi esistenziale e dell’analisi del destino, Einaudi, Torino 2007,
pp. 133-204 (pp. 197-198).
56
Cfr. ivi, p. 193: «Muovendosi esclusivamente tra le forme dell’In-der-Welt-
sein, l’analisi della presenza mette a nudo strutture e fondazioni molto diverse
da quelle individuate dall’analisi della psiche. […] Alle diverse strutture della
presenza, che esprimono, tutte, l’esistenziale di quella presenza in quanto essere
nel mondo, corrispondono altrettanti modi di abitare il mondo. […] Non è nostra
intenzione proporre una classificazione dei fenomeni espressivi; esposta com’è al
rischio dell’apriori» (tr. parzialmente modificata rispetto a quella di Leoni; cor-
sivo nostro).
57
H. MALDINEY, Psychose et présence, “Revue de Métaphysique et de Mora-
le”, 81, 4 (1976), pp. 513-565; poi in ID., Penser l’homme et la folie. A la lumière
de l’analyse existentielle et de l’analyse du destin, Jérôme Millon, Grenoble 1991
(19972), pp. 5-82, tr. it. di F. Leoni, Psicosi e presenza, in Pensare l’uomo e la follia:
alla luce dell’analisi esistenziale e dell’analisi del destino, cit., pp. 133-204, pp. 4-5.

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1963 – La psychiatrie phénoménologique – egli insiste sul riferimento


al «concreto», al «vitale» alla luce del quale lo psichiatra si convince
della necessità di rinunciare al soggetto trascendentale di una fenome-
nologia intesa quale «scienza a priori delle essenze» e in quanto tale
«estranea al mondo». Se la psichiatria può a giusto titolo defi nirsi «fe-
nomenologica», sarà quindi solo a patto di abbandonare la riduzione
trascendentale, la ricerca delle «essenze a priori», per conservare inve-
ce, di essa, soltanto l’«attitudine», ovvero l’esigenza «d’una descrizio-
ne senza presupposti» che fornisca allo psichiatra uno strumento che
lo aiuti a comprendere quelle peculiari e concrete strutturazioni del
«mondo» che sono le malattie mentali58.
Il riferimento alla fenomenologia passa insomma attraverso il tema
metodologico dell’immanenza del rapporto fra l’analisi fi losofica e il
suo “oggetto”, ed è precisamente in quest’ottica che si svolgono anche
i numerosi rimandi che tutti questi autori formulano nella direzione
dell’opera di Merleau-Ponty, quel Merleau-Ponty che fu tra i primi,
nella sua Fenomenologia del 1945, a dare rilievo al valore filosofico del-
la riflessione di Binswanger. È in un modo analogo, d’altronde, che il
filosofo francese invitava a rileggere la stessa «riduzione fenomenologi-
ca» husserliana, incitando a cogliere il «carattere concreto e familiare»
di questo procedimento eminentemente «retrospettivo» atto a fornire
una visione dell’essenza che «non ci fa passare al di là del tempo in un
dominio di pura logica o di puro pensiero», ma si qualifica ai suoi occhi
come una «ripresa intellettuale, elucidazione o esplicitazione di ciò che
è stato concretamente sperimentato»59. La «ricerca dell’essenza», dun-
que, intesa come indagine di una «certa modalità del nostro rappor-
tarci al mondo», non poteva che confluire, in quest’ottica, nell’«analisi
dell’esistenza»60, ed è per questo che alla riflessione filosofica veniva
affidato il compito di partire dallo studio della percezione, in quanto
quel luogo esistenziale-concettuale che più di ogni altro mostra come
«Io non sono un oggetto che si possa percepire, poiché faccio la mia
58
G. LANTÉRI-LAURA, La psychiatrie phénoménologique, cit., pp. 176-177.
59
M. MERLEAU-PONTY, Les sciences de l’homme et la phénoménologie, Les cours
de Sorbonne, Centre de Documentation Universitaire, Paris 1953, tr. it. di M.C.
Liggieri, Fenomenologia e scienze umane, Editrice Universitaria La Goliardica,
Roma 1985, rispettivamente alle pp. 37, 31 e 57.
60
Ivi, p. 49.

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realtà e non mi raggiungo se non nell’atto»61. È in un quadro siffatto,


precisamente, che Merleau-Ponty si trova a citare Binswanger, nell’am-
bito di una disamina dell’«essere-nel-mondo» che intende rendere con-
to di tutta l’equivocità della situazione concreta di un essere che non si
riduce alle modalità di una coscienza e di una volontà (intellettuali-
smo), ma nemmeno a quelle di una «cosa» (empirismo)62, giacché la
«presenza» è apertura a un «mondo» che si dispiega, paradossalmen-
te, solo a partire da questa apertura stessa63. Al filosofo-psichiatra che
intenda cogliere le caratteristiche essenziali di una «presenza», non
resterà allora che analizzare l’apriori che presiede alla forma specifica
di una determinata percezione o relazione con il «mondo», quell’aprio-
ri concreto che altri non è che il senso immanente, «autonormativo»
di un comportamento o modo di «essere nel mondo» e che, proprio
per questo suo valore eminentemente «concreto», «attuale», «vitale»,
Merleau-Ponty non esita a derivare dal modello dell’apriori dell’orga-
nismo64 o della specie65. E lo stesso Binswanger, d’altra parte, rimanda

61
ID., Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945 (195211), tr. it.
di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965 (19803;
Bompiani, Milano 2003), p. 492 (corsivo nostro). Si tratta di una direzione di ri-
cerca che non sfugge a Lantéri-Laura, che si sofferma – come appunto Merleau-
Ponty prima di lui – sul valore che la Gestalttheorie avrebbe rivestito per la ricerca
psicologica, nella misura in cui essa «ne prétend pas se situer hors du monde et
ne cherche pas à déterminer l’activité du sujet transcendantal», giacché «l’on ne
peut parler du sujet avant d’avoir décrit le champ perceptif» (La psychiatrie phé-
noménologique, cit., p. 177).
62
Ivi, p. 191: «Lo studio di un caso patologico ci ha dunque permesso di scor-
gere un nuovo modo di analisi – l’analisi esistenziale – che supera le alternative
classiche fra l’empirismo e l’intellettualismo, fra la spiegazione e la riflessione»; p.
234: «L’esistenza non è un ordine di “fatti” (come i fatti “psichici”) che si possa
ridurre ad altri o al quale si possano ridurre questi ultimi, ma l’ambito equivoco
della loro comunicazione».
63
Ivi, p. 400: «La mia inerenza a un punto di vista rende possibile la fi nitezza
della mia percezione e in pari tempo la sua apertura al mondo totale come oriz-
zonte di ogni percezione».
64
Cfr. ID., La structure du comportement, Presses Universitaires de France, Pa-
ris 1942 (19778; «Quadrige», 20022), tr. it. di G. Neri, La struttura del comporta-
mento, Bompiani, Milano 1963 (19702).
65
ID., Le métaphysique dans l’homme, “Revue de Métaphysique et de Morale”,
52 (1947), pp. 290-307; ripubblicato poi, con qualche modifica, in ID., Sens et non-

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proprio al filosofo francese nel momento in cui – nell’analisi del caso


di Suzanne Urban – si tratta di mostrare come sia proprio il cristalliz-
zarsi di tale apriori in forme prestabilite, meccaniche, «incondiziona-
te», a costituire il nucleo strutturale della malattia della sua paziente66.
La norma, o meglio, la normatività che presiede all’«apparizione stessa
del mondo»67, insomma, non va rinvenuta in un qualche «altrove» di
carattere teoretico, ma è «iscritta nei fatti stessi»68, ovvero nelle forme
di esistenza. Questo è l’apriori a cui rimanda la psichiatria fenomeno-
logica, e che sta alla base di una “comprensione trascendentale” che a
tale scopo non esita a richiamare le concordanze metodologiche fra il
concetto heideggeriano di Dasein e quello biologico di “vita”, intesi en-
trambi a partire dall’intuizione fenomenologica per la quale l’“essere-
uomo” non può essere pensato separatamente da quel “mondo” al qua-
le esso è aperto, e che, a un tempo, è lui stesso a dischiudere.

2. Il modello dell’apriori biologico

In effetti, i riferimenti biologici a cui questi autori rimandano sono


più o meno gli stessi e tutti riguardano la speculazione di quei medici-
filosofi – Kurt Goldstein, Viktor von Weizsäcker, Erwin Straus – che
avevano in qualche modo tentato di superare l’unilateralità organicista
della biologia classica per fondare su nuove basi quelle scienze – neu-

sens, Nagel, Paris 1948 (19666; Gallimard, Paris 1996, pp. 102-119), tr. it. di P. Ca-
ruso, Il metafisico nell’uomo, in ID., Senso e non-senso, Il Saggiatore, Milano 1962;
2004, pp. 107-121, p. 116.
66
L. BINSWANGER, Il caso Suzanne Urban, cit., p. 142: «“Percevoir – dice molto
bene Merleau-Ponty – c’est engager d’un seul coup tout un avenir d’expériences
dans un présent qui ne le garantit jamais à la rigueur. C’est croire à un monde”»;
«ora, anche i nostri malati credono in un mondo, anch’essi impegnano in un col-
po solo un intero futuro di esperienze in un presente, ma con la differenza che
questo presente cela già in se stesso ossia garantisce il futuro “in modo incon-
dizionato”. Lo spazio dell’esserci è a questo punto così angusto che non c’è più
“posto” né “tempo” per nuove esperienze dirette a controllare quella garanzia»
(il passaggio citato da Binswanger si trova in Fenomenologia della percezione, cit.,
p. 350; corsivo nostro).
67
M. MERLEAU-PONTY, Fenomenologia della percezione, cit., p. 105.
68
ID., La struttura del comportamento, p. 204.

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rologia, medicina e psichiatria, appunto – che pur tuttavia non avreb-


bero potuto rinunciare a un riferimento altrettanto essenziale al carat-
tere biologico dell’esistenza. Spinti dall’esigenza di trovare una nuova
forma non soltanto per la psichiatria, ma per quella stessa biologia a
cui essa avrebbe dovuto comunque fare riferimento, questi autori ave-
vano imboccato la strada della «filosofia» per ripensare su nuove basi il
problema dell’esistere in quanto relazione di «uomo» e «mondo». Alla
dicotomia classica dell’«esistenza come cosa» e dell’«esistenza come
coscienza» – per usare le parole di Merleau-Ponty69 – così come alla
posizione di una «coscienza fondatrice» intesa quale punto d’osserva-
zione assoluto sulle «cose»70, la prospettiva di questi autori si offriva
come un’analisi dell’esperienza in grado di cogliere – attraverso lo stu-
dio di quella «genesi di forma» che è l’«atto biologico» in quanto arti-
colazione di organismo e Umwelt – l’attualità sempre in fieri, autentica-
mente «vivente» di questa esperienza stessa71. E come Merleau-Ponty
espone la necessità di comprendere la struttura dell’universo dell’esse-
re vivente sulla base di un apriori che egli qualifica – riferendosi ai temi
dell’opera fondamentale di Goldstein, Der Aufbau des Organismus72
– come la «legge d’organizzazione interna», la normatività immanente
a questo universo stesso73, così allo stesso modo anche Binswanger ri-

69
ID., Il metafisico nell’uomo, cit., p. 110.
70
Ivi, p. 116 «Le scienze dell’uomo, nel loro orientamento presente, sono meta-
fisiche o transnaturali nel senso che ci fanno riscoprire, con la struttura e la com-
prensione delle strutture, una dimensione d’essere e un tipo di conoscenza che
l’uomo dimentica nell’atteggiamento che gli è naturale. Ci è naturale di crederci
in presenza d’un mondo e d’un tempo che il nostro pensiero sorvola e di cui può a
volontà considerare ogni parte senza modificarne la natura oggettiva. La scienza,
al suo inizio, riprende e sistematizza tale credenza. Sottintende sempre un osser-
vatore assoluto in cui si faccia la somma dei punti di vista, e correlativamente una
geometria di tutte le prospettive».
71
Sul concetto weizsäckeriano di «atto biologico» come «genesi di forma», si
veda in particolare H. MALDINEY, L’existence en question dans la dépression et dans
la mélancolie, “L’Évolution Psychiatrique”, 54, 3 (1989), pp. 571-594; poi in ID.,
Penser l’homme et la folie, cit., pp. 83-115.
72
K. GOLDSTEIN, Der Aufbau des Organismus. Einführung in die Biologie unter
besonderer Berücksichtigung der Erfahrungen am kranken Menschen, M. Nijhoff,
Den Haag 1934.
73
M. MERLEAU-PONTY, Il metafisico nell’uomo, cit., p. 108.

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manda al neurologo tedesco quale esempio di un’indagine in grado di


cogliere le relazioni costitutive dei fenomeni vitali contestualizzandole
in una totalità intesa come «progetto-di-mondo» (Weltenwurf)74.
È in quest’ottica, dunque, che tale corrente «fenomenologica» del-
la biologia recupera l’intuizione heideggeriana dell’esistenza come
«essere-nel-mondo» per ripensarla sul piano della vita concreta e ser-
virsene quale fulcro metodologico di un pensiero in grado di trovare
nella realtà stessa il principio della sua giustificazione. Del concetto
di Dasein, dunque, viene valorizzata anzitutto la convinzione secon-
do cui «il problema dell’esistenza non può esser posto in chiaro che
nell’esistere stesso»75, principio che sovrintenderà al superamento del
determinismo causale dominante fino ad allora nella riflessologia con
il carattere operativo e auto-determinantesi dell’atto biologico inteso
come nesso strutturale, normativo di uomo e mondo. Se «essere-nel-
mondo» significa esservi «già sempre», nel senso e solo nel senso che
del mondo in cui siamo non possiamo fare astrazione, allora – suggeri-
sce Weizsäcker – «Chi vuole comprendere la vita deve prendere parte
alla vita»76. Non vi è nulla che possa spiegare dall’esterno un atto bio-
logico, giacché esso è originario. Il mondo che esso dischiude non va
però confuso con l’istituzione di una qualche realtà data una volta per
tutte come una sorta di sfondo «oggettivamente» trascendente, ma è
l’attualità stessa dell’instaurarsi della situazione vitale, della circolarità
strutturale di uomo e mondo che la presiede. La postura fi losofica che
emerge dalla nozione di Gestaltkreis si offre dunque come l’esempio di
un pensiero che rinuncia a concepire il fondamento della relazione fra
«soggetto» e «oggetto» in una determinazione materiale – e si veda,
a questo proposito, già la celebre distinzione fra sentire e sensazione

74
L. BINSWANGER, L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, cit., p. 39. Il nome
del neurologo tedesco è costantemente presente anche nel saggio binswangeriano
Sulla fuga delle idee, cit.
75
M. HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., § 3, p. 26.
76
V. VON WEIZSÄCKER, Der Gestaltkreis: Theorie der Einheit von Wahrnehmen
und Bewegen, G. Thieme, Leipzig 1940 (G. Thieme, Stuttgart 19484); poi in Ge-
sammelte Schriften, ed. a cura di D. Janz, W. Rimpau, W. Schindler, P. Achilles,
M. Kütemeyer, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, tr. it. a cura di A. Masullo, La
struttura ciclomorfa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p. 247.

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

tratteggiata da Erwin Straus nel suo Vom Sinn der Sinne 77 – ma che
allo stesso tempo non ne ascrive le prerogative ultime alla forma vuota
di una soggettività trascendentale né tanto meno a un fondamento di
carattere ontologico-teoretico. È proprio per questo, d’altronde, che
Minkowski proporrà di sostituire al concetto heideggeriano di «esse-
re-nel-mondo» quello di «divenire nel mondo, o meglio, col mondo»78,
a significare l’insufficienza di un approccio filosofico che concepisca il
Dasein a prescindere dal suo carattere vitale 79. Ciò che deriva da una
tale impostazione, pertanto, è precisamente un apriori inteso come leg-
ge immanente di quella stessa realtà che esso intende spiegare, e non c’è
da stupirsi, allora, se è a questa forma «fenomenologica» della biologia
77
E.W. STRAUS, Vom Sinn der Sinne: ein Beitrag zur Grundlegung der Psycholo-
gie, Springer, Berlin 1931 (19562), pp. 10 ss.
78
E. MINKOWSKI, Le contact humain, “Revue de Métaphysique et de Morale”,
55, 2 (1950), pp. 113-127; poi in ID., Écrits cliniques, cit., pp. 139-156, tr. it. a cura di
M. Francioni, Il contatto umano, in ID., Filosofia, semantica, psicopatologia, cit., pp.
97- 112, p. 99. E H. Maldiney gli farà eco, nel suo saggio su L’existence en question
dans la dépression et dans la mélancolie, cit., p. 107: «Sentir ce n’est pas recueillir
des sensations: c’est sentir soi “et” le monde, soi “avec” le monde». È interessante
notare, peraltro, come a partire dalla distinzione di Straus Maldiney giunga a de-
lineare la sua originale concezione della presenza come transpassibilità, che pur-
troppo, in questo frangente, non abbiamo lo spazio per approfondire.
79
Cfr. E.W. STRAUS, Vom Sinn der Sinne, cit., p. 336. Straus giungerà pertanto
alla conclusione che il suo modo di concepire l’«essere-nel-mondo» non possa
essere inteso secondo l’accezione heideggeriana: cfr. ivi, nota 1, p. 373. È inte-
ressante notare come, a questo proposito, Straus citi in suo appoggio Binswan-
ger, che – nel suo Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins [Niehans,
Zürich 1942 (Reinhardt, München-Basel 19735), p. 471], avrebbe trattato l’esi-
stenza – nel senso ontologico heideggeriano – come un caso-limite antropologi-
co inaccessibile. Come esempio di tale caratterizzazione biologico-fenomenolo-
gica del concetto di Dasein, rimandiamo a R. KUHN, L’errance comme problème
psychopathologique ou déménager, in AA.VV., Présent à Henri Maldiney, l’Age
d’Homme, Lausanne 1973, pp. 111-131; poi in ID., Écrits sur l’analyse existentiel-
les, cit., pp. 83-110, p. 87: «Habiter ne veut pas simplement dire se trouver tou-
jours au même endroit et y demeurer, mais désigne une structure complexe de
la présence. Comme telle, elle renvoie à la relation de l’homme au monde. C’est
ce qu’implique, par exemple chez K. Goldstein, le concept d’organisme qui com-
prend l’homme avec son Umwelt. C’est aussi ce que V. v. Weizsäcker décrit dans
“le Cycle de la Forme” comme “cohérence”, c’est-à-dire comme l’unité du mou-
vement vivant et du monde perçu».

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che gli psichiatri di cui ci stiamo occupando si rivolgono nell’intento


di conferire uno statuto scientifico alle loro intuizioni «esistenziali».
Si tratta – come già più volte abbiamo cercato di evidenziare in queste
pagine – di un apriori a cui resta ben poco in comune con la tradizione
filosofica alla quale esso pur tuttavia rimanda. Quel che viene deline-
andosi è invece un concetto a valore eminentemente strumentale, un
concetto che coincide con quella stessa attualità empirica – biologica o
più specificamente psichica – di cui, attraverso di esso, si cerca di por-
tare allo scoperto la struttura80. Ciò che si vuole spiegare mediante tale
nozione non è più una relazione gnoseologica che presuppone il postu-
lato positivista per cui la conoscenza si edificherebbe a partire dal le-
game filogenetico – ma non per questo meno esteriore – di un soggetto
conoscente e di un mondo extrasoggettivo81. Il legame fra «uomo» e
«mondo» che la biologia «fenomenologica» porta alla luce servendosi

80
Sulla caratterizzazione non-kantiana dell’apriori di Weizsäcker, in particola-
re, rimandiamo all’Introduzione che P.A. Masullo antepone alla tr. italiana de La
struttura ciclomorfa, cit., pp. XI-XLIV (in particolare pp. XXXIX-XL). Ma si veda
anche: P.A. MASULLO, Patosofia. L’antropologia relazionale di Viktor von Weizsä-
cker, Guerini e Associati, Milano 1992, in particolare cap. 1, § 2: La concezione
biologica di Weizsäcker: cambiamento dei fondamenti epistemologici della biologia.
Nuova fisica e nuova biologia, pp. 34-44.
81
A questo proposito, si veda l’interessante critica che – a partire da Erwin
Straus – Georges Thinès (L’œuvre critique d’Erwin Straus et la phénoménologie, in
P. FÉDIDA - J. SCHOTTE, a cura di, Psychiatrie et existence, cit., pp. 79-93) muove al
«realismo ipotetico» di Konrad Lorenz: cfr K. LORENZ, Die Rückseite des Spiegels.
Versuch einer Naturgeschichte menschlichen Erkennens, R. Piper & Co., München
1973, tr. it. di C. Beltramo Ceppi, L’altra faccia dello specchio. Per una storia natura-
le della conoscenza, Adelphi, Milano 1974 (20026), p. 26: «Tutto ciò che noi uomini
sappiamo sul mondo reale deriva da meccanismi di informazione di origine fi loge-
netica, che ci comunicano elementi rilevanti dell’ambiente; essi sono costruiti in
modo molto più complesso, ma secondo gli stessi principi di quelli che scatenano
la reazione di fuga nel paramecio. […] Le nostre aspirazioni, per quanto riguarda
la speranza di comprendere il senso e i valori ultimi di questo mondo, sono mol-
to modeste. Invece teniamo molto, irremovibilmente, alla nostra convinzione che
tutto ciò che ci viene segnalato dal nostro apparato conoscitivo corrisponda a dati
di fatto reali del mondo extrasoggettivo. Questa posizione gnoseologica deriva dal
sapere che il nostro apparato conoscitivo stesso è un elemento del mondo reale,
il quale, proprio contrapponendosi e adattandosi a elementi altrettanto reali, ha
raggiunto la propria forma attuale» (corsivi nostri).

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

della nozione di apriori non deriva il proprio carattere necessario né


da una base genetico-materiale – sia questa d’ordine meramente empi-
rico, oppure d’ascendenza più specificamente evoluzionista – né tanto
meno da una relazione teoretico-gnoseologica, giacché esso coincide
con quell’«evento» che è «ogni volta avvento del mondo»82, un «mondo
effettuale» – per dirla con Weizsäcker – che si forma ogni volta come
attualità, come «presenza sensibile»83. E come questa corrente della
biologia analizza pertanto il comportamento a partire da una struttu-
ra di senso che è di volta in volta immanente alla situazione o presenza
che esso esprime, così anche la psichiatria «esistenziale» tende a rav-
visare nella condotta psicopatologica non più la configurazione statica
di un «senso circoscritto», ma – per utilizzare le parole con cui Mal-
diney tratta dell’analisi binswangeriana del sogno – «l’unità dinamica
e significativa di un senso-direzione e di un senso-significazione che
si identificano in un medesimo schizzo esistenziale-significativo»84. È
questo dunque l’apriori a cui la diagnosi dello psichiatra rimanda una
volta condotta a termine la sua Daseinsanalyse, ovvero una «direzione
significativa» (Bedeutungsrichtung) non tematica che determina le co-
ordinate o dimensioni spazio-temporali che definiscono la struttura del
progetto di mondo di una precisa configurazione psicopatologica.
Ecco allora che in questo modo, attraverso il riferimento alla biolo-
gia, viene a chiarirsi ulteriormente il senso che la ripresa della concet-
tualità husserliana e heideggeriana acquista nel quadro dell’indagine
psichiatrica. Nel momento in cui Binswanger «interpreta» i vissuti psi-
copatologici seguendone «dall’interno» le dimensioni stilistiche, ovve-
ro i momenti costitutivi a priori che ne determinano intrinsecamente le
direzioni di senso, egli non può fare a meno di rimarcare l’affinità che
tale prospettiva manifesta nei confronti di quella biologia che conce-
pisce la relazione fra uomo e mondo in termini di genesi o creazione di
forme, e che da queste prende il via per comprendere il senso biologico
dell’«essere nel mondo»85. Sono precisamente tali forme a costituire
82
H. MALDINEY, Psicosi e presenza, cit., p. 69.
83
V. VON WEIZSÄCKER, La struttura ciclomorfa, cit., p. 37.
84
Cfr. H. MALDINEY, Comprendere, cit., p. 176.
85
L. BINSWANGER, Sulla fuga delle idee, cit., Introduzione, p. LXI: «Si incrocia-
no qui, come in ogni diagnosi psicopatologica, questioni, formulazioni di concetti
e di giudizi naturalistici e psicologici […]. In quest’incrocio sta l’autentico destino

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quell’«essenza» dei comportamenti o dei vissuti che lo psichiatra mira


a portare allo scoperto facendo propri l’approccio e il linguaggio del-
la fenomenologia. Maldiney sa cogliere particolarmente bene questa
tangenza fenomenologica fra biologia e psichiatria allorché sottolinea
come la Daseinsanalyse non coincida con l’analisi husserliana delle es-
senze – siano queste “categoriali” o “materiali” – ma si qualifichi come
una ricerca che permane nell’ordine dell’esistente e dei suoi modi di
essere, dove per esistente va inteso quel vivente che si esprime crean-
do ogni volta le proprie forme, che instaura cioè lo spazio e il tempo
che gli sono propri86. È in quest’ottica, dunque, che va letto il richiamo
di Maldiney a Weizsäcker e all’opportunità – questa volta in una pro-
spettiva esplicitamente anti-heideggeriana – di legare Leben e Dasein,
vivente ed esistente: non è alla «natura» ontologica del Dasein che va
ascritta l’«apertura dell’essere», ma al suo essere in quanto vivente e
perciò stesso capace di aprirsi a un «mondo» che è tale, paradossal-
mente, solo in virtù di questa apertura stessa, e che solo da tale relazio-
ne mutua le proprie leggi87.
Si tratta di una posizione che ci interessa nella misura in cui essa
mostra come il modello speculativo offerto da questa biologia feno-
menologica giochi un ruolo di fondamentale importanza nell’elabo-
razione di una ricerca psicologico-psichiatrica il cui carattere decisivo

della diagnostica psicopatologica e psichiatrica e della sua storia. Non bisogna


perciò chiudere gli occhi davanti a esso ma guardarlo in faccia e comprenderlo nel
suo significato metodologico». Ma si veda anche il modo in cui Binswanger avvi-
cina la Daseinsanalyse ai modelli biologici di Weizsäcker e di Goldstein in L’indi-
rizzo antropoanalitico in psichiatria, cit., § 2. Osservazioni analoghe, con esplicito
riferimento a quest’ultimo saggio, si trovano inoltre in ID., Delirio, cit.. pp. 84-85.
86
Cfr. H. MALDINEY, Daseinsanalyse: phénoménologie de l’existant?, in P. FÉDIDA
(a cura di), Phénoménologie, psychiatrie, psychanalyse, cit., pp. 9-26.
87
Cfr. ID., De la transpassibilité, in ID., Penser l’homme et la folie, cit., pp. 361-
425, tr. it. di F. Leoni, Della transpassibilità, Mimesis, Milano 2004, pp. 47-48:
«Von Weizsäcker percorre in senso inverso il cammino di pensiero che aveva
condotto Heidegger dal Leben al Dasein. L’apertura di quel cammino coincideva
con l’instaurazione del progetto di un’ontologia esistenziale. […] Von Weizsäcker
privilegia la dimensione della vita rispetto a quella dell’essere: non tanto, per
l’esattezza, rovesciando il passaggio prescritto dall’ontologia esistenziale, quanto
piuttosto annullandolo. […] Non è al Dasein che egli intende infatti chiedere con-
to dell’apertura dell’essere».

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

sta nell’immanenza delle sue analisi. Nel momento in cui Maldiney


sottolinea come per Weizsäcker «ciò che è vero del vivente lo è anche
dell’esistente», come «le trasformazioni costitutive della forma biologi-
ca» sono «analoghe alle trasformazioni costitutive dell’esistenza come
essere-nel-mondo»88, egli mostra infatti di saper cogliere la posta in
gioco anzitutto metodologica che il modello weizsäckeriano di una le-
galità immanente al comportamento biologico offre a una psichiatria
sempre più propensa, nei confronti della «patologia» mentale, a met-
tere «fuori gioco ogni presa di posizione pregiudicata»89. E, in effet-
ti, è interessante notare la forte presenza di questo tipo di indagine
d’ascendenza biologica nello stesso modo di procedere di Binswanger,
in quelle sue analisi «dall’interno» delle «configurazioni mondane»
delle strutture psicopatologice. Si prendano ad esempio, a tale propo-
sito, i saggi sulle forme di esistenza mancata, laddove lo psichiatra tratta
dell’«ordine delle significanze» proprio dell’esperienza schizofrenica
definendone le caratteristiche «espressive» attraverso un riferimento
alla nozione di vita. A essere comune, ad esempio, fra il modo d’espres-
sione manieristico letterario e quello schizofrenico – scrive Binswan-
ger – è la «scomparsa del riferimento naturale alla vita»90, dove con ciò
va inteso quella «chiusura e occultamento della situazione»91 – per de-
finire la quale egli ricorre al concetto heideggeriano di mondanizzazio-
ne – che traduce l’incapacità di instaurare quell’articolazione normati-
va con l’ambiente che sta alla base del nostro essere come «essere-nel-
mondo»92. È proprio per questo, quindi, che Maldiney, nel tratteggiare
la curvatura che Binswanger avrebbe impresso al concetto di Dasein,

88
ID., Événement et psychose, in ID., Penser l’homme et la folie, cit., pp. 251-294,
p. 283; poi in J.-F. COURTINE (a cura di), Figures de la subjectivité. Approches phé-
noménologiques et psychiatriques, Centre National de la Recherche Scientifique,
Paris 1992, pp. 119-145, tr. it. di F. Leoni, Evento e psicosi, in Pensare l’uomo e la
follia, cit., pp. 95-131, p. 122.
89
ID., Psicosi e presenza, cit., p. 5.
90
L. BINSWANGER, Tre forme di esistenza mancata, cit., p. 187.
91
Ivi, p. 102 (corsivo nostro).
92
Cfr. ivi, p. 94: «È evidente quindi […] come la riuscita della vita umana di-
penda da una “giusta misura”. […] Questa armonia si rivela nella crescita e nella
genesi dell’articolazione dei rimandi, in un’articolazione che non sia una mera co-
ordinazione […]. Questa crescita noi la chiamiamo volentieri “vita”».

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ricorre a Weizsäcker, e alla luce del concetto di atto biologico rilegge


anche quella «genesi di forme», quella «creazione del presente» che
altri non è che l’esistenza stessa93.
Si tratta di una prospettiva che ha importanti conseguenze sul pia-
no della clinica psichiatrica, poiché, se è vero che la «presenza» si
esprime attraverso le sue forme manifeste e non si nasconde dietro di
esse – come vorrebbe invece, in particolare, l’ermeneutica freudiana –
è a queste forme stesse, ovvero alla loro dimensione più esplicitamen-
te «estetica» che lo psichiatra dovrà rivolgere la propria attenzione94.
Michel Foucault sa cogliere con grande acume questo fondamentale
aspetto della Daseinsanlyse, allorché, nella sua ampia Introduzione a
Sogno ed esistenza, mostra la netta differenza che separa la prospettiva
esistenziale binswangeriana da quella fenomenologia alla quale essa,
pur tuttavia, intendeva esplicitamente rifarsi. Se è vero che l’analisi
husserliana – rispetto alla psicoanalisi – consente di ricollocare l’atto
di significazione nel suo fondamento espressivo95, essa tuttavia non sa-
rebbe in grado, in quanto fenomenologia pura, di rendere conto del
valore dell’atto d’espressione in quanto «momento originario» del co-

93
H. MALDINEY, Daseinsanalyse: phénoménologie de l’existant?, cit., pp. 9-26, p.
17: «Pas plus, en effet, que l’essence n’est pure idée, une situation n’est un simple
état de choses. Mais le vide qui les sépare ne doit pas davantage être nié. Il doit
être surmonté par un saut décisif. En allemand saut se dit Sprung, et Ursprung si-
gnifie l’origine. Elle s’inaugure avec le saut. Et le saut décisif, par quoi les essences
et les situations atteignent ensemble à leur sens d’être, à son origine, dans l’affir-
mation centrale de Martin Heidegger: “L’essence de l’homme est existence”…»;
p. 18: «Binswanger n’analyse donc pas l’image dans son résultat, mais dans son act
constitutif. Ces images, ai-je dit, sont toutes des auto-mouvements […]. Un auto-
mouvement instaure l’espace et le temps qui lui sont propres». Sulla «coestensivi-
tà» di biologia e psicologia a partire dal tema della struttura come «sistema signi-
ficativo» immanente al comportamento, rimandiamo ad A. MASULLO, Struttura,
soggetto, prassi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1994.
94
Sul tema della “dimensione estetica della presenza”, si veda in particolare:
H. MALDINEY, Le dévoilement de la dimension esthétique dans la phénoménologie
d’Erwin Straus, in W.R. VON BAEYER - R.M. GRIFFITH (a cura di), Conditio huma-
na: Erwin W. Straus on his 75. birthday, Springer, Berlin-Heidelberg-New York
1966; ora in ID., Regard, parole, espace, L’Age d’homme, Lausanne 1973 (1994),
pp. 124-146.
95
Cfr. M. FOUCAULT, Introduzione a Binswanger, cit., p. 32.

38

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

stituirsi del mondo. L’«analisi esistenziale», invece, riesce invece a col-


mare proprio questa lacuna, a cogliere, attraverso l’analisi strutturale
del sogno, quel «movimento che mi fa risalire all’origine del mondo
costituito»96, dove questa «origine», tuttavia, non rimanda a una co-
stituzione di carattere trascendentale puro, ma appunto a quel movi-
mento che costituisce e perciò stesso determina, nel momento del suo
farsi, l’esistenza come esperienza diveniente della coincidenza di sog-
gettività e mondo. Ciò significa, in fondo, affermare l’impossibilità di
rivendicare per entrambi questi termini un carattere «fondamentale»
per evidenziarne invece una «trascendenza» che è tale solo in quanto
paradossalmente de-oggettivazione della realtà, ovvero quel momen-
to, quell’atto che è «costitutivo» solo in quanto costante attualità97.
Ed ecco, allora, in che senso la Daseinsanalyse si trova a incontrare
quella biologia «fi losofica» che concepisce il fenomeno vivente nei ter-
mini di un’articolazione fra organismo e Umwelt intesa come costan-
te creazione, «costituzione» del presente. È precisamente questo che
Weizsäcker intendeva affermare allorché sostituiva – nel campo della
biologia – alla «causa» l’«origine», un’origine che egli intendeva come
una genesi mai finita di una forma, di una legge biologica immanente
che sola è in grado di defi nire quella soggettività nella quale egli vede-
va risolversi il movimento dell’esistere biologico come articolazione di
soggetto e mondo98. E non è forse questo che anche Foucault intende
affermare allorché sostiene che «il soggetto del sogno non è tanto il
personaggio che dice “io”, ma è in realtà il sogno tutto intero»99? Se

96
Ivi, p. 80.
97
Cfr. ivi, p. 78: «L’immaginario non è un modo dell’irrealtà, bensì un modo
dell’attualità».
98
V. VON WEIZSÄCKER, La struttura ciclomorfa, cit., p. 257: «Se ora noi abbiamo
conoscenza che la vita non può essere pensata senza l’attributo del patico allora si
può comprendere da ciò perché si possa giungere soltanto a un risultato parzia-
le quando noi presupponiamo il fenomeno vivente come derivabile dai processi,
siano essi fisici che psichici. Non è vero che ciò che appare vivente provenga da
un retrostante processo (psichico o fisico). La causa (Ursache) non è qui una cosa
(Sache). Il prefisso tedesco “Ur” non indica soltanto un’azione ma allude a un pri-
mo cominciamento (Anfang). Esso significava origine (Ursprung), ma purtroppo
questo significato si è usurato».
99
M. FOUCAULT, Introduzione a Binswanger, cit., p. 60.

39

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«sognare è per il soggetto che sogna la maniera radicale di fare l’espe-


rienza del proprio mondo», è precisamente perché soggetto e mondo
in ultima analisi coincidono, «perché l’esistenza – la soggettività del
sogno – si annuncia solo come mondo»100.
In questo senso, dunque, attraverso un riferimento alla biologia che
resta imprescindibile per comprendere il progetto «esistenziale» bin-
swangeriano in tutta la sua complessità, si chiarisce ciò che intende lo
psichiatra svizzero allorché indica l’opportunità di affrontare i vissuti
psicopatologici partendo dalle loro forme, ovvero dal modo di essere
della presenza. E si comprende anche il valore, o meglio, il ruolo che il
concetto di apriori gioca nella dinamica di questa ricerca dei momenti
costitutivi dei progetti di mondo dei malati. Se la Daseinsanalyse può
permettersi di focalizzare le proprie indagini sulle forme dell’esisten-
za è perché queste ultime non sono mai mera apparenza, non alludono
a un significato latente, ma coincidono con questo stesso significato
che altro non è che la genesi del loro apparire. L’apriori a cui tende la
«comprensione trascendentale della presenza» è precisamente la forma
di questo apparire, una forma che, proprio perché coincidente con la
costituzione, ovvero con la genesi di quel mondo che solo attraverso
di essa lo psichiatra può ricostruire, di questo mondo è anche la storia.
Ed è qui allora che si gioca tutta la paradossalità del «trascendentale»
psichiatrico, di questo dispositivo a un tempo a priori e storico, imma-
nente e trascendente la singolarità determinata di un comportamento,
ed è qui, dunque, che emerge anche il valore di una psichiatria che, in
questo modo così paradossale, è riuscita finalmente a coniugare le pro-
prie esigenze di disciplina a un tempo teorica e pratica.

In conclusione, non possiamo esimerci dal tratteggiare qualche consi-


derazione ancora sul valore che il riferimento al biologico riveste per
il pensiero psichiatrico, in un’epoca – com’è appunto l’attuale – in cui
sempre più lo psichiatra mostra di non poter rinunciare alla biologia
per fondare scientificamente le propre prerogative e, sulla base di que-
ste, guidare le forme del proprio approccio alla clinica. Che senso può
avere, infatti, rivolgersi ancora alla «filosofia» in un quadro siffatto? Ci
sembra che la tematica che abbiamo cercato di mettere in luce attra-

100
Ivi, p. 61 (corsivi nostri).

40

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

verso il problema del concetto di apriori in psichiatria costituisca uno


spunto privilegiato per riflettere sul ruolo che la speculazione filosofica
può ancora giocare nell’ambito della ricerca psichiatrica in particolare
e della scienza in generale. È passato più di mezzo secolo dalla celebre
affermazione binswangeriana che additava nel dualismo positivistico
di soggetto e mondo «il cancro che mina alla base tutte le psicologie»101,
eppure ancora oggi, malgrado le diverse forme assunte dall’intervento
filosofico per ripensare le basi epistemologiche del discorso psichiatri-
co102, ci troviamo a porci la medesima questione, sotto la spinta di un
incipiente sviluppo tecnico-scientifico che sembra rinforzare l’assioma
griesingeriano (le malattie mentali sono malattie del cervello) che nel
secolo scorso aveva guidato, in negativo, lo sviluppo della psichiatria
fenomenologica. È a questo punto che la soluzione offerta dagli psi-
chiatri-fenomenologi – attraverso la biologia stessa – al problema della
ricomposizione di soggetto e mondo, ci viene in aiuto, nel suo indicare
la filosofia non come una teoria che dall’esterno interverrebbe a risana-
re il dualismo in questione, ma come «facoltà» di problematizzazione
immanente al costituirsi stesso di una scienza rispetto al suo «ogget-
to». Se la psichiatria di cui ci siamo occupati è «filosofica», allo stesso
modo in cui abbiamo definito «filosofica» la biologia che essa prende
come punto di riferimento, non è perché l’una o l’altra facciano ricorso
a determinate teorie o sistemi filosofici, ma perché esse stesse si pongo-
no di fronte al loro «oggetto» in modo pensante. E Binswanger stesso,
d’altronde, lo indicava, nel momento in cui affermava come l’anali-
tica esistenziale heideggeriana fosse fondamentale, per la psichiatria,
anzitutto ai fini dell’auto-comprensione della propria possibilità e dei
propri limiti come «scienza»103. Se nell’ottica della psichiatria fenome-

101
L. BINSWANGER, L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria, cit., p. 22.
102
Cfr. E. BORGNA, Per una psichiatria fenomenologica, in U. GALIMBERTI, Psi-
chiatria e fenomenologia, cit., pp. 9-47.
103
Cfr. L. BINSWANGER, Die Bedeutung der Daseinsanalytik Martin Heideggers
für das Selbsverständnis der Psychiatrie, in AA.VV, Martin Heideggers Einfluss auf
die Wissenschaften, Francke, Bern 1949, pp. 58-72; poi in Ausgewählte Vorträge und
Aufsätze (1955), cit., vol. II, pp. 264-278, tr. it. di G. Banti, L’importanza dell’ana-
litica esistenziale di Martin Heidegger per l’auto-comprensione della psichiatria, in
ID., Essere nel mondo, cit., p. 212: «La scienza è quindi “connessa” alla fi losofia
nel senso (e solo nel senso) che l’auto-comprensione di una scienza, nella misura

41

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nologica soggetto e mondo si trovano a essere finalmente «ricongiunti»,


pertanto, se essi non coincidono più, rispettivamente e oppositivamen-
te, con un interno d’ordine meramente soggettivo-spirituale e un esterno
d’ordine materiale, non è perché uno dei due poli venga a riassumer-
si estrinsecamente nell’altro, nelle diverse forme filosofiche di cui già
Merleau-Ponty aveva messo in luce i tranelli: intellettualismo ed empi-
rismo, spiritualismo e materialismo, soluzioni che pretendono tutte, in
fondo, di risolvere un dualismo che non si rendono conto di presuppor-
re invece come un dato acquisito. La filosofia non interviene per risol-
vere i problemi dal «di fuori», ma anzitutto per «diagnosticarli» al loro
sorgere, ed è appunto quanto avviene, per la psichiatria «esistenziale»,
attraverso il richiamo all’immanenza dell’esperienza fenomenologica-
mente intesa. Non è possibile affrontare dall’esterno quell’«essere che
noi stessi siamo»104, quell’essere che è «originario» nella misura in cui
coincide con il «mondo» nel quale esso vive e che proprio per questo,
all’«origine», non può essere pensato separatamente. E la filosofia, al-
lora, non può che essere parte integrante di questo esistere stesso, di
questo «essere vivente nel mondo» che non deduce le proprie regole
da un altrove ontologico, né materiale, ma che coincide con le proprie
leggi, con la propria struttura, ovvero con ciò che abbiamo definito il
suo apriori immanente. È questo precisamente il senso in cui dev’essere
letta l’ascendenza biologica della psichiatria di cui ci siamo occupati
finora, un senso – l’abbiamo visto – che non va confuso con quello che
correntemente viene definito l’«approccio biologico in psichiatria»105

in cui questa scienza è un insieme di effettivi dati di comprensione dell’essere, è


possibile solo sulla base della comprensione fi losofica». Sulla stessa linea si pon-
gono anche le riflessioni di G. DAUMÉZON - G. LANTÉRI-LAURA, Signification d’une
sémiologie phénoménologique, “L’Encéphale”, 50 (1961), pp. 478-511, p. 482: «La
phénoménologie, comme attitude générale, et la psychiatrie phénoménologique,
qui tente de l’accomplir, s’adressent à cette sémiologie [classique] pour lui faire
prendre conscience d’elle-même, dévoiler la signification des choix qu’elle impli-
que et essayer de réaliser une sémiologie qui demeure une psychiatrie clinique,
tout en guidant ses options sur les phénomènes morbides tels qu’ils apparaissent
eux-mêmes en personne».
104
M. HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., § 9, p. 17.
105
Cfr. ad esempio: A. BALLERINI, Psicopatologia fenomenologica e psichiatria
biologica: un “salto mortale” epistemico o una possibile convergenza?, “Compren-
dre” (Padova), 11 (2001), pp. 7-17.

42

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

per opporlo a un pensiero psichiatrico che si riferirebbe alla «filosofia»


per fondare il proprio anti-riduzionismo. In realtà, il dualismo iscritto
in quegli stessi progetti filosofici che si propongono di «integrare» bio-
logia e «psichiatria», biologia e «filosofia», non ha ragion d’essere per
questa psichiatria fenomenologica che parte dal fenomeno dell’«essere
nel mondo» in tutta la sua complessità biologico-esistenziale per tro-
varsi in fin dei conti, in un modo profondamente banale, a «tornare alle
cose stesse», ovvero all’esistenza106. Per questa corrente del pensiero
psichiatrico, non ha più senso neppure quella distinzione diltheyana
tra «scienze della natura» e «scienze dello spirito» che in origine ave-
va contribuito a ispirarla, giacché l’esistente di cui essa intende porta-
re alla luce la normatività intrinseca non può essere separato dal suo
essere anzitutto vivente, quel vivente di cui, analogamente, la biologia

106
È questo il senso che sta alla base, ad esempio, della prospettiva avanzata da
Roland Kuhn circa l’opportunità di unire psicofarmacologia e «analisi esisten-
ziale»: cfr. Clinique et expérimentation en psychopharmachologie, “Psychanalyse
à l’Université”, 11, 41 (1986), pp. 105-116; poi in ID., Écrits sur l’analyse existen-
tielle, cit., pp. 149-165, pp. 164-165: «On ne connaît pas une telle structure [de
l’existence humaine] en faisant de la pharmachologie, on ne l’apprend pas non
plus par la psychopathologie généralisante qui se sert de l’induction pour trou-
ver des règles qui mènent à décrire et à comprendre l’existence de personnes
psychiquement malades. Seule une formation philosophique permet de connaî-
tre les directions fondamentales de réflexions qui conduisent à une expérience
authentique aussi bien de l’existence humaine normale que pathologique. […]
La découverte de l’effet antidépresseur de l’Imipramine […] était loin d’avoir été
un pur hasard, mais […] n’avait été possible que grâce à une formation phéno-
ménologique et «Daseinsanalytique», c’est-à-dire philosophique». Cfr. anche ID.,
Psychopharmacologie et analyse existentielle, “Revue Internationale de Psycho-
pathologie”, 1 (1990), pp. 43-67; poi in ID., Écrits…, cit., pp. 167-200. Si tratta di
un’impostazione che ha importanti conseguenze sul piano stesso della psicopato-
logia, giacché la creatività che caratterizza le genesi della forme patologiche, una
volta riconosciuta a livello diagnostico, andrà a costituire il punto di partenza per
l’elaborazione stessa della nosologia psichiatrica. A questo proposito, si veda il
ruolo che Lantéri-Laura riconosce alla fenomenologia nell’ambito della semiolo-
gia psichiatrica: cfr. G. DAUMÉZON - G. LANTÉRI-LAURA, Signification d’une sémio-
logie phénoménologique, cit.; e G. LANTÉRI-LAURA, Phénoménologie et critique des
fondements de la psychiatrie, “L’Évolution Psychiatrique”, 51, 4 (1986), pp. 895-
906; poi in ID., Recherches psychiatriques, vol. III: Sur la sémiologie, Sciences en
situation, Chilly-Mazarin 1994, pp. 529-540.

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Elisabetta Basso

fenomenologica mira a comprendere le leggi. In quest’ottica, si com-


prende allora il significato che Georges Lantéri-Laura assegnava alla
fenomenologia allorché – di contro a un suo «utilizzo» filosofico pura-
mente teoretico – la sorprendeva alla base stessa della ricerca biologica.
La fenomenologia – scriveva lo psichiatra francese – «non si esaurisce
nell’identità ortodossa con se stessa, ma nel giusto discernimento dei
problemi che essa riesce a porre, pur senza aver acquisito tutti i mezzi
per rispondervi»107.
Resta tuttavia ancora una questione da chiarire, una volta specifica-
to il valore fi losofico intrinseco di questa psichiatria volta a diagnosti-
care le forme psicopatologiche mettendone in luce l’apriori costitutivo:
come si concilia l’«impossibilità di concludere»108 a cui è costituzional-
mente votata l’impresa filosofico-fenomenologica con le esigenze pra-
tico-terapeutiche della clinica psichiatrica? È per l’appunto una critica
di questo tenore che viene per lo più rivolta alla corrente «esistenziale»
della psichiatria. A essere rimproverato a questa ricerca degli apriori
costitutivi dei progetti di mondo insiti nelle varie forme di esistenza man-
cata è, più precisamente, un’insufficienza a livello terapeutico, ovvero
l’inadeguatezza a offrire soluzioni “immediate” sul piano della clinica.
In realtà, a ben vedere, il problema non è poi troppo dissimile da quel-
lo appena affrontato, e che ci ha portati a chiarire il ruolo che la filo-
sofia, nella forma della fenomenologia, assume in ambito psichiatrico.
Anche qui, dunque, bisognerà fare attenzione a non confondere il do-

107
G. LANTÉRI-LAURA, La psychiatrie phénoménologique, cit., cap. 5: La phé-
noménologie et les sciences biologiques, pp. 157-192, p. 158 (tr. e corsivo nostri).
Anche qui ci sarebbe tutto un capitolo da aprire sull’importanza e soprattutto
il valore che la ricerca biologica ha assunto in particolar modo nell’ambito della
psichiatria fenomenologica francese. Non è un caso, ad esempio, che W. Blanken-
burg, pur nella sua lunga indagine sulle schizofrenie paucisintomatiche alla luce
della fenomenologia husserliana, è alla psichiatria francese che fa riferimento, e
proprio a proposito del problema del «contatto vitale con la realtà»: cfr. La perdi-
ta dell’evidenza naturale, cit., p. 26: «La linea di evoluzione del nostro pensiero si
orienta dunque nella direzione tracciata dall’ultimo Husserl e prende in conside-
razione tutto quel che è stato apportato, nel tempo, dalle varie scuole fenomeno-
logiche, in particolare da quella francese».
108
Cfr. P. FÉDIDA, Préface: Binswanger et l’impossibilté de conclure, in L.
BINSWANGER, Analyse existentielle, psychiatrie clinique et psychanalyse: discours,
parcours, Freud, Gallimard, Paris 1970, pp. 9-37.

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L’apriori nella psichiatria “fenomenologica”

mandare filosofico con l’offerta di soluzioni mutuate dalle architetture


concettuali di Husserl, Heidegger, Binswanger stesso… o chi per essi.
A noi sembra, infatti, che ad arrestarsi a considerare la psichiatria co-
siddetta “esistenziale” sul solo piano dell’ortodossia fi losofica tradizio-
nale si finisca irrimediabilmente per perdere di vista la ragione stessa
– che è poi anche il movente – che ha fatto di essa una psichiatria filo-
sofica, ovvero la clinica. E anche qui il tema dell’apriori torna a essere
nuovamente rivelatore. Sono state scritte pagine e pagine sulla valenza
prettamente filosofica del “trascendentale” psichiatrico, sull’apporto
teoretico – riuscito o mancato – che esso avrebbe dato all’“ortodossia”
fenomenologica109 o sul suo valore speculativo autonomo110 e in quanto
tale recuperabile nell’ambito della tradizionale storia della filosofia. Si
tratta di operazioni che certamente hanno una loro plausibilità specu-
lativa, ma che risultano insoddisfacenti qualora si intenda ridurvi ed
esaurirvi il progetto psichiatrico-fenomenologico nella sua totalità. Da
qui l’opportunità di mostrare come – nella prospettiva che ci siamo
proposti di delineare attraverso Binswanger, che per l’occasione ab-
biamo scelto di eleggere a rappresentante della corrente filosofica della
psichiatria contemporanea – i concetti filosofici vadano filosoficamen-
te differenziati a seconda della funzione che essi rivestono all’interno
dell’architettura speculativa che essi a un tempo reggono e di cui si
fanno promotori. È per questo che abbiamo cercato di affrontare la
nozione psichiatrica di apriori non a partire da quella tradizione filoso-
fica della quale essa pur conserva un’immediata assonanza, ma anzitut-

109
Per una disamina completa e ragionata della storia dell’interpretazione fi-
losofica del progetto speculativo di Binswanger come “fraintendimento produtti-
vo” dell’ontologia heideggeriana, ad esempio, rimandiamo a S. BESOLI, «Vorwärts
zu Husserl», cit., nota 1, pp. 284-286.
110
Si vedano, ad esempio, le conclusioni a cui perviene la riflessione di Valdi-
noci sul trascendentale binswangeriano. Pur riconoscendo a quest’ultimo un’au-
tonomia indiscutibile rispetto alla concettualità fi losofica tradizionale – autono-
mia che gli deriverebbe dalla sua ascendenza clinica – Valdinoci finisce per pre-
figurare la necessità di «conceptualiser à neuf le plan culturel du phaïnomenon
d’existence», e di elaborare quindi, su questa base, una «Psychiatrie première»
fondata sull’idea di un’existence essentielle» (Un transcendantal d’existence en psy-
chiatrie, cit., p. 101). A questo proposito, si veda anche ID., Binswanger: une Méta-
physique de la psychiatrie, cit.

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Elisabetta Basso

to dall’esigenza che attraverso di essa si esprime di “fabbricare” nuovi


strumenti per la clinica, finalità a partire dalla quale, soltanto, si giusti-
fica la necessità di ri-pensare, attraverso l’utilizzo della filosofia, lo stes-
so impianto filosofico che stava alla base della psichiatria tradizionale.
Ed è per questa stessa ragione, allora, che ci siamo rivolti senza timori
d’ortodossia fenomenologica a quella biologia così presente in queste
indagini psichiatriche sull’apriori esistenziale, una biologia che a nostra
volta abbiamo concepito quale strumento per cercare di comprendere
più da vicino la spinta verso il “concreto” che sta alla base della ripre-
sa della concettualità fenomenologica da parte di questa psichiatria
intesa a fare fuzionare la filosofia nell’ambito della «grande arena della
vita»111. Ma ciò non significa forse avanzare l’ipotesi paradossale che,
forse, l’ancora di salvezza teorica della psichiatria fenomenologica sta
proprio nella sua pratica, ovvero nella clinica?

111
Cfr. E. MINKOWSKI, La schizofrenia, cit., p. 224.

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LUCA BISIN

L’esperienza fertile di Kant


e le domande al trascendentale*

1. La presunzione della forma e l’importanza di una virgola

All’ignaro recensente che lo accusava di aver proposto, nella Critica


della ragion pura, un “idealismo superiore” estraneo al reale e alla vita1,
Kant rispondeva nel 1783 che «la parola “trascendentale” […] non si-
gnifica qualcosa che oltrepassa ogni esperienza, ma qualcosa che certo
la precede (a priori) e che però a nulla più è determinato che a rendere
possibile la conoscenza nell’esperienza»2. In questa nota dei Prolego-

*
Cito le opere di Kant senza l’indicazione dell’autore, adottando per le tre Cri-
tiche le seguenti sigle seguite dal numero di pagina e, tra parentesi quadre, dalla
pagina della relativa traduzione italiana:
KrV = Kritik der reinen Vernunft, Hartknoch, Riga 1781 (A), 17872 (B) [Critica del-
la ragion pura, tr. it. a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 20044]
KpV = Critik der practischen Vernunft, Kartknoch, Riga 1788 [Critica della ragion
pratica, tr. it. a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2004]
KU = Critik der Urtheilskraft, Lagarde und Friedrich, Berlin-Libau 1790 [Critica
del Giudizio, tr. it. a cura di M. Marassi, Bompiani, Milano 2004].
La sigla KGS si riferisce alle Kant’s gesammelte Schriften.
1
Quello kantiano sarebbe infatti «un sistema dell’idealismo superiore o, come
lo chiama l’Autore, trascendentale; un idealismo che abbraccia allo stesso modo
spirito e materia, che trasforma il mondo e noi stessi in rappresentazioni, e fa
sorgere tutti gli oggetti da apparenze in quanto l’intelletto le collega in una serie
esperienziale e la ragione cerca necessariamente, seppur vanamente, di estender-
le e unificarle in un sistema del mondo complessivo e compiuto» (CH.FR. GARVE
- J.G.H. FEDER, Rezension zu: Critik der reinen Vernunft von Imman. Kant. 1781,
in I. KANT, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft
wird auftreten können, a cura di K. Pollok, Hamburg, Meiner 2001, p. 183).
2
Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird
auftreten können, KSG, vol. IV, p. 373 nota.

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Luca Bisin

meni si potrà certo indovinare, con Blumenberg3, il gesto di stizza del


filosofo (bey Leibe nicht!... quasi un pugno battuto sul tavolo) al quale
non abbiamo potuto assistere e che ci raggiunge fissato nelle parole,
immobili ma vibranti, di queste poche righe. Resta però che in quelle
righe si trova ben più che la nota irritazione kantiana per un attacco
notoriamente ingeneroso e vi si legge piuttosto la replica filosoficamen-
te acuta a una recensione assai povera, in verità, di acume filosofico:
in qualche modo, cioè, Kant sembra cogliere dietro alle critiche scom-
poste e ai rimproveri impertinenti che gli venivano dalla duplice, non
concorde penna di Garve e Feder la domanda teorica – quella autenti-
ca – a cui l’apriori kantiano nel 1783 era, almeno in parte, ancora chia-
mato a rispondere.
C’è, in effetti, nella vicenda apparentemente spicciola di questa re-
censione (non più che uno dei tanti fraintendimenti dell’opera kan-
tiana, e non il più interessante) l’eco di una problematica più iniziale
e difficile che chiaramente risuona, se non nell’obiezione, certo nella
risposta: ciò che precede l’esperienza non è determinato a nulla più che
a renderla possibile. Alla riflessione kantiana – dove esso, seppur non
nasce, certo acquista la sua formulazione esemplare e imprescindibile
– il problema dell’apriori si presenta dunque in questa singolare com-
plicazione che collega due momenti apparentemente difficili da tenere
insieme. Nel che, però, proprio quel che il termine “apriori” anzitutto
nomina, il margine cioè di una certa precedenza e anteriorità, sembra
esporsi a una duplice equivocità: da un lato potendosi assottigliare fin
quasi a rendersi del tutto inutile (non si vede perché debba precedere
l’esperienza ciò che nulla fa se non renderla possibile), d’altro lato po-
tendosi invece dilatare fin quasi a tradire la sua stessa vocazione (non si
vede come ciò che precede l’esperienza possa renderla possibile).
Sembra, in effetti, che molto nell’esperienza ci inviti a procedere ol-
tre, nulla però a fare quel passo indietro da cui rischiamo di non saper
poi più risalire: spazio di regole, strutture, leggi, condizioni, l’apriori
potrà certo vantare molte delle virtù di cui l’esperienza si rivela spes-
so difettosa – sarà più universale, più necessario, più diligente e scru-

3
Cfr. H. BLUMENBERG, Die Sorge geht über den Fluß, Suhrkamp, Frankfurt a.M.
1987, p. 56, tr. it. di B. Argenton, L’ansia si specchia sul fondo, il Mulino, Bologna
2005, p. 62.

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

poloso, più puntuale e ordinato –, manca tuttavia di essere visibile,


manca di colore, di sorpresa, di intensità. E sembra dunque meritare il
sospetto, che gli rimproverava Hegel, di potersi ridurre a un “sistema
di fantasmi cerebrali”: per un verso, l’apriori si gonfia facilmente del-
la “saccenteria del dover essere”, «quasi che il mondo aspettasse quei
dettami per apprendere come deve [soll] essere ma non è»4; per altro
verso, il suo stesso precedere l’esperienza è in fondo una condizione
poco invidiabile, a un tempo promettente e minacciosa, sempre a un
passo appena dal farsi separazione e mancare così l’incontro con quel
che è sempre solo “a posteriori”, per lasciarci infine con un’idea perfet-
tamente intellegibile ma «tanto impotente da restringersi a dover esse-
re solo, e non essere poi effettivamente»5. Saccente o inutile, l’apriori
rimane esposto al duplice rischio, ugualmente infausto, di giungere
troppo tardi o troppo presto.
Hegel, si sa, rivendica qui la puntuale formalità dell’idea, il cui con-
tenuto «non è altro se non quello che originariamente s’è prodotto e
si produce nel dominio dello spirito vivente […] cioè il suo contenuto
è la realtà»6. E vuole sottrarsi così al rischio di un “formalismo mono-
cromatico” «che giunge alla differenza del contenuto soltanto perché
questa è già preparata e di già nota»7, che nasconderebbe cioè, sotto
le mentite spoglie dell’apriori, un’anima a posteriori. Ma che possa
esservi, in verità, un margine sottile a separare queste due posizioni
così lontane nelle loro rispettive intenzioni fi losofiche e nelle vicende
storiche che vi si condensano, sembrerebbe almeno suggerirlo la cir-
costanza per cui a quel sospetto di una formalità frettolosa e pedante
neppure l’idea di Hegel, com’è noto, ha saputo sottrarsi. Recensendo,
nel 1831, la seconda edizione della Enzyklopädie Herbart rimprove-
rava al sistema hegeliano (ma lasciando risuonare un termine signifi-

4
G.F.W. HEGEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundris-
se (1830), in Gesammelte Werke, vol. 20, a cura di W. Bonsiepen e H.-C. Lucas,
Meiner, Hamburg 1992, p. 45, tr. it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofi-
che in compendio, vol. 1, Laterza, Bari 1980, p. 11.
5
Ivi, p 46, tr. it. p. 11.
6
Ivi, p. 44, tr. it. p. 9.
7
G.W.F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes, in Gesammelte Werke, vol. 9, a
cura di W. Bonsiepen e R. Heede, Meiner, Hamburg 1980, p.17, tr. it. di E. De
Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 9.

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Luca Bisin

cativamente kantiano) di ridursi a «un’architettonica erronea e piena


di pregiudizi, per cui l’edificio dottrinale, considerato come edificio,
risulta del tutto inutilizzabile»8; nel che si esprimerebbe lo “spirito
maligno” di un idealismo che non sa accogliere degli oggetti la loro
policroma varietà e tutti li riveste di una medesima uniforme9. E della
fi losofia hegeliana – che pure con la scienza della logica aveva realiz-
zato ciò che né a Kant né a Fichte era riuscito: una «scienza assolu-
ta a priori»10 – Ch.H. Weisse dirà, nel 1835, che essa possiede sì una
inattaccabile “formale Wahrheit”, dietro la quale però non manche-
rebbe d’insinuarsi la sua “materiale Unwahrheit”11. Riprendendo que-
sta obiezione12, Trendelenburg ne farà l’espressione di una dialettica
che, tradendo la sua promessa unità con il contenuto, si risolve infine
interamente nella propria vocazione formale, figura di una legge che
«vuole insegnare senza imparare»13. Del resto, la stessa scienza del-
la logica potrebbe recare in sé quel dissimulato rovesciamento della
propria apriorità che Hegel contestava al “formalismo monocromati-
co”, potrebbe essere cioè «non un prodotto del pensiero puro, come
essa sostiene, bensì una intuizione sublimata, un’astrazione anticipata
della natura»14, sicché anche nella dialettica hegeliana «il più è tratto
dall’esperienza»15 e quel che in essa può trovarsi di concreto e di pre-
gnante sarà infine non a priori bensì a posteriori. L’idealismo hegelia-
no, che non si vorrà certo dire “trascendentale” (o sì?), non condivide

8
J.FR. HERBART, Historisch-kritische Schriften, in Sämmtliche Werke, a cura di
G. Hartenstein, vol. XII, Leopold Voss, Leipzig 1852, p. 669.
9
« Il fi losofo non deve rivestire con una uniforme gli oggetti che gli stanno di
fronte, deve piuttosto riconoscerli per ciò che sono e apprenderli nella figura in
cui essi gli si mostrano. Ma a questo assoggettarsi del ricercatore all’oggetto si oppo-
ne lo spirito maligno dell’idealismo, il quale è certo più antico della dottrina hege-
liana e del quale, purtroppo, già da lungo tempo, da epoche precedenti, conoscia-
mo la violenza che esso esercita su menti assai acute» (ivi, p. 669).
10
CH.H. WEISSE, Ueber den gegewärtigen Standpunkt der philosophischen Wis-
senschaft, in besonderer Beziehung auf das System Hegels, Leipzig 1829, p. 12.
11
Cfr. CH.H. WEISSE, Grundzüge der Metaphysik, Hamburg 1835, p. IV.
12
Cfr. FR.A. TRENDELENBURG, Logische Untersuchungen, I, Berlin 1840, pp. 91-
92; ID., Die logische Frage in Hegel’s System. Zwei Streitschriften, Leipzig 1843, p. 7.
13
ID., Logischen Untersuchungen, I, p. 91.
14
Ivi, I, p. 68.
15
Ibidem.

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

allora quel rischio di “saccente formalità” che sembra in agguato tra


le pieghe non facili dell’idealismo kantiano?
Ci sono, è chiaro, dietro questa comune incognita strutture teori-
che irriducibili e significati che, quand’anche continuino ad abitare il
medesimo termine, già nel giro di pochi anni si sono fatti radicalmen-
te diversi. Eppure, nell’accostamento apparentemente inopportuno di
questi due momenti viene forse in luce quel che nella risposta kantiana
al suo recensente invita a riflettere al di là del contesto particolare in
cui essa si produce. Perché se non certo nella forma sciatta di un ideali-
smo che tutto confonde e tutto riduce a rappresentazione, nondimeno
quella tensione nei confronti di un’esperienza che sembra essere trop-
po ricca e variopinta per lasciarsi costringere in una forma che potreb-
be essere troppo vaga e monotona per saperla accogliere, abita davvero
l’idea kantiana dell’apriori.
Di questa tensione si troveranno facilmente, nei decenni immedia-
tamente successivi alla prima Critica, formulazioni ben più articolate e
importanti di quanto abbiano saputo offrire Garve e Feder e tra i mo-
tivi ricorrenti che mediano l’incontro, notoriamente non facile, con la
filosofia critica più volte risuona il sospetto che l’apriori, posto da Kant
sotto il titolo della forma, possa soffrire di un difetto di empiricità e
risolversi in una struttura estrinseca e inaffidabile. Nel 1803, ad esem-
pio, Maimon scriveva della filosofia kantiana (in termini così simili a
quelli che Weisse riferirà a Hegel) che essa è «certo sufficientemen-
te fondata formaliter, ha la forma di un sistema compiuto. Non però
materialiter»16. E denunciava così “l’enorme distanza” che essa lascia
sussistere «tra le conoscenze pure, che si riferiscono a oggetti in genera-
le, e quelle che si riferiscono a determinati oggetti dati, senza indicare il
possibile passaggio da quelli a questi ultimi»17. Grave imputazione, che
faceva eco ai rilievi mossi a Kant fin nella lettera del 178918 e, soprattut-
to, nel Versuch che (con la mediazione di Herz) giungeva manoscritto
a Kant contestualmente a quella lettera. Già l’introduzione ridà qui la
16
S. M AIMON, S. Maimons kritisches Gutachten über die Kantische Philosophie
(1803), in Gesammelte Werke, a cura di V. Verra, Olms, Hildesheim 1965, vol.
VII, p. 667.
17
Ivi, p. 668.
18
Cfr. la lettera del 7 aprile 1789 in I. KANT, Briefwechsel, KGS XI, pp. 15-17 e
la risposta di Kant, per il tramite di Herz, del maggio 1789 (ivi, pp. 48-55).

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non piccola misura di radicalità che si cela in quell’appunto: le propo-


sizioni della filosofia trascendentale, avverte Maimon, «sono principi o
condizioni necessarie dell’esperienza in base alle quali ciò che nella per-
cezione è, deve [muß] essere»19, e segnala così, anche nella felice resa
stilistica, il difficile passaggio dal dato d’esperienza alle sue condizioni,
dalla figura percettibile a una regola che Maimon sigla qui nell’infles-
sibile legalità di un “muß”. Quel che mancherebbe alla filosofia critica
è, dunque, proprio la piena trasparenza delle dinamiche che riempiono
questo passaggio e che insinuano nell’antecedenza, apparentemente ni-
tida, dell’apriori l’ombra equivoca di un “dopo”, di un “già visto” a cui
la forma dovrà attingere quella sua cromatica vitalità che sola può assi-
curarne il senso e, come ancora vedremo, l’uso possibile.
Sarebbe un compito nient’affatto ozioso, né così eccentrico come
potrebbe sembrare a prima vista, quello di mostrare quanta storia del-
la filosofia possa ricondursi al modo di stare nello spazio di quella vir-
gola tra l’essere e il dover essere della percezione che – tanto più discre-
tamente in quanto essa è imposta dalla grammatica tedesca – quasi
condensa in un segno minimo il gioco delle possibili disposizioni tra
la regola e il fatto, tra l’apriori e l’esperienza. Maimon, come si sa, ha il
suo proprio modo di stare in quel margine e di questa specifica fisiono-
mia del suo pensiero non tenteremo qui certo una sintesi, né cederemo
alla tentazione di voler dire se egli vi si riveli più «un kantiano, o un
antikantiano, o entrambe le cose insieme, o nessuna di esse»20. Quella
virgola però, sulla quale dovremo ancora riflettere, va tenuta presen-
te fin d’ora come la figurazione del margine brevissimo (non più che
un respiro nella lettura, una minima sospensione della voce), eppure
fin troppo accogliente, sul quale si affacciano declinazioni differenti e
competitive dell’apriori, e sulla cui fisionomia andrà infine misurata la
sua capacità di esercitare una legalità non dispotica, di istituire nessi
formali che non siano del tutto ignari dei contenuti in cui si eserci-
tano. Di questo intreccio di possibili svolgimenti sembra dar notizia
Fichte quando, quasi ricalcando il passaggio di Maimon, nota nel Son-
nenklarer Bericht che «la dottrina della scienza deduce quindi a priori,

19
S. MAIMON, Versuch über die Transzendentalphilosophie, a cura di F. Ehrens-
perger, Meiner, Hamburg 2004, p. 9.
20
Ivi, p. 11.

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

senza alcun riguardo alla percezione, ciò che secondo essa deve [soll]
accadere proprio nella percezione, dunque a posteriori»21. Non certo
“chiara come il sole”, questa annotazione dice invece qualcosa di estre-
mamente difficile insinuando nel margine di quella virgola lo spazio
di una distanza (“senza alcun riguardo alla percezione”) abbastanza
ampia da accogliere la peculiarità – enigmatica fino all’indescrivibile,
come lo stesso Fichte avrà a sperimentare – dello sguardo trascenden-
tale, dell’esercizio riflessivo che involto in una circolarità, sì, ma ine-
vitabile e feconda 22, ritrova nella percezione quel che vi ha prescritto
senza alcun riguardo per essa. E nel mutamento di segno che viene
così all’apriori (non più un muss bensì un soll) si affaccia la stratifica-
ta complessità del suo modo peculiare di essere “regola”, di collocarsi
all’intersezione tra l’ideale eccedenza di una validità che reclama per
sé l’onerosa prerogativa dell’universale e del necessario, e la tangibile
concretezza delle cose in cui un tale valere si rende sì visibile, ma sem-
pre solo nello spazio determinato di una empiricità che, come ancora
vedremo, di quella prerogativa non sa neppure essere esempio.
A prudente distanza dalle intricatissime questioni circa lo statuto e
l’andamento della fichteana dottrina della scienza, noteremo però come
in questo strano ritrovarsi di un apriori disinteressato e di un aposterio-
ri quasi inatteso nella stratificata fisionomia della percezione, già s’in-
sinui la specifica attitudine di un soggetto su cui torneremo a interro-
garci e che fin d’ora si espone all’ambigua collocazione tra l’esercizio
riflessivo che porta faticosamente in luce le strutture a priori e il gesto
che nell’immediatezza del “fare esperienza” ne ha già sempre accolto la

21
J.G. FICHTE, Sonnenklarer Bericht an das größere Publikum über das eigentli-
che Wesen der neuesten Philosophie (1801), in Gesamtausgabe der Bayerischen Aka-
demie der Wissenschaften, vol. I/7: Werke 1800-1801, a cura di H. Lauth e H. Gli-
witzky, Fromann, Stuttgart - Bad Cannstatt 1988, p. 213.
22
«[...] Le regole in base a cui viene avviata quella riflessione, non sono ancora
dimostrate come valide ma vengono tacitamente presupposte come note e stabi-
lite. Solo molto più avanti esse sono dedotte dalla proposizione fondamentale, la
cui formulazione è corretta soltanto a condizione della correttezza di tali regole.
Ecco un circolo, eppure un circolo inevitabile» (J.G. FICHTE, Grundlage der ge-
samten Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wis-
senschaften, vol. I/2: Werke 1793-1795, a cura di R. Lauth e H. Jacob, Frommann,
Stuttgart - Bad Cannstatt 1965, pp. 255-256).

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fungenza regolativa e l’istanza di legalità. «La filosofia – notava Fichte


– anticipa l’intera esperienza, la pensa come necessaria ed è quindi, in
confronto all’esperienza, a priori»23. E c’è, in questo “anticipare l’intera
esperienza”, in questo “pensare come necessario” ciò che si dà sempre
solo sotto il segno del possibile altrimenti, una figura concettuale che
non soltanto condensa problematicamente molte delle linee teoriche in-
torno a cui si svolge il ripensamento dell’eredità kantiana24, ma anche
annuncia la tensione che resta a definire la specifica legalità dell’apriori,
disposta tra l’inflessibile precisione di un “müssen” e la relativa libertà
di un “sollen”. “Anticipare l’esperienza” è in effetti una formula incerta,
sospesa tra l’azzardo di un’intenzione che potrebbe risolversi proprio
nella presunzione e nella saccenteria denunciate da Hegel e la plausi-
bile significatività di un gesto che – se quel che esso anticipa è davvero
l’esperienza – dovrà essere non più prescrizione che accoglimento, non
più precetto che un vagare trepidante e azzardato, guidato sulle prime
soltanto da “oscuri sentimenti”25. E credo che le possibili declinazioni
dell’apriori, per quanto discordi e rivali, stiano in fondo tutte – ma certo

23
J.G. FICHTE, Versuch einer neuen Darstellung der Wissenscahftslehre, in Ge-
samtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, vol. I/4: Werke 1797-
1798, a cura di R. Lauth e H. Gliwitzky, Fromann, Stuttgart - Bad Cannstatt 1970,
p. 206. «Nella misura in cui si considerano quei risultati dell’idealismo [trascen-
dentale] in quanto tali, come conseguenze del ragionamento, essi sono l’apriori
nello spirito umano; e nella misura in cui si considerano quegli stessi risultati
come dati nell’esperienza, nel caso che ragionamento ed esperienza coincidano
davvero, li si dice a posteriori» (ibidem).
24
A cominciare, forse, proprio dal difficile nesso che potrebbe legare questa
formula a quella con cui Kant, nella prima Critica, dice dell’intelletto a priori che
esso «non potrà fare altro che anticipare la forma di una possibile esperienza in
generale» (KrV, ???. Sul senso di questa limitazione alla forma dell’esperienza cfr.
M. FERRARI, Categorie e a priori, il Mulino, Bologna 2003, pp. 50-51).
25
Così Fichte nel § 7 del Begriff der Wissenschaftslehre: «Per questo ufficio
non c’è dunque nessuna regola, e non c’è ne può essere alcuna. Lo spirito uma-
no fa alcuni tentativi, attraverso un cieco vagare perviene a un primo chiarore e
solo di qui passa nella pienezza del giorno. Da principio viene guidato da oscuri
sentimenti […]; e ancora oggi non avremmo alcun concetto distinto e ancora sa-
remmo sempre il grumo di terra che si è appena sottratto al terreno, se non avessi-
mo cominciato a sentire oscuramente ciò che solo in seguito abbiamo conosciuto
in modo distinto» (Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften,
vol. I/2: Werke 1793-1795, pp. 142-143).

54

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

tutte diversamente – nello spazio incerto tra queste due opzioni. Quello
che Hegel diceva essere il “gran principio” dell’empirismo («che ciò che
è vero, deve essere nella realtà ed esservi per la percezione»26), oppo-
nendolo alla sprezzante vacuità del dover essere e facendone la cifra stes-
sa del filosofare (il quale «non sa niente di ciò che solo deve essere e che,
per conseguenza, non è»27), potrebbe in effetti dirsi non meno principio
dell’idealismo trascendentale – a patto, certo, che si renda a quel “dover
essere” la consistenza non rigida di un valere che nell’esperienza conti-
nuamente si attesta e si misura. E le figure dell’“intuizione sublimata”
o dell’“astrazione anticipata” in cui Trendelenburg voleva significare
la vuota incongruenza della dialettica hegeliana, potrebbero ben ro-
vesciarsi di segno solo che vi si riconosca la convenienza complessa dei
movimenti eterogenei che reggono un’astrazione (quella trascendentale)
mai semplicemente distanziante – sì che l’insinuarsi segreto e silenzio-
so, dalla “porta di servizio”28, dell’esperienza nella dialettica, l’inatteso
“rimbalzare” sempre di nuovo delle rappresentazioni entro il pensiero
puro da cui erano state astratte29, potrebbe essere proprio l’indizio di
un idealismo che non soggiacia semplicemente allo “spirito maligno”
denunciato da Herbart.
Quella indicazione kantiana che nel 1783 nomina, in un non faci-
le intreccio di precedenza e determinatezza, il rapporto tra l’apriori e
l’esperienza vale dunque ad annunciare, al di là del contesto polemico
e ben oltre la sua marginale collocazione in una nota, l’indirizzo di una
tensione teorica intorno a cui si svolgeranno non poche delle vicende
speculative che, componendo l’intricatissima fisionomia del confronto
con l’opera kantiana, sono però ben lontane dal ridursi alla storicità
tutta determinata di un’aetas. Piuttosto, si troverà in esse, se non pro-
prio quella “doppia vita” del pensiero kantiano ipotizzata da Cassirer
(che nel contrasto tra le diverse posizioni nei confronti della fi losofia
critica vedeva il dispiegarsi, quasi dialetticamente, del suo pieno risul-

26
G.F.W. HEGEL, Enzyklopädie, p. 76, tr. it. p. 48.
27
Ivi, p. 76, tr. it. pp. 48-49.
28
Cfr. FR.A. TRENDELENBURG, Die logische Frage in Hegel’s System, p. 18.
29
Cfr. ID., Historische Beiträge zur Philosophie. Erster Band: Geschichte der Kate-
gorienlehre, Bethge, Berlin 1846, p. 361, tr. it. a cura di R. Pettoello, La dottrina
delle categorie nella storia della filosofia. Profilo e valutazione critica, Polimetrica,
Monza 2004, p. 169.

55

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tato30), certo il segno di una storicità più pervasiva e ostinata che non ci
siamo affatto lasciati alle spalle, il farsi di uno spazio problematico nel
quale non abbiamo ancora cessato di muoverci.
Alla domanda sull’apriori si potrà allora rispondere negativamente
o anche invocarne la dissoluzione come insensata, ma, credo, non pri-
ma di aver accolto la giusta pretesa che Kant rivolgeva al suo recensen-
te e che avrebbe certo di che risuonare anche oggi: «Egli sembra non
intendere affatto di cosa veramente si tratta nell’indagine di cui io (fe-
licemente o infelicemente) mi occupo […]»31. Dire di che cosa davvero
si tratta (felicemente o infelicemente) nel problema dell’apriori (e in
quello del trascendentale, che vi sembra inestricabilmente connesso)
sembra essere divenuto oggi, a motivo delle tante risposte nel frattem-
po occorse, meno facile che il dire di cosa certamente non si tratta: non
si tratta, ad esempio, della rassicurante esibizione di un fondamento e
di un senso per la nostra esperienza delle cose, del rapporto tra appa-
renza e realtà in sé, della corrispondenza tra un esterno e un interno
della conoscenza, del problema della mente o del soggetto, del modo
di rispecchiare la realtà nella rappresentazione o nel linguaggio. Non
certo perché tali questioni non abbiano o abbiano avuto o possano
avere un preciso e importante legame con il problema dell’apriori, ma
perché esse significano già in qualche modo un domandare di grado
superiore, s’innestano – già articolandola – su una domanda che per
essere più elementare è forse anche più povera, certo non più facile.
Nel passaggio citato in apertura Kant ci invita a porci anzitutto su que-
sto piano più elementare, che è in effetti quello raggiungibile da un
termine, “apriori”, la cui forma originaria non è sostantivale bensì av-
verbiale, che nomina cioè non qualcosa bensì il modo di qualcosa. E in
fondo, tutta la difficoltà del problema dell’apriori si trova già espressa
in questo termine che sembra dire troppo e non dire però l’essenziale.
Dice troppo perché (come Kant opportunamente ci ricorda) quel-
lo che per noi è divenuto un sostantivo comodamente utilizzabile nei
titoli dei libri, nasce in verità come una locuzione complessa in cui si

30
Cfr. E. CASSIRER, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft
der neueren Zeit. Dritter Band: Die nachkantischen Systeme, in Gesammelte Werke,
vol. IV, a cura di M. Simon, Meiner, Hamburg 2000, pp. 2-3.
31
Prolegomena, KGS IV, p. 373.

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

tenta di comporre in uguale unità due movimenti apparentemente an-


titetici. “A priori” non significa “ciò che precede” bensì “a partire da ciò
che precede” e l’a è qui tanto urgente quanto il prior: nomina insieme
il precedere e il seguire, la condizione e il condizionato, e li nomina
appunto tanto nella loro reciproca irriducibilità quanto nel loro mutuo
riferimento. Cosicché vi si trova già l’invito a porsi in un contesto che,
mi pare, non può che essere trascendentale, e faremo senz’altro nostro
l’avvertimento di Hermann Cohen secondo cui «il concetto di apriori
dev’essere completato e realizzato dal concetto di trascendentale»32.
Eppure, in questa sua esuberanza espressiva, il termine “apriori” man-
ca di dire proprio ciò che sembra essere l’essenziale: manca di dirci a
cosa dobbiamo guardare, che cosa sia quel che, precedendo l’esperien-
za, la rende possibile. Su questa caratteristica ambiguità dell’espres-
sione “apriori” e su quel che in essa possa positivamente trovarsi di
rivelativo della problematica che vi è nominata, avremo ancora modo
di riflettere. Fin d’ora, però, bisognerà guardarsi dalla fretta di conclu-
dere che di questo si tratti, appunto, nella domanda sull’apriori e dalla
facile tentazione di colmare un tale silenzio con questa o quella parola
decisiva (soggetto, ragione, spirito, linguaggio…). Vero è, piuttosto, che
entrambi gli aspetti – ciò che il termine “apriori” dice e ciò che esso
non dice – sono ugualmente importanti e vanno preservati, perché è
proprio soltanto nel loro reciproco intreccio che si definisce la speci-
fica urgenza della domanda trascendentale. Nella quale – come Kant
ricordava al suo recensente e, non meno opportunamente, a noi – non
si cede affatto alla tentazione, a un tempo ingenua e presuntuosa, di
fare un passo fuori dall’esperienza per riguadarne dall’alto la struttura
segreta: se ciò che precede l’esperienza non è determinato a nulla più
che a renderla possibile, non vi sarà altro luogo in cui possa trovarsi (se
lo può) qualcosa di apriorico se non l’esperienza stessa.
Quel che si delinea nell’intreccio di obiezioni e risposte che abbia-
mo brevissimamente tratteggiato, è dunque non soltanto un capitolo di
ricezione kantiana, ma anche il profilo complesso di una problematica
la cui più felice espressione è forse quella che Trendelenburg faceva ne-
gativamente valere contro Hegel nel 1840: ciò di cui veramente si trat-
ta nella domanda sull’apriori potrebbe infine avere a che fare proprio

32
H. COHEN, Kants Theorie der Erfahrung, B. Cassirer, Berlin 19183, p. 136.

57

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con quell’idea di una legalità che sappia non soltanto insegnare ma an-
che imparare, non soltanto prescrivere ma anche accogliere. E l’ingom-
brante polivocità di quel termine che dice di volta in volta “a priori”
intuizioni e concetti, facoltà e conoscenze, rappresentazioni e giudizi,
analisi e sintesi, e che negli anni a venire non smetterà di caricarsi di
nuovi e impegnativi riferimenti, quella esuberanza di significati che sa-
remmo tentati di sancire come un difetto di precisione, potrebbe inve-
ce annunciare proprio il margine, necessariamente frastagliato, in cui
si esercita la reciprocità invocata da Trendelenburg.
Ciò che immediatamente carica la virgola di Maimon di uno spes-
sore inatteso, facendone quasi un segno trascendentale, sarà dunque
la tensione reciproca, ma non paritetica, che essa sembra istituire tra
l’aposteriori e l’apriori. Diremmo, infatti, che la fisionomia specifica-
mente trascendentale dell’apriori descriva uno spazio nel quale s’in-
tessono movimenti reciproci ma – ed è importante – non omogenei, a
costituire una regolatività complessa che non soltanto collega ciò che
nella percezione è e ciò che nella percezione deve essere, ma anche sem-
pre, viceversa, espone questo “dover essere” al compito cruciale – pena
la sua risoluzione in una presuntuosa vuotezza – di attestarsi e farsi in
certo modo visibile entro la policroma opacità di questa stessa percezio-
ne. Viceversa, e però non soltanto nella direzione opposta bensì anche
su un piano diverso e irriducibile, lungo dinamiche che incrociano l’at-
titudine prescrittiva della regola ma anche ne reclamano una specifica
flessione. Viene di qui il suggerimento che quella certa “esternalità”
dell’apriori rispetto all’esperienza, che sembra doversi irrimediabil-
mente risolvere in una frettolosa antecedenza, possa invece delineare
uno spazio denso e articolato, affollato di dinamiche che si svolgono
secondo più di una direzione e nel quale l’apriori non sta solo come
inizio ma sempre anche come bersaglio, non soltanto prescrive e dispo-
ne ma sempre anche accoglie e acconsente, ed è (come avverte Kant)
non soltanto “ciò che precede” ma sempre anche ciò che “a nulla più è
determinato”. Di questa struttura complessa Kant offriva al suo recen-
sente un’immagine da cui mi sembrano venire cenni e suggestioni che
sarà bene, per quanto è possibile, provare a cogliere: l’esperienza ri-
spetto a cui si dovrà misurare la presunzione dell’apriori, non è quella
che attenda, nuda, di sapere come deve svolgersi, è bensì un’esperienza

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

fertile (fruchtbar)33. E questa espressione, in sé occasionale, è certo una


possibile risposta – e non delle meno calzanti – alla domanda di cosa
veramente si tratti nel problema dell’apriori.

2. Assolutamente indipendente?

Notava Herder, a proposito dell’apriori kantiano, che «si può dubitare


che anche un solo concetto di questo tipo si trovi nella nostra anima;
è certo, quanto meno, che la parola “a priori” in nessuna scienza uma-
na, neppure nella matematica, reca in sé un tale rigore»34. È vero che
si trovano in matematica proposizioni e conclusioni “a priori”, tali cioè
che «in virtù della mia ragione riconosco le verità che si trovano in
esse per se stesse», ma il materiale di questa scienza, «corpi, superfici,
linee, figure, in base ai quali formo il concetto e nei quali soltanto lo
posso avere, mi sono dati solo come un posterius, anche se li costruisco
nell’intelletto»35. D’altra parte, «nell’uso comune, l’espressione “a prio-
ri” si riferisce soltanto a ciò che segue, e solo con riguardo a esso si dice
“a priori”: perché dal vuoto non si conclude nulla. Da dove provenga
questo prius, se sia un’esperienza, ossia qualcosa di dato internamente
in base a regole del mio intelletto, o esternamente in ragione dei miei
sensi: di ciò non è detto nulla»36.
Herder non è certo il primo a lamentare un eccesso d’inflessibilità
nell’espressione “a priori” e a interrogarsi sulle condizioni del suo uso
plausibile, se già Lambert notava, nel 1764, che i termini “a priori” e “a
posteriori” «devono venire assunti in modo reciproco [verhältnisweise]»37

33
«Le alte torri e i grandi uomini metafisici (che a queste si assomigliano), in-
torno ai quali vi è di solito molto vento, non sono per me. Il mio posto è la fertile
bassura dell’esperienza […]» (Prolegomena, KGS IV, p. 373 nota).
34
J.G. HERDER, Verstand und Erfahrung. Eine Metakritik der Kritik der reinen
Vernunft. Erster Theil (1799), in Sämtliche Werke, vol. XXI, a cura di B. Suphan,
Olms, Hildesheim 1967, p. 23.
35
Ibidem.
36
Ivi, pp. 23-24.
37
J.H. LAMBERT, Neues Organon oder Gedanken über die Erforschung und Be-
zeichnung des Wahren und dessen Unterscheidung vom Irrthum und Schein, Wend-
ler, Leipzig 1764, § 637, p. 413.

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e che essi possono venire impiegati nel loro significato più rigoroso e
assoluto solo quando vi si riconoscano semplici determinazioni concet-
tuali, rispetto a cui la questione se davvero si trovi nella nostra cono-
scenza qualcosa del genere «è una domanda del tutto diversa e in parte
davvero inutile»38. Eppure, è chiaro, ripetuto nel 1799 quel sospetto si
è caricato di un’insistenza nuova e ha trovato un’attinenza più urgente
e puntuale: l’intransigenza che farebbe dell’apriori una parola priva
di riferimento è quella che, nelle pagine introduttive alla seconda edi-
zione della Critica, dice conoscenze a priori solo quelle assolutamente
indipendenti, “schlechterdings unabhängig”, non da questa o quella
esperienza particolare, bensì da ogni esperienza39. Sicché si trova in
queste note di Herder quasi un’eco, certo involontaria, a uno dei tanti
anonimi recensenti dell’opera kantiana, il quale nel 1790, associandosi
all’esercizio (all’epoca assai frequentato) di tradurre in più accessibili
formulazioni il difficile linguaggio kantiano, chiedeva tra l’altro “Cosa
significa ‘indipendente da ogni esperienza’?”40.
La risposta di questo anonimo può tranquillamente accompagna-
re nell’oblio il nome del suo autore41, la domanda invece potremmo
senz’altro farla nostra ancora oggi. E non è forse inutile prendere nota
della contestualità, solo apparentemente occasionale, tra l’esame cri-
tico del difficile lessico kantiano e l’interrogazione del nesso che col-
lega (o forse risolve irrimediabilmente l’uno nell’altro) l’apriori a un
posterius dal quale esso riceverebbe il proprio significato e la propria
misura. Da questa coincidenza viene infatti il suggerimento che nel-
la vivace discussione, seguita all’apparizione della prima Critica, sulla

38
Cfr. ivi, §§ 638-639, p. 414.
39
«Nel seguito, per conoscenze a priori intenderemo quindi non già cono-
scenze tali che si verifichino indipendentemente da questa o da quella esperien-
za, bensì le conoscenze che sono assolutamente indipendenti da ogni esperienza»
(KrV, B 2-3 [47]).
40
Cfr. [ANONIMO], Fragen, die Ausdrücke: Unabhängig von aller Erfahrung; a
priori und a posteriori; desgleichen die Feinheit unsrer Anschauung des Raums be-
treffend, “Berlinisches Journal für Aufklärung” 7 (1790), pp. 200-211.
41
Cfr. ivi, pp. 205-207, con la curiosa – ovviamente inidonea – metafora del
figlio che dopo la morte dei suoi genitori è chiamato a mantenersi da sé, ciò che
dovrebbe “tradurre” in un’immagine accessibile la ragione pura nella sua indi-
pendenza dall’esperienza.

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

plausibilità del linguaggio kantiano – linguaggio troppo astratto, trop-


po oscuro, troppo nuovo (o ingannevolmente nuovo), infine: troppo
saccente – potrebbe trovarsi l’indizio di una problematica che trapassa
immediatamente dalle parole della filosofia trascendentale ai suoi con-
cetti costitutivi. In effetti, qualcosa nell’insistita richiesta, che da più
parti si rivolge al linguaggio kantiano, di lasciarsi tradurre in più facili
formulazioni e in immagini più prossime all’esperienza, sembra ecce-
dere la polemica circa il carattere troppo esoterico della filosofia cri-
tica (e anche il noto fastidio kantiano che ne viene) e potrebbe invece
cogliere – certo quando sia emendata delle sue voci più apertamente
faziose42 – una precisa tensione nelle figure concettuali che definiscono
il trascendentale. Garve, ad esempio, nel prendere le distanze dall’im-
barazzante recensione alla Critica, non mancava di ribadire la propria
opinione («vielleicht eine irrige», aggiungeva prudentemente) che le

42
Esemplare in questo senso potrebbe essere proprio la vicenda della recensio-
ne Garve-Feder, che nella sua versione finale non mancava di esprimere un certo
maligno sarcasmo nei confronti della terminologia kantiana. Maligno, anzitutto,
in quanto la recensione mostra di non prestare alcuna attenzione alla specifica
complessità del linguaggio della Critica, ed è certo vero, come nota Jean Ferrari,
che «in nessun momento gli autori della recensione danno l’impressione di aver
compreso i termini “trascendentale”, che confondono con trascendente, o “aprio-
ri”, a cui danno un senso puramente psicologico di anteriorità temporale […]»
(J. FERRARI, La recension Garve-Feder de la Critique de la raison pure, 1782, in C.
PICHÉ (a cura di), Années 1781-1801: Kant, critique de la raison pure, vingt ans de
réception, Vrin, Paris 2002, p. 61). Da parte sua, Feder non mancherà di ribadi-
re il proprio sospetto (tutt’altro che isolato, come si sa) verso l’inconsistenza del
linguaggio kantiano nel recensire la Critica della ragion pratica (cfr. J.G.H. FEDER,
Kant, I.: Kritik der praktischen Vernunft. Riga: Hartknoch 1788: Rezension, “Phi-
losophische Bibliothek” 1, 1788, p. 218). Ma nella versione originale della recen-
sione alla prima Critica, la posizione di Garve su questo punto appare assai più
equilibrata. Garve resta certo convinto che sia possibile tradurre il linguaggio
della Critica in termini più accessibili, ma, avverte, «con una certa perdita di pre-
cisione» (“Allgemeine deutsche Bibliothek”, Anh. 37-52 Bd., 2. Abt., 1783, p. 840).
E aggiunge che «sarebbe ugualmente impossibile esprimere i pensieri dell’Autore
in tutta la loro peculiarità attraverso parole adatte a una fi losofia più popolare. La
sua terminologia è il fi lo di Arianna senza il quale anche l’intelletto più perspica-
ce non sarebbe in grado di condurre il proprio lettore attraverso l’oscuro labirin-
to dell’astratta speculazione. Anche se il lettore non vede chiaramente, tuttavia è
certo di tenere in mano il fi lo e confida in una via d’uscita» (ivi, p. 839).

61

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verità della filosofia critica dovessero poter venire espresse in modo più
semplice e popolare di quanto fosse riuscito a Kant43, ma aggiugendovi
un riferimento alla necessaria “usabilità” del sistema kantiano (“wenn
es wirklich brauchbar werden soll…”) rivelava di questa sollecitazione
un senso che non proviene dalle istanze, non sempre nitide, della Po-
pulärphilosophie ed è invece tutto immanente alla filosofia critica. Per-
ché una certa istanza di “usabilità” appartiene davvero alle strutture
trascendentali, davvero ne misura la verità e ne abita la fisionomia ben
oltre l’esigenza di una loro chiarezza didascalica. E davvero qualcosa,
nel linguaggio della Critica, esorta a una visibilità che in quelle pagi-
ne non giunge a manifestarsi e in cui, credo, si decide non poco della
fisionomia specificamente trascendentale della domanda sull’apriori.
Si troverà allora molto più che un appunto personale in quell’annota-
zione, nella Prefazione del 1781, dove Kant riferiva le proprie esitazio-
ni circa l’opportunità di arricchire le argomentazioni della Critica con
«esempi o altri chiarimenti in concreto»44, di dare cioè a quelle argo-
mentazioni una chiarezza non solo discorsiva ma anche intuitiva45, non
solo logica ma anche estetica. Quel «primo abbozzo del lavoro», ove
esempi e chiarimenti «si inserivano realmente nei loro luoghi in modo
opportuno»46, vorremmo certo leggerlo: non soltanto per guadagnarci
quella “facilitazione” di cui – pessimi conoscitori della scienza47 – sen-
tiamo in verità di avere bisogno di fronte a più di un passaggio della
Critica; ma anche e soprattutto per ritrovarvi quella pregnanza empi-
rica delle astrattissime strutture concettuali kantiane, quella loro sem-
pre possibile “traduzione” nel linguaggio dell’esperienza di cui, infine,
non altri che lo stesso Kant avrebbe dovuto fornirci la chiave.
L’esercizio tentato da Herder, trovare cioè nella parola “apriori” e
nel suo uso possibile la misura di significatività di un apriori “assolu-
tamente indipendente” dall’esperienza, ha dunque almeno due moti-
vi di plausibilità, dei quali forse uno soltanto risponde alle originarie
intenzioni di Herder. Vi si esprime anzitutto quel nesso tra la ragione
43
Cfr. Briefwechsel, KGS X, p. 331-332 (è la lettera a Kant del 13 luglio 1783).
44
KrV, A XVIII [14].
45
Cfr. KrV, A XVII-XVIII [13-14].
46
KrV, A XVIII [14].
47
«[…] i veri conoscitori della scienza non hanno poi tanto bisogno di questa
facilitazione» (KrV, A XVIII [14]).

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

e il linguaggio la cui inaggirabilità è molto più che un fatto a cui ci si


debba solo piegare e si annuncia invece nel suo statuto trascendenta-
le e costitutivo, nella figura di una ragione che «non soltanto si espri-
me, ma anche designa se stessa e ordina i propri pensieri attraverso il
linguaggio»48, nella compromissione mai revocabile tra l’esercizio del
pensare e l’ordine simbolico in cui lo si realizza, sì che «non possiamo
mai vergognarci, quando si discute un concetto, del suo araldo e rap-
presentante, della parola che lo designa»49. E però si esprime anche, in
questo esercizio, una insospettata corrispondenza a quegli armonici
segreti che fanno della parola “apriori” un’espressione non solo fi loso-
fica ma anche kantiana, armonici – come li diranno più tardi Deleuze e
Guattari, ancora interrogandosi sullo strano rapporto tra il concetto e
il suo nome – «tanto lontani che rischiano d’essere impercettibili a un
orecchio non filosofico»50. Ma, appunto, anche a un orecchio non kan-
tiano; e si trova una pregnanza forse involontaria nella lamentazione
di Garve secondo cui bisogna anzitutto apprendere il linguaggio della
Critica prima di poterla intendere51. Invito tanto più notevole (e anco-
ra oggi urgente) perché avverte come la specifica novità del linguaggio
kantiano non si esaurisca entro le coordinate di un lessico, delle sue
varianti terminologiche, delle sue connessioni storiche: imparare un
linguaggio è certo qualcosa di più che apprenderne il vocabolario, se
è vero (come avverte Kant nei Prolegomeni) che la critica della ragio-
ne è certo una scienza “del tutto nuova”, ma tale che le sue espressioni
“suonano all’incirca ugualmente” ad altre tante volte udite, e così facil-
mente ci sviano52. Di modo che alla disorientante novità del linguaggio

48
J.G. HERDER, Verstand und Erfahrung, p. 19.
49
Ibidem.
50
G. DELEUZE - F. GUATTARI, Qu’est-ce que la philosophie?, Les Éditions de Mi-
nuit, Paris 1991, p. 13.
51
«E in effetti non è possibile, di un libro il cui linguaggio deve anzitutto esser
reso noto al lettore, scrivere una breve recensione che non risulti assurda» (Brie-
fwechsel, KGS X, p. 330).
52
Cfr. Prolegomena, KGS IV, p. 262: «Accostarsi a una nuova scienza, che è del
tutto isolata e unica nel suo genere, col pregiudizio che la si possa valutare in base
alle proprie presunte conoscenze in altro modo acquisite, quando proprio que-
ste sono appunto ciò della cui realtà si deve anzitutto dubitare interamente, non
conduce ad altro che a credere di vedere ovunque ciò che era già noto altrimenti,

63

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kantiano non apparterranno soltanto parole nuove, ma anche usi nuovi


di parole che la filosofia già conosce da tempo (del resto, legiferare sul
linguaggio è cosa che riesce ben di rado al filosofo53 – o non gli riesce
affatto, come dirà Maimon54), anche una specifica sintassi e quelle de-
viazioni dal rigore dei termini che, così frequenti in Kant e così fru-
stranti per il suo lettore, potrebbero però significare, di quei termini,
un’attitudine non solo definitoria o connotativa, una fungenza la cui
precisione andrà cercata in qualcosa di diverso che l’esatta corrispon-
denza a un concetto puntuale, piuttosto nella sua capacità di evocare le
dinamiche che a quel concetto variamente si collegano.
Così, l’uso della parola “apriori”, di cui Herder ritrova la plausibi-
lità solo in una deroga all’intransigenza che vi si afferma, facendone
il segno di un concetto “estraneo e surrettizio” al quale sarebbe bene
rinunciare55, potrebbe invece suonare, a un udito kantianamente affi-
nato, proprio come la nota caratteristica in cui riecheggia, di quel con-
cetto, la firma indelebile del suo creatore. Ciò che l’espressione “aprio-
ri” non sa dire, come giustamente lamenta Herder (da dove proviene
quella conoscenza, quale sia il suo nesso con l’aposteriori), potrà allora
significare (con la precisione esatta di un linguaggio certamente nuovo
ma non furbo come insinuava Garve56) quel che il concetto kantiano di

perché le espressioni suonano all’incirca simili».


53
Cfr. KrV, B 368-369/A 311-312 [373-374] (cfr. anche la Rifl. 3409, KGS XVI,
pp. 818-819).
54
Cfr. l’introduzione al Philosophisches Wörterbuch: «Inoltre, l’uso linguistico
frappone ancora nuove difficoltà alla pratica del definire. Infatti, poiché il lin-
guaggio non è stato inventato dal fi losofo, bensì dall’uomo comune, sarebbe scon-
veniente se il fi losofo vollesse qui atteggiarsi a legislatore. Ora, però, l’uso lingui-
stico, proprio perché è stato introdotto dall’uomo comune, si presenta assai oscil-
lante» (S. MAIMON, Philosophisches Wörterbuch, in Gesammelte Werke, vol. III, a
cura di V. Verra, Olms, Hildesheim 2000, p. 15).
55
«Da dove ricavo tale conoscenza [a priori]? È forse giunta nella mia anima
senza alcuna esperienza e prima di ogni esperienza? L’espressione non lo dice. […]
Sicché, per evitare fraintendimenti, preferiamo rinunciare del tutto all’espressio-
ne “a priori” e chiamare i concetti puri, ossia astratti, puri, i concetti generali ge-
nerali, quelli necessari necessari, senza chiamare in causa il concetto estraneo e
surrettizio di una priorità rispetto a ogni esperienza» (J.G. HERDER, Verstand und
Erfahrung, pp. 32-33).
56
Cfr. ancora la lettera a Kant del 13 luglio 1783 circa l’affaire delle recensione

64

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

apriori non vuole fare: assumere su di sé l’onere tutto dell’esperienza. E


l’uso che di quella parola ci offre solo la compromissione con significa-
ti che si vorrebbero esclusi dal suo rigore dice forse, con la medesima
esattezza, come l’apriori non abbia affatto interamente in sé le condi-
zioni del proprio uso in un’esperienza che, come Kant sapeva bene, è
fatta di molto più che forme e condizioni di possibilità.
“Indipendente dall’esperienza” potrebbe allora voler significa-
re meno una definizione dell’apriori e più un luogo al quale si debba
guardare, potrebbe cioè volerci dire non cosa l’apriori è, bensì come
esso funziona. Di modo che il pungolo teorico che ci viene da questa
formula difficile sollecita non tanto a darne una conferma o una rettifi-
ca, quanto invece a sondare l’uso specifico che ne fa Kant nelle pagine
(l’introduzione alla seconda edizione della Critica) in cui la si incontra
per la prima volta. E la si incontra, invero, sul filo di una distinzione
che, significativamente, Herder trascura o forse occulta silenziosamen-
te: conoscenze a priori sono certo quelle assolutamente indipendenti
da ogni esperienza, eppure, in questo spazio che si direbbe vuoto, si
trova ancora abbastanza pienezza e articolazione da potervi distingue-
re, tra le conoscenze a priori, quelle pure, a cui non è commisto, “bei-
gemischt”, nulla di empirico57. Non c’è dubbio che il gesto herderiano
di legare insieme quelle che Kant presenta qui come due differenti
connotazioni della conoscenza (l’essere a priori e l’essere pura) reca la
non piccola facilitazione di eludere il compito – che sappiamo essere
ingrato – di dare alla nozione kantiana di “puro” una precisa conno-
tazione concettuale58. E tuttavia il silenzioso occultamento di Herder

alla Critica, ove Garve insinua che il nuovo linguaggio del sistema kantiano «fac-
cia però spesso apparire la riforma intrapresa nella scienza stessa e la divergenza
rispetto ai pensieri di altri, più grandi di quanto non siano in realtà» (Briefwech-
sel, KGS X, p. 332).
57
Cfr. KrV, B 3 [47]. Herder occulta la distinzione kantiana in quanto ne accorpa
i due momenti nell’unica determinazione secondo cui le conoscenze a priori “han-
no luogo del tutto indipendentemente da ogni esperienza e a esse non è commisto
assolutamente nulla di empirico” (cfr. Verstand und Erfahrung, p. 23) – formula che,
presentata qui come una citazione testuale dalla Critica, in verità non lo è.
58
La soluzione di Herder a questa complicazione terminologica, ossia la sua
semplice elusione, non rimarrà isolata: si ricorderà, ad esempio, come Strawson
seguisse la medesima direzione considerando “puro” come una variante di “a

65

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mi pare essere fatale, proprio perché sottace un nesso – quello tra indi-
pendenza e commistione – che è invece pieno di significati e costituti-
ve reciprocità. Alla formula dell’“assolutamente indipendente”, infatti,
viene di qui una complessità che la riscatta dal sospetto di eccessiva in-
transigenza e ne fa qualcosa di più e di diverso che un’asettica distanza
da ogni empiricità, perché si trova in essa almeno la disposizione ad ar-
ticolarsi secondo modi possibili di una “commistione” con l’empirico
di cui bisognerà vedere più da vicino il significato. E quella svista che
fa dire a Kant della medesima conoscenza (ogni mutamento deve avere
una causa) l’essere “nicht rein” (B 3) e l’essere “rein” (B 5) è certo mol-
to più che una disattenzione a cui porre rimedio, forse piuttosto l’eco
di risonanze che dovremo imparare a cogliere: all’accusa di contraddi-
zione Kant risponderà, com’è noto, al termine dello scritto Sull’uso dei
principi teleologici in filosofia59, ma che l’incoerenza si risolva qui, per
un verso, tramite una complicazione terminologica, per altro verso tra-
mite un supplemento di esemplarità60, invita quasi a riguardare quelle
pagine della Critica come il luogo di una tensione concettuale che vale
invece la pena di lasciar sussistere.
Nella difficile contiguità che viene a due differenti determinazioni
(il non essere commisto a nulla di empirico e il non essere dipendente
da nulla di empirico) dal fatto di incontrarsi in un medesimo termine,
nella costitutiva ambiguità che viene all’esempio dal fatto di poter si-
gnificare cose differenti (e chi potrà tenere in conto ogni occasione di
fraintendimento?, domanda Kant), accade infatti qualcosa che direm-

priori”, e richiamando la distinzione kantiana concludeva che «non risulterà al-


cuna confusione dall’ignorarla» (P.F. STRAWSON, The Bounds of Sense. An Essay on
Kant’s Critique of Pure Reason, Routledge, London 1989, p. 49 nota 2).
59
Cfr. Über den Gebrauch theologischer Principien in der Philosophie, KGS
VIII, pp. 183-184.
60
Kant avverte infatti che l’imprecisione deriva, per un verso, da un’ambigui-
tà terminologica, per cui operano in quelle pagine della Critica «[…] due signifi-
cati della parola puro, dei quali però in tutta l’opera tratto di uno soltanto». Per
altro verso, vi è da un difetto di esemplarità circa la distinzione tra conoscenze
a priori pure e conoscenze a priori mescolate all’empirico: «Invero, avrei potu-
to evitare il fraintendimento fornendo un esempio delle proposizioni del primo
genere: tutto ciò che è accidentale deve avere una causa. Perché qui non vi è
commisto nulla di empirico. Ma chi riesce a tener conto di tutte le occasioni di
fraintendimento?» (ivi, p. 185).

66

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

mo essere (ancora sulla scorta di Deleuze e Guattari61) il battesimo di


un concetto, vi si apre cioè lo spazio in cui il termine “apriori” si arric-
chisce degli armonici e delle risonanze che ne fanno, da qui in poi, una
parola irrevocabilmente kantiana. Ciò che così accade è anzitutto un
fondamentale cambiamento di segno della determinazione “verhältni-
sweise” che Lambert indicava come requisito dell’ammissibilità delle
espressioni “a priori” e “a posteriori”, e che Herder incontrava come
la condizione inaggirabile del loro uso plausibile: già altre volte udi-
ta, quella commistione possibile tra l’apriori e l’aposteriori si carica
in Kant di una tensione tutta nuova dal fatto di segnare qui una certa
scansione dell’apriorità, una sua immanente disposizione non soltanto
a prescrivere e disciplinare, ma anche sempre ad accogliere e assecon-
dare la complessa strutturazione delle linee sintetiche in cui si istitui-
sce la ricchezza dell’esperienza, a piegare ogni volta la propria istanza
normativa secondo le dimensioni, i modi, le figure innumerevoli in cui
ci si offre l’aposteriori.
Forma “indipendente”, allora, e perfino “assolutamente indipen-
dente” da ogni esperienza, ma già sotto il segno di quell’iniziale ipo-
teca che, in apertura della Critica, dice ogni nostra conoscenza comin-
ciare con l’esperienza – e però, come si sa, non per questo dover anche
sorgere dall’esperienza62. Quest’asserzione è certo tra quelle che, nella
scienza critica, “suonano all’incirca ugualmente” ad altre che abbia-
mo già letto e sentito altrove (Herder, da parte sua, ne avvista un’anti-
cipazione nei Nouveaux Essais di Leibniz63); e tuttavia più di un moti-
vo ci invita a far nostra la cautela sollecitata da Kant e a non lasciarci
sviare da facili assonanze. Anzitutto, il fatto che dietro la brevità di
quella frase sta l’intenso percorso riflessivo che separa le due edizioni
della Critica64. Ma poi anche la specifica attitudine di una scrittura –

61
Cfr. G. DELEUZE - F. GUATTARI, Qu’est-ce que la philosophie?, p. 13.
62
KrV, B 1-2 [45-46]: «Che ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza,
non vi è certo alcun dubbio. […] Ma per quanto ogni nostra conoscenza incomin-
ci con l’esperienza, non per questo proprio tutte le conoscenze debbono sorgere
dall’esperienza».
63
Cfr. J.G. HERDER, Verstand und Erfahrung, p. 22.
64
L’edizione del 1781 si apriva infatti con l’indicazione dell’esperienza come
«il primo prodotto che il nostro intelletto costituisce, mentre elabora elabora la
materia greggia delle impressioni sensibili» (KrV, A 1 [45]).

67

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quella kantiana – che non procede in orizzontale bensì in verticale,


non si svolge per aggiunte e accostamenti ma per complicazioni e in-
tersezioni: scrittura, diremmo, architettonica come lo è la fi losofia che
ci racconta, entro la quale dunque non si potrà fare di questo asser-
to un esordio che ci lasciamo semplicemente alle spalle procedendo
nella lettura. Piuttosto, vi si annuncia un principio che non prima o a
margine bensì nella istituzione stessa dell’apriori ne complica la fisio-
nomia e ne interseca l’istanza normativa. In quella differenziazione
tra modi diversi di stare nell’esperienza, si apre infatti lo spazio per
pensare una formalità la cui ideale eccedenza non la proietti sempli-
cemente al di fuori della vicenda del darsi, ma ne faccia piuttosto una
specifica modalità di installarsi in essa.
Questa complicazione avverte, se ce ne fosse bisogno, quanto poco
l’apriorità possa venire costretta nei margini angusti di un’anteriorità
solo psicologica. Ma dice anche, e soprattutto, quanto l’“im Gemüthe
liegen” delle forme a priori sia lontano dalla figura di un innatismo
puntuale e di una immobile disponibilità: «[…] la materia di ogni
apparenza ci viene data, è vero, soltanto a posteriori, ma la forma di
tali apparenze deve trovarsi pronta per tutte quante [zu ihnen … be-
reit] nell’animo, a priori, e deve quindi potersi considerare separata da
ogni sensazione»65. Se vale il noto avvertimento di Locke circa l’im-
portanza delle particelle linguistiche nell’esposizione delle idee66, tro-
veremo che questa precisa differenziazione tra la materia e la forma di
quel che appare, tra ciò che nell’esperienza può essere solo dato a po-
steriori e ciò che, a priori, articola in essa certi ordini e assetti formali,
sia esposta a una complicazione cruciale da quella formula: “zu ihnen
… bereit”, che innesta nell’apparente fissità del “liegen” una tensione
non aggirabile. Per un verso, viene dal “zu ihnen ... bereit” un’ipoteca
decisiva sul portato soggettivo delle forme a priori, le quali si trovano
certo nell’animo, e però non semplicemente al modo di una utilizza-
bilità indifferente o arbitraria bensì già sotto il segno di una certa loro
innata dedizione alla materia dell’esperienza. Per altro verso, viene a
quella distinzione tra forma e materia l’indice di una certa reciprocità
che potrà certo ancora rivelare il segno della disposizione “verhältnis-

65
Krv, B 34 [76].
66
Cfr. J. LOCKE, An Essay Concerning Human Unterstanding, l. III, cap. VII.

68

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

weise” affermata da Lambert o dell’irrevocabile nesso, avvistato da


Herder, tra l’uso del prius e del posterius, e però, anche, aggiunge a
quella disposizione e a quel nesso tutta una nuova complessità nel far-
ne il perno di una sproporzione verticale, il vincolo tra momenti qua-
litativamente diversi e irriducibili.
In questa compromissione tra la forma e la materia dell’esperienza
si affaccia il profilo di una problematica che, a seguirla abbastanza a
lungo, ci condurrebbe senz’altro alla Terza ricerca logica di Husserl e
al gesto con cui egli inaugura quell’idea di apriori materiale che è cer-
to una specifica creazione husserliana ma è anche collegata all’apriori
kantiano da una storia che bisognerà, un giorno, provare a scrivere.
Se ne trova sicuramente un momento importante nella domanda – del
tutto cruciale – che Herbart rivolgeva a Kant:

Come percepiamo le forme, dal momento che non possiamo at-


testare questa percezione né nella materia del dato né al di fuori di
essa? Che le percepiamo è del tutto certo […], ma si tratta ancora di
spiegare che dobbiamo percepire qui una figura rotonda, lì una figura
quadrata per il fatto che nel modo in cui ci è dato qualcosa di colorato
sono contenute certe condizioni (che Kant non ha mostrato, ma che
occorre mostrare)67.

Troveremmo qui nuove sollecitazioni per tornare alla virgola di


Maimon e alla complessità che vi si nasconde. Ma conviene anzitutto
notare che se pure Kant non ha mostrato, come gli rimprovera Her-
bart, quelle “certe condizioni” che nella figura e nel colore del dato ne
dispongono ordinamenti immanenti, ha però preparato lo spazio teo-
rico in cui pensare quella tensione, anzitutto nell’idea (specifica crea-
zione kantiana) di una forma che sappia accogliere le sollecitazioni e le
insistenze che la materia le offre. Ciò che Lambert descriveva come un
poter essere “più o meno” a priori68, passa così dal segnare una sempli-
67
J.FR. HERBART, Lehrbuch zur Einleitung in die Philosophie (1831), in Sämmtli-
che Werke, a cura di G. Hartenstein, vol. I, Leopold Voss, Leipzig 1850, p. 259.
68
Cfr. J.H. LAMBERT, Neues Organon, § 640, pp. 414-415, dove «qualcosa è più
o meno a priori a seconda che possiamo dedurlo da esperienze più distanti [nel
tempo], mentre invece qualcosa è del tutto non a priori, dunque immediatamente
a posteriori, se per conoscerlo dobbiamo averne un’esperienza immediata».

69

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ce misura quantitativa al tracciare un’essenziale determinazione quali-


tativa, dal grado di prossimità tra l’apriori e l’esperienza ai tanti diver-
si modi in cui questa prossimità può disporsi. Commistione, dunque,
che significherà ancora la condizione dell’uso possibile (da più parti
invocato) della parola e del concetto di “apriori”, non però in quanto
ne inquini la fisionomia e ne stemperi una certa presunzione, bensì in
quanto ne articola una formalità plurale e dinamica.
Ogni presunzione a cui possa esporsi un’apriori pensato come for-
ma è qui già definitivamente schivata: l’apriori, qualunque cosa sia,
non è una duplicazione dell’esperienza, non vi si trova alle spalle né vi
si aggiunge successivamente per apportarvi ordine e struttura – si tro-
va bensì nell’esperienza come ciò che con essa comincia e tuttavia non
scaturisce da essa. E dunque esso non giunge troppo tardi né troppo
presto: la fi losofia trascendentale non sarà infine un “sistema di fanta-
smi cerebrali”. Ma è pur vero che la puntualità dell’apriori ne esprime
uno statuto essenzialmente relazionale, ne impone una certa difficile
“commistione”, vi immette la tensione di uno “stare pronto” e di un
“giungere a tempo debito” rispetto a qualcosa che non è mai a prio-
ri, che ha il proprio tempo (non sempre avvistabile da lontano) in cui
darsi e svolgersi. Qui, forse, la “svista” a cui Kant risponde nel 1788
ha ancora qualcosa da dirci: che questo spazio di articolazione im-
manente dell’apriorità si riveli anzitutto nell’intreccio che collega, sia
pure nel contesto fortuito di una distrazione kantiana, il rapporto in
cui diversamente si dispongono l’apriori e l’empirico e l’esempio in cui
quel rapporto diversamente si attesta, mi pare infatti alludere a una
connessione nient’affatto fortuita e a un momento costituitivo del ri-
pensamento kantiano dell’apriori. Vi si annuncia, per un verso, come
l’istanza di “usabilità” in cui l’apriori possa infi ne attestarsi come una
forma non saccente né monocromatica, solleciti a ben altro che una
diretta misura del collimare tra i profi li, che sono invece irreparabil-
mente difformi, della regola e del caso in cui essa si esercita. Piuttosto,
quell’istanza sembra rimandare alle dinamiche plurali che occupano
una tale difformità facendone il margine di una convenienza obliqua,
per così dire, in cui linee di legalità eterogenee e irriducibili (attinenti
al soggetto e all’oggetto, alla forma e alla materia, al generale e al par-
ticolare, al conoscere, al volere, al sentire...) si intrecciano a formare
un congruenza capace di modi, flessioni, gradi, in cui l’uso dell’apriori

70

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

si moltiplica in una pluralità di usi – possibili, solo pensabili, del tutto


imprevisti. Per altro verso, l’ambivalenza dell’esempio annuncia come
il profi lo visibile di questa articolata struttura possa offrirsi solo entro
i margini di compromissione tra questi usi, nello “sbordare”, per così
dire, delle regole le une sulle altre.
E qui, forse, la virgola di Maimon potrà nuovamente reclamare la
nostra attenzione. In tal senso, rappresenta certo più che una contin-
genza involontaria il fatto che, nel nominare questa difficile contingui-
tà tra la percezione e la sua regola, Maimon identifichi il trascendentale
anzitutto come proposizione, “Satz”, e nel distendere (nei due densis-
simi capoversi seguenti) la brevità di quella virgola ne descriva il pas-
saggio come «una connessione non semplicemente accidentale, bensì
necessaria tra i soggetti e i predicati dati nella percezione»69. Facendo
così della percezione il luogo del darsi di soggetti e predicati e dei loro
collegamenti possibili in una proposizione (secondo una caratteristica
attitudine del Versuch, dove l’apriorità è quasi sempre esemplificata in
termini proposizionali), Maimon carica quel passaggio di una tensione
ancora maggiore, nella quale s’intessono non solo il dato percettivo e
la regola trascendentale, ma anche le possibili declinazioni di quella
regola secondo stili del formale (trascendentale e logico) che, proprio a
partire da Kant, si trovano in una difficile contiguità.
L’invito a tradurre in esempi e immagini le parole della filosofia tra-
scendentale rivela qui la sua segreta radicalità. Ciò che specifica mag-
giormente l’esposizione popolare della fi losofia, dirà ancora Garve,
«sono immagini ed esempi», perché «tutte le proposizioni generali,
espresse con termini astratti, […] risultano incomprensibili ai più fin-
tanto che non sono state rese loro intuitive in singoli casi»70. Ma Garve
sembra ignorare del tutto quanto kantiana e difficile suoni questa ri-
chiesta di rendere i termini astratti “intuitivi nei singoli casi”, e come
vi si trovi implicato un esercizio del linguaggio che immediatamente
trapassa in esercizio d’esperienza. Perché per tradurre in immagini le
parole del trascendentale occorre non soltanto averne appreso il lin-
guaggio ma anche averne già visto nell’esperienza una certa percetti-

69
S. MAIMON, Versuch, p. 9.
70
CH. GARVE, Von der Popularität des Vortrages (1793), in Vermischte Aufsätze,
welche einzeln oder in Zeitschrift erschienen sind, Korn, Breslau 1796, pp. 339-340.

71

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bile esposizione, occorre già stare in quella mobile congruenza da cui


si diramano gli usi possibili (o impossibili) dell’apriori – (una eccezio-
nale seduzione teorica emana allora dall’esercizio con cui Maimon, nel
1797, per illustrare il linguaggio della Critica, proverà a usarne le strut-
ture in una “Critica della facoltà pura di vedere”71).
Possiamo allora dar credito alla perspicacia con cui Kant, nella pre-
fazione alla prima edizione della Critica, preveniva la nostra ingenuità
e la facile avidità del nostro sguardo: quel che avremmo subito cerca-
to negli esempi e nelle immagini di cui lamentiamo la mancanza nella
Critica, è esattamente ciò che non avremmo mai potuto trovarvi. Per-
ché, avverte Kant, sull’esempio possiamo certo affinare la nostra ca-
pacità di giudicare – della quale, in verità, nessun frenetico studio né
sfolgorante carriera accademica potrà provvederci più di quanto già
non siamo72 –, tuttavia non vi troveremo alcuna esibizione esatta della
regola, nessuna corrispondenza o simmetrica fedeltà tra ciò che nella
percezione è e ciò che in essa deve essere:

Questa è anche la sola e grande utilità degli esempi: il fatto, cioè,


che essi acuiscono la capacità di giudizio. In effetti, per quanto riguar-
da la correttezza e la precisione della comprensione intellettuale, gli
esempi piuttosto recano di solito un certo danno, poiché solo di rado
essi soddisfano adeguatamente alla condizione della regola (come ca-
sus in terminis), oltre al fatto che essi indeboliscono spesso lo sforzo
dell’intelletto per cogliere, universalmente e indipendentemente dalle
circostanze particolari dell’esperienza, le regole nella loro adeguatez-
za, e perciò abituano infine ad usare tali regole più come formule che
come proposizioni fondamentali. Gli esempi sono così le dande della
capacità di giudizio, delle quali non potrà mai fare a meno colui che
manchi del talento naturale di tale capacità73.

Sotto la dissimulata incidentalità di una digressione circa l’utilità e


il danno degli esempi (e si tratta, a ben vedere, di un esempio: “un me-

71
Cfr. S. MAIMON, Die philosophische Sprachverwirrung (1797), in Gesammelte
Werke, vol VII, pp. 430 ss.
72
Cfr. KrV, B 172-173/A 133-134 Anm. [215 nota 1].
73
KrV, B 173-174/A 134 [215-216].

72

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

dico, un giudice o un uomo politico…”), questo passaggio densissimo


nomina in verità intrecci e collegamenti introducono alla complicata
vicenda dello schematismo (anche oltre la prima Critica74). Qui, però,
interessa soprattutto cogliere ciò che potrebbe trovarsi, della proble-
matica sull’apriori, in questa singolare attitudine dell’esempio. Il quale,
per un verso, manca inevitabilmente la propria vocazione nel non sa-
perci dare di alcun apriori un’immagine più che parziale e inefficace,
tanto allettante nella tangibile vivacità dei suoi colori quanto inido-
nea a significare la generalità della regola e l’ideale eccedenza del suo
valere. Per altro verso, però, quella capacità di dare alla Urteilskraft
una maggiore “acutezza” nell’esercizio, che sappiamo essere difficilis-
simo, di una regolatività che sappiamo essere particolarissima, rivela
dell’esempio un’utilità nient’affatto marginale. Utilità – lo si badi fin
d’ora – in cui s’incontrano una certa innata significatività dell’esempio
e la specifica attitudine di un soggetto che abbia il talento di “affinare”
e “calibrare” su di essa la propria capacità di giudicare. Il che rilancia
l’invito kantiano del 1781 ad appropriarci anzitutto dell’articolazione
del sistema, prima di reclamarne una colorata plasticità75: ci avverte
cioè come quelle parole, “Beispiel” e “Schärfe”, del tutto inapparenti
perché così poco fi losofiche, possano essere invece tra quelle che, trat-
te dal linguaggio comune, si fanno intimamente kantiane nell’uso che
Kant ce ne offre e che bisognerà anzitutto imparare. Perché gli esem-
pi, avverte Kant, sono contagiosi76, non significano troppo poco bensì
troppo, e il rischio a cui ci espongono non è, infine, quello di conse-

74
Penso, in particolare, a quell’indicazione circa le regole usate come formule,
in cui potrebbe aprirsi un richiamo (forse non inutile) alla risposta nella Critica
della ragion pratica, circa la fecondità di una nuova “formula” per la legge morale
– richiamo tanto più significativo in quanto Kant richimava là anche la fecondità
delle formule in matematica.
75
«In effetti, i mezzi che favoriscono la chiarezza aiutano certo rispetto alle par-
ti, ma spesso distraggono riguardo alla totalità, perché non permettono che il let-
tore riesca abbastanza velocemente a dominare con lo sguardo il tutto; tali mezzi
inoltre, con tutti i loro splendenti colori, invischiano nondimeno e rendono irrico-
noscibile l’articolazione o la struttura del sistema […]» (KrV, A XIX [14-15]).
76
«Gli esempi sono contagiosi, soprattutto quando si tratti di una medesima
facoltà, la quale si illude naturalmente di avere in altri casi la stessa fortuna che
già le è toccata in un caso» (KrV, B 740/A 712 [713]).

73

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gnarci un’immagine povera di regole – perché interamente presa nel


profilo determinato e fortuito della propria figura attuale –, ma quello
invece di additarci ogni volta, per un tale spazio di visibilità, una varie-
tà infinita di attraversamenti possibili e una molteplicità di usi che, per
averli visti tutti in una immagine, facilmente saremo tentati di confon-
dere e mischiare l’uno con l’altro.
Dietro la ritrosia kantiana a consegnarci una più plastica esposizio-
ne delle strutture trascendentali e della loro efficacia si potrà allora
leggere, di volta in volta, l’incompiutezza materialiter del sistema kan-
tiano, la sua mancata assicurazione all’unità del principio, l’immanen-
te equivocità di una ragione che vuole criticamente distanziarsi dal
proprio contenuto, un difetto di fenomenologica aderenza alle “cose
stesse”. Molto prima di tutto ciò, però, vi si annuncia la difficoltà nel
decifrare i passaggi e le dinamiche che abitano il gesto (solo appa-
rentemente facile) di dare della regola un esempio, dove allora pro-
prio nella fisionomia astratta e nell’intangibile formalità delle strut-
ture aprioriche potrebbe trovarsi l’indizio del loro modo specifico di
articolarsi in un sistema e di attivare una legalità che, sia pure priva
degli “splendenti colori” dell’esempio, non debba necessariamente ri-
solversi nel formalismo monocromatico e nella presuntuosa vuotezza
denunciati da Hegel. La povertà del termine “apriori”, quel che esso
non dice pur dicendo moltissimo, potrebbe essere allora meno il mi-
naccioso indizio dell’invisibilità di un fondamento inaccessibile e più
il segno di una tangibile pluralità dell’esperienza, di una ricchezza
che ci sta invece sempre di fronte perché è il nostro stesso modo di
stare al mondo. E i tanti nomi – spazio, tempo, categorie, linguaggio,
struttura, essenza, forma… – con cui possiamo chiamare ciò che, di
volta in volta, ci sembra essere “a priori”, precedere l’esperienza per
renderla possibile, ci dicono alla fine che quello spazio “dietro” ai
fenomeni è tutt’altro che privo di colore, di sorpresa, di intensità. È
invece uno spazio plurale e differenziato, vivace e affollato, dove non
l’apriori ma gli apriori reclamano ognuno il proprio nome, la propria
specifica inclinazione, il proprio modo caratteristico di dare forma e
significato. Ciò di cui si tratta nella domanda sull’apriori non è allora
l’ordine dell’esperienza, bensì gli ordini dell’esperienza. Di modo che
dare un nome a questi ordini (strutture linguistiche, rapporti econo-
mici, nessi logici, figure culturali, principi etici, assetti giuridici e so-

74

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

ciali, disposizioni biologiche o psicofisiche, schemi mentali…), dire


che cosa schiude ogni volta per noi lo spazio più o meno ampio di un
possibile incontro con le cose, risponde solo a metà (e non la più im-
portante) della domanda. Resta poi ancora da dire come questi ordini
eterogenei si intessono tuttavia l’uno con l’altro in un’esperienza fer-
tile: come si accostano e si sovrappongono, si coordinano e si richia-
mano; e come si escludono, anche, come si respingono e si occultano
a vicenda, perché l’esperienza è fertile anche di discontinuità, di salti,
di intermittenze. Resta da dire, cioè, come funzionano.

3. «…o, come lo chiama l’Autore, trascendentale…»

L’ironia, non troppo velata, che l’ignaro recensente della Critica ri-
servava a questa cruciale aggettivazione, “trascendentale”, in cui Kant
risolveva il senso specifico del proprio idealismo (non altro, forse, che
una delle tante “selbstgeschaffenen Worten”77 dietro cui si nascon-
derebbe la povertà del pensiero kantiano), dovrà muoverci a più che
un sorriso indulgente. Perché se lo sconcerto verso la difficile novi-
tà del linguaggio kantiano si è ormai definitivamente stemperato, per
noi, nelle innumerevoli ripetizioni che continuamente ne diamo e ne
leggiamo, tuttavia non avremo anche la presunzione di credere che
il significato di quell’aggettivo ci sia divenuto oggi più trasparente
di quanto fosse allora a Feder e Garve. Forse anche per rispondere
a quell’ironica postilla, l’annotazione kantiana che abbiamo citato in
apertura muove dalla parola “trascendentale” e segue la forma di una
sua definizione: in quell’equilibrio, difficile da sostenere e da chiarire,
tra l’esperienza e quel che la precede, potrebbe trovarsi infatti ciò che
l’atteggiamento trascendentale semplicemente significa, ciò che ne de-
finisce la peculiarità ponendolo sul margine che separa e collega quelle
due opzioni ma – e ciò è importante – mai semplicemente sotto l’una o
l’altra di esse. Del resto, che vi sia nel trascendentale kantiano l’indica-
zione di un certo bilico e di una certa instabile sospensione, lo si trova
già annunciato nella definizione, più esplicita e famosa, che Kant ne

77
Cfr. J.G.H. FEDER, Kant, I.: Kritik der praktischen Vernunft. Riga: Hartknoch
1788: Rezension, “Philosophische Bibliothek” 1, 1788, p. 218.

75

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dava nell’introduzione alla prima Critica: conoscenza che, come si sa,


«in generale si occupa non tanto di oggetti, quanto invece del nostro
modo di conoscere gli oggetti, nel senso che tale modo di conoscenza
deve essere possibile a priori»78, l’esercizio trascendentale si svolge così
in una dislocazione singolarmente differita rispetto alla concreta fisio-
nomia dell’esperienza, a cui sembra legarlo non più che un filo, tanto
facile a perdersi quanto prezioso da preservare.
Facile a perdersi, perché basterà uno spostamento minimo del bari-
centro di quella definizione per risolvere il trascendentale in una cono-
scenza di oggetti (e non più nel modo di questa conoscenza) o nel fatto
dell’apriori (e non più nella sua possibilità). E mi pare che conservi una
sua esemplare validità l’avvertimento di Cohen secondo cui l’indagi-
ne trascendentale «mostra l’apriori solo nella sua possibilità»79, sicché,
in un certo senso, «la conoscenza trascendentale non riguarda affatto
gli “oggetti”»80. Questa indicazione, che parrebbe solo negativa, vale
invece a preservare l’articolata pregnanza della definizione kantiana,
al di là della puntuale solerzia di cui facilmente la riveste il fatto di
averla tante volte ripetuta e udita. Perché ciò che tale definizione no-
mina del trascendentale è, diremmo, più una certa attitudine che un
contrassegno distintivo, più una certa movenza che la precisa delimita-
zione del suo campo e del suo metodo. Qualcosa in quella definizione
potrà, dunque, ben lasciarci insoddisfatti e aprire lo spazio per le tan-
te metainterrogazioni che hanno cercato di situare più precisamente
l’indagine trascendentale sul filo di un esame del suo linguaggio, dei
suoi presupposti più o meno espliciti, delle sue strategie argomentati-
ve. Resta però che l’intenzione primaria di quella espressione kantiana
sembra essere non tanto quella di “situare” il trascendentale, quanto
invece quella di enunciarne una caratteristica allotropicità rispetto a
cui, forse, una tale esigenza di localizzazione manca il segno.
Così, ad esempio, fin dalle prime battute del Versuch, Maimon risol-
veva la tensione attribuendo a Kant il pensiero «che la filosofia deve es-
sere trascendentale, se vuol essere di un qualche uso, ossia deve potersi
78
KrV, B 25 [67]. L’edizione del 1781 dava una definizione più ristretta riferen-
do il trascendentale, invece che alla Erkenntnisart, ai «nostri concetti a priori di
oggetti» (KrV, A 12).
79
H. COHEN, Kants Theorie der Erfahrung, p. 179.
80
Ivi, p. 180.

76

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

riferire a priori a oggetti, e allora si chiama filosofia trascendentale»81


– pensiero, appunto, non precisamente kantiano, se «la distinzione fra
trascendentale ed empirico appartiene dunque alla critica delle cono-
scenze, e non riguarda la relazione di queste con il loro oggetto»82. Ma
intimamente kantiano è invece il richiamo di Maimon alla necessaria
“usabilità” della filosofia trascendentale e dovremo dire che, in un cer-
to senso, essa riguarda sempre anche gli oggetti. Così, quella singolare
diplopia che, per un verso, espone il trascendentale a uno scarto non
colmabile rispetto a ogni empiricità di cui esso enuncia le condizioni,
potrà essere anche lo spazio su cui il filo prezioso che collega il trascen-
dentale all’esperienza si stagli in uno spessore e una tensione specifici.
Perché, infine, il margine di un uso del trascendentale che sappia acco-
gliere la pluralità immanente, l’esuberanza di forme e colori, la signi-
ficatività equivoca e invadente di un’esperienza fertile, non potrà che
profilarsi in una riflessione trascendentale dall’andamento necessaria-
mente tortuoso, e nella singolare e rischiosa parallelità che essa man-
tiene rispetto quelle forme, quei colori, quei significati.
Cassirer ne diceva come del pericolo, a cui soggiace ogni esposizio-
ne dei concetti trascendentali, «di scivolare dalla sfera delle pure condi-
zioni del sapere nella sfera delle cose empiriche, di mutare rapporti pu-
ramente logici tra le verità in relazioni concrete tra oggetti dati»83; ed è
certo vero che non poche delle intricatissime vicende in cui si svolge il
contenuto della prima Critica kantiana stanno (ancora oggi, direi) nel-
lo spazio che i concetti kantiani ci aprono di volta in volta, «a seconda
che si vedano in essi espressioni per “condizioni” e nessi tra condizioni
oppure espressioni per “cose” – siano queste sensibili o sovrasensibili,
fisiche o metafisiche»84. Che Cassirer ponesse qui la sfera delle pure
condizioni del sapere sotto il titolo dei “rapporti puramente logici tra
le verità”, dà certo l’indizio di una direzione ulteriore, non meno den-

81
S. MAIMON, Versuch, p. 8.
82
KrV, B 81/A 56-57 [113].
83
«Perché si dà sempre il pericolo di scivolare dalla sfera delle pure condizioni
del sapere nella sfera delle cose empiriche, di mutare rapporti puramente logici tra
le verità in relazioni concrete tra oggetti dati» (E. CASSIRER, Das Erkenntnispro-
blem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, in Gesammelte Werke,
vol IV, p. 4).
84
Ivi, p. 5.

77

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sa di conseguenze, secondo cui poté svolgersi quella immanente ambi-


guità dei concetti trascendentali: il rischio di scivolare, appunto, dalla
sfera delle pure condizioni del sapere nella sfera delle strutture pura-
mente logiche del pensare. Sicché bisognerà dire che quella «lotta tra
la nuova prospettiva logica del concetto e la prospettiva empirica della
cosa» non soltanto, come avverte Cassirer, “si prolunga” nell’accanita
discussione circa il senso e la plausibilità del sistema kantiano, e «in
essa ottiene la sua più perspicua espressione»85, ma anche vi si carica di
un contrasto nuovo – a cui proprio il neokantismo darà voce in vario
modo – nel nesso, pure ambiguo e gravido di sviluppi, tra la forma tra-
scendentale e la forma logica. E non era forse meno ottimistica l’affer-
mazione secondo cui si compirebbe con Kant «la separazione rigorosa
tra il metodo “trascendentale” e quello “psicologico”», separazione
che non troveremo invece «in una considerazione storica dei proble-
mi fondamentali del secolo XVIII», dove «i confini si sovrappongo-
no contunuamente»86. Quell’accavallarsi e confondersi dell’intenzione
trascendentale e di quella psicologica non diremmo infatti che davve-
ro sia stato “accantonato” dall’esercizio critico, quanto piuttosto che vi
abbia trovato una radicalità nuova e difficile, le cui tante implicazioni
avranno di che impegnare la riflessione di Fries, di Herbart, di Hus-
serl, degli stessi neokantiani.
Ora, questo sguardo di Cassirer, che tende quasi a trasferire nel pre-
kantiano linee problematiche di cui diremmo, invece, che proprio a
partire da Kant abbiano acquisito un’inquietudine nuova e un’inedita
urgenza, è forse, almeno in certa misura, interessato. Eppure vi si trova
qualcosa di esemplare nel dirci come sul difficile “bilico” segnato dal
trascendentale kantiano si affaccino i margini di saperi e metodi diver-
si e competitivi, come i profili di oggetti ed esperienze irriducibili vi si
accostino in una prossimità che facilmente si riempie dell’uno o dell’al-
tro di essi. Nei confronti di questa contiguità potremo anche mani-
festare il nostro fastidio, e apporvi il nome vago – e per questo così
comodo – di “psicologismo”, tanto più comodo in quanto vi si ricono-
sce l’aspetto polveroso di qualcosa che da tempo ci siamo lasciati alle

85
Ibidem.
86
Cfr. E. CASSIRER, Die Philosophie der Aufklärung, in Gesammelte Werke, vol.
XV, a cura di C. Rosenkranz, Meiner, Hamburg 2003, p. 98.

78

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

spalle. Ma, a ben vedere, quella scomoda contiguità del trascendentale


con i più diversi profili dell’empirico (contiguità che si presenta oggi
ancor più affollata delle scienze cognitive, linguistiche, informatiche
ecc.) potrebbe essere proprio il luogo in cui si esercita la specifica mo-
dalità del suo concreto funzionare, del suo essere legge che prescrive
e impara, anticipa e accoglie, del suo attivarsi nella pienezza densa e
diversificata del fare scienza, dello stare nella storia, del dare significa-
to alle cose e alla natura, dell’incontrarsi nella plurale evocatività dei
simboli e delle immagini.
Qualcosa della riluttanza kantiana a consegnarci la chiarezza estetica
delle strutture trascendentali potrebbe allora significare proprio l’in-
tenzione di volerne custodire la specifica gravità, il loro essere “di un
qualche uso” (come giustamente sollecita Maimon) senza però riferir-
si direttamente agli oggetti, e il modo peculiarissimo di un’astrattezza
che sa essere reattiva, per così dire, che sa condensarsi nella figura ogni
volta determinata di una concreta operatività, di una fungenza non in-
differente alle forme e ai colori dei contenuti su cui si esercita. L’“in-
ventario della ragione pura” sarà dunque ben più difficile e incerto di
quanto Kant avesse ottimisticamente annunciato nel 178187, e però non
a motivo di una monotona inconsistenza della forma rispetto alla va-
riopinta ricchezza dell’esperienza, bensì, al contrario, per una sua certa
irrevocabile implicazione nella vicenda multiforme del darsi, per una
sua immanente disponibilità non soltanto a prescrivere ma anche ad ac-
cogliere le innumerevoli fisionomie di cui l’esperienza è capace, troppo
varie e policrome per offrirsi a un’intenzione “inventariale”. Contro ai
filosofi che si sono affannati (o a quelli che ancora oggi si affannano)
alla ricerca dell’unica facoltà fondamentale alla quale si possa ricon-
durre ogni possibile moto dell’animo umano, Kant farà allora valere la
troppo varia diversità dei modi in cui facciamo esperienza delle cose,
dove il “principio comune” della ragione pura andrà progressivamente
differenziandosi fino alla conclusione che un tale principio, in effetti,

87
«Si tratta infatti di null’altro che dell’inventario, ordinato sistematicamente,
di tutto ciò che noi possiamo possedere mediante la ragione pura. A questo propo-
sito nulla può sfuggirci, poiché ciò che la ragione trae completamente da se stessa
non può nascondersi, ed è piuttosto messo in luce proprio dalla ragione, non ap-
pena si è scoperto il principio comune di tutto ciò» (KrV, A XX [15]).

79

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non c’è e che la ragione può, in verità, nascondersi anche a se stessa88:


altro è conoscere, altro desiderare, altro ancora sentire; altro è rappre-
sentarsi una legge morale, altro farne il movente del proprio agire; altro
è giudicare di un oggetto in base a una forma logica, altro giudicare di
esso in base a una forma estetica, altro ancora giudicare di se stessi in
base a un oggetto che sembra privo di forma; altro è formulare un’ipo-
tesi scientifica, altro congetturare sulla natura dei terremoti o sulla su-
perficie lunare, sugli inizi della storia o sulla fine di tutte le cose. E tale e
tanta è la ricchezza di forme, significati, misure in cui si svolge la nostra
vita di coscienza che la gran parte di essa ci rimane infine ignota e inac-
cessibile, un brulicare frenetico e silenzioso lungo una mappa oscura
sulla quale ben pochi punti ricevono luce; tali e tante sono le figure pos-
sibili dell’esperienza che l’osservazione «deve alla fine imbattersi in una
molteplicità di leggi che nessun intelletto umano può ricondurre a un
principio»89, “labirinto di molteplicità” in cui «non è possibile alcuna
determinazione di limiti»90 e che potrebbe ridursi a una compagine in
cui ci muoviamo quasi furtivi, a cui ci lega non più che una corrispon-
denza occasionale e provvisoria91. Sicché il mondo nel quale potrem-
mo scoprirci come un momento secondario e trascurabile non è quello
privo di ordine e di ragione, non è un mondo in stato di confusione; è
invece un mondo così pieno di ragioni, tutte diverse eppure tutte ugual-
mente plausibili, da risultarci infine estraneo e impercorribile.
C’è, allora, nell’immagine kantiana dell’esperienza fertile molto
più che un comodo tentativo di sviare la tensione teorica malamente
88
Cfr., in particolare, Erste Einleitung in die Kritik der Urteilskraft, KGS XX,
p. 206.
89
KU, XLI [47].
90
KU, XLII [49].
91
«Infatti si può ben pensare che, malgrado tutta l’uniformità delle cose del-
la natura secondo le leggi universali senza le quali la forma di una conoscenza
d’esperienza in generale non avrebbe affatto luogo, la diversità specifica delle leg-
gi empiriche della natura, insieme ai loro effetti, potrebbe essere pur sempre tal-
mente grande che per il nostro intelletto sarebbe impossibile scoprirvi un ordine
coglibile, dividere i suoi prodotti in generi e specie allo scopo di usare i principi
per spiegare e intendere l’uno anche per spiegare e comprendere l’altro, e di fare
un’esperienza coerente a partire da un materiale per noi così confuso (propria-
mente, solo infi nitamente molteplice, non adeguato alla nostra capacità di coglier-
lo)» (KU, XXXVI-XXXVII [41-42]).

80

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

espressa da Garve e Feder ma, come si è visto, tutt’altro che fittizia.


Perché l’esser fertile dell’esperienza non la rende affatto un luogo faci-
le e accogliente, non allude soltanto all’ovvia possibilità di aggiungervi
sempre nuovi tasselli, di procedere sempre oltre; allude bensì alla pos-
sibilità, più cruciale, di ritornare a ogni esperienza scoprendovi sempre
nuovi significati, scoprendo cioè che avevamo già visto più di quanto
credessimo. Esperienza, dunque, che non solo – per rispondere al so-
spetto di Hegel – sa bene come deve svolgersi senza bisogno di atten-
dere un apriori saccente o ritardatario, non solo ha già in sé le proprie
regole, ma ne ha forse più di quante sapremo mai pensarne: labirinto
di immagini, differenze, parentele, singolarità, somiglianze, analogie,
simboli in cui possiamo muoverci solo a patto di darci ogni volta un
bandolo, di ritagliarci ogni volta uno spazio uniforme (solo conosciti-
vo, solo pratico, solo estetico…) nel quale installarci sicuri.
Lungi dallo stare come un semplice vuoto, quel difetto di esempla-
rità che sembra assegnare all’apriori una formalità sterile e invisibile92,
sarà allora il segno di un visibile ormai destituito della sua capacità
di significare immediatamente e senza residui («perché non vi è certo
nessun oggetto della natura noto ai sensi del quale si possa dire di aver-
lo mai esaurito tramite l’osservazione o la ragione, fosse pure una goc-
cia d’acqua o un granello di sabbia o qualcosa di ancor più semplice:
tanto incommensurabile è la varietà di ciò che la natura, fin nelle sue
più piccole parti, offre da risolvere a un intelletto così limitato»93), di
un’osservazione che ci espone sempre all’equivocità, seducente e svian-
te, degli esempi e che – nella filosofia non meno che nelle scienze em-
piriche – troverà la propria significatività solo entro lo spazio di un
limite a cui ci dobbiamo continuamente accordare, su cui dobbiamo
affinare (ad averne il talento) la nostra capacità di giudicare. La pover-

92
Non si danno, infatti, esempi dello spazio e del tempo (la cui rappresentazio-
ne non può essere desunta dall’esperienza, ma ne è a fondamento: KrV, B 38/A 23);
non si danno esempi della regolarità dei fenomeni (KrV, B 123/A 91); non si dan-
no esempi della realitates noumena (KrV, B 338-339/A 282), né dell’incondizionato
(KrV, B 649/A 621); non si dà esempio dell’unità sistematica della ragione (KrV,
B 709/A 681); non si dà esempio nell’esperienza di attuazione della legge morale
(KpV, 81), né della libertà (KpV, 84).
93
Träume eines Geistersehers, erläutert durch Träume der Metaphysik, KGS II,
p. 351.

81

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tà di chiarezza intuitiva che, da Garve fino a Husserl94, non ha smesso


di venir rimproverata alla filosofia critica, potrebbe allora significare
qualcosa di diverso dall’imbarazzata astrattezza di un apriori che non
sa più affermare il proprio legame con l’esperienza. Sarà invece il se-
gno di una riflessione finalmente attenta ai processi erosivi che – sul
filo del pensiero filosofico, dell’indagine empirica della natura, degli
sviluppi economico-sociali, delle istanze enciclopediche e classificato-
rie – hanno progressivamente assottigliato i margini di familiarità e
di ordinamento dell’esperienza, rivelandone matrici plurali e irriduci-
bili, attestandone significazioni diverse e competitive, complicandone
irrimediabilmente le linee di inerenza e distinzione, sì che per poterci
muovere in questa varietà (con il pensiero, con l’osservazione, con l’agi-
re, con il viaggio…) dovremo darci anzitutto principi e fili conduttori,
piani e direzioni, limiti e distanze.
Così, si dice in verità “gran cosa” (forse più di quanto Hegel fosse di-
sposto ad ammettere, o forse soltanto qualcosa che per noi è decaduto
da un’ovvietà a lui ancora presente) nel dire che la filosofia deve la sua
prima origine all’esperienza95. Non foss’altro, nel ricordarci come la
domanda sull’apriori non sia, in sé, più urgente né più iniziale di quella
sull’aposteriori. Ma anche nell’avvertire come ognuna delle figure con-

94
Si pensi, un esempio tra i tanti, al § 30 della Krisis, ove Husserl rileva che
Kant «impedisce ai suoi lettori di tradurre il suo procedimento regressivo in con-
cetti intuitivi, impedisce qualsiasi tentativo di attuare una costruzione progressiva
che si rifaccia ad intuizioni originarie e assolutamente evidenti e che proceda per
gradi progressivi pure realmente evidenti. I suoi concetti trascendentali sono per-
ciò avvolti da una caratteristica oscurità, caratteristica nel senso che non può mai
essere tradotta, per ragioni di principio, in chiarezza, non può mai essere tasfor-
mata in una formazione di senso diretta e capace di evidenza» (E. HUSSERL, Die
Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie,
Hua VI, pp. 117-118, tr. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la feno-
menologia trascendenale, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 144-145).
95
«[…] Si può dire – ma non si dice gran cosa – che la fi losofia deve la sua prima
origine all’esperienza (all’aposteriori). In realtà, il pensiero è essenzialmente la ne-
gazione di un esistente immediato. Allo stesso modo, il mangiare si deve ai mezzi
di nutrizione, perché senza questi non si potrebbe mangiare: il mangiare viene in
verità, sotto questo aspetto, rappresentato come un ingrato, che distrugge ciò a
cui deve se stesso. E il pensiero, in questo senso, non è meno un ingrato» (G.W.F.
HEGEL, Enzyklopädie, p. 53, tr. it. p. 20).

82

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

cettuali in cui si possa condensare la specifica legalità dell’apriori rechi


in sé, eventualmente inapparente, questa sua origine e una tensione
che la lega costitutivamente a ciascuna delle possibili fisionomie del
dato empirico su cui possa esercitarsi. È, diceva Hegel, una certa “in-
gratitudine” della filosofia nei confronti dell’esperienza, ma tale che
essa ne sconta continuamente il prezzo, per così dire: in qualche modo,
l’esperienza ha già detto tutto e non c’è realtà virtuale che non sia in-
fine un’articolazione possibile del nostro mondo, non c’è eterotopia,
sia pure quella che collega gli animali che si agitano follemente agli
animali che da lontano sembrano mosche, che dopo averla detta non
ci accorgeremo di averla in fondo già sempre vista. Vista, però, nella
compromissione esuberante dei piani e delle regole, degli usi e degli
scopi, e nella seducente vivacità di immagini che sono sempre l’esem-
pio di troppe cose insieme. Sicché quella “ingratitudine” nei confronti
dell’esperienza (di cui potremmo trovare il segno, in Kant, nelle varie
occorrenze degli “absondern”, “isolieren”, “abstrahieren” che segnano
sempre passaggi decisivi nell’andamento della riflessione trascenden-
tale) si esprime in un gesto astrattivo e delimitante ben più difficile da
imparare di quanto ipotizzasse Fries96, e certamente esposto sempre al
rischio, denunciato da Herbart97, di una insanabile dispersione.
«È di estrema importanza – dice Kant – isolare le conoscenze che
secondo il loro genere e la loro origine si differenziano da altre, e evi-
tare accuratamente che esse si mescolino ad altre conoscenze con cui
sono solitamente congiunte nell’uso»98. E l’importanza di questo ge-
96
Cfr. J.F. FRIES, Neue Kritik, ???, pp. X-XI.
97
Scriveva Herbart: «Se si pensa alle rigorose opposizioni che Kant ha fissato tra
la sensibilità e l’intelletto, tra l’intelletto e la ragione, tra la ragione teoretica e quella
pratica, tra la ragione pratica e l’inferiore facoltà di desiderare, infine tra i due modi
della capacità di giudicare, allora ci si può chiedere se vi sia mai stato un filosofo che
abbia trattato più violentemente l’unità della nostra personalità; che abbia tenuto in
così poca considerazione il fluire dei nostri stati, il modo in cui le nostre rappresen-
tazioni attingono l’una dall’altra, il sorgere graduale di un pensiero dall’altro; che
abbia invece potuto attenersi in modo così univoco alla diversità di alcuni risultati
dei movimenti dello spirito e al reciproco collidere di alcune serie rappresentative. –
E qual è il collegamento tramite il quale quelle facoltà così lontante dovebbero esser
tenute assieme? (J.FR. HERBART, Lehrbuch zur Psychologie, in Sämmtliche Werke, a
cura di G. Hartenstein, vol. V, Leopold Voss, Leipzig 1850, pp. 248-249).
98
KrV, B 870 [???].

83

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sto, che sembrerebbe risolversi in una fredda dissezione anatomica,


consiste invece nel renderci visibile la fertile complessità di quell’uso
che non si risolve in nessuna delle conoscenze isolate ma le aveva già
poste tutte in relazione. “Ma chi può tenere in conto ogni occasione
di fraintendimento?”, domandava Kant nel 1788. E quell’attenuante ad
assolvere un’ambivalenza nella Critica che, come si è detto, è piuttosto
una complicazione immanente al rapporto tra la regola e il suo visibile
funzionare, nomina certo una difficoltà che non è solo di Kant o del
suo lettore, ma è anche del soggetto che nel fare esperienza continua-
mente ne svolge la ricchezza, ne decifra i significati, ne segue questa o
quella direzione, ne colma le intermittenze con congetture o analogie.
Ma anche, sempre, ne sopporta le imposizioni e i margini inaggirabili,
ne patisce le seduzioni, le ambiguità, le parvenze ineliminabili. La defi-
nizione kantiana del soggetto trascendentale sta dunque in una precisa,
irrevocabile corrispondenza con la definizione della forma trascenden-
tale, perché questa dispone lo spazio in cui quella esercita la propria
funzione non prevaricatrice. Ma vale anche l’inverso, e il formale di cui
Kant ci consegna l’attitudine trascendentale sta, mi pare, in una irre-
vocabile connessione con un soggetto che di volta in volta ne accolga e
ne orienti la plurale ricchezza.

4. Disegnare secondo un principio

“Affinare” sugli esempi la propria capacità di giudicare (per quanta


se ne ha), darsi un filo conduttore nell’attraversare la varietà di regole
che si diparte da un’immagine e governarne gli usi possibili, è certo
un modo utile di descrivere quella specifica attitudine del soggetto
che pare inevitabilmente coinvolta nell’esercizio dell’apriori. Utile, so-
prattutto, perché mostra di quell’attitudine la matrice composita, mai
riducibile a una condotta semplicemente impositiva, e ne evidenzia
l’andamento complesso nel quale si coordinano dinamiche differenti
che provengono sia dal soggetto che dall’oggetto. Credo che alla fisio-
nomia dell’apriori, sia pure nelle articolazioni differenti e competitive
che se ne possono dare, appartenga sempre un tale correlarsi di movi-
menti ineguali – il quale, si badi, non accade soltanto nell’accordarsi e
sovrapporsi delle loro funzioni, ma anche nel loro reciproco limitarsi.

84

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

E di qui mi pare debba trarsi un’indicazione importante circa ciò di


cui non si tratta nella domanda sull’apriori: precisamente, non si trat-
ta di decidere se la compagine dell’esperienza si costituisca a partire
dal soggetto o dall’oggetto. Anche da questo punto di vista mi sembra
che l’immagine, apparentemente fortuita, dell’“esperienza fertile” pos-
sa offrire una suggestione che vale la pena di accogliere, soprattutto
nell’evidenziare come ciò che di soggettivo può trovarsi nel concet-
to kantiano di apriori debba sempre venire inteso nel riferimento a
un’esperienza non semplicemente inerme. E va certamente colta la fe-
lice pregnanza di quell’espressione, “fruchtbar”, in cui è figurata tanto
la fecondità immanente di un’esperienza che reca in sé, quasi implicita,
tutta una ricchezza di forme, usi, significati possibili, quanto la neces-
saria attitudine di un soggetto che a quella ricchezza disponga ogni
volta uno spazio determinato in cui svolgersi e realizzarsi.
Si troverà qui, allora, la figura plausibile di un idealismo non “su-
periore”, né “maligno”, nel quale la soggettività non stia come l’istan-
za dispotica di un “dover essere”, bensì come luogo di intersezione e
di reciproca compromissione tra linee di legalità eterogenee. Non c’è
dubbio che questo idealismo sia ancora un modo di stare nel margine
ambiguo segnato dalla virgola di Maimon. Da parte sua, Kant ne ha
dato una formulazione notissima, che converrà riguardare anzitutto
nella difficile precisione dell’originale tedesco:

[…] denn er fand, dass er nicht dem, was er in der Figur sahe, oder
auch dem blossen Begriffe derselben nachspüren und gleichsam da-
von ihre Eigenschaften ablernen, sondern durch das, was er nach Be-
griffen selbst a priori hineindachte und darstellte (durch Konstrukti-
on), hervorbringen müsse, und dass er, um sicher etwas a priori zu wis-
sen, er der Sache nichts beilegen müsse, als was aus dem notwendig
folgte, was er seinem Begriffe gemäß selbst in sie gelegt hat99.

99
KrV, B XI-XII [20]: «[…] egli trovò infatti che non doveva seguir le tracce di
ciò che vedeva nella figura, o anche del semplice concetto di questa, apprendendo
per così dire da ciò le sue proprietà, ma doveva trar fuori (mediante costruzione)
ciò che egli stesso, secondo concetti, aveva approfondito e presentato a priori.
Egli scoprì che per sapere sicuramente qualcosa a priori, non doveva attribuire
alla cosa alcunché, all’infuori di quanto seguiva necessariamente da ciò che egli
stesso, conformemente al suo concetto, aveva posto in essa».

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Luca Bisin

Ritornare una volta di più a questo passaggio familiare vale certo


la pena anche solo per riportarci all’originaria complessità del detta-
to kantiano, di là dalle facili perifrasi con cui esso viene solitamente
riassunto e talvolta anche surrettiziamente sostituito nell’interpreta-
zione. A margine delle diverse opzioni di traduzione e delle questioni
fi lologiche che, com’è noto, esso può sollevare100, mi pare si trovi in
questo testo anzitutto una preziosa indicazione circa la direzione e il
senso di quella “rivoluzione” in cui si annuncia per Kant l’intenzione
trascendentale. Che a dire questa direzione e questo senso non ba-
sti il semplice rovesciamento del rapporto tra il soggetto e l’oggetto,
mi sembra suggerirlo quel più complesso intreccio che nel passag-
gio kantiano mette in relazione la figura e il concetto con i modi di
un pensare (“hineindenken”) e un esibire (“darstellen”) a priori. Ora,
quel che così si presenta non è la sostituzione di un rapporto a due
termini con un rapporto a quattro termini, bensì una complicazio-
ne immanente di quello stesso rapporto tra soggetto e oggetto che è
certo sempre al centro dell’intenzione trascendentale, ma lo è anche
sempre come un luogo stratificato di equilibri più o meno precari, di
sovrapposizioni più o meno esatte, di convenienze e difformità reci-
proche. Sicché quel rovesciamento si esercita in verità nei confronti
di una relazione composita e articolata, ne investe le dimensioni plu-
rali e differenziate, e ben più che invertirne la direzione ne riformula
l’equilibrio complesso.

100
La difficoltà, com’è noto, concerne in particolare la formula “sondern durch
das” che introduce la frase incidentale e lascia privo di oggetto il successivo verbo
“hervorbringen” (si veda in proposito la nota di Erdmann in KGS, vol. III, pp.
584-585). La traduzione di Colli, sopra riportata, accoglie l’emendamento di Adi-
ckes, che cancella la preposizione “durch”. Chiodi, che segue invece la versione
di Erdmann, traduce: «[…] poiché comprese che non doveva seguire ciò che via
via vedeva nella figura, né attenersi al semplice concetto della figura stessa, quasi
dovesse apprenderne le proprietà; ma doveva produrre la figura (costruendola)
secondo ciò che con i suoi concetti pensava e rappresentava in essa a priori; com-
prese cioè che per sapere con sicurezza qualcosa a priori, non doveva attribuire
alla cosa se non ciò che risultava necessariamente da quanto, conformemente al
suo concetto, egli stesso vi aveva posto» (Critica della ragion pura, tr. it. a cura di
P. Chiodi, Utet, Torino 1967, pp. 41-42).

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

Qui dunque, sull’esempio del geometra, la formulazione gramma-


ticalmente distratta eppure così pregnante del passaggio kantiano ri-
empie quel rapporto di una complicazione cruciale e di un margine
sottile: ciò che il soggetto pensa a priori nell’oggetto deve anche poter-
lo esibire a priori. Solo chi ignori o abbia dimenticato le ramificazioni
esplicite e tendenziali che la questione della Darstellung subisce entro
l’orizzonte speculativo aperto dalla prima Critica può mancare di rico-
noscere in questa complicazione il segno di una immanente articola-
zione dell’apriori in cui ne va infine del suo senso e della sua autenti-
ca fisionomia. Perché in questo luogo iniziale della Critica (già carico,
però, del ritorno sulla prima edizione) si accenna – e si accenna soltan-
to – a una struttura in cui l’apriori sta come proiettato oltre se stesso,
esposto a una dinamica che, ancor tutta da decifrare, già rivela però
quella complessità immanente a cui Kant darà il nome di “schemati-
smo”, e che qui si annuncia nel gioco vago tra il concetto e la figura, tra
il pensare e l’esibire. Vago, certo, eppure già utile a segnare uno di quei
passaggi – la scrittura kantiana essendone in verità ricchissima – che,
percorrendo in orizzontale un certo numero di pagine della Critica,
collegano piuttosto strutture dell’esperienza verticalmente differenzia-
te: esibire quel che si è pensato a priori nell’oggetto è, in effetti, un
esercizio tutt’altro che scontato perché impone ciò che Kant, nel pieno
dello schematismo, dirà essere a un tempo realizzazione e restringi-
mento delle categorie, ponendo questa struttura sotto il segno quasi
ossimorico del “concetto sensibile”101. Qui, in particolare, la complica-
zione si trova nel fatto che il concetto e la figura non stanno su una me-
desima linea esperienziale; sicché, come che si voglia risolvere l’opzio-
ne interpretativa – certo non innocente – sollevata dall’incerta sintassi
kantiana, resta anzitutto da accogliere la natura plastica, per così dire,
di quella conformità al concetto (“nach Begriffen”, “seinem Begriffe
gemäß”) nella quale si realizza molto più che un’agevole corrisponden-
za tra momenti paritetici solo orizzontalmente distanziati.

101
«Tuttavia, sebbene gli schemi della sensibilità realizzino per la prima volta
le categorie, salta agli occhi il fatto che essi nondimento restringono anche tali ca-
tegorie, cioè le limitano entro condizioni che stanno al di fuori dell’intelletto (cioè
nella sensibilità). Perciò lo schema è propriamente solo il fenomeno, o concetto
sensibile di un oggetto, in accordo con la categoria […]» (KrV, B 185/A 146).

87

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E qui mi pare che l’esempio scelto da Kant per annunciare questo


tratto difficile e decisivo del suo trascendentale mostri tutta la carat-
teristica ambivalenza che, come abbiamo visto, appartiene agli esempi
nell’esposizione della filosofia critica: costruire concetti è, come sap-
piamo, una prerogativa della conoscenza matematica e l’immagine del
geometra facilmente invita a compiere incauti passaggi tra piani e usi
della ragione che, invece, è bene rimangano distinti; e però, a sapercisi
orientare, si troverà forse nella trama di quei passaggi ciò che all’esem-
pio dà la sua plausibilità. C’è infatti nel privilegio della matematica di
poter «esibire tutti i propri concetti in concreto e tuttavia a priori»102, il
segno di una tensione (“und dennoch a priori”) che, per un verso, de-
nuncia l’articolata complessità di quel “costruire” (assai meno arbitra-
rio e perentorio di quanto il suo nome potrebbe far pensare), per altro
verso colloca quella prerogativa nel quadro di una struttura che, lungi
dall’essere privilegiata, annuncia piuttosto una dinamica inscritta nella
natura stessa dell’apriori e nel suo modo – facile a dirsi (e a ripetersi),
difficile a comprendersi – di essere “indipendente dall’esperienza”: il
privilegio della costruzione matematica, il suo porci in un ambito con-
creto e tuttavia a priori, potrebbe essere infine non più che una cer-
ta scansione di quella “ordinaria” fisionomia per cui qualsiasi apriori
vuol essere certo tale e tuttavia concreto.
È vero, allora, che nell’assecondare questa tensione caratteristica
dell’apriori la matematica incontra il vantaggio irripetibilile di poter
esibire i propri concetti in una intuizione non empirica, di modo che la
figura singola in cui essa rappresenta il proprio oggetto vi corrispon-
de in quanto suo schema, non in quanto immagine103. Ma è ugualmen-
te vero che a definire la costruzione degli oggetti matematici non c’è
soltanto quella peculiare sussunzione che all’universalità del concetto
sottopone la singolarità di un’intuizione non empirica bensì pura, ma
anche quella relazione con una singolarità empirica che, sebbene non
serva alla costruzione del concetto, tuttavia ne esprime la specifica uni-
versalità: «La singola figura disegnata è empirica, ma serve nondime-
no [gleichwohl] per esprimere il concetto (nonostante [unbeschadet]

102
Prolegomeni, KGS IV, p. 281.
103
KrV, B 742/A 714 [714-715].

88

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

l’universalità di questo)»104. Ancora nell’occorrenza solo apparente-


mente innocua di certe parole minime (“gleichwohl”, “unbeschadet”)
questo passaggio ridà l’articolato intreccio di forze e contrappesi che
sovrintende a quel “servizio” reso dall’empirico all’apriori. E a sugge-
rire quanto poco “accessorio” sia questo ufficio della figura sensibile,
quanto intima e irrevocabile sia questa compromissione tra la regola
e una sua certa esibizione (la quale potrà certo realizzarsi in un’altra
figura, non però in nessuna figura) basterà il § 62 della Critica del Giu-
dizio, dove Kant dice un tale ufficio “oft bewundert”:

Tutte le figure geometriche disegnate secondo un principio mostra-


no in sé una oggettiva finalità molteplice, spesso ammirata, che consi-
ste nell’idoneità [Tauglichkeit] a risolvere molti problemi secondo un
unico principio come pure a risolvere ognuno di essi in modi che sono
infinitamente diversi105.

Il servizio reso dalla figura empirica si fa qui esposizione visibile di


una finalità oggettiva in cui quella figura, “disegnata secondo un prin-
cipio”, si rivela il tramite sensibile di una certa attitudine (Tauglichkeit)
alla soluzione di problemi. Quale possa essere la complessa architettu-
ra teorica che, a mio avviso, si affaccia da dietro questa parola, “Tau-
glichkeit”, che in pochi ma cruciali momenti della riflessione kantiana
nomina la reciproca consonanza tra strutture differenti dell’esperienza,
bisognerà raccontarlo altrove. Qui, però, resta soprattutto da accoglie-
re quella Bewunderung che si origina evidentemente da più che un’effi-
cacia pratica della figura nell’assistere le argomentazioni del geometra,
e di quella efficacia segnala piuttosto la matrice composita, l’intreccio
di dimensioni in cui essa si istituisce: “disegnare secondo un princi-
pio”, questo gesto familiare a ogni lavagna di scuola, è in verità l’atto
complesso di dare forma visibile a una struttura normativa, di fare cioè
di una regola un’immagine sul filo di uno schema. Che questa traduzio-
ne possa soltanto insinuarsi negli spazi, assai ristretti, di un “tuttavia”
o un “nondimeno”, che essa rimanga esposta a un difetto di precisione
che nessuna accuratezza del disegno potrà mai interamente risolvere, è

104
KrV, B 741-742/A 713-714 [714].
105
KU, 271 [421].

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certo il segno della distanza che continua a separare la regola da qual-


siasi immagine che la possa esemplificare. Ma, appunto, ciò che rende
“ammirevole” quel gesto apparentemente facile è la sua capacità di te-
nere assieme momenti qualitativamente diversi e irriducibili senza con-
trarne la fisionomia: nella figura disegnata secondo un principio si trove-
rà, per un verso, l’esibizione percettibile (a posteriori) della regola che
ne regge le proprietà e ne collega le molteplici possibili fisionomie, per
altro verso vi si potrà ancora leggere l’eccedenza di valore che proietta
la regola oltre il profilo determinato della figura e ne indica lo statuto
formale (a priori) e una caratteristica “fecondità”. Perché è pur vero
che «nessuna immagine di triangolo potrebbe mai essere adeguata al
concetto di triangolo in generale»106, nondimento quella costruzione
del concetto in una intuizione pura la potrò sempre riportare sulla car-
ta107 – e potremmo scoprire un’insospettata pregnanza nel chiamare
“bellezza” le proprietà delle figure e dei numeri, nel fare cioè della ma-
tematica un esercizio anche estetico108. È vero che non si può dire «che
un oggetto dell’esperienza, o l’immagine di questo, raggiunga mai il
concetto empirico»109, e tuttavia, fornendo nell’esperienza «una rego-
la per la determinazione della nostra intuizione, conformemente ad
un certo concetto universale»110, lo schema di quel concetto dispone
lo spazio per tracciare una varietà infinita di immagini possibili111. E
se «lo schema di un concetto puro dell’intelletto è qualcosa che non
può essere affatto portato entro un’immagine»112, tuttavia è solo nella
compromissione con la sensibilità che quei concetti troveranno il loro
106
KrV, B 180 /A 141 [220].
107
KrV, B 741/A 713 [714].
108
Ciò che Kant, come si sa, giudica sconveniente, perché la bellezza della fi-
gura geometrica si dovrebbe chiamarla piuttosto una sua “perfezione relativa” e
non ci si offre in una valutazione estetica bensì in una valutazione intellettuale
(cfr. KU, 278-279 [430-431]).
109
KrV, B 180/A 141 [221].
110
KrV, B 180/A 141 [221].
111
«Il concetto di cane indica una regola, secondo cui la mia capacità di im-
maginazione può tracciare universalmente la figura di un animale quadrupede,
senza essere ristretta ad un’unica figura particolare, offertami dall’esperienza, op-
pure ad ogni immagine possibile, che io sia in grado di raffigurare in concreto»
(KrV, B 180/A 141 [221]).
112
KrV, B 181/A 142 [221].

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

significato e il loro uso.


L’utilità degli esempi nell’“affinare” la nostra capacità di giudicare
trova dunque un suo preciso riscontro in questo reciproco congruire
tra momenti altrimenti irriducibili. E a riguardare di qui la “luce” che
si accese nel primo geometra, vi riconosceremo tutto un articolarsi di
movimenti e attitudini. Anzitutto, è chiaro, vi si trova senz’altro quel
talento particolare («il quale non può essere insegnato, ma può soltan-
to essere esercitato»113) di «sussumere sotto regole, cioè di distingue-
re se qualcosa cada o no sotto una data regola»114. Ma a ben vedere,
vanche qualcosa del talento di svelare una parvenza logica: la quale,
certo, sorge solo da “un difetto di attenzione alla regola logica” e si
dissolve non appena sappiamo “affinare” (schärfen) questa regola sul
caso presente115, ma ci espone sempre anche a una visibile seduzione, a
quella “parvenza di verità” che si trova sempre implicata nell’errore116.
Di modo che il fondamento di ogni errore si troverà certo «nell’influs-
so inosservato della sensibilità sull’intelletto»117, ma d’altra parte l’uso
appropriato della regola (il suo “affinarsi” sul caso) è ancora un certo
esercizio di visibilità: privilegio del simbolico – quello dell’algebra ma,
diremmo, anche della logica –, dove il segno ci rende quasi visibile il
margine di congruenza tra la regola e il caso, ce ne pone quasi “di fron-
te agli occhi” il funzionare, e così ci guida nella trama delle sue pos-
sibili connessioni col «renderci visibile [sichtbar] ogni passo falso»118.
Vi si trova la capacità di stare in una seduzione del visibile – sia essa
quella (empirica) del mare che ci appare più alto in lontananza o quella
(trascendentale) di regole fondamentali della ragione che assumono un

113
KrV, B 172/A 133 [215].
114
KrV, B 171/A 132 [214].
115
Cfr. KrV, B 353/A 296-297 [362].
116
Svelare e risolvere una parvenza è infatti «un servizio reso alla verità ben più
importante di quanto lo sia la confutazione diretta degli errori», e si trova in esso
anche una sorta di indulgenza verso chi ha commesso l’errore, «perché nessuno
concederà che egli abbia errato senza una qualche parvenza di verità, la quale
avrebbe forse potuto ingannare anche una personalità acuta [einen Scharfsinni-
gen]» (Logik, KGS IX, p. 56).
117
Cfr. Logik, KGS IX, pp. 53-54; Krv, B 351Anm. [360 nota 1].
118
KrV, B 763/A 735 [731]. Ho modificato la traduzione.

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certo seducente “aspetto”, un certo “Ansehen”119 – per trarne fuochi


immaginari e scopi irraggiungibili verso cui dirigere i nostri concet-
ti. Vi si trova l’attitudine a procurare alla legge morale un “riguardo”
(Ansehen) e un’efficacia120 attraverso uno “strano sentimento” suscitato
dalla ragione; e poi, anche, a renderla “in certo modo visibile” nel feli-
ce coordinarsi tra idee della ragione e forza di immaginazione121. E an-
cora, vi si trova qualcosa di quella solerzia della forza d’immaginazio-
ne per cui essa, in un modo “per noi del tutto incomprensibile” e quasi
senza che ne abbiamo coscienza, sul filo dell’apprensione percettiva
confronta le figure, lascia quasi “cadere” le immagini una sull’altra,
e negli spazi del loro congruire intravede infine una regola ideale122 –
(esercizio che potrebbe forse spingersi oltre le istanze di “normalità” e
“medietà” in cui Kant lo presenta, e di cui si potrebbero forse rintrac-
ciare assonanze con la variazione eidetica husserliana).
Potremo anche accogliere, allora, la diagnosi di Foucault secondo
cui il trascendentale kantiano sanziona «il ritrarsi del sapere e del pen-
siero al di fuori dello spazio della rappresentazione»123, e nell’incidere
fessure indelebili tra il formale e il trascendentale, tra il trascendentale
e l’empirico124, espone il visibile a uno scarto rispetto alle condizioni
stesse della propria visibilità che non sarà più davvero colmabile: non
nella dialettica hegeliana, né nell’istanza herbartiana di una percettibi-

119
Cfr. KrV, B 353-354/A 297 [362].
120
Cfr. KpV, 134 [161].
121
Cfr. KU, 60 [147].
122
Cfr. KU, 57-59 [143-145].
123
M. FOUCAULT, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966, p. 255, tr. it. di
E. Panaitescu, Le parole e le cose, BUR, Milano 2004, pp. 262-263.
124
«Da un lato si pone il problema dei rapporti fra il campo formale e il cam-
po trascendentale (e a tale livello tutti i contenuti empirici del sapere vengono
messi fra parentesi e ogni loro validità viene sospesa); e, d’altra parte, si pone il
problema dei rapporti fra il campo dell’empiricità e il fondamento trascendentale
della conoscenza (l’ordine puro del formale, a questo punto, viene accantonato in
quanto non pertinente al fine di rendere conto della regione in cui si fonda ogni
esperienza, compresa quella delle forme pure del pensiero). Ma sia nell’uno che
nell’uno che nell’altro caso, il pensiero fi losofico dell’universalità non appartiene
allo stesso livello del campo del sapere reale; esso si costituisce sia come riflessio-
ne pura capace di fondare, sia come recupero capace di svelare» (M. FOUCAULT, Les
mots et les choses, p. ???, tr. it. p. 268).

92

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

lità delle forme a priori, né nell’intuizione eidetica di Husserl. E però


bisognerà notare come, nel consegnarci una tale “soglia della moderni-
tà” (sulla quale ancora ci stiamo muovendo), Kant ne abbia anche ad-
ditato una significativa linea di svolgimento, per cui quell’“al di fuori
della rappresentazione” non ci è consegnato semplicemente come un
vuoto di visibilità. Piuttosto, vi si apre tutto un gioco di riverberi e ri-
frazioni, echi e risonanze, tensioni e collegamenti, sicché non un sem-
plice arretramento dallo spazio del visibile è quello che Kant ci lascia
in eredità, bensì la moltiplicazione delle linee di visibilità che si isti-
tuiscono all’intersezione tra regole, usi, forme, dove ogni figura – sia
essa quella di un segno algebrico, di un cratere lunare, di un esempio
morale, di una ineliminabile illusione ottica, di un certo “aspetto” che
le regole della ragione assumono – diviene l’evenienza smagliante, tal-
volta invincibile, di una labirintica compromissione tra piani, ordini,
significati di un’esperienza fertile. Così, la percettibile compromissio-
ne tra questi piani dell’esperienza non la troveremo più nei modi di un
vor-stellen di cui Kant, seppure non l’inizia, certo ci annuncia con for-
za una certa “rovina” con la quale, credo, non abbiamo ancora smesso
di fare i conti125. E tuttavia potrà però ancora offrirsi nei modi – meno
univoci e rigorosi, ma ben più efficaci – di un dar-stellen: non un “di
fronte” (vor) rispetto a cui il soggetto sappia ogni volta dire la propria
sicura collocazione, bensì un “là fuori” (dar) nel cui rigoglio il soggetto
è già sempre preso, rispetto al quale egli dovrà esercitare ogni volta il
proprio talento nel darsi un certo punto di vista (ove ciò sia possibile),
o invece nel piegare a una plausibile pertinenza, sul filo di analogie
e congetture, un punto di osservazione (forse non il più felice126) nel
quale si trova irrevocabilmente implicato.
«Per procedere secondo un filo conduttore – nota Kant – occor-
re solo zelo e attenzione. Ma trovare il filo conduttore stesso, e i suoi

125
Cfr. J. BENOIST, L’impensé de la représentation. Da Leibniz à Kant, “Kant-
Studien”, 1998 (89), pp. 300-317.
126
È il caso dell’osservazione circa il progresso del genere umano: «Forse di-
pende anche dall’aver scelto erroneamente il punto di vista dal quale riguardiamo
il corso delle cose umane, il fatto che esso ci appaia tanto contraddittorio. […] Ma
proprio questa è la sventura: il fatto che non siamo in grado di mutare il nostro
punto di vista quando si tratta della previsione di azioni libere» (Der Streit der
Fakultäten, KGS VII, p. 83).

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frammenti sparsi, richiede il lampo [Einfall] che nel pensiero è esat-


tamente lo stesso che il caso fortunato negli avvenimenti»127. E questo
„Einfall“ ha tutta la complessità della capacità di giudicare nella terza
Critica, della sua attitudine a convertire “casuali” coincidenze tra leg-
gi di origine e portata differente in figure di finalità che assecondano,
certo, un’esigenza tutta soggettiva, eppure si rivelano fertili nella cono-
scere, nell’agire, nel disegnare, rispondono sì a interessi e bisogni del-
la ragione, eppure trovano nell’esperienza “una traccia o un cenno”128
che ne fa la plausibilità.
Quel che ci guida in tutto ciò è, dice Kant, «un certo presentimento
della nostra ragione, o per così dire un cenno rivoltoci dalla natura»129.
Ma forse è proprio entrambe le cose, e l’intenzione specificamente
kantiana del trascendentale mi sembra decidersi soprattutto in que-
sta attitudine di un soggetto che sta tra la significatività di un apriori
plurale e la ricchezza di un aposteriori inesauribile, che continuamente
ne usa, ma anche sempre ne patisce, i margini di congruenza e di dif-
formità. In termini che potrebbero suonare troppo classici e inattuali,
a noi che abbiamo appreso nel frattempo ogni sorta di sospetto verso
tutto ciò che si investe di una pretesa sistematica, Kant diceva che «la
ragione umana è, per sua natura architettonica, cioè considera tutte le
conoscenze come appartenenti ad un sistema possibile»130. E riflettere
su quella prima parola – architettonica – potrebbe certo condurci a ri-
conoscere quanto poco “classico”, quanto poco immobile e omogeneo
sia il sistema a cui qui si pensa: un’architettura è fatta anche di spazi
vuoti, di forze segrete, di scorci, di slanci improvvisi, di equilibri dif-
ficili e possibili crolli. Così, la ragione architettonica cederà a un idea-
lismo “superiore” o “maligno” solo quando pretendiamo di ridurla a
uno tra suoi tanti possibili usi, quando la costringiamo sotto uno sol-
tanto (che sarà, ovviamente, quello fondamentale!) dei tanti, differen-
ti ordini lungo i quali essa si svolge e nei quali anche si frammenta, si
occulta a se stessa, si corregge, si sviluppa, si stupisce, e si smarrisce
anche. E le differenze tra i tanti ordini dell’esperienza si faranno dua-

127
Refl. 4997, KGS XVIII, pp. 55-56.
128
Cfr. KU, 169 [291].
129
KU, 320 [483].
130
KrV, B 502/A 474 [529].

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L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale

lismo solo quando ci manchi il talento di riconoscere in quei margini


bianchi i volumi di un’architettura complessa.

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ANDREA CAVAZZINI

L’apriori strutturale nelle scienze umane


(linguistica e antropologia)

Per apriori strutturale intendiamo null’altro che il concetto di strut-


tura quale è stato dispiegato all’epoca, appunto, dello strutturalismo.
Questa corrente di pensiero, oggetto di ostilità tenaci e di esaltazioni
ditirambiche – in sintesi, di tutto ciò che costituisce la consistenza
delle mode – non è stata probabilmente ancora valutata nelle sue po-
tenzialità. Diverse defi nizioni ne sono state proposte, talvolta molto
larghe (come quella di Jean Piaget1, che comprende lo strutturalismo
matematico, la psicologia della Gestalt e gli approcci antiriduzionisti
in biologia), altre volte molto rigide (come quella di François Wahl 2

1
Piaget defi nisce lo strutturalismo a partire dal concetto di “struttura”: «Una
struttura è un sistema di trasformazioni, che comporta delle leggi in quanto siste-
ma (in opposizione alle proprietà degli elementi) e che si conserva o si arricchisce
grazie al gioco stesso delle sue trasformazioni, senza che queste conducano fuori
dalle sue frontiere o facciano appello a elementi esterni. In breve, una struttu-
ra comprende questi tre caratteri: totalità, trasformazioni e autoregolazione» (J.
PIAGET, Le structuralisme, Puf, Paris 1968, tr. it. a cura di A. Bonomi, Lo struttu-
ralismo, il Saggiatore, Milano 1968, 1978, 1985, p. 37). Questa definizione trascu-
ra, a nostro avviso, l’impatto rivoluzionario che lo strutturalismo ha avuto sulle
scienze umane, e ciò solo dopo che la “struttura” è stata introdotta in linguistica
e antropologia. Vi è dunque una parziale soluzione di continuità tra le “strutture”
precedenti questa introduzione e la linguistica e antropologia strutturali, in cui la
struttura è posta esplicitamente come principio organizzatore e costituente di un
intero campo del sapere e dei suoi oggetti.
2
«Sotto il nome di strutturalismo si raggruppano le scienze del segno, dei sistemi di
segni. I fatti antropologici più diversi possono rientrarvi, ma solo nella misura in
cui essi passano per i fatti di lingua – cioè sono presi nell’istituzione di un sistema
del tipo Significante/significato e si prestano al reticolo di una comunicazione –
ricevendo da ciò la loro struttura […] le strutture che dovremo conoscere sono:

97

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che restringe la pertinenza del termine alle ricerche sul segno). Noi
ci limiteremo a un ritorno retrospettivo sul concetto di “struttura”
nei due rami delle “scienze umane” in cui è unanimemente ricono-
sciuto che l’apporto del punto di vista “strutturalista” ha prodotto
una rifondazione delle basi stesse dei saperi in questione: parliamo
della linguistica strutturale inaugurata da Ferdinand de Saussure e
dell’antropologia strutturale creata da Claude Lévi-Strauss. In questi
due campi del sapere la “struttura” è invocata esplicitamente come
un apriori: cioè letteralmente come la condizione di possibilità della
consistenza (ratio essendi) e della conoscibilità (ratio cognoscendi) dei
fenomeni di cui linguistica e antropologia intendono produrre la co-
noscenza. La struttura è vista quindi non solo come il dispositivo di
generazione dei fenomeni offerti allo sguardo “immediato” del ricer-
catore, ma anche come il livello in cui deve collocarsi lo studio per
poter render ragione in modo rigoroso degli stessi fenomeni.

quelle che si prestano allo scambio tra gli uomini, in virtù della significazione
che esse generano tramite la loro articolazione su almeno due piani […] non si
tratta qui d’altro che di rappresentanti e di ciò che implica la rappresentanza.
Poiché, nel segno, ciò che vi è di nuovo non è il significato ma il suo rapporto
al significante […] è attraverso quest’ultimo che si defi nisce lo strutturalismo»
(F. WAHL, Introduction générale, in Qu’est-ce que le structuralisme?, Seuil, Paris
1968). Se Piaget defi niva lo strutturalismo in base al concetto generale di strut-
tura, in cui era ricompresa la struttura specifica della linguistica e dell’antropo-
logia strutturali, Wahl sembra defi nire la struttura e lo strutturalismo a partire
dai concetti della linguistica strutturale (e in particolare del suo uso nella rico-
struzione lacaniana della psicanalisi). Nessuno dei due procedimenti dà luogo a
osservazioni radicalmente erronee o fuorvianti, ma il primo ha l’inconveniente
di misconoscere l’originalità dell’uso della struttura in scienze umane, l’altro di
presupporre, come elemento defi nitorio dell’approccio strutturale, una serie di
concetti linguistici e semiologici che hanno senso solo una volta che la linguisti-
ca stessa sia stata convenientemente resa strutturale. In entrambi i casi, il pro-
blema del dispositivo strutturale messo all’opera da linguistica e antropologia
risulta secondario rispetto, in un caso a una “famiglia” di imprese scientifiche
disparate, nell’altro a una problematica incentrata sugli effetti del significante
nel suo uso lacaniano.

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L’apriori nelle scienze umane

1. L’apriori strutturale in Saussure

In che modo interviene il concetto di struttura in linguistica? Se il


concetto è già presente nel Cours de linguistique générale di Saussure3,
il termine viene introdotto solo negli anni ’30 dai membri del Circolo
linguistico di Praga (Roman Jakobson, Nikolaj Trubečkoj), che si ri-
feriscono esplicitamente a Saussure. Il principio saussuriano che ispi-
rerà i linguisti successivi è il seguente: la lingua forma un sistema. Se
la linguistica storica del XIX secolo procedeva dissociando la lingua
in elementi isolati per poi seguirne separatamente le trasformazioni4,
per Saussure nella lingua tout se tient, e il sistema ha il primato sugli
elementi. L’idea che la lingua sia un’entità organizzata non è esclusiva
di Saussure; tuttavia, il modo saussuriano di pensare questa organiz-
zazione è radicalmente innovativo – come ricorda Françoise Gadet:
«L’originalità della concezione saussuriana del sistema è leggibile nel-
la descrizione delle tappe che hanno condotto la riflessione linguisti-
ca fino a essa: 1) La lingua conosce un’organizzazione. È l’esigenza
necessaria all’idea stessa di costituire una grammatica, riconosciuta
fin dall’Antichità. 2) Questa organizzazione possiede una “forma” pe-
culiare a ciascuna lingua, entità auto-organizzata poiché non si fonda
su null’altro che su se stessa. Si tratta di un principio che sottende la
linguistica dei secoli XVIII e XIX […], che Saussure riprende e ge-
neralizza. 3) Questa organizzazione prende la forma di un sistema,
di un reticolo che costituisce una forma a partire dai materiali foni-
ci e semantici, e che possiede una realtà più vincolante di quella de-
gli elementi accessibili all’esperienza sensibile. Questo è il momento
saussuriano»5. Il “momento saussuriano” è quello in cui l’organizza-

3
Apparso come libro nel 1916 a cura degli allievi di Saussure, il Corso è noto-
riamente la trascrizione-combinazione di anni di insegnamento orale. Per tutte le
notizie storiche e critiche in proposito si vedrà l’edizione, divenuta un riferimento
internazionale, a cura di Tullio de Mauro, condotta tenendo conto dei materiali
manoscritti, F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1967. Traia-
mo le nostre citazioni dalla decima riedizione del 1994.
4
EMILE BENVENISTE, “Structure” en linguistique, in Problèmes de linguistique gé-
nérale, 1, Gallimard, Paris 1966, p. 92.
5
F. GADET, Saussure. Une science de la langue, Presses universitaires françaises,
Paris 1987, pp. 58-59.

99

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zione della lingua diventa un vero e proprio apriori, una condizione di


possibilità dei fenomeni empirici, una realtà capace di produrre que-
sti ultimi, e non solo una caratteristica tra le tante dei fatti linguistici.
In tal modo, l’autoimmanenza del Tutto che ogni lingua costituisce
(già compresa dai linguisti della seconda tappa), viene fatta riposare
su una serie di operazioni, di dispositivi interni alla struttura (in effetti
coincidenti con essa), di cui il sistema e le sue componenti sono un ef-
fetto. In altri termini, il “momento saussuriano” è quello in cui la lin-
gua come sistema può realmente fondarsi solo su se stessa in quanto il
sistema stesso è colto come effetto di una produzione regolata da leg-
gi, di un meccanismo generativo il cui risultato è la formazione della
sistematicità del sistema. Ciò ha una conseguenza immediata rispetto
al nesso tra il tutto e le parti nel sistema linguistico. Gli elementi della
lingua – che Saussure defi nisce segni – non possono essere compresi
separatamente: essi esistono in virtù delle relazioni che li connettono
al sistema, e solo queste relazioni permettono di definire le unità del
sistema-lingua. Definire una qualsiasi di tali unità, significa indicare
il suo posto entro il sistema. La struttura è l’ordine di queste relazioni,
cioè la condizione di possibilità tanto delle unità che del sistema: «Si
tratta dunque, una volta posta la lingua come sistema, di analizzarne
la struttura. Ogni sistema, essendo formato da unità che si condizio-
nano reciprocamente, si distingue da altri sistemi in virtù della con-
catenazione interna di queste unità, concatenazione che ne costituisce
la struttura»6. Dal punto di vista strutturale, i fatti linguistici quali si
presentano all’osservazione empirica (le varie lingue, il parlare comu-
ne, i testi, ecc.) hanno per condizione di possibilità il reticolo di dipen-
denze interne che fanno sì che tali fatti dipendano gli uni dagli altri e
tutti dal sistema complessivo.
Questo reticolo di relazioni da cui dipendono gli elementi e la loro
unità sistematica è la struttura. Poiché essa è ciò che fa esistere e rende
visibili i fenomeni linguistici, essa è definibile come la loro condizione
di possibilità, cioè il loro apriori. Insistiamo su di un punto: la struttu-
ra non è il sistema della lingua. La struttura è il reticolo di dipendenze,
di relazioni, interne al sistema: è ciò che fa essere sistema il sistema.
Ora, poiché gli elementi del sistema non esistono se non in funzione

6
E. BENVENISTE, op. cit., pp. 95-96.

100

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L’apriori nelle scienze umane

del sistema, la struttura, determinando il primo, determina simulta-


neamente anche i secondi. Se le parti prendono senso solo dal tutto, è
anche vero che il tutto non è nulla se non una disposizione ordinata di
parti. E l’ordine di questa disposizione, da cui dipende l’esistenza tan-
to delle parti che del tutto, tanto degli elementi che del sistema, non
è altro che la struttura. In altri termini, qui vediamo una dissoluzione
del dualismo rigido tra tutto e parti, antico problema fi losofico: nella
linguistica strutturale, il tutto e le parti si definiscono simultanea-
mente e in perfetta reciprocità – l’uno non è pensabile senza le altre.
Il tutto non si divide in parti, né le parti si combinano per formare il
tutto: le parti non esistono che in virtù della loro articolazione totale,
e il tutto non è che l’articolazione delle parti, i due sono originaria-
mente simmetrici e necessariamente legati. Si potrebbe dire che il tut-
to e le parti sono due modi di considerare la stessa realtà (la lingua),
ma a condizione di precisare che questi due modi sono inscindibili, e
che l’uno richiede necessariamente l’altro come una medaglia richiede
entrambe le sue facce, che pure restano inconfondibili. In tal modo, la
nozione di struttura spezza il circolo vizioso dell’opposizione tra ato-
mismo e olismo: il tutto non nasce dall’interazione di elementi la cui
identità sarebbe già data in modo indipendente, né d’altronde l’iden-
tità e l’autonomia del tutto è data d’emblée come una pienezza “orga-
nica”. Il tutto e gli elementi sono individuati come tali dalle relazio-
ni strutturali, che definiscono le operazioni di individuazione. Ciò è
stato formulato con chiarezza da Piaget: «Aldilà degli schemi di as-
sociazione atomistica e di quelli delle totalità emergenti, esiste una
terza posizione, che è quella degli strutturalismi operativi: è la posi-
zione che adotta sin dall’inizio un atteggiamento relazionale, secondo
il quale ciò che conta non è né l’elemento né un tutto che s’impone
senza che si possa precisare come, bensì le relazioni fra gli elementi o,
in altri termini, i procedimenti o processi di composizione […] il tutto
è solo la risultante di queste relazioni o composizioni»7.
Dopo l’esposizione astratta del rapporto tra la struttura a priori e i
fenomeni di cui essa è condizione, è necessario entrare più nel detta-
glio delle vedute di Saussure. In particolare, ci interessa la sua conce-
zione del segno, cioè dell’elemento-base del sistema linguistico; questa

7
J. PIAGET, op. cit., p. 40.

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concezione infatti mostra come il riferimento alla struttura possa scio-


gliere un altro crampo dualistico ereditato dalla tradizione filosofica.
Per Saussure il segno è unità di un significato e di un significante. Il si-
gnificato è definibile come concetto, “immagine mentale” (ad esempio
il concetto di albero); il significante è definibile come immagine acu-
stica, il che non significa il suono materiale della parola “albero”, ma
un’immagine psichica che corrisponde alla sequenza di suoni a-l-b-e-
r-o – dunque il significante è «il rappresentante psichico della mate-
rialità fonica»8. Per Saussure il segno è la combinazione del concetto
e dell’immagine acustica9, e questa “combinazione” è tale per cui tra
significato e significante c’è una perfetta reciprocità: una serie di suoni
non diventa un fenomeno linguistico a meno di essere il “supporto di
un’idea”; e un concetto non diventa a sua volta un fenomeno linguisti-
co se non attraverso l’associazione con immagini acustiche10. In altri
termini, il significante diventa significante solo se associato a un’idea,
cioè al significato – altrimenti è solo una sequenza materiale di suoni o
di immagini. E il significato diventa significato solo se associato al si-

8
JEAN-CLAUDE MILNER, Le périple structural, Seuil, Paris 2002, p. 28.
9
«Noi chiamiamo segno la combinazione del concetto e dell’immagine acusti-
ca» (F. DE SAUSSURE, op. cit., p. 85).
10
«L’entità linguistica non esiste che per la associazione del significante e del
significato […] appena si considera uno solo di questi elementi, essa svanisce; in-
vece d’un oggetto concreto ci si trova dinanzi una pura astrazione. In ogni mo-
mento si rischia di non percepire che una parte soltanto dell’entità credendo di
abbracciarla nella sua totalità […] Una sequenza di suoni è linguistica soltanto se
è il supporto di un’idea; presa in se stessa non è altro che materia di uno studio
fisiologico. La stessa cosa si ha col significato, se lo si separa dal suo significante.
Concetti come casa, bianco, vedere ecc., considerati in se stessi, appartengono alla
psicologia; essi diventano entità linguistiche soltanto per associazioni con imma-
gini acustiche; nella lingua un concetto è una qualità della sostanza fonica, così
come una determinata sonorità è una qualità del concetto» (Saussure, op. cit., p.
125). Saussure parla perlopiù di materialità sonora e di immagine acustica. Tutta-
via, egli afferma esplicitamente che le cose non cambiano per la lingua scritta: in
essa si ha comunque un concetto associato a un’immagine psichica, che nel caso
specifico non rappresenta dei suoni ma dei fregi tracciati su una superficie: il si-
gnificante del segno scritto sarebbe immagine visiva, e non acustica. Ciò che im-
porta è che i due lati del segno sono inseparabili: l’uno è una “qualità”, un “attri-
buto”, dell’altro, cioè l’altro gli fa da sostrato, da supporto. Il segno come “oggetto
concreto” non esiste all’infuori di questo legame.

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L’apriori nelle scienze umane

gnificante, cioè a un’immagine acustica – altrimenti è solo una rappre-


sentazione mentale. Nessuno dei due lati del segno può esistere senza
l’altro: come per il tutto e le parti, il significante e il significato sono
perfettamente reciproci – l’uno e l’altro sono solo un aspetto parziale
della medesima realtà. Così come era la struttura a distinguere e a un
tempo unire gli elementi e il sistema come lati di un solo fenomeno di
cui uno implica necessariamente l’altro, allo stesso modo è la struttura
a determinare simultaneamente l’unità e la distinzione del significato e
del significante all’interno dell’unica realtà chiamata segno11.
Questa tesi – che costituisce la mossa d’apertura del discorso di
Saussure – implica diverse conseguenze. Innanzitutto, dopo il duali-
smo tutto-parti, essa elimina dallo studio della lingua un’altra venera-
bile e sclerotizzata dicotomia filosofica: quella tra linguaggio e realtà.
La fi losofia del linguaggio ha fin dall’antichità opposto la parola e la
cosa per poi chiedersi quale tipo di rapporto legasse le due – necessa-
rio e naturale o arbitrario e convenzionale. Saussure respinge esplici-
tamente questo modo di impostare il problema: si può dire che con lui
lo studio linguistico entra in un’altra problematica, diversa da quella
definita dal rapporto linguaggio-realtà. La pertinenza stessa di questo
rapporto è esclusa. La lingua non è mai considerata in rapporto alla
realtà, ma a partire dal legame tra significato e significante, che sono
ben altro che i vecchi oggetti “parola” e “cosa” con un nuovo nome.
Il legame tra significato e significante non contiene riferimenti alla
realtà, ma è interamente interno alla lingua, cioè dipende dalla strut-
tura che organizza la lingua in sistema. Al contrario, l’idea tradizio-
nale consiste nel porre all’inizio un mondo di cose già costituite, cui
si tratta poi di associare dei termini linguistici – da cui la domanda,
di fatto irrisolvibile: questa associazione è puramente convenzionale o
obbedisce a qualche necessità intelligibile? Per Saussure, al contrario,
ogni rapporto con la realtà nel senso suddetto va eliminato dalla con-
siderazione della lingua: a esso, va sostituito il rapporto tra significato

11
Come osserva Tullio de Mauro nelle ricche note di commento al Cours, «Per
Saussure non vi è significante là dove non vi è significato, non vi è significante se
non come recto d’un verso semantico, e le “unità irriducibili” non hanno signi-
ficato, non sono segni, ma elementi costitutivi di un segno» (F. DE SAUSSURE, op.
cit., p. 419).

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e significante, che è puramente intralinguistico. In tal modo, la lingua


diventa un’entità immanente a se stessa, che non trae la propria logica
da altro che dalla propria organizzazione e dalle leggi di quest’ultima.
Vi è in ciò una diretta polemica contro la linguistica dei “fi losofi” –
Saussure critica la concezione tradizionale della lingua come nomen-
clatura, cioè come lista di termini che corrispondono ad altrettante
cose: «Per certe persone la lingua, ricondotta al suo principio essen-
ziale, è una nomenclatura, vale a dire una lista di termini corrispon-
denti ad altrettante cose […] Questa concezione è criticabile per molti
aspetti. Essa suppone delle idee già fatte preesistenti alle parole […]
non ci dice se il nome è di natura vocale o psichica […] infine lascia
supporre che il legame che unisce un nome a una cosa sia un’opera-
zione del tutto semplice […] Il segno linguistico unisce non una cosa e
un nome, ma un concetto e un’immagine acustica»12. Il concetto viene
ripreso e sviluppato in alcuni brani delle fonti manoscritte tradotti da
T. de Mauro nelle sue note al Cours: «Il problema della lingua si pone
alla maggior parte degli spiriti sotto forma di una nomenclatura […]
La maggior parte delle concezioni che si fanno, o per lo meno che i
fi losofi ci offrono del linguaggio fanno pensare al nostro progenitore
Adamo che chiamava a sé gli animali e a ciascuno dava il nome. Tre
cose sono invariabilmente assenti dai documenti che un fi losofo crede
esser quelli del linguaggio: […] Anzitutto questa verità su cui nemme-
no insistiamo, che il fondo del linguaggio non è costituito da nomi. È
un accidente quando si trova che il segno linguistico corrisponde a un
oggetto definito dai sensi […] Quale che sia l’importanza di questo
caso, non c’è alcuna ragione evidente, tutt’altro, di prenderlo come
tipo del linguaggio […] Prima di tutto l’oggetto, poi il segno; dunque
(ciò che negheremo sempre) base esteriore data al segno, e figurazione
del linguaggio con questo rapporto:

∗⎯a
Oggetti ∗⎯b Nomi
∗⎯c

12
F. DE SAUSSURE, op. cit., pp. 83-84.

104

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L’apriori nelle scienze umane

mentre la vera raffigurazione è:

a ⎯ b ⎯c

fuori d’ogni conoscenza d’un rapporto effettivo come ∗ ⎯ a fondato


su un oggetto. Se un oggetto potesse, dove ciò fosse possibile, essere il
termine su cui è fondato il segno la linguistica cesserebbe all’istante di
essere quello che è […] è dannoso certamente che si cominci col me-
scolarvi questo dato degli oggetti designati i quali non vi hanno parte
alcuna»13. Si vede come la critica di Saussure sia una vera e propria cri-
tica a quella che lui chiama la concezione filosofica del linguaggio. Tale
concezione consisterebbe nel fondare il significato dei segni sul loro rap-
porto con oggetti esterni al linguaggio stesso, per poi postulare un atto
di legislazione alla base del congiungimento tra oggetti e nomi. Questo
atto misterioso è necessario per superare il dualismo conseguente al
postulato di due realtà già costituite senza rapporto reciproco, e che si
tratta poi di riunificate: i segni e le cose. La tesi di Saussure è che tale
ricorso a un atto di dominazione originario e mitologico sia superfluo,
in quanto i segni non si associano alle cose, ma tra loro, e solo attraver-
so ciò, attraverso la loro articolazione in un sistema strutturato, offro-
no l’accesso al mondo extralinguistico. Oswald Ducrot ha insistito sul
modo in cui questa posizione separi Saussure tanto dalla linguistica di
Port-Royal che dalla sua ripresa chomskyana, in cui la lingua è suppo-
sta rispecchiare una legalità trascendente, una Ragione extralinguistica
che le lingue reali rifletterebbero in modo più o meno adeguato: «Fino
alla fine del XIX secolo, i filologi sono d’accordo nel definire la lingua
come espressione del pensiero […] pare assodato che la frase fornisca, o
intenda fornire, una certa immagine di un’idea, che la rappresenti […]
Secondo questa prospettiva, l’organizzazione interna della lingua fini-
sce per ridursi a un calco – più o meno fedele – di una realtà logica o
psicologica […] Questo tema è esplicito nelle “grammatiche generali”
del XVIII secolo, che spiegano, dopo Port-Royal, come la costruzione
della frase imiti l’ordine necessario del pensiero»14. Ciò significa che la

13
F. DE SAUSSURE, op. cit., pp. 409-410.
14
O. DUCROT, Le structuralisme en linguistique, Seuil, Paris 1968 (come parte
dell’op. cit. Qu’est-ce que le structuralisme?), pp. 18-19 dell’edizione separata.

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positività degli ordini delle lingue non può venire tematizzata, e che
la lingua stessa, nella pluralità delle sue realtà, non riesce a diventare
un oggetto proprio: «Posto di fronte a configurazioni linguistiche che
gli paiono deviare dalla realtà intellettuale, il filosofo del XVIII secolo
rifiuta di prenderle come oggetto di studio […] Invece di cercare nella
diversità delle configurazioni delle costanti, delle regolarità […] egli le
riduce […] al solo ordine esistente, quello della ragione»15.
Poiché questa autonomizzazione della lingua – non più riflesso del-
la realtà esteriore ma oggetto dotato di un’organizzazione e di un fun-
zionamento propri – dipende dal legame tra significato e significante,
bisogna cercare di capire come avvenga questo legame. Ancora una
volta, è la struttura l’operatore che consente di unire sinteticamente
un’immagine acustica a un concetto. Questa sintesi non è però facile
da pensare. Abbiamo visto che ogni elemento della lingua è determi-
nato dalla propria articolazione con tutti gli altri elementi; ora sem-
bra invece che l’elemento della lingua, cioè il segno, sia determinato
dall’unità tra un certo significante e un certo significato. Ambedue le
tesi sono vere, ma si tratta di concepirne il rapporto – come si passa
dalla struttura (cioè dall’articolazione tra elementi) all’associazione di
un significato a un significante? Infatti, nel sistema della lingua, ogni
immagine acustica o grafica (ogni significante) è determinato dai suoi
rapporti con tutti gli altri significanti; e ogni concetto, cioè ogni signi-
ficato, dal suo rapporto con tutti gli altri significati. Ciascun elemento
appartiene a una serie di elementi della propria “specie”, ed è ciò che
è solo in virtù dei rapporti tra tutti questi elementi. Si tratta per Saus-

15
Ivi, p. 21. Ducrot ricorda come le cose inizino a cambiare già nelle teorie di
Wilhelm von Humboldt: «Humboldt si guarda bene dal dire […] che l’ordine
delle parole rappresenta quello dei pensieri […] L’importante, nella sua prospetti-
va, è che vi sia una regola, quale che sia […], in grado di fissare la situazione di cia-
scun termine in funzione di quella degli altri» (p. 30). Quindi, «le regolarità sco-
perte in ciascuna lingua sono […] largamente arbitrarie […] tecniche grazie alle
quali viene figurata l’unificazione del sensibile nell’esperienza […] Non si tratta
per Humboldt di trovare un tipo determinato di costruzione comune a tutte le
lingue e che rifletterebbe la forma immutabile del giudizio. Secondo lui, la ragio-
ne universale può esprimersi, non malgrado, ma entro, la specificità linguistica»
(p. 32), cosicché si trova in lui «l’affermazione, estranea al pensiero di Port-Royal,
di un’organizzazione linguistica autonoma» (p. 32).

106

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L’apriori nelle scienze umane

sure di passare dai rapporti interni a ciascuna serie all’associazione di


un elemento dell’una a un elemento dell’altra (associazione che, come
già detto, dà luogo al segno). È la struttura della lingua che, articolan-
do i vari elementi di ciascuna serie, li associa simultaneamente a quelli
dell’altra: i due tipi di rapporto (significante-significante e significante-
significato) sono messi in atto con un unico e medesimo movimento
da parte di quel sistema di distinzioni e articolazioni che è la struttura
della lingua. In altri termini, è solo nel sistema totale di una lingua che
un’associazione qualunque tra un’immagine e un concetto può attuar-
si, e ogni associazione è decisa dai rapporti sistematici che vigono nella
totalità della lingua.
Un esempio chiarirà meglio questo aspetto16. La lingua francese co-
nosce una distinzione tra fleuve e rivière: fleuve è il corso d’acqua che
si getta in mare, rivière il corso d’acqua che si getta in un’altra rivière.
Questa distinzione è ignota all’inglese, in cui river e stream si oppon-
gono in base a una differenza di dimensioni. Ora, con ciò è facilmente
visibile come le distinzioni linguistiche dipendano unicamente dalla
struttura peculiare a una data lingua, e non dalla “natura delle cose”
né da una necessità logica che imporrebbe come obbligatorie deter-
minate distinzioni: i fiumi come oggetti materiali non contengono al-
cuna ragione perché sia preferibili classificarli in “grandi o piccoli”
piuttosto che in “gettantisi in mare o gettantisi in un altro fiume”; né
si può dire che una di queste due distinzioni risponda più dell’altra
a presunte leggi del pensiero, logiche o psicologiche che siano. È la
struttura del sistema proprio alla lingua francese a produrre la pri-
ma, così come la struttura della lingua inglese a produrre la seconda.
Questa azione della struttura, lo si vede agevolmente, agisce tanto sul
significato che sul significante, e ciò in modo simultaneo. Restringen-
do il nostro campo al francese, vediamo che a una distinzione tra idee
corrisponde necessariamente una distinzione tra immagini acustiche
(o grafiche – è lo stesso). Questa corrispondenza non è nulla di estrin-
seco. Lo si dimostra con un esperimento mentale elementare: ponia-
mo che, per ragioni legate alla contingenza storica, il francese giunga
a disporre di un solo termine per indicare i corsi d’acqua, fleuve ad
esempio. In questo caso, il significante fleuve erediterà il significato di

16
Lo riprendiamo dall’opera citata di Françoise Gadet.

107

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rivière, significante scomparso: o meglio, il significato di fleuve conter-


rà tutte le distinzioni precedentemente distribuite su più significanti,
e non ci sarà più modo di praticare linguisticamente queste distinzio-
ni. In altri termini, laddove il sistema non è più in grado di produrre
una differenza tra significanti, esso non può nemmeno più differen-
ziare i significati corrispondenti; viceversa, l’apparizione di un nuovo
significante rielaborerà il sistema dei significati preesistenti. In ogni
caso, a un mutamento nell’ordine del significante corrisponde sempre
un mutamento nell’ordine del significato17.
La relazione tra significante e significato è resa di difficile compren-
sione da un’apparente antinomia: essa è infatti, come abbiamo visto,
necessaria; pure, Saussure insiste sul fatto che significante e significato
non abbiano nulla in comune e che la loro associazione sia arbitraria:
«Il legame che unisce il significante al significato è arbitrario, o ancora,
poiché intendiamo con segno il totale risultante dall’associazione di un
significante a un significato, possiamo dire più semplicemente: il segno
linguistico è arbitrario. Così l’idea di “sorella” non è legata da alcun
rapporto interno alla sequenza di suoni s-ö-r che le serve in francese
da significante; potrebbe anche esser rappresentata da una qualunque
altra sequenza»18. Si noti che la tesi dell’arbitrarietà non va confusa
con una semplice tesi convenzionalistica. Questa infatti riguarderebbe
l’assenza di un legame naturale tra il segno e la realtà, e rientrerebbe
pertanto nella problematica della linguistica filosofica di cui Saussure

17
Di nuovo il tema è sviluppato nelle fonti manoscritte: «Ciò che davvero è ca-
ratteristico sono gli innumerevoli casi in cui è l’alterazione del segno che cambia
l’idea stessa e in cui si vede di colpo che non c’era nessuna differenza, di momento
in momento, tra la somma delle idee distinte e la somma dei segni distintivi. Due
segni, per alterazione fonetica, si confondono: l’idea, in una misura determinata
(determinata dall’insieme di altri elementi) si confonderà. Un segno si differen-
zia attraverso lo stesso processo cieco: infallibilmente si collega un senso a que-
sta differenza che è appena nata […] constatiamo subito la totale insipienza d’un
punto di vista che parte dalla relazione di una idea e d’un segno fuori del tempo,
fuori della trasmissione, che soltanto ci insegna, sperimentalmente, ciò che vale
il segno» (F. DE SAUSSURE, op. cit., p. 411). Per comprendere questo passo, bisogna
osservare che la terminologia di Saussure è talvolta oscillante: qui “idea” e “se-
gno” stanno rispettivamente per “significato” e “significante”, secondo l’uso poi
fissatosi definitivamente.
18
F. DE SAUSSURE, op. cit., pp. 85-86.

108

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L’apriori nelle scienze umane

vuole dissolvere le antinomie. Ciò è stato ben colto da de Mauro: «La


convenzionalità implica necessariamente una concezione del significa-
to e del significante come due dati sui quali opera secondariamente la
convenzione umana per associarli. In altri termini […] il convenzio-
nalismo non lede la concezione della lingua come nomenclatura»19.
Come nel caso della critica alla lingua-nomenclatura, Saussure si op-
pone al ricorso di un atto mentale che farebbe da trait d’union tra segni
e cose: «La parola arbitrarietà (non deve dare l’idea che il significan-
te dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante […] noi vogliamo
dire che è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato,
col quale non ha nella realtà alcun aggancio naturale»20. Saussure po-
lemizza dunque con la visione “filosofica” perché in essa vede la po-
stulazione di un soggetto autonomo, autocentrato e autotrasparente,
capace di conferire i significati alle cose con un atto di volontà. Questo
soggetto creatore rappresenta la razionalizzazione del dualismo segni-
cose, e vive parassitariamente del suo irrigidirsi. Ciò cui mira Saussure
è sostituire la struttura al soggetto come operatore della produzione dei
significati e quindi della possibilità stessa di un’esperienza coerente.
L’arbitrarietà è insomma una relazione tra significato e significante –
essa indica la non-somiglianza tra i due termini, che sono pertanto as-
sociati non da qualche proprietà che ciascuno di essi possiederebbe,
ma dall’effetto del sistema strutturato21. Ciò può essere reso più chiaro
da un esempio. Prendiamo un foglio di carta; su ognuno dei due lati
disegniamo una figura in modo tale che nessuna delle due figure so-
migli all’altra quanto al contenuto e alla forma. Dopodiché, tagliamo
a pezzi il foglio. Ovviamente, entrambe le figure, ciascuna su un lato
diverso, risulteranno tagliate a pezzi. Su ciascun pezzo vi saranno dei
segmenti di disegno su entrambi i lati: il frammento su di un lato non
avrà nessuna somiglianza con quello sull’altro lato, ma sarà a esso asso-
ciato per il semplice fatto della segmentazione del foglio. In tal modo,
vi sarà un’associazione tra due elementi, ciascuno componente un di-

19
Ivi, p. 413.
20
Ivi, p. 87.
21
Il rifiuto di una somiglianza naturale tra i due lati del segno è cruciale nella
strategia saussuriana. La tesi di una tale somiglianza dipende ancora una volta
dalla visione “fi losofica” del linguaggio.

109

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segno differente, determinata unicamente dal “taglio” compiuto sul


foglio. I due disegni corrispondono alla materia fonica o grafica – che
la struttura segmenta in significanti – e a quella dei concetti – che la
struttura segmenta in significati. A questa doppia segmentazione cor-
risponde – necessariamente e simultaneamente – un’associazione dei
segmenti che essa produce nelle due serie, fonica e psichica. Dunque è
chiaro perché si possa affermare che significato e significante, pur non
avendo alcun legame naturale, pure formano un’unità nella totalità del
segno: questa unità è un puro effetto della struttura che costituisce il
suono e il senso in segmenti e li associa in unità significative22. Con ciò,
si chiarisce il legame tra i rapporti che uniscono i segmenti di ciascuna
serie, da un lato, e, dall’altro, quello tra un segmento di una serie e il
segmento corrispondente di un’altra. Torniamo all’analogia del foglio
con i due disegni: ogni segmento di ciascun disegno avrà una posi-
zione nel sistema di tutti i segmenti, cioè nel disegno completo, e da
questa posizione esso riceverà la sua forma – vale a dire che la forma
di ciascun segmento è determinata dai suoi rapporti con gli altri seg-
menti. In pari tempo, è in virtù di questa posizione stessa che ogni seg-

22
Così si esprime Saussure su questo punto capitale: «Psicologicamente, fatta
astrazione dalla sua espressione in parole, il nostro pensiero non è che una massa
amorfa e indistinta […] Preso in sé stesso, il pensiero è come una nebulosa in cui
niente è necessariamente delimitato. Non vi sono idee prestabilite, e niente è di-
stinto prima dell’apparizione della lingua […] Di fronte a questo reame fluttuan-
te, i suoni offrono forse di per se stessi delle entità circoscritte in anticipo? Niente
affatto. La sostanza fonica non è né più fissa né più rigida; non è un calco di cui
il pensiero debba necessariamente sposare le forme, ma una materia plastica che
si divide a sua volta in parti distinte per fornire i significanti di cui il pensiero ha
bisogno. Noi possiamo dunque rappresentarci il fatto linguistico nel suo insieme,
e cioè possiamo rappresentarci la lingua, come una serie di suddivisioni contigue
proiettate, nel medesimo tempo, sia sul piano indefinito delle idee confuse (A) sia
su quello non meno indeterminato dei suoni (B) […] Il ruolo caratteristico della
lingua di fronte al pensiero non è creare un mezzo fisico materiale per l’espressio-
ne delle idee, ma servire da intermediario tra pensiero e suono, in condizioni tali
che la loro unione sbocchi necessariamente in delimitazioni reciproche di unità
[…] Non vi è dunque né materializzazione dei pensieri, né spiritualizzazione dei
suoni, ma si tratta del fatto […] per cui il “pensiero-suono” implica divisioni e
per cui la lingua elabora le sue unità costituendosi tra due masse amorfe» (F. DE
SAUSSURE, op. cit., p. 137).

110

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mento di un disegno sarà associato a un segmento dell’altro disegno,


esso pure determinato ad avere una certa forma dagli altri “pezzi” di
disegno che lo delimitano. Ciò avviene in virtù della segmentazione
simultanea delle due serie, un’operazione che è realizzata dalla strut-
tura – o meglio, è la struttura stessa in atto, in quanto l’unica realtà
della struttura consiste nell’ordine delle differenze e delle relazioni
che organizzano il sistema 23. Da ciò deriva una conseguenza capitale:
il legame tra significato e significante è arbitrario solo in quanto non vi
sono tra i due somiglianze “naturali” – esso è però necessario rispetto
alla struttura. Dunque, il segno non è arbitrario rispetto al sistema dei
rapporti che lo istituiscono come segno; di questo sistema esso è anzi
una manifestazione necessaria. Potremmo dire che, se la relazione di
arbitrarietà (rispetto alla realtà extralinguistica e al nesso significante-
significato) qualifica la natura simbolica del segno, la relazione di ne-
cessità (rispetto al sistema e ai rapporti strutturali che lo determinano)
qualifica ciascun segno piuttosto come sintomo: è infatti possibile con-
siderare tutte le possibili modalità di rapporto tra segno e designato
come casi intermedi tra due modalità estreme: «la “sintomatologica”,
in cui il segno è causalmente connesso con il suo designato; e la “sim-
bolica”, in cui ciò non avviene affatto»24.

23
La sistematicità invocata da Saussure nella considerazione della lingua gli
è valsa una serie di accuse di “platonismo” (chissà poi perché debba essere così
infamante il platonismo?), di razionalismo astratto incapace di cogliere il dive-
nire storico della lingua, ridotta anzi a un reticolo immobile di rapporti astratti.
In realtà, queste accuse non hanno molto peso. L’arbitrarietà del segno, cioè la
dipendenza dalla struttura, è la condizione stessa della pensabilità di una storia
dei fenomeni di lingua. Ciò è stato ben colto da de Mauro: «Il segno linguistico è
arbitrario radicalmente, in entrambe le sue componenti, significato e significante;
di conseguenza la sola ragione che determini la particolare configurazione di un
significante o di un significato è il fatto che così e non diversamente lo delimitano
gli altri significanti o significati coesistenti con esso nel medesimo sistema […] ciò
significa che tutto il valore di un segno dipende, attraverso il sistema, dalla società
che tiene in vita in quel certo modo il complesso del sistema, e, quindi, dalle vi-
cende storiche della società […] sicché il valore linguistico è radicalmente sociale
e radicalmente storico» (F. DE SAUSSURE, op. cit., p. 424).
24
E. MELANDRI, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, il Muli-
no, Bologna 1968; Quodlibet, Macerata 2002, p. 57. Emile Benveniste ha d’altron-
de sottolineato come l’arbitrarietà del rapporto tra significante e significato sollevi

111

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A questo punto è possibile vedere un po’ più nel dettaglio come fun-
zionano le associazioni tra segmenti. Su questo punto, la dottrina saus-
suriana è molto complessa. Noi non ci occuperemo che degli aspetti
inerenti il problema dell’apriori, cioè del rapporto tra la struttura e le
entità che essa rende possibili.
Le combinazioni di segni si differenziano in rapporti sintagmatici
e rapporti associativi: «Il sintagma dunque si compone sempre di due
o più unità consecutive (per esempio: re-lire; contre tous; la vie humai-
ne; Dieu est bon; s’il fait beau temps, nous sortirons ecc.). Posto in un
sintagma, un termine acquisisce il suo valore solo perché è opposto a
quello che precede o a quello che segue ovvero a entrambi»25. Natura
diversa hanno i rapporti associativi: «La parola enseignement farà sor-
gere inconsciamente nello spirito una folla d’altre parole (enseigner,
renseigner ecc., oppure armement, changement ecc., o ancora éduca-
tion, apprentissage ecc); per qualche aspetto, tutti hanno qualche cosa
di comune tra loro. Ognuno vede che queste coordinazioni sono d’una
specie affatto diversa rispetto alle prime. Esse non hanno per suppor-
to l’estensione; la loro sede è nel cervello; esse fanno parte di quel te-
soro interiore che costituisce la lingua in ciascun individuo. Noi le
chiameremo rapporti associativi»26. Saussure illustra il rapporto tra i
due tipi di rapporto con un’analogia di grande interesse: «Da questo
duplice punto di vista, una unità linguistica è comparabile a una parte
determinata di un edificio, ad esempio una colonna; questa si trova da
un canto in un certo rapporto con l’architrave che sorregge; tale orga-
nizzazione delle due unità egualmente presenti nello spazio fa pensa-
re al rapporto sintagmatico; d’altra parte, se questa colonna è d’ordine
dorico, essa evoca il confronto mentale con altri ordini (ionico, corin-

molti problemi – da quanto precede, risulta chiaramente che non può esistere un
significato autonomo rispetto ai significanti di cui dispone una lingua. Quindi,
l’associazione di un significato e di un significante in un segno è necessariamen-
te determinata dal sistema della lingua, dunque dalla struttura. L’arbitrarietà si
riduce allora a una tesi molto precisa: l’associazione dei due lati del segno non
dipende da una loro affi nità naturale, ma dall’operazione di doppia segmentazio-
ne attuata dalla struttura, in cui la struttura stessa si risolve. Il risultato di questa
operazione è dunque sintomo della struttura.
25
F. DE SAUSSURE, op. cit., p. 149.
26
Ivi, p. 150.

112

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L’apriori nelle scienze umane

zio, ecc.), che sono elementi non presenti nello spazio: il rapporto è
associativo»27. Con la teoria dei rapporti associativi, ci troviamo al
cuore della teoria saussuriana, e quindi anche del problema dell’aprio-
ricità della struttura. Innanzitutto, si deve osservare il primato siste-
matico attribuito ai rapporti associativi rispetto a quelli sintagmatici:
i segni combinati nei sintagmi devono essere innanzitutto selezionati
a livello delle associazioni che li definiscono. Ogni segno che appare
in una catena sintagmatica vi appare “al posto di” tutti gli altri segni
astrattamente possibili e a esso associati. Per restare all’esempio saus-
suriano, in un sintagma in cui compaia enseignement, questo segno vi
compare a esclusione di tutti gli altri segni che hanno con lui qualcosa
in comune e che “fluttuano” attorno a lui; nondimeno, questi segni
esclusi, continuano a “fluttuare” attorno a enseignement, dimodoché il
significato dell’unico segno attualizzato sia determinato da un “intor-
no” di segni virtuali. Vi sono due celebri analogie saussuriane che aiu-
tano a comprendere questo meccanismo: quella scacchistica 28 e quella
ferroviaria. Il percorso di un treno, quale registrato sull’orario ferro-
viario, non è determinato solo dalle stazioni in cui esso effettivamente
ferma (che sarebbe il “sintagma” ferroviario), ma anche dai rapporti
differenziali con tutti gli altri treni, differenti tra loro per orario, tra-
gitto, binario, ecc. L’analogia scacchistica è forse più calzante: nel cor-
so della partita, un singolo pezzo può essere utilizzato in diverse mos-
se, la cui successione costituirà una serie sintagmatica. Queste mosse
sono decise dal giocatore con una certa libertà, e dipendono dall’an-
damento complessivo della partita. In questo, sono paragonabili alle
attualizzazioni dei segni nel contesto del commercio linguistico ordi-
nario. Ma, proprio come per i segni, la libertà di cui dispone un pezzo
non è assoluta: al contrario, essa è determinata dai suoi rapporti con

27
Ibidem.
28
«Di tutti i paragoni che potrebbero immaginarsi, il più dimostrativo è quel-
lo che potrebbe stabilirsi tra il gioco della lingua e una partita a scacchi. Da una
parte e dall’altra, si è in presenza di un sistema di valori e si assiste alle loro mo-
dificazioni. Una partita a scacchi è come una realizzazione artificiale di ciò che
la lingua ci presenta in forma naturale […] Il valore rispettivo dei pezzi dipende
dalla loro posizione sulla scacchiera, allo stesso modo che nella lingua ogni ter-
mine ha il suo valore per l’opposizione con tutti gli altri termini» (F. DE SAUSSURE,
op. cit., pp. 107-108).

113

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tutti gli altri pezzi. Così, una torre potrà trovarsi in un certo numero
di posizioni non interamente predeterminate (a differenza, o almeno
così si spera, del percorso di un treno) e la cui attualizzazione si deci-
de di volta in volta a livello del contesto, cioè della partita; ma questo
insieme di posizioni possibili sarà defi nito differenzialmente rispetto
alle possibili posizioni, poniamo, del cavallo: tra le mosse possibili
con una torre non vi sono quelle possibili solo al cavallo, e viceversa.
In breve, a livello sia sintagmatico che associativo, i segni sono deter-
minati da tutti gli altri segni che essi stessi non sono: «Nella lingua, tut-
to si risolve in differenze»29. Un segno dunque non ha alcuna sostan-
za, la sua identità non è atomica, perché nessun segno è definibile e
individuabile aldifuori dei rapporti sistematici che lo uniscono e lo
oppongono a tutti gli altri in seno al sistema. Un’unità linguistica è
pertanto un fascio di rinvii ad altre unità, a tutte le entità della lingua
cui esso rimanda per qualche motivo. I rinvii possono defi nire delle
solidarietà sintagmatiche: «Quasi tutte le unità della lingua dipendono
sia da ciò che le circonda nella catena parlata, sia dalle parti successive
di cui esse stesse si compongono»30. Ma, per analizzare le parti del
sintagma, occorre prendere in conto le coordinazioni associative: «Si
osservi il composto dé-faire. Possiamo rappresentarlo su un nastro
orizzontale corrispondente alla catena parlata: dé-faire →. Ma simulta-
neamente, e su un altro asse, esistono nel subcosciente una o più serie
associative comprendenti delle unità che hanno un elemento comune
col sintagma, per esempio: décoller, déplacer, découdre, ecc., oppure
faire, refaire, contrefaire, ecc. Egualmente, se il latino quadruplex è un
sintagma, lo è perché anch’esso poggia su due serie associative: qua-
drupes, quadrifons, quadraginta, ecc., e simplex, triplex, centuplex, ecc.
Soltanto nella misura in cui le altre forme fluttuano intorno a défaire
o a quadruplex queste due parole possono venir decomposte in sotto-
unità, vale a dire sono sintagmi. Ad esempio défaire sarebbe in analiz-
zabile se le altre forme contenenti dé- o faire sparissero dalla lingua;
non sarebbe più che un’unità semplice e le sue due parti non sarebbe-
ro più opponibili l’una all’altra. Dato ciò, si comprende il gioco di
questo doppio sistema nel discorso. La nostra memoria tiene in riser-

29
Ivi, p. 155.
30
Ivi, p. 154.

114

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L’apriori nelle scienze umane

va tutti i tipi di sintagmi più o meno complessi, di qualsiasi specie o


estensione, e al momento di impiegarli facciamo intervenire i gruppi
associativi per fissare la nostra scelta. Quando qualcuno dice mar-
chons! costui pensa inconsciamente a diversi gruppi di associazioni
alla cui intersezione il sintagma marchons! È reperibile. Esso figura
infatti da una parte nella serie marche!, marchez! ed è l’opposizione di
marchons! con queste forme che determina la scelta; d’altra parte,
marchons! evoca la serie montons!, mangeons!, ecc., nel cui ambito è
scelto con lo stesso procedimento; in ciascuna serie si sa che cosa oc-
corre far variare per ottenere la differenziazione propria all’unità cer-
cata. Se si cambia l’idea da esprimere, altre opposizioni saranno ne-
cessarie per fare apparire un altro valore; si dirà per esempio marchez!
Oppure montons! Così non basta dire […] che si sceglie marchons!
perché significa ciò che si vuole esprimere. In realtà l’idea richiama
non una forma, ma tutto un sistema latente, grazie al quale si ottengo-
no le opposizioni necessarie alla costituzione del segno. Questo, per
se stesso, non avrebbe nessuna significazione intrinseca. Il giorno in
cui non vi fossero più marche! marchez! di fronte a marchons! certe
opposizioni cadrebbero e il valore di marchons! cambierebbe ipso
facto»31. Con questa lunga citazione, che riassume molto di quanto sia-
mo andati dicendo fin qui, possiamo avviarci a concludere. L’interse-
zione tra i due assi (sintagmatico e associativo) è la logica stessa che
governa i rapporti sistematici della lingua, è l’ordine che organizza
quest’ultima. È pertanto la struttura stessa. Ma il rapporto tra questi
31
Ivi, p. 157 In questa sede Saussure chiarisce che il sistema dei rapporti dif-
ferenziali si estende ben oltre il piano delle unità linguistiche del livello della
parola, per investire ogni possibile entità della lingua: «Questo procedimento
di fissazione e di scelta regge le unità più piccole e perfino gli elementi fonolo-
gici […] Se per esempio in greco m, p, t ecc. non possono mai figurare alla fi ne
di una parola, ciò vale a dire che la loro presenza o la loro assenza in una data
posizione conta nella struttura della parola e in quella della frase. Ora, in tutti
i casi del genere, il suono isolato, come tutte le altre unità, sarà scelto in seguito
a una opposizione mentale doppia: così nel gruppo immaginario anma, il suono
m è in opposizione sintagmatica con quelli che lo circondano e in opposizione
associativa con tutti quelli che lo spirito può suggerire» (F. DE SAUSSURE, op. cit.,
pp. 157-158). Non vi è quindi nulla, nella lingua, che possa darsi aldifuori di un
tessuto di relazioni: non vi sono cioè entità atomiche e isolate, la cui identità pos-
sa defi nirsi indipendentemente.

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due assi rivela una nuova caratteristica dell’apriori strutturale: il suo


essere il punto di passaggio, il limite, tra il pensiero cosciente e quello
inconscio. I rapporti sintagmatici attualizzano un sistema di rapporti
che resta inespresso ma attivo, e che determina i fenomeni linguistici
presenti all’osservazione empirica. Si comprende allora in che senso il
singolo segno sia sintomo del campo di rapporti cui appartiene: un
fenomeno linguistico è come l’affioramento in superficie di una for-
mazione geologica che si estende, invisibile, nel sottosuolo – la parte
invisibile determina l’aspetto e la composizione di quella visibile, e in
pari tempo resta nascosta, costantemente dislocata su di un altro pia-
no, inaccessibile allo sguardo che si arresta all’immediatezza della su-
perficie. Questa particolare relazione tra il visibile e l’invisibile, tra il
fenomeno accessibile alla coscienza e la produttività inconscia che lo
forma, non è esclusiva di Saussure: è un modello presente in molte im-
prese di pensiero fiorite tra Ottocento e Novecento, dalla Naturphilo-
sophie romantica a Darwin, da Marx a Nietzsche a Freud, quali che
siano poi i diversi sviluppi che in tutti questi casi il tema ha ricevuto.
In ogni caso, si tratta per tutti di rimettere in discussione il primato
della coscienza “desta”, “diurna”, padrona di se stessa e autocentrata,
in favore della produttività anonima e inconscia del pensiero32. Ogni
uso attuale del linguaggio presuppone la presenza virtuale del sistema
intero dei rapporti interni alla lingua, la cui totalità resta inconscia;
essa determina il valore e il significato dei segni attualizzati nell’atto
linguistico, il quale, dal canto suo, “fa passare” una parte di questa
totalità sul piano dell’utilizzazione cosciente. Si vede dunque come
l’apriori strutturale sia un apriori inconscio, ma la cui dinamica intrin-
seca consiste nel prolungarsi sul piano cosciente, nell’attualizzare la
totalità virtuale dei rinvii da cui ciascun segno viene individuato. C’è
dunque una continuità tra il conscio e l’inconscio, la cui interfaccia è
la combinazione sintagmatica in quanto “soglia” tra i mutevoli conte-
sti in cui si utilizza il linguaggio e la struttura associativa che determi-
na l’identità dei segni. In virtù di questa continuità è allora pensabile
una certa circolarità, che permette alle sequenze infinite degli usi di

32
Mi permetto, in proposito, di rimandare alla mia voce Archeologia, nel vol.
I dell’Enciclopedia Filosofica Bompiani, diretta da Virgilio Melchiorre e Massi-
mo Marassi.

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L’apriori nelle scienze umane

modificare la struttura da cui dipendono. A Saussure è stato spesso


rimproverato un rigido antistoricismo, conseguente a una presunta
staticità della struttura. Per quanto oggi siano meno certe di un tempo
le buone ragioni dello storicismo, resta il problema di sapere se Saus-
sure sia in grado di pensare il mutamento linguistico, o se l’apriori
strutturale non si collochi a un tale livello di sistematicità da produrre
un dualismo insostenibile tra il sistema e la storia, tra la struttura dei
rapporti interni e il divenire reale delle lingue. In realtà, Saussure ha
fornito una teoria del mutamento linguistico, il quale non diventa
comprensibile che a partire dall’apriori strutturale inconscio. Una lin-
gua si presenta sempre come un’eredità del passato alla comunità dei
suoi parlanti: essi la subiscono passivamente, si sottomettono al siste-
ma dei rapporti della lingua, senza poterli mutare. Questa passività è
conseguenza della natura inconscia del sistema, e quindi dipende an-
cora una volta dall’efficacia dell’apriori: «La riflessione non interviene
nella pratica di un idioma […] i soggetti sono, in larga misura, inco-
scienti delle leggi della lingua; e, se non se ne rendono conto, come
potrebbero modificarle?»33. Dunque, in virtù del suo carattere siste-
matico-strutturale, la totalità della lingua è inconscia; e, in virtù del
suo carattere inconscio, essa persiste nel tempo: la struttura determi-
na il carattere inconscio che determina l’inerzia e la continuità dei
rapporti strutturali. Ma questa continuità ha anche un altro aspetto,
apparentemente opposto: «Il tempo, che assicura la continuità della
lingua, ha un altro effetto, in apparenza contraddicente il primo: quel-
lo d’alterare […] i segni linguistici […] i due fatti sono solidali: il se-
gno è in condizione di alterarsi in quanto si continua. Ciò che domina
in ogni alterazione è la persistenza della materia antica; l’infedeltà al
passato non è che relativa. Ecco perché il principio di alterazione si
fonda sul principio di continuità»34. Il sistema linguistico non è solo
un reticolo di rapporti; è anche un campo di variazioni possibili, uno
“spazio” che può essere deformato in virtù di questa stessa persisten-
za nel tempo. Ma in cosa può consistere la deformazione di questo
campo? «Quali che siano i fattori di alterazione […] sfociano sempre

33
F. DE SAUSSURE, op. cit., pp. 90-91.
34
Ivi, pp. 92-93.

117

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in uno spostamento del rapporto tra il significato e il significante»35. Ora,


tali spostamenti sono possibili perché il rapporto in questione è arbi-
trario: «Una lingua è radicalmente impotente a difendersi contro i fat-
tori che spostano a ogni istante il rapporto tra significato e significan-
te. È una delle conseguenze dell’arbitrarietà del segno […] La lingua
[…] non è affatto limitata nella scelta dei suoi mezzi, perché non si
vede che cosa impedirebbe di associare una qualunque idea a una
qualunque sequenza di suoni»36. L’arbitrarietà del segno è un caratte-
re che dipende dall’apriori strutturale: infatti, il segno è arbitrario
perché l’associazione del significante al significato dipende solo dai
rapporti sistematici ordinati dalla struttura. A ben vedere, è per que-
sta stessa ragione che la lingua come sistema è inconscia: poiché il va-
lore di ogni sua entità dipende solo dalla totalità strutturata del siste-
ma, tale valore si pone sempre, nelle sue ragioni ultime, aldilà della
consapevolezza dei parlanti. Questo carattere inconscio è ciò che fon-
da la continuità nel tempo del sistema; ora abbiamo visto che non solo
questa continuità forma il campo su cui agisce ogni deformazione, ma
che tali deformazioni, agendo sul rapporto tra significato e significan-
te, dipendono dall’arbitrarietà del segno che è un tratto necessaria-
mente legato al carattere inconscio della lingua. Dunque, continuità e
mutamento, trasformazione e persistenza, sono presenti nella lingua
in virtù delle stesse ragioni, cioè a causa del modo con cui agisce l’aprio-
ri strutturale. In virtù di quest’ultimo, l’esistenza concreta della lin-
gua si svolge in uno stato aldilà della permanenza e del mutamento,
cioè aldilà dell’opposizione rigida tra queste due condizioni: la lingua
esiste solo come plasticità, come deformabilità, come stato intermedio
tra l’essere e il divenire, e quindi tra l’identità e la differenza. A ben
vedere, questo risultato è già implicito nella definizione differenziale
delle entità linguistiche. Nella lingua non esistono cose, ma solo rap-
porti, e la lingua stessa non è una cosa ma un campo di rapporti in
stato di perpetua interdefi nizione. Questo campo si riproduce in con-
testi diversi attraverso la molteplicità indefi nita degli usi e dei conte-
sti; ma ciascun atto di riproduzione in circostanze differenti è una
variazione del riprodotto, e contiene in sé la possibilità di spingere la

35
Ivi, p. 93.
36
Ivi, p. 94.

118

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L’apriori nelle scienze umane

deformazione propria a ogni variazione fino a un mutamento qualita-


tivo negli stessi rapporti costitutivi. La riproduzione implica dunque
la variazione e perciò la deformabilità. Come si è visto, tutti questi fe-
nomeni apparentemente opposti trovano un punto di indifferenza
nell’azione della struttura: l’apriori strutturale impone di pensare la
lingua secondo principi che vanno aldilà del tradizionale principio di
identità elementare (A=A).
Donde il significato propriamente filosofico della linguistica saussu-
riana: si tratta tuttavia di qualcosa che potremmo chiamare antifiloso-
fia, poiché, si è visto, per Saussure la “fi losofia” in linguistica è razio-
nalizzazione degli ostacoli epistemologici, la cui funzione è quella di
riempire abusivamente i punti ciechi della determinazione dell’oggetto
proprio del sapere linguistico. In tale processo di determinazione, me-
diante cui la linguistica costruisce e obiettiva il proprio oggetto, inter-
vengono infatti nozioni, pregiudizi e immagini che conducono a dare
a tale oggetto una forma portatrice di antinomie insolubili, in cui il
pensiero “gira a vuoto”, non potendone fornire uno scioglimento po-
sitivo. Tali sono gli ostacoli epistemologici costituiti dalle posizioni di
entità reificate quali linguaggio e realtà, elemento e totalità, “corpo” e
“anima” della lingua: cercando di costruire sulle basi di queste nozio-
ni l’oggetto della linguistica, si finisce piuttosto per renderlo impensa-
bile, per farne cioè il risultato impossibile di un’impraticabile ricom-
posizione di ciò che si è affrettatamente presupposto come separato,
indipendente, già-dato (il che rende di fatto impossibile comprendere
come riassorbire la separazione in un oggetto unitario e coerente). La
filosofia si installa in queste impossibilità, e le razionalizza, fornendo-
ne una pseudosoluzione: infatti, tutte queste antinomie si fondano sul
presupposto che il linguaggio sia il mediatore tra la mente e il mondo,
tra il pensiero e le cose, tra il soggetto e l’oggetto. Questa tesi implicita
governa tutte le costruzioni antinomiche dell’oggetto linguistico da noi
sommariamente elencate: i problemi relativi alla lingua intesa come un
tutto e alla sua divisione in parti, o quelli relativi alla volontà signifi-
cante che si incarna nella materia fonica o grafica, sono tutti incom-
prensibili se non a partire dalla problematica relativa alla convenienza
tra la mente e la realtà, di cui la lingua deve operare la mediazione: la
filosofia del linguaggio offre una pseudosoluzione alle antinomie che
scaturiscono da questa problematica “sotterranea”, una soluzione che

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ha per effetto di legittimare la tesi soggiacente, cioè proponendo una o


più teorie del rapporto tra soggetto e oggetto (convenzionalismo versus
realismo, ecc.), e inquadrando il linguaggio nel tipo di rapporto di vol-
ta in volta postulato. Tutto ciò, allo scopo di costruire una teoria della
conoscenza, cioè una teoria della garanzia (o dell’assenza di garanzie)
di convenienza (o non-convenienza) tra pensiero e realtà, tra sogget-
to e oggetto, ambedue dati come presupposti non-problematizzabili.
La filosofia criticata da Saussure dunque sfrutta l’impasse dell’obiet-
tivazione linguistica per attribuirsi un ruolo di garanzia e dominio: a
essa spetta infatti di dire la Verità sulla lingua, di coglierne l’essenza
misurandone i poteri di mediazione tra pensiero e cose. In tal modo,
è impossibile dare allo studio delle lingue un oggetto proprio e auto-
nomo, in quanto le lingue scompaiono di fronte al Linguaggio, tertium
ontologico posto tra il Soggetto e l’Oggetto i cui differenti rapporti
esauriscono tutte la problematica “filosofica” in questione; l’impossi-
bilità dipende già dalla problematica mente-realtà, che appunto devia
la considerazione delle legalità linguistiche verso altra cosa, spezzando
l’autoimmanenza e l’autosufficienza della lingua. Il lavoro critico di
Saussure è consistito soprattutto nel collocarsi all’interno della lingua,
di cogliere quest’ultima nel suo spessore empirico, e non all’interno di
una Filosofia della Conoscenza di cui la Filosofia del Linguaggio sa-
rebbe un settore. Per rendere del tutto autoimmanente l’oggetto speci-
fico che in tal modo veniva fornito alla linguistica, Saussure ha dovuto
anche abbozzarne i meccanismi generativi, i processi di produzione
interni, che soli avrebbero potuto scongiurare il ricadere dello sguardo
linguistico nelle pseudo-deduzioni della positività linguistica dai due
presupposti filosofici del Soggetto e dell’Oggetto. In tal modo, l’empi-
ricità della lingua poteva poggiare solo su se stessa e sulla propria di-
namicità immanente, quella delle operazioni della struttura, che funge
da apriori empirico e immanente. Si vede dunque l’irriducibilità di tale
prospettiva tanto alla filosofia del linguaggio di tradizione analitica
(che non è uno studio delle lingue empiriche ma dei rapporti tra signi-
ficato e realtà) quanto al cognitivismo (che con Chomsky e Fodor ha a
lungo riassorbito gli studi di linguistica), interamente fondato, da un
lato, sull’idea di “rappresentazione” mentale su cui operare dei calco-
li, e, dall’altro, sulla pre-datità di un ambiente, l’adattamento al quale
decide dell’adeguatezza delle rappresentazioni e dei calcoli. Non si po-

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L’apriori nelle scienze umane

trebbe immaginare scarto maggiore rispetto all’immanentismo radi-


cale che lo strutturalismo introduce nella costruzione dell’oggetto, né
ritorno più radicale al punto di vista portorealista, “filosofico”, da cui
Saussure cercava di emendare lo studio della lingua.

2. L’ apriori strutturale in Lévi-Strauss

Saussure era convinto che la sua riformulazione della linguistica avreb-


be dovuto essere ricompresa in una semiologia generale, cioè in uno
studio di tutti i sistemi di segni (non linguistici) attivi nell’esistenza col-
lettiva degli uomini. Tuttavia, un ostacolo concettuale cruciale avrebbe
impedito a Saussure di estendere le sue tesi alla vita sociale comples-
siva (anche qualora avesse ritenuto sufficiente l’elaborazione della lin-
guistica generale): la convinzione che le istituzioni e le forme della vita
sociale non fossero sottoposte all’arbitrarietà caratteristica dei segni,
cioè che le forme sociali non traggano il loro significato dal sistema di
cui fanno parte, ma dall’adempimento di funzioni e scopi “naturali”
(in genere definite secondo un criterio utilitaristico). Quindi, dopotut-
to, anche Saussure è “filosofo” (secondo il suo stesso senso): vi sono per
lui dei segni la cui logica è intelligibile solo mediante il ricorso ester-
no alla posizione di fini e al soddisfacimento di bisogni, dunque su di
una teoria della mente, o un’antropologia naturalistica (l’homo faber
che persegue dei fini in condizioni di scarsità), che rendono poco pra-
ticabile l’estensione ad altri sistemi simbolici dei postulati immanenti-
stici del Cours. Claude Lévi-Strauss è stato il primo a estendere la tesi
dell’arbitrarietà alle pratiche e alle istituzioni sociali, mostrandone la
dipendenza dalla connessione in sistemi dotati di struttura, e non da
funzioni sociali o biologiche, supposte “razionali”, definibili indipen-
dentemente dal sistema stesso. In tal modo, Lévi-Strauss ha fatto della
struttura in senso saussuriano la condizione di possibilità, cioè l’aprio-
ri, di numerose forme di vita sociale.
Lévi-Strauss, come del resto Saussure nei confronti della linguisti-
ca, ha elaborato la propria posizione a partire da uno stato determi-
nato del sapere etnologico, uno stato predisposto ad accogliere la loro
nozione di struttura (che resta comunque originale): nel caso specifi-
co, si tratterà della convinzione, tipica dell’antropologia culturale an-
glosassone, che l’oggetto dell’etnologia fossero «le condizioni inconsce

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della vita sociale», che l’etnologia «traesse la sua originalità dalla na-
tura inconscia dei fenomeni collettivi»37. Si tratterà allora di pensare
questi condizionamenti inconsci dell’agire sociale nei termini definiti
dalla linguistica saussuriana e post-saussuriana. Anche in questo caso,
il terreno è stato preparato da un accostamento tra cultura e linguag-
gio non ignoto all’antropologia precedente, e di cui Lévi-Strauss cita il
caso di Franz Boas: «Spetta a Boas il merito di avere, con straordinaria
lucidità, definito la natura inconscia dei fenomeni culturali, in pagine
in cui, assimilandoli da questo punto di vista al linguaggio, anticipava
lo sviluppo ulteriore del pensiero linguistico […] Dopo aver dimostra-
to che la struttura della lingua rimane sconosciuta da colui che parla
fino all’avvento di una grammatica scientifica, e che, anche allora, essa

37
CLAUDE LÉVI-STRAUSS, Introduction, in Antropologie structurale, Plon, Paris
1964, tr. it. di P. Caruso, Introduzione, in Antropologia strutturale, il Saggiatore, Mi-
lano 1990, 2002, p. 31. Lévi-Strauss riconduce questa formulazione relativa ai feno-
meni collettivi all’antropologo Edward B. Tylor che «dopo aver definito l’etnologia
come lo studio “della cultura o civiltà”, la descriveva come un complesso insieme
in cui si dispongono “le conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, usanze, e tutte
le altre capacità o abitudini acquisite dall’uomo in quanto membro della società”.
Orbene, è noto che, nella maggior parte dei popoli primitivi, è difficilissimo ot-
tenere una giustificazione morale, o una spiegazione razionale, di un’usanza o di
un’istituzione […] Anche quando si incontrano interpretazioni, queste hanno sem-
pre il carattere di razionalizzazioni o di elaborazioni secondarie: non c’è dubbio
che le ragioni inconsce per cui si pratica un’usanza, o si condivide una credenza,
sono lontanissime da quelle invocate per giustificarla». Peraltro, in questo, secon-
do Lévi-Strauss non vi è alcuna differenza tra i popoli “primitivi” e gli altri detti
civilizzati: «Anche nella nostra società, le buone maniere a tavola, gli usi sociali,
le regole del vestirsi e molti nostri atteggiamenti morali, politici e religiosi, sono
osservati scrupolosamente da ciascuno, senza che la loro origine e la loro funzione
reali siao state oggetto di ponderato esame. Agiamo e pensiamo per abitudine, e
l’inaudita resistenza opposta a deroghe, sia pur minime, deriva più dall’inerzia che
da una volontà cosciente di mantenere usanze di cui si capisca la ragione» (C. LÉVI-
STRAUSS, op. cit., p. 31. Le citazioni da Tylor sono tratte dall’opera Primitive cultu-
re, London 1871, vol. I, p. 1). Emerge qui una tendenza centrale in Lévi-Strauss,
quella di rifiutare ogni differenza radicale e invalicabile tra le culture e le usanze
dei popoli “primitivi” (più correttamente definiti “senza scrittura”) e le civiltà “svi-
luppate”, contro ogni dualismo categorico tra primitivi e civilizzati. Infatti, come
vedremo, le culture sono unite dalle strutture inconsce che organizzano credenze,
pratiche, istituzioni, ecc., e che in ciascuna cultura si attualizzano diversamente.

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continua a modellare il discorso al di fuori della coscienza del soggetto


imponendo al suo pensiero schemi concettuali che sono presi per ca-
tegorie oggettive, aggiungeva: “La differenza essenziale tra i fenomeni
linguistici e gli altri fenomeni culturali, è che i primi non emergono
mai alla coscienza chiara, mentre i secondi, pur avendo la stessa ori-
gine inconscia, si elevano spesso fino al livello del pensiero cosciente,
dando così origine a ragionamenti secondari e a re-interpretazioni”.
Ma questa differenza di grado non dissimula un’identità profonda, e
non diminuisce il valore esemplare del metodo linguistico per le ricer-
che etnologiche. Anzi: “Il gran vantaggio della linguistica in proposito
è che, nell’insieme, le categorie del linguaggio rimangono inconsce;
per questa ragione se ne può seguire il processo di formazione senza
che intervengano, in modo ingannevole e molesto, le interpretazioni
secondarie […]”»38. Boas scrive queste righe prima della pubblicazione
del Cours saussuriano, e può esserne definito un anticipatore, non però
un precursore. Infatti, Lévi-Strauss sembra suggerire che il program-
ma di Boas non avrebbe potuto essere condotto a buon fine senza la
rivoluzione saussuriana: la linguistica strutturale, nata e sviluppatasi
indipendentemente, è la condizione richiesta affinché le anticipazioni
di Boas cessino di essere solo una promessa d’avvenire per l’etnologia
e si trasformino in un programma scientifico eseguibile. In cosa la lin-
guistica strutturale è indispensabile a trasformare le tesi di Boas in una
scienza etnologica rinnovata? Fondamentalmente in ciò, che la lingui-
stica post-saussuriana è la sola a poter fornire un concetto rigoroso di
quell’efficacia inconscia dei sistemi culturali e linguistici, la quale, sen-
za questo contributo teorico, resterebbe un riferimento vago a ciò che
trascende i soggetti agenti e parlanti. La linguistica strutturale apporta
dunque una concezione concreta e rigorosa dell’apriori inconscio che
ordina i fenomeni della lingua e, a patto di sapere come estenderne il
concetto, della cultura. Infatti, in assenza del nuovo sapere linguistico
cui ricorrerà appunto Lévi-Strauss, Boas è restato «al livello del pen-
siero cosciente degli individui»39; e questo perché la linguistica non era

38
C. LÈVI-STRAUSS, op. cit., p. 32. Lévi-Strauss cita da F. BOAS (a cura di), Hand-
book of American Indian Languages, Bureau of American Ethnology, bollettino n.
40, 1911 (1908), parte I, p. 67 e pp. 70-71.
39
Ivi, p. 33.

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ancora in grado di fornire gli strumenti di un’“analisi reale” dei feno-


meni. Ora, questi strumenti sono appunto i concetti saussuriani di si-
stema, struttura, segno, arbitrarietà, ecc. Essi però fanno molto di più
che garantire la scientificità dell’antropologia: la trasformano cioè in
uno studio dell’apriori di tutta l’esistenza collettiva degli uomini: «Se,
come crediamo, l’attività inconscia dello spirito consiste nell’imporre
forme a un contenuto, e se queste forme sono fondamentalmente le
stesse per tutti gli individui, antichi e moderni, primitivi e civili – come
dimostra, in modo folgorante, lo studio della funzione simbolica, così
come si esprime nel linguaggio – è necessario e sufficiente raggiunge-
re la struttura inconscia, soggiacente a ogni istituzione o a ogni usan-
za per ottenere un principio d’interpretazione valido per altre istitu-
zioni e altre usanze, purché, beninteso, si spinga l’analisi abbastanza
lontano»40. Si tratterà allora di capire in che senso lo spirito produca
le forme che organizzano la vita sociale: questa produzione inconscia
si compie attraverso la stessa logica che organizza i sistemi linguistici;
è quindi l’efficacia dell’apriori strutturale a determinarla. Solo la teo-
ria di tale apriori, creata da Saussure, consentirà all’antropologia di
assolvere al suo compito, nientemeno che una considerazione unitaria
dell’intero spettro delle attività umane.
Il primo grande exploit di Lévi-Strauss è la scoperta delle “struttu-
re elementari della parentela”; le relazioni di parentela vengono trat-
tate come formanti un sistema governato da relazioni la cui logica è
analoga a quella della lingua: «Come i fonemi, i termini di parentela
sono elementi di significato; anch’essi acquistano tale significato solo
a condizione di integrarsi in sistemi; i “sistemi di parentela”, come i
“sistemi fonologici”, sono elaborati dall’intelletto allo stadio del pen-
siero inconscio»41. Si tratta dapprima di identificare le unità del siste-

40
Ivi, pp. 33-34.
41
C. LÉVI-STRAUSS, L’analisi strutturale in linguistica e in antropologia, in An-
tropologia strutturale, cit., p. 48. Lévi-Strauss parla di “fonologia” e “fonemi”. Si
tratta di termini derivati dalla linguistica post-saussuriana, in particolar modo da
quella di Nikolaj Trubečkoj (creatore appunto della fonologia) e Roman Jakobson
che hanno combinato l’insegnamento saussuriano con quello del linguista polac-
co J. Baudouin de Courtenay, inventore del termine “fonema”. Il fonema sarebbe
la più piccola unità distintiva della lingua, cioè «Il valore linguistico del fonema
a nasale in francese e, in generale, in tutti i fonemi di qualsiasi lingua, non è altro

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L’apriori nelle scienze umane

ma, come Saussure fece con i segni, per poi risolverle nel reticolo del-
le relazioni sistematiche: «Ciò che generalmente si chiama “sistema di
parentela” comprende […] due ordini diversi di realtà. Ci sono, prima
di tutto, i termini con i quali si esprimono i vari tipi di relazioni fami-
liari. Ma la parentela non si esprime soltanto in una nomenclatura: gli
individui, o le classi di individui che adoperano i termini, si sentono
(o, secondo i casi, non si sentono) tenuti, ciascuno nei confronti de-

che quello di poter distinguere la parola che contiene questo fonema da ogni parola
che, ceteris paribus, contiene un altro fonema» (ROMAN JAKOBSON, La linguistica e
le scienze dell’uomo. Sei lezioni sul suono e sul senso, Introduzione di Claude Lévi-
Strauss, il Saggiatore, Milano 1978, p. 77). Come si vede, i fonologi riprendono
l’idea saussuriana che le entità linguistiche siano puramente relazionali e tragga-
no valore dal sistema in cui compaiono, non dalla determinatezza materiale dei
suoni: uno stesso suono può infatti avere valori diversi in diversi sistemi fonema-
tici: «Ciò che noi riconosciamo nel discorso non sono delle differenze fra i suoni
come tali, ma differenze nell’uso che ne fa la lingua, vale a dire differenze che,
senza avere significato proprio, sono impiegate a discriminare l’una dall’altra le
entità di un livello superiore» (ivi, p. 88). Tuttavia, il fonema dei fonologi è solo
una delle unità che Saussure individuava nella lingua e unificava sotto il termine
di “segno”. Per la nostra discussione dell’apriori strutturale, non vi è comunque
differenza di principio tra Saussure e questi suoi eredi. Segnaliamo la posizione
contraria di Jocelyn Benoist, per cui il modello fonologico di Trubeckoj forni-
rebbe una correzione materialista a Saussure, in cui resterebbe «una dimensione
d’”idealità” nella lingua in virtù della sua sistematicità che si oppone a […] una
costruzione come il fonema, prelevata dall’attività linguistica reale dei soggetti
enunciatori» (J. BENOIST, Le dernier pas du structuralisme, “Philosophie”, 98, 2008,
n. mon. Claude Lévi-Strauss: langage, signes, symbolisme, nature, p. 57); il che per-
mette a Lévi-Strauss di pensare una struttura che «si costituisce negli elementi re-
ali, concreti […] è un aspetto della sua apologia del bricolage in La pensée sauvage:
si opera con ciò che si ha, cioè esclusivamente con delle realtà» (ibidem). in realtà,
si è visto come per Jakobson e Lévi-Strauss, la sistematicità non sia un elemento
accessorio, poiché il fonema può essere individuato solo differenzialmente; vice-
versa, la metafora del “doppio taglio” dei due flussi mostra che un certo Saussure
non è indifferente alle virtualità della materia sensibile (o sensibil-ideale) della
lingua. È vero, come dice Benoist, che “lo strutturalismo è sempre uno struttura-
lismo dei corpi” (ibidem), ma la materialità dei corpi in questione è sempre quella
di una dimensione virtuale, la cui plasticità può fare da supporto all’idealità dei
sistemi – non vi è dunque opposizione tra idealità e realtà, tra sistemi strutturali e
elementi concreti, il concreto non potendo essere determinato che da un’attualz-
zazione sistematica delle sue virtualità.

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gli altri, a una condotta determinata: rispetto o familiarità, diritto o


dovere, affetto o ostilità. Perciò, accanto a quello che proponiamo di
chiamare il sistema degli appellativi […] c’è un altro sistema, anch’es-
so di natura psicologica e sociale, che designeremo come sistema degli
atteggiamenti»42. L’esempio su cui Lévi-Strauss lavora nell’articolo ci-
tato è quello dello zio materno, cioè del ruolo di questa figura all’in-
terno dei rapporti familiari e sociali di diverse popolazioni: «Secondo
Radcliffe-Brown, il termine avuncolato racchiude due sistemi di at-
teggiamenti antitetici: in un caso, lo zio materno rappresenta l’autorità
familiare, è temuto, obbedito, e possiede diritti sul nipote; nell’altro,
è il nipote a esercitare nei confronti dello zio privilegi di familiarità, e
può trattarlo più o meno da vittima. In secondo luogo, esiste una cor-
relazione tra l’atteggiamento dello zio materno e l’atteggiamento nei
confronti del padre. In entrambi i casi, troviamo i due stessi sistemi
di atteggiamenti, ma rovesciati: nei gruppi in cui la relazione tra pa-
dre e figlio è familiare, quella tra zio materno e nipote è rigorosa; e
nei casi in cui il padre appare come l’austero depositario dell’autorità
familiare, è lo zio a essere trattato con libertà»43. Lévi-Strauss afferma
che la correlazione padre/figlio-zio/figlio della sorella vada vista come
«un aspetto di un sistema globale in cui quattro tipi di relazioni sono
presenti e organicamente collegati, cioè fratello/sorella, marito/moglie,
padre/figlio, zio materno/figlio della sorella»44. Le relazioni tra questi
rapporti sono governate da «una legge che può formularsi come segue:
nei due gruppi, la relazione tra zio materno e nipote sta alla relazione
tra marito e moglie. Tant’è vero che, nota una relazione, è sempre pos-
sibile dedurre l’altra»45. La conclusione è che l’istituto dell’avuncolato
non può essere compreso aldifuori della struttura apriori della paren-
tela: «L’avuncolato, per essere capito, deve essere trattato come una
relazione interna a un sistema, e che è lo stesso sistema a dover essere
considerato nel suo insieme, se si vuole scorgerne la struttura. Questa
struttura poggia a sua volta su quattro termini (fratello, sorella, padre,

42
Ivi, p. 51.
43
Ivi, p. 55. Lévi-Strauss cita A.R. R ADCLIFFE-BROWN, The Mother’sBrother in
South Africa, “South African Journal of Science”, 21 (1924).
44
Ivi, pp. 56-57.
45
Ibidem.

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L’apriori nelle scienze umane

figlio), uniti fra loro da due coppie di opposizioni correlative, e tali che,
in ciascuna delle due generazioni in causa, esista sempre una relazione
positiva e una negativa […] questa struttura è la struttura di parentela
più semplice che si possa concepire e che possa esistere. È […] l’atomo
di parentela […] perché una struttura di parentela esista, occorre che
in essa si trovino presenti i tre tipi di relazioni familiari sempre dati
nella società umana, ovverosia: una relazione di consanguineità, una
relazione di parentela d’acquisto, una relazione di filiazione»46. Aldi-
fuori di questa struttura, non esiste parentela nel senso delle società
umane, in cui i legami sociali di ogni tipo non hanno un’esistenza pu-
ramente biologica: «Il carattere primitivo e irriducibile dell’elemento
di parentela […] risulta infatti, in modo immediato, dall’esistenza uni-
versale della proibizione dell’incesto. Tale proibizione equivale a dire
che, nella società umana, un uomo non può ottenere una donna se non
da un altro uomo, che gliela cede sotto forma di figlia o di sorella», da
cui il ruolo dello zio materno47. Si noti che l’atomo di parentela è alla
base di ogni tipo di relazione di parentela, non già come una norma
superiore che unificherebbe tutte le possibili relazioni “dall’alto”, ma
come un campo di relazioni elementari suscettibile di deformazioni
indefinite, e che, mediante tali variazioni sul proprio “tema”, genere-
rebbe logicamente ogni possibile relazione siffatta: «Tale struttura ele-
mentare, risultante da relazioni definite tra quattro termini, è per noi il
vero atomo di parentela. Non c’è esistenza che possa essere concepita o
data aldiquà delle esigenze fondamentali della sua struttura, e, d’altra
parte, esso è l’unica materia prima per costruire sistemi più complessi.
Giacché sistemi più complessi esistono; o, per essere più esatti, ogni
sistema di parentela è elaborato in base a questa struttura elementare
che si ripete, o si sviluppa, per integrazione di nuovi elementi»48. Lévi-
Strauss nega dunque che dalle sue analisi possa ricavarsi una forma di
parentela eticamente o culturalmente superiore alle altre. La fonda-
mentalità dell’“atomo” risiede solo nel suo ruolo di matrice di una serie
indefinita di variazioni possibili. In tal senso, esso rappresenta il mo-
mento in cui l’ordine dei dati naturali viene sottomesso a un altro ordi-

46
Ivi, pp. 59-61.
47
Ivi, p. 61.
48
Ivi, p. 63.

127

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ne, quello delle strutture simboliche: secondo Frédéric Keck, autore di


una recente introduzione a Lévi-Strauss, si tratta di comprendere come
«un ordine positivo di strutture si costituisca attraverso la negazione di
un altro ordine […] Ciò che conferisce alla proibizione dell’incesto il
suo statuto di regola universale è il fatto che essa si applica alla natura
(la vita sessuale nella sua abbondante generosità) negandola allo stesso
tempo per rimpiazzarla con la cultura (la parentela come organizzazio-
ne dei rapporti sessuali)»49. La proibizione dell’incesto è il momento
bifronte, la soglia, in cui i dati materiali sono sussunti al simbolico, e
questo diviene l’apriori delle forme di vita umane. Tale proibizione
non ha dunque alcun senso normativo quanto al proprio contenuto, ma
solo in virtù della sua forma: «Il fatto della regola, considerato in modo
indipendente dalle sue modalità, costituisce in effetti l’essenza stessa
della proibizione dell’incesto. Poiché se la natura abbandona l’alleanza
al caso e all’arbitrio, è impossibile alla cultura non introdurre un ordi-
ne, quale che ne sia la natura, là dove non ne esistono»50. In altri termi-
ni, l’ordine simbolico diventa realmente l’apriori del mondo umano là
dove si stabilisca una divisione tra gli accoppiamenti permessi e quel-
li proibiti, cosa che la natura non contiene se non come impossibilità
biologica. La cultura nasce qui, nel punto in cui dei fenomeni naturali
acquistano un significato che dipende dal sistema simbolico in cui en-
trano, secondo il principio strutturale dell’arbitrarietà del segno.
È chiaro dunque in che modo la considerazione strutturale possa
applicarsi ai fenomeni sociali; Lévi-Strauss propone allora un’analogia
con la linguistica fonologica che mette in luce un aspetto forse trop-
po negletto di quest’ultima: «La diversità degli atteggiamenti possibili
nell’ambito delle relazioni interindividuali è praticamente illimitata; lo
stesso succede per la diversità dei suoni che l’apparato vocale può arti-
colare, e che effettivamente produce nei primi mesi della vita umana.
Ogni lingua, tuttavia, trattiene solo un piccolissimo numero fra tutti i
suoni possibili […] Il nostro abbozzo di storia del problema dello zio
materno si trova per l’appunto allo stesso stadio: il gruppo sociale, come

49
F. KECK, Claude Lévi-Strauss. Une introduction, Pocket/La Découverte, Paris
2005, p. 80.
50
C. LÉVI-STRAUSS, Les structures élémentaires de la parenté, Plon, Paris 1949,
p. 37.

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L’apriori nelle scienze umane

la lingua, trova a sua disposizione un ricchissimo materiale psicofisiolo-


gico; come la lingua, inoltre, trattiene solo certi elementi […] che esso
combina in strutture sempre diversificate»51. Come in linguistica, una
struttura organizza un certo materiale secondo una rete di relazioni in
cui ogni “parte” del sistema trae il proprio significato da tali relazioni,
e non dal materiale di cui è costituito; l’arbitrarietà significa che le rela-
zioni strutturali non si trovano già prescritte dal materiale che organiz-
zano: né i suoni né i comportamenti, né le relazioni di consanguineità
contengono già i sistemi in cui entreranno e da cui trarranno un senso
determinato. Tuttavia, il ruolo del materiale non è così passivo: esso
non prescrive delle relazioni a scapito di altre, ma è suscettibile tutta-
via di eliminare ab ovo quelle di cui le sue legalità materiali immanenti
non possono farsi portatrici: un suono può essere inserito in qualunque
struttura, ma nessuna struttura può organizzare un suono impossibile
da articolare. Ciò significa che i sistemi di relazioni dipendono comun-
que dalle virtualità immanenti alla materia da organizzare, sebbene le
attualizzazioni di dette virtualità dipendano solo dai sistemi e non siano
decise a priori dalla materia stessa (la quale, anzi, è suscettibile di esse-
re inserita in diversi sistemi strutturali proprio perché le sue virtualità
sono neutrali rispetto i modi di attualizzarle). Questo aspetto delle tesi
di Lévi-Strauss emerge in particolare dalla sua analisi del “pensiero sel-
vaggio”, cioè del modo in cui popoli senza scrittura organizzano l’uni-
verso sensibile attraverso la creazione di sistemi simbolici, un modo
che l’antropologo francese dichiara analogo al bricolage. Questa nozio-
ne serve a Lévi-Strauss per contestare l’idea che il pensiero dei “primi-
tivi” sarebbe “prelogico”, basato sull’affettività e governato da principi
del tutto discordanti da quello dei “civilizzati”. In realtà, i popoli senza
scrittura pensano, non si limitano a sentire52, ma il loro pensiero “lavora”

51
Ivi, p. 54.
52
Risale notoriamente a Lucien Lévy-Bruhl la tesi per cui il pensiero dei pri-
mitivi non è governato dalla logica del principio d’identità, ma da un principio di
“partecipazione” per cui ogni cosa sarebbe indistinta rispetto alle altre, un prin-
cipio fondato sull’affettività. Il risultato di questa posizione è di scavare un fossa-
to invalicabile tra “noi” e i “primitivi”, e soprattutto di ipostatizzare una nozione
molto “filosofica” del pensiero dei civilizzati, il quale, non più di quello primitivo,
non è guidato da un principio di identità elementare – ciò che è implicito nelle
analisi di Saussure e Lévi-Strauss.

129

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su e a partire da, le determinazioni sensibili del reale, che esso usa per
costruire sistemi simbolici53. In questo senso, tale pensiero non è uni-
camente pratico, ma è guidato da un interesse teoretico: «Il suo oggetto
primario non è di ordine pratico. Esso risponde a esigenze intellettuali,
prima, o invece, di soddisfare dei bisogni. La vera questione non è di
sapere se il contatto di un becco di picchio guarisce il mal di denti, ma
di sapere se è possibile, da un certo punto di vista, far “stare insieme”
il becco di picchio e il dente dell’uomo (congruenza di cui la formula
terapeutica costituisce solo un’applicazione ipotetica tra tante altre), e,
per mezzo di questi raggruppamenti di cose e di esseri, introdurre un
principio d’ordine nell’universo; la classificazione, quale che essa sia,
possiede infatti una virtù propria rispetto all’assenza di classificazio-
ne […] Ora, questa esigenza d’ordine è alla base del pensiero che noi
chiamiamo primitivo, ma solo nella misura in cui essa è alla base di
ogni pensiero: poiché è dal punto di vista delle proprietà comuni che
noi accediamo più facilmente alle forme di pensiero che ci sembrano le
più estranee»54. Dunque, si tratta di introdurre un ordine nel mondo
trasformando i suoi caratteri sensibili (ivi compresi i comportamenti e
le relazioni biologiche degli esseri viventi umani e non) in elementi di
un sistema strutturato. È secondo questa logica che i “primitivi” com-
pongono le loro classificazioni (caratterizzate da un’attenzione alle dif-
ferenze sensibili che il pensiero “civilizzato” ha perduto), e giungono a
vedere la realtà come un sistema di corrispondenze simboliche in cui
i diversi piani si simbolizzano vicendevolmente55: «Non sono le somi-
53
C. LÉVI-STRAUSS, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962.
54
Ivi, pp. 21-22. La tesi per cui il pensiero dei primitivi sarebbe guidato dall’uti-
lità immediata è stata sostenuta da Bronislaw Malinowski. In tal modo, però, l’an-
tropologo finisce per attribuire a tutte le culture un fondamento in comportamen-
ti tipici dell’homo oeconomicus “occidentale”, mentre la ricerca razionale dell’utile
attraverso il calcolo della relazione mezzi-fini in condizioni di risorse scarse è un
tipo di azione la cui razionalità non è disgiungibile dal sistema di rapporti cui
appartiene: quello cioè delle società occidentali a partire dalla rivoluzione indu-
striale. Malinowski commette quindi un errore simmetrico e complementare a
quello di Lévy-Bruhl.
55
Commenta un interprete francese di Lévi-Strauss, Patrice Maniglier: «Il pen-
siero selvaggio “attacca la realtà a livello del sensibile”[…] esso utilizza certi aspetti
della realtà sensibile per “spiegarne” altri: da cui i suoi altri nomi: logica del sen-
sibile, scienza del concreto, ecc. Esso procede per “corrispondenze” (come nella

130

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L’apriori nelle scienze umane

glianze, ma le differenze, ad assomigliarsi. Con ciò intendiamo dire che


non ci sono dapprima degli animali che si assomigliano tra loro […] e
degli antenati che si somigliano tra loro, e infine una somiglianza glo-
bale tra i due gruppi, ma, da un lato, degli animali che differiscono gli
uni dagli altri […] e dall’altro degli uomini – di cui gli antenati formano
un caso particolare – che differiscono tra loro […] La somiglianza pre-
supposta dalle rappresentazioni che diciamo totemiche è tra questi due
sistemi di differenze»56. Si vede come qui intervenga una logica identica
a quella dell’apriori strutturale saussuriano per quanto riguarda la seg-
mentazione delle entità significative e la loro associazione alle entità di
un’altra serie: è l’atto della struttura a individuare le parti, a connetterle
in sistema e a creare il loro significato57. Ma il sistema agisce e si innesta

poesia di Baudelaire) tra differenti “livelli” (vegetale, animale, planetario, sociale,


ecc.). Ma l’associazione, che appare compiersi termine a termine (in formule del
tipo: “noi siamo dei salmoni”, o “questa bambola è il mio nemico”), si fonda in real-
tà sulla corrispondenza tra due sistemi di differenze» (P. MANIGLIER, Le vocabulai-
re de Lévi-Strauss, Ellipses, Paris 2002). Frédéric Keck osserva come questo princi-
pio ricalchi la logica sistematica della linguistica strutturale: «Le parole sembrano
arbitrarie fintantoché si cerca ciò a cui la parola assomiglia, cioè fi nché si cerca il
suo significato al di fuori del linguaggio. Per contro, il significato si chiarisce quan-
do si osservi non il rapporto della parola alla cosa (o del significante al significato)
ma i rapporti dei significanti tra loro e dei significati tra loro, tra cui il linguaggio
stabilisce delle omologie di serie. Allo stesso modo, la ragione per cui il tale ani-
male-totem è scelto da una società resta arbitraria finché non si considera l’insieme
delle relazioni tra animali pertinenti per questa società, e l’insieme delle relazioni
tra le divisioni di questa società […]. Bisogna dunque considerare l’insieme del si-
stema di classificazione attraverso cui una società pensa il suo rapporto al mondo
[…] per comprendere quale significato rivesta l’animale-totem in questa classifica-
zione. In altri termini, non bisogna cercare di cosa il totem è simbolo, ma l’insieme
dei rapporti simbolici pertinenti in una società […] Solo il pensiero simbolico può
in effetti spiegare il fatto dell’omologia di struttura tra forme di organizzazione so-
ciale, sistemi di classificazione degli animali, e situazioni concrete che li uniscono»
(F. KECK, op. cit., p. 108). Il “pensiero simbolico” di cui parla F. Keck è appunto
l’apriori strutturale visto sotto il suo aspetto dinamico di instaurazione e trasfor-
mazione di rapporti sistematici sul modello dei sistemi di lingua.
56
C. LÉVI-STRAUSS, Le Totémisme aujourd’hui, PUF, Paris 1962.
57
Commenta F. Keck: «Il totemismo segna il passaggio dalla natura alla cultu-
ra, perché è la categorizzazione della natura in termini culturali» (F. KECK, op. cit.,
p. 107). In tal senso, esso non è differente dalle strutture della parentela generabili

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Andrea Cavazzini

sui caratteri materiali delle cose stesse, come si è già visto per le strut-
ture di parentela e i fenomeni biologici; è qui che il pensiero simbolico
è analogo al bricolage: come in quest’ultima attività gli stessi materiali
possono assumere una gamma di funzioni diverse, compatibili con i
loro caratteri materiali, ma non deducibili da essi, allo stesso modo il
pensiero simbolico può costruire diversi sistemi simbolici con gli stes-
si materiali, i cui caratteri possono divenire portatori di significazioni
differenti (come il bricolage può usare un martello altrettanto bene per
piantare un chiodo che per reggere uno sgabello…): «[Gli elementi su
cui agisce il bricolage] sono particolarizzati solo a metà: abbastanza per-
ché il bricoleur non abbia bisogno dell’equipaggiamento e del sapere
[dell’ingegnere]; ma non abbastanza perché ciascun elemento sia limi-
tato a un impiego preciso e determinato. Ogni elemento rappresenta un
insieme di relazioni, a un tempo concrete e virtuali; sono degli opera-
tori, ma utilizzabili in vista di operazioni qualunque all’interno di un
tipo»58. I materiali assumono funzioni che, da sola, la loro natura mate-
riale non può giustificare, perché, di per sé, essa ne tollererebbe diverse:
in tal caso la loro funzionalità è sottodeterminata; e, poiché questi carat-
teri materiali di per sé non decidono una funzione, essa verrà decisa dal
rapporto sistematico di alcuni caratteri con altri entro un sistema: in tal
caso, la funzionalità è surdeterminata. Si vede come la surdeterminazio-
ne e la sottodeterminazione siano complementari – l’una rappresenta
l’insufficienza della natura a fondare le leggi simboliche della vita socia-
le, mentre l’altra rappresenta l’azione del simbolico sulle forme naturali.
Anche i suoni sono sottodeterminati rispetto alle funzioni che assu-
mono in una lingua, surdeterminati dalle relazioni strutturali interne a
questa: il rapporto tra sur- e sotto- determinazione circoscrive dunque
l’azione dell’apriori rispetto ai materiali che organizza – essi cessano, in
virtù della sottodeterminazione, di essere vestigia della natura per dive-
nire parti surdeterminate di un sistema.
Il che porta a una conseguenza necessaria: l’uomo non ha mai a che
fare con la “natura” intesa come insieme puramente materiale. Tutto

dalla proibizione dell’incesto: si tratta sempre di strutture prodotta dall’apriori


simbolico che organizza l’intero mondo umano.
58
C. LÉVI-STRAUSS, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962; Pocket, Paris 2006,
p. 31.

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L’apriori nelle scienze umane

ciò che è “naturale”, dai caratteri fisici degli animali, delle piante e
delle pietre ai comportamenti sessuali o alimentari, è già da sempre
esperito attraverso i sistemi simbolici in cui la mente umana59 lo inse-
risce. La materia è sempre, per l’uomo, una materia-in-forma, dotata di
significazione dal proprio essere supporto di relazioni simboliche. Si
possono allora sviluppare due linee di pensiero a partire da questa tesi.
La prima è incentrata sulla necessaria categorizzazione culturale della
natura: l’uomo non si troverebbe mai di fronte degli oggetti puramen-
te manipolabili, ma solo entità già culturalmente filtrate. Questa linea
è stata sviluppata in particolare da antropologi ispirati a Lévi-Strauss
come Lucien Sebag e Marshall Sahlins: «L’interferenza tra natura e
cultura […] nasce quindi […] da una culturizzazione della realtà na-
turale. La natura diviene cultura […] attraverso l’integrazione di un
certo numero di elementi naturali in un tipo d’ordine che caratterizza
la cultura. Ora, questa caratteristica è propria di ogni sistema simbo-

59
Ricordiamo che in francese “mente” si traduce con esprit. Le frequenti in-
vocazioni dell’esprit humain da parte di Lévi-Strauss hanno innescato – nel corso
di diatribe molto lontane – una polemica molto volgare da parte di Sebastiano
Timpanaro (personaggio non alieno da volgarità, come testimonia il capitolo sul-
lo strutturalismo contenuto in ID., Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970) che
voleva vedere a tutti i costi uno spiritualismo idealistico nel piuttosto positivista
e razionalista Lévi-Strauss. I veri spiritualisti cristiani, come Paul Ricoeur, han-
no invece sempre contestato a Lévi-Strauss il partito preso di fare della vitalità
soggettiva dello “spirito” un mero effetto della struttura. Ricoeur ha anche rifiu-
tato la tesi lévistraussiana di una uguaglianza formale di tutte le culture, oppo-
nendo un privilegio ermeneutico in favore dell’unica cultura che ha conosciuto
il messaggio biblico. La cultura sorta dal cristianesimo sarebbe l’unico oggetto
specificamente ermeneutico, cioè di cui è possibile interpretare il senso, mentre
per le altre culture l’approccio obiettivante di Lévi-Strauss sarebbe sufficiente. È
chiaro come questa impostazione non abbia nulla in comune con l’antropologia
strutturale lévistraussiana. La mente umana è la dinamica generatrice dei sistemi
simbolici in cui si risolve ogni cultura, e quindi coincide con la “messa in forma”
strutturale delle “cose”. L’inesistenza di un sistema simbolico privilegiato – ogget-
to meramente presunto di una disciplina sui generis – permette però di compren-
dere le leggi e le dinamiche di questa messa in forma: Lévi-Strauss proporrebbe
in tal senso una sorta di ermeneutica allargata, capace di mettere in questione la
costituzione stessa di un “mondo” qualunque per degli esseri umani qualunque,
senza la presupposizione ideologica di un dualismo tra una cultura privilegiata,
anomala, e il mare magnum delle altre.

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lico […] essa può venir definita nel modo seguente: utilizzazione di
una materia […] che può essere naturale (colori, suoni, gusti, ecc.) o
culturale (quella fornita da sistemi semiologici già costruiti)»60. Per Se-
bag – discepolo marxista di Lévi-Strauss – si tratta di negare che esista
una razionalità economica-utilitaristica “naturale”, astorica e decultu-
ralizzata, in cui il soggetto calcolante della ratio oeconomica moderna
si troverebbe direttamente e senza mediazioni simboliche confrontato
alla natura delle cose da cui ricavare un’utilità: «L’allevamento di una
certa specie di animali, la pratica di una determinata coltura, sono il
prodotto d’un lavoro continuo dell’intelletto che si esercita su un certo
ambiente naturale; la fabbricazione di strumenti, il lavoro della terra,
l’utilizzazione ordinata e regolata del mondo animale presuppongono
una massa di osservazioni, di ricerche, di analisi, che […] non pren-
dono forma se non attraverso la mediazione di un sistema di pensie-
ro, che supera il piano teorico o semplicemente economico. In questo
senso questi ultimi non sono più “naturali” di qualsiasi altro aspetto
della società»61. Se Sebag si ispira al Marx che afferma «Un negro è
un negro. Soltanto in determinate condizioni egli diventa uno schiavo.
Una macchina filatrice di cotone è una macchina per filare il cotone.
Soltanto in determinate condizioni essa diventa capitale» (Karl Marx,
Lavoro salariato e capitale (1847), Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 46),
sostenendo quindi la relatività della razionalità tecnologica e economi-
ca al sistema dei rapporti sociali capitalistici, Sahlins, polemico con ciò
che nel marxismo resta comunque una naturalizzazione dell’attività
economica, si rifà piuttosto a Boas, da lui visto come un contempora-
neo spirituale e complementare di Marx: «Boas interpolò un elemento
soggettivo indipendente tra le condizioni obiettive e il comportamento
organizzato, tale che quest’ultimo non derivasse meccanicamente dal
primo […] il termine mediatore può essere definito grosso modo come
un’operazione mentale, generata dal contesto e dall’esperienza prece-
dente, che, guidando la percezione specifica i rapporti tra stimolo e
risposta […] il termine mediatore è la tradizione, il Völkergedanken
o modello dominante, che dà ordine nello stesso tempo alla relazio-
ne con la natura, alle istituzioni esistenti, e all’interazioni tra queste

60
LUCIEN SEBAG, Marxismo e strutturalismo, Feltrinelli, Milano 1972, p. 102.
61
Ivi, p. 207.

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L’apriori nelle scienze umane

e quella»62. Per entrambi gli autori, in ogni caso, è chiaro il principio


derivato dall’antropologia strutturale: la razionalità di un’azione non
dipende dalla sua coerenza con un modello astorico di ragion pratica
supposta rispecchiare le costrizioni della natura, poiché tanto le azioni
che i dati naturali traggono il loro significato unicamente dal sistema
che li simbolizza, li ordina e li connette. Il determinismo naturalisti-
co e la razionalità puramente economica e tecnico-strumentale sono
significati culturali determinati dal sistema simbolico predominante
nel mondo “occidentale” moderno, e per nulla affatto dei vincoli natu-
rali posti alla razionalità. In questo senso, bisognerà relativizzare que-
sta osservazione di P. Maniglier rispetto alla situazione culturale del-
le civiltà industriali: «L’idea stessa di progresso implica una sorta di
trasformazione nella concezione della razionalità, una certa rinuncia
al fatto simbolico, a vantaggio di un’azione finalizzata: fare ciò che si
fa non solo perché questo atto ha una funzione simbolica, ma perché
esso sembra adeguato in virtù di finalità chiaramente poste e di mezzi
chiaramente analizzati»63. Ma questi criteri non sono forse determinati
dal sistema culturale che la nostra civiltà ha adottato? Fare una cosa in
quanto strumentalmente adeguata al fine posto non significa comun-
que attribuirle un’utilità strumentale che appartiene a tale sistema? Il
quale di per sé non è stato posto da nessuno, poiché dipende dal pro-
cesso inconscio della simbolizzazione, rispetto a cui l’autotrasparenza
del volere nel determinare l’azione non è se non un effetto di superfi-
cie, o meglio una razionalizzazione. I fini e i mezzi chiaramente posti
e analizzati non si oppongono al valore simbolico dell’azione perché
sono essi stessi valori simbolici, il cui sistema non è accessibile alla co-
scienza, ma solo allo studio teorico dell’antropologo.
La seconda linea metterebbe invece l’accento sulle potenzialità del
materiale di “portare” diversi sistemi simbolici, cioè sul fatto che i dati
sensibili contengono una riserva virtuale di caratteri e differenze su-
scettibili di essere organizzati in maniere differenti. Su questo insiste
per esempio P. Maniglier: «Il pensiero simbolico dà senso al mondo
utilizzando il mondo stesso, produce dell’intelligibile con del sensibi-
le, senza uscire da questo. Per far ciò, esso utilizza certi livelli della re-

62
MARSHALL SAHLINS, Cultura e utilità, Anabasi, Milano 1994, pp. 82-83.
63
P. MANIGLIER, La culture, Ellipses, Paris 2003, pp. 57-58.

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altà sensibile, cioè ciò che bisognerebbe spiegare, per spiegarne altri,
che possono poi essi stessi servire a loro volta da mezzi di spiegazione
[…] il bricolage appare come il modello di una logica dell’eteroclito che
permette di introdurre dell’ordine nel dato sensibile utilizzando la va-
rietà stessa del sensibile. Esso permette dunque di comprendere che le
strutture non sono già pronte nel cervello, ma che sono al contrario dei
mezzi di estrarre dalla realtà stessa un ordine virtuale che quest’ultima
racchiude in sé […] I sistemi non sono mai il frutto dell’applicazione
di un principio di totalizzazione dato in anticipo, ma una struttura è
prelevata nel contenuto stesso che è lei a strutturare»64. È chiaro che
queste due linee complementari lungo le quali si può sviluppare l’antro-
pologia lévi-straussiana corrispondono a una ulteriore dicotomia risolta
nel funzionamento dell’apriori strutturale. Quest’ultimo è principio di
ordinamento arbitrario del mondo sensibile e, al tempo stesso, mezzo
per prelevare da quest’ultimo delle possibilità latenti di significazione.
Un sistema simbolico è l’attualizzazione di una riserva simbolica che
appartiene virtualmente al materiale da ordinare, e in tal senso esso
attualizza tanto una possibilità della mente – cioè rende reale uno dei
possibili sistemi di rappresentazioni di cui questa è capace – quanto una
virtualità del mondo – cioè un possibile senso dell’infinita molteplicità
delle cose. Entrambi questi lati vanno tenuti presenti: trascurarne uno
significherebbe ricadere in un dualismo che potremmo chiamare dua-
lismo di codice e messaggio, laddove il codice è il sistema simbolico e
il messaggio è il mondo sensibile. Se consideriamo il mondo sensibile
come una materia inerte totalmente passiva di fronte alla messa in for-
ma strutturale finiamo per ipostatizzare il codice, e per credere che il
significato possa generare dal nulla l’esistenza materiale delle cose; se
consideriamo le cose stesse come portatrici di un senso univoco intera-
mente determinato da esse finiamo per ipostatizzare il messaggio, per
crederlo autotrasparente; in entrambi i casi si finisce quindi per blocca-
re la possibilità di una pluralità di sistemi simbolici e per negare la tra-
sformabilità di quelli esistenti: un codice che risolvesse interamente in
sé i messaggi non avrebbe mai bisogno di cambiare perché non si por-
rebbe mai il problema di una sua maggior o minor adeguazione a questi
ultimi; e un messaggio che contenesse già in sé l’unico codice entro cui

64
P. MANIGLIER, Le Vocabulaire de Lévi-Strauss, cit., pp. 7-8.

136

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L’apriori nelle scienze umane

interpretarlo non potrebbe mai essere sollecitato a esprimere ulteriori


significati. Lévi-Strauss mostra che, al contrario, il codice eccede il mes-
saggio (perché le cose stesse non contengono già i sistemi simbolici in
cui saranno dotate di senso) e il messaggio eccede il codice (perché la
materia sensibile può essere portatrice di molteplici significati simboli-
ci): la surdeterminazione e la sottodeterminazione del materiale rispet-
to al sistema assicurano quindi che nessuna messa in forma del mondo,
nessun sistema simbolico attuale, possa essere unico o definitivo. Lo
squilibrio duplice tra codice e messaggio rende ciascuno di essi un ec-
cesso e una riserva capaci di determinare un mutamento dell’altro.

3. Conclusioni

Jean-Claude Milner ha ricostruito recentemente ciò che per lui è il signi-


ficato propriamente filosofico dello strutturalismo, cioè il superamento
della dicotomia classica tra phusis e thesis: «I Greci dividevano l’insieme
delle realtà osservabili in phusis e thesis […] al termine phusei appartiene
ciò che è ritenuto non dipendere dalla volontà collettiva degli uomini e
sorgere piuttosto dall’ordine regolare del mondo. Per opposizione, di-
pende dal termine thesei tutto ciò che è ritenuto dipendere dalla volontà
collettiva […] degli uomini, che varia secondo le circostanze e gli
interpreti»65. La “grande polarità” presuppone un concetto di phusis
come oggetto di teoria, di contemplazione pura. Ora, dopo la rivoluzione
galileiana, né il concetto di “natura” resta identico alla phusis greca: «Or-
mai, la scienza ha a oggetto la natura empirica […] reciprocamente, la
natura non è che l’oggetto della scienza; la condizione formale di questa
solidarietà reciproca è che la scienza sia integralmente matematizzata; la
conseguenza materiale di questa solidarietà è che la scienza può interve-
nire sul corso della natura, sia tramite la sperimentazione […], sia trami-
te la tecnica […] la natura non ha altra sostanza sensibile all’infuori di
ciò che è necessario al giusto funzionamento delle formule matematizza-
te della scienza e alle messe-in-applicazione efficaci operate dalla tecnica
[…] La natura in quanto oggetto di una scienza galileiana non è che un
reticolo di leggi e di determinazioni, spogliato di ogni sostanza contem-

65
J.-CL. MILNER, Le périple structural, Seuil, Paris 2002, p. 182.

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plabile […] la scienza richiede la matematizzazione dell’oggetto […] non


che l’oggetto sia d’essenza matematica. Essa non richiede dunque che sia
eterno e perfetto. Al contrario, essa mira a cogliere, tramite la matema-
tizzazione, ciò che in esso potrebbe essere altro da ciò che è: ciò che esso
ha di empirico, di contingente, di ripetibile e quindi di temporale»66. Ma
il progetto moderno di determinazione pragmatico-matematica della re-
altà (in cui il logos della natura non è ottenuto per contemplazione ma
prodotto per razionalizzazione67) richiede che l’antica dualità sopravviva,
nella forma del dualismo tra determinismo della res extensa e libertà ri-
flessiva della res cogitans. La thesis in quanto spazio lasciato alle decisioni
umane, diventa lo spazio, ritenuto non-naturale e non-oggettivabile, del-
la libera decisione, il che permette di concepire un soggetto liberamente
progettante che impone il suo volere a un materiale inerte (la natura) tra-
mite lo strumento desoggettivato della scienza. Lo spirito umano, capace
di manipolare infinitamente secondo il proprio arbitrio la natura resa
disponibile dall’obiettivazione scientifico-tecnica, non sarebbe però esso
stesso suscettibile di conoscenza scientifica: è questo dualismo la condi-
zione per rendere pensabile la moderna costituzione di una determina-
zione scientifica della natura nei termini di un potere illimitato di di-
sporre di un universo di oggetti. Lo strutturalismo avrebbe, secondo
Milner, dissolto questa dicotomia (ed è appunto tale dissoluzione a costi-
tuirne il nucleo e la grandezza): «Esso ha sostenuto […] che quanto era
stato da sempre attribuito al thesei poteva divenire oggetto di una scien-
za […] Senza che, e qui sta la novità singolare, il thesei fosse perciò ricon-
dotto al phusei. Gli oggetti privilegiati della dimostrazione sono appunto
gli oggetti che fino ad allora avevano costituito la differenza tra l’uomo e
la natura: il linguaggio, la parentela, il matrimonio, i miti, le fiabe, la cu-

66
Ivi, pp. 186-187.
67
«Empirica, matematizzata, la scienza moderna è anche strumentale […]La
scienza galileiana s’impone dall’inizio come teoria della tecnica e la tecnica si con-
cepisce come applicazione della scienza […] la scienza può […] rivelarsi non esser
altro che un frammento di tecnica trasformato in teoria; la tecnica può […] pre-
sentarsi come un frammento di scienza trasmutato in applicazione […] Allora non
è più vero che la natura definisca il luogo di ciò che sfugge all’azione e alla volontà
umane. Essa è piuttosto il luogo in cui possono esercitarsi, tramite l’intermedia-
rio della scienza, teorica o applicata, questa azione e questa volontà» (Ivi, p. 188).

138

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L’apriori nelle scienze umane

cina, l’abbigliamento, ecc.»68. In altri termini, il soggetto umano, definito


tra XVII e XVIII secolo come ciò la cui volontà sfugge alla necessità na-
turale, appare determinato dalla necessità di una “seconda natura”: «La
necessità di pura thesis esiste […] essa combina due modalità apparente-
mente opposte: una necessità tanto costrittiva quanto la necessità di na-
tura, e una contingenza tanto soggetta a variazioni di luoghi e di tempi
quanto la thesis degli antichi […] la necessità di thesis […] deve essere
elevata a oggetto di scienza in se stessa e per se stessa: il nome di “strut-
tura” riassume questa decisione»69. La struttura, cioè l’apriori strutturale
di cui abbiamo lungamente descritto il funzionamento nelle due scienze
basilari dello strutturalismo, è ciò che garantisce questa necessità che si
forma localmente e in modo immanente a partire dalla datità di una serie
di condizioni contingenti. La struttura infatti rende intelligibile la produ-
zione (e l’efficacia) di un ordine che sorge dalla pura distribuzione di fat-
tualità. Come ha ben compreso Milner, il risultato è che il dualismo ca-
tegorico sorto dal progetto di disposizione sulla natura dell’Età Classica
viene meno: la teoria strutturale considera che la “mente umana” è un
sistema il cui apriori regge tutta l’esperienza che noi associamo alla
“mente” stessa. L’apriori strutturale, introducendo le nozioni di relazio-
ne, sistema, arbitrarietà, permette di pensare la formazione di questo si-
stema, e quindi la sua pluralità e storicità. Lo strutturalismo di Saussure
e Lévi-Strauss segna il momento in cui le scienze umane hanno potuto
costituire una sorta di ermeneutica generale, il cui oggetto è la logica
che, presiedendo alla formazione e trasformazione di sistemi di rappre-
sentazioni, connette in una sola operazione la costituzione di un “mon-
do” e quella di una “mente”70. Il che significa: la struttura articola tanto

68
Ivi, p. 195.
69
Ivi, pp. 195-196. Come abbiamo avuto modo di osservare in precedenza,
questa riconduzione della necessità nella soggettività umana prolunga un movi-
mento del XIX secolo: «All’inizio di questo secolo infatti si constatò […] che gli
uomini […] per effetto dei soli rapporti che essi costruiscono liberamente tra loro,
sono condotti a seguire dei vincoli altrettanto anonimi, altrettanto costanti, ove
essi si esercitano, altrettanto necessari e inesorabili delle leggi della natura, ma
eventualmente altrettanto variabili da un luogo a un altro, da un’epoca a un’altra,
dei costumi» (Ivi, p. 195).
70
Riprendiamo questa nozione allargata di “ermeneutica” da Enzo Melan-
dri: «La semiologia deve dirci quali fenomeni vadano intesi come segni e quali

139

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il mondo quanto il rapporto significativo a esso, le differenze che orga-


nizzano i sistemi appartenendo in pari tempo alle “cose” e ai significati
che esse riflettono nei saperi, nei discorsi e nelle pratiche. In realtà, que-
sti saperi, discorsi e pratiche rispetto a cui le cose significano sono essi

no. L’ermeneutica deve darci la chiave interpretativa dei fenomeni segnici […] la
semiologia indica il luogo o i luoghi del “messaggio” e ci dice dove possiamo tro-
varlo; mentre l’ermeneutica studia il modo di leggerlo e ci dice con quali “codici”
possiamo ricavare informazioni utili» (E. MELANDRI, La linea e il circolo, cit., p.
671). L’ermeneutica è necessaria perché «il codice non può esser ricavato dal mes-
saggio per semplice induzione: occorre un’ipotesi la quale vada oltre il dato, per
poi cercare in questo la sua concreta verificazione» (ivi, p. 672). Ora, questo pri-
mato dell’ermeneutica, cioè del criterio di rilevanza in base al quale le cose sono
o meno significative, rischia di cadere nell’idealismo, defi nito come «la tendenza
a ridurre ogni questione ontologica a un problema di significato; cioè a riporta-
re ogni semiologia nell’ambito di un’ermeneutica» (ibidem). In tal caso, si ripro-
porrebbe un dualismo, poiché l’ontologia, cioè la determinatezza materiale delle
“cose”, non avrebbe più nessun rapporto con i criteri di significatività di questi
ultimi. D’altronde, rinunciare all’autonomia dei codici rispetto ai dati significa
presupporre «una preliminare divisione dei fenomeni in significativi e non-signi-
ficativi […] in tal caso la semiologia precede l’ermeneutica, ovvero l’ermeneutica
procede per mezzo di una chiave prefissata» (ivi, p. 673). L’unica soluzione è allar-
gare il significato dell’ermeneutica: «Per superare il dualismo categorico di cui di-
ciamo, occorrerebbe […] un criterio per ricavare la semiologia dall’ermeneutica,
e precisamente da un’ermeneutica non prefissata» (ibidem). L’ermeneutica deve
diventare, da mero discorso sull’autonomia dei codici e dei criteri interpretativi,
un discorso sull’instaurazione di detti codici e criteri, dunque un discorso nel cui
orizzonte il codice e il messaggio, le cose e il loro significato, sono visti nella loro
originaria comunicazione, prima di irrigidirsi in un dualismo: «L’ermeneutica
non è solamente interpretazione dei segni già costituiti e per così dire legalizzati
[…] ma è l’interpretazione che, presa in statu nascendi, fa di ogni cosa un segno»
(ivi, pp. 660-661). L’antropologia strutturale di Lévi-Strauss e la linguistica gene-
rale di Saussure sono appunto parti di questa “ermeneutica generale” evocata da
Melandri, in quanto tematizzano l’intreccio delle cose e del significato su di un
piano unitario, accessibile per regressione archeologica dai significati già costituiti,
dunque a partire dalle istituzioni semiologiche ed ermeneutiche vigenti. Per svi-
luppi ulteriori del tema mi permetto di rimandare, oltre che alla già citata voce
Archeologia, al mio contributo Oltre l’ontologia: dalla verità agli enti nel n° 5 della
rivista “Glaux”, dedicato appunto all’ontologia, e al volume curato dal sottoscritto
e da Alberto Gualandi della rivista “Discipline Filosofiche” intitolato L’epistemo-
logia francese e il problema del trascendentale storico.

140

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L’apriori nelle scienze umane

stessi organizzati dalla struttura nell’atto medesimo con cui essa fornisce
loro un oggetto: vi è quindi una reciproca invaginazione della “mente” e
del “mondo”. Infatti, non si potrebbe parlare in nessun caso di un ri-
specchiamento nel senso di una corrispondenza biunivoca tra le cose e
la mente: ciò che esse hanno in comune è piuttosto la tendenza sponta-
nea a produrre ordine, cioè a stabilire delle differenze e ad articolarle.
Questo movimento di analisi della materia in un molteplice e di sintesi
del molteplice in un sistema si verifica spontaneamente nelle “cose” e nel
pensiero simbolico, che, perciò stesso, fa parte delle “cose”. Ma la corri-
spondenza tra la “logica” spontanea della realtà e quella che presiede
alla trasformazione della realtà in simbolo, introducendovi la dimensio-
ne dell’arbitrarietà, non può mai aver luogo: come tra codice e messag-
gio, vi è uno scarto reciproco tra le sintesi che si producono nella “natu-
ra” e quelle (simboliche) che hanno luogo nello “spirito”, sebbene questi
due poli non siano costituiti che in virtù del loro reciproco scarto, della
loro non-coincidenza. Il pensiero cerca di produrre ordine dalla sovrab-
bondanza di ordini naturali, e l’impossibilità di esaurire le virtualità di
questi ultimi genera la differenza tra pensiero e natura, la loro necessaria
inadeguazione. La matrice comune dei due poli è quindi la nuda presen-
za dell’ordine, che, emergendo dalle “cose stesse”, viene tradotto e rifrat-
to dalle pratiche simboliche mediante cui gli uomini entrano in risonan-
za con le molteplicità naturali. La seconda natura è quindi l’ulteriore
messa-in-ordine delle forme d’ordine sempre-già-date nella prima, e lo
scarto tra le due è l’effetto della non-coincidenza a se stesso dell’ordine
naturale, dell’impossibilità di quest’ultimo di ordinare se stesso dall’in-
terno, dunque dell’inesistenza di un Ordine dell’ordine – il che permet-
te allora un’infinità ulteriore ordinabilità. L’insegnamento attuale dello
strutturalismo potrebbe riguardare allora proprio questa coappartenen-
za non-fusionale tra la realtà e il pensiero, o, per usare termini più enfa-
tici, tra la Natura e lo Spirito. Suggerendo che tra questi poli si dia una
matrice comune, un ordine “puro”, che si dividerebbe in differenze e si-
stemi spontanei e simbolici in virtù del suo stesso squilibrio interno, l’aprio-
ri strutturale potrebbe alludere a un recupero dell’ispirazione schellin-
giana di una Naturphilosophie.

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CIRO L. DE FLORIO

Teorie formali e fondazione a priori

I. FONDAZIONE A PRIORI

1. Introduzione

Fin dalla riflessione platonica sulla conoscenza, sembra un guadagno


abbastanza certo del pensiero occidentale la definizione del sapere
come credenza retta e fondata. Un soggetto sa (o conosce) una propo-
sizione A se e solo se:

i) il soggetto crede A
ii) il soggetto ha buone ragioni per credere A
iii) A è vera

Il primo e il terzo requisito sono di fatto ineliminabili: non si può


conoscere qualcosa senza crederlo né si può conoscere qualcosa di
falso. Il polo della credenza e il polo della verità riguardano, rispetti-
vamente, il tratto soggettivo e oggettivo del rapporto epistemico. Ma,
già nel periodo classico, è apparso evidente che le condizioni (i) e (iii)
non erano sufficienti. La credenza può essere immotivata, assurda,
casuale e tuttavia, in casi fortunati, può essere veritiera: siamo ancora
in presenza di conoscenza autentica? Il requisito (ii) introduce pro-
prio il concetto di giustificazione e implica che le nostre credenze,
per aspirare al ruolo di conoscenze, non devono solo essere vere ma
anche fondate. Lo studio fi losofico delle procedure di fondazione ha
innervato tutta la storia della fi losofia assumendo, di volta in volta, de-
nominazioni differenti ma conservando un nucleo di questioni fonda-
mentali alcune delle quali saranno trattate nel nostro lavoro. L’aspetto
a priori non indica, primariamente, né la modalità di accesso del co-

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Ciro L. De Florio

noscente al conosciuto né, tantomeno, una qualche priorità cronologi-


ca o logica; specifica, invece, una particolare modalità di fondazione
della conoscenza1.
Si prendano in esame i seguenti enunciati:

(1) Se un oggetto è completamente rosso non può essere verde.


(2) Se A è parte di B e B è parte di C, allora A è parte di C.
(3) Se piove, prendo l’ombrello. Piove. Dunque prendo l’ombrello.
(4) 7 + 5 = 12
(5) Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo. Quindi Socrate
è mortale.
(6) Se la proprietà P è posseduta dallo 0 e, se vale di un numero vale an-
che del suo successore, allora la proprietà P vale di tutti i numeri.

Si tratta di enunciati molto differenti tra loro. Alcuni sembrano ba-


nali, altri meno. Provengono da contesti teorici disparati e trattano og-
getti di varia natura. Il primo pare dichiarare una verità piuttosto evi-
dente: se qualcosa è completamente colorato di rosso non può essere
colorato con un’altra tinta, pena il non essere più completamente colo-
rato di rosso. Questo esempio, molto citato in letteratura, è utile anche
per i nostri scopi. Trattandosi di colori, la conoscenza di (1) richiede
un ricorso all’esperienza sensibile, segnatamente all’esperienza visiva.
Abbiamo bisogno dei concetti di ‘rosso’, di ‘verde’, di ‘essere colorato’
e così via. Quale miglior modo, per formare questi concetti, se non
aprire gli occhi alla ricerca di oggetti colorati? Potremmo essere tentati
di affermare che (1) è una proposizione a posteriori, empirica. Eppu-
re, almeno secondo la concezione standard, le cose non stanno così. È
verissimo che l’accesso epistemico ai colori avviene mediante un’espe-
rienza sensibile, una percezione visiva. Tuttavia la giustificazione di
(1) non deriva dall’esperienza. Non ho bisogno di controllare tutti gli
oggetti completamente rossi in cerca di tracce di verde per garantire
la verità di (1). Mi basta cogliere in qualche modo che cosa voglia dire

1
Sulla fondazione a priori la letteratura è davvero sterminata. A titolo pura-
mente esemplificativo citiamo il classico BONJOUR 1998 e AUDI 1993. In lingua ita-
liana, poi, rimandiamo a GIORDANI 2002 dove viene affrontato anche il tema della
fondazione a priori.

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Teorie formali e fondazione a priori

‘essere completamente colorato’ e, conseguentemente, mi rendo conto


che quel principio di esclusione dei colori è necessario, strutturale. Per
sapere se piove devo andare a vedere fuori dalla finestra; ma per sape-
re che se piove allora non è sereno, mi basta un attimo di riflessione e
una banale conoscenza del significato dei termini usati per descrivere
le condizioni atmosferiche. Ogni volta che nelle procedure di giustifi-
cazione possiamo prescindere dal dato esperienziale siamo in presenza
di una fondazione a priori. Tutti gli esempi proposti possono essere an-
noverati senza particolari problemi tra le conoscenze fondabili o fon-
date a priori. (2) è un caso di transitività della relazione ‘essere parte’.
Anche qui non è necessario sincerarsi che A sia effettivamente parte di
C; se le premesse sono vere, ho tutto quello che mi serve per conclude-
re che A è parte di C. (3) e (5) sono istanze di schemi logici. Il primo è
il modus ponens mentre il secondo è un sillogismo. Tradizionalmente,
si ritiene che la conoscenza dei principi logici sia una delle forme pa-
radigmatiche di conoscenza a priori; la logica concerne gli enti di ra-
gione, quindi, per definizione, gli enti di ragione non richiedono una
connessione diretta con l’esperienza nelle procedure giustificative. In-
fine (4) e (6) sono esempi tipicamente aritmetici. Nel primo caso, ab-
biamo un’istanza di addizione; il secondo è il principio di induzione
completa. Non discuteremo ora questi enunciati perché costituiscono
di fatto il tema del nostro lavoro. Le teorie formali2 sono un caso di
studio interessantissimo per il problema dell’apriori; anzi si potrebbe
dire che tutti i tentativi di negare o ridurre la dimensione a priori del-

2
Una nota terminologica. In ciò che segue chiameremo ‘formali’ le teorie i cui
oggetti sono astratti (cioè, non spazio-temporalmente collocati) e le cui proce-
dure di fondazione sono a priori. Esempi classici di teorie formali sono le teorie
matematiche (algebra, aritmetica, analisi, geometria, e così via). Le teorie formali
sono poi formalizzate, espresse cioè in un linguaggio regimentato e presentano
normalmente una struttura assiomatica. La nostra terminologia non è del tutto
standard dal momento che per ‘teoria formale’ si può intendere anche una teo-
ria non ancora interpretata. Dal nostro punto di vista, le teorie matematiche cui
facciamo riferimento sono considerate come interpretate rispetto ai loro modelli
intesi anche se questo è ovviamente problematico. Talvolta utilizzeremo il termi-
ne ‘eidetico’ per descrivere teorie che si occupano di oggetti non empirici e che
hanno procedure di fondazione a priori. Discuteremo in seguito alcuni aspetti di
queste tematiche.

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Ciro L. De Florio

la conoscenza umana si declinano come sforzi di reinterpretazione del


dato epistemico proveniente dalla dimensione formale. Come a dire: se
vogliamo dimostrare che la fondazione a priori è inesistente o riduci-
bile a qualche cosa d’altro dobbiamo confrontarci innanzitutto con le
teorie formali, il regno della conoscenza a priori.

2. Posizioni sull’apriori

Come abbiamo detto in chiusura del paragrafo precedente, le teorie


formali sono il punto cruciale (o, perlomeno, uno dei punti cruciali)
della discussione sul fondamento a priori della conoscenza. In effet-
ti, definire le teorie matematiche e logiche come quelle teorie che, dal
punto di vista ontologico, si riferiscono a regioni non spazio-temporal-
mente determinate e, dal punto di vista epistemico, come teorie che si
fondano in base a procedure di giustificazione indipendenti dall’espe-
rienza, equivale, per definizione, ad ammettere una dimensione auten-
tica di fondazione a priori. Il che trova conferma dal punto di vista sto-
rico: bisognerà aspettare l’opera di Hume e Mill per vedere in azione
una discussione dell’apriori e della sua aproblematica validità.
Come dice molto bene BonJour, oggi l’apriori è sotto attacco da mol-
ti punti di vista:

In spite of its historical prominence, however, the very idea of a


priori epistemic justification has over the last century or so been the
target of severe and relentless skepticism. (BONJOUR 1998 p. 2)

Presentiamo tre posizioni sull’apriori che sintetizzano abbastan-


za bene la varietà degli approcci contemporanei; non c’è ovviamen-
te pretesa di completezza3.

Empirismo radicale
Gli empiristi radicali tendono a negare l’esistenza stessa della fondazio-
ne a priori. Capofila Quine (ma padre ispiratore Mill), questi pensatori
vogliono dimostrare che tutta la conoscenza umana è, in realtà, cono-

3
In questa esposizione ci riferiamo a BONJOUR 1998, pp. 3-27.

146

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Teorie formali e fondazione a priori

scenza empirica, a posteriori. E non potrebbe essere altrimenti, dati gli


assunti che stanno alla base della loro proposta filosofica. In particolare,
per Quine, la conoscenza umana si struttura come una rete di credenze
disposte secondo un particolare ordine: alla periferia stanno le credenze
che dipendono più direttamente dall’esperienza sensibile (continuando
la metafora potremmo dire che la rete di Quine è appoggiata sul mondo
fenomenico); man mano che procediamo verso il centro, il legame con la
periferia diventa più sfumato e le credenze possiedono un minor conte-
nuto empirico. Al centro stanno i principi della logica e della matematica
(le scienze formali). Si noti che, in base a questa impostazione, si potreb-
be ancora trovare posto per una conoscenza a priori: in fondo, quello
che la fortunata analogia quineana mostra è semplicemente che non esi-
ste un confine netto tra conoscenze a priori e a posteriori e che queste
nozioni sono irrimediabilmente fuzzy. Il radicale empirismo scaturisce
allora dall’affermazione che sono le credenze periferiche (ovvero quelle
‘esposte’ sul mondo dei fenomeni) che di fatto regolano l’intera rete di
conoscenze. Dire, quindi, che i principi logici (e matematici) possiedono
meno contenuto empirico equivale a dire che possiedono meno contenu-
to tout court in quanto l’unica fonte di conoscenza è data dall’interazione
causale con il mondo fisico. Questa teoria della conoscenza, che per il
grado di forte connessione tra le credenze, è denominata anche olismo
naturalista, si accorda perfettamente con l’ontologia di Quine e in gene-
rale dei naturalisti. Il mondo è tutto ciò che è esperibile4 empiricamente

4
Bisogna ammettere che Quine, durante la sua produzione, modificò le sue
opinioni ontologiche. A fronte di un forte naturalismo, egli ammise come legit-
timi gli argomenti di indispensabilità. Riassumendo molto si può dire così: poi-
ché la scienza positiva postula entità teoriche che non sono esperibili e poiché la
scienza è l’unica forma di conoscenza autentica, allora è necessario ammettere
nella nostra ontologia, nel nostro ‘catalogo del mondo’, anche gli oggetti postu-
lati durante l’impresa scientifica. L’esempio più discusso tra gli argomenti di in-
dispensabilità è quello formulato insieme a H. Putnam sull’esistenza dei numeri.
Poiché non si può fare scienza senza numeri, i numeri devono esistere; o meglio,
dobbiamo costruire la nostra ontologia come se i numeri esistessero. Questo ar-
gomento è stato a lungo dibattuto e ha incontrato sia oppositori che sostenitori;
segnaliamo l’opposizione di Hartry Field che, in un certo senso, è più realista del
re e cerca di far vedere come la scienza (in particolare la fisica) possa essere svilup-
pata prescindendo da qualsiasi formalismo matematico. Cfr FIELD 1980; QUINE
2006, pp. 20-46; per una presentazione e una critica, cfr. SHAPIRO 2000.

147

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e ogni forma di conoscenza deve ridursi a un’interazione causale fisica


tra materia e soggetto conoscente; la conoscenza a priori quindi non esi-
ste. Il radicale empirismo di Quine è una posizione teorica più forte di
quello che potrebbe apparire da questo brevissimo sunto. Non è questa
la sede per tentare una ricostruzione e una confutazione. Contro la ri-
vedibilità dei principi logici, difesa da Quine in presenza di esperienza
recalcitrante, possono valere però i classici argomenti trascendentali ri-
presi anche da BonJour nella trattazione dell’empirismo quineano.

Empirismo moderato
Questa posizione ci occuperà invece più a lungo perché, in un certo
senso, la discussione che segue prende come referente polemico pro-
prio la posizione dell’empirista moderato. Chi adotta questo punto di
vista crede che la conoscenza a priori esista ma ammette che sia di
natura esclusivamente linguistica e che, alla fine, non apporti reale in-
cremento epistemico. Si noti che le differenze con l’empirismo radicale
sono sfumate e dipendono dagli orientamenti teorici dei singoli autori.
In questa rassegna che, lo ricordiamo, è strumentale a quanto diremo
in seguito, differenzieremo i due approcci in base a questo principio:
per l’empirista radicale la conoscenza a priori è illusione; esiste solo la
conoscenza empirica. Per l’empirista moderato esiste una forma di giu-
stificazione a priori solo che non è informativa sul mondo, nemmeno
su tratti strutturali del mondo. È, al massimo, informativa sul linguag-
gio e sulle sue regole5. Insomma, l’empirista moderato afferma che
se un enunciato è fondato a priori allora è analitico, intendendo, con
quest’ultimo termine, il fatto che l’enunciato in questione non apporta
un incremento conoscitivo. Ciò che nega ogni impostazione empirista
(sia quelle più moderate che, a maggior ragione, quelle estreme) è l’esi-
stenza di un’intuizione razionale (o a priori o eidetica) che costituisca
il fondamento della giustificazione a priori. Come avremo modo di ve-
dere in seguito, la conoscenza linguistica, l’unica forma di conoscenza
5
Naturalmente si potrebbe obiettare che anche il linguaggio è un pezzo di
mondo. L’obiezione, però, non coglierebbe nel segno pur essendo di per sé valida.
E il motivo è che le categorie ontologiche che sono richieste perché il linguaggio
possa far parte del ‘mondo’ a pieno titolo sono tali che implicherebbero già il rico-
noscimento di una dimensione autentica dell’apriori. Chi nega questa nega anche
l’oggettività dei concetti e delle strutture linguistiche.

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Teorie formali e fondazione a priori

a priori ammessa, è di fatto, una conoscenza definitoria, ovvero una


conoscenza di definizioni nominali, semplici regole di accorciamento.
Chi ammette, invece, una forma di giustificazione a priori, basata su
un’intuizione eidetica, si impegna a riconoscere alla conoscenza a prio-
ri un effettivo incremento epistemico.

Razionalismo moderato
Il razionalista moderato, infine, ammette una dimensione autentica
della giustificazione a priori e basa quest’ultima su una forma di in-
tuizione razionale. Dato quindi un enunciato B, fondato a priori, non
è necessario che B sia analitico, ovvero non informativo. Esistono di-
mensioni della conoscenza che, vedremo, sono quelle riguardanti trat-
ti strutturali della realtà, che possono essere giustificate a prescindere
dal dato esperienziale. Per tornare all’esempio (1), è un tratto struttu-
rale della realtà (degli oggetti estesi) che sia impossibile la compresen-
za di due colori e quindi questa proposizione può essere giustificata in
base alla nostra intuizione razionale, senza bisogno di accedere empi-
ricamente ai corpi in questione. Come è facile notare, molti dei temi
discussi risentono di ambiguità semantiche notevoli: termini quali ‘a
priori’, ‘analitico’, ‘esperienza’ possiedono significati così complessi e
talvolta disparati che, senza una regimentazione linguistica appropria-
ta, si rischiano numerosi fraintendimenti. Ne è un esempio l’identifi-
cazione del concetto di ‘analitico’ con ‘tautologico’ o ‘privo di infor-
mazione’; anche questa semantizzazione è, in un certo senso, figlia del
rifiuto dell’apriori. Come avremo modo di vedere, guadagnando una
forma di razionalismo, è possibile mantenere il principio che tutto ciò
che è fondato a priori è analitico ma, nel contempo, allargare quest’ul-
timo concetto in modo da includere i tratti strutturali della realtà di
cui abbiamo discusso poc’anzi.

3. Rivedibilità della conoscenza a priori

Buona parte dello scetticismo nei confronti dell’apriori è dovuto


all’identificazione (storica) dell’apriori con l’infallibile. In una stagio-
ne filosofica dominata, quanto meno, dalla precarietà di ogni sapere
umano, rivendicare l’assoluta incontrovertibilità di alcune proposizio-

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ni apparve semplicemente insostenibile. Oggi, anche gli autori che ac-


cettano senza problemi una dimensione a priori della conoscenza e si
impegnano nei confronti di un’intuizione eidetica (o razionale) diffi-
cilmente sposano la tesi dell’irrivedibilità. Senza entrare in dettagli
tecnici che in questa fase introduttiva non sono essenziali, possiamo
affermare che:

a) l’intuizione razionale e le conseguenti procedure di fondazione a


priori possono essere rivedibili;
b) tuttavia, non escludiamo che possano esistere proposizioni fondate
a priori assolutamente irrivedibili.

La giustificazione del punto (a) è estremamente semplice e si basa su


una ricognizione storica: abbiamo avuto casi di proposizioni fondate a
priori che si sono rivelate poi false. Un esempio su tutti è una partico-
lare istanza dell’assioma di comprensione non ristretto di Frege6:

(CA) ∃x∀y(y∈x ↔ y∉y)

Il che significa: esiste un insieme x che è l’insieme di tutti gli in-


siemi che non sono elementi di se stessi. Ora, come è noto, attraverso
due banali passaggi logici è possibile ottenere la contraddizione per
cui si viene a dire che un insieme a è elemento e non è elemento di se
stesso (a∈a ↔ a∉a). Eppure questo assioma era stato fondato in base
a un’intuizione razionale, e quindi il suo impiego giustificato a priori.
Quindi, il razionalista moderato non deve per forza sposare una teoria
della conoscenza che lo costringa ad affermare l’infallibilità delle sue
conoscenze a priori. Il grado di incontrovertibilità dell’apriori sta nel
fatto che nessuna conoscenza a priori può essere confutata da un re-
soconto empirico. Dal punto di vista ontologico, ciò che è strutturale
(e quindi oggetto di conoscenza a priori) non può essere in contrad-
dizione con ciò che è particolare (oggetto dell’intuizione sensibile); al
massimo, un’altra conoscenza a priori può soppiantare quella prece-

6
Cfr. FREGE 1893 e FREGE 1903; per una trattazione eccellente della contraddi-
zione nel sistema fregeano rimandiamo ai saggi di BOOLOS 1998. Una ricostruzio-
ne completa e dettagliata del sistema logico fregeano è in GIORDANI 2006.

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Teorie formali e fondazione a priori

dente. Esiste, poi, un interessante obiezione circa la confutabilità dei


principi a priori. Un filosofo razionalista (e non tanto moderato) po-
trebbe argomentare così: certo che ci siamo sbagliati circa l’assioma di
comprensione ma questo non vuol dire nulla sulle nostre procedure
di fondazione a priori. O meglio, le nostre procedure erano fondate su
un’intuizione che di per sé è infallibile ma che in quel caso non stava
illuminando il concetto di insieme; non stavamo intuendo nulla, tanto
è vero che il tutto si è risolto nella contraddizione. Quando c’è eviden-
za, allora questa è infallibile. Se c’è errore è perché non c’era autentica
evidenza razionale.
Al di là di molte questioni che possiamo sollevare circa l’argomenta-
zione, il punto è interessante e lo discuteremo in seguito; diciamo che la
nostra strategia sta nel differenziare gli oggetti dell’intuizione razionale
in base al loro grado di complessità. Fino a un certo livello (e la deter-
minazione di questo è molto complicata) possiamo dire che le nostre
procedure sono immuni da errore (salvo ovviamente l’errore contingen-
te); quando i contenuti oggetto di intuizione eccedono un determinato
grado di complessità (e, tendenzialmente, assumono un significato infi-
nitario) ecco che la nostra intuizione razionale diventa fallibile.
Infine, il punto (b) garantisce che, di per sé, non è escluso che esista-
no particolari proposizioni fondate a priori assolutamente irrivedibili.
Si tratta dei principi logici fondamentali (soprattutto il principio di non
contraddizione) per i quali vale una forma di intuizione immediata e
non linguistica7. In questa sede non discuteremo lo statuto epistemico
dei principi logici e, di conseguenza, non porremo sullo stesso livello
principi logici e assiomi delle teorie formali anche se, sia storicamen-
te che teoricamente, è corretto considerare la logica proposizionale (o
dei predicati) come una teoria formale a tutti gli effetti. Classicamente,
però, l’intuizione alla base della discussione sui principi logici è di di-
versa natura: legata non al piano oggettuale dell’argomentazione bensì
a quello trascendentale.

7
Per un approfondimento vedi GALVAN 1997.

151

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Ciro L. De Florio

4. Intreccio tra a priori e necessario8

Prima di affrontare il tema principale del nostro lavoro è bene sof-


fermarsi ancora un istante su alcuni concetti intimamente connessi
all’idea di apriori che sono stati per lungo periodo considerati coin-
cidenti con essa. Si tratta delle nozioni di necessità e di analiticità. A
priori, necessario e analitico, così come i rispettivi correlati, e cioè, a
posteriori, contingente e sintetico appartengono a contesti differenti.
Come abbiamo già avuto modo di vedere, una proposizione può essere
o meno fondabile a priori e questo riguarda il suo statuto epistemico;
viceversa uno stato di cose può essere necessario ovvero presente in
ogni mondo possibile, oppure possibile e cioè presente in almeno un
mondo possibile; infine, una proposizione è analitica quando è vera
solamente in virtù del significato dei termini che occorrono in essa.
Si tratta di definizioni assolutamente parziali e provvisorie: quello che
è rilevante è, però, la distinzione tra i contesti ai quali appartengono
queste coppie concettuali. Contesto epistemico per la coppia a priori /
a posteriori; contesto ontologico per necessario / contingente e conte-
sto semantico-informazionale per analitico / sintetico. Vediamo ora i
rapporti tra proposizioni a priori e stati di cose necessari.
Utilizzeremo la seguente simbologia:

i) F<(A) =def. A è fondato a priori


ii) ‰A =def. A è uno stato di cose necessario
iii) An(A) =def. A è una proposizione analitica9

8
Le connessioni concettuali tra a priori, necessario, analitico sono oggetto di
numerose trattazioni. Rimandiamo, tra gli altri, a GIORDANI 2002, BONJOUR 1998,
BEALER 2000.
9
Potrebbe essere fonte di confusione l’utilizzo della lettera A come segno sia
per proposizioni che per stati di cose. A parte la posizione secondo cui le proposi-
zioni sono particolari stati di cose, è sottointeso che quando diciamo che una pro-
posizione è necessaria indichiamo, con ciò, che lo stato di cose descritto da quella
proposizione è necessario. Del resto, secondo alcuni, le proposizioni, in quanto
oggetti astratti, se esistono, esistono necessariamente. In ciò che segue non spe-
cificheremo tutte le volte se ci stiamo riferendo a stati di cose o a proposizioni:
dovrebbe risultare chiaro dal contesto.

152

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Teorie formali e fondazione a priori

La prima parte dell’intreccio riguarda proprio i rapporti tra (i) e (ii).


Tutto ciò che è a priori è anche necessario? E, viceversa, tutto ciò che
è necessario è a priori? S. Kripke10 ha messo in dubbio la tesi di coin-
cidenza tra necessario e a priori sostenendo, rispettivamente, che vi
possano essere proposizioni fondate a priori ma non necessarie e pro-
posizioni necessarie ma non fondate a priori.
La prima implicazione dichiara che tutto ciò che è fondato a priori
è anche necessario:

(I) F<(A) → ‰A

L’intuizione alla base di (I) è chiara: se la fondazione a priori riguar-


da tratti del mondo che non sono connessi direttamente alla dimensio-
ne esperienziale ed empirica, allora si riferirà agli aspetti della realtà
strutturali che, proprio per questo, sono invarianti e quindi necessari.
Del resto se la procedura di fondazione vale nel mondo attuale non vi
sono ragioni perché non possa valere anche per gli altri mondi possi-
bili. Come abbiamo già detto, la fondazione a priori prescinde dagli
aspetti contingenti del mondo. Ma se ciò che è a priori nel mondo
attuale è a priori in tutti i mondi possibili ne segue che è anche ne-
cessario. Quindi la tesi di coincidenza tra a priori e necessario è vera.
Questa argomentazione, tuttavia, non convince. (I) stabilisce che la
fondazione a priori è sufficiente per la verità necessaria; si tratta di un
principio estremamente potente in quanto non sancisce solo l’attuale
affidabilità delle procedure di fondazione ma la loro validità in ogni
contesto possibile. Quindi (I) è vera se conferiamo alle procedure di
giustificazione a priori lo statuto dell’infallibilità. In tal caso si tratta
di una semplice inferenza: se qualcosa è vero nel mondo attuale allora,
per la procedura di fondazione assoluta, deve essere vero in tutti i mon-
di possibili, ma allora deve essere necessario. Se invece assumiamo un
razionalismo più moderato e ammettiamo che le procedure di fonda-
zione a priori non siano del tutto affidabili11 dobbiamo tenere in conto

10
Cfr. KRIPKE 1980.
11
Ancora una specificazione sul problema del fallibilismo. Sposare un raziona-
lismo moderato non implica in nessun modo l’adozione di una posizione episte-
mologica generale scettica o fallibilista, anzi. Il razionalista è un ottimista episte-

153

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Ciro L. De Florio

la possibilità che una proposizione sia fondata a priori e, purtroppo,


risulti falsa o, perlomeno, vera solo in base a certe assunzioni di fondo
che non valgono in tutti i mondi possibili. Quindi (I), che dichiara che
se A è fondabile a priori allora è necessaria non vale in generale. Tutta-
via se A è fondata a priori e, inoltre, è vera allora si può concludere che
A è necessaria. Questo per il motivo già analizzato in precedenza: se A
è fondata a priori allora descrive uno stato di cose strutturale e quindi,
se è vera, allora sarà vera in ogni mondo possibile. Riassumendo:

(I*) F<(A) & A → ‰A

Kripke ha proposto un controesempio a questa implicazione:

(K) Il metro campione è lungo un metro

Secondo Kripke12 (K) è a priori eppure del tutto contingente. Noi


sappiamo che il metro campione è lungo un metro senza doverlo misu-
rare, senza il ricorso all’esperienza e tuttavia è una contingenza storica
che sia proprio un metro l’unità di misura scelta come paradigma della
lunghezza. Proponiamo una possibile controargomentazione. In (K)
il sintagma ‘il metro campione’ ha un referente ambiguo. Se si riferi-
sce alla barra di platino-iridio conservata a Parigi allora si tratta di un
enunciato che riguarda un oggetto specifico e che quindi è fondato a
posteriori. Se invece si riferisce a uno standard fisico utilizzato per fissa-
re il riferimento dell’unità di misura allora in questo caso si tratta di una
conoscenza a priori ma anche necessaria perché sarebbe equivalente a:

(K’) L’oggetto fisico che assumiamo essere lungo un metro è lungo un


metro

(K’) è ovviamente a priori, necessaria e analitica. Quindi per quanto


riguarda la prima parte della tesi di coincidenza tra a priori e neces-
sario, possiamo dire che in generale non vale mentre si può accettare

mico e ritiene (secondo noi a ragione) che la fondazione a priori sia, in ogni caso,
la migliore e più sicura procedura di fondazione a disposizione.
12
Cfr. KRIPKE 1980.

154

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Teorie formali e fondazione a priori

che, nel caso di proposizioni fondate e vere, allora sia lecito conside-
rarle come necessarie.
La seconda parte della tesi di coincidenza riguarda la seguente im-
plicazione:

(II) ‰A → F<(A)

Cioè, ogni proposizione necessaria è fondata a priori. Anche in que-


sto caso si possono presentare una serie di controesempi. I più noti uti-
lizzano enunciati matematici non ancora dimostrati né confutati: uno
su tutti, la congettura di Goldbach13. Vera o falsa che sia, tale proposi-
zione è sicuramente necessaria (ovvero, necessariamente vera o neces-
sariamente falsa). Ma in ogni caso siamo in presenza di un enunciato
necessario e non fondato a priori. Qui è necessario precisare ulterior-
mente il nostro operatore di fondazione a priori. Un conto è affermare
che qualcosa è fondato nel senso che è attualmente a disposizione una
procedura di fondazione; altro è invece dire che è fondabile, nel senso
che esiste una procedura di fondazione ma che non è disponibile ades-
so. Nel caso di (II) si può quindi dire che se un enunciato è necessario
ed è fondabile, allora è fondabile a priori. Questo naturalmente, non
esclude la possibilità di ammettere enunciati necessari che siano di
principio impossibili da giustificare. Un simile atteggiamento teoreti-
co, nei confronti delle verità matematiche è in contrasto con quella po-
sizione chiamata spesso ‘ottimismo gödeliano’ ovvero la presunzione
che, prima o poi, raggiungeremo tutte le verità matematiche.
Che dire a questo punto dell’intreccio tra proposizioni a priori e
analitiche? Anche in questo caso molta discussione è dipendente
dall’accezione semantica scelta per il termine ‘analitico’. In ogni caso
la tesi di coincidenza si divide anche in questo caso in:

(III) An(A) → F<(A)


(IV) F<(A) → An(A)

13
Secondo la congettura di Goldbach ogni numero pari più grande di 2 è la
somma di due numeri primi. Benché si sia calcolato che la tesi vale per numeri
spaventosamente grandi non si ha ancora una dimostrazione che essa valga per
tutti i numeri pari.

155

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Ciro L. De Florio

Per proposizione analitica intenderemo, secondo l’uso più diffuso,


una proposizione che è vera solo in virtù del significato dei termini che
occorrono in essa, In base a ciò, (III) è di fatto non problematica. Per
stabilire la verità di una proposizione analitica è sufficiente compren-
dere i significati delle parole e le loro connessioni, senza nessun pro-
cedimento giustificativo esperienziale14. Ben più complessa è invece la
discussione di (IV): tutto ciò che è a priori è anche analitico. Secondo
la tradizione empirista (sia moderata che estrema) il concetto di ana-
litico è profondamente connesso con il concetto di non informativo o
tautologico. Le proposizioni analitiche sono sempre vere, quindi non
dicono nulla sul mondo attuale e pertanto sono prive di contenuto.
L’unica conoscenza che proviene dalla dimensione dell’analitico è una
conoscenza di tipo linguistico (o, tutt’al più concettuale ma con un’at-
tenta delimitazione di questo ambito). Se (IV) è interpretato in manie-
ra standard coincide con la tesi dell’empirista moderato discussa in
precedenza. Ovvero, la posizione secondo cui esiste una fondazione a
priori ma questa non ha di fatto alcuna presa sul mondo e serve solo
a esplicitare la connessione tra i significati dei termini del nostro lin-
guaggio. Così BonJour:

The basic claim of the moderate empiricist is that a priori epistemic


justification, though genuine enough in its own way, extends only to
propositions that reflect relations among our concepts or meanings
or linguistic conventions, rather than to those that make substantive
claims about the character of the extraconceptual world. (Cfr. BON-
JOUR 1998, p. 18)

Raccordato al tema del nostro paper, il problema diventa allora


questo: le teorie formali, ovvero le teorie che possiedono procedure
di giustificazione a priori, producono conoscenza autentica, o espli-
citano solamente le connessioni semantiche dei linguaggi tramite i
quali costruiamo le teorie? Una posizione razionalista non può re-

14
Ciò non esclude, come abbiamo già detto in precedenza, che per garantirci
l’accesso epistemico a determinati significati sia di fatto imprescindibile il ricorso
all’esperienza. A tal proposito rinviamo alla discussione dell’esempio delle esten-
sioni colorate.

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Teorie formali e fondazione a priori

legare il sapere matematico nell’ambito puramente sintattico ma si


impegna ad ammettere una forma di sporgenza epistemica rispetto
alle regole con cui è costruito un linguaggio. Continueremo la nostra
esposizione analizzando due posizioni paradigmatiche a tal proposi-
to; si tratta del saggio inedito di K. Gödel, La matematica è sintassi
del linguaggio?15 in cui egli critica le posizioni empiriste e convenzio-
naliste di Carnap e dei membri del Circolo di Vienna. Quindi, appro-
fondiremo un aspetto citato da Gödel e cioè l’importanza di ricono-
scere forme di intuizione concettuale non fi nitaria al fi ne di garantire
lo statuto a priori della matematica.

II. CARNAP, GÖDEL E LA MATEMATICA COME SINTASSI DEL LINGUAGGIO

1. Il manifesto empirista: la matematica è sintassi del linguaggio

Ripercorrendo molto rapidamente le considerazioni fino a ora svolte,


identifichiamo in due punti fondamentali la posizione empirista mo-
derata circa l’apriori:

a) Esiste una dimensione a priori nella conoscenza umana


b) L’apriori è però solamente linguistico e non comporta, di fatto,
nessun incremento cognitivo rilevante.

Esplicitando un po’ i punti (a) e (b), siamo giunti a dire che, di fat-
to, l’empirista dichiara che se un enunciato è fondato a priori questo
enunciato è analitico. Ciò significa, che nella procedura di giustifica-
zione, ci si basa esclusivamente sulla comprensione delle regole che
sovrintendono al linguaggio e non si fa in alcun modo riferimento a
forme di intuizione razionale. Questo orientamento teorico ha animato
buona parte degli esponenti del Circolo di Vienna fino al secondo do-
poguerra quando le posizioni si sono poi diversificate e sono diventate
più complesse. La sistemazione più organica e profonda di queste tesi
filosofiche ha visto la luce nella Sintassi logica del linguaggio di Rudolf

15
Cfr. GÖDEL 1995; le citazioni si riferiscono alla versione inglese.

157

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Ciro L. De Florio

Carnap16. Prima di passare alla discussione critica di questa filosofia


della matematica presenteremo i tratti caratteristici della concezione
di Carnap rinvenuta nella Sintassi.

Secondo il Carnap della Sintassi, la matematica è sintassi logica del


linguaggio o, meglio, tutto l’edificio matematico può essere ridotto a
sintassi logica del linguaggio. Cosa intende con questa espressione e in
che misura si differenzia dalla concezione classica? Per ‘sintassi’, Car-
nap intendeva la dimensione del linguaggio scevra da ogni riferimento
empirico (o fattuale). Sintassi del linguaggio sarà allora l’insieme di re-
gole e procedure che concernono la combinazione dei segni linguistici
senza considerare gli eventuali ‘significati’ di tali segni. La definizione
di ‘sintattico’ carnapiana è vicina, da questo punto di vista, a quella
di ‘formale’ di Hilbert e cattura l’idea della trattazione del linguaggio
prescindendo da ogni contenuto. Ovviamente, già in questa caratteriz-
zazione, possiamo rinvenire un assunto tipicamente empirista: il con-
tenuto informazionale coincide con il contenuto empirico per cui, in
assenza di questo, il linguaggio è formale, sintattico. All’idea di vuo-
tezza semantica si correlano due altre caratteristiche del linguaggio
di Carnap: la totale rigorizzazione della struttura linguistica, ottenuta
tramite la simbolizzazione, e la costituzione di regole che determina-
no in quali circostanze si possa asserire un dato enunciato. Per quan-
to riguarda il primo punto, non c’è molto da segnalare; si tratta delle
prime applicazioni (in campo filosofico) di un linguaggio regimentato
e simbolico. Di per sé questo fatto non comporta alcuna opzione filo-
sofica: vedremo, infatti, che Gödel e Carnap condividono, come tutti
i partecipanti al dibattito, l’impiego di formalizzazioni e assiomatiz-
zazioni ma giungono a conclusioni teoriche diametralmente opposte.
L’idea di regola è, invece, cruciale per la nostra discussione; sarà infatti
una delle tesi portanti di Carnap la possibilità di ridurre la matema-
tica a un insieme di regole sintattiche e che queste regole risultino,
alla fine, esclusivamente convenzionali. La teoria del significato che
Carnap adotta è chiaramente empirista e si rifà alle idee condivise dai
membri del Circolo di Vienna: il significato è definito in base a regole
che determinano in quali circostanze si può asserire un dato enuncia-

16
CARNAP 1937, le citazioni si riferiscono alla traduzione italiana.

158

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Teorie formali e fondazione a priori

to. Ora, poiché le tautologie possono essere asserite in tutti i contesti,


non hanno nessun contenuto semantico.
Infine, prima di procedere, dedichiamo ancora un attimo all’ogget-
to della riduzione: la matematica. Quale matematica? Secondo Gödel,
ma praticamente tutti gli interpreti sono d’accordo, perché il program-
ma di Carnap abbia successo è necessario che con ‘matematica’ si in-
tendano tutte le teorie matematiche fondamentali: algebra, aritmetica,
analisi, geometria17. Soprattutto, è essenziale che la ‘riduzione’ della
matematica a sintassi logica comprenda tutta la matematica utilizzata
nelle scienze empiriche e vedremo che il richiamo all’applicabilità del-
la matematica al sapere empirico è uno dei punti chiave su cui Gödel
impernierà il suo controargomento.
Come abbiamo già avuto modo di vedere, la concezione positivista
della matematica è contrassegnata dall’assenza di contenuto e quin-
di dall’essere analitica. È interessante notare lo slittamento semantico
che il termine ‘analitico’ ha subito dalla riflessione fregeana fino allo
sviluppo del neopositivismo. Per Frege ‘analitico’ è equivalente a ‘de-
rivabile dagli assiomi logici e dalle definizioni’. Gli assiomi logici sono
sì analitici ma non vuoti di contenuto, anzi. Essi esprimono le relazio-
ni oggettive fondamentali dei pensieri; sono le leggi del Vero18. Ana-
liticità, per Frege, non equivale a vuotezza di contenuto ma, al massi-
mo, a mancanza di contenuto particolare, specifico e presenza, invece,
di contenuto generale, strutturale. La posizione fregeana rappresenta
molto bene un atteggiamento razionalista classico nella scia del quale
si può iscrivere, seppur con i dovuti distinguo, anche Gödel.
La matematica, secondo l’interpretazione neopositivista, è dun-
que a priori ma analitica, concordemente a quanto sostenuto nella
nostra classificazione precedente. Il tentativo di Carnap consiste nel

17
Sulla geometria bisognerebbe precisare che, secondo la visione neopositivi-
sta, questa veniva divisa in due parti: la prima di carattere puramente matematico
era considerata una teoria al pari dell’analisi e dell’aritmetica e quindi considera-
ta come un insieme di proposizioni analitiche; la seconda, detta geometria fisica,
possedeva un contenuto empirico benché dipendente in una certa misura dalla
convenzione. Cfr. TENNANT 2008, p. 101.
18
Abusata, ma sempre di grande impatto, la famosa dichiarazione di Frege:
«La parola ”vero” indica alla logica la direzione, così come il “bello” la indica
all’estetica e “buono” all’etica» (cfr. FREGE 1918, p. 3).

159

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Ciro L. De Florio

mostrare come una riduzione della matematica praticata e applica-


ta nelle scienze empiriche sia possibile. Sullo sfondo del dibattito
sta la questione ontologica: secondo Frege e secondo Gödel gli enti
descritti dalle teorie matematiche possiedono un’esistenza oggetti-
va e indipendente dalla mente umana. Non stupisce, infatti, che sia
Gödel sia Frege siano spesso indicati come i campioni del realismo o
platonismo in fi losofia della matematica19. Per Carnap, invece, il do-
minio dell’esistente coincide con quello dell’empirico e quest’ultimo
è certificato dallo stato attuale delle scienze positive. Come si può
notare, la cornice ontologica nella quale si muove Carnap è la stessa
del suo ‘allievo’ Quine. L’esito radicale è già in un certo senso impli-
cito in alcune assunzione dell’empirismo carnapiano. Non c’è alcun
iperuranio in cui abitano gli enti della matematica, né questi sono
presenti in re, secondo una posizione aristotelica. La matematica è
linguaggio che non descrive nulla e che è frutto delle nostre conven-
zioni. L’aspetto convenzionalista è qui di cruciale importanza. Le re-
gole sintattiche non obbediscono a una sorta di necessità, ancorché
impoverita, ma sono del tutto contingenti e frutto delle convenzioni
delle comunità scientifiche.

2. L’argomento di Gödel

Gödel, nel suo La matematica è sintassi del linguaggio?, discute critica-


mente il progetto carnapiamo della Sintassi e esibisce un controargomen-
to molto forte al progetto neopositivista. Si tratta di un testo non pubbli-
cato, dalla travagliata vicenda editoriale, frutto di un lavorio continuo di
Gödel che probabilmente non fu mai pienamente soddisfatto dall’esito
finale20. Esistono numerose esegesi del testo gödeliano, alcune favorevoli

19
Una nota terminologica. Nel dibattito attuale in fi losofia della matematica
si usano in maniera abbastanza libera le etichette di ‘realismo’ e ‘platonismo’. In
questa sede non ci interessa specificare maggiormente i dettagli di queste posizio-
ni ontologiche.
20
Paul Schilpp chiese a Gödel di redigere un saggio sulla fi losofia di Carnap
per la collana The Library of Living Philosophers. Sarebbe stato il terzo contri-
buto di Gödel dopo il lavoro del 1944 su Russell e del 1949 su Einstein. Nel Na-
chlass esistono ben sei versioni del saggio. I primi contatti tra Gödel e Schilpp

160

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Teorie formali e fondazione a priori

all’impianto argomentativo di Gödel, altre più scettiche21. Non è nostra


intenzione ripercorrere in maniera dettagliata la struttura del saggio, né
di analizzare completamente la portata delle critiche nei confronti del
programma di Carnap. Ci prefiggeremo, invece, due scopi coerenti con
il nostro lavoro: in primis, presenteremo il nucleo concettuale dell’argo-
mento di Gödel e, successivamente, discuteremo una sua diramazione
teorica concernente il carattere finitario o infinitario del linguaggio e il
ruolo dell’intuizione matematica nella giustificazione a priori.

In estrema sintesi l’argomento di Gödel può essere schematizzato


come segue:

1. Una regola è detta sintattica, secondo la visione di Carnap, se non


può implicare alcuna conseguenza fattuale o empirica.
2. Assumiamo, quindi, di riformulare l’intero edificio matematico se-
condo un linguaggio puramente sintattico come è il Linguaggio II
della Sintassi.
3. L’unico requisito che si chiede è quello della coerenza delle regole
sintattiche dal momento che, se le regole fossero incoerenti, derive-
rebbero ogni proposizione, anche quelle con contenuto empirico.
4. Quindi, è necessario dimostrare la coerenza delle regole sintatti-
che.
5. Ma questo è impossibile a meno di non assumere principi mate-
matici più problematici di quelli impiegati nella costruzione del
linguaggio di riferimento.
6. Quindi, la riduzione della matematica a sintassi del linguaggio è
ingiustificata.

Questo argomento non è mai presentato in questa sequenza nel pa-


per di Gödel ma si trova frammentato con una serie di considerazioni
riguardanti l’applicabilità della matematica. In poche parole, Gödel
si mette nei panni del neopositivista e ragiona così: la matematica è

sono del 1954; nel 1959, pressato dall’editore, Gödel ammette di non voler pub-
blicare il testo.
21
Segnaliamo, in particolare, CONSUEGRA 1995 e GOLDFARB 1995; CROCCO 2003
e TENNANT 2008.

161

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Ciro L. De Florio

importante non in sé ma in quanto strumento formidabile per la rigo-


rizzazione della scienza empirica. Ora, tra gli scopi delle scienze, vi è
quello della previsione: per usare un esempio dello stesso Gödel, in
base alle leggi fisiche circa l’elasticità dei corpi, ci aspettiamo che un
determinato ponte sia in grado di sostenere un certo peso. Tuttavia,
tali leggi sono espresse usando un formalismo matematico e quindi
la nostra fiducia nel potere predittivo della fisica dipende anche dal-
la struttura matematica tramite la quale esprimiamo le leggi naturali.
Ma come è possibile spiegare la presunta affidabilità delle leggi fisiche
se la loro componente matematica è costituita da semplici regole sin-
tattiche prive di contenuto? Si noti che in quest’altra riformulazione
dell’argomento, Gödel fa leva sulla necessità di offrire una ragione
della nostra pratica scientifica; lo slittamento teorico è significativo: da
un lato una matematica puramente sintattica è implausibile dal punto
di vista epistemico; dall’altro, anche assumendo un’ottica empirista,
legata, dunque, a una visione della conoscenza come prodotto della
scienza empirica, diventa essenziale una garanzia delle stesse regole
sintattiche. Crocco afferma infatti:

Any trust in these predictions would be unjustified if the rules


which allow us to formulate these predictions were simple convention
without content. (CROCCO 2003, p. 35)

Ora, ripercorriamo i punti dell’argomentazione di Gödel. Per quan-


to riguarda 1, l’unica perplessità può nascere da una divisione forse un
po’ netta tra proposizioni sintattiche e proposizioni empiriche, ovvero
tra la dimensione del formale e quelle del materiale. Anche ammet-
tendo che considerazioni di natura olistica possono portare a consi-
derare quantomeno sfumata la distinzione tra i due ambiti, bisogna
riconoscere che tutta l’argomentazione di Carnap è basata sulla pos-
sibilità di tracciare un confine netto; quale senso avrebbe, infatti, l’af-
fermazione che il formalismo matematico non costituisce alcun incre-
mento informativo rispetto alla componente empirica delle teorie, se
non avessimo a disposizione un criterio per separare le due regioni? Il
punto 2 è sostanzialmente aproblematico; l’assiomatizzazione dell’edi-
ficio matematico non fu soltanto una prerogativa di Carnap ma vide la

162

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Teorie formali e fondazione a priori

sua completa e rigorosa attuazione con l’opera di Hilbert 22. Lo stesso


Gödel ebbe più volte a ripetere che attraverso la concezione sintatti-
ca si possono raggiungere tutti i risultati matematici che si ottengono
partendo da un’altra impostazione. La partita si gioca dunque non sul
campo della potenza deduttiva delle teorie ma sulla loro giustificazio-
ne epistemica. 3 è un’applicazione della legge dello pseudo-Scoto: da
una contraddizione deriva qualsiasi cosa e, segnatamente, anche tutte
le proposizioni a carattere empirico. Questo è sicuramente un punto
problematico per due motivi: il primo è messo in luce da Neil Ten-
nant nel suo (2008) e concerne la possibilità di adottare da parte del
sostenitore della posizione di Carnap una forma di logica paraconsi-
stente. Quand’anche le regole si dimostrassero contraddittorie questo
non comporterebbe l’esplosione sintattica del linguaggio. In un certo
senso la contraddittorietà dell’insieme di partenza verrebbe gestita
in modo da tutelare il valore informativo della teoria intera. A questa
proposta si oppongono le perplessità circa l’adozione di logiche non
standard, perplessità che non esplicitiamo in questa sede dal momen-
to che ci porterebbero davvero lontano. Il secondo aspetto problema-
tico del punto 3 consiste nel concetto stesso di consistenza e nella sua
ineliminabilità a fini fondazionali. Espressa brevemente l’obiezione è
di questo tenore: è davvero necessario dimostrare la coerenza delle
regole da cui partiamo? Non potrebbe essere frutto di un’evidenza
primitiva legata alla struttura stessa del linguaggio? Avremo modo di
vedere, nell’ultima parte del nostro lavoro, che questo è il punto di
vista del finitista e discuteremo le conseguenze fi losofiche di questa
mossa. In 4 Gödel assume la necessità di dimostrare la coerenza delle
regole sintattiche; qui si innesta il riferimento alla pratica scientifica
che abbiamo presentato in precedenza. Noi ci fidiamo del potere pre-
dittivo delle leggi matematiche (e fisiche) e, quindi, su cosa fondiamo
la nostra fiducia? Molti interpreti, seguendo Gödel stesso, indicano
tre alternative possibili:

a) l’induzione empirica, in base alla quale nessuna contraddizione è


per ora apparsa nella matematica usualmente impiegata nell’im-
presa scientifica;

22
Citato molte volte dallo stesso Carnap.

163

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Ciro L. De Florio

b) una dimostrazione puramente formale di consistenza;


c) l’intuizione matematica.

Ricordiamo, per chiarezza, che il problema in gioco è il seguente:


come dar ragione del fatto che ci fidiamo del potere predittivo delle
leggi naturali (composte da una dimensione empirica e una struttura
matematica)? Qualsiasi spiegazione deve, perlomeno, prendere in esa-
me la questione della coerenza delle leggi matematiche che usiamo.
L’alternativa a) è quasi paradossale: la matematica diventerebbe una
sorta di “fisica dei segni” per cui è in base a una semplice generalizza-
zione induttiva che il nostro grado di credenza nell’insorgere futuro
di una contraddizione (ovvero di una certa disposizione di segni) è
molto basso. Ma allora:

[…] it is true that, if consistency is interpreted to refer to the han-


dling of physical symbols, it is empirically verifiable like a law of
nature. However, if this empirical consistency is used, mathemati-
cal axioms and sentences completely lose their “conventional” char-
acter, their “voidness of content” and their “apriority” […]. (Cfr.
GÖDEL 1995, p. 342)

Gödel sembra dire: ammettiamo pure un’interpretazione fisicalista


della matematica, che diviene, a questo punto, un capitolo della scien-
za empirica. Le sue leggi possiedono allora lo stesso statuto epistemo-
logico delle leggi fisiche e quindi non saranno certamente vere per con-
venzione, né a priori né vuote di contenuto.
L’alternativa b) è quella perseguita dal formalismo hilbertiano fino
al 1931 e consiste nell’esibizione di una dimostrazione ottenuta con
mezzi puramente sintattici di consistenza dell’aritmetica (e delle teorie
superiori: analisi, geometria, teoria degli insiemi). È materia di sicu-
ro interesse filologico la questione circa la ricezione da parte di Car-
nap nella Sintassi del fallimento del programma formalista di Hilbert
a opera del secondo teorema di Gödel23. Nel saggio di quest’ultimo
questo teorema è il vero e proprio ariete contro l’impostazione sintat-
ticista. Il secondo teorema di Gödel dichiara che, data una teoria for-

23
Cfr. CARNAP 1937, pp. 189-190.

164

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Teorie formali e fondazione a priori

male consistente e contenente almeno l’aritmetica elementare, non è


possibile dimostrare a partire dagli assiomi e dalle regole della teoria
stessa la sua non contraddittorietà. Per ‘sapere’ che una teoria T non
è contraddittoria è necessario aggiungere qualche cosa a T, passare a
una teoria T* più potente24. È possibile stabilire la non contradditto-
rietà delle regole sintattiche di Carnap a patto di assumere una serie di
principi astratti e infinitari che non sarebbero ammissibili nell’inter-
pretazione sintatticista della matematica.
L’alternativa c) è la strada scelta da Gödel insieme con tutti (o qua-
si) i razionalisti. La nostra fiducia circa la coerenza della matematica
utilizzata nella scienza è data da un accesso a una dimensione eidetica
e oggettiva descritta dalle proposizioni matematiche. Famosissima è
l’analogia tra la conoscenza matematica e la conoscenza fisica proposta
da Gödel nel 1944:

It seems to me that the assumption of such objects [mathematical


objects] is quite as legitimate as the assumption of physical bodies and
there is quite as much reason to believe in their existence. They are in
the same sense necessary to obtain a satisfactory system of mathemat-
ics as physical bodies are necessary for a satisfactory theory of our
sense perceptions and in both cases it is impossible to interpret the
propositions one wants to assert about these entities as propositions
about the ‘data’, i.e., in the latter case the actually occurring sense per-
ceptions. (Cfr. GÖDEL 1990, p. 128).

Come l’assunzione dell’esistenza di corpi fisici è necessaria per una


teoria sulle nostre percezioni, così l’assunzione dell’esistenza di enti
matematici è necessaria per la giustificazione delle teorie su questi og-
getti. Si noti, ancora una volta, che Gödel è molto accorto nel concen-
trarsi sull’aspetto giustificativo delle assunzioni ontologiche: i teoremi
alla lavagna sono tali indipendentemente dalla nostra interpretazione
24
Esaurito, in un certo senso, il sogno hilbertiano di autofondazione della
matematica, il programma formalista ha cercato di esaminare nel dettaglio la ge-
rarchia delle teorie formali e i loro rapporti alla luce delle dimostrazioni di consi-
stenza. In questo contesto è da collocare, per esempio, la dimostrazione di consi-
stenza dell’aritmetica data da Gentzen nel 1936 dove si fa uso di un principio non
formalizzabile all’interno della teoria stessa.

165

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Ciro L. De Florio

realista o nominalista di questi ultimi25. Ma nel momento in cui voglia-


mo fornire una giustificazione per la credenza in determinati assiomi
(o regole) ecco che entra in gioco l’intuizione matematica. Eccoci giun-
ti allora al punto cruciale del nostro discorso: la difesa del razionali-
smo moderato nella fondazione delle teorie formali tramite l’analisi di
forme di intuizione matematica. L’ultima parte del nostro paper sarà
dedicata proprio alla discussione di questo punto.

III. INTUIZIONE MATEMATICA E FONDAZIONE A PRIORI

1. Intuizione e dimostrazione

Abbiamo più volte ricordato come la dicotomia a priori / a posteriori


riguardi innanzitutto le procedure di fondazione del sapere. Nel campo
della matematica e delle scienze formali in genere l’operatore di fonda-
zione privilegiato è la dimostrazione; ci si potrebbe pertanto chiedere
perché oggetto della disputa tra razionalisti (Gödel) ed empiristi (Car-
nap) sia invece l’intuizione matematica. Il motivo è abbastanza sempli-
ce. Dopo la stagione formalista, è divenuto patrimonio acquisito della
ricerca logico-matematica un concetto determinato e rigoroso di dimo-
strazione. In base a questa caratterizzazione, una dimostrazione è un
incolonnamento finito di formule tale che ogni formula è o un assioma
o è ottenuta in base all’applicazione di regole logiche a partire da for-
mule precedenti. Ci sono due aspetti fondamentali da sottolineare: in
primis, siamo in presenza di oggetti finiti, magari straordinariamente
complessi ma comunque finiti; il che comporta, inoltre, che in nessun
caso troveremo passaggi ‘problematici’ o richiedenti, in una certa mi-
sura, l’intuizione. In poche parole, una dimostrazione non è altro che
un programma che può essere implementato su un calcolatore. Secon-

25
Anche se, forse, l’atteggiamento fi losofico del matematico alla lavagna può
essere essenziale nello svolgimento del suo lavoro. A dire dello stesso Gödel, la
scoperta del teorema di completezza della logica dei predicati del primo ordine,
ottenuto nel 1930 è una semplice conseguenza del lavoro di Skolem. Tuttavia, fu
l’orientamento finitista di quest’ultimo a limitare la sua intuizione circa la possibili-
tà di estendere il risultato e ottenere così il teorema di completezza. L’atteggiamen-
to realista di Gödel lo avrebbe invece aiutato moltissimo in quella fase del lavoro.

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dariamente, dal punto di vista fondazionale, la dimostrazione non è un


concetto assoluto. Non si dimostra niente a partire da niente; i cardini
su cui poggia la procedura dimostrativa sono, da un lato, gli assiomi
e dall’altro le regole di trasformazione logica. E non è possibile andare
più indietro; naturalmente, regole e assiomi sono interscambiabili e ciò
che è assioma in una teoria può diventare teorema in un’altra26. Tut-
tavia, da qualche parte è necessario assumere come date proposizioni
primitive e regole di derivazione; è chiaro, allora, che è nella giustifica-
zione di queste ultime che risiede tutta la forza giustificativa dell’opera-
tore matematico di dimostrazione. Nella pratica matematica gli assiomi
vengono accettati in base a criteri di intuitività (in un senso piuttosto
distante dalle problematiche sull’intuizione), di successo esplicativo, di
comodità e di eleganza. Una ricognizione di questi aspetti, sebbene in-
teressantissima, non coglie fino in fondo l’esigenza filosofica profonda
che cerca la ratio della conoscenza a prescindere (almeno teoricamente)
dall’applicazione effettiva di questa. Pertanto, notiamo come la questio-
ne della fondazione a priori della conoscenza in generale si concentri
soprattutto nell’ambito logico-matematico e che l’ultima corte d’appello
per la giustificazione delle conoscenze formali risieda nella disponibili-
tà di una qualche forma di intuizione razionale.

2. Intuizione finitaria

A questo punto è possibile analizzare ulteriormente l’argomento che


Gödel muove contro Carnap e gli empiristi in genere. Chi dichiara che
la matematica è sintassi del linguaggio, ovvero si riduce a una serie di
regole scelte convenzionalmente prive di qualsivoglia contenuto, deve
giustificare l’ammissibilità di queste regole27. E, secondo Gödel, il re-
quisito minimo da assicurare è la loro consistenza. Tuttavia, per di-
mostrare la consistenza di un sistema formale F è necessario assumere
26
Non solo. L’eccezionale progresso delle tecniche formali ha dato vita al pro-
gramma di ricerca della Reverse Mathematics in cui si stabiliscono prima i risulta-
ti che si desiderano ottenere (un certo risultato di consistenza, per esempio) e, in
seguito, si cercano i sistemi formali sufficienti per ottenerli.
27
Non deve stupire il fatto che si parli, qui, di regole invece che di assiomi. La
ragione è semplice: ogni assioma può essere considerato come una regola.

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una serie di principi che non sono formalizzabili in F e il cui contenuto


eccede quello strettamente sintattico convenzionale da cui si era par-
titi. Esiste però un’obiezione abbastanza forte che Carnap potrebbe
rivolgere contro la critica razionalista. Prima di formulare la strategia
difensiva è necessario introdurre per sommi capi il sistema formale
dell’aritmetica ricorsiva primitiva 28.
L’aritmetica ricorsiva primitiva (PRA, d’ora in poi) è un sistema for-
male messo a punto da Skolem negli anni ’20 che consiste dei seguenti
assiomi:

1. ∀x (x' ≠ 0)
2. ∀x∀y (x' = y' → x = y)
3. Le equazioni definitorie per ognuna delle funzioni ricorsive primi-
tive
4. P(0) & ∀x(P(x) → P(x')) → ∀xP(x)

I primi due sono estremamente evidenti: il primo dichiara che qual-


siasi oggetto di complessità minima è differente dallo zero; il secondo
che se due oggetti possiedono lo stesso successore allora sono identici.
Il terzo costituisce gli assiomi definitori delle funzioni e relazioni ricor-
sive primitive. Il concetto di ricorsione è piuttosto complesso e non può
essere trattato qui; l’idea di fondo è però abbastanza intuitiva. Si tratta
di esibire una procedura di costruzione di oggetti (matematici) attraver-
so la ripetizione di elementi semplici quali i numeri naturali e l’opera-
zione di successore. L’esempio più classico è quello dell’addizione:

x+0=x
x + y' = (x + y)'

Tramite queste due uguaglianze è possibile definire, per ricorsione,


la funzione dell’addizione per tutti i valori che desideriamo.
L’ultimo assioma è un assioma di induzione come quello presentato
all’inizio del nostro lavoro:

28
Per una presentazione tecnicamente dettagliata di PRA rimandiamo a GALVAN
1992, pp. 117 ss.

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Se la proprietà P è posseduta dallo 0 e, se vale di un numero


vale anche del suo successore, allora la proprietà P vale di tutti
i numeri.

Dal punto di vista logico-matematico è essenziale conoscere la natu-


ra della proprietà P che vale per tutti i numeri. Una proprietà, infatti,
può essere rappresentata da una formula e le formule possono esse-
re di complessità qualsiasi. Esiste un metodo rigoroso per definire la
complessità delle formule e l’idea di fondo è che una formula è tanto
più complessa quanti più quantificatori occorrono in essa. La ragio-
ne di ciò è abbastanza plausibile: i quantificatori sono quelle costanti
logiche che ci permettono di dividere il dominio di riferimento e che
quindi ci consentono di parlare di oggetti determinati. Dire che ‘esiste
un numero che ha la proprietà P’ significa che nel dominio un certo
oggetto a godrà della proprietà P; naturalmente, i quantificatori posso-
no essere reiterati in modo da specificare ulteriormente le relazioni fra
gli elementi del dominio. Ora, le formule più semplici in assoluto sono
quelle che non presentano quantificatori e si chiamano normalmente
PR-formule. L’assioma di induzione di PRA è limitato solo alle proprietà
che si possono esprimere tramite queste formule29.
Al di là dei dettagli tecnici (che però sono essenziali per una compren-
sione profonda del problema) l’idea di fondo è questa: il sistema PRA ha a
che fare con oggetti che sono finitari, ovvero che non fanno riferimento
al dominio dei numeri naturali come dato immediatamente. Molti autori
sostengono che PRA codifichi le evidenze finitiste in matematica; ovvero,
PRA è il sistema che formalizza in maniera rigorosa le intuizioni più sem-
plici che possiamo avere nella formazione del sapere matematico. Quali
sono le caratteristiche di queste intuizioni ‘primitive’? Già Hilbert aveva
chiaramente posto il problema: le intuizioni di base devono riguardare
oggetti concreti e finiti. Come esempio di oggetti (extralogici), Hilbert
propose i barra-numerali, ovvero una serie di segni così composta:

|, ||, |||, ||||, ...

29
Cfr. GALVAN 1992, pp. 124-126 per alcune osservazioni su PRA.

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Può sembrare strano che le vette di astrazione e di complessità della


matematica si riducano a poco meno di un pallottoliere. Eppure, l’idea
che animò il pensiero formalista si basava proprio sulla possibilità di
ricondurre concetti problematici (astratti e infiniti) a oggetti assoluta-
mente semplici, manipolabili in maniera sicura dalla mente umana.

3. Intuizione eidetica e fondazione a priori

Ritorniamo ora alla possibile critica di Carnap; l’empirista potrebbe


dire: io ammetto come base per la sintassi logica del linguaggio un si-
stema come PRA30. Qual è il vantaggio di questa posizione? Il vantaggio
sta nel fatto che PRA codifica procedure assolutamente affidabili. Data,
infatti, la complessità minima degli oggetti che tratta, l’aritmetica ri-
corsiva primitiva è consistente per evidenza costruttiva. Per usare una
metafora, è come se ci chiedessimo se fosse mai possibile ottenere una
sfera utilizzando mattoncini rettangolari per le costruzioni. È evidente
che non è possibile! Un’immediatezza simile riguarda la possibilità di
ottenere una contraddizione all’interno di PRA. Quindi, non è sensato
chiedersi se PRA è coerente e se il suo impiego nella costruzione della
scienza è ammissibile31.
L’empirista sarebbe al riparo dalla critica di Gödel? No e vediamo
il perché. Naturalmente il teorema di Gödel vale anche per PRA per
cui non è possibile dimostrarne la consistenza all’interno del sistema
stesso. L’istanza giustificativa richiesta da Gödel è ancora inevasa: su
che cosa si fonda la sintassi di PRA? A questo punto l’empirista potreb-

30
Tralasciamo intenzionalmente il problema storiografico nell’attribuire una
posizione simile a Carnap. Benché infatti sostenesse la riduzione della matematica
a sintassi del linguaggio, il fi losofo austriaco incluse nella Sintassi procedimenti
e regole fortemente infinitari, quali ad esempio l’w-regola. Alcuni commentatori
(cfr. Friedman, ad esempio) sostengono che, per essere coerente, Carnap avreb-
be dovuto limitarsi solo a linguaggi e teorie finitari (come PRA). Tuttavia, lo stesso
Carnap specifica che è possibile maneggiare costrutti linguistici infinitari senza,
per questo, essere ontologicamente impegnati circa l’esistenza di insiemi infi niti.
Quanto sia effettivamente praticabile questa via è difficile dirlo.
31
Mentre è sensato chiedersi se PRA sia dimostrabilmente coerente. Ma la ri-
sposta è negativa per il secondo teorema di Gödel.

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be replicare secondo le riflessioni di poco fa: è evidente che PRA è con-


sistente. Benché sia un risultato essenziale l’impossibilità di ottenere
formalmente la consistenza di PRA, tuttavia le nostre procedure sono
sicure perché legate a oggetti concreti e finitari. Insomma, l’empirista
può arretrare e arroccarsi in una posizione di fatto inviolabile: le mie
regole sono sicure perché è evidente che siano tali.
Ma, a questo punto, la vittoria è del razionalista. Infatti, l’evidenza che
il sistema PRA, cioè il nostro sistema di regole, è corretto è sì un’evidenza
basata sul carattere finitario degli oggetti impiegati ma che presenta un
aspetto astratto. Dire che una teoria è consistente significa dire qualcosa
circa l’intero spazio logico della teoria, riguardante cioè tutte le conse-
guenze degli assiomi. Ma queste non sono certo un oggetto concreto,
anzi. ‘Vedere’ che PRA è consistente significa idealizzare in un certo sen-
so le nostre procedure di costruzione dei predicati ricorsivi primitivi e
cogliere, con l’occhio della mente, che si tratta di procedure affidabili.
Esattamente come nella metafora precedente, sapere che non otterremo
mai una sfera implica un’astrazione circa tutte le possibili costruzioni con
i mattoncini. Ma il contenuto di questa intuizione non è qualcosa di con-
creto: non può essere, infatti, esibito materialmente. La giustificazione di
un sistema formale, anche estremamente povero dal punto di vista dedut-
tivo, richiede sempre l’oltrepassamento delle risorse del sistema stesso.
Siamo giunti quindi alla conclusione del nostro percorso. La fon-
dazione è condizione imprescindibile per il sapere; nel caso della fon-
dazione a priori, poi, il luogo privilegiato è costituito proprio dalla
matematica e non a caso i detrattori dell’apriori si sono concentrati su
questo ambito. La strategia empirista (soprattutto quella di Carnap)
consiste nel mostrare come la matematica altro non sia che una sin-
tassi del linguaggio, priva di contenuto e convenzionalmente scelta,
senza il ricorso all’intuizione. I risultati di Gödel mostrano, però, che
una fondazione della matematica di questo tipo è impraticabile; infi ne,
quand’anche si decidesse di basarsi sull’evidenza dell’affidabilità del
nostro sistema, un attimo di riflessione ci mostra che si tratta di un
contenuto evidenziale non riducibile all’ambito sintattico.
La struttura stessa del sapere formale suggerisce l’esistenza di una
forma di intuizione eidetica che non può essere ridotta a semplice
comprensione della sintassi di un linguaggio. Oggetto di questa in-
tuizione non sono quindi enti spazio-temporalmente determinati ma

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concetti quali numero naturale, funzione, insieme e così via. Quale


sia la loro natura e se esistano in un regno indipendente dalla men-
te umana sono questioni chiaramente ontologiche che non possiamo
trattare in questa sede. L’emergenza di forme di intuizione astratta
suggerisce che una dimensione puramente empirica della conoscenza
non è sostenibile e, quindi, che la mente umana non è riducibile com-
pletamente a una macchina biologica.

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Indice

Prefazione 5

Elisabetta Basso
L’apriori nella psichiatria “fenomenologica” 9

Luca Bisin
L’esperienza fertile di Kant e le domande al trascendentale 47

Andrea Cavazzini
L’apriori strutturale nelle scienze umane
(linguistica e antropologia) 97

Ciro L. De Florio
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L’Associazione culturale “Il Mondo di Sofia”
aderisce alla campagna
“Scrittori per le foreste” promossa da Greenpeace.
Questo libro è stampato su carta Shiro Recycled Paper che unisce
dal 50 al 70% di fibra riciclata post-consumo
a cellulosa proveniente da foreste certificate FSC.
Ciò che leggerete non ha causato
la distruzione di nessuna foresta pluviale.
Per maggiori informazioni: http://www.greenpeace.it/scrittori/

Finito di stampare
nel mese di xxx 2009
presso le Grafiche Reali (Milano)

Printed in Italy

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