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Introduzione
1. Che cos’è la sociologia?
Il senso comune sociologico
Ognuno di noi, per quanto non abbia mai studiato sociologia, ha un idea di massima di
tutto ciò che noi chiamiamo società. L’apprendimento di questo sapere inizia fin dalla
nascita, quando iniziamo a comunicare i nostri bisogni ad altri. Tutto ciò ha dei limiti
perché comprende esclusivamente le nostre esperienze dirette o il “sentito dire” che
prima di giungere a noi può subire notevoli variazioni; oltretutto la società trascende
dagli abitanti che di volta in volta vivono il pianeta, quindi non è statica. La sociologia
spesso conferma la opinioni di senso comune, ma altre volte formula tesi contro –
intuitive.
La sociologia ci può aiutare a capire meglio il mondo, ma non ci può dare certezze
assolute! Ci può dare “ragionevoli certezze” sempre esposte a critica e revisione!
L’oggetto di studio della sociologia è la società; bisogna però capire che società viene
usato per definire una vasta gamma di cose. Essendo la sociologia nata con l’avvento
dello stato moderno (XIX), il riferimento prevalente è alla società compresa nel
territorio di uno stato nazionale.
Le origini
Si inizia a parlare di sociologia nella cultura europea intorno alla metà del XIX secolo.
L’avvento, di una scienza della società, in quel periodo è riconducibile a tre
“rivoluzioni” che sono la base del mondo moderno: la scienza moderna , la rivoluzione
industriale, la rivoluzione francese.
- La sociologia ha seguito la scienza della natura che , dopo essersi distaccata dal
pensiero filosofico, ha applicato il metodo sperimentale fondato
sull’osservazione dei “fatti” sempre più vasti. I fenomeni che possiamo indicare
come rivoluzione scientifica non poteva non influire sullo studio degli esseri
umani, dei loro rapporti e delle loro istituzioni. Si creò la convinzione di poter
utilizzare i principi del metodo scientifico per lo studio dell’uomo e della società;
la nascita delle scienze sociali è ricollegabile al movimento culturale che pone la
scienza come la via della conoscenza.
Paradigma dell’ordine
La maggior parte dei temi della disciplina ruotano attorno a un interrogativo: che cosa
unisce o divide la società, ovvero, che cosa fonda l’ordine o il disordine sociale? Prima
delle rivoluzioni prima citate l’ordine sociale veniva assicurato da credenze religiose,
oppure fondato in qualche dottrina del diritto naturale. Una volta infranta la credenza
della sacralità della religione, il fondamento di ordine doveva essere ricercato
all’interno della società stessa. Per Thomas Hobbes lo stato doveva svolgere una
funzione coercitiva per placare l’egoismo umano, mentre per Adam Smith il mercato e
la mano invisibile potevano tenere insieme gruppi di individui che perseguivano
interessi diversi. Per i primi sociologi queste due tesi non sembrano sufficienti, bisogna
che l’ordine sociale trovasse fondamento in qualche meccanismo o processo che operi
nella struttura interna dell’organismo sociale. I modelli organicistici di società sono
una delle prima proposte di soluzione del problema dell’ordine. Tali modelli dureranno
nel tempo e ricompariranno, anche se rielaborati, nella moderne teoria funzionalisti
che. Con impostazioni diverse, Auguste Comte e Herbert Spencer svilupparono
entrambi un modello organicistico di stampo evoluzionistico. Le teorie evoluzionistiche
di Lamarck e Darwin influenzarono e influenzano tutt’ora il pensiero sociologico. Per
Spencer e Comte la società è concepita come un organismo le cui parti sono connesse
tra loro da una rete di relazioni di interdipendenza. L’equilibrio che si genera tra le
parti è dinamico, cioè si muove dal semplice al complesso, dall’omogeneo
all’eterogeneo. Il motore del processo è la competizione delle specie, e all’interno di
ognuna, viene selezionato chi possiede migliori capacità adattamento allo specifico
ambiente in cui si vive e alle sue trasformazioni. Gli organismi sociali rispondono alle
trasformazioni dell’ambiente generando nuovi organismi, con la conseguenza di
innestare processi di divisione e differenziazione del lavoro. Da Spencer in poi la
divisione del lavoro è diventata un tema centrale della teoria sociologica. Per Georg
Simmel la divisione del lavoro, producendo differenziazione sociale, fa in modo che la
conseguente eterogeneità tra gli appartenenti a una società crei le basi per
l’accentuata “individualizzazione” tipica della modernità. Gli esseri umani diventano
così sempre più diversi l’uno dall’altro, aumentando così rapporti di interazione che
può essere reciproca, diretta o indiretta, attraverso la mediazione del denaro; la
diversità estende e approfondisce le relazioni di interdipendenza. Emile Durkheim
affronta il problema dell’ordine individuando un nesso profondo tra forme della
divisione del lavoro e forme di solidarietà sociale. Nelle società a scarsa
differenziazione del lavoro le unità che la compongono sono poco differenziate tra loro,
ciò che unisce è un vincolo di solidarietà fondato sulla credenza di una comune
origine. Il vincolo di solidarietà si origina dall’esterno, in credenze di natura sacrale e
religiosa. Durkheim chiama “meccanica” questa forma di solidarietà. Nelle società
moderna ad alta differenziazione del lavoro il vincolo di solidarietà è di natura interna,
è fondato su nessi di interdipendenza tra le varie funzioni svolte da individui e gruppi
sociali. Questa forma di solidarietà è chiamata “organica”.
Per Karl Marx in ogni società i rapporti sociali fondamentali sono quelli che si
instaurano nella sfera di produzione e distribuzione dei beni e servizi che servono alla
società stessa per funzionare e riprodursi. Il rapporto tra lavoratore salariato e
capitalista nella fase storica caratterizzata dalla grande industria determinano la
struttura di questa società, ovvero la loro struttura di classe. Gli interessi di classe
sono contrapposti il che da vita a un rapporto antagonista. Qualsiasi idea (politica,
filosofica, religiosa) svolge una funzione ideologica e sono riconducibili agli interessi di
classe e alle esigenze di stabilizzare le strutture del dominio e dello sfruttamento: esse
sono viste come sovrastrutture. Il conflitto di classe è il motore del mutamento sociale.
Ogni sistema sociale (“modo di produzione”) produce nel suo seno le forze destinate
de terministicamente a negarlo e alla fine a superarlo. Il proprietario industriale è il
prodotto del sistema capitalistico, ma anche il fattore che ne determinerà la
distruzione e all’instaurazione di una società senza classi dove verranno meno le
ragioni del conflitto.
Per Max Weber il conflitto non si riduce alla lotta di classe, proprio perché esse non
sono l’unica struttura intorno alla quale si sviluppano i conflitti. La lotta di classe si
manifesta dove si formano dei mercati, in età moderna si manifesta sui mercati della
forza lavoro. Ma la sfera economica non è l’unica dove si manifesta il conflitto per
Weber accanto ad essa si collocano le seguenti sfere: politica, diritto, religione, onore,
prestigio. Non sono presenti dei rapporti di determinazione unilaterale tra le varie
sfere. La tesi Weber deve essere letta alla luce sulle origini protestanti dello spirito del
capitalismo. In questo caso il conflitto nasce su un piano teologico e morale, le nuove
sette producono conseguenze sugli atteggiamenti dei credenti nei confronti
dell’economia e mettono in moto dinamiche che faranno emergere il capitalismo. Per
Weber il conflitto è una condizione normale. Esso porta alla formazione di strutture
istituzionali (“ordinamenti sociali”) che esprimono i rapporti di forza che si sono
provvisoriamente consolidati, e fino a quando non saranno messi in discussione,
svolgono una funzione di regolazione del conflitto. Per Weber non esiste un momento
finale di questo conflitto, vi saranno sempre gruppi contrapposti alle istituzioni
esistenti, fino a al momento in cui esse si sgretoleranno, allora avranno vita nuove
istituzioni, non c’è una esito finale dove i conflitti si placano, non c’è una filosofia di
fine della storia. Il conflitto genera ordine nel momento in cui ci sono delle istituzioni
che lo regolano e mutamento quando esse vengono trasformate o cambiate. La
società è l’insieme di istituzione e conflitti che si svolgono su piani diversi e gli attori
sociali dovranno continuamente scegliere da che parte stare. La dimensione della
scelta fa riferimento ad un altro dilemma teorico che si esprime nella contrapposizione
tra “paradigma della struttura” e paradigma dell’azione”.
Paradigma struttura
Chi si muove nell’ambito del paradigma struttura parte dal presupposto che per
spiegare i comportamenti degli individui non si può prescindere dal contesto sociale in
cui sono inseriti. L’intero percorso di vita di un essere umano seguirà in un andamento
prevedibile, perché tutti i suoi comportamenti saranno il riflesso di tutta una serie di
valori di una determinata società. L’individuo sarà libero entro i limiti della struttura
sociale. Tutte le volte che imputiamo alla società le cause del comportamento di un
individuo o di un gruppo, seguiamo, un approccio che parte dalla struttura sociale e va
all’individuo. Ad esempio un individuo vissuto in una struttura sociale problematica
(abbandono, scarsi profitti a scuola, bande, furti) ha molte possibilità di manifestare
una devianza. Marx e Durkheim formulano modelli di spiegazione classificabili nel
paradigma struttura. Per Marx i rapporti tra le classi non potrebbero funzionare
diversamente; la posizione che occupano nella struttura sociale obbliga i capitalisti a
ottenere il massimo profitto e i lavoratori salariati sono obbligati a vendere la forza
lavoro a un prezzo che garantisca la sopravvivenza.
Durkheim teorizza esplicitamente che la società viene dagli individui, un fatto sociale è
spiegato da un altro fatto sociale. La massima contestazione contro le spiegazioni
psicologiche dei fatti sociali arriva, con lo studio del suicidio, che per quanto azione
individuale, è secondo lui, spinto da cause sociali (secondo documentazione statistica
del tempo) ad esempio in certe condizioni sociali che riducono l’integrazione, un
individuo, può essere spinto a togliersi la vita. Le spiegazioni strutturali fanno sempre
riferimento a qualche forza che agisce alle spalle degli individui e li spinge a
comportarsi in un determinato modo.
Non sono gli individui a decidere la posizione sociale che occuperanno ma sarà la
struttura sociale a scegliere e formare quelli che occuperanno determinate posizioni e
ruoli. Per questa ragione il paradigma struttura riflette una concezione olistica del
sociale in quanto concepisce la società come l’unità principale di analisi e gli individui
sono i mezzi attraverso i quali la società si esprime.
Il paradigma dell’azione
- Per spiegare le azioni individuali è necessario tener conto dei motivi degli attori.
Chiarimento.
2) Questo principio indica che per spiegare un azione bisogna tenere conto dei motivi
dell’attore (“senso intenzionato”) bisogna attuare un processo di comprensione.
L’uomo quindi ha la capacità di compiere delle scelte e di dare un senso alle sue
azione, e anche se le sue scelte sono condizionate dall’ambiente esterno, non vuol
dire che sia mosso come un burattino senza la facoltà di controllare l’ambiente
esterno. Nell’ambito di vincoli strutturali o contingenti, l’uomo elabora strategie che
danno un “senso” alla sua azione. Di base si può sostenere che anche se per noi non è
chiaro il senso di un’azione essa lo sarà, oppure avrà una sua logica, per chi la compie
anche se magari non ne è consapevole. Non solo gli esseri umani non sono del tutto
trasparenti a loro stessi, ma spesso si auto ingannano su quali sono le “vere” ragioni
delle loro azioni.
Tuttavia alcuni tipi di azione hanno ragioni evidenti e per Weber la comprensione di
esse raggiunge la massima evidenza nel caso delle azioni razionali. Gli economisti
della scuola neoclassica, hanno costruito sul postulato della razionalità un imponente
impianto teorico, anche se il concetto di razionalità in tale ambito è solo strumentale o
teleologica distinta da quella al valore o assiologica. Il primo tipo rappresenta un tipo
di comportamento orientato intenzionalmente verso uno scopo (coincidenza tra senso
e azione), il secondo tipo riguarda comportamenti conformi a scelte valutative che
l’attore ha adottato come criteri assoluti di orientamento dell’azione, a prescindere
dalle conseguenze (Es: razionalità strumentale è nello scambio di mercato la
massimizzazione del profitto; razionalità rispetto al valore è un militante pacifista che
in ogni caso rifiuta di indossare le armi).
In tutte le discipline vi è chi si dedica alla ricerca teorica e chi alla ricerca empirica.
Di conseguenza oltre la divisione orizzontale della disciplina si forma una divisione
verticale. Questo processo di divisione del lavoro ha effetti negativi se le due discipline
procedono su strade separate; ha effetti positivi se la ricerca teorica fornisce nuove
input (interrogativi e ipotesi) alla ricerca empirici e riceve da questa conferme o
smentite a riguardo della bontà della strada imboccata.
In sociologia teoria e ricerca possono interagire tra loro in modo fecondo, o percorrere
strade separate. Se ci attendiamo alla definizione di “teoria” di Talcott Parsons e cioè
che una teoria < è un corpus di concetti generalizzati, logicamente interdipendenti,
dotati di riferimento empirico >, ci rendiamo conto che il punto decisivo per chiarire
il rapporto teoria – ricerca è racchiuso nella locuzione < dotati di riferimento empirico
>, tuttavia molte teorie sono elaborate a un livello di astrazione tale da essere
difficilmente riprodotte empiricamente. Perché ciò accada, è necessario che i concetti
siano trasformabili in una serie di indicatori sulla base dei quali compiere operazioni di
osservazione e misurazione. Ad esempio quando Durkheim ipotizza riguardo
all’anomia crescente in periodi di forte sviluppo economico, ci rendiamo conto che è
assai difficile verificare il tasso di anomia poiché essa è un fenomeno non osservabile
direttamente. Di conseguenza possiamo dire che una teoria non si può applicare a una
vasta gamma di situazioni storico – sociali, ma soltanto a porzioni ricavate da esse. Ad
esempio la teoria dei sistemi se applicata a una determinata situazione specifica,
potremo ricavare dalla teoria una serie di ipotesi da sottoporre a prova empirica.
Usando la terminologia di Karl Popper, possiamo dire che una teoria è rilevabile sul
piano empirico se da essa possiamo ricavare delle congetture passibili di
confutazione.
Per Merton in sociologia bisogna elaborare teorie di medio raggio, cioè teorie il cui
ambito di applicazione sia limitato a fenomeni specifici entro coordinate spazio –
temporali definite. Un nesso forte tra teoria e ricerca si ha solo se, la ricerca empirica
è volta a verificare un’ipotesi teorica, vale a dire una proposizione nella quale siano
messi in relazione i fenomeni da spiegare (variabili dipendenti) e i fenomeni che li
spiegano (variabili indipendenti), la ricerca empirica ha il compito di indicare un nesso
tra le variabili. La teoria è il prima della ricerca empirica. Non tutte le ricerche in
sociologia rispondono a una logica esplicativa, alcune hanno un intento esplorativo o
descrittivo, anche se tuttavia nessuna di esse nasce senza un presupposto teorico
anche se implicito. Anche la semplice descrizione non può essere una “riproduzione”
priva di presupposti, ma è in un certo senso una “costruzione” operata da un soggetto
dotato di categorie a priori. Ciò vale per i “dati ufficiali” oggi messi a disposizione degli
studiosi da parte dell’autorità pubblica, ci si riferisce allo sviluppo della statistica
sociale cioè alla raccolta di informazioni quantitative sullo stato della popolazione e le
sue condizioni di vita.
Spesso la ricerca descrittiva è una prima fase della ricerca empirica che serve per il
raccoglimento di dati volti all’elaborazione di ipotesi che necessitano poi di un
ulteriore validazione. Le ricerche su opinioni e atteggiamenti, che occupano gran parte
della ricerca sociologica empirica, hanno in genere un intento prevalentemente
descrittivo, si cerca cioè di esplorare quali sono le opinioni o gli atteggiamenti
prevalenti in una determinata popolazione in riferimento agli argomenti più vari. Una
fase intermedia di questa ricerca è la costruzione di tipologie tramite la tecnica della
statistica descrittiva come l’analisi dei fattori. Solo successivamente ci si chiede quali
sono i fattori che portano la popolazione a una propensione per certi atteggiamenti. Il
ricercato soprattutto nelle ricerche descrittive deve “lasciarsi sorprendere” ovvero gli
assunti della teoria non devono per forza a portarlo esclusivamente a quello che lui
pensa di trovare, lasciando spazio a dati inaspettati. Per descrivere questo Merton usa
il termine serendipity. I principi di Serendip (Ceylon) davano la possibilità di dedurre da
particolari insignificanti complessi stati della realtà. Merton sostiene che molto ipotesi
sono nate dall’esigenza di dar conto a osservazioni che la teoria disponibile non era in
grado di dare, in questo caso la riflessione teorica subentra in un secondo momento
per implementare dati altrimenti inspiegabili.
Il rapporto fra teoria e ricerca empirica in sociologia è un rapporto a due vie di scambi
reciproci in cui la teoria alimenta la ricerca empirica ma questa, a sua volta,
retroagisce sulla teoria ponendole nuovi interrogativi.
In questo capitolo si tratterà delle società più remote nel tempo e tratteremo a loro
riguardo affinché si possa comprendere che le società in cui viviamo hanno un lungo
passato alle loro spalle. Quando comincia la vicenda delle società umane? Oggi giorno
gli studiosi sono disposti ad accettare la teoria dell’evoluzione, secondo la quale la
specie umana, è il risultato di un lungo e lento processo di evoluzione genetica. Gli
ominidi che ci hanno preceduto sono comparsi sulla terra dai due ai tre milioni di anni
fa, ma il loro aspetto era assai diverso dal nostro: le corde vocali non erano sviluppare
e la loro capacità cranica assai ridotta. L’uomo di Pechino, circa un milione di anni
fa, era un esperto cacciatore, era in grado di usare il fuoco e comunicava con i suoi
simili con gesti e suoni non ancora articolati, cioè senza un linguaggio. Si può dire che
gli uomini che seppellivano i morti in posti particolari avevano già sviluppato una
qualche capacità di simbolizzazione: i primi luoghi tombali risalgono a circa 100 –
150.000 anni fa. L ‘homo sapiens sapiens, simile a noi, è apparso in Europa,
provenendo dall’Africa, circa 42.000 anni fa (Paleolitico superiore). La capacità di
produrre e usare il fuoco, strumenti e il linguaggio sono le caratteristiche che
differenziano gli esseri umani dalle altre specie di animali e ominidi. Tra gli elementi
che distingue gli umani dagli altri animali non compare l’organizzazione sociale. Gli
etologi ci mostrano che anche molto specie animali collaborano tra loro, attraverso
forme di divisione del lavoro, al fine di aumentare le possibilità di sopravvivenza della
popolazione di individui che appartengono alla stessa specie. Tuttavia, le informazioni
necessarie ad assicurare la riproduzione di generazione in generazione delle forme di
organizzazione sociale sono trasmesse ai singoli animali mediante il loro codice
genetico, nulla viene appreso ma tutto è inscritto. Anche alcuni comportamenti sociali
umani sono depositati nel patrimonio genetico, tuttavia la specie umana ha sviluppato
forme organizzazione sociale fondate su processi di apprendimento, mediante l’uso del
linguaggio. L’insieme di questa informazioni costituisce la cultura. < La cultura
comprende gli artefatti, i beni, i processi tecnici, le idee, le abitudini e i valori che
vengono trasmessi socialmente > (Malinowski). La cultura umana muta a ritmi
infinitamente lenti seppure non mutano le caratteristiche organiche della specie.
In tre milioni di anni gli uomini hanno vissuto per più del 90% del tempo in società di
cacciatori – raccoglitori. Alcune di queste società sono vissute in isolamento e sono
giunte ai giorni nostri. Oggi sono praticamente in estinzione a causa del contatto con
popolazioni che hanno abbandonato quello stadio circa 10.000 anni fa. Per studiare
questo tipo di società sono necessarie i seguenti tipi di fonti: archeologica, che studia i
resti di civiltà estinte, la ricerca antropologica, che studia queste società che sono
giunte fino ai giorni nostri e i resoconti dei viaggiatori che hanno incontrato queste
società per la prima volta. Questa società non svolgono attività produttive, ma
attingono dalla natura ciò che serve per sopravvivere. A questo stadio, l’attività
umana è del tipo della predatoria, la natura provvede a rimpiazzare i beni sottratti
dagli umani. Quando i prodotti per la sussistenza (frutti e selvaggina) si fanno scarsi
queste società sono costrette a spostarsi in zona limitrofe più favorevoli; di
conseguenza il nomadismo è una caratteristica saliente di queste società ed è tanto
più frequente quanto le condizioni ambientali si fanno più sfavorevoli. Le società di
cacciatori – agricoltori sono distribuite in varie zone del piane, dai poli alle foreste
equatoriali. Si tratta di società molto piccole (30 – 50 membri) in accampamenti
temporanei a causa dei frequenti spostamenti e posseggono pochi oggetti personali e
il cibo va consumato subito, pena il suo rapido deperimento. Vivono senza progetti
articolati per il futuro se non attraverso il condizionamento delle stagioni.
L’organizzazione sociale
Caccia e raccolta sono attività che vanno spesso insieme, non si vive esclusivamente
di una o dell’altra. Le sostanze nutritive dipendono in maggioranza dalla raccolta, per
queste popolazioni, mentre la caccia integra con l’apporto di sostanze proteiche. In
queste società vige una divisione sessuale del lavoro nel senso che le donne si
occupano della raccolta e gli uomini della caccia. L’unità sociale di base è la famiglia
nucleare , composta da genitori e dalla loro prole, senza essenzialmente per la
riproduzione e l’allevamento dei bambini. Sono famiglie poco numerose (4 – 6 membri)
a causa dell’elevata mortalità infantile e dei lunghi periodi di allattamento. Una decina
di famiglie nucleari forma una banda, la quale occupa temporaneamente un certo
territorio, forma un accampamento e organizza cooperativamente la caccia. La banda
è autosufficiente dal punto di vista “produttivo” ma non da quello “riproduttivo”. La
banda è un gruppo esogamico in quanto i matrimoni sono vietati all’interno della
stessa. I maschi adulti quindi, quando vogliono sposarsi, devono ricorre alle donne
delle bande vicine con le quali ci sono rapporti di conflittualità ma vengono
controbilanciati da questa necessità. I rapporti di parentela si estendono oltre la banda
e bande vicine finiscono per intrecciarsi dando vita a cerimoniali dove oltre i matrimoni
vengono scambiati beni. Le bande appartengono a un gruppo più vasto, la cui
estensione dipende dalla frequenza dei rapporti matrimoniali, tale gruppo è chiamato
tribù (500 – 600 membri); la tribù è essenzialmente un gruppo endogamico, i
matrimoni avvengono all’interno della stessa.
Una figura che gode di un certo prestigio è lo sciamano. La visione del mondo di
cacciatori – raccoglitori comporta la credenza in spiriti dai quali dipende la fortuna o la
sfortuna, cosa che rende gli individui impotenti. Lo sciamano è in possesso di capacità
psichiche e conosce rituali per entrare in contatto con il mondo degli spiriti per cercare
di neutralizzare gli influssi negativi. Lo sciamano è un guaritore che allontana lo spirito
maligno dal malato.
Le società di caccia e raccolta sono le società più semplici. Gli elementi che abbiamo
appena descritto risultano utili per costruire l‘analisi sociologica. Per studiare le società
bisogna osservare dei tratti fondamentali: il modo di procurarsi i mezzi di sussistenza e
la loro distribuzione, i modi in cui assicura la riproduzione biologica e culturale, le
forme di relazioni sociali che danno vita a organizzazione, la struttura delle
disuguaglianze, le credenze e pratiche religiose.
Difficile è capire come abbia avuto il via questo processo, probabilmente certi semi
che si conservavano meglio sono germogliati e qualcuno avrà notato che il germoglio
caduto sul terreno giusto dava vita a un’altra pianta (probabilmente patate).
Probabilmente questo qualcuno è una donna, poiché erano loro a occuparsi della
preparazione del cibo. Il passaggio dalla caccia e raccolta alla coltivazione, si colloca, a
seconda delle aree, tra il 10.000 e il 6.000 a.C. e viene chiamato “rivoluzione
neolitica”.
Gli orticoltori non si spostava più continuamente per il cibo. Finché il suolo rimaneva
produttivo potevano occuparlo, il quale era stato sottratto alla foresta. Il fuoco era
assai importante perché aiutava le opere di disboscamento e le sue ceneri rendevano
il terreno fertile. Più le tecniche di coltivazione progredivano e più la società umane
mettevano radici in un posto.
Grazie alle nuove tecniche sostentamento a parità di territorio potevano vivere più
persone, i villaggi dei coltivatori contano un centinaio di persone. L’ampiezza degli
insediamenti cresceva all’aumentare della densità della popolazione; di conseguenza
si svilupparono nuove tecnologie per la costruzione di abitazioni, si costruirono recinti
per aumentare la protezione e si sviluppo la tecniche di intrecciamento delle fibre che
diede vita ai tessuti.
L’espansione dovuta alla pressione demografica mise in competizione tra loro gli
abitanti di diversi villaggi per il controllo di uno stesso territorio. Appena un’area
diventava densamente popolata la guerra diventava un elemento permanente nella
vita quotidiana e c’erano villaggi dove la coltivazione era lascia esclusivamente in
mano alle donne, mentre gli uomini si dedicavano ad attività militari. In questi villaggi
era presente la cosi detta “casa degli uomini” una casa dove vivevano i maschi dai 10
anni in su, i quali venivano addestrati a diventare dei validi e coraggiosi guerrieri.
Le società di pastori
L’aratro si diffuse in Medio Oriente e in Asia minore circa nel 3.000 a.C.; la
coltivazione con strumenti degli orticoltori conduceva ad un rapido esaurimento della
fertilità del suolo perché il terreno veniva smosso solamente in superficie e dopo pochi
anni era povero di sostanze minerali che servivano per lo sviluppo delle piante che non
avevano radici per giungere abbastanza in profondità. L’aratro invece permise il
capovolgimento del terreno sotterrando i residui organici e portando in superficie le
sostanze minerali. I contadini seppure privi di teorie, all’epoca, verificarono
empiricamente l’efficacia del nuovo modo di coltivare e in Egitto intorno al 2.700 a.C.
l’aratro era trainato da animali, l’uso dei quali permise di coltivare meglio e maggiore
quantità di terreno rispetto all’uso della forza umana. Queste innovazioni si
svilupparono in aree favorevoli all’agricoltura: le pianure alluvionali della Mesopotamia
(Trigi e Eufrate) e dell’Egitto (Nilo). La conseguenza di tutto ciò fu un aumento
impressionante della produttività agricola: sullo stesso terreno si arrivava a produrre
quaranta volte in più di prima. L’agricoltura inizia a produrre un surplus cioè una
quantità di prodotti in eccedenza a quella che serve per mantenere i coltivatori diretti
e per garantire la riproduzione delle risorse consumate durante il ciclo riproduttivo
(sementi da destinare alla coltivazione e foraggio per gli animali). Nella società
precedenti pochi potevano vivere se non producevano dei beni per la loro sussistenza
(capi villaggio, qualche anziano, sciamani). Le donne e gli uomini lavoravano fino a
procurarsi il cibo necessario per la sussistenza in condizioni favorevoli mentre per il
resto del tempo organizzavano danze feste e cerimonie; se le condizioni erano
sfavorevoli lavoravano tutto il giorno e spesso pativano la fame. Quando vi è surplus è
possibile che nella società si formino dei gruppi che non partecipino direttamente
all’attività produttiva. Perché ciò si realizzi necessita che i produttori siano invogliati a
produrre più di quello che è necessario per la loro sussistenza e che siano disposti a
trasferire ad altri una parte del proprio lavoro. La realizzazione di questi presupposti è
stata facilitata dal fatto che parallelamente all’agricoltura (in Mesopotamia, Egitto e
Messico precolombiano) si è formata una particolare forma di governo detta teocrazia
(“governo divino”), i due fenomeni sono strettamente connessi.
L’archeologo Gordon Childe ha elaborato una teoria per spiegare come le esigenze
dell’amministrazione del tempio siano state decisive per la formazione della scrittura.
Il fatto che i prodotti fossero conservati in barattoli poneva l’esigenza di conoscere
determinate informazioni del prodotto presente all’interno di esso (tipo di prodotto, la
provenienza); e per facilitare il lavoro di chi avrebbe gestito il lavoro successivamente
alla morte di un funzionario, fu inventata la scrittura cuneiforme per trasmettere
informazioni di generazione in generazione. Nacque la professione dello scriba,
specialisti addetti alla produzione simbolica. La scrittura, in ogni caso, nasce nel
tempio, il mito narra che la dea dell’amore e della guerra (Inanna) la donò agli
abitanti di Urok, città di cui era signora. I sumeri creano la prima forma di scrittura
cuneiforme, formata dalla combinazione delle impronte che i cunei lasciavano su una
superficie levigata. Il tempio era oltre che un luogo di culto anche un quartier generale
d’organizzazione politica ed economica. Per la sua costruzione è necessario di
manodopera specializzata oppure dei contadini, durante le stagioni di stasi del lavoro
agricolo.
Le società sono ora composte da una moltitudine di persone e i regni sono spesso in
lotta tra loro per il controllo del territorio, cioè, la fonte di ricchezza; di conseguenza
acquista molta importanza l’organizzazione militare. I militari sono contadini nei
periodi di sospensione dei lavori agricoli, oppure sono militari di professione figli di altri
soldati. Si formano delle vere e proprie caste militari ed è richiesta una notevole
organizzazione per l’addestramento e il mantenimento delle truppe. Gli abitanti dei
territori conquistati devono essere messi all’opera per aumentare la ricchezza del
regno, quindi, vengono ridotti in schiavitù. La schiavitù è conseguente a un atto di
conquista e sottomissione, le sue forme sono molteplici (al lavoro nelle miniere o al
servizio del re e della sua corte).
A Occidente a partire dal 800 a.C. si sono formate le prime civiltà agrarie sulle rive del
Mediterraneo. Le fonti sono numerose e oltre alle quelle archeologiche ci sono quelle
letterarie; queste società avevano sviluppato una particolare forma di scrittura, quella
fonetico – alfabetica, molto adatta alla composizione e trasmissione dei testi.
Soprattutto possiamo ricorrere a riflessioni che sulla loro società avevano fatto i
contemporanei (filosofi, drammaturghi e poeti romani e greci); essi avevano anche
raccolto e trascritto narrazioni degli eventi passati prima trasmesse oralmente,
svolgevano un lavoro simile agli storici e scienziati sociali di oggi. Con i filosofi greci
nasce la teoria sociale, una riflessione autonoma degli intellettuali, che si dedicavano
all’educazione delle nuove generazioni.
Le forme di governo
La proprietà della terra è il fondamento primo del diritto di cittadinanza. La città
antica è una città di proprietari terrieri; sono loro ad Atene che si riuniscono per
gestire la cosa pubblica; e sono sempre proprietari terrieri coloro che si insediano nel
Senato romano.
La città è il luogo dove si sviluppa un’estesa divisione del lavoro tra i vari mestieri.
Nell’Atene del III secolo a.C. c’erano 250.000 abitanti: 100.000 erano schiavi, altri 100
– 120.000 erano metechi (artigiani, mercanti) che non godevano della cittadinanza, i
maschi adulti che potevano partecipare alle assemblee erano circa 30.000. Il territorio
di Atene era di circa 2500 km quadrati; le città – stato greche si sviluppavano in
territori angusti e non potevano svilupparsi sulla terra ferma. La popolazione in
eccesso prendeva la via del mare e andava a fondare colonie in Asia minore, in Sicilia
e in Italia. Fondarono nuove città e ben presto le colonie si resero indipendenti pur
mantenendo rapporti commerciali con la terra d’origine. L’espansione fondata sul
modello delle città – stato non dava però il via alla formazione di imperi come era
avvenuto a Oriente del Mediterraneo.
La società feudale
I contadini che vivono su una terra sono in una condizione di servitù, ma al contrario
dello schiavo, essi sono legati alla terra che, se viene ceduta, li obbliga a passare al
servizio di un altro signore. Essi in certi casi devono consegnare al signore per del
raccolto (corvèe in natura), oppure devono lavorare i campi della tenuta signorile per
un certo numero di giorni all’anno (corvèe in lavoro), in altri casi devono versare un
tributo in denaro. Di conseguenza il feudatario è costretto a percepire una “rendita
fondiaria”, quindi ad appropriarsi del surplus di produzione agricola. In compenso, i
contadini ottengono protezione entro le mura del castello in caso di attacco da parte di
nemici.
Il castello è un borgo dove lavorano decine di artigiani e altri lavoratori che, dietro il
compenso della sussistenza, provvedono alle necessità della popolazione non
contadina. La distanza sociale tra signori e servi è molto grande ed è impossibile il
passaggio da una condizione all’altra.
La struttura sociale del feudo ha assunto diverse forme,ma rimane l’elemento portante
della società feudale.
La città medievale
Viene fissata la data dell’anno 1.000 d.C. per spiegare l’influenza che ha iniziato a
subire la società feudale: la rinascita della vita cittadina. Gli artefici di questo processo
sono uomini che si sottraggono agli obblighi servili e creano una forma di vita più
libera ed indipendente. La loro comparsa è connessa alla comparsa dell’economia
monetaria e di mercato. I mercanti a causa dei numerosi rischi insiti nella vita
errabonda che conducevano iniziarono a formare degli stabilimenti permanenti al di
fuori delle mura del castello (sottoborghi) e a condurre una vita totalmente diversa da
quella di coloro che abitavano all’interno del borgo. Ai mercati affluiscono contadini
che vendono le loro eccedenze e comprano prodotti artigianali che non possono
produrre. I primi mercanti comprano a basso prezzo un bene in eccedenza in una certa
località e lo vendono ad un prezzo molto più alto in una località dove questo bene
scarseggia; questo era il loro modo di lucrare. I traffici si sviluppano proprio perché
non è presente un mercato nazionale che sia in grado di fissare un prezzo unitario.
L’esito di questa lotta avrà conseguenze rilevanti per la genesi dello stato moderno.
Vi sono momenti della storia che il tempo sembra non scorrere molto lentamente
facendo si che generazioni e generazioni si trovino a vivere negli stessi ambiti, in
questi momenti la vita può essere sconvolta da eventi fortunati o funesti e una volta
assorbito l’impatto la vita continua a scorrere e la società si riproduce in maniera
immutata. Ad esempio i contadini fino a due secoli fa vivevano nello stesso modo di
quelli di tremila anni fa. I concetti di società statica o società dinamica sono
relativi: si percepisce la dinamicità solo in presenza di mutamento. Ciò che cambia in
una società è la velocità del mutamento, velocità che va rapportata con la vita media
di un essere umano. Le società europee tra il XVI e il XIX secolo sono entrate in una
fase di mutamento accelerato. La peculiarità di questo mutamento è la sua globalità,
investe numerose sfere (economica, politica ecc …) e soprattutto milioni e milioni di
persone. Questo mutamento ebbe effetto anche al di fuori della società Occidentale; la
sociologia è nata, in parte, anche al numero di interrogativi che venivano posti dalle
trasformazioni sociali.
Il concetto di capitalismo
Il concetto di capitalismo nella sua accezione corrente è stato formulato per la prima
volta in modo compiuto da Karl Marx. Marx ha una concezione materialistica e
dinamica della società. Sostiene che per capire una società bisogna capire in che
modo gli uomini soddisfano i loro bisogni e quali rapporti si instaurano tra essi nella
sfera di produzione. Per Marx nella storia si sono susseguiti diversi “modi di
produzione”: il comunismo primitivo, antico o schiavistico, feudale e capitalistico.
Ognuno di essi è caratterizzato da una combinazione tra forme di divisione del lavoro
e competenze tecniche, da un lato, e forme di proprietà e rapporti tra classi, dall’altro.
Il primo elementi viene chiamato “forze produttive” mentre il secondo “rapporti sociali
di produzione”. Il modo capitalistico è costituito dai detentori del capitale (fabbriche
…) i quali pongono al loro servizio il lavoro salariato (unica ricchezza la forza lavoro).
Quando il modo di produzione capitalismo è dominante sugli altri modi si parla di
“formazione sociale capitalistica”. Vi sono momenti storici in cui un modo di
produzione è stabilmente dominante, invece momenti in cui i rapporti di produzione
diventano un ostacolo per lo sviluppo di forze produttive e si creano conflitti tra classi
portatrici di interessi antagonisti; ci si prepara alla transizione al dominio del modo di
produzione successivo. Il capitalismo è nato dalle contraddizioni del modo di
produzione feudale, così il comunismo nascerà dalle contraddizioni del modo di
produzione capitalistico. Marx inserisce il problema della nascita del capitalismo in una
teoria generale del corso della storia. La teoria di Marx è stata criticata per il carattere
unilaterali stico e deterministico dello sviluppo della storia che essa postula. A noi
serve mettere il luce il concetto di capitalismo, lo faremo analizzando una definizione
di Werner Sombart.
b) sul mercato non si scambiano soltanto merci, ma anche prestazioni lavorative tra
una classe di capitalisti, che hanno bisogno di lavoro per far funzionare le loro
imprese, e una classe di proletari, che per vivere non hanno altro da vendere se non la
loro forza lavoro;
c) l’orientamento delle mete dei capitalisti è verso l’accumulazione del profitto come
fine in sé e il suo reinvestimento nell’ambito dell’impresa;
Le trasformazioni dell’agricoltura
Tuttavia c’erano delle terre che non erano soggette ad obblighi feudali, ad esempio, i
fondi allodiali sui quali i contadini indipendenti esercitavano un diritto di proprietà,
oppure, i boschi e i prati spesso erano di proprietà comune di un villaggio dove
venivano esercitati diritti legnatici e di pascolo da parte di tutti.
Questo quadro si frammenta dapprima in Inghilterra dal XVII secolo. La spinta che
mette in moto il processo proviene dalla crescente domanda di manufatti e derrate
che si genera su un mercato in formazione di dimensioni internazionali. Il movimento
delle enclosures raggiunge il suo massimo in Inghilterra tra il XVII e il XVIII secolo. Per i
contadini più poveri l’abolizione dei diritti di pascolo mina alla fondamenta l’equilibrio
economico tra bisogni e risorse: non potendo far mangiare le bestie, di conseguenza,
non possono più coltivare e vendono tutto a un signore e si offrono o come salariati
agricoltori o emigrano nelle città. Le recinzioni sono una parte del processo di
polarizzazione delle condizioni di vita nelle campagne e una maggiore disuguaglianza
all’interno delle classi rurali. Marx nel Capitale tratta dell’espulsione dei contadini dalla
terra.
Sul ruolo del commercio nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo vi sono coloro
(Pirenne, Braudel) che hanno visto nella formazione di un ricco ceto di mercanti e nella
creazione di un mercato mondiale il vero fattore di dissoluzione dei rapporti feudali, da
un altro punto di vista si pongono coloro, che rifacendosi a Marx (Dobb), sostengono
che di per sé le attività mercantili non sono incompatibili con il feudalesimo. Per i primi
il fattore del cambiamento si colloca nella sfera di circolazione dei beni, per i secondi,
il fattore di cambiamento è nella sfera della produzione dei beni. In alcuni casi il
capitalismo mercantile ha preceduto il capitalismo industriale, in altri ciò non è
avvenuto. La penisola italiana ha visto uno sviluppo mercantile molto precoce, ma non
ha trascinato con sé un analogo sviluppo nell’ambito della produzione agricola e
industriale. Molto diversa fu la penetrazione del capitale mercantile nelle attività
industriali dell’Inghilterra e nell’Europa settentrionale. Il sistema del lavoro a
domicilio (putting out in Inghilterra, verlag in Germania) costituisce una forma di
transizione all’impresa capitalistica. Il mercante forniva il capitale di esercizio e la
famiglia contadina il lavoro. Quando poi il mercante radunerà i lavoratori sotto uno
stesso tetto, fondando una manifattura e pagando loro un salario, nascerà l’impresa
capitalistica. I mercanti si trasformano in imprenditori e rivoluzionano il modo di
produrre.
La trasformazione dell’artigianato
Il fatto che un mercante possa mettere al suo servizio famiglie contadine che dedicano
del tempo al lavoro artigianale è un segno della crisi degli ordinamenti corporativi
artigianali. Le corporazioni erano delle organizzazioni monopolistiche che assicuravano
l’esercizio di un mestiere o di un’arte ai soli associati all’interno di un territorio; il loro
spirito era improntato al divieto della concorrenza, poiché a ognuno doveva essere
garantito un tenore di vita conforme alla dignità del ceto. Nulla di più contrario allo
spirito del capitalismo.
La stabilità di questo sistema richiedeva che la domanda dei beni fosse prevedibile e
senza forti oscillazioni. Quando i mercanti aumentano la domanda dei beni e di beni
più standardizzati, gli artigiani aggirano i vincoli delle corporazioni cercando di
accaparrarsi una quota della domanda aggiuntiva. Lo spirito del capitalismo,
premia l’innovazione e sviluppa la concorrenza. Alcuni artigiani ampliano la propria
bottega, offrono lavoro a un numero maggiore di apprendisti senza garantire loro di
diventare maestri d’arte, e forniscono una costante e abbondante produzione di beni
ai mercanti, gli artigiani che non riescono in tutto ciò si offrono ai primi come
lavoratori salariati. Alcuni artigiani si trasformano, mediante un processo di
accumulazione, in imprenditori industriali di stampo capitalistico.
La formazione dell’imprenditoria
La nascita del capitalismo è opera di “uomini nuovi” che non si accontentano più di
vivere dignitosamente grazie alla propria fatica, ma desiderano ingrandire sempre il
loro giro d’affari e la loro impresa. L’economista Joseph Schumpeter definisce, gli
imprenditori, degli “innovatori” in tutte le dimensioni che occupano, tutto questo li
porta a lottare contro i ceti aristocratici che vedo l’accumulazione di denaro come
qualcosa di immorale. L’innovazione garantisce a chi la introduce un vantaggio
differenziale rispetto ai propri concorrenti, cioè di un profitto maggiore fino a che gli
altri non riusciranno ad imitarlo. Ogni innovazione è destinata ad essere superata e
quindi questo processo di “distruzione creativa” porta a rivoluzionare costantemente
la combinazioni di fattori da cui nasce la produzione. Non si deve pensare che gli
imprenditori siano animati solo da un illimitato impulso acquisitivo. Weber osserva che
< il capitalismo si identifica con l’aspirazione al guadagno nell’impresa capitalistica
razionale, continuativa, e ad un guadagno sempre rinnovato, ossia alla redditività >. Il
capitalismo speculativo, dei banchieri e dei mercanti, non è capitalismo nel senso
moderno del termine, ossia non produce un nuovo orientamento sistematico e
razionale verso l’attività economica. L’aspirazione dei mercanti infatti era imitare il
modello dei ceti aristocratici. L’imprenditoria razionale è orienta alla conduzione di
una vita sobria e morigerata e il profitto accumulato deve essere reinvestito
nell’impresa. L’imprenditore è il campione delle virtù borghesi del risparmio e
persegue con dedizione assidua e sistematica un fine astratto e illimitato come
l’acquisizione del capitale. La nascita del capitalismo è accompagnata da una critica
contro gli stili di vita dispendiosi e improduttivi delle classi aristocratiche. Il
capitalismo, oltre ad essere un sistema economico, esprime una mentalità e un’etica
economica, che Weber ha chiamato lo “spirito del capitalismo”.
Non si può entrare nel merito di questa tesi però, possiamo dire che i primi
imprenditori furono portatori di uno spirito nuovo e seppero sfidare il potere dei vecchi
ceti nobiliari e vincere l’ostilità della cultura tradizionale dominante. Per Sombart tra i
primi imprenditori si trova un consistente gruppo di minoranze e emarginati (eretici,
ebrei, stranieri) che, proprio per il fatto di non essere parte dell’ordine sociale
costituito, sono in grado di liberarsi dai vincoli della tradizione. La marginalità sociale
costituisce spesso un condizione che favorisce la propensione all’innovazione.
Si assiste all’ascesa di una classe la cui ricchezza dipende dal lavoro e dalla capacità
di sfruttare le opportunità di mercato, il cui stile di vita sottolinea le virtù borghesi
dell’operosità e del risparmio, e che ben presto, rivendicherà il diritto di partecipare
attivamente alla gestione della cosa pubblica.
Il mondo feudale era un mondo di poteri locali. Anche le città, che si erano sottratte ai
vincoli feudali, non estendevano il loro dominio su vaste zone, anche se la loro
influenza si poteva far sentire in un’area più vasta per effetto dei rapporti di mercato
che si intrattenevano con altri centri commerciali. La debolezza dei poteri centrali
indica una dominazione di un’endemica situazione di guerra. Ogni signore feudale era
in conflitto con i suoi vicini, la guerra era la loro occupazione principale e le virtù
guerresche erano le qualità umane più apprezzate (coraggio, forza, spietatezza). Ogni
società ha la sua gerarchia di valori a seconda delle qualità e delle “competenze” che
in essa sono necessarie per acquisire ed esercitare il potere.
Questo sistema di rapporti di potere durò in Europa per due secoli fino a quando non
emerse come vincitore un potere capace di sottomettere, nell’ambito di territori
abbastanza vasti, i poteri concorrenti. Si trattò di un processo di pacificazione, nel
senso che su un territorio, si venne ad instaurare un monopolio della violenza
legittima (Weber), vale a dire il diritto esclusivo di usare la forza (le armi) da parte del
sovrano. L’instaurazione del monopolio è il presupposto della formazione dello stato
moderno, che nacquero quasi sempre come regni, dove l’accesso al potere era
regolato dalle leggi dinastiche della successione.
Nell’epoca del primo capitalismo la direzione dei traffici si sposta lungo l’asse nord –
sud in un’ampia fascia centrale che va dall’Italia alla Renania, alle Fiandre fino a
raggiungere le città anseatiche e i porti del mar Baltico. In questa fascia si sviluppa
una rete di città collegate tra loro da rapporti mercantili (Stein Rokkan parla di “Europa
delle città – stato”). Le istituzioni cittadine sono molto simili a quelle del successivo
stato nazionale, eppure in questa fascia si hanno forti ritardi nel processo di
consolidamento di stati nazionali abbastanza ampi.
La formazione degli stati moderni inizio a Occidente e Oriente del corridoio delle città –
stato, dove predominava l’agricoltura e la servitù della gleba. La creazione di grandi
eserciti accompagnò il processo di formazione e unificazione dello stato (Inghilterra
potente marina), erano composti da soldati e da un corpo di ufficiali selezionati,
reclutati, equipaggiati e stipendiati dallo stato. L’esercito era il cuore dello stato
moderno (in Gran Bretagna nel XVIII secolo le spese militari assorbivano il 70% del
bilancio dello stato). Le crescenti spese militari imponevano un cambiamento radicale
nei meccanismi di prelievo fiscale. Il ruolo del funzionario cambia radicalmente: la sua
retribuzione è posta a carico dell’erario, non è più in base a quanto spreme i
contribuenti; in secondo luogo, il suo operato viene sottratto all’arbitrio dei rapporti di
natura personale per essere sottoposto alla regolamentazione di norme astratte che si
applicano indifferentemente a tutti coloro che vivono sul territorio stesso. Le moderne
burocrazie sono un aspetto fondamentale per la formazione dello stato moderno.
I poteri di decidere pace e guerra, battere monete, reclutare l’esercito, emanare leggi
vincolanti per tutti e amministrare la giustizia su un delimitato territorio, sono il nucleo
del concetto moderno di sovranità. La prima forma dello stato moderno è quella
dell’assolutismo: il sovrano concentra nella sue mani tutti i poteri e li esercita
“legittimamente” sui suoi “sudditi” secondo il principio dinastico; Weber dice che il
concetto di legittimità riposa sulla “tradizione”. Il concetto di legittimità mostra che
non tutte le forme di potere sono legittime. Vi è potere in ogni situazione dove c’è
qualcuno che comanda e qualcuno che ubbidisce. In caso dell’uso della forza e della
coercizione per esercitare un potere quest’ultimo non sarà legittimo, lo diventa
quando ci ubbidisce lo fa perché ritiene che chi comanda abbia il titolo per farlo. La
tradizione è appunto il fondamento di legittimità del potere esercitato in base al
principio dinastico. Questo fondamento muta con l’avvento di una nuova forma di
stato moderno: lo stato costituzionale o di diritto.
In linea di principio si può dire che mutando il rapporto tra l’individuo e lo stato, muta
il fondamento di legittimità del potere. Anche nello stato di diritto il cittadino è
chiamato ad ubbidire (pagare le tasse), ma lo fa perché, e nella misura in cui, ritiene
che chi gli comanda di fare queste cose ha il titolo per farlo in virtù di leggi con le quali
ha avuto accesso alla posizione di potere che occupa e in virtù del fatto che le sue
azioni avvengono nel rispetto della legge fondamentale. Weber parla di “potere legale
– razionale”.
L’individualismo
Le due figure importanti per la genesi della società moderna sono: l’imprenditore e il
cittadino. Uno riguarda la sfera economica, l’altro la sfera politica. La comparsa di
queste figure segnale una profonda trasformazione nei modi di concepire il rapporto
dell’uomo con la società; l’individuo e la sua libertà sono posti al vertice della scala e
dei valori sociali. Soltanto con l’avvento della società moderna che il riconoscimento
della libertà di autorealizzazione dell’individuo assurge a valore dominante.
Ciò che inizia ad essere apprezzato nell’essere umano sono le caratteristiche che lo
distinguono, che ne fanno un esemplare unico e irripetibile della specie; in passato il
valore di un essere umano era stabilito in base al suo gruppo di appartenenza (clan,
stirpe, casta), caratteristiche acquisite per nascita che venivano portate con sé tutta la
vita e passavano ai figli. La posizione che una persona occupava nella società (status
sociale) era in modo prevalentemente determinata dalla sua origine e anche se non
mancava mobilità sociale si può dire che gli “status ascritti” prevalessero sugli “status
acquisiti” in base a meriti e capacità.
Tutte queste controversie sui valori dell’individualismo attraversano tutta la storia fino
ai giorni nostri.
Il razionalismo
Ha una storia antica nella cultura occidentale, le sue origini sono da rintracciarsi
nell’incontro di due componenti culturali: da un lato le religioni monoteiste (ebraico –
cristiana) hanno segnato il distacco dalla magia, dall’altro lato la cultura filosofico e
giuridica greco – romana che ha posto le basi di una concezione “mondana” della
società e dello stato.
Con l’avvento della società moderna che la ragione diventa un valore sociale
dominante. L’uomo è dotato della facoltà di procedere alla scoperta della verità e di
trovare in se stesso il centro di orientamento del suo agire. Per Weber la ragione è una
“potenza rivoluzionaria” capace di liberare gli uomini dall’errore, dalla superstizione e
dalla sottomissione ai poteri tradizionali della chiesa e dell’aristocrazia. Per gli
illuministi questa è una luce che vince l’oscurantismo che regge il dominio delle
coscienze da parte del vecchio regime.
Il comportamento umano può essere più o meno razionale, così come, gli ordinamenti
possono essere più o meno tradizionali. Tra agire razionale e ordinamenti razionali non
vi è un puro rapporto di corrispondenza. L’agire razionale è possibile anche nell’ambito
di ordinamenti tradizionali, e può essere viceversa. La razionalità degli ordinamenti e
la razionalità dell’azione si collocano in realtà a due diversi livelli di analisi: la prima al
livello della struttura sociale, la seconda al livello dell’azione sociale; il loro rapporto è
uno dei problemi della teoria sociologica.
Nella storia del pensiero sociale si sono succedute varie correnti che hanno attribuito a
determinate sfere la capacità di modificare e sviluppare le altre (politica, economica,
culturale). Le concezioni “materialistiche” evidenziano il ruolo fondamentale delle
trasformazioni nella sfera economica, mentre le concezioni “idealistiche” evidenziano
il ruolo fondamentale delle trasformazioni nel mondo delle idee e della cultura. Per le
prima, il fondamento delle società umane è da ricercarsi nelle strutture economiche, i
rapporti di potere e le norme sociali sarebbero un riflesso o una conseguenza delle
strutture economiche. Per le seconde, sono le idee e i valori che condizionano i
comportamenti umani a produrre le istituzioni (economiche, politiche). Il materialismo
storico di Marx rientra nella prima categoria, mentre le analisi di Weber rientrano nella
seconda.
Il modello evoluzionistico
I modelli dicotomici
Per i padri fondatori della sociologia, la causa capace di spiegare il mutamento sociale
non è sempre stata al centro delle loro preoccupazioni. Il loro intento si è rivolto alla
descrizione del cambiamento nel fare ciò hanno sviluppato modelli “dicotomici”, dei
modelli che isolano alcune caratteristiche essenziali e analizzano come si configurano
nelle società premoderne e in quelle moderne.
Nel 1893 Durkheim pubblica La divisione del lavoro sociale un classico della
letteratura sociologica. Lui si domanda come mai da un lato l’individuo diventa sempre
più autonomo, dall’altro tende a dipendere sempre più dal resto della società. Lo
sviluppo dell’individualismo non indebolisce i legami sociali (solidarietà sociale), li
trasforma. Nelle società premoderne gli individui tendono a stare insieme perché sono
tutti simili e tutti ugualmente sottoposti all’unità di grado superiore, non c’è spazio per
le differenze. La solidarietà tra le varie unità è puramente meccanica; essa è
evidenziata dal prevalere, nei sistemi giuridici che regolano tali società, delle sanzioni
repressive che punisco in maniera esemplare chi viola una norma.
Nelle società moderne, dove prevale la divisione del lavoro, la solidarietà sociale si
fonda sulla differenza, gli individui formano “società” perché tutti dipendono dagli altri.
Nei sistemi giuridici prevalgono le norme che regolano i contratti (diritto civile), la
violazione di tali norme comporta sanzioni restitutive che ristabiliscono l’equilibrio
turbato dalla violazione. La coesione sociale che ne deriva viene chiamata solidarietà
organica.
Nulla di tutto ciò avviene nell’ambito della società, dove gli individui vivono separati in
un rapporto di tensione e ogni entrata nella vita privata viene concepito come un atto
ostile di intrusione. Il rapporto societario tipico è il rapporto di scambio, esso avviene
perché ognuno ritiene di ricevere qualcosa che un valore maggiore rispetto a quello
che cede. Il rapporto di scambio mette in relazione gli individui solo per quello che
riguarda le loro prestazioni; chi vende è interessato solo che il compratore abbia la
capacità di pagare il prezzo stabilito. La società è quindi una costruzione artificiale e
convenzionale, formata da individui separati, ognuno dei quali persegue il proprio
interesse, ed essa entra in gioco solo come garante che le obbligazioni contratte
vengano rispettate. Nella società tutti i rapporti vengono a improntarsi al modello dei
rapporti di scambio di mercato: nulla viene fatto per nulla.
1) Affettività – neutralità affettiva. Nella modernità vi sono valori e norme sociali che
regolano le manifestazioni di affetto e l’espressione delle emozioni. Nella vita pubblica,
ad esempio, viene mal considerato chi lascia trapelare i proprie sentimenti e le proprie
emozioni facilmente; l’espressione di affettività (positiva o negativa) è confinata nella
vita privata, dove ci sono rapporti più intimi. La società moderna distingue nettamente
dove è consentito o no esprimere affettività.
4) Specificità – diffusione. Nelle società moderne gli individui sono coinvolti solo per
alcuni aspetti della loro personalità. Gli individui agiscono nell’ambito di ruoli che
definiscono confini precisi tra ciò che è ammesso o non ammesso nell’esercizio di un
particolare ruolo. I confini di ruolo definiscono cioè un contenuto “specifico”. I ruoli
familiari o amicali hanno un contenuto assai più “diffuso”.
Queste cinque coppie mettono in evidenza tratti ai quali la cultura moderna assegna
un valore “morale”: ciò che è “bene”. Ciò non vuol dire che questi orientamenti morali
trovino nelle società moderne piena realizzazione. Più che descrivere caratteristiche
della società moderna, le “variabili modello” indicano piuttosto tendenze valoriali di
fondo che sono presenti in queste società.
In sociologia è stata sviluppata una specie di grammatica degli elementi primari del
tessuto sociale, delle loro proprietà e relazioni, e del modo in cui questa si combinano
in strutture più complesse. Possibile è individuare forme e proprietà elementari delle
relazioni sociali, che valgono a prescindere dal contenuto concreto di queste. Si
individuano per esempio proprietà formali dei gruppi di tre persone che valgono
indipendentemente dal fatto che si tratti di padre, madre e figlio oppure di tre
commercianti che trattano un affare. Allo stesso modo le organizzazioni hanno
caratteri essenziali e modi tipi di funzionare.
Con riferimento al senso Weber sviluppa una tipologia dell’azione sociale. Possiamo
distinguere:
1) azioni razionali rispetto allo scopo, se chi agisce valuta razionalmente i mezzi
rispetto agli scopi che si propone, considera gli scopi in rapporto alle conseguenze che
potrebbero derivarne, paragona i diversi scopi possibili e i loro rapporti;
2) azioni razionali rispetto al valore, se chi agisce compie ciò che ritiene gli sia
comandato dal dovere, costi quel che costi; questo è un agire razionale, perché
implica una scelta consapevole e una valutazione se il comportamento sia congruente
con il valore che si intende testimoniare;
Possiamo dire che è sempre meglio considerare in primo luogo un azione come
razionale e poi semmai considerarla in altro modo, quindi l’uomo si comporta sempre
in maniera razionale sino a prova contraria, e la razionalità varia in base alla
situazione in cui si trovano gli individui. Infine, se bisogna tener conto del “senso” dato
dagli attori all’azione, ne deriva che la situazione alla quale fare riferimento per
classificarla è quella che gli attori definiscono, data la conoscenza che ne hanno e il
punto di vista che ne adottano.
L’interazione sociale è il processo secondo il quale due o più persone in relazione fra
loro agiscono reagendo alle azioni degli altri. Con l’interazione si realizza, si riproduce
e cambia nel tempo il contenuto di una relazione. Si può dire che la relazione è la base
dell’interazione. I processi di interazione sono gli elementi base per la definizione dei
gruppi.
Gruppo sociale è un insieme di persone fra loro in interazione con continuità secondo
schemi relativamente stabili, le quali si definiscono membri del gruppo e sono definite
come tali da altri (Merton). Tuttavia lo schema dell’interazione su basi di relazioni
cooperative, in un gruppo ci sono contrasti e divergenze di opinioni, altrimenti una
relazione conflittuale non dà luogo a un gruppo. Non sono gruppi le categorie sociali
(giovani, immigrati) e neppure le classi sociali (borghesi, operai). L’appartenenza a
una categoria o classe può essere la base per la formazione di gruppi di vario genere.
Indipendentemente agli scopi che i gruppi si pongono e dell’ambito istituzionale nel
quale hanno le loro radici, possiamo trovare delle proprietà che riguardano
l’interazione relativamente stabile e continuativa di due o più persone. Studiare
un’azienda o un partito sulla base di proprietà formali dei gruppi non esaurisce tutti gli
aspetti rilevanti dal punto di vista sociologico.
Le differenze sono così marcate che alcuni riservano il termine “gruppo” solo ai piccoli
insiemi, anche se non è possibile fissare con precisione la dimensione del confine. La
base della differenza si trova nel fatto che l’interazione può essere diretta
(famiglia), oppure in parte diretta e in parte indiretta (azienda: diretta con i colleghi,
indiretta con la direzione).
Lo studio sperimentale dei piccoli gruppi di dimensione (<3) ha messo in luce altre
proprietà. In generale i gruppi con numero pari di componenti mostrano maggiore
tasso di disaccordo, e ciò probabilmente in conseguenza della possibilità del formarsi
di due sottogruppi di uguali dimensione. Nei gruppi di cinque persone si registra il
massimo di soddisfazione dei membri, questo è dovuto che un numero superiore di
membri aumenti troppo le dimensioni di un gruppo e anche dal fatto che il formarsi di
due sottogruppi, uno di tre e uno di due, non lasci chi è in minoranza da solo, cosa che
capita in gruppi di tre.
La non appartenenza può anche essere vista in una prospettiva temporale. In tal caso
si distinguono gli ex membri e i non membri che sono sempre stati tali. La rottura dei
legami preesistenti comporta per i primi, e non per i secondi, il rifiuto piuttosto che
l’indifferenza rispetto al gruppo. A ciò è collegato un atteggiamento di ostilità da parte
di chi è membro di un gruppo nei confronti dell’ex membro e viceversa.
Proprietà strutturali
Con riferimento ai ruoli, vale dire ai comportamenti attesi, si possono definire diversi
caratteri tipici delle relazioni interne a un gruppo. Una distinzione è quella tra gruppi
primari e secondari. I gruppi prima sono di piccole dimensioni, a ruoli diffusi, con
contenuti affettivi e molto personalizzati (famiglia). I caratteri dei gruppi secondari
sono opposti: più grandi dimensioni, ruoli specifici, relazioni più fredde e
spersonalizzate (azienda), la persona tende ad essere ridotta al suo ruolo.
Potere e conflitto
Il potere è una specie di energia sociale, di cui un attore dispone nel condizionare
l’azione di un altro. Si tratta di un fenomeno di relazione.
Inteso nei termini specifici della definizione precedente, il potere si distingue da una
più generale possibilità di condizionare il comportamento di altri, anche senza azioni
dirette o comandi. In questi casi Weber usava il termine Macht, potenza, ma nel
linguaggio sociologico si usa il termine potere in senso diverso dal precedente: così, si
dice per esempio che chi detiene i mezzi di produzione ha potere nei confronti dei
lavoratori.
- Il conflitto può generare nuovi tipi di interazione fra gli antagonisti. Spesso il
conflitto è il modo in cui due persone o due gruppi entrano in contatto. Le
restrizioni che via via essi si impongono nell’interazione, per controllare gli esiti
più dirompenti del conflitto (anche le guerre hanno regole), possono essere una
base per lo sviluppo di regole e di rapporti più cooperativi. Se un gruppo non
reprime e invece tollera i conflitti al suo interno, prevedendo regole e procedure
per la loro espressione, allora è probabile che i conflitti diano luogo a progressivi
adattamenti della sua struttura, assicurandone le persistenza attraverso una
continua modificazione delle forme di interazione. Gruppi a struttura rigida
possono sopravvivere reprimendo i conflitti; quando però esplodono in maniera
violenta è possibile che il gruppo si disgreghi essendo incapace di adattarsi.
Il comportamento collettivo
Noi considereremo qui tre tipi fra i più importanti di comportamento collettivo, che
servono a esemplificarne bene la grande varietà: il panico, la folla e il pubblico. Panico
è una reazione collettiva spontanea, che si manifesta con la fuga o l’immobilità, di
fronte al rischio di subire gravi danni da un evento in corso o annunciato come
immediato. La sensazione di pericolo immediato si associa alla percezione che ci sono
poche vie d’uscita e che queste si stanno chiudendo, in una situazione in cui mancano
informazioni precise su come le cose si evolvano. Si innescano allora comportamenti
irrazionali e asociali (usare la violenza per farsi strada), il tutto rafforzato nel vedere
reazioni simili da parte di altri. L’individuo tende a reagire guardando solo se stesso e
vedendo gli altri come avversari. Il pericolo può anche essere reale (naufragio) o
immaginario (americani coglioni 1940!).
Come mostrano gli esempi, nel comportamento collettivo ritroviamo, una certa
sospensione dei normali orientamenti e comportamenti, una maggiore fluidità nei
rapporti fra le persone, più spontaneità e un maggiore coinvolgimento emotivo
rispetto al solito. In genere si tratta di situazioni in cui è un evento a rendere confusa o
fluida la situazione e far venire meno aspettative definite di comportamento. Ne deriva
che la precedente personalità sociale dell’individuo, che è costituita dall’insieme dei
suoi ruoli, tende a essere sospesa o messa in questione. Da ciò derivano i caratteri
disordinati, imprevedibili, spontanei ma anche imitativi, in certi casi irrazionali che
riscontriamo con chiarezza in molte manifestazioni di comportamento collettivo.
La microsociologia
In questo capitolo abbiamo introdotto alcune categorie di base dell’analisi sociologica,
a partire dal concetto di azione sociale. Così facendo abbiamo considerato che la
società è fatta in ultima analisi di individui, che può essere vista come il prodotto di
molte interazioni. Guardare alle azioni e interazioni dirette delle persone è come
osservare la società al microscopio. Che cosa si vede? Risponderemo con tre esempi di
temi e ambiti di ricerca micro sociologica.
Le reti
Un carattere importante delle reti è se sono a maglia larga o maglia stretta. Una rete è
a maglia tanto più stretta quanto più le persone che un individuo conosce si
conoscono anche fra loro (abitanti di un piccolo paese ha reti a maglia stretta, quelli
delle grandi città al contrario).
I legami fra le persone collegate nelle reti variano per intensità, durata, frequenza,
contenuto. Quanto al contenuto, possono essere limitate a un solo carattere o
sommare più caratteri (lavoro oppure lavoro,amicizia). Una situazione particolare è
quella di chi appartiene a due reti collegate fra loro solo attraverso la sua persona
(uomo di campagna che immigra in città). In casi come questi, osservare le reti, la loro
estensione e densità, la frequenza e i contenuti dei rapporti, permette di rilevare come
gli individui si muovano con loro strategie di adattamento oscillando fra diverse
società, a struttura diversa.
In generale, la network analysis può essere uno strumento flessibile, che ci permette
di vedere l’individuo mentre reagisce alla situazione in cui si trova e combina le sue
relazioni in funzioni di proprie strategie. Il concetto di rete sembra essere simile a
quello di individuo; se ne discosta perché il ruolo è un comportamento atteso
socialmente e prescritto nel suo contenuto fondamentale. Il concetto di ruolo individua
le parti che gli individui sono chiamati a svolgere. Il concetto di rete permette piuttosto
di vedere come un individuo interpreta a suo modo l’insieme di ruoli che ricopre,
ovvero come gioca con i suoi ruoli nel tessere le sue relazioni.
Le carriere morali
La ricerca riguardo le taxi –dance hall , nella città di Chicago, è uno dei primi esempi
di studio di carriere morali. Queste sono tipiche successioni di esperienze vissute da
categorie di persone. Studiare le carriere morali significa osservare i tentativi e le
successive mosse delle persone nell’adattarsi a un ambiente che in gran parte non
può essere da loro influenzato, per cercare di mantenere o conquistare una propria
immagine e possibilità di vita, una ragionevole stima da parte degli altri e l’autostima
personale. Spesso lo studio delle carriere morali ha riguardato la formazione di
comportamenti devianti, ma è altrettanto possibile applicare la metodologia a percorsi
normali. Lo studio delle carriere permette di osservare gli uomini in azione, mentre si
muovono nella società con loro strategie di adattamento. La carriera è immaginata
come un processo di interazione, nel quale il soggetto sperimenta le sue possibilità
suscitando reazioni positive o negative degli altri, alle quali risponde a sua volta
cambiando o precisando il proprio comportamento, in una sequenza che porta verso la
sue definizione sociale. Osservando l’inizio di un percorso individuale non potremo mai
dire dove una persona finirà. Avendo ricostruito carriere tipiche, possiamo dire che,
fatto un certo passo, qualora si verifichino certe circostante è probabile che una
persona ne faccia un altro in una certa direzione, e che successivamente, al verificarsi
di altre tipiche circostanze, ne faccia un altro ancora in una direzione che sempre più è
vincolata e segnata dai passi precedenti.
Erving Goffman si è impegnato a sviluppare una sociologia della vita quotidiana, del
comune comportamento e delle sue regole. Si tratta di quel tipo di interazione che
comporta una breve periodo di tempo, una limitata estensione di spazio e abbraccia
quegli eventi che, una volta iniziati, debbono arrivare a conclusione; l’argomento è
costituito da quella classe di eventi che si verificano durante una compresenza e per
virtù di una compresenza.
Usando una metafora del teatro Goffman descrive un gioco che si svolge su una
scena, dove gli attori (la compagnia) cercano di controllare le idee che gli altri (il
pubblico) si fanno di loro, per presentarsi nella migliore luce possibile e in un modo
che sia credibile. Esistono luoghi di ribalta dove ci si deve vestire e comportare con
certe formalità, e luoghi di retroscena dove ci si può rilassare. L’interazione può
essere fra persone che si conoscono o fra estranei che si trovino casualmente insieme
in un luogo pubblico. Nella “rappresentazione” i rapporti fra attori e pubblico possono
anche essere diversi da quelli che sembrano. Goffman parla a riguardo di ruoli
incongruenti. Il delatore è chi finge presso gli attori di essere un membro della
compagnia, avendo così accesso al retroscena e riportando informazioni riservate al
pubblico; il compare è chi segretamente si accorda con gli attori e si mescola fra il
pubblico per orientarlo; lo spettatore puro è un professionista riconosciuto come
spettatore qualificato; l’intermediario appartiene a due compagni che sono l’una il
pubblico dell’altra e può mettere in atto giochi di triade; la non persona è chi non fa
parte della rappresentazione e viene ignorata (conducente taxi).
Esistono regole di etichetta e rituali con i quali si sperimenta l’accesso agli altri e si
misurano la possibilità e i limiti di un reciproco coinvolgimento. Un incontro con un
estraneo per strada, è già un’interazione molto complicata nella quale si scambiano
molti messaggi: è un tipo di rituale che Goffman chiama disattenzione civile.
Nell’interazione quotidiana gli individui mettono in atto loro strategie per ottenere
vantaggi. Nel fare questo seguono però normalmente regole, con sequenze tipiche di
mosse ammesse ed esclusione di altre non ammesse. Il gioco può comportare
“vincitori” e “vinti”, ma rituali adatti attenuano i possibili effetti distruttivi di una
relazione. I “giochi di faccia” riguardano la pretesa, e in modo corrispondente il
riconoscimento da parte dell’altro di una certa immagine di sé. Fondamentale è
comunque l’obbligo di permettere a una persona di mantenere una propria immagine
accettabile.
L’interazione della vita quotidiana è la “meccanica più intima della riproduzione
sociale”. Regole e rituali dipendono dalla cultura di una determinata società, ma si
riscontrano somiglianze diffuse.
Il capitale sociale
La fiducia è un componente del capitale sociale che può avere origini diverse; Weber
segnalava come i membri di sette di riformati negli USA fossero favoriti negli affari in
quanto contraenti rigorosi e affidabili; oggi diremmo che avevano un capitale sociale
generato dal loro credo religioso e dalla rigida osservanza loro imposta dalla comunità.
Il capitale sociale può però dipendere dalla forma delle relazioni.
Le teorie del capitale sociale sono molto cresciute, con sviluppi e discussioni del
concetto, esplorazioni delle sue possibilità euristiche e applicazioni a molti temi di
ricerca. In generale si può dire che la ricerca si è posta due principali obbiettivi
analitici e pratici: come far convivere risorse del capitale sociale informale nelle grandi
organizzazioni formali, e come scoprire e coltivare risorse di capitale sociale in
situazioni difficili, dove questo non è valorizzato, ma è potenzialmente presente.
Qui importa rilevare che il punto di vista che offre il nuovo concetto ci ha permesso
un’idea complessa di organizzazione sociale, che unisce aspetti razionalizzati e
spontanei, e una visione più articolata delle relazioni sociali nelle società moderne:
senza il concetto e l’attenzione al capitale sociale non saremmo in grado di percepire
risorse e rischi importanti per la cooperazione.
Uno dei caratteri più evidenti della società moderna è la grande diffusione di
associazioni e organizzazioni. In entrambi i casi si tratta di gruppi progettati per
raggiungere alcuni limitati scopi, basati su regolamenti chiaramente stabiliti, al
contrario di piccoli gruppi informali (amici). I due termini sono stati usati, con
significati diversi diventando a volte l’uno lo specifico dell’altro.
Cosa hanno in comune fra loro i gruppi che chiamiamo associazioni? Si può
rispondere considerando il motivo per cui le persone partecipano al gruppo e si
adattano alla sue regole. Nelle associazioni questo avviene perché se ne condividono i
fini, sentendoli come propri, dal momento che corrispondono a propri ideali o interessi.
Un insieme di persone che ritiene di avere interessi o ideali simili può dar vita a
un’associazioni per difenderli o realizzarli insieme.
Una volta associate, le persone si distribuiscono fra loro alcuni compiti necessari alla
vita dell’associazioni. Con riferimento a questo aspetto, si dice che l’associazione si è
data un’organizzazione. Può però succedere che le necessità dell’associazione
richiedano che si costituisca un ufficio stabile per quei compiti, assumendo persone
pagate perché li svolgano, secondo certe procedure stabilite, con capacità
professionali per farlo, rispondendo agli ordini di un responsabile. Quest’ufficio è
un’organizzazione.
Il criterio per vedere cosa abbiano in comune fra loro le organizzazioni è lo stesso già
usato per le associazioni. Abbiamo trovato che nelle organizzazioni partecipare è un
lavoro, remunerato di solito in denaro. Il motivo della partecipazione dunque è
strumentale, e solo in certi casi può verificarsi anche un’identificazione con i fini
dell’organizzazione; questo resta un fatto secondario. Nelle organizzazioni i ruoli
vengono prima e sono più importanti delle singole persone che si uniscono al gruppo.
Chi decide di fondare un ospedale deve progettare un’organizzazione che preveda un
certo numero di persone per ogni ruolo (medici, infermieri, ecc … ).
Le associazioni
Il punto significativo per noi è che Tocqueville cerca di individuare uno spazio che le
libere associazioni occupano facendosi largo fra le istituzioni portanti della società. Per
indicare questo spazio si usa l’espressione società civile. Un tale modo di intendere
le associazioni è più tipico della cultura americana, che considerava fra le associazioni
anche organismi previsti con leggi e ai quali era obbligatorio aderire per svolgere una
certa attività (camera di commercio); successivamente però i significati si sono
avvicinati: oggi quando si parla di associazioni si intendono volontarie, nel senso di
Tocqueville. Nelle società moderne la possibilità di associarsi è un diritto tutelato dalla
legge: è il diritto di persone che riconoscono di avere ideali o interessi simili a
sviluppare le loro opportunità insieme.
Lo studio generale delle associazioni non ha avuto uno sviluppo comparabile a quello
delle organizzazioni. Esistono però teorie particolati e molte ricerche su alcuni tipi di
associazioni (partiti, sindacati). Al di fuori di questi casi, lo studio delle associazioni si è
scontrato con la loro grande varietà.
Weber è il punto di partenza per lo studio delle organizzazioni. Il termine con cui
definisce la forma moderna di organizzazioni è burocrazia. Della burocrazia egli
individua le principali caratteristiche, costruendone un modello teorico al quale le
organizzazioni concrete tendono più o meno a corrispondere.
b) una precisa struttura gerarchica: chi occupa una posizione ha i poteri per compiere
gli atti che a quella posizione competono, può dare ordini ad altri che da lui dipendono
mentre deve obbedire a quelli di un superiore; è però anche strettamente previsto il
tipo di ordini che si possono dare e ricevere, oltre ai quali non si può andare; insieme
ai poteri di dare ordini competono anche poteri di controllo sulla loro esecuzione;
Bisogna precisare che Weber costruisce il suo modello della burocrazia per grandi
comparazioni storiche di diverse forme di organizzazione. Il modello non si presta però
per un’analisi ravvicinata della struttura interna di un’organizzazione, che permetta di
capire il funzionamento di tipi di diversi di organizzazioni moderne. Bisogna osservare
che le organizzazioni moderne che si discostano da questo modello non sono meno
efficienti di quelle simili al modello di Weber. Le regole all’interno di un’organizzazione
rendono preciso ed efficiente un funzionario, ma la loro eccessiva presenza riduce
l’iniziativa personale. Dobbiamo constatare che spesso la burocrazia non è efficace e
neppure efficiente. I sociologi usano i termini efficacia per indicare la capacità di
un’azione di raggiungere i risultati che si propone, ed efficienza per valutare il
dispendio di risorse impiegate per ottenere i risultati.
Il formalismo burocratico
I giochi di potere
Un altro modello è proposto da Crozier. Al centro della sua attenzione sono le
relazioni di potere, vale a dire la possibilità di interferire sul comportamento di altri
al di là degli ambiti di autorità previsti dall’organizzazione. In un’organizzazione
perfettamente razionalizzata questo potere residuo non potrebbe sussistere, perché il
comportamento di ognuno sarebbe perfettamente previsto e visibile. Ma
un’organizzazione del genere per Crozier è impossibile, perché non c’è mai una
soluzione unica e perfetta per ogni problema minimamente complicato e perché non è
possibile prevedere tutti gli aspetti dello svolgimento di un compito. Esistono ruoli
nell’organizzazione più o meno prevedibili, e dunque ruoli più o meno regolabili. Si
verifica allora il seguente processo: ogni incertezza nella regolamentazione di un ruolo
organizzativo comporta l’esistenza di un certo potere discrezionale nella mani di chi
svolge quel ruolo, che può essere utilizzato per “contrattare” la propria partecipazione
nell’organizzazione in vista di particolari vantaggi. Il gioco, che si svolge a livello di
gruppo, consiste per i “privilegiati” nel cercare di conservare le fonti di incertezza alla
base del loro privilegio; per gli altri, che in qualche modo sono danneggiati, nel
tentativo di sottometterle a controllo. La direzione deve gestire i conflitti ed è costretta
così a dare molta importanza ai problemi interni di salvaguardia dell’equilibrio fra le
diverse parti dell’organizzazione, a scapito della propria efficienza. I gruppi non
privilegiati premeranno per una maggiore regolamentazione che tolga incertezza e
dunque vantaggi agli altri; ma in generale, anche i mezzi a disposizione dell’autorità di
vertice di un sistema burocratico, quanto più spesso corrisponde al modello puro,
tanto più si limitano a precisare e aumentare le regole. In questo modo
l’organizzazione finisce in un circolo vizioso perché rendendo più minuziose e
costringenti le regole diminuisce la capacità di adattamento alla varietà imprevedibile
con cui i problemi si presentano.
Proprio per tali motivi gli studiosi di organizzazioni sono arrivati anche a suggerire
soluzioni molto lontane dai caratteri della burocrazia descritti da Weber.
Un esempio è la direzione per obbiettivi raccomandata da Drucker. In questo
schema, più che alle regole bisogna fare attenzione agli obbiettivi, fissati a grandi
linee; gli obbiettivi sono in certa misura contrattati fra superiori e inferiori, ciò che
implica un’ampia possibilità di discuterli senza tenere troppo conto della gerarchia nel
valutare le proposte; in successive riunioni gli obbiettivi possono essere ridefiniti e
ricontrattati; i rapporti sono più personalizzati, la carriera per anzianità è prevista, ma
si deve tener conto dei risultati che una persona ottiene e dei contributi che essa dà
alla soluzione dei problemi. Secondo Drucker, un’organizzazione basata su questi
principi motiva maggiormente le persone a impegnarsi e mette in luce zona di
inefficienza e permette di affrontarle.
Le cose però sono più complicate. Un sistema di direzione per obbiettivi si adatta
meglio alle funzioni dei dirigenti che al resto dell’organizzazione, dato che sviluppa
competizione tra individui crea nuove tensioni.
Gli studi teorici sono andati nel senso di distinguere l’esistenza di forme diverse di
organizzazioni a seconda delle condizioni in cui esse operano, soprattutto secondo la
stabilità dell’ambiente. Uno dei tentativi è la teoria delle cinque configurazioni
organizzative di Mintzberg.
Lo schema interpretativo si base sulle differenze nel modo in cui le diverse attività
sono coordinate fra loro. Si definisco in questo modo cinque configurazioni tipiche:
Non esiste un unico modo migliore (one best way) per progettare un’organizzazione.
Anche all’interno di un’organizzazione parti diverse tendono a organizzarsi in modo
diverso. Un’organizzazione efficiente deve essere in grado ci ricomporre un insieme
integrato di forme diverse.
Attori e decisioni
Abbiamo detto che in ultima analisi esistono solo delle persone che decidono, ma che
le organizzazioni possono essere considerate degli attori collettivi che prendono
decisioni. Prendere delle decisioni significa grosso modo perseguire degli obbiettivi,
anche se non è esattamente la stessa cosa.
Obbiettivi e decisioni sono comunque collegati e la domanda quali sono gli obbiettivi di
un’organizzazione? Può essere trasformata in: chi con le sue decisioni influenza gli
obbiettivi nelle organizzazioni?
Una volta stabilita una struttura organizzativa questa impone dei vincoli molto forti
alle scelte e al comportamento delle persone, coordinando in modo sistematico le loro
attività. Nelle organizzazioni le persone cooperano; ciò non toglie che nell’ambito dei
vincoli posti dalla struttura, esse interagiscono tenendo conto di loro obbiettivi, proprio
per influire sulle decisioni e quindi sugli obbiettivi dell’organizzazione.
Un modo utile per rispondere alle domande fatte all’inizio è affermare che gli
obbiettivi dell’organizzazione sono definiti da coalizioni, vale a dire da gruppi d
persone con interessi comuni che si alleano con altri gruppi con interessi diversi dai
loro contrattando certe decisioni cruciali. Altri gruppi che non sono entrati nella
coalizione dominante saranno sacrificati o meno avvantaggiati. Giochi di questo
genere, comunque, devono tener conto dell’insieme delle regole e dei vincoli che una
determinata organizzazione si pone.
Per Simon il comportamento reale non raggiunge praticamente mai l’idea generale di
razionalità. Impossibile è avere una conoscenza completa e una previsione di tutte le
conseguenze che discendono da un’eventuale scelta, così come è impossibile avere in
mente tutte le alternative. Il modo migliore per non ottenere un risultato è proprio
quello di pretendere di conoscere tutte le possibili alternative e conseguenze di una
scelta prima di prenderla, perché si finirebbe per non decidere più. La razionalità è
sempre una razionalità limitata, che mira a ottenere risultati soddisfacenti, e lo fa
semplificando la realtà in modelli che trascurano la catena delle cause e degli effetti
oltre un certo orizzonte, limitandosi cioè ad alcuni aspetti che un attore considera più
rilevanti ed essenziali. Così si comportano le persone e le organizzazioni in quanto
attori collettivi. Comportarsi diversamente non consente di essere razionali. La
razionalità limitata è la razionalità possibile e concretamente perseguibile in normali
condizioni di incertezza.
Uno sviluppo del concetto di razionalità limitata può essere considerata la distinzione
fra razionalità sinottica e razionalità incrementale o strategica. La prima è la
razionalità che ha in mente Weber in astratto e a proposito della burocrazia, e che
consiste nel poter fare inizialmente delle scelte che tengano conto di tutti i dati
rilevati, in relazione a obiettivi condivisi e chiari, predisponendo i mezzi necessari ai
propri fini, i quali vengono realizzati poi senza intoppi. Più l’ambiente è stabile e
prevedibile tanto più è possibile pensare in termini di razionalità sinottica. Ecco perché
la burocrazia meccanica di Mintzberg tende in certe condizioni a essere la
configurazione organizzativa più efficiente.
Se confrontate il rapporto fra mezzi e fini è un problema tecnico, la scelta tra fini
diversi è un problema culturale o politico. Nelle nostre società tutelare i criteri di
interesse generale o ideali profondi è per principio compito delle istituzioni
democratiche. Ma anche l’evoluzione della cultura incide su cosa possa essere
considerato da questo punto di vista un problema e sui modi di affrontarlo: basti
pensare al problema oggi sentito riguardo all’ecologia. La razionalità sostanziale tende
per queste vie a controllare e orientare la razionalità funzionale.
Nel linguaggio comune si parla di valore sia per indicare qualcosa che non appartiene
al mondo delle cose reali ma alla sfera degli ideali e dei desideri, si per indicare
qualcosa di reale di cui si teme la perdita. Nel primo caso, il valore orienta l’azione in
vista della sua realizzazione, nel secondo caso orienta l’azione in vita della sua difesa.
In sociologia troviamo una pluralità di significati a seconda dello statuto che le varie
teorie assegnano alla categoria dei valori. Possiamo cercare di identificare le
caratteristiche che ricorrono più frequentemente nell’uso che i sociologi fanno di
questa categoria concettuale.
In primo luogo, i valori appaiono come orientamenti dai quali discendono i fini delle
azioni umane. Valori e fini sono legati tra loro come in una catena: i valori sono i fini
ultimi dell’azione, per realizzare i quali gli esseri umani devono perseguire dei fini di
ordine inferiore che quindi a loro volta sono nello stesso tempo fini e mezzi. Se il
valore è la sicurezza, è necessario che si perseguano i fini di protezione dalle calamità
e di difesa dai nemici.
In terzo luogo, per lo scienziato sociale i valori esistono come “fatti sociali” in quanto
vengono fatti propri da individui o gruppi sociali i quali orientano in base ad essi il loro
agire. In questo senso i valori diventano forze operanti poiché forniscono le
motivazioni dei comportamenti.
In quarto luogo, i valori vengono fatti proprio adottati, da individui o gruppi mediante
processi di scelta. Individui e gruppi scelgono i valori che guidano il loro agire. In
questo senso i valori sono sempre “soggettivi” in quanto esistono perché vi sono dei
“soggetti” che li scelgono, ma sono anche “oggettivi” poiché costellazioni di valori
sono prodotte da dinamiche sociali di lungo periodo riconducibili all’intreccio dell’agire
di una pluralità di soggetti.
In un passo de L’ideologia tedesca, Marx afferma che i valori dominanti di una società
sono i valori della classe dominante. Questa affermazione è utile per due ragioni:
Il valore della pace è diventato universale dopo che l’umanità è emersa dalla seconda
guerra mondiale; da allora l’esaltazione della guerra come valore sul quale si misura la
virtù, la dignità e l’onore dei popoli non è più sostenuta neppure dagli esponenti del
potere militare; le stesse forze armate interpretano il loro ruolo come “forze di pace”.
Questa operazione è il risultato di un cambiamento di valori che ha condotto
all’inserimento della pace nel novero dei pochi valori universali. Questa collocazione
non è stabile, più l’orrore della guerra si allontana dalla memoria collettiva dei popoli,
nulla garantisce che la guerra non venga celebrata come un valore.
In questo grappolo di valori universali si può includere un valore su cui si sono
sviluppate numerose controversie e sembrerebbe non essere universalmente
condiviso, il valore della vita. Le controversi alle quali si allude sono quelle
sull’aborto; non c’è più nella nostra cultura il valore del sacrificio di se o del disprezzo
della vita altrui.
Lo stesso vale per i grandi valori della libertà, dell’uguaglianza, della dignità
della persona umana ecc …, sull’interpretazione dei quali nascono i conflitti più
accesi, però non possono essere esclusi dai valori universali. I valori universali sono
quelli nei quali una civiltà si riconosce e chi non li accetta si mette al di fuori di quella
civiltà; sono i valori che presidiano i confini del vivere civile, definiscono la natura del
patto sociale. L’affermazione di questi valori come valori universali non ha nulla di
irreversibile, di pacifico e graduale, non è il risultato di processi evolutivi, ma è il
risultato di processi di lungo periodo, intessuti di lotte condotte storicamente da gruppi
umani concreti.
Noi viviamo in una società e in un’epoca caratterizzata dal pluralismo dei valori, ed
è quindi importante analizzare se e come i diversi valori “stiano insieme”, cioè
facciano parte di un medesimo ordinamento.
Anche il linguaggio comune riconosce che vi sono “valori ultimi” e che i valori sono
organizzati per ordinamenti gerarchici di superiorità/inferiorità. Possiamo immaginare
una struttura a grappolo, in cui vi è un valore ultimo, che “tiene insieme” l’intera
struttura e dal quale “dipendono” tutti gli altri. In questo caso, possiamo parlare di
sistemi di valori, interamente coerenti. Empiricamente i valori possono essere
organizzati in uno o più sistemi di ampiezza variabile.
Anche lo stesso individuo può far propri valori tra loro apparentemente incompatibili e
trovarsi quindi di fronte a situazioni di dilemma etico (solidarietà e giustizia spesso
sono in conflitto).
In conclusione possiamo formulare le seguenti ipotesi per lo studio del mutamento dei
valori nella società contemporanea:
Per alcuni, le norma altro non sarebbe che specificazioni dei valori, prescrizioni per
orientare le condotte alla luce dei valori. Una norma ci direbbe concretamente che
cosa dobbiamo, o non dobbiamo, fare per realizzare un determinato valore, altro
quindi non sarebbe che un valore ad un livello di astrazione inferiore.
Le norme sono quasi sempre interpretabili come mezzi che prescrivono o vietano dei
comportamenti in vista di qualche fine/valore e poiché, come abbiamo accennato, il
rapporto mezzi – fini può essere visto come una catena in cui ogni anello è nello stesso
tempo mezzo rispetto a un fine superiore e fine rispetto a un mezzo inferiore, norme e
valori (fini) sembrano appartenere alla stessa categoria.
Nella vita quotidiana abbiamo continuamente occasione di interagire con altri il cui
comportamento ci risulta largamente prevedibile. Le aspettative che nutriamo nei
confronti degli altri, e che nutrono gli altri nei nostri confronti, sono all’origine di
questa prevedibilità. I comportamenti sono prevedibili perché seguono delle regolarità.
Molte regolarità sono riconducibili ad abitudini quasi meccaniche: si è sempre fatto
così. In altri casi la regolarità dipende dal conformismo: la maggioranza si comporta
così. In altri casi ancora, mettiamo in atto un certo comportamento perché quello è un
modo tecnicamente adeguato per raggiungere un determinato scopo. Qui ci
interessano quelle regolarità di comportamento che dipendono dal fatto che seguiamo
una norma o una regola sociale.
A differenza delle abitudini, del conformismo o delle norme tecniche, le norme sociali
sono tali in quanto i comportamenti che da esse si scostano incontrano
invariabilmente qualche forma di sanzione. Le sanzioni peraltro possono assumere le
forme più diverse che vanno dalla blanda disapprovazione sociale, alla pena capitale
che in certi ordinamenti colpisce chi ha commesso un grave delitto. Le sanzioni
peraltro possono essere sia positive, sia negative, cioè comportare una pena in caso di
deviazione e/o un premio in caso di conformità. Intenderemo solo sanzioni negative,
che comportano una privazione, un sacrificio per colui che da esse viene colpito.
Non tutte le culture e non tutti gli individui interiorizzano le stesse norme allo stesso
modo. Certe norme vengono in generale interiorizzate in modo molto più debole di
altre; in alcuni paesi, ad esempio nel nostro, l’evasione fiscale non suscita in molte
persone alcun senso di colpa, mentre quasi tutti si sentono in colpa se non soccorrono
un amico in difficoltà. In generale, si può dire che più basso è il grado di
interiorizzazione di una norma, e quindi il livello delle sanzioni interne, e più
affidamento si deve fare sulle sanzioni esterne per fare in modo che la norma venga
rispettata.
Le sanzioni, esterne o interne, sono il cartellino del prezzo che dobbiamo pagare per
ogni trasgressione (Elster). Tuttavia, non sembra che il rispetto delle norme sia
spiegabile soltanto in base a un calcolo unilaterali stico; non è solo il timore di subire
sanzioni, e quindi di dover sopportare dei costi, che induce gli individui ad agire in
modo conforme alle regole.
Accade che gli esseri umani trasgrediscano a norme e regole, anche se le hanno ben
interiorizzate. Quando qualcuno sa bene che cosa non deve fare, ma lo fa ugualmente,
si parla di “debolezza della volontà”.
Il controllo sociale resta il meccanismo più efficace non solo per fare rispettare le
norme, ma anche per aiutare gli individui a difendersi dalle proprie tendenze
trasgressive.
Tipi di norme
Un’ulteriore distinzione che è importante fare è quella tra norme implicite e norme
esplicite. Molto spesso nei comportamenti quotidiani si seguono regole o norme
senza neppure esserne consapevoli, semplicemente perché si danno per scontate. In
realtà, noi ci accorgiamo che certe regole esistono solo quando vengono trasgredite.
Gli esseri umani sviluppano precocemente una notevole sensibilità che suggerisce loro
come devono comportarsi (che regole seguire) in una data situazione; senza dover
riflettere più di tanto si adeguano alle norme implicite della situazione stessa e si
aspettano che gli altri facciano altrettanto. Le buone maniere, le norme del “galateo”
o i canoni del “buon gusto” sono normalmente seguiti dalla maggior parte delle
persone senza bisogno che vengano esplicitati. Norbert Elias ha illustrato come i
canoni delle “buone maniere” si siano sviluppati negli elaborati cerimoniali delle corti
aristocratiche in epoca premoderna e come, nonostante si siano in seguito modificati,
siano rimasti a fondamento del vivere civile fino a oggi.
Infine, un altro criterio per classificare le norme sociali riguarda l’ambito entro il quale
sono in vigore. A parte le leggi che vigono nell’ambito territoriale sul quale esercita la
sua sovranità l’autorità che le ha emesse, molte norme valgono soltanto per gli
appartenenti a determinati gruppi sociali e regolano i rapporti sia all’interno del
gruppo, sia con soggetti esterni. Un esempio di tali sistemi normativi sono i codici
deontologici degli ordini professionali (medici, notai, avvocati) che stabiliscono i
principi e le modalità ai quali si devono attenere gli appartenenti nell’esercizio delle
loro attività professionali, sulla base di specifiche etiche professionali. In questi ambiti,
i gruppi professionali godono di una notevole autonomia normativa che consente
l’esistenza di veri e propri sistemi giuridici specializzati, dotati di organi che hanno un
potere sanzionatorio nei confronti dei membri (possono radiare il colpevole dall’albo
professionale). Anche le organizzazioni criminali possono sviluppare una loro etica e un
loro codice normativo, in opposizione a quello della società in cui si formano.
In alcune società (Corsica, Sardegna, Albania, Montenegro) vigono ancora oggi residui
di codici d’onore delle antiche società agro – pastorali che impongono obbligo di
vendetta per i torti subiti e chi si sottrae a quest’obbligo diviene oggetto di pubblica
esecrazione e disprezzo.
Forse non è mai esistita una società dotata di un unico sistema normativo interamente
coerente, ma certo questo non è il caso delle moderne società complesse dove
molteplici sono le istanze capaci di stabilire e applicare le norme. Lo stesso sistema
giuridico di ogni stato moderno è pieno di contraddizioni e incoerenze proprio per il
fatto che si è formato attraverso la stratificazione nel tempo di leggi diverse,
rispondenti alle mutevoli esigenze della società, delle sue classi dirigenti, dei gruppi
sociali in competizione per far valere i propri interessi.
Anche se in genere gli individui nella maggior parte delle situazioni sanno che cosa è
vietato e che cosa è permesso fare, non è infrequente che si verifichino situazioni
nelle quali: a) vi è un eccesso di norme; b) vi sono norme contraddittorie per cui la
stessa azione è prescritta da una e vietata dall’altra; c) vi è una carenza di norme e
quindi l’azione non trova punti di riferimento normativi. Nel primo caso, tipicamente
esemplificato dal cittadino di fronte al modulo della dichiarazione dei redditi, solo il
ricorso agli esperti consente al “laico” di districarsi nei meandri della legislazione. Nel
secondo caso, si presenta una situazione simile a quella che abbiamo prima indicato
come dilemma etico. Merton parla in proposito della contemporanea presenza di
norme e contro – norme. Di fronte a imperativi contradditori, l’individuo dovrà stabilire
una gerarchia per individuare quale norma, nel caso concreto, ha il sopravvento sulle
altre. Infine, il caso di assenza di norme che priva gli individui di punti di riferimento
normativi si avvicina alla situazione che Durkheim ha descritto col concetto di
anomia. Per Durkheim l’anomia è caratteristica di una condizione oggettiva della
società in situazioni di crisi e di mutamenti rapidi e convulsi dove gli ordinamenti
normativi non sono più in grado di incanalare i comportamenti individuali. In questi
momenti, l’ordine morale che regge l’impianto normativo si infrange, si scatenano
comportamenti sregolati e la società stessa rischia la disgregazione.
Il concetto di istituzione
Il processo di istituzionalizzazione
Nel definire che cosa sono le istituzioni abbiamo indicato che si tratta di modelli di
comportamento dotati di cogenza normativa, sistemi di regole. Questo carattere si
presenta in modi e misura variabili. Quando nasce, un’istituzione non presenta ancora
i tratti che fanno di essa un’istituzione compiuta e molti comportamenti restano a uno
stadio poco elevato di istituzionalizzazione. Le istituzioni si possono ordinare lungo
un continuum a seconda del grado di istituzionalizzazione raggiunto e possono
muoversi lungo questo continuum.
I tipi di istituzioni
Dalle prime lettere dei termini inglesi che designano questo quattro requisiti, il
modello ha preso il nome di Agil (adaptation, goal attainmenti, integration, latency).
Al primo requisito corrisponde la funzione economica (assicurare la produzione, la
circolazione e la distribuzione di beni e servizi), al secondo la funzione politica
(regolare i conflitti d’interesse), al terzo la funzione normativa (definizione dei diritti e
doveri dei singoli e delle parti), al quarti la funzione di riproduzione biologica e
culturale (mantenimento dell’identità). Alle varie funzioni corrispondono istituzioni
diverse, anche se molte istituzioni svolgono una pluralità di funzioni, la stessa funzione
può essere svolta da una pluralità di istituzioni (alternative funzionali) e le funzioni di
un istituzione possono modificarsi nel tempo a vantaggio o svantaggio di altre
istituzioni.
Delle istituzioni, così come degli individui, è possibile scrivere la biografia nell’arco di
un ideale ciclo di vita che va dalla nascita, allo sviluppo, alla maturità e, infine, alla
morte.
Per entrambe, la dinamica delle istituzioni risulta essere il risultato dell’agire degli
uomini, ma mentre nel primo caso il risultato è l’effetto non intenzionale dell’agire (si
parla in proposito di effetto di composizione o di effetto emergente), nel secondo
caso le istituzioni risultano una vera e propria creazione di individui o gruppi concreti.
Nel primo caso le istituzioni appaiono come formazioni “organiche”, nate e cresciute
spontaneamente e delle quali è quindi possibile scrivere la storia “naturale”, nel
secondo caso la storia delle istituzioni rimanda all’azione di fondatori, di sostenitori e,
eventualmente, di distruttori delle azioni stesse.
La stessa istituzione può essere vista, in circostanze diverse, come effetto di processi
spontanei o di azioni intenzionali. Il mercato in Occidente si è formato gradualmente
nel corso dei secoli per effetto dell’azione di molteplici attori e circostanze. Diversa è
l’istituzione mercato nei paesi ex comunisti, dove il mercato si è formato per l ‘effetto
di un’azione intenzionale di un èlite politica orientata a demolire le vecchie istituzioni.
Lo stesso discorso fatto per le origini vale anche per gli altri eventi che segnano la vita
delle istituzioni e anche per la loro morte. Le istituzioni possono scomparire perché si
estinguono “da sole”, oppure perché vengono distrutte da qualche attore, individuale
o collettivo. Se si adotta una prospettiva funzionalista, si può dire che le istituzioni
nascono perché rispondono a qualche bisogno o esigenza sociale insoddisfatta e si
estinguono quando scompare il bisogno che le ha originate, o vi sono altre istituzioni in
grado di soddisfare lo stesso bisogno in modo più adeguato. Spiegazioni di questo tipo
della dinamica delle istituzioni sono palesemente tautologiche in quanto tendono a
spiegare le cause di un fenomeno alla luce degli effetti che esso produce e, tuttavia,
sono utili poiché invitano ad analizzare le istituzioni non isolatamente, ma sempre in
riferimento al contesto, nell’ambiente in cui operano.
La considerazione dei rapporti tra istituzioni e ambiente suggerisce di adottare nel loro
studio una prospettiva sistematica; ogni istituzione viene vista come un sistema di
regole in rapporto con altre istituzioni e quindi con altri sistemi di regole, ognuno dei
quali mantiene rispetto agli altri un determinato grado di apertura – chiusura. Quando
un cambiamento avviene in qualche ambito, questo si ripercuote sulle altre istituzioni
collegate, trasforma cioè il loro ambiente, e queste a loro volta si modificano per
reazione al mutamento ambientale e così via in un gioco continuo di azioni e retro –
azioni (feed – back). Il tipo e l’intensità della risposta alle “sfide” dell’ambiente
dipendono dalla capacità dell’istituzione, o, meglio, della o delle organizzazioni che ne
sono l’espressione, di percepire e di valutare i mutamenti esterni, di mobilitare le
proprie risorse e di organizzare la propria reazione.
Il mutamento delle istituzioni non dipende solo dalla loro capacità di rispondere
efficacemente alle sfide che provengono dall’ambiente esterno, ma anche dal modo di
affrontare le tensioni e i conflitti che si sviluppano al loro interno. I fattori di
mutamento possono essere sia esogeni sia endogeni.
Non si può dire a priori quale tipo di risposta alle sfida, esterne o interne, rafforzi o
indebolisca un’istituzione, aumenti o diminuisca le sue chances di sopravvivenza,
poiché ciò dipende dal tipo di sfida e dalle circostanze nelle quali si verifica. Due
possono essere i tipi di risposta strategica alle sfide ambientali: da un lato, un tipo di
risposta “rigida”, tende a conservare l’identità e l’integrità dell’istituzione di fronte alla
turbolenza interna o esterna, dall’altro lato, un tipo di risposta “flessibile” in grado di
modificare la propria struttura interna, di ridefinire i confini con l’ambiente e quindi
l’identità stessa dell’istituzione (la chiesa, ad esempio, ha dato risposte rigide nei
confronti di certi movimenti eretici collocandoli al di fuori di essa, ma in altri casi, ha
dato una risposta flessibile favorendo un processo di inclusione dei movimenti eretici
nell’istituzione stessa).
In genere si può dire che l’incapacità di dare risposte flessibili ai mutamenti interni o
esterni riduce, almeno nel lungo periodo, le chances di adattamento e quindi di
sopravvivenza di un’istituzione.
Identità e socializzazione
Socializzazione e riproduzione sociale
Attualmente nascono ogni anno in Italia poco più di mezzo milione tra bambini e
bambine. Su una popolazione di ca. 58 milioni, vuol dire che ogni anno la società
italiana rinnova circa 1/100 dei propri membri. Soltanto all’inizio del Novecento la
speranza di vita della popolazione italiana alla nascita era di poco superiore ai 40 anni,
mentre oggi è di circa 77 anni per gli uomini e di 83 per le donne. La società rinnovava
quindi i propri membri assai più rapidamente di quanto non avvenga ora. Ogni società
ha una vita che è assai più lunga della vita media degli individui che la compongono:
esisteva già quando i suoi attuali membri non erano ancora nati e probabilmente
esisterà quando i suoi attuali membri saranno già tutti morti. Ogni società deve quindi
assicurare la propria continuità nel tempo di fronte al flusso incessante di membri in
entrata e in uscita; è necessario cioè che essa disponga di pratica e istituzioni per
trasmettere ai nuovi venuti una parte almeno del patrimonio culturale che ha
accumulato nel corso delle generazioni: la socializzazione indica appunto il processo
mediante il quali i nuovi nati diventano membri di una società.
Del patrimonio culturale fanno parte tutti quei valori, norme, atteggiamenti,
conoscenze, capacità, linguaggi che consentono alla società, di esistere, di adattarsi al
suo ambiente esterno e di modificare a sua volta se stessa e il suo ambiente. La
società è essa stessa un’entità assai differenziata e lo è tanto di più quanto più è
moderna; per rendere gli individui capaci di operare in una società differenziata, il
patrimonio di cultura di cui tale società dispone non può essere trasmesso in blocco a
tutti coloro che di volta in volta rappresentano le nuove leve. In società altamente
differenziata e complesse una parte del patrimonio culturale, quella parte che va a
formare le competenze sociali di base, deve essere trasmessa a tutti i membri di una
società, mentre una seconda parte, che comprende le competenze sociali specifiche,
va distribuita in moto differenziato a seconda del grado e del tipo di divisione sociale
del lavoro.
Le competenze sociali di base sono largamente indipendenti dalla posizione che gli
individui occupano nella società; si tratta, in primo luogo, di acquisire un livello minimo
di competenza comunicativa, cioè la capacitò di usare il linguaggio per scambiare
informazioni con gli altri membri e, inoltre, la capacità di entrare in rapporto con gli
altri, scambiando affettività, ecc … . Le competenze sociali specifiche sono quelle che
consentono agli individui di svolgere ruoli particolari e comportano la capacità di usare
linguaggi e di disporre di conoscenze condivise soltanto da coloro che sono coinvolti
nell’esercizio di tali ruoli.
L’insieme dei processi che sono volti ad assicurare la formazione delle competenze
sociali di base è chiamata socializzazione primaria, mentre si indica col termine di
socializzazione secondaria l’insieme dei processi di formazione delle competenze
specifiche richieste dall’esercizio dei vari ruoli sociali. Le socializzazione primaria copre
i primi anni di vita del bambino, in genere grosso modo fino al raggiungimento dell’età
scolare, mentre la socializzazione secondaria si colloca nella fase successiva e
prosegue per tutto l’arco della vita; questa distinzione avviene in modo graduale.
Bisogna tener presente che ogni società è sempre in continuo mutamento, sia per
rispondere ai cambiamenti che avvengono al suo esterno per l’influenza delle società
vicine, sia per effetto della dinamica interna alla sua struttura. Ogni società deve
affrontare continuamente problemi nuovi rispetto ai quali il suo patrimonio culturale si
dimostra in parte adeguato. Una parte del patrimonio culturale deve venire
accantonata senza essere trasmessa alle nuove generazioni, mentre queste devono
mostrarsi pronte a recepire le innovazioni che consentono di affrontare i nuovi
problemi.
Le agenzie alle quali sono affidati i compiti della socializzazione operano in un campo
inevitabilmente attraversato da esigenze contrastanti di conservazione e innovazione:
da un lato vi sono coloro che spingono a socializzare le nuove generazioni nella
tradizione, anche se questa mostra palesemente la propria inadeguatezza di fronte
alle situazioni emergenti, dall’altro lato vi sono coloro che inducono a scartare come
sorpassati molti contenuti culturali ai quali si erano alimentate le generazioni
precedenti. Anche nelle società sottoposte a intensi e rapidi processi di mutamento le
esigenze della tradizione tendono a prevalere per il fatto che il “nuovo” da introdurre e
il “vecchio” da eliminare costituiscono nel complesso una parte limitata del patrimonio
culturale da trasmettere alle nuove generazioni. Questo patrimonio è il risultato di un
processo di accumulazione iniziato molte decine di migliaia di anni fa, praticamente
con la comparsa dell’uomo sulla terra. Tra il processo di evoluzione della specie
(filogenesi) e il processo di sviluppo dell’individuo (ontogenesi) esiste una sorta di
parallelismo, nel senso che siamo in grado apprendere con relativa facilità ciò che la
specie ha acquisito nel corso di molte generazioni.
In che misura il patrimonio accumulato dall’umanità nel corso della sua lenta e lunga
evoluzione viene trasmesso alle nuove generazioni sotto forma di informazioni
genetiche e in che misura, invece, deve essere appreso nel corso del processo di
socializzazione? Certo è che i caratteri genetici di una popolazione sono modificabili
solo in tempi molto lunghi e che variano a seconda dei tratti considerati e della storia
dei contatti tra popolazioni diverse. Inoltre, ogni individuo dispone di una dotazione
genetica del tutto unica e particolare derivante dalla combinazione irripetibile delle
varia migliaia di geni presenti nei cromosomi umani. La domanda richiama
controversie nel campo dello studio dei fenomeni umani e ricompare costantemente
sotto forma di contrapposizione tra natura e cultura. Per quanto ne sappiamo, sia le
concezioni che vedono lo sviluppo umano preminentemente determinato da fattori
genetici, sia le concezioni opposte che attribuiscono un peso assolutamente
determinante all’esperienza sociale sono entrambe da respingere nella loro
unilateralità. Un approccio che cerchi di individuare le influenze reciproche nello
sviluppo umano tra fattori biologici e sociali sembra essere assai più promettente.
Per affrontare questo problema è utile considerare gli studi sul comportamento degli
animali di cui si occupa l’etologia. Quando, ad esempio, osserviamo una gatta che
partorisce, il suo comportamento sembra chiaramente dettato dal suo istinto, cioè da
informazioni che sono state trasmesse per via genetica e che appartengono al
patrimonio genetico di quella specie particolare. Gli animali si comportano tuttavia
come se fossero a conoscenza di tutto questo e di fatto lo sono perché si tratta di
informazioni che hanno ricevuto per via genetica. Anche gli animali sono capaci di
apprendere, cioè di incamerare attraverso l’esperienza certe informazioni e di
utilizzarle per orientare il loro comportamento. Ciò sembra che valga anche per le
generazioni successiva che non hanno direttamente assistito agli effetti
dell’esperienza dei loro consimili: si può presumente che essi abbiano sviluppato delle
forme di linguaggio che rendono possibili processi di apprendimento.
Molto spesso è difficile distinguere ciò che è imputabile all’istinto e ciò che invece
dipende dall’apprendimento; si può tuttavia affermare che gli esseri umani hanno
maggiori capacità di apprendimento degli esseri umani che si accompagna a una
dotazione istintuale meno specifica. I neonati sono capaci di succhiare, piangere e
dormire; la loro dotazione istintuale elementare si limita a queste capacità che sono
certo di decisiva importanza per la sopravvivenza, ma non consento loro, di
sopravvivere autonomamente se qualcuno non si prende cura di loro per un periodo
relativamente lungo della loro esistenza postnatale.
Alcune delle capacità fondamentali che distinguono l’uomo dalle altre specie animali
sono depositate certamente nel suo patrimonio genetico (posizione eretta, pollice
opponibile). Queste capacità che sono contenute potenzialmente nel feto che cresce
nel grembo materno e che si sviluppano gradualmente nel corso del processo di
crescita dell’organismo, non sono però un dato biologico, ma semplici potenzialità che
hanno bisogno di essere attivate da un processo di socializzazione. Questo processo
interviene a plasmare e modificare, favorire e ostacolare, il processo di crescita. Varie
ricerche sullo sviluppo infantile hanno dimostrato che quando intervengono fattori
ambientali esterni sfavorevoli certe capacità umane non si sviluppano, oppure si
sviluppano solo in ritardo e in modo parziale o distorto. Si può affermare che la
dotazione genetica originaria condiziona, ma non determina, lo sviluppo delle capacità
individuali. Altrettanto importanti per determinare il corso effettivo saranno le pratiche
di allevamento e di educazione e l’insieme delle esperienze che accompagnano
l’infanzia, l’adolescenza e l’intero ciclo della vita dell’individuo. In ogni fase di questo
percorso la società interviene per determinare l’esito e la successione di tali interventi,
intenzionali e non intenzionali, voluti o subiti dal soggetto, definisce il corso del
processo di socializzazione.
Alla nascita il bambino è un essere dotato di grande plasticità, ha di fronte una gamma
molto vasta di possibilità di sviluppo, una molteplicità di biografie possibili delle quali
solo una si realizzerà, come risultato delle esperienze che segneranno il suo percorso.
Per quanto ogni percorso sia assolutamente individuale, è possibile fissare alcune fasi
tipiche attraverso le quali passano tutti gli individui. Le modalità e gli esiti di una fase
condizionano, anche se non determinano, le modalità e gli esiti delle fasi successive
nel senso che ogni fase del processo di socializzazione pone le basi per le fasi che
seguono.
Fin da queste primissime fasi risultano evidenti i meccanismi attraverso i quali opera il
processo di socializzazione. Da un lato si sviluppa un rapporto carico di affettività tra
la madre, dispensatrice di soddisfazioni, e il bambini che manifesta attaccamento nei
suoi confronti, dall’altro lato la madre, nel soddisfare i bisogni del bambino, incomincia
a stabilire delle regole, sulla base delle quali si formano delle aspettative reciproche di
comportamento. Consideriamo gli aspetti salienti di questo processo: la natura
dell’attaccamento affettivo, la reciprocità del rapporto adulto – bambino, la
determinazione di modelli o regole di comportamento.
L’importanza dell’attaccamento a una figura adulta che fornisca una base sicura dalla
quale partire per l’esplorazione del mondo è stata particolarmente studiata da un
gruppo di studiosi che hanno combinato l’approccio psicoanalitico con l’approccio
etologico (studia i comportamenti materni nei primati). Essi hanno notato che il fatto
di poter contare su un legame affettivo stabile e duraturo fondato su un rapporto fisico
frequente consente al bambino di sviluppar fiducia nell’ambiente e in se stesso e che
la presenza di una base sicura alla quale poter ritornare favorisce la capacità di
esplorazione autonoma e quindi accresce le occasioni apprendimento; l’assenza di tale
legame oppure la rottura dovuta alla scompare della figura adulta, hanno l’effetto di
arrestare o rallentare lo sviluppo delle capacità comunicative e motorie e l’intero
sviluppo affettivo e mentale del bambino. Queste ricerche hanno sensibilizzato gli
studiosi dello sviluppo infantile a prestare molta attenzione alle forme di
comunicazione non verbale e al carattere di reciprocità dell’attaccamento e
dell’interazione che svolge tra adulto e bambino.
Come abbiamo visto, nell’interazione tra adulto e bambino si vengono a stabilire delle
regole. L’applicazione di regole di questo tipo comporta sempre in qualche modo un
premio per il comportamento ad esse conforme e una punizione per il
comportamento che da esse si discosta. Sia il modello di apprendimento fondato sul
meccanismo stimolo/risposta, sia il modello di imposizione di una regola fondato sul
meccanismo premio/punizione possono essere riformulati nei termini di un modello di
interazione che fa salvo il carattere di reciprocità del rapporto adulto – bambino.
L’analisi del rapporto adulto – bambino come interazione consente di liberarsi dallo
schematismo del modello di base al quale il premio stimola un comportamento
desiderato (effetto di rinforzo), mentre la punizione scoraggia un comportamento
indesiderato; tuttavia questo schema può apparire inadeguato se applicato ai
complessi processi di apprendimento che sono alla base della socializzazione nella
specie umana. Non sempre ricompense e punizioni hanno l’effetto di rafforzare il
comportamento desiderato in quanto la loro efficacia dipende da una serie di fattori
che riguardano il contesto dell’interazione. Un primo fattore è la coerenza con la quale
tali sanzioni vengono applicate; talvolta accade che nella pratica educativa lo stesso
comportamento venga a volte premiato e a volte punito. Un secondo fattore è
l’immediatezza con cui il premio o la punizione seguono l’azione da rafforzare oppure
da scoraggiare; una risposta tardiva indebolisce l’effetto della sanzione. Ma,
soprattutto, in particolare nel caso delle punizioni, l’effetto può essere diverso e
addirittura opposto a quello che l’educatore intende realizzare. La punizione può
essere a tal punto temuta da produrre effetti non voluti (mentire). Inoltre, la volontà di
evitare la punizione può essere neutralizzata dal desiderio di penalizzare il genitore,
inconsapevole allo stesso bambino che lo manifesta. La somministrazione di premi e
punizioni non deve quindi essere vista come un meccanismo esterno di
condizionamento del comportamento, ma come un elemento che gioca e assume
significato all’interno di un rapporto comunicativo reciproco che è carico di valenze
affettive.
In una fase successiva il bambino incomincerà a distinguere tra la madre e gli altri
adulti e quindi ad isolare le caratteristiche delle singole persone che si occupano di lui.
In uno stadio ulteriore ha inizio la tipizzazione sessuale delle persone. Questa
identificazione viene indotta e suggerita dal trattamento differenziale che viene
riservato ai bambini e alle bambine fin dai primissimi mesi di vita. In ogni società, vi
sono modelli di comportamento ritenuti più appropriati a seconda che si tratti di
maschi o di femmine; la socializzazione differenziale contribuisce all’acquisizione
dell’identità di genere. L’eventuale presenza, di fratelli e/o sorelle consente la
sperimentazione di ruoli familiari di tipo orizzontale, cioè all’interno della stessa
generazione, e rende più differenziato il sistema di ruoli familiari nell’ambito del quale
ogni singolo soggetto definisce la propria identità.
La socializzazione secondaria
Ogni individuo ricopre nella società una pluralità di ruoli i quali si collocano in sfere di
vita separate tra loro. Vi è la sfera dei ruoli familiari, dove nello stesso tempo un
individuo ricopre più ruoli (marito, figlio, fratello). Vi è la sfera dei ruoli lavorativi che si
differenziano a seconda del ramo di attività (agricoltura, industriale), del tipo di
mestiere e mansione (tornitore, avvocato), del tipo di organizzazione gerarchica
nell’organizzazione del lavoro (dirigente, impiegato, operaio) e in base a molte altre
caratteristiche. Vi è la sfera dei ruoli relativi alle attività amicali e del tempo libero
(sport, giochi). Vi è poi la sfera dei ruoli che riguardano la partecipazione sociale e
politica (membro dell’assemblea dei genitori della scuola dei figli, tesoriere della
sezione locale del suo partito). L’insieme dei ruoli svolti da un individuo si designa in
genere con il termine inglese role set.
Inoltre, e questo aspetto è assai importante per i processi di socializzazione
secondaria, la composizione dell’insieme dei ruoli svolti da un individuo muta
continuamente nel tempo lungo l’arco della vita. In ogni sfera di vita ciascun individuo
compie un proprio percorso che in parte può essere tipico di molti altri individui, in
parte tutto personale. Nella sfera dei ruoli familiari, si possono identificare una serie di
tappe attraverso le quali passano la maggior parte degli esseri umani: nascerà un
fratello, ad un certo punto si deciderà di lasciare la casa dei genitori per iniziare una
nuova vita da soli o con qualcun altro e possono nascere dei figli. Vari altri eventi
potranno segnare il percorso ed ogni tappa segnerà un cambiamento nei ruoli familiari
del soggetto.
Nella sfera educativa, in quella lavorativa e in ogni altro campo dove l’individuo svolge
dei ruoli si verificheranno varie serie di cambiamenti. La biografia di ogni individuo può
essere vista in questo senso come un intreccio di percorsi ognuno dei quali è segnato
da una serie di svolte, ora brusche e drammatiche, ora graduali e quasi impercettibili,
alcune perseguite consapevolmente e frutto dell’azione intenzionale del soggetto,
altre, invece, subite e provocate da modificazioni dell’ambiente esterno che il soggetto
non può controllare. Ognuna interferisce, condizione ed è condizionata dalle svolta che
costellano gli altri percorsi.
Questo esempio ci mostra come la socializzazione sia un processo continuo che svolge
lungo tutto l’arco della vita. Di questa continuità bisogna sottolineare due aspetti. Il
primo si riferisce alla natura più o meno cumulativa dei processi di apprendimento che
accompagnano la socializzazione. Quando l’apprendimento di cose nuove entra in
conflitto e risulta incompatibile con una parte di quanto è già stato appreso, questa
parte deve in qualche modo essere accantonata per far posto e rendere possibile
l’acquisizione del nuovo. Vi è accumulazione quando i processi di apprendimento
superano di gran lunga per entità e importanza i processi di disapprendi mento. Oltre
un cera età, invece, anche in relazione al deterioramento delle funzioni cerebrali,
diminuisce o si arresta del tutto la capacità di apprendere cose nuove e quanto è stato
appreso in precedenza viene selettivamente eliminato man mano che non risulta più
utilizzabile nella prassi quotidiana. Non bisogna quindi confondere tra processi di
socializzazione e processi di apprendimento anche se esiste un nesso tra i due.
Il secondo aspetto della continuità del processo di socializzazione consiste nel fatto
che passando dalla socializzazione primaria a quella secondaria il soggetto acquisisce
un controllo sempre maggiore sul processo stesso: egli diventa un agente della sua
stessa socializzazione, capace di compiere delle scelte che indirizzano il processo e
condizionano l’azione degli agenti di socializzazione.
Sulla base delle proprie prestazioni, lo scolaro viene indotto a confrontarsi, in modo
esplicito o implicito, con i propri compagni e a sperimentare quindi una situazione
oggettivamente competitiva, oppure viene stimolato a cooperare con essi al fine della
realizzazione di un obbiettivo comune. La socializzazione scolastica trasmette una
serie di modelli di comportamento che si rifanno ai principi di autorità, di prestazione,
di competizione e di cooperazione.
Non possiamo dare per scontata la presenza di un’interna coerenza tra le varie
agenzie di socializzazione. L’individuo è sottoposto ad una serie di pressioni incrociate
che ora si eludono ora si rafforzano reciprocamente. Non esiste un programma
prestabilito che modella i comportamenti umani in modo unitario e coerente al fine di
produrre la gamma di tipi sociali richiesta in una società data in un determinato
momento storico. Inoltre, anche volessimo ammettere l’esistenza di tale programma,
nulla ci garantisce un adeguamento docile del singolo individuo alle sue prescrizioni. Il
sistema sociale non è onnipotente di fronte agli individui, da un lato perché la sua
azione si svolge attraverso una pluralità di agenzie relativamente indipendenti le une
dalle altre, dall’altro lato perché la costruzione biopsichica degli individui offre
comunque resistenza all’influenza del sistema sociale.
Un individuo, cioè, al di là del primo stadio infantile, diventa un agente attivo della
propria socializzazione. La società gli offre una gamma di opportunità di
socializzazione e questo spazio di scelta non si riduce mai a zero; è l’individuo stesso a
dover gestire l’inevitabile conflitto che in una società altamente differenziata si
produce tra le varie agenzie di socializzazione, ma è proprio questa possibilità che
garantisce l’esistenza di uno spazio di libertà per l’individuo e definisce i confini della
sua facoltà di indirizzare il processo della propria socializzazione e di costruire la
propria identità.
Linguaggio e comunicazione
Il problema delle origini del linguaggio
Gli etologi hanno ormai accertato che anche molte specie animali comunicano con
sistemi di segni e quindi hanno un “loro” linguaggio, non sembra proprio che vi siano
in natura altri esseri viventi che usano un linguaggio simile al nostro per livello di
complessità e di elaborazione.
Non c’è da stupirsi se da tempi immemorabili gli uomini si siano interrogati sulle origini
del linguaggio, poiché porsi questa domanda equivale a interrogarsi sulle origine
stesse dell’uomo e quindi sulla creazione. La questione è profondamente legata alla
dimensione religiosa. Non a caso nella tradizione ebraico – cristiana, Dio è il “verbo” e
la parola è ciò che rende l’uomo simile a Dio.
La Bibbia ritorna in certi passi sui problemi della lingua: quando gli uomini vogliono
innalzare una torre che raggiunga il cielo, Dio interviene per punire la loro arroganza
confondendo i loro linguaggi in modo che da quel momento in poi non parleranno più
la stessa lingua. Da allora la torre di Babele è diventata la metafora
dell’incomunicabilità e dell’incomprensione tra gli uomini. Il racconto biblico è una
testimonianza di quanto antica sia la riflessione umana sul linguaggio, le sue forme e
le sue funzioni. Possiamo dire che la riflessione sul rapporto tra parole, concetti e cose
è il tema centrale della filosofia dalle origini ai giorni nostri.
Utile è fermarsi a considerare almeno due problemi che sono al centro del dibattito
filosofico e scientifico e che sono strettamente legati tra loro: il problema delle origini
delle lingue e della natura innata, o appresa del linguaggio. Gli studiosi si sono posti il
problema se le tante lingue che si parlano ora sulla terra (attualmente cinquemila) non
derivino tutte da una stessa lingua comune originaria. Le iporesi in gioco sono due e
opposte tra loro: l’ipotesi monogenetica e l’ipotesi poligenetica, cioè c’è chi
sostiene che le lingue attuali sono prodotte per differenziazione da un’unica lingua e
chi sostiene invece la pluralità dei ceppi linguistici originali. Un problema che è
connesso a quello che si sono posti gli studiosi dell’origine delle razze umane: alcuni
sostengono che l’uomo sia comparso in un solo punto (Africa) e di lì si sia diffuso e
differenziato, mentre altri propendono per l’ipotesi della comparsa indipendente in
aree diverse. Il problema non è facilmente risolvibile sul piano scientifico perché
abbiamo traccia delle lingue usate in passato solo a partire dagli ultimi 6.000 anni,
cioè da quando è stata introdotta la scrittura.
Non c’è dubbio che le lingue attualmente parlate siano il risultato di un processo di
differenziazione linguistica che è avvenuto nel corso degli ultimi millenni.
L’evoluzione delle lingue è molto rapida rispetto all’evoluzione genetica. La maggior
parte delle lingue dell’area europeo – caucasica e del sub – continente indiano
derivano da una lingua, l’indoeuropeo, che i linguisti sono stati in grado di ricostruire
partendo dalle lingue attuali, anche se non è più parlata da nessuna popolazione
vivente.
Questo passo è stato compiuto di recente da alcuni biologi evoluzionisti sulla base
di due considerazioni, una teorica e una empirica. La considerazione teorica riguarda il
problema dei vantaggi evolutivi, cioè quei tratti che pongono coloro che li
posseggono in una posizione di vantaggio, aumentando le probabilità che riescano a
sopravvivere e riprodursi. Seguendo lo schema proposto da Lieberman il ragionamento
può essere sintetizzato così: il linguaggio verbale è un invenzione del’homo sapiens,
gli ominidi che l’hanno preceduto comunicavano probabilmente con gesti e con
sistemi di segni non verbali, sia pure più evoluti di quelli delle specie animali. La
dimostrazione di questo sarebbe nel fatto che nessuno degli organi dell’apparato
fonatorio svolge come funzione primaria la riproduzione di suoni. La funzione fonatoria
si sarebbe sviluppata successivamente attraverso una serie di adattamenti anatomici
(mobilità della lingua) che hanno reso possibile la produzione di suoni sempre più
articolati. Lo stesso aumento della massa cerebrale sarebbe stata attivata
dall’acquisizione del linguaggio verbale e un cervello più sviluppato avrebbe poi
ulteriormente favorito l’espansione e il perfezionamento della capacità linguistiche.
Rispetto al linguaggio gestuale, il linguaggio verbale presenta il notevole vantaggio di
consentire la comunicazione senza interrompere le azioni compiute con altre parti del
corpo (braccia, mani). Infine, è certo che i vantaggi evolutivi della specie umana sono
stati accresciuti dalla scrittura che consente la conservazione e la trasmissione di
informazioni di generazione in generazione in grande quantità.
Per Giambattista Vico il linguaggio nasce insieme al pensiero, le prima parole usate
dagli uomini sono costruite imitando i suoni naturali e che nei bambini possiamo
rintracciare i modi esprimersi di un’umanità ricacciata a uno stadio primitivo dopo il
diluvio universale.
La prima parola, per Vico, risolveva quindi un problema cognitivo. Da allora, l’idea
dell’esistenza di uno stretto legame tra pensiero e linguaggio, di una sorta di circuito
per cui il pensiero contribuisce alla formazione del linguaggio e questo a sua volta
arricchisce gli strumenti del pensare, è stata al centro dell’attenzione di filosofi,
psicologi e sociologi. Non possiamo pensare senza linguaggio e quindi attraverso il
linguaggio possiamo accedere al funzionamento della mente.
Affinché abbia luogo un atto comunicativo devono essere presenti alcuni elementi: un
emittente, un ricevente, un canale, un codice e un messaggio. L’emittente deve
tradurre quello che vuole comunicare in una serie di segni o suoni seguendo le
prescrizioni del codice del canale utilizzato e confezionare così il messaggio; il recente,
a sua volta, deve utilizzare un codice analogo per decifrare il messaggio. Il codice
affinché ci siamo comunicazione deve essere condiviso da entrambi. Condiviso non
vuol dire assolutamente identico, nessuno parla esattamente la stessa lingua.
Il concetto di condivisione del codice indica due aspetti: primo, che il linguaggio è
una convenzione sociale, un patto implicito stabilito all’interno di una comunità;
secondo, che ha carattere normativo, cioè è formato da un insieme di regole che
definiscono quali sono i modi ammissibili di confezionare i messaggi affinché questi
possano essere recepiti con successo da ricevente. Non c’è linguaggio senza una
comunità di parlanti, che lo abbia adottato come strumento della comunicazione
interpersonale. Nessuno di noi si è accordato con i suoi vicini per stabilire il codice di
comunicazione. Ogni uomo nasce in un mondo già strutturato dalle istituzioni del
gruppo al quale appartengono i suoi genitori e il linguaggio è una di queste istituzioni.
L’organismo umano è biologicamente predisposto per produrre e ricevere messaggi
verbali. Questa predisposizione rappresenta una potenzialità che ha bisogno di essere
attivata medianti l’interazione sociale.
La lingua che apprendiamo “naturalmente” come lingua madre non è solo una delle
tante lingue che si parlano sulla terra, ma anche una delle tante varianti della lingua
che si parla nel nostro paese.
Ben diversa era la prospettiva dei linguisti della scuola romantica (Germania e centro –
Europa metà Ottocento). Essi vedevano nella lingua l’espressione più genuina dello
“spirito” di un popolo, il fondamento della sua identità collettiva e quindi erano portati
a mettere in evidenza ciò che differenzia una lingua dalle altre piuttosto che ciò che le
rende simili. La semantica prende il sopravvento sulla sintassi. Non è un caso che i
maggiori esponenti di questa scuola, i fratelli Grimm, si debba la pubblicazione dei
primi volumi di un monumentale dizionario della lingua tedesca.
Possiamo considerare questa come una prospettiva di tipo etnografico allo studio dei
fenomeni linguistici, poiché vede nella lingua la sedimentazione delle esperienze
storiche di un popolo, le tracce del suo rapporto con l’ambiente naturale e dei suoi
modi di affrontare i problemi quotidiani. La lingua viene colta come espressione della
cultura e delle sue infinite variazioni che fanno di una popolazione un’entità ben
definita.
Per Jacob Grimm la lingua è vista come un fattore di differenziazione culturale che
stabilisce dove sono i confini della nazione, intesa come la comunità dei parlanti la
stessa lingua e sul quale si fonda quindi il senso di appartenenza alla collettività del
“noi”, distinta da chi parla un altro idioma. Tuttavia la diffusione delle lingue è il
prodotto di fattori storici che hanno messo in contatto popolazioni parlanti lingue
diverse come conseguenza di movimenti migratori e di fenomeni di conquista e
sottomissione. Difficile è che due lingue possano convivere a lungo nello stesso
territorio quindi, si osserveranno fenomeni di contaminazione linguistica: nella
lingua che avrà il sopravvento resteranno tracce consistenti della lingua soppressa o
caduta in disuso. Ogni lingua è costantemente sottoposta a pressione, sia per effetto
dell’influenza esercitata dalle culture delle popolazioni con le quali una popolazione
entra in contatto, sia per effetto della costante necessità di modificarsi per poter
esprimere in modo adeguato le trasformazioni subite dalla comunità dei parlanti.
Questi fenomeni sono ben visibili nel caso delle trasformazioni subite dall’italiano in
epoca postunitaria. Non solo perché la lingua di oggi è piena di neologismi recenti e di
termini importati, soprattutto dall’inglese, ma perché molto delle forme lessicali e
grammaticali usate allora ci sembrano oggi irrimediabilmente arcaiche. Del resto,
all’epoca dell’unificazione politica del paese, erano pochi gli abitanti della penisola in
grado di parlare (leggere e scrivere) l’italiano. Si può dire che l’unificazione linguistica
del paese sia stata il prodotto prima della scuola di base obbligatoria e poi
dell’esposizione all’italiano standard dei mezzi di comunicazione di massa.
Molti di quelli che noi chiamiamo “dialetti” erano delle vere e proprie lingue, sostenute
anche da una produzione letteraria. A parte il caso della Toscana dove la distinzione
tra lingua e dialetto appare problematica, vi sono in Italia ben 11 regioni su 20 dove
meno di un terzo della popolazione parla solo ed esclusivamente italiano e ben 12
dove più del 10% parla solo ed esclusivamente il dialetto e in tutte le regioni (tranne
Toscana e Lazio) la metà o quasi della popolazione parla un misto di italiano e dialetto
per cui si può dire che gli italiani di oggi sono una popolazione bilingue.
Le lingue quindi sono fenomeni sociali dinamici che variano nello spazio e mutano nel
tempo. La variazioni non sono soltanto territoriali e diacroniche. Anche nello stesso
momento e nella stessa popolazione, le lingue variano a seconda della collocazione
dei parlanti nello spazio sociale.
Il nostro discorso è disseminato di innumerevoli spie che rivelano chi siamo o, meglio,
che cosa crediamo di essere e come vogliamo apparire agli altri. Tra le varie
informazioni che trasmettiamo al nostro interlocutore vi è anche la nostra collocazione
nello spazio socioculturale, vale a dire nella stratificazione sociale. Non che vi sia
sempre una corrispondenza perfetta tra classe di appartenenza e lingua utilizzata ma,
vi sono differenze significative nei modi di esprimersi degli appartenenti alle diverse
classi sociali. Non è solo la pronuncia ad imprimere alla lingua una marcatura di
classe. Il lessico usato è un indicatore altrettanto evidente. In generale, la ricchezza
lessicale aumenta molto nettamente salendo la scala sociale, come varia la frequenza
d’uso di forme grammaticali e sintattiche più elaborate (congiuntivo proposizioni
subordinate).
Le famiglie di classe media operano in un contesto più ampio, meno legato alle
esigenze “materiali” della vita, al lavoro manuale, alle relazioni di vicinato e quindi
sviluppano una maggiore familiarità con le agenzie preposte al controllo simbolico. La
scuola, opera come agente deputato alla trasmissione ed elaborazione di “codici
elaborati” e quindi di fatto favorisce i bambini per i quali vi è congruenza tra codice
comunicativo acquisito spontaneamente e codice comunicativo trasmesso
dall’istituzione scolastica, mentre tende a penalizzare coloro per i quali questa
congruenza non esiste.
Spesso è stato notato che coloro che appartengono allo strato medio – basso (piccola
borghesia, ceti impiegatizi) parlano un linguaggio formalmente molto rigoroso e
corretto, spesso infarcito di espressioni forbite e ricercate. Chiaro è che, in questi casi,
l’uso del linguaggio denuncia da un lato la volontà di differenziarsi dai ceti popolari,
dall’altro il desiderio di essere accettati dai ceti superiori ai quali si aspira ad
appartenere.
Una variante, soprattutto nei tempi passati, era quella tra linguaggio “urbano” e
linguaggio “contadino”. I contadini si sa, passavano lunghe ore nei campi, in condizioni
di quasi completo isolamento e non avevano quindi bisogno di sviluppare elaborati
codici comunicati; per questo il loro linguaggio è stato sempre bollato come rozzo e
primitivo.
Più importanti, nel mondo moderno, sono le varianti legate ai gruppi professionali.
Basta ascoltare per qualche minuti l’arringa di un avvocato in un’aula di tribunale per
rendersi conto che parla in un linguaggio specialistico, comprensibile soltanto dagli
addetti ai lavori e per lo più oscuro anche alle stesse parti in causa. Evidente è che i
linguaggi tecnici sono il prodotto della crescente specializzazione del sapere e delle
conoscenze. L’acquisizione di un sapere specialistico richiede un lungo periodo di
addestramento e che serve alla comunicazione all’interno della cerchia ristretta degli
“esperti”.
I linguaggi specialistici possono svolgere anche altre funzioni. Essi possono, costruire
un’efficace barriera d’accesso ai saperi che vengono veicolati per loro tramite. Il modo
migliore per monopolizzare qualche forma di sapere è di formularlo in un linguaggio
inaccessibile ai più, o meglio, accessibile soltanto a coloro che sono stati addestrati e
“ammessi” al suo uso da coloro che detengono il monopolio stesso. Questa è la
ragione per la quale i membri delle società segrete, comunicano tra loro in codice, o
usano comunque un linguaggio iniziatico, inaccessibile a tutti coloro nei confronti dei
quali il segreto deve essere mantenuto.
In genere, possiamo dire che ogni barriera sociale è anche un barriera linguistica.
Il linguaggio varia anche in relazione alla situazione sociale nella quale avviene la
comunicazione.
Una delle primi distinzioni da fare è quella tra linguaggio privato e linguaggio
pubblico. Quando parliamo tra amici o in famiglia non stiamo molto attenti alla
correttezza delle forme grammaticali e sintattiche. La conversazione interpersonale è
molto più calata nella dimensione del “qui ed ora”, fa molto più attenzione ai segnali
non verbali di approvazione o disapprovazione degli interlocutori; quello che conta è
farsi capire dalle persone con le quali si sta parlando. Il linguaggio pubblico, invece, è
molto formale/impersonale sia perché in genere è rivolto a un pubblico e non ad una
serie di persone ben individuate, sia perché, anche quando si genera nell’interazione
interpersonale, richiede un maggiore controllo formale. Nel linguaggio pubblico, infatti,
il grado di controllo sulla correttezza formale nella formulazione del messaggio è molto
più accentuato, sia per quanto riguarda le scelte lessicali, sia per quanto riguarda le
forme grammaticali e sintattiche.
Il silenzio può assumere vari significati a seconda della situazione. Nella conversazione
telefonica, ad esempio, vi è una regola tacita che impone ad entrambi gli interlocutori
di emettere con una certa frequenza almeno dei suoni, per segnalare la propria
presenza, altrimenti nasce il sospetto che l’altro interlocutore non sia per nulla
interessato a quello che gli stiamo dicendo, oppure sia caduta la linea.
Il linguaggio scritto usa un registro assai più rigido del parlato. Non bisogna
dimenticare che la scrittura era in passato spesso prerogativa del ceto sacerdotale e
quindi, mettere qualcosa per iscritto, voleva dire attribuirgli un significato rituale e
quasi sacrale. Ancora oggi la lingua araba scritta è sostanzialmente quella codificata
nel Corano.
Anche in questo caso, il tipo di linguaggio usato dipende molto dalle situazioni: un
conto è scrivere un diario intimo, un altro conto è scrivere un istanza al tribunale.
Comunque, la comunicazioni scritta riflette, assai più dell’orale, la distanza sociale tra
coloro che comunicano, la formulazione del messaggio e la sua ricezione sono quasi
sempre differiti nel tempo (salvo nelle chat line) e, inoltre, consente un livello molto
maggiore di intenzionalità, nel senso che quando scriviamo avviamo più tempo per
scegliere le parole e le espressioni adatte. Il detto latino scripta manent, verba volant
può certo valere per un contratto, una cambiale, comunque un’obbligazione formale.
Non è detto però, come ha rilevato Simmel, che nella comunicazione epistolare il
linguaggio usato sia più esplicito e meno ambiguo del linguaggio orale. Anzi, talvolta
può addirittura succedere il contrario; infatti, dietro la parola scritta è più facile
nascondersi, oppure presentarsi per quello che si vorrebbe essere e apparire, piuttosto
che per quello che si è. A parte la grafia, mancano nella comunicazione scritta tutti
quegli aspetti meta comunicativi tipici del linguaggio orale che sono solo parzialmente
intenzionali e che spesso rivelano all’interlocutore il significato della comunicazione
assai meglio del messaggio verbale esplicito.
Per cogliere come il linguaggio sia uno strumento estremamente flessibile, pur
all’interno di regole e di significati che devono essere condivisi affinché la
comunicazione risulti efficace, basta considerare attentamente come, soprattutto
nell’interazione faccia – a – faccia, siano molteplici i modi di esprimere uno stesso
contenuto.
Uno degli aspetti della comunicazione interpersonale che sono stati maggiormente
studiati riguarda il turno di parola, cioè l’avvicendamento dei partecipanti in una
conversazione. Accade frequentemente che, quando le regole del turno di parola
vengono sistematicamente violate, le voci si sovrappongano, ognuno alzi il tono di
voce per imporsi agli altri e nessuno sia più in grado di comunicare o ricevere
messaggi.
Le comunicazioni di massa
I sociologi hanno un pensiero critico nei confronti della cultura di massa e dei mezzi di
comunicazione che la veicolano. Questi sono visti essenzialmente come strumenti di
manipolazione in mano ad interessi economici e politici che se ne servono per fini di
profitto, creando “falsi bisogni”, o di controllo politico, creando consenso fondato sulla
passività. Gli esponenti di questa “scuola sono stati i fondatori di quella che è stata
chiamata “teoria critica della società”.
Evidente è che chi ha più potere ha anche maggiore accesso ai mezzi di informazione,
ma il potere non è la sola variabile che conta; anzi, certi poteri sono efficacemente
schermati e non amano comparire sui giornali. La popolarità e la visibilità pubblica
contano anche di più e trasformano i fatti, spesso banali, che accadono a certe
persone in notizie da prima pagina. La stessa visibilità è a sua volta amplificata dai
mezzi di comunicazione in un processo a spirale che si autoalimenta: chi ha più
visibilità, più ne avrà.
Una volta scelti i fatti da trasformare in notizia, inizia la fase vera e propria di
confezione del messaggio. Anche qui sono all’opera processi di selezione: ogni fatto ha
un’infinità di aspetti e di implicazione con altri fatti, i fatti devono essere ricostruiti
scegliendo quegli aspetti che sembrano più rilevanti. Di solito è buona norma del
giornalismo professionale separare i fatti dalle interpretazioni. Alla fine di questa fase il
messaggio è pronto per essere trasmesso. Supponiamo che non ci siano disturbi di
trasmissione e che il messaggio arrivi a destinazione sotto forma di giornale stampato
o telegiornale.
Qui inizia un’ulteriore serie di selezioni. In una società dove vi sia sufficiente libertà di
informazione vi è una pluralità di testate tra le quali scegliere, il destinatario può,
scegliere a quale mezzo esporsi e può anche cambiare mezzo se quello che ha
ricevuto non lo soddisfa. La selezione non si ferma qui.
L’attenzione durante la lettura o l’ascolto sono selettivi. Nessuno legge il giornale da
cima a fondo e non legge tutto con la stessa attenzione. Ma quello che viene letto
deve subire comunque un processo di decodifica: il lettore può adottare o meno i
criteri di interpretazione suggeriti implicitamente o esplicitamente nel messaggio,
oppure può adottarne di propri, sedimentati nella sua cultura personale, nelle sue
esperienze individuali. In effetti, tutti noi scartiamo fatti e interpretazioni di fatti, sia
perché non rientrano nella nostra sfera di interessi, sia perché non trovano posto nelle
nostre “mappe cognitive”. La stessa notizia arriva in realtà a pubblici diversi, sui quali
produce effetti diversi; la “massa” non è quindi una spugna che assorbe l’intero flusso
delle notizie che le vengono propinate, ma un tessuto con trame molto differenziate
che filtrano i messaggi in modi e misure diverse.
L’influenza dei media. La considerazione della presenza di questi filtri selettivi ci dice
che bisogna abbandonare l’idea che i messaggi dei media vengono ricevuti in modo
uniforme da ogni individuo e quindi producono, mediante un semplice meccanismo
stimolo/risposta, degli effetti uniformi sul suo comportamento. Un modo efficace per
individuare i percorsi di ricerca possibili è quello proposto da Lasswell secondo il quale
per descrivere e spiegare un atto comunicativo è necessario rispondere alle seguenti
domande: 1) chi?; 2) dice che cosa?; 3) attraverso quale canale?; 4) a chi?; 5) con
quale effetto?.
Il settore dove vi è una maggiore quantità di studi e ricerche è quello della pubblicità.
La pubblicità esercita un’influenza importante nelle decisioni di acquisto da parte dei
consumatori, altrimenti non si spiegherebbero l’entità degli investimenti pubblicitari
delle imprese che producono beni di largo consumo e neppure l’impiego di intelligenza
che viene profuso nella comunicazione pubblicitaria. Anche le decisioni di acquisto
sono però processi complessi e l’esposizione ai messaggi dei media è solo uno dei
tanti fattori che li condizionano.
Una altro campo sul quale si sono sviluppate accese discussioni riguarda il rapporto
media e violenza. Molti sostengono che, soprattutto nell’infanzia, l’esposizione
prolungata e ripetuta a scene di violenza può veicolare modelli culturali che inducono
all’uso della violenza reale. I meccanismi socio psicologici che legano la realtà
“rappresentata” ai comportamenti sono molto complessi e perlopiù oscuri. Certo è che
il fatto di vivere in mondo nel quale, accanto alla violenza reale, gli individui, e i
bambini in particolare, sono esposti a dosi massicce di violenza “rappresentata” non è
senza conseguenze.
In conclusione,non si può certo dire che i media non facciano altro che riflettere
l’esistente senza influenzarlo e modificarlo.
Un cenno meritano infine le nuove e interessanti prospettive che si sono aperte con la
diffusione di mezzi che consentono una maggiore interazione tra emittente e
ricevente, soprattutto dalle comunicazioni rese possibili dai computer. Questi rendono
possibili forme reali di decentramento delle attività produttive (telelavoro), forme
permanenti di consultazione dell’opinione pubblica (tele democrazia), ma soprattutto,
attraverso la telematica, permettono di abbracciare in una rete di comunicazioni
l’intero pianeta, offrendo a tutti gli utenti una pressoché infinita gamma di informazioni
e spettacoli di intrattenimento tra i quali l’utente è libero di scegliere a suo
piacimento. Attraverso il world wide web ogni utente dei servizi telematici ha già oggi
la possibilità di accedere in tempo reale a pressoché l’intero patrimonio storico,
artistico, letterario, scientifico accumulato in gigantesche banche dati. Potrà costruire
il proprio programma “individualizzato” scegliendo da un’offerta illimitata di
opportunità, ma potrà anche comunicare le sue preferenze e anche esprimere le sue
opinioni.
Tre sono le caratteristiche fondamentali dei nuovi media: in primo luogo la possibilità
per l’utente di selezionare le informazioni alle quali desidera accedere; in secondo
luogo la possibilità di inviare e riceve comunicazioni; in terzo luogo la possibilità di
combinare sia in entrata sia in uscita vari tipi di messaggi usando insieme le
potenzialità dei computer, della televisione, della telefonia cellulare. Selettività,
interattività e multimedialità definiscono i tratti dei nuovi mezzi di comunicazione. A
queste caratteristiche si può aggiungere quella della “virtualità”, la possibilità cioè di
creare dei mondi artificiali coi quali entrare in rapporto e interagire.
La velocità impressionante di diffusione dei nuovi media, il loro impatto sulla vita
quotidiana di milioni di persone, sia nella sfera lavorativa sia nel tempo libero, fanno
giustamente ritenere che stiamo assistendo ad una rivoluzione tecnologica e sociale.
Devianza e criminalità
A partire dalla metà del Cinquecento, in tutta Europa, migliaia di donne furono
arrestate e processate, con l’accusa di stregoneria, di magia, di superstizione. Le colpe
loro attribuite erano di provocare la malattia e la morte di molte persone, di impedire
alle mucche di fare il latte, di scatenare furibonde tempeste. Convinti che i supplizi
fossero il modo più sicuro per arrivare alla verità, i giudici sottoponevano le imputate a
torture così dure che riuscivano a far confessare loro tutto quello che volevano; di
esercitare in molti modi i loro poteri occulti contro gli altri. Pensando che le streghe
recassero sul corpo il marchio della loro attività, i giudici le facevano spogliare e le
sottoponevano a visite minuziose, alla ricerca del bollo demoniaco, di una macchia o
un’escrescenza. Quasi sempre, il tribunale emetteva una sentenza di condanna contro
le imputate, talvolta al carcere a vita, talvolta alla decapitazione o al rogo.
Dopo essersi moltiplicati nel Cinquecento e nella prima metà del Seicento, i processi
per queste forme di devianza divennero sempre più rari e alla fine cessarono del tutto.
Il concetto di devianza
Bene è tuttavia tenere presente che questa concezione relativistica non vale nella
stessa misura per tutte le forme di devianza. Infatti è vero che il modo in cui sono stati
recepiti e giudicati alcuni comportamenti, come ad esempio il consumo di
stupefacenti, il gioco d’azzardo o la prostituzione è variato enormemente nel tempo e
nello spazio. Ma è anche vero che vi sono atti che sono stati condannati in molto
società ed epoche: l’incesto che è universalmente proibito, il furto, il ratto, l’uccisione
di un membro di un gruppo. Vi sono popoli , come gli Eschimesi, nei quali l’infanticidio
e l’uccisione di un genitore anziano erano ammessi. Ma questo era giustificato da uno
dei più importanti postulati alla base della cultura eschimese (“la vita è difficile e il
margine di sopravvivenza esiguo”) e da un corollario di questo (“i membri improduttivi
della società non possono essere mantenuti”). Questi principi erano così condivisi che
spesso erano gli stessi anziani ad insistere per essere uccisi.
I sociologi hanno scritto molti libri sul perché alcune persone pongono fine alla loro
vita tagliandosi le vene o sparandosi un colpo di pistola, il più importante è ancor oggi
Il suicidio di Durkheim. Questi libri si basano sulle statistiche ufficiali dei suicidi
raccolte dalle agenzie dei governi dei vari paesi. Alcuni studiosi hanno sostenuto che
queste statistiche sono poco attendibili, perché corrispondono alla definizione che una
determinata società dà del suicidio e questa può variare nello spazio e nel tempo. In
particolare, la probabilità che una morte venga registrata come suicidio è tanto minore
quanto più negativo è l’atteggiamento di una società nei confronti di chi si toglie la
vita.
Sono privi di valore gli studi condotti da Durkheim? No. Le ricerche condotte in vari
paesi negli ultimi trent’anni hanno infatti mostrato che le statistiche ufficiali
sottovalutano il numero di suicidi che avvengono realmente, ma meno di quanto si
pensasse. I risultati di queste ricerche ci suggeriscono inoltre di essere prudenti
nell’interpretare le differenze nello spazio e nel tempo fra i tassi di suicidi (suicidi per
100.000 abitanti), ma non di ignorarle. Alcune ricerche mostrano che nelle regioni
centro – settentrionali del nostro paese ci si uccide molto di più che in quelle
meridionali, differenze così forti non possono essere ricondotte all’attendibilità delle
statistiche.
Ancora maggiori sono i problemi che si incontrano nello studio della criminalità.
Anche in questo caso i sociologi si basano spesso sulle statistiche giudiziarie relative
alle denunce e alle condanne. Il numero di reati ufficiali, considerati tali dalla polizia e
dalla magistratura, rappresenta solo una parte di quelli reali, effettivamente compiuti.
Ve ne sono altri che, pur essendo stati commessi, restano nascosti e non vengono
registrati, sono il cosiddetto “numero oscuro” dei delitti. Le ricerche condotte hanno
mostrato che per alcuni reati (omicidi, rapine in banca, furti d’auto) vi è una
coincidenza quasi completa fra quelli registrati e quelli effettivamente compiuti. Il
numero oscuro è invece assai grande nel caso del furto di parti di automobile o dei
borseggi tentati ma non riusciti.
Perché un reato entri a far parte delle statistiche è necessario che qualcuno se ne
accorga e lo faccia sapere ad un organo del sistema penale. Per i reati senza vittima
(prostituzione, consumo di stupefacenti) e per quelli contro l’intera collettività, questo
dipende dalla capacità della polizia di scoprire gli eventi delittuosi e i loro autori. Per
quelli invece che colpiscono una persona (scippo, borseggio, rapina), le forze
dell’ordine e la magistratura possono venire a conoscenza dell’accaduto solo grazie
alla denuncia della vittima o di un testimone. In molti casi però solo una quota di
coloro che subiscono un reato sporge denuncia. Si rivolgono alla polizia quasi tutti, se
viene loro sottratta un’automobile, moltissimi se subiscono un furto in appartamento,
solo la metà quando vengono scippati o borseggiati. Si sporge più frequentemente
denuncia se il reato è consumato, piuttosto che solo tentato.
Negli ultimi trent’anni, i ricercatori di vari paesi sono riusciti a ovviare a questi
problemi conducendo indagini periodiche per interviste su grandi campioni di
popolazione (inchieste di vittimizzazione) al fine di individuare quali fra le persone
intervistate abbiano subito, in un determinato periodo di tempo, alcuni reati. Purtroppo
però i reati che si possono studiare con queste inchieste sono solo quelli dei quali
l’individuo ha conoscenza diretta: lo scippo, la rapina, il furto d’auto o in
appartamento.
Nell’ultimo secolo, i sociologi, gli psicologi e gli economisti hanno formulato numerose
teorie, per spiegare perché alcune persone, in certe fasi della loro vita, derubano,
uccidono o stuprano qualcuno. Le principali sono sei.
Le spiegazioni biologiche
Dai sostenitori delle teorie che riducono i comportamenti devianti alla caratteristiche
fisiche e biologiche degli individui, i criminali sono stati spesso considerati individui
profondamente diversi dagli altri, “anormali”. Un tempo essi erano rigidamente
deterministi, oggi essi ritengono che la presenza di certi tratti biologici faccia solo
aumentare la probabilità che una persona commetta dei reati.
L’idea che la criminalità sia legata a particolari caratteristiche fisiche di una persona è
molto antica e precede di molti secoli la nascita delle scienze sociali. Uno dei primi
studiosi che ha fornito una veste scientifica a questa tesi è stato il medico e psichiatra
Cesare Lombroso, che per molto tempo considerò la costituzione fisica come la più
potente causa di criminalità. Particolare importanza egli attribuì al cranio. Studiando
quello del brigante Vilella, rilevò che nell’occipite, invece che una piccola cresta, esso
presentava una fossa, che chiamò “occipitale mediana”. Lombroso prese tuttavia in
considerazione anche altre parti del corpo, sostenendo che il “delinquente nato” aveva
in genere la testa piccola, la fronte sfuggente, gli zigomi pronunciati, gli occhi
mobilissimi ed errabondi, le sopracciglia folte e ravvicinate, il naso torto, il viso pallido
e giallo, la barba rada. Lombroso sostenne che il “delinquente nato” presentava
caratteristiche ataviche, che rendevano difficile il suo adattamento alla società
moderna e lo spingevano a commettere reati.
Molto criticata la sua teoria cadde in disgrazia; anche il suo autore la modificò e, negli
ultimi anni della sua vita, sostenne che i delinquenti “nati” costituivano solo un terzo
di coloro che infrangevano le norme e che ogni delitto aveva origine in un una
molteplicità di cause.
Anche quest’ultima teoria ha trovato poche conferme e non si è affermata tra gli
studiosi della criminalità.
Durkheim pensava che certe forme di devianza fossero in parte dovute all’anomia,
cioè alla mancanza delle norme sociali, che regolano e limitano i comportamenti
individuali.
Per adattarsi ai valori culturali proposti nella situazione prodotta dal contrasto fra le
mete e i mezzi per raggiungerle, gli individui possono scegliere fra cinque diverse
forme di comportamento. Il primo è la conformità, che consiste nell’accettazione
sia delle mete culturali sia dei mezzi previsti per raggiungerle. Tutti gli altri quattro
comportamenti sono devianti. Il secondo è l’innovazione: la strada scelta da coloro che
rubano, imbrogliano o ingannano gli altri, cioè chi aderisce alle mete, ma rifiuta i
mezzi normativamente prescritti. Il terzo è il ritualismo, che è il modo di adattamento
di chi abbandona le mete, ma resta attaccato alle norme sui mezzi (“mi accontento di
quello che ho”). La quarta modalità di adattamento è la rinuncia sia ai fini che ai mezzi
(mendicanti, tossicodipendenti, barboni). L’ultima possibilità è la ribellione, che
consiste nel rifiuto sia delle mete che dei mezzi e della loro sostituzione con altre mete
ed altri mezzi.
La teoria del controllo sociale
La teoria della tensione si basa sull’assunto che l’individuo sia un animale morale, che
fa proprie le norme della società in cui vive e che è naturalmente portato a seguirle.
Se rispetta la legge è perché si sente moralmente obbligato a farlo. Stando così le
cose, solo una forte pressione può spingerlo a violare le norme e questa pressione
viene dalla tensione fra struttura culturale e struttura sociale.
La teoria del controllo sociale si basa invece su una concezione più pessimistica della
natura umana, considerata moralmente debole. Essendo l’uomo naturalmente portato
più a violare che a rispettare le leggi, ciò che occorre spiegare è la conformità e non la
devianza. Perché la maggior parte delle persone non commette reati?. E la risposta
data è che ciò avviene perché queste sono frenate dal farlo.
I controlli sociali che impediscono loro di violare le norme sono di vario tipo. Vi sono
quelli esterni: le varie forme di sorveglianza esercitata dagli altri per scoraggiare e
impedire i comportamenti devianti. Vi sono quelli interni diretti, che si manifestano
nei sentimenti di imbarazzo, di colpa e vergogna che prova chi trasgredisce una
prescrizione sociale. Vi sono infine quelli interni indiretti: l’attaccamento psicologico ed
emotivo sentito per gli altri di non perdere la loro stima e il loro affetto.
Secondo Travis Hirschi, una persona compie un reato quando il vincolo che lo lega alla
società è molto debole, fino quasi a spezzarsi. Questo legame presenta i seguenti
aspetti:
Contrasto tra struttura sociale e struttura culturale non basta a spiegare la devianza,
perché alcune persone violino le norme sia la devianza che la conformità vengono
apprese nell’ambiente in cui si vive. Una persona commette un reato perché si è
formata in una subcultura criminale, che ha valori e norme diverse da quelli della
società generale e che vengono trasmessi da una generazione all’altra. Ad avere
comportamenti devianti si impara dagli altri, da coloro che si incontrano tutti i giorni e
che sono disposti a farlo e lo sanno fare. Da essi, oltre la competenza tecnica, si
imparano i valori, gli atteggiamenti, le razionalizzazioni favorevoli a queste azioni.
Dunque, chi commette un reato lo fa perché si conforma alle aspettative del suo
ambiente. In questo senso, le motivazioni del suo comportamento non sono diverse da
quelle di chi rispetta le leggi. Ad essere deviante non è infatti l’individuo, ma il gruppo
a cui egli appartiene. Gli individui non violano le norme del proprio gruppo, ma solo
quelle della società generale.
Le teoria dell’etichettamento
Secondi i suoi sostenitori (Edwin Lemert e Howard Becker), fra coloro che commettono
atti devianti e gli altri non vi sono differenze profonde né dal punto di vista dei bisogni
né da quello dei valori. Ne è prova il fatto che, nella nostra società, ad un altissimo
numero di persone succede, almeno una volta nella vita, di violare una norma in modo
più o meno grave. Ma un conto è commettere un atto deviante: mentire, rubare
qualcosa, fare uso di droga. Un altro conto è suscitare per questo una reazione sociale,
venire accusato di essere un deviante: un bugiardo, un ladro, un drogato. In questo
secondo caso, un individuo viene bollato con un marchio, un’etichetta, un ruolo. I suoi
comportamenti passati vengono riesaminati e reinterpretati alla luce di quelli presenti
e si comincia a pensare che egli si sia sempre comportato così. Di conseguenza lo si
guarda e lo si tratta in modo diverso dagli altri, con sospetto, timore, ostilità.
Se un individuo viene trovato dalla polizia in flagranza di reato, mentre sta rubando
qualcosa, viene arrestato e processato. Basta questo perché l’immagine che gli altri
avevano di lui cambi radicalmente. La stigmatizzazione che l’ha colpito lo farà sentire
sempre più isolato dal resto della società e questo lo spingerà ad entrare in contatto
con gli altri. Ulteriori sue infrazioni delle norme provocheranno reazioni sociali sempre
più forti che lo indurranno a proseguire la “carriera” di deviante.
I sostenitori della teoria della scelta razionale considerano invece i reati come il
risultato non di influenze esterne, ma di un’azione intenzionale adottata
attivamente dagli individui. Essi sono infatti convinti che l’individuo è un essere
razionale, che agisce seguendo i propri interessi, ricercando il piacere e fuggendo il
dolore, e che è capace di scegliere liberamente se violare o meno una norma. Se egli
decide di compiere un reato è di solito perché si attende di ricavarne benefici maggiori
di quelli che avrebbe investendo il suo tempo e le sue risorse in attività lecite.
Secondo questa teoria, inoltre, coloro che si dedicano ad un attività illecita non sono
sostanzialmente diversi dagli altri. I motivi che portano ad un’attività illecita sono gli
stessi che spingono a quella illecita: la ricerca del guadagno, del potere, del prestigio,
del piacere.
Negli ultimo trentennio queste idee sono state rielaborate da numerosi economisti e
alcuni sociologi; questi ultimi hanno messo in luce come colui che trasgredisce la
legge vada incontro a vari tipi di costo: esterni pubblici, esterni privati ed interni.
Quelli esterni pubblici sono dati dalle sanzioni legali inflitte dallo stato e dalle
conseguenze negative che queste hanno sulla reputazione sociale. Quelli esterni
privati sono i cosiddetti “costi di attaccamento”, che derivano dalle sanzioni informali
degli “altri significativi”, dalle loro critiche, dalla loro condanna. Quelli interni nascono
dalla coscienza (dalle norme interiorizzate), che fa provare al trasgressore sensi di
colpa e di vergogna.
Forme di criminalità
L’attività predatoria comune
La fonte principale della paura che i cittadini hanno della criminalità è costituita da
quella che molti studiosi chiamano l’attività predatoria comune. Con questa
espressione ci si riferisce a quell’insieme di azioni illecite condotte con la forza o con
l’inganno per impadronirsi dei beni mobili altrui che comportano un contatto fisico
diretto fra almeno uno di coloro che compiono l’azione e una persona o un oggetto. Ne
fanno parte due gruppi assai diversi di reati. In primo luogo, quelli compiuti di
nascosto, con il raggiro, evitando la vittima o facendo in modo che non si accorga di
quanto sta avvenendo, come ad esempio il furto di beni nei grandi magazzini. In
secondo luogo, quelli commessi con la violenza, strappando una cosa di mano o di
dosso ad una persona (scippo) o prendendogliela con la forza o la minaccia (rapina).
I reati ricordati sono diversi per molti altri aspetti. Innanzitutto per la loro gravità e per
la severità delle sanzioni che la legge commina a chi li commette, che vanno da venti
giorni ad alcuni anni di reclusione. In secondo luogo, per la loro redditività. In terzo
luogo, per il tipo di forma associativa che incoraggiano fra i soggetti attivi e per il
grado di complessità della divisione del lavoro fra loro. Alcuni di questi reati sono
commessi da persone che non hanno bisogno di complici. Ma una gran parte
dell’attività predatoria viene svolta da coppie o da piccoli gruppi di malfattori, privi di
un capo e con una divisione del lavoro poco accentuata.
I furti di oggetti dalle automobili in sosta sono molti diffusi in Spagna, in Italia, in
Nuova Zelanda e Australia e in Inghilterra e Galles; mostrano valori medi nei paesi del
Nord Europa e sono bassi in Svizzera e Giappone. Le rapine invece sono assai diffuse
in Spagna, hanno valori intermedi in Italia e in Inghilterra e bassi in Norvegia, Austria
e Giappone.
Negli anni sessanta è cresciuto enormemente, in tutti i paesi occidentali, il numero dei
seguenti reati: borseggi e scippi, furti di auto e in appartamento, furti nei negozi e
rapine. Per la frequenza di alcuni di questi reati, il punto più alto è stato raggiunto, in
molti paesi, intorno al 1991.
Gli omicidi
In Italia, almeno dopo l’Unità in poi, le regioni nelle quali si ammazzano più persone
sono: la Calabria, la Sicilia, la Sardegna, la Campania. Nel mondo, gli Stati Uniti sono
uno dei paesi che ha il tasso di omicidio più elevato. In generale è nei paesi in via di
sviluppo, caratterizzati da forti disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, che
la frequenza con cui gli omicidi vengono commessi è maggiore: in Colombia, El
Salvador, Brasile.
Alcuni storici hanno sostenuto che l’aumento della criminalità è stato in parte
provocato dalla modernizzazione, che è iniziato dopo la rivoluzione industriale e quella
francese, quando la società tradizionale è entrata in crisi, ed è continuato
ininterrottamente fino ad oggi.
Sulla violenza della società medievale abbiamo dati quantitativi, che mostrano che in
Europa vi è stata una tendenza plurisecolare alla diminuzione del tasso di omicidio.
Sappiamo che nel tardo Medioevo, in Europa, il tasso di omicidio andava dal 20 al 40
% per 100.000 abitanti, mentre a metà del Novecento aveva raggiunto valori
incomparabilmente più bassi (dallo 0,5 all’1 % per 100.000).
In questa tendenza secolare alla diminuzione del tasso di omicidio vi sono state
forti oscillazioni. Alcune di queste sono avvenute in occasione delle guerre. Già
Durkheim osservava che in Francia, nel 1871, alla fine della guerra franco – prussiana,
il tasso di omicidio era cresciuto del 45 %. In Italia, ad esempio, alla fine della prima
guerra mondiale, questo tasso è fortemente aumentato, raggiungendo nel 1922 un
valore che era il doppio di quello prebellico. Un’oscillazione ancora più marcata si è
avuta nel 1945 – 47, cioè dopo la seconda guerra mondiale. Un’importante ricerca
storica comparata ha messo in luce che nel periodo seguente alle guerre del nostro
secolo (sia mondiali che altre) vi è stato di solito un aumento degli omicidi nei paesi
che vi hanno partecipato. Questo si è verificato più spesso in quelli che durante la
guerra hanno subito maggiori perdite di vite umane.
Anche se con molte oscillazioni, la curva del tasso di omicidio ha proseguito nella sua
secolare tendenza alla diminuzione fino alla metà degli anni cinquanta o all’inizio degli
anni sessanta sia in Gran Bretagna che in Francia, negli Stati Uniti e in Germania. Dopo
di allora essa ha ripreso ad aumentare. In Italia, questa inversione di tendenza ha
avuto luogo nel 1969, anno in cui il numero di questi reati ha ricominciato a crescere.
Quindi la curva del tasso di omicidio ha avuto un andamento ad U. Però in molti paesi
occidentali, pur essendo cresciuto il tasso di omicidio negli ultimi trentacinque o
quarant’anni, questo tasso resta molto più basso di un secolo fa.
La teoria che appare oggi maggiormente in grado di spiegare la tendenza secolare alla
diminuzione degli omicidi è quella del processo di civilizzazione, proposta dal
sociologo Norbert Elias. Secondo questa teoria, nel Medioevo la vita quotidiana era
caratterizzata dal sopruso, dalla violenza, dalla guerra perché in Europa vi era una
pluralità di poteri sovrani in concorrenza e in lotta fra loro. Gli uomini vivevano così in
uno stato di insicurezza e di paura, pronti a difendersi dagli altri e ad attaccarli per
primi. La situazione iniziò a cambiare quanto un potere territoriale più forte trionfò su
quelli più deboli e si instaurò il monopolio della violenza legale da parte dello stato. I
guerrieri si trasformarono allora in cortigiani e le capacità militari lasciarono il campo a
quelle verbali di argomentazione e di persuasione. Essendo riservata solo a dei corpi
specializzati, la violenza venne esclusa dalla vita degli altri e si formarono delle zone
tranquille, pacificate, protette. All’interno di queste zone si svilupparono le “buone
maniere”, che sostituirono la violenza nelle relazioni interpersonali. Il campo di
battaglia fu interiorizzato. Dapprima nei ceti più elevati e poi fino a quelli più bassi, gli
individui abbandonarono la spontaneità, l’irruenza, l’auto indulgenza ed impararono a
dominare se stessi, a controllare le proprie pulsioni e passioni, a regolare
l’aggressività. Così gradualmente, diminuirono le manifestazioni di violenza contro gli
altri, gli assalti, le rapine, gli omicidi.
Dei bruschi aumenti del numero di omicidi che si verificano di solito nei periodi
postbellici sono state fornite almeno tre diverse spiegazioni. La prima è che essi
sarebbero dovuti alla disorganizzazione sociale tipica di questi periodi. La seconda
privilegia invece i fattori di natura economica: scarsità dei beni e la disoccupazione. La
terza infine riconduce tutto alla legittimazione della violenza fornita dal governo
durante la guerra; le supreme autorità dello stato, oltre a ordinare ai cittadini di
uccidere i soldati nemici, presentano questo come un comportamento meritorio o
eroico. Di queste tre è tuttavia l’ultima spiegazione che ha trovato maggiore sostegno
nei risultati delle ricerche finora condotte.
Utilizzando l’espressione introdotta alla fine degli anni trenta da Sutherland, i sociologi
chiamano “reati dei colletti bianchi” molti di quelli scoperti negli ultimi anni dalla
magistratura italiana con Mani pulite. Tradizionalmente, i criminologi avevano
concentrato il loro interesse solo sulle violazioni delle norme sociali ritenute tipiche
delle classi inferiori: furti, rapine, omicidi. Sutherland richiamò l’attenzione degli
studiosi su un’altra categoria di delitti: i reati dei colletti bianchi. Egli si riferiva ai
reati commessi da una persona rispettabile e di elevata condizione sociale nel corso
della sua occupazione.
Fanno parte dei reati di organizzazione le frodi di vario tipo commesse dalle aziende
private o pubbliche quando, nelle relazioni, nei bilanci o in altre comunicazioni,
riportano fatti non rispondenti al vero sulla costituzione e sulle condizioni economiche
della società. Ma sono reati di organizzazione anche quelli che mettono a repentaglio
la salute e la vita di milioni di cittadini (la produzione di prodotti pericolosi, il mancato
rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro).
La criminalità organizzata
Le imprese criminali hanno talvolta carattere polivalente, nel senso che esse mirano
all’acquisizione sia di profitti finanziari che del potere politico. Per agire hanno bisogno
di consistenti capitali, da investire sia nella attività economiche illegali (acquisto di
chili di droga) che in quelle legali. Ma esse devono disporre anche di gruppi di persone
adeguatamente armate, capaci e disposte a eliminare fisicamente vecchi e nuovi
nemici. Falcone ha spiegato che il ricorso alla violenza, da parte di Cosa nostra, non è
mai gratuito; avviene quando tutte le altre forme di intimidazione si sono dimostrate
inefficaci. Né gratuite sono le forme con cui la violenza viene esercitata.
Le varie organizzazioni criminali che operano oggi nel mondo hanno strutture interne
diverse. La Yakuza giapponese, della quale fanno parte oltre 100.000 persone, si
avvicina al modello organizzativo formale, con elenchi di aderenti, distintivi e giornali.
Invece, in Cosa nostra, costituita da circa 500 famiglie, con oltre 15.000 appartenenti,
le relazioni di parentela conservano una notevole importanza. Sappiamo tuttavia che
anche in Cosa nostra vi sono degli organi (la commissione interprovinciale) la cui
funzione è di coordinare l’attività delle diverse famiglie.
Per capire perché ogni giorno, vengono commessi dei reati, i sociologi hanno studiato
le caratteristiche socio demografiche di coloro che li compiono. Per lungo tempo hanno
concentrato la loro attenzione sulla classe sociale di appartenenza. Più recentemente,
il loro interesse si è spostato all’analisi dell’età e del genere.
La classe sociale
Per definizione, i reati dei colletti bianchi vengono commessi dalle persone delle classi
medio – alte, gli altri reati si è sostenuto a lungo che fossero compiuti dagli
appartenenti alle classi sociali svantaggiate. L’idea che vi sia una relazione inversa fra
la classe sociale e la disponibilità a commettere reati è stata a lungo condivisa dai
sostenitori di teorie diverse come quella della tensione, della subcultura o
dell’etichettamento.
I risultati di queste due ricerche, tuttavia, non sono contradditori. Esse infatti si
riferiscono a violazioni delle norme assai diverse: assai più lievi nelle indagini di
autoconfessione che sui dati sui condannati. Tenendo contro di tutto questo si può dire
che la relazione fra classe sociale e tendenza a violare una norma è tanto più forte
quanto più grave è il reato (rapine commesse dalle persone di classi sociali
svantaggiate; il taccheggio nella stessa misura dagli appartenenti a tutte le classi
sociali).
Il genere
Il genere è una delle variabili più importanti per predire la criminalità. Quanto più il
reato è grave, tanto più è facile che a compierlo sia un uomo e dunque tanto maggiori
sono le differenze di genere. In Italia la quota di donne sul totale delle persone
condannate non raggiunge neppure il 10 % nel caso delle rapine e degli omicidi,
mentre aumenta nel caso dei reati meno seri (la truffa, frode). Questa quota tocca una
punta record (50 %) nel caso del taccheggio.
Molti studiosi hanno sostenuto che, a partire dagli anni settanta, la criminalità
femminile è aumentata molto più di quella maschile. Secondo alcuni, questo è
avvenuto solo nell’ambito dei reati contro il patrimonio ed è dovuto alle grandi
trasformazioni che vi sono state nell’economia e nelle società (crescita di donne nel
mercato del lavoro) che hanno creato nuove occasioni di illeciti penali. Secondo altri,
invece, l’aumento dell’attività criminale femminile si è verificato anche nell’ambito dei
reati violenti ed è riconducibile all’affermazione dei movimenti femministi. Tali
movimenti avrebbero dunque fatto nascere un nuovo tipo di criminale donna, ribelle,
duro, violento.
L’età
Nel primo studio sistemati condotto in materia, il belga Adolphe Quètelet sostenne di
essere riuscito a ricavare dai suoi dati una vera e propria “legge di sviluppo” della
“tendenza al crimine”, che vale per tutti i paesi europei. A suo avviso, questa
tendenza cresce molto rapidamente verso l’età adulta, raggiunge un massimo e in
seguito decresce, lentamente, fino agli ultimi anni di vita.
Per molti reati, la relazione individuata da Quètelet non è molto diversa da quella
esistente oggi in Italia r in altri paesi. Pochi numeri bastano a dare un’idea della
rapidità con cui cambiano le cose nel corso degli anni. Le quote delle persone
condannate per furto a vent’anni è il doppio che a trenta, sette volte maggiore che a
quaranta. Diverso è l’andamento della curva dei condannati per emissione di assegni
a vuoto. Innanzitutto perché essa raggiunge il picco molto più tardi. In secondo luogo
perché, una volta raggiunto il punto più alto, essa non scende rapidamente.
La tendenza a violare le norme penali varia dunque molto a seconda della fase del
ciclo di vita. Di solito si inizia a rubare molto presto, anche se non sono propriamente
reati quelli commessi prima di aver raggiunto il quattordicesimo anno di età. A rubare
si inizia però di fatto molto prima, persino a otto o a nove anni. Si continua a farlo per
qualche anno. Poi, a poco a poco, una volta uscita dall’adolescenza, la grande
maggioranza abbandona questa attività. Coloro che continuano passano, nel corso
degli anni, ad altri tipi di reato contro il patrimonio: la truffa, l’emissione di assegni a
vuoto, la ricettazione.
L’eccezionale aumento della quota dei maschi che rubano o rapinano durante
l’adolescenza o le altre variazioni della tendenza a violare le norme che si verificano
durante le varie fasi della vita non sono peculiarità dell’Italia di oggi. Tutte le ricerche
mostrano che lo stesso avviene oggi negli altri paesi: negli Usa e in Gran Bretagna, in
Francia e in Germania, in Argentina e in Israele. Queste ricerche hanno messo in luce
che, nell’ultimo secolo e mezzo, vi è stato un abbassamento di cinque o sei anni
dell’età a cui più frequentemente si commettono reati.
Per quanto scarsi e insoddisfacenti, i dati di cui disponiamo fanno pensare che nei
paesi in via di sviluppo l’età a cui si ruba o si uccide sia un po’ più elevata che in quelli
industrializzati. In India solo il 3 % degli arrestati ha meno di 21 anni, nonostante che
circa la metà della popolazione sia al di sotto di quell’età.
Devianza e sanzioni
La severità delle sanzioni dipende fra l’altro dalla gravita dell’infrazione commessa. Se
qualcuno viola una norma di uso, verrà punito con un sentimento di disgusto. Ma se
qualcuno infrange una norma di legge, la sanzione sarà più forte. Vi sono tuttavia leggi
di vario tipo a seconda di quella che viene violata, cambia anche la sanzione prevista e
la forma di devianza.
Se una persona viola il diritto penale, si dice che commette un reato. Se invece non
rispetta le altre leggi, si parla di illecito civile o amministrativo. La differenze
fondamentale fra queste due forme di devianza risiede nella natura della sanzione. Per
il reato è prevista una pena, cioè una sanzione che può limitare la libertà personale
dell’individuo. Nel caso degli altri illeciti giuridici, la sanzione incide prevalentemente
sul patrimonio di chi li ha commessi.
Sistemi di punizione
Grandi differenze vi sono state, fra le varie società, riguardo al tipo di sanzioni usate
contro i trasgressori delle norme. In alcune comunità vigeva il sistema della faida, cioè
della vendetta da parte della vittima del reato nei confronti del reo. Nel diritto romano
si è a lungo seguito il principio del taglione, “occhio per occhio, dente per dente”.
Per molto tempo, i trasgressori della legge sono stati puniti con sanzioni pecuniarie,
l’espulsione dalla comunità, pene corporali o con la pena capitale. La varietà dei mezzi
impegnati per sopprimere coloro che avevano infranto una legge era molto ampia.
L’esecuzione prescelta aveva spesso un forte significato simbolico.
L’esecuzione della pena di morte avveniva di solito in pubblico, con una cerimoniale
preparato con grande sapienza, e richiamava enormi masse di popolazione.
Grandi mutamenti sono avvenuti nel corso del tempo. Il numero di mezzi impiegati per
uccidere un condannato si è ridotto. Nel corso degli ultimi due secoli i più usati sono
stati la ghigliottina, l’impiccagione, la fucilazione, la sedia elettrica, la camera a gas.
Inoltre, in molti paesi la pena di morte è stata abrogata. Questo processo è iniziato un
secolo e mezzo fa nei paesi dell’Europa settentrionale. Già nel 1826 la Finlandia ha
preso questa decisione. In Italia la pena di morte fu abrogata una prima volta nel 1889
dal codice Zanardelli. Reintrodotta durante il periodo fascista (1926) è stata di nuovo
abolita e sostituita con l’ergastolo nel 1948.
Oggi nel mondo vi sono ancora 103 paesi nei quali esiste la pena di morte. Gli Usa e il
Giappone sono economicamente molto sviluppati. L’India e la Cina hanno un’enorme
popolazione. In Cina l’esecuzione della pena di morte avviene ancora oggi in pubblico.
Di origine molto più recente è il carcere, come strumento per colpire i trasgressori,
che si è affermato pienamente nel XIX secolo. Prima di allora, esso esisteva come
luogo che serviva per custodire i colpevoli in attesa di processo, e non a punirli. La
privazione della libertà personale è diventata da allora, in tutto il mondo, la più
importante pena contro i trasgressori delle leggi penali.
In molti paesi, nell’ultimo secolo e mezzo, vi sono stati grandi mutamento anche
riguardo alla popolazione detenuta. A metà dell’Ottocento, il paese con il tasso di
detenzione più alto era l’Italia, seguito dai paesi nordici, mentre l’Inghilterra (oggi in
testa alla classifica) aveva il tasso più basso. In tutti questi paesi, tuttavia, è iniziato
allora un processo di diminuzione del tasso di detenzione che, con qualche
oscillazione, è durato per più di un secolo.
Scienza e tecnica
Scienza e tecnica nelle società premoderne
Le prime riflessioni alle quali noi oggi possiamo attribuire l’aggettivo “scientifiche”
sono le osservazioni sui movimenti delle stelle che sono alla base dello sviluppo delle
conoscenze astronomiche e matematiche nelle civiltà mesopotamiche ed egizie.
Nei movimenti dei corpi celesti i sacerdoti – matematici babilonesi ritenevano di poter
scorgere presagi sugli eventi terreni (prosperità e carestie), le stelle erano considerate
delle divinità.
Gli scienziati greci, invece, erano filosofi. Anche la scienza greca si è sviluppata
prevalentemente nel campo dell’astronomia e della matematica (Pitagora ed Euclide),
ma pensatori come Aristotele e Platone si spinsero a formulare teorie non solo
sull’universo, ma anche sulla costituzione della materia che sarebbero resistite per
quasi duemila anni. Il mondo romano ereditò la tradizione della scienza greca senza
apportarvi contributi; i maggiori contributo degli intellettuali romani si trovano nel
campo delle “tecniche” (dell’agricoltura e dell’architettura). Per tutto il mondo antico,
scienza e tecnica restano due ambiti sostanzialmente separati.
Nel Medioevo, salvo alcuni importanti apporti della scienza araba (scuola
salernitana), la scienza non conobbe sviluppi particolari. Il modello della conoscenza
del mondo resta sostanzialmente quello aristotelico. Il compito della filosofia,
sosteneva Tommaso d’Aquino, consisteva nel fare convergere le due fonti
fondamentali della verità, la fede (verità rivelata) e la ragione (verità acquisita
dall’intelletto umano), ma quando tra le due dovesse nascere conflitto era la prima a
dover prevalere.
Del resto, nelle università medievali (nate a partire dal XII secolo), le scienze, salvo la
matematica e l’astronomia, non avevano una collocazione precisa. L’insegnamento si
fondava sulle sette arti liberali del trivio (grammatica, retorica, logica) e del quadrivio
(aritmetica, geometria, musica, astronomia), alle quali si aggiungevano nelle “facoltà
professionali” la teologia, il diritto e la medicina. Anche le tecniche, restarono per tutto
questo tempo separata dal pensiero scientifico.
Per illustrare lo sviluppo della scienza moderna è stata proposta una periodizzazione in
tre fasi: i secoli XVII e XVIII, il secolo XIX fino alla metà del XX, il periodo dalla seconda
guerra mondiale ad oggi. Le periodizzazioni sono convenzionali e arbitrarie. I
mutamenti, nella scienza, non sono mai repentini; il “nuovo” ha sempre bisogno di
essere anticipato da qualche fatto precorritore e il vecchio non scompare mai
improvvisamente, ma sopravvive in condizioni mutate.
Vi è ampio consenso tra gli storici nel fissare la nascita delle scienze moderne
nell’Europa del XVII secolo. Il Rinascimento italiano nel XV secolo aveva già segnalato
un nuovo interesse per l’osservazione diretta della natura senza gli occhiali della
filosofia medievale e della dogmatica della chiesa.
Francis Bacon è considerato il “legislatore della scienza moderna”; egli riteneva che il
metodo sperimentale fosse il fondamento della spiegazione scientifica. La “verità”
viene ricercata nell’osservazione attenta della realtà naturale e nella predisposizione
di “esperimenti” attraverso i quali poter dimostrare in modo convincente per tutti
l’operare delle leggi della natura, cioè di relazioni causali costanti tra fenomeni distinti.
Robert K. Merton, il fondatore della “sociologia della scienza”, in uno studio sullo
sviluppo della scienza nella società inglese del XVII secolo, ampliando la portata della
tesi weberiana sulle origini del mondo moderno, ha sostenuto che vi erano alcuni
elementi dell’etica protestante diffusasi in Inghilterra in quel periodo che
contribuirono a creare un ambiente favorevole allo sviluppo della scienza. Primo per i
protestanti, le azioni che risultano utili al prossimo e alla società sono anche il mezzo
più idoneo per glorificare Dio; secondo, l’impegno e il successo nel proprio lavoro è un
mezzo per confermare il proprio stato di grazia; terzo, il modo per servire meglio Dio
consiste nel dominare le passioni ed usare la ragione.
In una prospettiva diversa, ma non per forza incompatibile con quella di Merton, uno
studioso sovietico, Boris Hessen, ha sostenuto che lo sviluppo della scienza
nell’Inghilterra del Sei – Settecento dove essere ricondotta alle esigenze tecnologiche
di un’emergente borghesia industriale. In particolare i Principi matematici della
filosofia naturale di Newton, davano risposte convincenti ai problemi tecnologici
dell’artiglieria, dei trasporti per terra e per mare o dell’industria estrattiva, settori in
quegli anni in grande espansione.
Entrambe le ipotesi sopra elencate sono da ritenere valide e, resta il fatto che nei
secoli XVII e XVIII Inghilterra, Francia e Paesi Bassi sono i paesi nei quali le scienze
naturali sperimentano lo sviluppo più rigoglioso e sono anche i paesi dove si affermano
le prima forme di capitalismo.
Si era compiuto il passaggio dalla little science alla big science. Dopo di allora
numerosi sono stati i grandi progetti di ricerca che coinvolgono spesso centinai di
ricercatori su scala internazionale. I più importanti sono stati quelli legati
all’esplorazione dello spazio extraterrestre che hanno visto una serrata competizione
tra quelle che erano allora le due superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
Raramente tali grandi progetti hanno un puro scopo conoscitivo: l’impresa scientifica
riesce a mobilitare ingenti risorse perché da essa ci si aspettano ricadute in altri settori
di attività; la scienza diventa un decisivo fattore di potenza sia in campo militare, sia in
campo economico.
La scienza è diventata uno dei settori più importanti delle società moderne e può
quindi stupire che la sociologia se ne sia occupata relativamente poco. La scienza ha
assunto nelle società moderne alcuni tratti tipici della sua antica rivale, la religione, e
ciò si riscontra anche nel linguaggio dove gli esclusi dalla scienza vengono designati
come “profani”. Gli scienziati stessi usano spesso un linguaggio esoterico che esclude
dalla comunicazione i non iniziati. Questa immagine regge tuttavia sempre meno. La
scienza è un’istituzione sociale integrata ad altre istituzioni sociali e gli scienziati sono
normali esseri umani, sia pure dotati di particolari competenze e sottoposti a processi
di formazione. Essi procedono per tentativi ed errori, e le scoperte alle quali
pervengono sono comunque destinate ad essere superata dagli sviluppi successivi. In
quanto impresa umana, la scienza può legittimamente diventare oggetto essa stessa
di quella scienza, la sociologia, che studia istituzioni, gruppi e comportamenti umani.
Una prima domanda che si sono posti i sociologi riguarda il posto della scienza nella
società moderna. Per Parsons le istituzioni scientifiche, e in primo luogo le università,
incorporano i valori universalistici della razionalità scientifica che sono i valori
dominanti della società moderna. Merton ribadisce e conferma l’idea che la scienza
occupi un posto centrale e tuttavia goda di autonomia rispetto alle sue possibili
applicazioni.
Per Merton, come per Parsons, la scienza gode nella società moderna di un elevato
grado di autonomia e si sviluppa per effetto di una dinamica essenzialmente
endogena, anche se non è mai priva di condizionamenti esogeni.
Evidente è che questi principi appartengono alla sfera del dover essere, forniscono
cioè un codice deontologico al quale gli scienziati “dovrebbero” attenersi, ma che
non descrive in modo adeguato i loro comportamenti effettivi. Merton sostiene che le
violazioni di questo codice sono tutto sommato meno frequenti di quanto ci si
potrebbe aspettare. Cosa motiva gli scienziati a seguire queste regole? Essi possono
aver interiorizzato il valore della conoscenza e le norme della comunità scientifica
attraverso il processo di socializzazione al quale sono stati sottoposti, ma ciò non è
sufficiente a spiegare il grado di conformità al codice di deontologia professionale. Due
studiosi che si sono collocati sulla scia di Merton ritengono che le comunità scientifiche
dispongono di un efficace meccanismo di motivazione e di controllo, vale a dire la
distribuzione di una risorsa/ricompensa che gli scienziati sono interessati ad acquisire:
il riconoscimento da parte di coloro che sono giudicati competenti a valutare la qualità
dei risultati. Il meccanismo motivazionale è quindi il desiderio di riconoscimento che
da un lato induce il ricercatore a rendere pubblici i suoi risultati, ma dall’altro lato
influenza anche la sua scelta di problemi e metodi, indirizzandolo verso quelli che egli
ritiene saranno meglio apprezzati dalla comunità scientifica, a scapito dell’originalità e
dell’innovazione. A ciò si aggiunge il fatto che, nelle comunità scientifiche coloro che
distribuiscono riconoscimenti sono allo stesso tempo in un rapporto di
concorrenza/competizione con coloro che li ricevono e questo può sollevare qualche
dubbio che il loro giudizio sia sempre improntato a criteri puri di razionalità cognitiva.
L’impostazione mertoniana non è stata esente da critiche. Essa si fonda più su quello
che gli scienziati dichiarano di fare, piuttosto che su quello che fanno realmente; si
tratta nient’altro che dell’ideologia di un particolare gruppo professionale. Di fatto gli
scienziati talvolta infrangono le norme alle quali pretendono di orientarsi, i casi di
plagio, di occultamento di risultati controversi o, di falsificazione di dati non sono del
tutto infrequenti.
Ad esempio, Max Weber sapeva quanto fosse difficile affermare i criteri universalistici
anche nell’ambito, quello scientifico, che dovrebbe essere di loro dominio e, tuttavia,
non abbandonò mai la convinzione che la scienza fosse l’unico modo per accostarsi
alla realtà in modo il più possibile libero da pregiudizi.
La critica forse più consistente alla formulazione mertoniana dell’ethos della scienza
indica che tale ethos riflette la condizione degli scienziati dediti alla ricerca
fondamentale (scienza pura) nell’ambito delle istituzioni universitarie, mentre ormai la
grande maggioranza degli scienziati opera all’interno di enti di ricerca di grandi
dimensioni, alle dipendenze di, apparati industriali e militari, dove la segretezza dei
risultati e il perseguimento di interessi no scientifici sono i criteri fondamentali. Molto
spesso gli scienziati si trovano ad operare in una situazione di ambivalenza strutturale,
devono cioè far fronte ai valori e alle esigenze divergenti della comunità scientifica da
un lato e della società, e dei committenti, dall’altro.
L’analisi kuhniana parte dall’assunto che nello sviluppo di ogni singola scienza vi siano
delle fasi di continuità, dove le nuove conoscenze si aggiungono alle precedenti in un
processo cumulativo, e fasi di rottura della continuità. Nella fasi di continuità (scienza
normale), il lavoro di ogni scienziato si innesta sul tronco di una tradizione che egli
riceve da coloro che lo hanno preceduto. Questa tradizione, il paradigma scientifico,
è composta da una concezione del mondo oggetto di una particolare disciplina, da un
certo numero di assunti teorici di fondo che definiscono i criteri di rilevanza nella
scelta degli oggetti da indagare, i problemi da risolvere e i metodi riconosciuti come
validi per la loro situazione. L’esistenza di un paradigma richiede che esso venga
accettato dalla comunità scientifica come fondamento sulla base del quale
intraprendere il lavoro scientifico (codificato nei trattati e testi fondamentali). Il
concetto fondamentale per l’analisi sociologica dell’attività scientifica è quello di
comunità scientifica. Per Kuhn non vi è comunità scientifica senza paradigma e non vi
è paradigma senza che su di esso si manifesti il consenso di una comunità scientifica,
due termini strettamente collegati.
Un paradigma si afferma perché riesce a risolvere meglio dei suoi competitori alcuni
problemi che il gruppo di specialisti ha riconosciuto come rilevanti. Nella fase del suo
dominio, un paradigma fornisce i criteri in base ai quali viene stabilita la “scientificità”
dei prodotti della ricerca. Tuttavia, nessun paradigma riesce mai a risolvere tutti i
problemi ritenuti rilevanti. Si manifestano quindi anomalie e contraddizioni. I
paradigmi hanno tuttavia una loro inerzia, essi contengono tutto ciò che in un dato
momento una comunità assume come certo, il loro abbandono comporta un costo
elevato e non basta che si presentino anomalie e contraddizioni perché vengano
abbandonati. Uno dei compiti della scienza normale è appunto quello di estendere e
articolar e meglio il paradigma, di escogitare spiegazioni, capaci di eliminare le
contraddizioni. Possono anche sorgere nuovi problemi all’esterno della comunità
scientifica, che non trovano una soluzione adeguata nell’ambito del paradigma
consolidato.
Tuttavia ciò però non basta per mettere in crisi un paradigma scientifico, la crisi
appare soltanto quando è disponibile un paradigma alternativo. La proposta di un
nuovo paradigma dà luogo ad una rivoluzione scientifica. La sostituzione di un vecchio
paradigma con uno nuovo è sempre un momento di discontinuità, anche se il vecchio
paradigma non scompare del tutto. Una nuova teoria deve in primo luogo essere in
grado di spiegare tutti i fenomeni che erano già adeguatamente spiegati dalle teorie
precedenti, ma deve soprattutto dare una spiegazione delle anomalie di cui le teorie
precedenti non riuscivano a dar conto. Il nuovo paradigma una volta affermatosi, apre
una nuova fase di scienza normale, fino a quando non sarà di nuovo messo in
discussione e a sua volta sostituito.
Molte delle prospettive di indagine di storia della scienza aperte dall’opera di Kuhn
erano già state anticipate negli anni trenta da un medico – biologo polacco, Ludwik
Fleck, in un libro, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico; questo libro non riscosse
grande successo perché impreciso e di difficile comprensione, i tempi evidentemente
non erano ancora maturi per sostenere la tesi della storicità dei criteri di scientificità e
quindi della validità relativa delle teorie scientifiche, poi riprese da Kuhn.
A differenza degli uomini comuni, gli scienziati sono coloro che hanno un’acuta
consapevolezza della vastità degli ambiti della realtà che ci sono ancora sconosciuti.
Quasi infiniti, sono i fattori che possono influenzare l’accadere di un evento; se non
riuscissimo a ridurli ad un numero finito e a controllarli non saremmo in grado di
formulare nessuna generalizzazione. Possiamo dire che nel laboratorio la natura viene
in un certo senso “addomesticata” per renderla più facilmente osservabile e
misurabile. Al limite, la natura viene addirittura sostituita con dei modelli di
simulazione che riproducono al computer la dinamica dei processi oggetto di
investigazione.
La sociologia del “laboratorio” adotta quindi un approccio costruttivista al problema
della conoscenza; la scienza non può accedere alla realtà esterna se non attraverso
pratiche di costruzione della realtà; la scienza può rappresentare la realtà attraverso i
propri linguaggi.
I ricercatori del laboratorio possono essere studiati come qualsiasi altro gruppo
sociale, all’interno del quale avvengono costantemente negoziazioni in merito alle
scelte da compiere per progettare un esperimento, realizzarlo e per interpretare alle
fine i risultati e comunicarli all’esterno. In queste scelte non sono rilevanti solo fattori
scientifici, ma anche fattori sociali che hanno a che fare coi rapporti (collaborazione,
gelosia) che si instaurano all’interno dell’èquipe di ricerca.
Dobbiamo ora volgerci ai fattori esterni e riprendere il tema della fase più recente,
successiva alla seconda guerra mondiale, dello sviluppo scientifico. In questa fase, il
rapporto tra scienza e tecnologia assume un’importanza decisiva.
Nei secoli XVIII e XIX incomincia a verificarsi una divaricazione tra ricerca
fondamentale e ricerca applicata; la prima si istituzionalizza nelle università, mentre la
seconda trova nei politecnici e nei laboratori di ricerca industriale il proprio luogo
privilegiato. In seguito, si sviluppa a partire dagli Stati Uniti un sistema di relazioni
strutturali tra università, amministrazione pubblica e industria.
Si potrebbe pensare ad uno sviluppo lineare che da una scoperta scientifica conduca a
un’invenzione tecnologica e quindi al suo eventuale sfruttamento economico. Però
capita spesso che il percorso sia rovesciato e che il processo sia messo in moto da
un’esigenza economica che stimola un’innovazione tecnologica che solo a
posteriori trova una sua fondazione nel sapere scientifico. In sostanza, non è solo la
scienza che produce innovazione tecnologica; ogni innovazione per svilupparsi e
diffondersi deve trovare una terreno favorevole, deve fare i conti con gli interessi
organizzati siano essi economici, politici o militari.
Sono proprio tali gruppi che sovvenzionano gli apparati di ricerca. Tra ricerca pura e
ricerca applicata esiste quindi inevitabilmente una competizione per le risorse. La
ricerca applicata all’innovazione tecnologica trae spesso vantaggio dalla ricerca
fondamentale, tuttavia i rischi di insuccesso fanno sì che le imprese in genere non
abbiano interesse ad investire nella ricerca fondamentale. Essa è sempre appannaggio
delle università e delle istituzioni pubbliche di ricerca, salvo alcuni casi (ricerca
fondamentale indispensabile per l’industria farmaceutica).
Nell’ambito del rapporto tra ricerca fondamentale e ricerca applicata un ruolo decisivo
è stato assunto dagli apparati militari. Dalla seconda guerra mondiale in poi circa il 40
% delle risorse mondiali destinate alla ricerca scientifica e tecnologica sono state
assorbite dalla ricerca militare. L’arte della guerra ha sempre stimolato l’ingegno al
fine di produrre un sapere utilizzabile per aumentare la potenza offensiva e difensiva
degli eserciti. La fusione dei metalli si è sviluppata ed è stata affinata in epoche
remote per produrre armi sempre più efficaci. Tuttavia è dal XX secolo che la scienza si
è messa sistematicamente al servizio della potenza militare nell’ambito di progetti di
ricerca di dimensioni sconosciute nelle epoche precedenti. Con la caduta del muro di
Berlino e la fine della guerra fredda i bilanci militari sono stati sensibilmente ridotti e
quindi anche gli investimenti per la ricerca (soprattutto spaziale).
Se la ricerca militare produce innovazioni che vengono poi utilizzate nella produzione
“civile”, si parla di ricaduta tecnologica (technological fall – out). I recenti sviluppi
nel campo dell’informatica, della micro – elettronica e delle telecomunicazioni, che
hanno generato molti prodotti di uso comune, devono molto alle originarie applicazioni
in campo militare. Perché vi sia una ricaduta, tuttavia, è necessario che esista un
rapporto stretto tra ricerca militare e ricerca industriale (ciò è avvenuto negli Stati
Uniti). Indubbio è comunque che vi sia un rapporto positivo nel lungo periodo tra
investimenti in Ricerca e Sviluppo (R & D, Research and Development) e crescita
economica. Soprattutto in un’economia aperta alla concorrenza internazionale,
risultano avvantaggiati quei paesi la cui struttura industriale si basa su prodotti ad alto
contenuto scientifico e tecnologico (settore high – tech). Un indicatore assai eloquente
del grado di sviluppo della ricerca applicata di un paese è la bilancia tecnologica
che contabilizza gli introiti e gli esborsi dovuti alla cessione o all’acquisto
dell’utilizzazione dei brevetti industriali. L’Italia presenta un consistente deficit della
bilancia dei pagamenti tecnologici dovuto allo scarso sviluppo della ricerca industriale,
oltre che alla carenza degli investimenti pubblici in R & D. Quindi, molti scienziati di
valore hanno abbandonato il nostro paese per un ambiente favorevole per le loro
ricerche.
Negli ultimi due secoli accanto alle scienze della natura, si sono sviluppate delle
discipline che hanno per oggetto gli esseri umani e le loro relazioni e che possono
rivendicare legittimamente lo statuto di scienze. Si potrebbe fare la storia delle
scienze sociali dal punto di vista delle influenze che sul loro sviluppo hanno esercitato
le scienza naturali, pensando di replicare i loro apparati di analisi e i metodi di
indagine.
A cavallo tra XIX e XX secolo si sviluppò invece, soprattutto nella cultura tedesca, una
reazione al dominio delle scienze naturali e alla trasposizione dei loro metodi nel
campo di quelle che allora venivano chiamate scienze dello spirito. Si riteneva che il
fatto che l’oggetto di queste ultime fosse l’uomo, le sue azioni, i suoi prodotti, la sua
cultura dovesse tradursi in una specificità dei metodi di ricerca rispetto a quelli che
servivano per accostarsi alla natura inanimata. Si riteneva che i fenomeni umani
dovessero piuttosto essere “compresi” nel loro significato culturale. Il dibattito si
sviluppò in particolare intorno allo statuto scientifico della storia, nei confronti della
quale il fine della conoscenza non sembrava essere la formulazione di leggi universali,
bensì la comprensione/spiegazione di eventi individuali e irripetibili. Max Weber adotto
una posizione che influenzò, successivamente, sulla definizione dei fondamenti del
sapere sociologico. Egli ha sostenuto la specificità delle scienze sociali sia pure
nell’ambito di una concezione fondamentalmente unitaria del metodo scientifico:
mentre i fenomeni della natura possono essere soltanto “spiegati” (imputandone le
cause all’operare di “leggi”), i fenomeni sociali, accanto alla spiegazione, possono
anche essere oggetto di comprensione. I fatti sociali sono in ultima istanza
riconducibili ad azioni individuali. L’azione è l’unità minima di analisi delle scienze
sociali. La specificità dell’agire umano consiste nel fatto che gli esseri umani sono
dotati della capacità di attribuire un senso alle loro azioni ed è proprio questo “senso”
che è accessibile mediante la “comprensione”.
Il rapporto tra spiegazione e comprensione resta a tutt’oggi uno degli aspetti più
dibattuti e controversi dell’epistemologia delle scienza sociali. Vi sono due estremi,
coloro che sostengono un monismo metodologico, cioè la sostanziale unità del metodo
scientifico a prescindere dalla diversità dell’oggetto di ricerca, e coloro che,
sostengono l’irriducibile “differenza” tra le scienze dell’uomo e quelle della natura.
Possiamo indicare alcune dimensioni che servono per fissare linee di demarcazione e
di continuità tra le scienze.
Tuttavia, il riconoscimento che anche nel campo delle scienze della natura i “fatti”
sono costruiti, cioè che la scienza, quale che sia il suo oggetto, raccoglie ed elabora
“dati”, vale a dire informazioni selezionate relative a “fatti”, fa pensare che la distanza
tra dure e molli sia tendenzialmente destinata a ridursi. Wolfgang Lepenies, in un libro
che significativamente si intitola Le tre culture, può sostenere che le scienze sociali
svolgono una funzione di ponte tra cultura umanistica e cultura scientifica. La
sociologia avrebbe due anime tra loro interdipendenti: una scientifica e una
ermeneutica (contiguità con letteratura e le arti).
Nell’opinione pubblica si sono diffusa immagini della scienza come mondo a parte,
misterioso e anche in parte minaccioso, con il quale è sempre più difficile per l’uomo
comune entrare in contatto. A ciò hanno contribuito la forte istituzionalizzazione, la
specializzazione e l’uso di linguaggi intraducibili. L’opinione pubblica quindi si
interroga sia sulla sostenibilità dei costi della ricerca (imposizione fiscale), sia sulla sue
effettiva utilità, visti gli effetti disastrosi degli usi sociali di certe scoperte (bomba
atomica), i rischi ambientali (inquinamento) e i rischi per la salute (nocività di prodotti
dell’industria alimentare e farmaceutica).
Gli atteggiamenti del pubblico dipendono da due componenti tra loro interdipendenti,
l’uno di natura cognitiva e l’altro di tipo valutativo. Entrambi fanno parte di quella che
si può chiamare cultura scientifica diffusa, le cui fonti sono da un lato gli insegnamenti
scolastici, dall’altro le attività di divulgazione scientifica e i messaggi dei mass media.
I mass media privilegiano il più delle volte gli aspetti più sensazionalistici delle
scoperte scientifiche che possono attirare la curiosità e l’interesse dell’opinione
pubblica. Talvolta i resoconti dei media producono speranze infondate in particolari
categorie della popolazione, in altri casi possono scatenare il panico accentuando la
percezione del rischio tecnologico, oppure, al contrario minimizzare il rischio. Ciò che
viene trasmesso attraverso questi canali non sono solo conoscenze, ma anche
“immagini” e “stereotipi”. Emergono quattro stereotipi dello scienziato: 1) il mago che
ha un potere sulla natura (concezione prerazionale o arazionale della scienza); 2)
l’esperto, cioè colui che affronta e risolve i problemi in modo razionale ed efficiente; 3)
il creatore/distruttore, irresponsabile di fronte alle conseguenze delle sue scoperte; 4)
l’eroe, dalla cui creatività discende il progresso generale.
Gli atteggiamenti che si esprimono attraverso questi stereotipi oscillano tra due
estremi: da un lato una fiducia incondizionata nella scienza come dispensatrice di
progresso, dall’altro lato un oscuro sentimento che vede nella scienza e nelle sue
ricadute tecnologiche una minaccia misteriosa.
Nella fase attuale, soprattutto per effetto delle iniziative dei movimenti ecologisti, la
percezione del rischio tecnologico e delle minacce alla vivibilità dell’ambiente sono
fattori importanti nel plasmare gli atteggiamenti della popolazione nei confronti della
scienza e della tecnologia e nel ridurre il livello di credibilità nei loro confronti.
Il concetto stesso di rischio non è certo lo stesso per gli esperti e per il pubblico:
mentre per i primi si tratta della probabilità che tale evento provochi determinate
conseguenze, il concetto di rischio evoca nella gente comune il sentimento di un
evento minaccioso dalle conseguenze dannose incalcolabili. La scienza stessa può
contribuire ad attenuare i rischi che le sue applicazioni hanno generato (i problemi
ambientali hanno stimolato ricerche di nuove fonti di energia). Nel mondo moderno la
scienza è un’attività fortemente orientata alla soluzione razionale di problemi pratici e
i suoi effetti dipendono dal tipo di problemi verso i quali è indirizzata la ricerca. La
responsabilità degli effetti ricade su coloro che pongono i problemi da risolvere e
formulano le domande alle quale trovare risposta.
Come abbiamo visto, la riflessione sociologica sulla scienza parte dall’assunto che la
conoscenza scientifica è socialmente costruita e che l’attività scientifica è
intrinsecabilmente intrecciata con fattori interpersonali, organizzativi e culturali che
contribuiscono alla produzione e all’uso del sapere scientifico. La scienza è legata a
interessi politici, militari ed economici che non sempre coincidono con l’interesse
comune.
La ricerca sociologica sui condizionamenti, sui modi di operare e sugli effetti sociali
della scienza, può forse contribuire a radicare, nell’opinione pubblica e tra gli
scienziati, un’immagine realistica della scienza che sia libera dagli stereotipi di tutti i
tipi.
La religione
Una premessa di metodo
Le religioni riguardano credenze, cioè idee che gli uomini si fanno intorno alla natura
della realtà terrena e ultraterrena. Il sociologo prende queste credenze come fati di
fatto che è necessario spiegare nella loro genesi. Egli non si chiede se queste credenze
siano vere o false, perché hanno a che fare con una realtà non empirica.
L’unico fatto empirico è che uomini reali, organizzati in società reali, sviluppano
credenze e istituzioni e mettono in atto comportamenti che chiamiamo religiosi. Vere o
false, nella misura in cui questi criteri si applicano al lavoro scientifico, possono essere
solo le asserzioni che riguardano le credenze religiose e non le credenze stesse. Ciò
non vuol dire che il sociologo che studia le religioni non possa a sua volta avere delle
credenze religiose. L’esercizio dell’attività scientifica richiede la capacità di mantenere
distinti i vari ruoli. Una separazione assoluto non è possibile, ma forse neppure
auspicabile. Se la religione non “fa problema” per lo studioso come uomo e non in
quanto studioso, non potrebbe suscitare il suo interesse. La prospettiva nella quale si
colloca lo studioso condizione la scelta degli aspetti che vengono messi in primo piano
e influenza la direzione nella quale si spinge l’indagine.
Si tratta di mantenere una certa distanza dall’oggetto di studio. Del resto, vi è un setto
della sociologia, chiamato appunto “sociologia della conoscenza, che studia proprio
come l’attività conoscitiva sia influenzata dalle credenze e dagli interessi dello
studioso che si collocano al di fuori della sfera conoscitiva, ovvero al di fuori della
scienza.
Sacro e profano
Difficile è trovare al mondo un aggregato umano che non dedichi una parte del tempo
e dello spazio che ha a disposizione a pratiche religiose.
A cosa pensa la gente comune quando parla di religione? La religione è una credenza,
o un insieme di credenze, relativa all’esistenza di una realtà ultrasensibile, ultraterrena
e sovrannaturale. Chiariamo i termini di questa definizione. Una credenza è un
giudizio sulla realtà che si fonda su un atto di fede. La nozione di credenza presuppone
una distinzione cruciale tra credenza e conoscenza. Il confine tra credenze e
conoscenze è certamente sfumato nel senso che le due categorie presentano zone di
sovrapposizione; credenze e conoscenze sono due modi mediante i quali gli esseri
umani raggiungono un relativo grado di certezza sulla realtà che li circonda; sia le
credenze che le conoscenza possono lasciare dei margini di dubbio. La certezza
dell’esistenza di Dio è raggiunta essenzialmente mediante un atto di fede e non
mediante un’operazione conoscitiva (prove empiriche).
Veniamo ora alla seconda parte della definizione: la credenze religiose riguardano
l’esistenza di una realtà al di là di ciò che è percepibile con i sensi e accumulabile
come conoscenza empirica. L’uomo riconosce che vi è un mondo misterioso e
normalmente inaccessibile. In altre parole, le credenze religiose postulano l’esistenza
di una sfera della realtà trascendente rispetto alla sfera della realtà percepibile. La
stessa idea che l’uomo ha di se stesso, la sua identità soggettiva, è il prodotto di
questa capacità di trascendere il presente, di riconoscere sé e gli altri come entità che
vanno oltre ciò che è immediatamente percepibile. Questa capacità consente all’uomo
di concepire l’esistenza di una realtà trascendente, che sta dietro le cose percepite dai
sensi e che si estende anche al di là della vita terrena. Questa sfera del trascendente
(invisibile) costituisce la sfera del sacro: il cosmo viene distinto in una sfera del sacro
e in una sfera del profano. Si può dire che le varie forme di religione si differenziano
tra loro a seconda del modo con cui è articolato il rapporto sacro e profano.
La magia si differenzia dalla religione proprio per il diverso rapporto che si instaura tra
sacro e profano. Mentre nella magia le pratiche rituali, messe in atto da maghi,
servono per influenzare gli spiriti, al fine di produrre effetti pratici nella vita terrena,
nella religione il fine appare piuttosto quello di consentire agli uomini di elevarsi al di
sopra e al di là della loro esistenza terrena e di accedere, alla sfera del sacro,
attraverso pratiche mistiche e ascetiche, o attraverso una condotta esemplare che
verrà ricompensata nella vita ultraterrena.
L’esperienza religiosa
Dobbiamo ora approfondire la nostra definizione; dobbiamo anche chiederci quali sono
i tratti fondamentali dell’esperienza religiosa, cioè come e perché gli esseri umani
sviluppano la credenza nell’esistenza del sacro. Il discorso deve partire da due
esperienze tipiche della condizione umana: l’esperienza del limite e l’esperienza del
caso
L’esperienza del limite riguarda la stessa vita umana. Gli esseri umani sanno di
dover morire; essi vivono nella certezza che la loro vira ha avuto un inizio e avrà una
fine, un limite. L’idea stessa di limite è tuttavia inconcepibile senza l’idea opposta di
assenza di limite; sa da un lato vi è il mondo delle cose mortali, deve esistere dall’altro
lato un mondo delle cose immortali. Probabilmente tutti gli uomini almeno una volta
nella loro esistenza si pongono una serie di perché. Le religioni aiutano a dare una
risposta a questi interrogativi e quindi a mantenere l’angoscia che da essi deriva entro
limiti tollerabili per il semplice fatto che, di fronte alle imperfezioni del mondo,
all’ingiustizia e alla sofferenza, postulano l’esistenza di un mondo –altro che non
conosce questi limiti.
Inoltre, gli esseri umani vivono nella consapevolezza di essere in balia di forze più
grandi di loro e che sfuggono in larga misura al loro controllo; l’uomo sa che ci sono
dei confini alla sua volontà e che esiste un divario incolmabile tra ciò che vuole e ciò
che può fare, sa che ci sono degli ostacoli alla sua volontà e deve tenere conto di essi
nel definire i limiti delle proprie mete. Il mondo degli dei è invece popolato da esseri
onnipotenti. L’idea di limite è indissolubilmente legate all’idea di assenza di limite.
La consapevolezza del limite posto alla capacità di conoscere di ogni singolo individuo
e della specie umana nel suo complesso rende possibile concepire l’idea di un ente
che non sia sottoposto a tali limitazioni, appunto di un ente onnisciente al quale
ricondurre in modo unitario l’ordine delle cose naturali e umane. Così fatti
apparentemente inspiegabili trovano una loro collocazione e giustificazione in un
ordine misterioso, ma di cui la mente umana è in grado di postulare l’esistenza. Tale
ordine consente di ricondurre i molteplici, variabili e contrastanti significati delle
esperienze e delle azioni umane ad una gerarchia di significati e quindi a dei significati
“ultimi”, alla volontà imperscrutabile di qualche divinità.
Vi è un altro aspetto legato all’esperienza religiosa: il problema dell’ordine morale.
Gli esseri umani devono sempre decidere tra alternative di azione e, a fronte di questa
possibilità si crea un problema morale. In base a quali criteri scegliere quale azione
intraprendere? Molte scelte vengono effettuate in base a criteri puramente
unilateralistici. Ma in molti casi le scelte non coinvolgono, la dimensione dell’utile, ma
anche la dimensione del bene e del male. In questi casi i criteri di scelta sono dei
codici morali che consento di distinguere il bene e il male. Succede assai spesso che
azioni che risulterebbero assai utili al raggiungimento dei nostri fini non ci sono
consentite perché violerebbero il nostro codice morale.
Anche se è possibile concepire una morale “laica, di fatto nella storia dell’umanità i
codici morali hanno quasi sempre trovato nella religione il loro fondamento, gli dei
prescrivono i comportamenti. Ogni religione comporta la presenza di un elemento
prescrittivo/normativo: ogni comandamento diventa tanto più vincolante se colui al
quale è destinato è animato dalla credenza che sia un potere sovrannaturale a
prescrivergli come deve comportarsi.
La spiegazione dell’universalità delle religioni risiede nel fatto che esse, soddisfano sia
bisogni degli individui che bisogni delle collettività.
Tipi di religione
Molto diverse sono le grandi religioni universali, cioè quelle religioni che unificano
mediante credenze comuni masse enormi di uomini, spesso appartenenti a una
pluralità di società. Tra queste si collocano le religioni che credono nell’esistenza di
una (monoteismo) o di più divinità (politeismo). La divinità è oggetto di adorazione da
parte dei fedeli, i quali riconoscono in essa tutti quegli attributi di cui essi sono privi
(perfezione, onnipotenza, onniscienza). La divinità è un’entità superiore alla realtà
naturale ed umana; tra il mondo degli dei e il mondo degli uomini e delle cose esiste
un eterogeneità di principio e un ordinamento gerarchico di superiorità/inferiorità.
La credenza nella divinità e il concetto stesso di divinità non sono elementi comuni a
tutte le religioni. Vi sono religioni, ad esempio il buddismo, che non postulano
l’esistenza di vere e proprie divinità collocate in un aldilà, ma di una sfera dove regna
quiete e armonia, verso la quale è possibile elevarsi mediante pratiche di
contemplazione, contrapposta alla sfera mondana dominata dalla turbolenza e dal
disordine. Queste sono anche dette religioni cosmo centriche, cioè fondate sulla
credenza di un’armonia universale ultraterrena, per contrapposizione alle religioni
teocentriche, vale a dire fondate sulla credenza in un aldilà dominato dalla presenza
della divinità.
In molte religioni questi vari modi di atteggiarsi e comportarsi nei confronti del mondo
e dell’aldilà sono presenti in combinazioni diverse, ma uno di essi tende a prevalere a
seconda del particolare contesto storico e sociale.
Molte religioni contengono una “promessa di redenzione” in questo mondo o
nell’aldilà, vale a dire una promessa di liberazione dalla sofferenza e dall’ingiustizia. Le
religioni profetiche e le religioni del salvatore (cristianesimo) sono vissute in un
rapporto di tensione nei confronti del mondo e dei suoi ordinamenti. La sfera religiosa
tende in questo caso a contrapporsi alle altre sfere (economia, politica, scienza … ).
Le religioni non sono soltanto sistemi di idee; le idee, per diventare socialmente
operanti, devono essere sostenute da uomini nell’ambito di gruppi.
Anche nelle religioni delle società più semplici compare una figura (mago, stregone,
sacerdote) che si pone su un piano diverso da quello del resto dei credenti e alla quale
è affidato professionalmente il compito di fare da intermediario tra gli uomini e le forze
sovrannaturali. La celebrazione di riti e culti, mediazione tra sacro e profano, diventa
una funzione sociale specializzata affidata a personale specializzato. Possiamo dire che
è una prima forma di divisione del lavoro; data l’importanza sociale della funzione
svolta, il ministro del culto è infatti esentato dal provvedere direttamente ai suoi
bisogni materiali e vive delle offerte dei fedeli. Si forma così un ceto sacerdotale
(clero) che opera nell’ambito di organizzazioni molto variabili nella loro forma. La
storia delle religioni può essere scritta come storia delle organizzazioni religiose, noi ci
soffermeremo soltanto su alcune forme tipiche che sono rilevanti della tradizione
ebraico – cristiana: i movimenti religiosi, le chiese, gli ordini monastici, le sette e le
denominazioni.
Il problema della successione è che: la fedeltà e la fiducia del tutto personali che i
seguaci riponevano nel capo deve ora essere trasferita al suo successore, ma perché
ciò possa verificarsi il rapporto stesso deve trasformarsi in una direzione di maggiore
impersonalità. La fiducia e la fedeltà sono ora generate dalle idee e dalla dottrina del
capo e i suoi successori devono diventare interpreti fedeli di essa. Il gruppo deve
essere in grado di allargarsi al di là della cerchia ristretta dei primi seguaci; questi
devono disperdersi, allontanarsi l’uno dall’altro senza perdere il vincolo di solidarietà
che li unisce, e diventare predicatori per provocare in altri la loro stessa esperienza di
conversione. Per mantenere l’unità in condizioni di dispersione spaziale, è necessario
che si formi un’organizzazione permanente, che si fissino incontri periodici, che si
stabilisca una gerarchia capace di tenere insieme un gruppo ampio e disperso. Infine,
il gruppo deve essere in grado di riprodursi non solo tramite le nuove conversioni, ma
trasmettendo alle nuove generazioni i fondamenti della propria fede.
Una chiesa per sussistere deve trovare qualche forma di accomodamento con il
contesto economico, sociale e politico in cui opera. Una chiesa per poter dispensare
beni di salvezza ai propri membri, diventa immancabilmente soggetto di interessi
secolari: deve reperire e amministrare risorse economiche, deve assicurarsi che i
propri ministri e fedeli possano celebrare liberamente i culti, deve proteggere e
rafforzare la propria organizzazione in concorrenza con lo stato. Chiesa e stato sono
due istituzioni che avanzano pretese di fedeltà da parte della stessa massa di persone.
Il rapporto tra chiesa e stato può quindi svilupparsi in termini di aperto conflitto,
oppure, più frequentemente, di sostegno reciproco, attraverso una sorta di alleanza.
Se siano i poteri secolari o quelli religiosi a prevalere può essere accertato soltanto da
un’analisi delle singole situazioni storicamente determinate. Nella tradizione
dell’Occidente vi è un elevato grado di separazione tra istituzioni religiose e politiche.
Ai margini di un organizzazione religiosa è possibile che si sviluppino movimenti
religiosi che si oppongono, in modo latente o manifesto, per ragioni dottrinarie o
politiche, all’ordinamento religioso rappresentato dalla gerarchia ecclesiastica. Tali
movimenti possono condurre a vere e proprie fratture scismatiche che portano alla
separazione della chiesa di intere regioni con le loro popolazioni e alla creazione di
nuove chiese separate. In altri casi, tali movimenti possono rivendicare un ritorno alle
origini. In genere sorgono dispute dottrinarie sull’interpretazione autentica del
messaggio divino (interpretazione dei testi sacri), si denuncia la corruzione dei
costumi da parte dei ministri della chiesa e la perdita di autentico significato religioso
delle pratiche liturgiche.
La storia della chiesa cattolica è costellata dalla comparsa di movimenti religiosi che
sono stati dichiarati eretici e quindi duramente combattuti e repressi, spesso
efficacemente, con ogni possibile mezzo, dottrinario, giuridico – politico (tribunali
dell’Inquisizione) ed anche militare.
Non sempre la risposta della chiesa alla comparsa di movimenti religiosi è stata una
risposta repressiva. Gli ordini monastici hanno speso avuto origine da movimenti
religiosi di tipo carismatico che contenevano potenzialmente una forte carica critica
nei confronti dell’ortodossia ufficiale. Ma essi non sono stati combattuti come eretici, è
stata riconosciuta la loro legittimità nell’ambito di una struttura ecclesiastica più
differenziata e flessibile che consente ad essi un grado anche elevato di autonomia
dalla gerarchia ecclesiastica. Gli ordini monastici rappresentano un tipo di comunità
religiosa separata dalla massa dei fedeli di una chiesa, ad essi si appartiene per scelta
attraverso un atto di rifiuto del mondo e di dedizione a un ideale di perfezione di vita
religiosa. Weber parla in proposito di una “religiosità di virtuosi”, cioè di un ideale
condotta di vita non accessibile alla massa dei credenti laici.
L’esito di un movimento religioso è assai spesso la formazione di una setta. Una setta
si differenzia da una chiesa soprattutto per il fatto che l’appartenenza a una setta
presuppone un atto di adesione individuale. La setta è una comunità religiosa
tendenzialmente ristretta, tra i cui membri si stabiliscono legami assai forti di
fratellanza e di fiducia e che vive in un contesto sociale formato da appartenenti ad
altre religioni o confessioni. Per i seguaci della setta conta di più la qualità e la forza
della convinzione che non l’espansione quantitativa del gruppo. I nuovi adepti devono
soprattutto dar prova dell’autenticità della loro fede prima di essere accolti a pieno
titolo come membri della comunità.
L’esperienza religiosa nasce dal bisogno di dare un senso al mondo e alla propria
esistenza; ora è chiaro che questo bisogno è diverso a seconda della posizione che un
individuo o un gruppo occupa nella società. I poteri costituiti, di qualsiasi natura,
ricevono un formidabile sostegno quando la loro posizione viene sanzionata
dall’autorità religiosa; non solo i sudditi sono più disposti ad obbedire ad un potere che
emana da una fonte divina, ma gli stessi detentori del potere risultano assai più sicuri
e consapevoli della propria dignità e legittimità. Le religioni hanno senza dubbio svolto
la funzione di legittimazione del potere.
Sarebbe riduttivo, tuttavia, pensare alla religione soltanto come strumento per
regnare. I bisogni religiosi dei detentori del potere non sono gli stessi di quelli di altri
gruppi e classi. Le religioni profetiche annunciano in genere il riscatto degli umili e
degli oppressi, sia pure soltanto nell’aldilà, un messaggio che non può essere ben
accolto dai potenti.
Talvolta, come nel caso del movimento dei preti operai negli anni cinquanta, il luogo
dell’attività pastorale è stato spostato al di fuori della chiesa in senso stretto nelle
fabbriche e nei luoghi di lavoro. Nell’ambito della chiesa si esprimono varie forma di
religiosità.
Il processo di secolarizzazione
Il posto della religione risulta nelle società moderne tutto sommato ridotto rispetto alle
società del passato. Esse si collocano infatti ad uno stadio avanzato di un processo
detto processo di secolarizzazione.
Alle origini di questo processo vi sono le stesse religioni che collocano il sacro e il
divino su un piano trascendente rispetto al mondo e alle cose terrene. Questa assoluta
trascendenza del sacro ha conseguenze molto importanti perché libera
tendenzialmente la religione da ogni contaminazione con la magia e consente di
sviluppare un orientamento laico, pragmatico e potenzialmente razionale nei confronti
della realtà terrena.
Una religione di questo tipo è però soltanto una premessa, una precondizione perché
possa avviarsi il processo di secolarizzazione. Per secoli e secoli la vita sociale e
politica, così come l’esistenza quotidiana degli individui è rimasta intrisa di elementi
religiosi. Tutto ciò non è evidentemente scomparso anche ai giorni nostri, ma queste
pratiche sono tuttavia diventate meno frequenti, anche se, vi è una grande variabilità
da paese a paese.
Anche la sfera delle attività e delle istituzioni politiche si è col tempo resa
consistentemente autonoma dalla religione. Vero è che in molti paesi vi sono partiti e
movimenti che si ispirano a principi e valori religiosi. Il principio “libera chiesa in libero
stato” è largamente adottato come linea guida per definire i rapporti tra sfera religiosa
e sfera politica. Soprattutto nei paesi dove domina il pluralismo religioso, la religiosità
tende sempre più a diventare una questione privata dei credenti che certo influenza i
loro comportamenti, e quindi anche i loro comportamenti politici, ma che tuttavia
rimane confinata in una sfera privato/pubblica per lo più separata dalla sfera politica.
In quest’ultima dominano i rapporti di forza e di interesse tra gruppi, ceti e classi in un
ambito relativamente autonomo e separato rispetto alle credenze religiose.
In certe fasi storiche sembra quasi che le religioni vengano sostituite da altre fedi, da
altri credi, di tipo secolare e politico che, come le religioni svolgono la funzione di
fornire allo stesso tempo delle visioni unitarie del mondo e delle mete chiare e
semplici verso le quali orientare l’azione individuale e collettiva (grandi ideologie XIX e
XX secolo tra cui il marxismo).
Non è da escludere che il declino di queste religioni secolari lasci il campo alla
formazione di nuove religioni, di nuovi culti di nuove sette. Recentemente si è
sviluppato in tutto il mondo occidentale un insieme variegato di credenze e di culti che
sono stati raggruppati sotto le denominazione New Age. In certo è se tali pratiche
possano considerarsi effettivamente forme religiose; esse combinano tendenze
spiritualistiche con pratiche di meditazione ricavate da tradizioni orientali, dove la cura
dell’anima si unisce alla cura del corpo. Non sembra infatti che il processo di
secolarizzazione sia un processo unilaterale e irreversibile che procede parallelamente
al processo di modernizzazione. La società nord americana, la più moderna al mondo,
è meno secolarizzata della società europea. Non sembra comunque che il processo di
secolarizzazione conduca alla graduale estinzione della religione e della religiosità.
Conduce ad una crescente specializzazione della religione che si costituisce come
sfera relativamente autonoma accanto ad altre sfere, relativamente autonome.
La sociologia tratta la religione come un fenomeno sociale, senza dare risposte sulla
veridicità delle credenze religiose. Le principali interpretazioni sociologiche della
religione sono cinque.
- La religione come ideologia delle classi dominanti. Per gli illuministi la religione
è un fenomeno che oscura le menti e impedisce di vedere la luce della ragione.
Con il materialismo dialettico di Marx questa interpretazione assume una
formulazione teorica consistente. Per Marx, la storia è lotta di classe e la
religione, spostando nell’aldilà il momento del riscatto dalle sofferenze terrene,
ostacola il processo mediante il quale gli oppressi prendono coscienza dei
rapporti sociali di dominio dei quali sono vittime (religione = “oppio dei popoli”).
La religione è per lui una sovrastruttura ideologica la cui funzione sarebbe
esclusivamente quella di occultare i rapporti di dominio. Il processo di
secolarizzazione sarebbe il logoramento di questa sovrastruttura, mostrando
così i rapporti di oppressione. Le religioni, in forma istituzionalizzata, sono state
storicamente un potente alleato per le classi dominanti per garantire l’ordine
sociale e stabilità nei rapporti di potere e autorità. Tuttavia non è sicuro che
questa funzione sia la sola capace di spiegare la presenza del fenomeno
religioso nelle società umane.
Differenziazione e uguaglianza
Stratificazione e classi sociali
Per stratificazione sociale si intende, in sociologia, il sistema delle disuguaglianze
strutturali di una società, nei suoi due principali aspetti: quello distributivo,
riguardante l’ammontare delle ricompense materiali e simboliche ottenute dagli
individui e dai gruppi di una società e quello relazionale, che ha invece a che fare con i
rapporti di potere esistenti fra di essi. Definiamo perciò strato un insieme di individui
che godono della stessa quantità di risorse o che occupano la stessa posizione nei
rapporti di potere. Gli strati hanno assunto storicamente forme specifiche assai
diverse, caste, ceti e classi. Molto diversi sono i criteri di strutturazione delle
disuguaglianze. Grande importanza hanno il genere e l’appartenenza etnica.
La stratificazione sociale è esistita in tutte le società che conosciamo? Per coloro che
adottano una definizione come la nostra di stratificazione sociale, la risposta è
affermativa. Anche nelle società più semplici esistono disuguaglianze strutturate
basate sul genere o sull’età.
Ci sono delle società che, pur presentando disuguaglianze di genere e età, sono
tendenzialmente egualitarie dal punto di vista delle risorse materiali e simboliche di
cui dispongono le famiglie. Sono quelle di caccia e raccolta e le orticole.
Gli antropologi hanno individuato due motivi principali della natura egualitaria delle
società di caccia e raccolta. Il primo è il nomadismo di queste popolazioni, che
naturalmente ostacola l’accumulazione di grandi quantità di risorse. Il secondo è
l’applicazione del principio di reciprocità, che porta a condividere con gli altri le scarse
risorse disponibili, è quello che permette di massimizzare le possibilità di
sopravvivenza (animale ucciso non si può conservare, allora lo si condivide).
La forma a campana della curva della disuguaglianza dipende da due diversi fattori: le
dimensioni del surplus economico e la concentrazione del poter politico. A parità di
altre condizioni, le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza crescono
all’aumentare del surplus. Perché possano iniziare ad esistere famiglie che hanno una
quantità di risorse maggiore delle altre è necessario che si superi la fase dell’economia
di sussistenza. E in effetti, fu con l’avvento delle società agricole che si ebbe un forte
aumento della produttività e si iniziò a produrre surplus economico.
- In ogni società, il numero delle persone dotate di quelle capacità che possono
essere convertite nelle competenze appropriate ad occupare quelle posizioni è
“limitato” o “scarso”.
- Per indurre le persone capaci a sottoporsi a questi sacrifici, è necessario dar loro
delle ricompense “materiali” e “morali”, cioè far sì che le posizioni che tali
persone andranno ad occupare godano di un livello di reddito e di prestigio
maggiore delle altre.
Le classi sociali secondo Marx. Nonostante fosse stato usato anche prima, il
concetto di classe sociale fece ufficialmente la sua prima comparsa nel 1848, con la
celebre affermazione del Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels.
Paradossalmente però, Marx non ci ha lasciato né una trattazione organica né una
definizione formale del concetto di classe. Inoltre, nelle molte pagine su questo tema
che si ritrovano nelle sue opere, egli fa un uso poco preciso del termine “classe”
(Klasse), che alterna a quello di “ordine” o di “ceto” (Stand), come se fossero sinonimi.
Nelle sue linee essenziali la teoria di Marx è chiara. La base delle classi è nella sfera
economica. Ma ciò non significa che le differenza vadano ricercate nel livello di
reddito, e che tutto si riduca alla contrapposizione tra ricchi e poveri. In ogni società,
l’asse portante delle classi si trova nei rapporti di produzione e nelle relazioni di
proprietà. Un piccolo numero di persone ha la proprietà dei mezzi di produzione (la
terra, gli strumenti di lavoro), mentre la maggior parte della popolazione ne è esclusa.
Altre classi che Marx prende in considerazione nelle sue analisi storiche possono
essere collocate senza troppa fatica nel suo schema di fondo. Il caso è della piccola
borghesia (artigiani o commercianti) o dei contadini, perché sono formate da persone
che sono proprietarie dei mezzi di produzione e acquistano forza lavoro sul mercato,
ma anche al tempo stesso svolgono un lavoro manuale. Ma altre ancora non sono
certamente definibili in termini di rapporti di produzione e di proprietà. Lo si può dire
per il sottoproletariato che in tutte le grandi città forma una classe nettamente
distinta dal proletariato industriale, nel quale si reclutano ladri e delinquenti di ogni
genere, che vivono dei rifiuti della società.
Secondo la teoria di Marx, le classi sono dei raggruppamenti omogenei di persone che
hanno lo stesso livello di istruzione, lo stesso livello di consumo, le stesse abitudini
sociali, gli stessi valori e le stesse credenze, la stessa concezione della vita e del
mondo. Sono sostanzialmente dei soggetti collettivi, che vivono e pensano in modo
simile, delle forze sociali, degli attori storici, capaci in certe condizioni di azione
unitaria.
Ma secondo Marx le classi erano degli attori storici solo potenzialmente. Egli infatti
distingueva fra classe in sé e classe per sé. Con la prima espressione indicava un
insieme di individui che si trovano nella stessa posizione rispetto alla proprietà dei
mezzi di produzione. Usava la seconda quando questi individui prendevano coscienza
di avere degli interessi comuni e di appartenere alla stessa classe. Anche se Marx non
ha mai affrontato sistematicamente questo problema, nelle pagine dei suoi libri vi
sono importanti intuizioni sui tre tipi di fattori che favoriscono il passaggio dalla classe
in sé a quella per sé. Nel primo rientrano quelli che, facilitando le comunicazioni fra gli
appartenenti ad una classe, aumentano la visibilità e la trasparenza della struttura di
classe. Agisce in questo senso la concentrazione degli operai in grandi stabilimenti.
Opposta è invece la situazione dei contadini coltivatori, le cui condizioni di lavoro
rendono difficili le comunicazioni. Il secondo tipo di fattori che favoriscono questo
passaggio è costituito da quelli che riducono le stratificazioni interne ad una classe.
Quanto più una classe è omogenea, tanto più facile è che i suoi comportamenti
acquistino coscienza di farne parte. Di conseguenza, i processi migratori che fanno sì
che una classe sia formata da strati culturalmente assai diversi ostacolano la
formazione di classi per sé. Invece ha avuto storicamente effetti di segno opposto
l’introduzione nelle fabbriche delle macchine che, portando al superamento dei vecchi
mestieri artigiani e provocando un abbassamento del livello di qualificazione richiesto,
hanno reso la classe operai sempre più omogenea. I fattori del terzo tipo sono quelli
che rendono più rigide le barriere di classe. Possiamo dire che, per Marx, quanto
maggiore è la mobilità esistente in una società, tanto più difficile è che si formino
classi per sé.
Classi, ceti e gruppi di potere secondo Max Weber. Weber ha elaborato una
teoria della stratificazione sociale a più dimensioni. Egli era infatti convinto che le fonti
delle disuguaglianze e i principi fondamentali di aggregazione degli individui
andassero ricercati in tre diverse sfere: l’economia, la cultura e la politica. Nella prima,
gli individui si univano sulla base di interessi materiali comuni, formano classi sociali;
nella seconda seguendo comuni interessi ideali e dando origine a ceti; nella terza, si
associavano in partiti o in gruppi di potere per il controllo dell’apparato di dominio. Per
Weber come per Marx, il possesso e la mancanza di possesso costituiscono le
categorie fondamentali di tutte le situazioni di classe. Per Weber il criterio di fondo
dell’appartenenza a una classe era la situazione di mercato. I mercati erano tre: del
lavoro, del credito e delle merci. Nel primo si contrapponevano la classe operaia
(vendevano forza lavoro) e gli imprenditori (che l’acquistavano); nel secondo, debitori
e creditori; nel terzo, consumatori e venditori. Storicamente, l’importanza di questi tre
tipi di mercato per i rapporti e i conflitti di classe è mutata. Nella società capitalistica
tali conflitti derivano dal mercato del lavoro.
I ceti si ritrovano invece nella sfera della cultura. Essi sono comunità di persone con
uno stesso stile di vita (stesso gusto) e un forte senso di appartenenza. Essi si
distinguono l’uno dall’altro per il diverso grado di prestigio di cui godono. La situazione
di ceto è ogni componente tipica del destino di un gruppo di uomini, la quale sia
condizionata da una specifica valutazione sociale, positiva o negativa, dell’onore che è
legato a qualche qualità comune di una pluralità di uomini. Questo ha importanti
conseguenze. L’onore di ceto si esprime normalmente soprattutto nell’esigere una
condotta di vita particolare da tutto coloro i quali vogliono appartenere ad una data
cerchia. Connessa con ciò è la limitazione dei rapporti sociali. Tale limitazione si
esprime nel matrimonio e nella commensalità.
Tra la distribuzione della ricchezza e quella del prestigio vi è una relazione. Nella
società di antico regime non vi era una completa coincidenza fra la distribuzione delle
risorse economiche e quella del prestigio. Mentre gli aristocratici continuavano a
godere di un’alta considerazione sociale anche quando cadevano in miseria, i nuovi
ricchi venivano disprezzati e derisi dai nobili. Nella società capitalista, il rapporto fra
ricchezza e prestigio è considerevolmente cambiato, perché il mercato ignora ogni
considerazione della persona.
Le relazioni fra classi e ceto sono assai complesse. Se alcuni ceti nascono in seno alle
classi, altri le trascendono. I primi hanno origine dalla divisione del lavoro,
dall’articolazione in occupazioni. I secondi sono invece di origine etnica o religiosa. In
genere le classi hanno una maggiore eterogeneità interna dei ceti e dunque sono
meno frequentemente comunità morali e più difficilmente si mobilitano per fini
collettivi. Per migliore la loro situazione, i ceti seguono la strategia della chiusura
sociale, restringendo cioè gli accessi alle risorse e alle opportunità ad uno strato
limitato di persone dotate di certi requisiti. Nelle società di antico regime, la chiusura
sociale aveva luogo in base a criteri di stirpe e di lignaggio, rifacendosi agli alberi
genealogici delle persone. Nei paesi occidentali essa avviene oggi attraverso controlli
ed esami, rilasciando quei titoli e quei certificati necessari per esercitare determinate
professioni.
Perché si abbia squilibrio di status non è sufficiente una differenza nelle posizioni
occupate. Necessario è anche che questa sia in contrasto con le aspettative della
società. La situazione di squilibrio di status è causa di frustrazioni e di tensioni per
colui che vi si trova e può provocare il suo isolamento sociale, l’emergere di disturbi
psicosomatici o la sua politicizzazione o radicalizzazione. Alcune ricerche hanno
mostrato che le conseguenze sono diverse a seconda del rapporto esistente fra status
ascritti e acquisiti. Quando lo status ascritto (etnico o di genere) è alto, mentre quello
acquisito (titolo di studio o occupazione) è basso, l’individuo tende a reagire in modo
intrapunitivo (cioè ricerca in se stesso la causa dello squilibrio) e dunque a soffrire di
disturbi psicosomatici. Quando invece è alto lo status acquisito e basso quello ascritto,
l’individuo tende a rispondere in modo extrapunitivo (attribuendo alla società l’origine
dei suoi mali) e dunque a desiderare un cambiamento nella distribuzione del potere.
I più importanti sistemi di stratificazione sociale esistiti nella storia dell’umanità sono
stati quattro: schiavitù, caste, ceti e classi. In una data società, tuttavia, ne possono
coesistere almeno due.
Schiavitù
La schiavitù può esistere solo in un’economia poco sviluppata che richieda grandi
quantità di lavoro umano. Tuttavia, nelle varie società, il lavoro degli schiavi è stato
usato in settori molto diversi. Se quelli occupati nel commercio o nelle famiglie romane
potevano godere di una cera considerazione sociale ed arricchirsi, coloro che erano
condannati al lavoro manuale conducevano una vita assai dura (piantagioni nelle
Americhe o miniere nell’antica Roma).
Il sistema delle caste esiste in India da almeno 2.500 anni, anche se nel corso di
questo lunghissimo periodo ha subito vari cambiamenti. Il termine casta è invece di
origine più recente. Esso fu usato per la prima volta a proposito dell’India dai
portoghesi nel significato di razza. Ma viene dal latino castus, che significa puro,
disinteressato, integro, non contaminato.
- In primo luogo, essa è un ceto chiuso (Weber). ciò significa che si entra in una
casta solo alla nascita, per successione. La casta è caratterizzata
dall’endogamia (sposarsi all’interno del gruppo). A volte è permessa
l’ipergamia, di una donna con un uomo di casta superiore, perché la donna è
inferiore all’uomo.
Il criterio della purezza è alla base delle relazioni fra tutte le caste. Nella società
indiana vi sono norme precise sulle persone con cui è permesso mangiare, su chi deve
preparare il cibo, da chi si possono accettare i vari tipi di cibo, con chi si può fumare la
pipa.
La società articolata in ceti, che è esistita in Europa per alcuni secoli prima della
rivoluzione francese, aveva alcune caratteristiche distintive. In primo luogo, gli status
ascritti, quelli cioè che vanno al di là del controllo dell’individuo, avevano un’enorme
importanza. In linea di principio, ciascuno faceva parte di un ceto fin dalla nascita e vi
restava per tutta la vita, quali fossero gli sforzi per uscirne. In secondo luogo, fra i ceti
vi erano differenze sociali non solo di fatto, ma anche di diritto. In terzo luogo,
l’appartenenza ad un ceto conferiva un certo grado di prestigio, ma richiedeva un
particolare stile di vita e dunque imponeva obblighi ed inibizioni (per gli aristocratici
coraggio, lealtà alla parola data).
Il quadro più preciso che abbiamo sulle dimensioni dei diversi ceti è quello delineato
da Gregory King riguardante la società inglese del 1688. Il ceto più basso era
formato da vagabondi, lavoratori dei campi, braccianti, operai, servitori. Ne faceva
parte ben il 56 % delle famiglie inglesi. Secondo King, erano famiglie che vivevano a
detrimento del benessere della nazione, perché non erano economicamente
indipendenti e si trovavano spesso in situazioni di miseria. Un gradino più in alto vi era
il ceto medio, costituito da piccoli proprietari terrieri, contadini coltivatori, artigiani,
negozianti ( 28 % delle famiglie). Immediatamente sopra vi era un ceto assai più
piccolo, formato da mercanti e commercianti di esportazione.
Al vertice vi erano i tre ceti più elevati. Il primo era formato dalle persone con cariche
ed uffici importanti, gentiluomini, i professionisti, gli ecclesiastici. Del secondo
facevano parte gli esquires, i cavalieri e i baronetti. Infine, il terzo era composto da un
piccolissimo numero di famiglie della nobilitas major, insignite del titolo di pari. Anche
tra queste famiglie vi era un gerarchia, che aveva al vertice i duchi, seguiti dai
marchesi, dai conti, i visconti e i baroni. Ma la più importante divisione passava fra i
primi tre e i secondi due.
Tra questi ceti vi erano grandi differenze di reddito e soprattutto di potere e prestigio.
Per primo, basterà ricordare che i pari sedevano di diritto alla Camera dei Lords, che
aveva sicuramente un forte peso politico. Un modo per segnalare le differenze di
prestigio era l’uso dei titoli e delle forme di indirizzo (i pari My Lord, i cavalieri Sir, i
gentiluomini Mr.). All’estremo opposto venivano tutti chiamati per nome e cognome.
Si è stimato che in Europa, nel XVIII secolo, su 190 milioni di abitanti, i nobili non
fossero più di 3 o 4 milioni (dal 1,5 al 2 %). Anche se le dimensioni dei ceti variavano,
vi erano molte somiglianze fra i vari paesi europei. Oltre ai nobili, vi era ovunque un
gran numero di famiglie che vivevano in povertà. Il loro numero non era costante, ma
variava a seconda dell’economia e aumentava fortemente quando vi era un’annata di
cattivo raccolto. Un altro fatto importante del pauperismo è stata in Europa, dopo il
XVI secolo, la crescita demografica. Ne è la prova il fatto che la quota dei poveri era
più alta nei paesi densamente popolati (Paesi Bassi, Inghilterra).
Nelle città europee vi erano in questo periodo tre cerchi concentrici di persone povere.
Il cerchio interno (dall’8 al 4 %) era formato dai poveri strutturali, da coloro cioè
che, a causa dell’età o delle condizioni di salute, non erano in grado di guadagnarsi da
vivere e facevano i mendicanti a tempo pieno o dipendevano dall’assistenza pubblica.
Nel secondo cerchio rientrava il 20 % della popolazione, i quali ricevevano
occasionalmente elemosina. Erano i poveri congiunturali o della crisi, lavoratori
occasionali o con bassi salati, che si trovavano in serie difficoltà ogni volta che
aumentava il prezzo del pane. Infine, nel terzo cerchio (50 % della popolazione) vi
erano i poveri non indigenti, cioè quegli artigiani, piccoli commercianti e impiegati
di basso rango che, quando vi era una grave crisi economica (provocata da
un’epidemia di peste) dovevano far ricorso alla pubblica assistenza.
Le classi nelle società moderne
Il primo dei due schemi è stato quello proposto dall’economista Paolo Sylos Labini, ed
è basato principalmente sul tipo di reddito percepito da un individuo. Vi sono tre
categorie di reddito: la rendita (proprietari fondiari), il profitto (capitalisti) e il salario
(operai). Oltre a queste tre, vi sono altre importanti categorie di reddito: i redditi misti,
da lavoro e capitale, propri dei lavoratori autonomi; gli stipendi degli impiegati; i
redditi di coloro che hanno occupazioni precarie e saltuarie, che sono bassi, incerti e
variabili.
Sulla base di queste categorie di reddito, Sylos Labini ha distinto cinque classi
sociali, ciascuna delle quali composta da varie sottoclassi:
- Borghesia. Formata dai grandi proprietari dei fondi rustici e urbani (rendite),
dagli imprenditori e dagli altri dirigenti di società per azioni (profitti e redditi
misti), da professionisti (redditi misti).
- Classe operai. Formata dai braccianti e dai salariati fissi in agricoltura, dagli
operai dell’industria e dell’edilizia e da quelli del terziario (salari).
In base alle relazioni di lavoro, gli occupati possono essere distinti in tre grandi
categorie: gli imprenditori, che sono coloro che acquistano il lavoro altrui ed esercitano
autorità e controllo su di esso; i lavoratori autonomi senza dipendenti, che non usano il
lavoro altrui né vendono il proprio; i lavoratori dipendenti, che invece vendono il loro
lavoro. Tenendo inoltre conto della situazione di mercato e del settore di attività
economica (dicotomizzato in agricolo e non agricolo) si giunge al seguente schema a
sette classi.
Classe III. Costituita dagli impiegati di livello superiore e inferiore e dagli addetti alle
vendite.
Classe IV. Comprende la piccola borghesia urbana e quella agricola. Coloro che fanno
parte di questa classe godono di una notevole autonomia nel lavoro. Vi è una certa
eterogeneità di reddito e la sicurezza varia in base alla congiuntura economica.
Classe V. Costituita dai tecnici di livello più basso e dai supervisori dei lavoratori
manuali. Coloro che occupano queste posizioni godono di un livello di reddito
abbastanza buono e di una discreta sicurezza di impiego. Esercitano una qualche
autorità sui lavoratori di livello inferiore. Modeste le possibilità di carriera.
Fra i due schemi presentati vi sono notevoli somiglianze. Alla borghesia corrisponde la
classe I e gran parte della classe II; alla classe media impiegatizia, la classe III; alla
piccola borghesia urbana, la IV; alla classe operaia, le tre classi V, VI, VII. Lo schema di
Goldthorpe non comprende sottoproletariato.
Trasformazioni di grande rilievo sono avvenute, negli ultimi due secoli, nella
stratificazione sociale di tutti i paesi occidentali. Esse hanno riguardato il tipo e il
numero delle classi sociali, la loro composizione e il loro peso, i confini e i rapporti fra
di esse.
Questi mutamenti sono in parte ricollegabili allo sviluppo, o al declino, che vi è stato in
tutto questo periodo, dei diversi settori di attività economica, allo spostamento cioè
della popolazione attiva prima dall’agricoltura all’industria e poi da questa al terziario
e ai servizi. All’inizio del XIX secolo, in tutta Europa, la maggioranza assoluta della
popolazione faceva parte delle due classi agricole (braccianti e coltivatori proprietari).
Il processo di industrializzazione ha determinato il declino di queste due classi,
facendo nascere quella operaia di fabbrica. Le dimensioni del proletariato industriale
sono gradualmente aumentate, finché questa è diventata la classe a cui apparteneva
la quota più ampia della popolazione. D’un tratto, questa tendenza ha subito una
brusca inversione e il peso quantitativo di questa classe ha cominciato a diminuire.
Una volta che il processo di industrializzazione ha raggiunto il culmine, ha iniziato a
svilupparsi il settore dei servizi, del settore impiegatizio e professionale. Dalla società
industriale si è passati a quella postindustriale.
Questi processi sono avvenuti in tutti i paesi occidentali, ma in tempi diversi. Il declino
delle classi agricole, l’espansione e la contrazione della classe operaia di fabbrica
sono iniziati prima in Inghilterra e in altri paesi dell’Europa settentrionale. Essi hanno
avuto luogo più tardi in quella meridionale.
Cambiati sono anche i confini e le relazioni fra la classe media impiegatizia e quella
operaia industriale. Vi sono somiglianze e differenze fra di esse. Nessuna delle due
possiede i mezzi di produzione e per vivere devono vendere la loro forza lavoro sul
mercato. Ma la loro condizione di lavoro è diversa, gli operai svolgono mansioni
“sporche” (colletti blu), per i quali non serve un lungo periodo di addestramento; gli
impiegati svolgono funzioni di direzione, pianificazione, controllo e amministrazione
che richiedono una buona qualificazione (colletti bianchi). Ultimamente queste
differenze nelle condizioni di lavoro sono diminuite grazie, ai mutamenti tecnologici,
che hanno reso il lavoro degli operai meno gravoso.
Altri mutamenti nella stratificazione sociale hanno a che fare con i processi di
proletarizzazione. Questa espressione viene usata per indicare il passaggio di una o
più persone dalla piccola borghesia al proletariato, cioè dalla condizione di lavoratore
autonomo, proprietario dei mezzi di produzione, a quella di lavoratore salariato,
dipendente da un imprenditore pubblico o privato. Tale processo è diverso da quello di
caduta di livello di vita al di sotto della sussistenza, o di perdita di prestigio o di
dequalificazione professionale (pauperizzazione).
L’aumento del numero di questi posti di lavoro a bassa qualificazione non è avvenuto
nella stessa misura in tutti i paesi e nei tre settori nei quali è possibile distinguere i
servizi. Esso è stato più forte nei servizi al consumatore (ristoranti, bar) e minore nei
servizi sociali (salute, istruzione), mentre non si è verificato nei servizi alle imprese
(consulenza manageriale, servizi legali), nei quali si sono invece moltiplicati i posti di
lavoro ad alto livello di qualificazione. Vi sono differenze fra i paesi. Negli Usa i
Macjobs (servizi al consumatore) danno poca possibilità di carriera e offrono poca
sicurezza di lavoro, sono svolti da giovani o anziani; mentre in Svezia (servizi sociali)
offro più possibilità di carriera e sono le donne prevalentemente a occupare questi
posti.
La sottoclasse
Gli schemi di classificazione che abbiamo seguito per analizzare i mutamenti nella
stratificazione sociale prendono in considerazione solo le persone occupate, mentre
noi sappiamo che un’alta quota della popolazione non lo è. Nessuno studioso è riuscito
a presentare stime soddisfacenti delle dimensioni di questa classe e delle sue
variazioni nel tempo.
Alcuni sociologici hanno osservato che nei paesi occidentali si è formata e si sta
sviluppando una nuova classe, la sottoclasse (underclass) e che è costituita da tutte
le persone che si trovano in uno stato permanente di povertà e che, non essendo in
grado di procurarsi da vivere con un’attività economica legale, dipendono
dall’assistenza pubblica.
Non vi è accordo fra i sociologi riguardo alle caratteristiche di fondo della sottoclasse e
alle condizioni sociali che la rendono possibile. Le concezioni prevalenti sono due:
una culturalistica, l’altra strutturalista. Per la prima, la sottoclasse è costituita da
tra gruppi (particolarmente diffusi nella popolazione di colore): ragazze madri, persone
espulse dal mercato del lavoro, delinquenti. E lo sviluppo di questi tre gruppi è dovuto
alle politiche sociali liberali e al welfare state. Ben lungi dall’aiutare la popolazione
povera a darsi da fare per uscire dal suo stato (giovani che trovano lavori a redditi
bassi, preferiscono l’aiuto dello stato che gli consente un tenore di vita analogo), le
riforme sociali hanno favorito il formarsi, nella sottoclasse, di atteggiamenti di
rassegnazione, di demoralizzazione, di cinismo.
Negli ultimi decenni, hanno sostenuto alcuni sociologi (Clark), man mano che le
gerarchie tradizionali perdevano di importanza ed emergevano nuove differenze
sociali, l’analisi di classe si è rilevata sempre più inadeguata. Il concetto di classe, per
quanto utile per lo studio dei precedenti periodi storici, è sempre più superato (la
classe non influisce più sul voto).
Vi sono tuttavia altri sociologi che ritengono che il concetto di classe sociale sia utile
anche per l’analisi delle società contemporanee. Essi sono ben consapevoli dei grandi
cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi decenni in queste società e in particolare
dal fatto che l’importanza del lavoro, nella vita degli individui, è diminuita. Ma sono
anche convinti che la classe sociale resti un criterio significativo di strutturazione delle
disuguaglianze e che anche oggi l’appartenenza ad una classe influisca su molti
aspetti della vita di un individuo.
I risultati delle ricerche condotte nei diversi paesi occidentali continuano a mostrare
che la classe sociale esercita ancora un’influenza rilevante su molte forme di
comportamento. Oggi giorno, le ricerche più sofisticate mostrano che, fra classe
sociale e preferenza di voto vi è anche oggi una relazione significativa. Questo vale
anche per la socializzazione. Per comprende l’importanza che conservino le classi
sociali si possono osservare due questioni: i mutamenti che vi sono stati negli ultimi
decenni nella distribuzione delle risorse economiche e la relazione esistente fra
appartenenza ad una classe sociale e durata di vita.
Se la divisione in classi sociali avesse perso gran parte della sua importanza, non vi
sarebbe più una forte disuguaglianza nella distribuzione delle risorse economiche fra
gli individui e le famiglie.
Nei paesi occidentali vi è ancora una forte disuguaglianza nella distribuzione delle
risorse economiche. La disuguaglianza è maggiore nella distribuzione del patrimonio
che in quella del reddito.
I dati sulla disuguaglianza nella distribuzione del reddito (Banca Mondiale, 2005)
mostrano che le disuguaglianze sono maggiori nei paesi più poveri, in particolare in
Africa e in America Latina. Ma anche fra i paesi ad altro livello di sviluppo vi sono delle
differenze. Da un lato, abbiamo i paesi nordici, dove le disuguaglianze sono molto più
contenute che altrove. Dall’altro lato ci sono quei paesi dove essere sono più forti
(Portogallo, Usa, Italia).
Per quanto scarsi e frammentati, i dati disponibili indicano che, sia nel passato
prossimo che in quello più remoto, vi sono stati in questo campo importanti
mutamenti. Essi sono avvenuti in genere molto lentamente e, contrariamente a
quanto si pensa, non sono andati nella stessa direzione. Eloquenti sono, da questo
punto di vista, i risultati delle ricerche condotte in Inghilterra, unico paesi di cui si
posseggono i dati storici della distribuzione del reddito degli ultimi tre secoli. Secondo i
dati di questa serie, la disuguaglianza nella distribuzione del reddito si è ridotta nel
XVIII secolo, è aumentata in quello successivo, ed è di nuovo diminuita nel XX, nel
trentennio successivo alla seconda guerra mondiale.
Negli ultimi decenni si è avuta una nuova inversione di tendenza, il coefficiente di Gini
ha ripreso a crescere.
L’aumento della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi che si è avuto nei paesi
occidentali (Usa, Germania, Francia, Nuova Zelanda) è riconducibile a vari fattori.
- Il secondo fattore è l’aumento del tasso di attività delle donne e del numero di
mogli che percepiscono buone retribuzioni, che ha favorito il passaggio di
alcune famiglie dalla fascia di reddito media a quella alta.
- Il terzo fattore è stato la crescita del numero di divorzi, che ha fatto cadere una
parte delle famiglie composte da madre e figli dallo strato medio a quello basso.
Alcune ricerche mostrano condotte in Gran Bretagna negli anni venti e trenta
mostrano che vi era una relazione inversa fra classe sociale di appartenenza e tasso
di mortalità, ossia che, ad ogni età, la quota di persone che moriva era tanto più alta
quanto più bassa era la classe sociale. I mutamenti che sono avvenuti da allora hanno
fatto pensare che questa relazione fosse del tutto scomparsa o indebolita. Il primo è
che si è avuto uno straordinario miglioramento nelle condizioni abitative e
nell’alimentazione di tutti gli strati della popolazione dei paesi occidentali. Il secondo è
che le malattie infettive non uccidono più come un tempo. Il terzo è che, con
l’estendersi del welfare state, l’assistenza sanitaria è stata generalizzata a tutti. Le
numerose ricerche svolte negli ultimi quarant’anni hanno mostrato che la relazione fra
classe sociale e durata della vita è ancora oggi molto forte; anzi alcune ricerche
mostrano inoltre che negli ultimi decenni le differenze fra classi sociali e durata della
vita, ben lungi dal ridursi, o sono rimaste costanti o sono addirittura aumentate.
La mobilità sociale
Tipi di mobilità sociale
Il passaggio fra una classe sociale e l’altra possono essere esaminati mettendo a
confronto la posizione della famiglia di origine di un individuo con quella che egli ha
raggiunto in un determinato momento della sua vita. Si parla di mobilità sociale
intergenerazionale. Ma il confronto può essere fatto tra posizioni che una persona
ha occupato nel corso della sua esistenza (mobilità sociale intragenerazionale o
di carriera).
Le distinzioni fatte si riferiscono tutte alla mobilità individuale. Del tutto diversa è la
mobilità sociale collettiva. Con questa espressione si intendono i movimenti verso
l’alto o verso il basso di un intero gruppo rispetto a tutti gli altri gruppi sociali (in Italia
la professione di notaio dal 1913 viene esercitata solo dai laureati in giurisprudenza,
prima con soli due anni di laurea).
Lo studio della mobilità sociale è stato intrapreso da due diversi angoli visuali e per
dare risposta a due diversi interrogativi teorici.
Il primo ha a che fare con il concetto di apertura di una società o di fluidità sociale,
cioè con le opportunità che le persone con origini sociali diverse hanno di raggiungere
le varie posizioni nel sistema di stratificazione. Gli studiosi che si richiamano a questa
impostazione si chiedono di solito se l’apertura di una determinata società sia mutata
nel corso del tempo, sia aumentata o diminuita, oppure se essa sia maggiore o minore
di quella di altre società, e cercano di individuare i fattori che favoriscono o ostacolano
la fluidità sociale. Sono interrogativi che gli studiosi di scienze sociali si sono posti da
tempo.
Il primo studio sistematico sulla mobilità sociale è stato scritto nel 1927 da Pitirim
Sorokin, che di questo tema aveva una conoscenza personale diretta. Nel suo libro
analizzava la mobilità sociale in numerosi paesi per un lunghissimo arco temporale
(dall’antica Roma alla fine dell’Ottocento) basandosi su una ricca documentazione.
Una parte di questa è costituita da dati statistici, ricavati non da inchieste
sistematiche su campioni rappresentativi di tutta la popolazione di un paese, ma sulle
cosiddette “indagini di èlite”, riguardanti cioè le origini sociali di alcuni gruppi
particolari (sovrani, santi, dirigenti, uomini di genio). Il libro di Sorokin è un classico.
Alcune delle sue tesi di fondo sono ancora oggi valide. Tuttavia, dal punto di vista della
raccolta e dell’analisi dei dati, la ricerca di mobilità sociale ha fatto molti passi avanti
negli ultimi decenni, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Da allora è che i
sociologi hanno iniziato a condurre indagini sistematiche su campioni rappresentativi
della popolazione di un paese.
L’india e le caste
In una società indiana in cui domina il sistema di caste (ceto chiuso), non è possibile
alcuna forma di mobilità sociale intergenerazionale o intragenerazionale. La religione
indù ammette tuttavia una forma particolare di mobilità sociale: quella fra una vita e
l’altra.
Si è ritenuto che per millenni, in questo sistema mancasse ogni forma di mobilità
sociale. Grazie a molte ricerche storiche e sociologiche, oggi sappiamo che questo non
è vero. Anche nel passato quello della casta non è mai stato un sistema
completamente rigido; se la mobilità individuale era limitata ed effimera, quella
collettiva aveva una certa importanza. Le caste intermedie e quelle inferiori tentavano
spesso di conquistare una posizione più elevata nella scala sociale. Perché questi
tentativi riuscissero erano necessarie almeno due o tre generazioni. Quando avevano
successo, non provocavano alcuna trasformazione strutturale del sistema di casta. Ciò
che avveniva era solo che la posizione gerarchica di due o più caste all’interno di
questo sistema mutava e mentre una saliva, un’altra scendeva.
In Cina, per molti secoli, il rango sociale dipendeva dal numero di esami sostenuti.
Quando introdusse il sistema degli esami, l’imperatore stabilì che solo coloro che lo
superavano potevano fare i funzionari governativi, cioè entrare a far parte di quel ceto
dei letterati che era al vertice della gerarchia sociale. In questo modo, si poneva fine
alla prerogativa degli aristocratici di diventare funzionari in virtù del loro status
familiare.
Per capire in che modo il sistema degli esami favorì la mobilità sociale, alcuni
studiosi hanno condotto imponenti ricerche sui documenti riguardanti decine di
migliaia di casi di persone che, dalla metà del XVI alla fine del XIX secolo, hanno
superato questi esami. Da tali ricerche è emerso che una quota rilevante di esse ( 30
%) proveniva da famiglie di non funzionari, mercanti, artigiani o contadini, cioè di
mobilità ascendenti. Per quanto in linea di principio aperti a tutti, gli esami del
sistema cinese richiedevano tali e tante risorse economiche per la loro preparazione
che le persone provenienti dai ceti più bassi non avevano quasi alcuna possibilità di
superarli. Vero è, d’altra parte, che il sistema di esami che fu introdotto in Cina in un
periodo storico in cui in Europa si stava formando il sistema feudale, era
straordinariamente avanzato e si basava su un’idea di uguaglianza che non aveva
equivalenti in nessun’altra parte del mondo a quell’epoca. Il sistema cinese degli
esami ha reso più facile rispetto all’Europa dell’antico regime il passaggio dal ceto dei
ricchi mercanti a quello più elevato (funzionari in Cina e nobiltà in Europa).
I risultati delle ricerche condotte dagli storici negli ultimi anni ci fanno pensare che la
mobilità relativa fosse in passato minore di oggi. Essi ci dicono inoltre che alcune
caratteristiche ascritte avevano un tempo un peso molto maggiore che nella società
contemporanea.
Sappiamo che, almeno per due secoli, le famiglie aristocratiche e quelle borghesi di
tutta Europa e quelle dei contadini di alcune sue zone hanno seguito il modello
successorio patrilineare indivisibile, che prevedeva che tutta l’eredità paterna andasse
a uno solo dei figli maschi, di solito il primogenito. Ai cadetti veniva data una somma
di denaro e alle figlie una dote. Ciò vuol dire che solo un figlio restava nello stesso ceto
del padre, mentre tutti gli altri rischiavano di iniziare la loro vita in un ceto diverso, di
solito più basso; i cadetti per evitare questa mobilità discendente o restavano nella
famiglia del primogenito, oppure cercavano di farsi strada con la carriera religiosa.
Nella società di antico regime vi era una notevole mobilità assoluta, che non era solo
di gruppo, ma anche individuale. Molto forte era la mobilità intragenerazionale. In
parte essa era dovuta a quel fenomeno che gli storici chiamano di circolazione dei
giovani tra le famiglie. I genitori mandavano spesso i loro figli per alcuni anni, prima
che si sposassero, a servizio in casa di altri, essi interagivano con un autorità diversa
da quella dei genitori e svolgevano attività produttive (apprendisti, garzoni, stallieri).
Quest’uso era diffuso nelle regioni centro – settentrionali d’Europa e riguardava più
della metà dei giovani dai 15 ai 29 anni.
In altre zone d’Europa, flussi consistenti di giovani lasciavano i genitori e i parenti per
emigrare in un centro urbano e trovare un’occupazione. Spesso, sia chi andava a
servizio in casa di altri sia chi emigrava in città sperimentava quella che viene oggi
definita mobilità con ritorno alle origini per indicare coloro che, quando lasciavano
la famiglia, occupano una posizione diversa da quella del padre, per ritornare poi al
punto di partenza dopo un certo numero di anni.
Anche un nobile, nel corso della sua vita, poteva fare l’esperienza del
declassamento, della mobilità sociale discendente. In Italia e in alcune altre zone
europee, coloro che si trovavano in questa situazione venivano chiamati poveri
vergognosi. Molti sforzi furono fatti per attenuare o occultare questi casi di mobilità
sociale discendente, che rappresentavano un’infrazione alle norme della società per
ceti. Nel XV e nel XVI secolo, nelle città italiane si moltiplicarono le istituzioni
assistenziali che distribuivano in segreto elemosina a questi poveri vergognosi, che
non potevano né lavorare né mendicare senza perdere l’onore.
Nelle società del passato i tassi di mobilità assoluta inter e intragenerazionale non
dipendeva tanto dal grado di chiusura dei ceti elevati, ma dalla dimensione dei vari
ceti esistenti. Nel 1678, nelle campagne di Prato, oltre agli artigiani, vi erano tre
gruppi sociali agricoli (contadini proprietari, mezzadri, pigionali). Questi ultimi erano
lavoratori senza casa e senza stalla che coltivavano piccoli appezzamenti poco fertili
che non potevano diventare poderi. Nel secolo successivo la popolazione aumentò del
50 %, mentre il numero dei poderi non aveva subito variazioni. Così, essendo il
numero di famiglie mezzadrili rimasto costante, le persone in più o erano salite nello
strato dei contadini proprietari o più spesso erano cadute in quello dei pigionanti.
2) la seconda posizione, in disaccordo con la prima, dice che fra i paesi sviluppati ve
ne sono alcuni che hanno livelli di mobilità sociale eccezionalmente elevati. Neppure
coloro che si richiamano alla prima teoria negano che vi siano delle differenze fra le
società industriali, ma le riducono esclusivamente al diverso livello di sviluppo,
economia più avanzata maggiore possibilità di mobilità assoluta e relativa. Per i
sostenitori della seconda posizione, la forte mobilità sociale di alcuni paesi è dovuta a
fattori di ordine culturale o politico. Gli studiosi che pensano che gli Usa siano il
paese in cui spostarsi da una classe all’altra è facile, ritengono che questo sia dovuto
alla peculiarità delle sue istituzioni e della sua cultura nazionale. Coloro invece che
credono che siano i paesi socialisti sorti nell’Europa orientale alla fine della seconda
guerra mondiale o quelli nordici socialdemocratici ad avere una notevole mobilità
sociale sono convinti che questo dipenda dalla loro storia politica, dal fatto che i
governi hanno preso delle misure volte a rendere più fluida la società.
3) Una terza teoria è stata formulata da Sorokin; nei paesi occidentali moderni, la
mobilità sociale era elevata, più di quanto lo fosse nel XVIII secolo. Ma allo stesso
tempo egli ha sostenuto che non vi era nessuna tendenza definita e costante verso un
aumento o una diminuzione dell’intensità e della diffusione della mobilità verticale.
Proprio risalendo indietro nel tempo si scorgevano continue fluttuazioni. Queste
continue fluttuazioni dipendevano dalla diversa importanza assunta dai fattori esogeni
e da quelli endogeni al sistema di stratificazione. I primi (rivoluzioni, guerre, invasioni)
provocavano di solito un aumento del tasso di mobilità. I secondi spingono in senso
inverso. In tutte le società, coloro che occupano le posizioni di vertice fanno tutto il
possibile per non lasciarle e dunque, quando cadono alcune barriere, cercano di
sostituirle con altre.
4) La quarta è la teoria sostenuta da Lipset e Zetterberg. Questi studiosi
condividono la tesi di Sorokin secondo cui tutti i paesi occidentali hanno oggi una forte
mobilità sociale (assoluta). Ma essi ritengono che l’andamento della mobilità sociale
sia alquanto simile nelle diverse società industriali occidentali, in contrasto con i
sostenitori della seconda tesi, e che, una forte mobilità sociale (assoluta) sia una
caratteristica specifica dell’industrializzazione. A differenza della prima tesi, essi non
pensano che il tasso di mobilità sociale continui a crescere con lo sviluppo economico.
Sono invece convinti che vi sia una sorta di “effetto soglia”, cioè che la mobilità delle
società diventi relativamente elevata quanto la loro industrializzazione, e quindi la loro
espansione economica, raggiunge un determinato livello. Cosa che si verifica nella
fase di decollo di questo processo.
Negli ultimi decenni, nel nostro paese, vi è stata una forte mobilità assoluta, grazie
alle trasformazioni che hanno avuto luogo nella struttura dell’occupazione e in
particolare all’espansione della classe media impiegatizia e alla contrazione di quelle
agricole. Tra le persone occupate da 18 a 65 anni il 59 % ha sperimentato una qualche
forma di mobilità sociale, ascendente o discendente, anche se si breve raggio, tra
classi contigue.
Per analizzare i due diversi aspetti della mobilità sociale (inter e intragenerazionale)
possiamo prendere in considerazione contemporaneamente tre punti: la classe sociale
della famiglia di origine, quella del soggetto alla prima occupazione e quella attuale.
Fra questi tre punti sono possibili cinque diversi tipi di itinerari sociali.
- Gli immobili. Sono coloro che restano nella stessa classe del padre e dunque
non sperimentano alcun tipo di mobilità sociale: né inter né intra.
- I mobili con ritorno alle origini sono coloro che, quando entrano nel mercato del
lavoro, occupano una posizione diversa da quella del padre. Dopo alcuni anni si
ritrovano al punto di partenza. La loro è una mobilità intragenerazionale e, solo
nella prima parte della loro vita, anche intergenerazionale (borghesi che
entrano nel mercato del lavoro come impiegati).
- I mobili all’entrata nella vita attiva sono coloro che partano da una posizione
diversa da quella del padre e che vi restano anche in seguito. La loro è una
mobilità intergenerazionale (chi grazie al titolo di studio fa l’impiegato).
- I mobili nel corso della vita attiva sono coloro che iniziano dalla stessa posizione
del padre e che dopo un po’ la lasciano per occuparne una diversa. La loro è
una forma di mobilità intragenerazionale che ne provoca una intergenerazionale
(figli di coltivatori proprietari che entrano nel mercato come tali e in seguito
cambiano).
- I super – mobili sono coloro che parto da una posizione diversa da quella del
padre e che in seguito la cambiano, ma senza tornare al punto di partenza. Essi
sperimentano forme di mobilità sociale sia inter che intragenerazionale.
Il confronto, che è possibile fare grazie alle numerose indagini condotte negli ultimi
anni, della mobilità assoluta dell’Italia con quella di altri nove paesi occidentali è reso
interessante dal fatto che in essi il processo di industrializzazione ha avuto tempi e
ritmi assai diversi. Da questo punto di vista, tali paesi possono essere distinti in tre
diversi gruppi. Industrializzazione precoce: Inghilterra, Galles, Scozia. Processo di
industrializzazione iniziato un po’ dopo: Francia, Germania, Irlanda del Nord e Svezia.
Prevalentemente agricoli fino alla seconda guerra mondiale: Polonia, Ungheria e
Repubblica d’Irlanda. L’Italia occupa una posizione intermedia fra i paesi del secondo e
quelli del terzo gruppo.
I valori sono in netto contrasto con la teoria liberale dell’industrialismo, cioè che il
tasso aumenta parallelamente allo sviluppo economico. Nel complesso, se escludiamo
l’Irlanda e la Polonia, possiamo dire che in tutti gli altri paesi gli uomini il cui ingresso
nel mercato del lavoro è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale non sono vissuti
in società più mobili di quelli che vi sono entrati nel 1920.
Dunque, almeno a riguardo alla mobilità assoluta, la teoria che trova maggior
conferma nei dati è quella di Sorokin secondo cui non vi è alcuna tendenza costante al
suo aumento o alla sua diminuzione. L’andamento dei valori di Irlanda e Polonia, che
hanno avuto un’industrializzazione tardiva, fa pensare che sia valida la tesi dell’effetto
soglia di Lipset e Zetterberg, cioè che sia la prima fase dell’industrializzazione a
provocare un forte aumento della mobilità sociale assoluta. Non riceve sostegno dai
fatti accertati la tesi di Lipset e Zetterberg secondo cui non vi sarebbero differenze nei
tassi di mobilità fra i paesi industrializzati.
La mobilità relativa
Una quota molto alta di coloro che vivono in Europa e negli Usa (dal 55 al 75 %, a
seconda del paese) fa parte di una classe sociale diversa da quella del padre. Nei
paesi occidentali vi è dunque una forte mobilità sociale intergenerazionale. Ma ciò non
indica una società aperta o fluida. Al contrario, tutte le ricerche mostrano che vi sono
forti disuguaglianze nelle chances di mobilità fra le persone provenienti da diverse
classi (mobilità relativa).
La mobilità sociale ha un ruolo chiave nella formazione delle classi. La tesi, che le
classi non si strutturano finché vi è un flusso continuo di persone che entrano ed
escono, ci permette di dire che quanto maggiore è la mobilità intergenerazionale di
una società, tanto più difficile è che si formino delle classi. Quando non è presente un
certo grado di chiusura, quando il ricambio sociale è continuo, diventa sempre più
difficile, per coloro che occupano la stessa posizione sociale, avere valori e stili di vita
comuni e comuni interessi. La condizione perché le classi siano delle collettività sociali,
con alcuni tratti culturali distintivi, è che abbiano un certo grado di identità
demografica, una certa omogeneità per origine sociale.
In Italia, vi sono oggi delle forti differenze nella composizione sociale delle varie classi.
Il tasso di auto reclutamento, di ogni classe, è la percentuale di persone che fanno
parte della stessa classe del padre. Le classi più omogenee per origine sociale sono la
piccola borghesia agricola e la classe operaia urbana, che hanno un tasso di auto
reclutamento molto alto. All’estremo opposto vi è la classe media impiegatizia, che ha
una debole identità demografica. Ciò è dovuto dal fatto che, negli ultimi decenni,
questa classe ha conosciuto una forte espansione, ha reclutato molte persone dalle
altre classi, diventando così sempre più eterogenea.
Il grado di omogeneità per origine sociale della classe operaia è mutato nel corso
del tempo, calato negli anni settanta, è poi risalito a fine anni ottanta e infine ha
chiuso il XX secolo aumentando ancora. Questi dati mostrano che la mobilità sociale
non indebolisce necessariamente l’identità demografica della classe operaia ma in
certi casi può addirittura rafforzarla. Goldthorpe ha mostrato che questo può accadere
quando, superato un determinato livello di industrializzazione, si verificano
contemporaneamente alcune condizioni. La prima è che la classe operaia cessi di
espandersi. La seconda è che la quota degli occupati nel settore agricolo decresca
continuamente e si riducano quindi le possibilità di reclutare da questo bacino gli
operai. La terza è che diminuisca la mobilità discendente, dalle classi medie alla classe
operaia. Tenendo conto di queste osservazioni si possono capire le variazioni nello
spazio e nel tempo del grado di omogeneità per origine sociale della classe operaia
italiana.
Due diverse ipotesi sono state avanzate per capire le conseguenze della mobilità
sociale. La prima viene chiamata dello “sradicamento sociale”, la seconda dell’
“acculturazione” o della “risocializzazione”.
La mobilità sociale è dunque considerata dai sostenitori della prima ipotesi come
un’esperienza dolorosa e difficile, che produce squilibri e tensioni. Uscire da una classe
per entrare in un’altra significa di solito rompere le relazioni con coloro che continuano
a far parte della prima senza peraltro riuscire a formarne di nuove con quelli che si
trovano da tempo nella seconda. Questo avviene sia nei casi di mobilità ascendente,
che in quelli di mobilità discendente, ma per diversi motivi. Se le persone che salgono
socialmente non riescono ad integrarsi è perché coloro che fanno parte da tempo della
classe in cui sono appena approdati non li accettano. Se le persone che socialmente
non si integrano è invece soprattutto perché non vogliono farlo, credendo che la loro
condizione sia transitoria, cercano di non stabilire nuovi legami con coloro che fanno
parte della classe in cui sono cadute.
Del tutto diversa è la seconda ipotesi, detta ipotesi della risocializzazione. Per i
suoi sostenitori, se una persona passa da una classe all’altra deve necessariamente
ridefinire la propria identità sociale, mutare il proprio modo di pensare e agire. Questo
mutamento non è tuttavia repentino e radicale. Per un lungo periodo di tempo, in una
persona socialmente mobile coesistono, trovando una qualche forma di equilibrio, il
vecchio e il nuovo. Questo avviene in tutti e due i casi di mobilità. Se si nasce in una
classe si trascorre in questa una parte della propria vita, si apprendono i valori e le
forme di comportamento di coloro che ne fanno parte. Quando, al momento
dell’entrata nel mercato del lavoro, o in un periodo successivo, si passa in un’altra
classe, ha inizio un processo di risocializzazione, nel corso del quale le persone
socialmente mobili ridefiniscono se stesse, abbandonando a poco a poco i valori della
vecchia classe per apprendere quelli della nuova.
Le ricerche condotte hanno mostrato che l’ipotesi che trova maggior sostegno nei fatti
è la seconda. Nelle società avanzate di oggi la mobilità non determina lo sradicamento
e l’isolamento di coloro che la sperimentano. La mobilità sociale mette invece in moto
un lento processo di risocializzazione, di ridefinizione dell’identità, di sostituzione dei
modi di pensare e di agire della classe di origine con quelli della classe di arrivo.
Probabile è che un tempo, soprattutto nei periodi in cui i tassi di mobilità assoluta
erano minori e il grado di discontinuità esistente fra le diverse classi era maggiore, i
passaggi fra queste classi fossero esperienze dolorose e difficili che provocavano lo
sradicamento sociale.
Le differenze di genere
Nelle scienze sociali si è introdotta la distinzione fra sesso e genere. Per sesso si
intendono gli attributi dell’uomo e della donna riconducibili alle caratteristiche
biologiche; per genere le loro qualità distintive (mascolinità e femminilità) definite
culturalmente. Il sesso di una persona è una realtà fisica, ma il modo in cui gli uomini
e le donne vedono se stessi e si pongono in relazione l’un l’altro e i ruoli che sono loro
assegnati sono una costruzione sociale e vengono appresi in un processo di
socializzazione.
Gli uomini e le donne sono sessualmente dimorfi, cioè presentano differenze chiare e
visibili di carattere anatomico. Tutto inizia quando uno spermatozoo feconda un uovo.
Lo spermatozoo fornisce all’embrione ventitré cromosomi ed altrettanti gliene dà
l’ovulo. Ogni individuo possiede ventitré paia di cromosomi. In ventidue di queste, i
cromosomi sono identici. Nel ventitreesimo paio invece possono essere sia uguali che
diversi. Nel primo caso (XX) l’embrione diventerà una femmina, nel secondo (XY) un
maschio. Poiché l’ovulo contribuisce sempre con un cromosoma X e lo spermatozoo
con uno di tipo X o Y, è l’apporto del padre a determinare il sesso del nascituro.
Il processo di differenziazione sessuale inizia solo alla sesta settimana dopo il
concepimento. Fin ad allora, tutti gli embrioni sono anatomicamente identici e
sessualmente bi potenziali. Intorno alla sesta – ottava settimana, se nell’embrione vi è
un cromosoma Y, le gonadi (ghiandole), fino ad allora indifferenziate, si trasformano in
testicoli; se il cromosoma Y è assente, diventano ovaie. Testicoli e ovaie sono definiti
caratteri sessuali primari.
I testicoli iniziano a secernere gli ormoni sessuali androgeni e questi ultimi generano lo
sviluppo prima dei genitali interni (prostata) e poi di quelli esterni (pene). Nelle
femmine si sviluppano i genitali interni (utero) e quelli esterni (clitoride).
Gli ormoni sessuali entrano in azione anche più avanti per determinare lo sviluppo dei
caratteri sessuali secondari (nelle donne seno, negli uomini muscoli e astensione delle
zone pilifere).
L’essenzialismo mette l’accento sul dualismo assoluto dei due sessi, il costruttivismo
sociale sulla somiglianza dei generi. Per la prima, le differenze fra mascolinità e
femminilità sono naturali, universali, immodificabili, per la seconda sono una
costruzione sociale. Dunque, per la prima, uomini o donne si nasce, per seconda si
diventa.
Gli ormoni
Le differenze di comportamento fra uomini e donne sono state spesso ricondotte agli
ormoni. La proporzione degli ormoni varia a seconda del sesso e della fase della vita
degli individui. I testicoli secernono più androgeni che estrogeni, mentre le ovaie fanno
l’opposto.
Nella fase della pubertà è il momento in cui le differenze nei livelli ormonali fra i due
sessi si accentuano. Le femmine cominciano a secernere più estrogeni, i maschi più
androgeni. In questa fase, coloro che hanno nel sangue una maggior quantità di
testosterone sono più aggressivi. A favore di questa tesi, alcuni studiosi citano non
solo i risultati di varie ricerche, ma anche gli effetti provocati dalla castrazione. I critici
di questa tesi osservano però che negli uomini la castrazione non riduce per forza
l’aggressività.
Che il comportamento degli uomini e delle donne risenta del livello degli ormoni
sessuali è indubbio. Ma la relazione fra queste due variabili è probabilmente debole e
non serve a spiegare la mascolinità e la femminilità
Il cervello
Recentemente , le differenze fra gli uomini e le donne sono state ricondotte non alle
dimensioni, ma alla cosiddetta lateralizzazione del cervello o alla asimmetria
emisferica. Nel cervello vi sono due diversi emisferi, uno destro e l’altro sinistro,
connessi da una fascia di fibre nervose detta corpo calloso e ciascuno di questi si
specializza in certi compiti. L’emisfero sinistro, che controlla la parte destra del corpo,
è più importante per il linguaggio e per le attività motorie. L’emisfero destro, da cui
dipende la parte sinistra del corpo, è responsabile di alcune funzioni spaziali come la
capacità di visualizzare oggetti, di distinguere una persona dall’altra, di percorrere
mentalmente un labirinto, di capire e utilizzare carte topografiche. Ora, secondo alcuni
studiosi, nella donna prevale l’emisfero sinistro (punteggi elevati nei test di scioltezza
verbale), negli uomini invece quello destro (si riesce meglio in matematica e si può
soffrire di balbuzie).
Nessuno è riuscito finora a dimostrare che l’emisfero sinistro è più sviluppato nel
cervello della donna e il destro in quello dell’uomo.
Da questa diversa capacità riproduttiva derivano le principali diversità esistenti fra gli
uomini e le donne negli atteggiamenti e nei comportamenti nei confronti degli
appartenenti allo stesso e all’altro sesso e nella tendenza a quello che viene definito
l’investimento parentale. Con questa espressione i sociobiologi intendono ogni
investimento di un genitore in un discendente tale da accrescere le probabilità di
sopravvivenza di quest’ultimo (e quindi il successo riproduttivo) a spese della
possibilità da parte del genitore di investire in un altro discendente. Uomini e donne
hanno un atteggiamento molto diverso nei confronti di questo investimento: gli uomini
passano da una donna all’altra proprio per aver la possibilità di fecondare più partner;
la donna invece sceglie con più accuratezza i partner per trovare i maschi con i geni
migliori.
L’essenzialismo femminista
Genere e cultura
Numerose prove a favore della tesi che il genere è una costruzione sociale e che le
differenze negli atteggiamenti e nei comportamenti degli uomini e delle donne variano
culturalmente sono venute per la prima volta dai risultati di una ricerca antropologica
condotta da Margaret Mead su tre tribù della Nuova Guinea: gli Arapesch, i
Mundugumor, i Tschambuli.
Gli Arapesch vivevano in una zona montana e non conoscevano quasi le guerre.
uomini e donne erano miti, tranquilli, passivi e affettuosi. Piuttosto che entrare in
conflitto e battersi contro qualcuno, i maschi preferivano subire. Educati con affetto e
tolleranza, i giovani crescevano con una forte fiducia negli adulti, una grande sicurezza
di sé, un assoluta mancanza di egoismo. Gli atti aggressivi li rivolgevano verso gli
oggetti.
Dunque, sia tra gli Arapesch che tra i Mundugumor, gli uomini (femminilizzati) e le
donne (mascolinizzate) erano assai simili. Nelle tribù Tschambuli uomini e donne
avevano, rispetto ai nostri, ruoli invertiti.
Basandosi sui dati raccolti in quasi duecento società primitive gli antropologi hanno da
un lato dimostrato che la divisione sessuale del lavoro è un universale culturale,
cioè che esiste in tutte le società. Ma, dall’altro, essi hanno reso evidente che certi
compiti che in alcune società sono considerati propri degli uomini, in altre vengono
invece ritenuti come più appropriati per le donne.
Per spiegare la divisione sessuale del lavoro sono state formulate varie ipotesi. La
prima considera cruciale la maggiore forza fisica degli uomini. La seconda, chiamata
l’ipotesi della compatibilità con l’allevamento dei bambini, sostiene che le donne
svolgono quei compiti che permettono loro di allattare e curare i figli, cioè quelli che
possono interrompere e riprende facilmente, che non le costringono a fare lunghi
viaggi lontano da casa e che non sono pericolosi per i bambini (ecco perché gli uomini
si dedicano alla caccia e alla pesca). La terza è l’ipotesi della spendibilità e afferma
che gli uomini svolgono di solito i compiti più pericolosi, perché, dal punto di vista
della riproduzione, possono esse più facilmente sacrificabili delle donne.
Per quanto non prive di valore, queste ipotesi non bastano da sole a spiegare la
divisione sessuale del lavoro.
Sappiamo anche che, nonostante le relazioni di genere varino nello spazio e nel
tempo, non è mai esistita una società nella quale il potere politico fosse nelle mani
delle donne. L’idea che all’inizio dei tempi vi fosse un matriarcato è stata ripresa più
volte da vari studiosi, ma oggi possiamo dire che essa non ha alcun fondamento.
Sono invece esistite società nelle quali le donne avevano un potere non trascurabile. Il
caso più famoso è quello degli indiani Irochesi, che vivevano nel nord dello stato di
New York.
Rapporti di genere simili a quelli degli Irochesi sono stati molto frequenti nelle società
di caccia e raccolta. La situazione è cambiata radicalmente in seguito. Lo status
delle donne è diminuito nelle società orticole e poi, in quelle agricole. Con lo
sviluppo dell’agricoltura intensiva, la divisione sessuale del lavoro si accentuò. Agli
uomini furono riservati i compiti di maggiori rilievo: preparare terreni, arare, scavare i
canali di irrigazione. Le donne persero il ruolo produttivo che avevano avuto prima e
diventarono economicamente sempre più dipendenti dagli uomini. Si occuparono
anche del lavoro agricolo, ma svolgendo mansioni secondarie. Dedicarono d’altra
parte un numero crescente di ore a cuocere e conservare il cibo, a tessere e ad
allevare i figli. Nelle società agricole il tasso di fecondità raggiunse punte altissime.
Si formò allora una netta separazione tra la sfera pubblica e quella privata e la prima
fu riservata ai maschi, mentre nella seconda furono relegate le donne. Tutto ciò servì a
garantire che esse rimanessero vergini e fedeli.
Un’inversione di tendenza ha avuto luogo, in molti paesi sviluppati, nel corso del
Novecento. Nel corso degli ultimi decenni sono diminuite le disuguaglianze di genere
nel lavoro, nel controllo delle risorse economiche, nella distribuzione del potere
politico.
Le variazioni nello spazio e nel tempo dello status delle donne sono state ricondotte
principalmente a tre fattori: il sistema di parentela; la frequenza con cui una società è
in guerra; il contributo economico fornito dalle donne.
Per quanto riguarda il primo, l’importanza sociale di queste è maggiore nelle società
con un sistema di parentela matrilaterale e in cui si segue la regola di residenza
matrilocale. In primo luogo perché le donne, andando a vivere dopo le nozze nella
famiglia dei genitori, conservano il sostegno della madre e delle sorelle. In secondo
luogo perché esercita un’autorità su di loro non solo il marito, ma anche il fratello, e
quando i due non sono d’accordo finiscono per neutralizzarsi vicendevolmente, dando
così maggiore autonomia alla donna.
Per quanto riguarda il secondo fattore, quanto più spesso una società è in guerra,
tanto più è probabile che le relazioni fra uomini e donne siano androcentriche. Per
avere queste conseguenza le guerre devono essere combattute contro gruppi vicini.
Quello contro nemici lontani fanno crescere l’autonomia e il potere delle donne.
Quanto al terzo fattore, il caso delle società contemporanee mostra bene che lo status
sociale delle donne dipende anche dal contributo che esse forniscono alla
produzione e al controllo che esse esercitano sulle risorse economiche.
Secondo un indagine dell’Istat, in Italia gli uomini adulti impiegano in media più tempo
nel lavoro retribuito. Tuttavia le donne occupano un maggior numero di ore nelle varie
forme di lavoro non retribuito: nelle attività domestiche, nella cura dei figli, nella
produzione per l’autoconsumo e nella gestione della contabilità per gli affari del
marito. Di conseguenza le donne lavorano più ore al giorno degli uomini e minore è il
tempo che dedicano alle cure personali e al tempo libero. La nascita dei figli ha
conseguenze diverse sull’uso del tempo dei due genitori. Per ogni figlio che mette al
mondo, la madre dedica un’ora di tempo più di prima alla famiglia, mentre il padre
aumenta di tre quarti d’ora il tempo di lavoro retribuito.
Le differenze di genere nell’uso del tempo variano molto a seconda del paese. Nei
paesi in via di sviluppo le donne dedicano molto più tempo degli uomini al lavoro
(retribuito e non). Nei paesi industrializzati, il tempo di lavoro è più equamente
distribuito fra uomini e donne.
Negli ultimi trent’anni, nei paesi sviluppati, vi sono stati rilevanti mutamenti nell’uso
del tempo. Diminuito è quello che gli uomini dedicano al lavoro retribuito. Diminuito è
anche il numero delle ore che ogni giorno le donne investono nelle attività domestiche,
in parte perché si è avuta una netta flessione della fecondità, in parte perché in tutti
gli strati sociali si è diffuso l’impiego degli elettrodomestici. Aumentato è invece il
numero delle donne che svolgono un lavoro retribuito e di conseguenza il tempo che
esse vi dedicano.
In molte parti del mondo vi è stata una significativa diminuzione delle differenze di
genere nella partecipazione al mercato del lavoro, a causa soprattutto del forte
aumento del tasso di attività della popolazione femminile.
Oggi i paesi nei quali il tasso di attività della popolazione femminile è più basso sono
quelli musulmani (Arabia Saudita, Algeria) seguiti dagli altri in via di sviluppo. All’altro
estremo, i paesi in cui questo tasso è più alto sono quelli scandinavi o comunisti ed ex
comunisti (Cina, Russia, Vietnam) seguiti dai paesi più ricchi (Usa, Canada, Giappone).
Come si può notare da questo elenco, e come vari studi hanno messo in luce, il tasso
di attività della popolazione femminile di un paese dipende non solo dal suo livello di
sviluppo economico, ma anche dalle norme culturali in esso prevalenti e dalla politica
sociale dei suoi governi.
La segregazione occupazionale
In tutti i paesi sui quali abbiamo dati vi è una segregazione occupazionale per sesso, le
donne fanno un lavoro diverso da quello degli uomini. In certi casi, questa
segregazione è fisica, nel senso che gli uomini e le donne sono separati da edifici. Di
solito però essi sono divisi da classificazioni sociali, che definiscono femminili alcune
occupazioni e maschili altre.
In Italia, nel 1901, l’indice di dissimilarità aveva il valore di 78 e dunque era assai
elevato. Negli ottant’anni successivi esso è diminuito in modo sensibile. Questo
mutamento è dovuto, oltre che all’ingresso delle donne in alcune occupazioni un
tempo considerate maschili, all’aumento del peso di quelle già prima integrate. In
Italia è notevolmente aumentata la quota delle donne sul totale dei medici, degli
avvocati e dei magistrati. Nonostante questo, il grado di segregazione occupazionale
per sesso è ancora elevato. In tutti i paesi sviluppati le donne sono più spesso
occupate come impiegate di media e bassa qualificazione nel commercio e nei servizi
sociali e personali, gli uomini come operai dell’industria, dirigenti o professionisti.
Anche fra i paesi sviluppati vi sono notevoli differenze. Le ricerche comparative hanno
mostrato che i paesi più moderni e avanzati (Usa, Svezia, Norvegia) hanno livelli di
segregazione occupazionale per sesso maggiori di quelli tradizionali (Italia, Grecia,
Giappone). Questo è dovuto al fatto che se lo sviluppo economico, la modernizzazione
e le politiche sociali egualitarie provocano una riduzione della segregazione; altri
importanti processi in corso spingono in senso opposto.
Differenze retributive
Vi sono paesi (Giappone, Cipro, Corea del Sud) in cui il divario retributivo fra le donne
e gli uomini è ancora più forte, perché le prima guadagnano oggi solo la metà dei
secondi. Ma ve ne sono altri (Francia, Danimarca, Islanda, Australia) in cui i salari
femminili vanno dall’80 % al 90 % di quelli maschili.
Ecco alcune teorie che affrontano il perché le donne abbiano tassi di attività più bassi,
svolgano occupazioni meno qualificate e guadagnino meno degli uomini. La teoria del
capitale umano e quella della socializzazione di genere affrontano la questione dal lato
dell’offerta di lavoro. Invece quelle della discriminazione statistica e delle barriere la
esaminano partendo dalla domanda.
La teoria del capitale umano sostiene che gli individui compiono scelte razionali dal
punto di vista economico (quanti anni andare a scuola, scegliere il tipo di
occupazione). Poiché le donne hanno un forte orientamento verso la famiglia e si
aspettano di lasciare il lavoro quando diventano madri esse scelgono occupazioni che
consentono una certa flessibilità, possono essere svolte in maniera intermittente, non
richiedono lavori straordinari o imprevisti, lunghi viaggi e una forte mobilità
geografica.
Altre teorie riconducono la segregazione occupazionale per sesso alle diverse barriere
che riducono le opportunità di cui dispongono le donne di scegliere il lavoro che
preferiscono. Si tratta di barriere formali di accesso alle varie professioni, alle scuola
che forniscono titoli per esercitare queste professioni oppure di barriere informali. Fa
parte di queste teorie anche quella della discriminazione statistica, secondo la
quale gli imprenditori trattano gli individui sulla base delle proprie credenze riguardo
all’intera categoria a cui questi appartengono (non assumono donne in età feconda
perché meno produttive per assenze).
La politica
Nell’età moderna, in Europa, vi sono state donne che hanno goduto di un’autorità
politica, anche se esse ne erano spesso escluse come gli strati più bassi della
popolazione, compresi anche gli uomini. In tutto questo periodo, il ruolo delle donne è
stato assai diverso negli stati organizzati in repubbliche e in quelli organizzati in
monarchie. Nei primi, le donne potevano esercitare un’influenza politica solo in modo
informale, attraverso relazioni di amicizia o di parentela. Nei secondi invece esse
potevano occupare posizioni di potere formale, diventando ad esempio regine nel caso
in cui mancasse un erede maschio.
Nell’ultimo secolo, le disuguaglianze di genere sono diminuite anche in questo campo.
Le donne hanno ottenuto il diritto di voto in quasi tutte le parti del mondo (1893
Nuova Zelanda; 1929 Usa; 1945 Italia).
Genere e salute
Oggi, in tutti i paesi sviluppati, la vita media degli uomini dura sette anni meno di
quella delle donne. Solitamente si riconduce questo a fattori biologici. Varie ricerche
hanno messo in luce che coloro che hanno una coppia di cromosomi X (le donne)
corrono meno rischi di malattie di quelli che ne hanno una X e Y; che l’estrogeno, cioè
l’ormone sessuale femminile, protegge contro le malattie cardiache; che le donne
hanno un sistema immunitario più forte di quello degli uomini.
Se gli uomini muoiono prima delle donne è anche perché hanno uno stile di vita
diverso e si comportano nei modi che tradizionalmente ci si aspetta da loro (bevono,
fumano, mangiano molta carne, sono sprezzanti dei pericoli). Proprio per questo, si
può prevedere che la differenza di mortalità fra i sessi diminuirà man mano che lo stile
di vita delle donne diventerà sempre più simile a quello degli uomini. Questa
tendenza, del resto, è già iniziata.
Se ci allontaniamo dall’Europa e dagli Usa la situazione cambia radicalmente. Mentre
nei paesi ricchi vi sono 106 donne per ogni 100 uomini, nell’America Latina esse sono
101, nell’Africa sub sahariana 103, nell’Africa del Nord 99 e in certi paesi dell’Asia 95.
Il motivo è che in molte regioni del Terzo mondo, in certe classi d’età, il tasso di
mortalità femminile supera quello maschile. Questo di verifica soprattutto dai 2 ai 30
anni ed è dovuto a fattori economici e sociali. Le femmine non ricevono le stesse cure
dei maschi e dunque la percentuale di donne sul totale della popolazione è minore di
quella esistente in Europa e negli Usa.
Le minori cure ricevute dalle donne dipendono dal sottosviluppo economico (mortalità
per parto causa scarsi servizi ospedalieri). Nei paesi dell’Africa sub sahariana la
mortalità femminile è inferiore a quella maschile, per quanto fortemente
sottosviluppati.
La spiegazione più importante delle minori cure che le donne ricevono in alcuni paesi
del Terzo mondo è di ordine sociale e culturale. Quanto è più alto è lo status delle
donne tanto maggiori sono le loro speranze di vita in confronto a quelle degli uomini.
Le donne ricevono minori cure nelle regioni nelle quali non svolgono un lavoro
retribuito e quindi non dispongono di un reddito esterno alla famiglia. In questi paesi, i
genitori sono convinti che sia meglio avere un figlio maschio. In primo luogo, perché è
solo al maschio che possono essere trasmessi il nome e le proprietà della famiglia. In
secondo luogo, perché è dai figli maschi che essi si attendono di riceve un sostegno
economico una volta diventati vecchi, dal momento che si segue la regola di residenza
patrilocale (figlie escono, i figli portano moglie in famiglia). In terzo luogo, il
matrimonio della figlia è più costoso (alla figlia va data un dote, il maschio porta in
famiglia la dote della moglie). In quarto luogo, perché è solo ai maschi che è
consentito celebrare riti ancestrali per il padre dopo la sua morte.
I paesi nei quali la preferenza per i maschi è forte raggiungono alti tassi di mortalità
femminile attraverso varie strade. In primo luogo, i genitori fanno talvolta ricorso
all’infanticidio femminile ( in Cina a causa della politica demografica, un solo figlio,
adottata dal governo nel 1979). Talvolta ricorrono all’aborto selettivo, cioè appena
saputo qual è il sesso del nascituro, non permettono alle figlie di vedere la luce.
In secondo luogo, i genitori dedicano più tempo e risorse all’allevamento dei maschi. I
bambini vengono allattati al seno più a lungo delle loro sorelline. I primi ricevono
un’alimentazione più abbondante e più ricca di proteine e ferro delle seconde. Anche è
per questo che fra le donne vi è un’incidenza più alta di anemia, che le rende più
vulnerabili alle complicazioni della gravidanza e del parto. In caso di malattia, sono i
figli maschi ad essere più spesso e meglio curati.
In ogni società vi sono vari strati d’età, cioè aggregati di individui di età simili. Tali
strati, oltre ad essere diversi per ampiezza e composizione, differiscono anche per
status e ruoli. I doveri, i diritti e le ricompense vengono infatti distribuiti in maniera
diversa a seconda dell’età. I comportamenti ritenuti adeguati alle diverse età possono
essere definiti sia da norme formali, giuridiche, sia da quelle informali (età a cui si può
andare a scuola, età in cui si può votare, informali: dopo la maturità o ci si iscrive
all’università oppure si cerca lavoro).
Per capire come si formino gli strati d’età è bene tener presente che in ogni società
hanno luogo due diversi processi. Il primo è quello universale dell’invecchiamento e
della successione delle coorti. Una coorte è formata da persone nate nello stesso
periodo, che a poco a poco invecchiano, passano attraverso vari ruoli. Man mano che
alcune persone muoiono, altre nascono e si formano nuove coorti. Il secondo processo
è quello del mutamento delle strutture e dei ruoli connessi all’età. La società si
trasforma per vari motivi e con essa cambiano anche le aspettative normative riferite
all’età e le ricompense e le sanzioni ad esse collegate.
Coorti e generazioni
Una coorte è un insieme di persone che vivono uno stesso evento nello stesso
momento. Se questo evento è la nascita (coorte di nascita), la coorte è formata da
tutti coloro che sono nati entro un medesimo arco temporale e che di conseguenza
invecchiano insieme. L’ampiezza di una coorte è massima al momento in cui essa di
forma, cioè appunto quando nascono coloro che ne fanno parte. Con il passare del
tempo, la morte e l’emigrazione provocano un assottigliamento della coorte, ma anche
un mutamento nella sua composizione interna. Dato che le donne vivono più a lungo
tendono ad essere sovra rappresentate quanto più le persone che fanno parte di una
coorte invecchiano.
Analizzando i cicli demografici, molti studiosi hanno sostenuto che le differenze nelle
dimensioni delle coorti, dovute alle variazioni nel tempo della natalità, possono
provocare mutamenti nel modo in cui i vari ruoli vengono assegnati alle persone
appartenenti a diversi strati d’età. Ma è stato sicuramente il demografo americano
Richard Easterlin quello che ha presentato la versione più articolata e suggestiva di
questa ipotesi, cercando di ricondurre alle diverse dimensioni delle coorti fenomeni
assai diversi come l’età al matrimonio e i tassi di fecondità, di attività della
popolazione femminile, di criminalità e di suicidio.
Alla base dello schema interpretativo di Easterlin vi è il concetto di reddito relativo,
che nasce dal confronto fra le risorse economiche di cui una persona dispone (reddito
effettivo) e le aspirazioni che essa ha (reddito attesto). Le aspirazioni riguardo al
reddito si formano in genere durante l’infanzia e l’adolescenza e risentono della
situazione economica dei genitori. Dunque, il reddito che un individuo si attende
dipende da quello effettivo che aveva la sua famiglia di origine quando egli era
giovane.
Quanto maggiori sono le dimensioni di una coorte, tanto più basso è il livello di reddito
effettivo dei suoi componenti, perché questi ultimi soffrono degli svantaggi
dell’affollamento in famiglia (più figli meno cure al singolo), nella scuola
(sovraffollamento riduzione delle possibilità di apprendimento) e nel mercato del
lavoro (più offerta più difficile trovare un lavoro ben pagato). Dunque, il reddito
effettivo di un individuo dipende dalle dimensioni della sua coorte, quello atteso dalle
dimensioni della coorte dei suoi genitori. Il reddito relativo è quindi espressione del
rapporto esistente fra la coorte del soggetto e quella dei genitori. Se la prima ha
dimensioni maggiori della seconda, il reddito relativo è basso; altrimenti è alto.
Coloro che hanno un reddito relativo basso reagiscono in vari modi. Per cercare di
mantenere il livello di vita a cui sono stati abituati dai genitori si sposano tardi,
spingono la moglie a entrare nel mercato del lavoro, rimandano la nascita del primo
figlio e comunque non ne hanno tanti. Le tensioni a cui sono soggetti coloro che, pur
avendo un reddito basso, si sposano, li portano più frequentemente al divorzio. Le forti
situazioni di stress a cui sono sottoposti fanno crescere la propensione a commettere
reati e al suicidio.
L’idea che nella vita di un essere umano vi siano fasi diverse è molto antica. Pitagora
pensava fossero quattro: infanzia, adolescenza, giovinezza e vecchiaia. William
Shakespeare, in un brano famoso di Come vi piace, ha scritto che la vita è “un
dramma in sette atti: le sette età”.
I riti di passaggio
Tutti questi riti hanno una struttura simile e passano attraverso tre diverse fasi. Nella
prima, detta preliminare o di separazione, una persona abbandona la posizione e le
forme di comportamento precedenti. Nella seconda, di transizione o di margine, il
soggetto non è né da una parte né dall’altra, è in una spazio intermedio (anche
chiamata liminare, paragonata alla morte o all’invisibilità). Infine, nella terza fase,
quella di aggregazione, una persona viene, reintrodotta nella società: è di nuovo in
uno stato relativamente stabile e ha diritti e doveri precisi.
Per le femmine, la cesura fondamentale era data dall’uscita dalla famiglia di origine e
dalla creazione di una nuova famiglia o dall’entrata in quella del marito. E questa
cesura veniva segnalata da vari riti di separazione e di aggregazione. A Firenze nel
Quattrocento, il rito del fidanzamento inizia con un primo incontro non pubblico
(impalmamento) fra i parenti dei due futuri sposi, preparato dai sensali. A distanza di
pochi giorni aveva luogo un secondo incontro fra i membri maschili delle due famiglie
che serviva a definire, con l’aiuto di un notaio, le condizioni del fidanzamento. Un terzo
incontro avveniva, il giorno dell’anello, a casa della fanciulla, dove il fidanzato si
recava con i suoi parenti e infilava al dito della donna l’anello nuziale.
Il ruolo dei riti di passaggio è profondamente cambiato nel corso del tempo.
Contrariamente a quanto si pensa, alcuni di questi sono oggi più diffusi di cinquanta o
di cento anni fa. Il viaggio di nozze, usato all’inizio del XX secolo dalle famiglie
benestanti, oggi è un rito di tutti per segnalare l’autonomia della coppia rispetto ai
genitori. Altri riti sono di origine ancora più recente. Il caso è dell’acquisizione dello
status di guidatore (prendendo la patente e comprando la macchina) di un’automobile
che per un giovane costituisce oggi una tappa essenziale per il riconoscimento della
maturità sociale.
Ma nel complesso, nei paesi occidentali, i riti di passaggio hanno perso di importanza
nell’ultimo secolo. Lo steso di può dire del matrimonio, che è stato a lungo uno dei più
importanti riti di passaggio. Innanzitutto perché, da più di trent’anni, nei paesi
occidentali, l’inizio di una nuova famiglia è sempre più spesso segnato dalla creazione
di una convivenza more uxorio. In secondo luogo perché il rito del matrimonio è più
semplice di un tempo e ha meno frequentemente natura religiosa. Negli ultimi
decenni, in tutta Europa, vi è stato un forte aumento della quota delle coppie che
celebrano le nozze solo civilmente, anche se la frequenza con cui questo si verifica è
assai diversa da un paese all’altro.
L’idea che vi siano stati storicamente grandi cambiamenti nella definizione del corso
della vita degli individui è stata sostenuta, negli ultimi decenni, da molti studiosi,
riguardo soprattutto all’infanzia e all’adolescenza. Philippe Ariès presentava due
tesi che hanno avuto grande risonanza nel mondo scientifico.
La prima è che l’infanzia e l’adolescenza sono invenzioni della società moderna e che
un tempo non esistevano come fasi distinte del corso della vita. Nel Medioevo, non
appena gli esseri umani raggiungevano l’autonomia fisica, entravano a far parte del
mondo degli adulti, quindi infanzia molto breve. Le prove più importanti che Ariès
adduce a sostegno di questa tesi sono tre: i bambini non portavano abiti riservati alla
loro età, ma appena usciti dalle fasce venivano vestiti come adulti; dall’arte medievale
essi venivano raffigurati come adulti in formato ridotto, senza nulla di infantile; in
francese e in altre lingue, non vi erano termini precisi per distinguere il bambino
dall’adolescente.
Secondo Ariès, la situazione cambiò radicalmente in età moderna, dapprima nei ceti
elevati in seguito in quelli intermedi, più tardi ancora nel resto della popolazione.
Nacque il sentimento dell’infanzia, l’idea che questa fosse una fase ben distinta del
corso della vita, con esigenze e problemi specifici. Il mondo dei bambini si separò da
quello degli adulti, a causa di due grandi mutamenti avvenuti in Europa a partire dal
XVI e dal XVII secolo. In primo luogo, ebbe inizio il lento processo di scolarizzazione.
Vennero istituiti i collegi e le scuole di carità. In secondo luogo, cambiarono la famiglia
e le relazioni fra genitori e figli: nacquero e si svilupparono l’amore materno e quello
paterno.
Sull’importanza delle tesi di Ariès non vi sono dubbi, ma sono anche stato sottoposte a
dure critiche.
L’infanzia
Basando sui risultati di accurate ricerche, molti storici hanno invalidato le due tesi di
Ariès. Riguardo alla seconda, essi hanno sostenuto che nessuno dei fatti che ci sono
noti fanno pensare che un tempo madri e padri avessero un atteggiamento di
indifferenze verso i figli. Quanto alla prima tesi, gli storici hanno mostrano che anche
nel Medioevo vi era un sentimento dell’infanzia e questo costituiva una fase distinta
del corso della vita.
Indubbio è comunque che, nei paesi occidentali, la condizione dell’infanzia è oggi assai
diversa da quella di un tempo. Per valuta appieno i mutamenti che vi sono stati si
pensi che, dalla fine del XV alla metà del XX secolo, in molti paesi europei, molte
decine di migliaia di neonati (detti trovatelli o esposti) sono stati abbandonati,
temporaneamente o definitivamente, dai loro genitori. Per molto tempo, essi furono
lasciati davanti a qualche abitazione o sui gradini di una chiesa. Nella prima metà
dell’Ottocento un numero sempre maggiore di neonati entrò nei brefotrofi attraverso la
ruota o il torno, un attrezzo che faceva suonare un campanello quanto un neonato vi
veniva immesso, in modo da avvisare chi aveva il compito di accogliere il neonato.
Addosso portavano spesso un segno di riconoscimento, che consentisse in futuro
l’identificazione dal bambino nel caso di una richiesta di restituzione da parte di uno
dei due genitori (monete intere o a metà, catenine). Ma moltissimi di questi bambini
morivano nei giorni immediatamente successivi all’esposizione.
Per spiegare un fenomeno così complesso come l’abbandono dei neonati è necessario
tener conto di una pluralità di fattori di ordine economico, demografico e culturale.
Comunque nella seconda metà del XIX e durante il XX secolo anche nell’Europa
meridionale l’uso di abbandonare i neonati è quasi del tutto scomparso.
La gioventù
Criticando Ariès, numerosi storici hanno cercato di dimostrare che la gioventù non è
un’invenzione della nostra epoca, ma che è esistita come fase distinta della vita in
tutte le società del passato anche se la sua concezione e la sua durata sono cambiate
nel corso del tempo.
Per indicare questa fase, alcuni studiosi usano oggi come sinonimi i due termini
“adolescenza” e “gioventù”. A tutti è chiaro che la gioventù non coincide con la
pubertà, cioè con il passaggio dalla condizione fisiologica del bambino a quella
fisiologica dell’adulto, che è caratterizzata dallo sviluppo degli organi sessuali, dei
caratteri sessuali secondari e dall’accrescimento scheletrico e muscolare.
Nel passato vi sono state grandi variazioni nello spazio e nel tempo riguardo all’età in
cui si superavano queste soglie. Assai diversa era l’età in cui ci si sposava. Due sistemi
di formazione della famiglia erano importanti. Il primo era diffuso nell’Europa centro –
settentrionale, il secondo in quella orientale, in parte in quella meridionale e in Asia.
Dove dominava il primo, gli sposi seguivano di solito la regola di residenza neolocale,
cioè mettevano su casa per conto proprio, formando una famiglia nucleare, e l’età del
matrimonio era assai elevata. Laddove prevaleva il secondo sistema, gli sposi
seguivano la regola di residenza patrilocale, andando a vivere nella famiglia del marito
e i matrimonio venivano celebrati in giovane età.
Nelle zone in cui dominava il secondo sistema la gioventù durava assai meno, dato
che il matrimonio era precoce, e prima si avevano rapporti sessuali. Inoltre, poiché gli
sposi andavano a vivere nella casa dei genitori del marito, quest’ultimo restava sotto
l’autorità del padre e dunque non vi era una forte discontinuità nel passaggio dalla
gioventù all’età adulta. Seguendo la regola di residenza patrilocale, i giovani non
dovevano procurarsi le risorse necessarie a metter su casa, andare al servizio da altri
e risparmiare.
Ma in tutta Europa, alla fine del XVIII secolo, si verificarono due importanti mutamenti
che ridussero almeno in parte le differenze esistenti fra le sue varie zone. In primo
luogo, dopo la rivoluzione francese, fu introdotta la coscrizione universale
obbligatoria e si affermò l’idea che l’acquisizione dei diritti civili dipendesse
dall’assolvimento del servizio di leva. Dopo la rivoluzione francese, l’età fissata per il
servizio militare fu intorno ai vent’anni. Da allora, per i maschi, la guarnigione divenne
un luogo di separazione da tutto il resto (genitori, parenti). E il servizio militare
divenne sempre più un evento che segnava la fine della gioventù. In secondo luogo,
mentre nelle società di antico regime i figli erano soggetti all’autorità del padre finché
vivevano nella famiglia di origine, quale che fosse la loro età, alla dine del XVIII secolo,
in tutti i paesi europei si affermò il principio che una volta raggiunta la maggiore età
(25 anni) i figli si emancipavano dalla patria potestà.
Il prolungamento della fase giovanile che si è avuto nei paesi occidentali nell’ultimo
quarantennio è riconducibile alla diffusione della scolarità di massa e alle
trasformazioni avvenute nell’economia. Ma in parte esso è dovuto a un’accentuata
tendenza dei giovani di oggi alla valorizzazione del “sé”, i quali rimandano quanto più
possibile ogni scelta che non consenta la piena autorealizzazione.
La vecchiaia
Ma che le cose non stiano esattamente in questi termini è stato messo in luce dalle
ricerche condotte dagli antropologi e dagli storici. I primi hanno mostrato che
certamente, nelle società primitive, miti e leggende esaltavano il ruolo degli anziani,
ai quali venivano attribuiti poteri magici, finché godevano di buona salute; ma se le
loro condizioni di salute peggioravano, se diventavano fisicamente e intellettualmente
inefficienti, l’atteggiamento degli altri nei loro confronti cambiava ed essi venivano
ignorati, trascurati e maltrattati. E in effetti nel 20 % delle società primitive per le quali
si hanno dati, gli anziani venivano uccisi quanto diventavano un peso per gli altri.
Alcuni antropologi hanno rilevato che gli anziani in cattive condizioni di salute vengono
talvolta uccisi anche nelle società in cui godono di un alto status (negli Irochesi
godevano di alto status ma venivano uccisi se non camminavano più). Per spiegare
questo paradosso è necessario tenere presente che, in alcuni luoghi e in determinati
periodi storici, il togliere la vita a persone vecchie e deboli veniva considerato o come
una dolorosa necessità o addirittura come una sorta di servizio che si rendeva loro
perché altrimenti queste sarebbero morte di fame (a volte erano gli anziani stessi a
chiederlo). In altre società erano i figli a chiedere l’autorizzazione a sbarazzarsi degli
anziani.
Fra le varie società primitive vi sono comunque importanti differenze, per il modo in
cui gli anziani vengono trattati, che almeno in parte possono essere spiegate.
Le ricerche condotte negli ultimi decenni fanno pensare che altre condizioni, oltre allo
stato di guerra e alle difficoltà di alimentazione, influissero sul modo in cui venivano
trattate le persone anziane. Così, ad esempio, queste venivano uccise più spesso nelle
società di caccia e raccolta che in quelle agricole, perché nelle prime le tribù si
spostavano di continuo e non avendo animali né mezzi meccanici di trasporto le
persone invalide costituivano un peso straordinario.
Fra le società agricole ve ne sono state alcune (cinese) in cui gli anziani godevano di
grande potere e prestigio e continuavano ad essere curati dai figli e dai parenti anche
quanto non erano più autosufficienti. In Europa libri e prediche raccomandavano il
rispetto nei riguardi delle persone anziane. Ma nella realtà le cose andavano in modo
assai diverso. Molto dipendeva comunque dalla condizione economica e sociale della
famiglia. Quanto più alto era il ceto sociale di appartenenza e più grande il patrimonio
di un vecchio, tanto più probabile era che i figli lo rispettassero e si prendessero cura
di lui.
Nei decenni successivi il sistema pensionistico fu ovunque esteso agli altri strati
della popolazione e cambiò natura. Si possono individuare due modelli principali: uno
universalistico, l’altro occupazionale. Nei paesi che hanno seguito il primo, le pensioni
sono state concepite, fin dall’inizio, per tutti i cittadini, quale che fosse la loro attività
lavorativa (Svezia 1913, Danimarca, Norvegia, Finlandia anni 30’, Gran Bretagna
1946). Ritroviamo invece il secondo modello nei paesi dell’Europa continentale
(Francia, Belgio, Germania, Austria e in parte l’Italia) nei quali si è partiti con schemi di
pensioni riguardanti alcune categorie di lavoratori dipendenti, procedendo poi a
includere ad una ad una tutte le altre. In Italia dal 1969 si ha l’assicurazione
pensionistica per tutti gli ultra sessantacinquenni.
Nei paesi occidentali, l’allargamento del sistema delle pensioni a tutti gli strati della
popolazione ha avuto un’accelerazione dopo la seconda guerra mondiale. Dopo di
allora è anche fortemente aumentato il livello delle pensioni. Oggi, la pensione è il 60
% del salario. Il sistema di pensioni moderno riguarda tutti i cittadini. Esso non serve
più a prevenire la povertà, ma è rivolto a far mantenere a tutti i lavoratori, anche dopo
che sono usciti dal mercato del lavoro, lo standard di vita di cui hanno goduto negli
anni precedenti
Alla metà degli anni settanta il sistema pensionistico era ampiamente sviluppato e le
leggi prevedevano che gli uomini potessero lasciare il lavoro per raggiunti limiti d’età a
65 anni, le donne un po’ prima. Per questo il tasso di attività della popolazione
maschile con oltre 65 anni era il 20 %. A partire dal 1970 e per tutto il ventennio
successivo si è avuta una flessione anche del tasso di attività della popolazione
maschile dai 60 ai 64 anni. Esso è diminuito ovunque, a causa della tendenza al
prepensionamento che si è avuta in questo periodo in tutti i paesi sviluppati e che
riguardano entrambi i generi (maschile e femminile).
Il prepensionamento è stato favorito in vari modi dai governi dei paesi sviluppati per
dare una risposta alle crescenti difficoltà di occupazione. Ma esso è stato voluto, dagli
imprenditori, dai sindacati e dagli operai più anziani. Attraverso questa strada, gli
imprenditori hanno cercato di ridurre e svecchiare la forza lavoro (dipendenti anziani
costano più e rendono meno). I sindacati hanno aderito a questa soluzione con
l’obbiettivo di favorire l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Infine, gli operai
più anziani non si sono opposti perché facevano sempre più fatica ad adattarsi alle
nuove tecnologie e alle mutate condizioni del lavoro.
Ecco perché negli ultimi anni i governi stanno cercando di elevare l’età pensionabile.
Si può dire che ogni forma di “sapere” parte dalla classificazione. Apparentemente
l’operazione di classificazione può sembrare semplice, ma non è così. Le complicazioni
derivano della particolare struttura ad albero della maggior parte delle
classificazioni per cui ogni “classe” comprende un pluralità di sottoclassi, ma,
soprattutto, dal fatto che per classificare qualsiasi insieme di oggetti bisogna sapere
bene in base a quali proprietà si intende classificarli. La regola logica in base alla quale
si opera una classificazione dice che ad una “classe” appartengono oggetti simili per
certe proprietà (genere prossimo) che li distinguono dagli oggetti di altre “classi” dello
stesso livello, nelle quali quindi queste proprietà sono assenti (differenza specifica).
Anche gli esseri che appartengono alla specie umana possono venire classificati
seguendo questa logica. Dobbiamo prima di tutto decidere in base a quali proprietà
operare la classificazione. Possiamo decidere di classificare gli esseri umani in base ad
un certo numero di caratteristiche somatiche che in genere compaiono associate
(pelle, labbra, forma del cranio). Compiendo questa operazione classifichiamo in razze
la specie umana. Possiamo infatti definire la razza come un insieme di esseri umani
che condividono alcune caratteristiche somatiche.
A seconda del numero di caratteristiche considerate varia anche il numero delle razze
identificate; per certi studiosi le razze umane fondamentali sono quattro (bianchi, neri,
gialli e amerindi), poiché assumono come criterio discriminante il solo colore della
pelle, per altri il numero sarebbe più elevato. Già Darwin aveva notato come il numero
delle razze, a seconda degli studiosi, potesse oscillare da due a sessantatrè. Cavalli
Sforza suggerisce a rinunciare ad una classificazione su solide basi scientifiche valida
una volta per tutte, poiché impossibile o arbitraria. Resta comunque il fatto che le
popolazioni umane differiscono per alcuni tratti somatici e che una classificazione
serve come primo strumento per orientarsi nella diversità umana.
I tratti che vengono presi in considerazione per la classificazione delle razze sono
caratteristiche ereditate. Tra i milioni di informazioni genetiche che ci vengono
trasmesse dai nostri genitori attraverso i cromosomi, ve ne sono alcune che
contengono le informazioni necessarie a farci nascere e crescere come esemplari di
una razza determinata. Le razze quindi esistono come prodotto di un’operazione di
classificazione e le differenza tra le razze sono differenze genetiche che riguardano
solo una piccola parte del nostro patrimonio genetico. Il fatto che le differenze
genetiche tra individui di una stessa razza siano quantitativamente più rilevanti delle
differenze genetiche tra individui di razze diversa ha fatto ritenere a molti biologi che il
concetto di razza sia un concetto biologicamente irrilevante. Non lo è da punto di vista
sociologico poiché le differenze somatiche sono state assunte negli ultimi due secolo
della storia delle società umane per significare, e giustificare, altre differenze di ordine
morale, intellettuale e comportamentale non riconducibili a differenze biologiche
Il razzismo: dottrine, atteggiamenti e comportamenti
All’inizio del XIX secolo iniziano a circolare dottrine che attribuiscono alla razza tratti
del carattere e del comportamento che nulla hanno a che fare con le differenze
somatiche. Queste dottrine si fondano su una serie di credenze: che vi sia una
corrispondenza tra caratteristiche somatiche e tratti mentali e morali, che quindi
anche questi ultimi siano trasmessi per via ereditaria e siano immodificabili, che
l’organizzazione sociale rifletta la divisione dell’umanità in razze distinte, che vi sia
una gerarchia naturale tra le razze e che questo giustifichi il dominio e lo sfruttamento
da parte delle razze che si autodefiniscono come superiore sulle razze definite
inferiori.
La concezione dominante della natura, come ambito dove vigono “leggi” non
manipolabili dall’azione umana e dalla volontà umana, è un potente strumento di
giustificazione delle disuguaglianze. Nonostante il dominio crescente che l’uomo
sembra esercitare su alcuni processi della “natura”, incute sempre timore e tutte le
differenze tra gli uomini che possono essere sancite da “leggi naturali” ne risultano
per questo fatto rafforzate.
Le conoscenze accumulate in questo secolo ci hanno fornito la prova che queste teorie
non sono scientificamente dimostrabili.
Gli studi sulla distribuzione dei punteggi medi del quoziente di intelligenza (QI) in
popolazioni appartenenti a razze diversa sono da vari decenni al centro del dibatti
sull’esistenza o meno di differenze mentali e comportamentali associate alla differenze
somatiche. In primo luogo, non sappiamo bene che cosa si l’intelligenza e che cosa
misurino i test di intelligenza; è assai probabile che essi misurino la capacità di
risolvere problemi che sono più familiari alle persone di un’elevata classe sociale.
Inoltre, tali capacità dipendono senz’altro dall’efficacia dei processi di allevamento,
apprendimento e istruzione che ovviamente dipendono a loro volta dall’ambiente
sociale e familiare di crescita e formazione.
In ogni caso, si può dire che è meglio evitare ogni sorta di determinismo unilaterale,
sia ambientale sia biologico. Patrimonio genetico e ambientale socio – culturale sono
entrambi fattori che condizionano lo sviluppo degli esseri umani e, allo stato attuale
delle conoscenze, non siano in grado di valutare l’entità del condizionamento
ambientale rispetto a quello genetico e viceversa, anche se questi due fattori si
influenza reciprocamente.
Tuttavia nelle popolazioni dove vi è uno scarso incontro con le altre (isolamento
prodotto dalla configurazione orografica del terreno) e, di conseguenza, i suoi membri
si accoppiano solamente tra loro, tenderanno a diventare geneticamente omogenee
per un processo che i biologi chiamano di deriva genetica. Talvolta, tuttavia, le
barriere sociali sono anche più efficaci delle barriere fisiche e geografiche; la divisione
di una società in caste, che pure vive nello stesso territorio, è in grado di ostacolare gli
incroci genetici quanto e anche più di una catena montuosa. In questo caso fattori
ordine socioculturale, influenzano la scelta del partner, influenzano anche la
distribuzione dei caratteri genetici. Questo processo prende il nome di selezione
sessuale.
Il riconoscimenti del fatto che esistano tra gli uomini anche differenze genetiche, non
giustifica affatto le disuguaglianze tra popolazioni di razza diversa sul piano morale
giuridico. Possiamo infatti chiamare dottrine razziste quelle dottrine, quegli
atteggiamenti e quelle pratiche che discriminano, sulla base dell’appartenenza
razziale, l’accesso all’esercizio di diritti e a determinate opportunità e posizioni sociali.
Una dottrina è razzista quando assume la razza come fattore determinante dei
rapporti umani, dell’organizzazione sociale e dei comportamenti dei singoli. Queste
dottrine non avrebbero fortuna se ad esse non facessero riscontro atteggiamenti e
comportamenti discriminatori largamente diffusi, che si manifestano in gruppi che
trattano come inferiori altri gruppi per la sola appartenenza razziale. Naturalmente,
perché questi atteggiamenti e comportamenti possano svilupparsi è necessario che
popolazioni appartenenti a razze diverse entrino in contatto, spesso per effetto di
movimenti migratori.
Taguieff introdusse una distinzione per rendersi conto di come con la parola razzismo
si indichino realtà anche molto diverse tra loro. Un conto è quando il concetto di razza
viene applicato in prima istanza al proprio gruppo (auto – razzizzazione) per affermare
la superiorità e, soprattutto, per garantirne la purezza; e un conto è quando la razza
viene intesa come sinonimo di civiltà inferiore e arretrata (etero – razzizzazione). Nel
primo caso, coloro che non appartengono alla “razza” vengono percepiti come un
pericolo alla sicurezza, integrità e purezza, la loro presenza viene presentata come
incompatibile con la comune convivenza e viene scatenata una reazione di rigetto che
arriva fino allo sterminio e al genocidio. Nel secondo caso, invece, le razze considerate
inferiori diventano oggetto di sfruttamento e di segregazione e si punta alla loro
graduale assimilazione alla cultura dominante (esempio del primo caso è
l’antisemitismo culminato nell’olocausto, esempio del secondo caso è il fenomeno
dell’apartheid).
L’antisemitismo
Popolo senza territorio, e quindi senza stato, minoranza tra popolazioni di religione
diversa, sottoposti alla pressione delle autorità politico – religiose che mal ne
tolleravano la presenza, esposti a periodiche cacciate e a frequenti eccidi (pogrom),
gli ebrei hanno tuttavia mantenuto nei secoli una loro identità collettiva per effetto di
un duplice processo di esclusione e di autoesclusione nei confronti delle società che li
ospitavano. Le comunità ebraiche svilupparono pressoché ovunque due dinamiche
contrapposte: da un lato la tendenza al rafforzamento della propria identità attraverso
la difesa dell’ortodossia religiosa e il divieto di sposarsi al di fuori della comunità
(endogamia), dall’altro lato la tendenza all’assimilazione attraverso l’occultamento
della propria identità e, al limite, attraverso la conversione alla religione dominante del
paese in cui si trovavano a vivere.
Nel tardo Medioevo, esclusi di fatto o di diritto da quasi tutti i mestieri, gli ebrei si
specializzarono nel mestiere interdetto ai cristiani: il prestito ad interesse (usura). Ciò
li poneva in una posizione ad un tempo “centrale” e “marginale”: centrale perché
permetteva loro di intrattenere rapporti con le corti, i ceti dominanti e i nascenti centri
dell’attività finanziari, marginale perché li escludeva dalle più importanti attività
produttive e dalla rete delle relazioni nella sfera socioculturale. Questa posizione
sociale trova espressione nelle diverse forme di segregazione spaziale delle comunità
ebraiche e, soprattutto nell’istituzione del ghetto.
L’affermazione dei diritti umani e civili seguita alla rivoluzione francese significò per gli
ebrei l’emancipazione sul piano giuridico e aprì nuove opportunità di integrazione sul
piano economico, sociale e culturale. Le nuove ideologie nazionaliste che si diffusero
in Europa nel XIX secolo alimentarono nuove forme di ostilità nei confronti di una
comunità che, accanto all’identità nazionale, manteneva un’altra identità collettiva.
Mentre da un lato molti esponenti delle comunità ebraiche si affermavano in vari
campi, le correnti dell’antisemitismo facevano breccia in strati profondi dell’opinione
pubblica dei paesi europei.
Essi divennero il capro espiatorio per eccellenza e cui imputare tutte le crisi di quegli
anni. L’antisemitismo trovava un fertile terreno di diffusione soprattutto in personalità
fragili, educate in modo autoritario e appartenenti a ceti minacciati dagli
sconvolgimenti prodotti dalle periodiche crisi economiche e sociali. L’antisemitismo fa
parte di un’ideologia complessa, caratterizzata da un estremo conservatorismo, supina
sottomissione dell’autorità, ma, nello stesso tempo, feroce autoritarismo verso coloro
che sono più deboli e hanno minor potere, il tutto sostenuto da idee etnocentriche che
pongono il proprio gruppo al vertice dei valori.
Il “dilemma americano”
Poco prima della seconda guerra mondiale, la fondazione Carnegie affidò a Gunnar
Myrdal, la conduzione di una grande indagine sulla popolazione di colore al fine di
individuare gli ostacoli che si frapponevano alla sua integrazione nella società
nordamericana. Myrdal arrivò alla conclusione che tra i valori egualitari del credo
americano, solennemente sanciti nella Costituzione e fatti propri dalla maggioranza
della popolazione, e le pratiche discriminatorie cui veniva sottoposta la popolazione di
colore, perdurava una profondo e drammatico contrasto e che tale contrasto impediva
un’esplicita presa di coscienza del problema da parte della maggioranza bianca.
Inoltre la discriminazione attuata dalla maggioranza che si riteneva superiore nei
confronti di una minoranza ritenuta inferiore si ripercuoteva sulla stessa immagine del
mondo della stessa minoranza nera, la quale finiva per ritenersi e comportarsi come
inferiore, aggravando così ulteriormente la propria situazione di inferiorità in un
processo di causazione circolare cumulativa. Si tratta di un vero e proprio circolo
vizioso in cui la discriminazione e il pregiudizio creano in chi ne è vittima un’auto
immagine di inferiorità e quindi comportamenti che confermano e rafforzano i
pregiudizi che li hanno generati.
Anche dopo l’abolizione della schiavitù (1863), i neri restavano lo strato più povero
della società in quanto subivano di fatto forma di discriminazione sia dal punto di
vista residenziale e abitativo, sia nell’accesso al mercato del lavoro e alle opportunità
educative, sia nell’esercizio stesso dei diritti politici. Inoltre, soprattutto negli stati del
sud, erano state reintrodotte verso la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, forme legali
di discriminazione: ai neri era fatto divieto di usare le stesse carrozze ferroviari, gli
stessi gabinetti pubblici e gli stessi bar e ristoranti della popolazione bianca. La
segregazione e l’isolamento sociale dei neri persistevano come tratto fondamentale
della loro condizione.
Gli Stati Uniti sono una società di immigrati. Le ondate migratorie, provenienti
dall’Europa, dall’America Latina e dall’Asia si sono gradualmente integrate nella
società americana, sia pure con difficoltà, favorite dalle immense opportunità offerte
prima dall’espansione verso ovest (frontiera), poi dallo sviluppo dirompente
dell’economia capitalistica. Per spiegare questi processi, alcuni sociologi hanno parlato
della società americana come di un crogiolo (melting pot) in cui si fondono in una
nuova sintesi culture diversa. Questa interpretazione trova però un limite proprio nella
mancata integrazione della minoranza nera. Se non fosse per la discriminazione
razziale, non si spiegherebbe come mai la minoranza nera, che pure è la minoranza di
più antica immigrazione sia rimasta costantemente ad occupare gli strati più bassi
della scala sociale.
Non è difficile spiegare come i pregiudizi e gli stereotipi che attribuiscono ai neri
caratteristiche negative siano più radicati negli strati più bassi della popolazione
bianca, in genere nei gruppi di più recente immigrazione. Per questi gruppi i neri
vengono percepiti come minaccia, sia perché competono negli stessi segmenti più
bassi del mercato del lavoro, sia perché sono spesso localizzati in zone contigue nelle
aree urbane. Da questa prossimità – ostilità nasce l’esigenza di erigere barriere che
minimizzino la probabilità di contatto. Il pregiudizio nei confronti di tutte le minoranze
connotate in senso etnico – razziale, cresce quanto più basso è il livello di istruzione e
quindi quanto è minore la capacità di sviluppare una rappresentazione articolata della
realtà sociale.
Non si deve tuttavia pensare che la condizione dei neri in America non si sia
modificata nel corso del tempo. Le spinte al cambiamento sono venute sia dal basso
che dall’alto. Dal basso per effetto dei movimenti collettivi che hanno mobilitato in
varie forme la popolazione nera per l’affermazione della parità di diritti e opportunità,
col sostegno di strati consistenti dell’opinione pubblica bianca di orientamento liberale
e progressista. Dall’alto per effetto di una legislazione, a livello federale, volta a
rimuovere gli ostacoli all’integrazione prodotti dalle diverse forme di discriminazione.
Tuttavia, senza la mobilitazione dal basso dei movimenti neri, ben difficilmente il
Congresso avrebbe passato una legislazione anti discriminatoria.
Una prima breccia avvenne, alle soglie della seconda guerra mondiale, con l’abolizione
della segregazione nell’esercito e con la messa fuori legge delle pratiche
discriminatorie nel mercato del lavoro. Ma solo nel 1964, sotto la spinta del
movimento non violento guidato da Martin Luther King, il Congresso approvò il Civil
Rights Act che poneva fine, formalmente, a ogni forma di discriminazione su base
razziale.
La legislazione sui diritti civili rappresentò senz’altro una grande passo avanti. Non
basta tuttavia che la discriminazione sia abolita per legge per far sì che essa scompaia
nelle pratiche e nei comportamenti quotidiani. Nell’accesso all’istruzione, al lavoro e
alla residenza, così come nei rapporti con le forze dell’ordine e la giustizia, permasero,
e permangono tuttora, forti discriminazioni di fatto.
Per contrasta queste persistenti tendenze furono adottate, nel corso degli anni
settanta e ottanta, misure volte a corregge e riequilibrare lo svantaggio iniziale dovuto
all’appartenenza a una minoranza discriminata e a promuovere processi di mobilità e
integrazione sociale. Queste misura vanno sotto il nome di azioni positive e
consistono nel riservare agli esponenti delle minoranze uno quota di posti
nell’ammissione alle scuole e alle università, nell’assunzione negli impieghi pubblici e
privati e, per quanto riguarda le imprese, nell’assegnazione di appalti pubblici.
Molte sono le opposizioni e le resistenze che tali misura hanno incontrato in fase di
elaborazione e di attuazione, anche perché in un certo senso si scostano dai principi
liberali, individualistici e meritocratici sui quali si fonda il credo americano. Esse sono
state comunque efficaci nel promuovere il consolidamento di una classe media di
coloro e nell’incrementare il numero di posizioni di rilievo nell’amministrazione
pubblica e nelle professioni occupate da esponenti delle minoranze. La grande
maggioranza della popolazione nera, però, resta ancorata al fondo della società,
segregata in quartieri fatiscenti con alti tassi di criminalità e di uso di droga, con
servizi educativi e sanitari inesistenti e, soprattutto, afflitta da tassi di disoccupazione
assai più elevati del resto della popolazione. Si è chiaramente instaurato un circolo
vizioso che impedisce a una parte cospicua della minoranza nera di raggiungere un
livello dove possa godere degli stessi diritti di cui godono gli altri cittadini. Le
periodiche esplosioni di rivolta nei ghetti neri delle grandi città sono un’indicazione
evidente del fatto che il “dilemma americano” resta un problema aperto.
Si creò così una società di immigrati fondata sulla schiavitù che trovava sostegno e
giustificazione in un versione razzista del protestantesimo calvinista in base alla quale
sulla popolazione di colore gravava una sorta di dannazione biblica. L’abolizione legale
della schiavitù, imposta dall’Inghilterra nel 1835, provocò la secessione boera e la
creazione delle due repubbliche boere dell’Orange e del Transvaal nel tentativo di
perpetuare, insieme alla schiavitù, il mondo arcaico dei primi coloni.
Le prospetti di sfruttamento delle miniere d’oro e diamanti condusse prima alla guerra
anglo – boera e quindi alla creazione dell’Unione sudafricana che, oltre alla provincia
del Capo e alle repubbliche boere, comprendeva la colonia inglese del Natal. I Boeri,
sconfitti militarmente, mantennero tuttavia nel nuovo stato una posizione di dominio e
imposero una serie di misura legislative che, da un lato, riservavano alla popolazione
bianca i posti di lavoro migliori nell’industria, lasciando agli indiani, ai meticci e ai neri
le mansioni più ingrate e faticosa e, dall’altro lato, confinavano la popolazione nera
della campagne in “riserve” a seconda dell’origine tribale.
Il regime dell’apartheid si instaura formalmente solo dopo il 1948, anno in cui prende il
potere la corrente più radicale e conservatrice delle forze politiche espressione della
minoranza bianca. La società dell’apartheid è una società rigidamente gerarchizzata:
al vertice vi è la popolazione bianca, composta, oltre che dai discendenti degli antichi
coloni boeri e inglesi, da altri immigrati soprattutto tedeschi, ed ebrei e a sua volta
articolata lungo linee di classe (benestanti e poveri), seguono gli Indiani, i Malesi di
Città del Capo, i meticci e gli altri neri. Al gradino più basso stanno i lavoratori neri
immigrati dalle regioni settentrionali, gli eredi degli antichi Boscimani e Ottentotti. In
regime di apartheid, i diritti politici sono riservati alla minoranza bianca, vige una
rigida discriminazione nell’accesso ai posti di lavoro, vi è segregazione nei luoghi e nei
servizi pubblici (trasporti, bar, scuole) e, inoltre, la popolazione nera è sottoposta a
severe restrizioni che ne limitano la stessa mobilità geografica (avevano un
passaporto per individuare il luogo della residenza coatta).
Gli esempi che abbiamo appena visto sono casi in cui gli europei sono emigrati dai loro
paesi per colonizzarne altri e in questo processo hanno dovuto fare i conti con
minoranze e maggioranze di appartenenti a razze e culture diverse (Sudafrica, Usa). In
realtà, tutti i continenti hanno visto una massiccia penetrazione di immigrati europei
(America del Nord, America Latina, Africa, Australia). Ma l’intero globo è percorso da
continue migrazioni spinte sia da processi di espulsione dalle zone di provenienza
(squilibrio tra popolazione e risorse locali), sia da processi di attrazione verso zone di
destinazione dove si spera di trovare opportunità a condizioni di vita migliori.
Con la fine delle ondate migratorie dei primi decenni del Novecento e con la
conclusione del processo di decolonizzazione negli anni sessanta, l’Europa ha cessato
di essere area di emigrazione e si è trasformata in area di immigrazione. In un primo
tempo i flussi migratori si sono diretti dalle ex colonie verso le ex potenze coloniali, in
seguito, dalla metà degli anni ottanta, i flussi si sono rivolti vero la Germania e l’Italia,
senza connessione con il loro passato coloniale.
Due fattori di ordine strutturale sono all’origine di questa più recente corrente
migratoria verso l’Europa: l’esplosione demografica in molti paesi del Terzo mondo,
che ha rotto un già precario equilibrio tra popolazione e risorse, e lo straordinario
periodo di sviluppo delle economie dei paesi dell’Europa occidentale, la cui opulenza
esercita una forte attrazione per tutti coloro che sono afflitti dalla miseria e dalla fame.
Se ai flussi migratori provenienti dai paesi del Terzo mondo aggiungiamo la
migrazioni interne tra gli stessi paesi dell’Europa occidentale sviluppatesi negli anni
sessanta e settanta, e le più recenti migrazioni verso Occidente provenienti dai paesi
dell’Europa centrale e orientale, ci rendiamo conto che ogni paese dell’Europa
occidentale ha oggi una popolazione composita, in cui coloro che vivono e lavorano in
una paese diverso da quello nel quale sono nati sono diventati una cospicua
minoranza.
Di fronte a queste tensioni, i paesi dell’Unione Europea hanno adottato negli ultimi
anni politiche di contenimento e di controllo tendenti a porre un freno
all’immigrazione. Tali politiche devono essere viste nell’ambito del contesto specifico
che ha caratterizzato la storia delle migrazioni in ogni singolo paese. Vi sono paesi
(Francia, Germani, Regno Unito) che hanno una storia più lunga di immigrazione e una
presenza più consistente di minoranze etnico –razziali e altri, come l’Italia, dove
l’immigrazione è un fenomeno recente. In Francia le politiche nei confronti degli
immigrati hanno da tempo puntato alla loro assimilazione alla cultura francese. Questa
politica ha mostrato scarsa efficacia soprattutto nel caso dei giovani di seconda
generazione che vivono nelle periferie delle grandi città e presentano tassi elevati di
disoccupazione. Nel Regno Unito al riconoscimento dei diritti politici si è
accompagnata una segmentazione sub culturale che ha garantito la sopravvivenza di
molti tratti delle culture d’origine. In Germania l’immigrato è stato trattato come
lavoratore – ospite al quale garantire un lavoro, e le connesse prestazioni sociali,
assistenziali e sanitarie, e un’abitazione, senza intenzione di integrarlo in modo
permanente nella società tedesca. Di fatto, però molti lavoratori – ospiti si sono
stabilizzati, soprattutto quando i loro figli hanno frequentato scuola tedesche, anche se
prevedono di tornare in patria al raggiungimento dell’età del pensionamento. Una
distinzione importante è tra migrazioni temporanee e migrazioni permanenti. Molto
spesso gli immigrati partono dal loro paesi con un progetto temporaneo, pensando
cioè di ritornare non appena guadagnata una somma sufficiente per poter vivere
dignitosamente nel paese d’origine. Col tempo, tuttavia, l’iniziale progetto temporaneo
si trasforma in molti casi in una permanenza stabile nel paese d’arrivo, soprattutto se
si tratta di emigrati con la famiglia e i cui figli si sono integrati nella nuova società.
Il numero degli immigrati in Italia suscita allarme, soprattutto in quegli strati della
popolazione che hanno più possibilità di venire a contatto con la fascia più diseredata
e precaria della popolazione di immigrati: i “clandestini che si insediano in abitazioni di
fortuna nelle periferie delle grandi città e che sopravvivono con occupazioni del tutto
precarie. Si innesca così il tipico meccanismo del pregiudizio: all’insieme degli
immigrati vengono applicati gli stereotipi costruiti in riferimento alla sottoclasse degli
stessi caratterizzata da maggiore visibilità e ci si dimentica che molti immigrati sono
regolari e onesti. In varie zone e settori la forza lavoro immigrata è ormai
indispensabile per far funzionare le aziende che la impegnano.
Il fatto poi che i tassi di criminalità delle popolazioni immigrate siano di norma più
elevati che non per la popolazione locale contribuisce a creare allarme tra gli autoctoni
e a sollevare la richiesta di più efficaci misure di sicurezza. Ci si dimentica che le
popolazioni di immigrati, soprattutto nelle fasi iniziali del processo di inserimento nella
società di accoglienza, sono più facilmente permeabili all’influenza di attività criminali
(criminalità italo –americana negli Usa anni 30’ – 40’). Si tratta però sempre di
minoranze ed è scorretto generalizzare tali tendenza alla popolazione immigrata nel
suo complesso.
Etnie e nazioni
Nel lessico delle scienze sociali vi è spesso confusione tra il concetto di etnia, e i
concetti di nazionalità e nazione. Le ragioni di questa confusione dipendono dal
fatto che gli stessi termini vengono usati con significati diversi. Si possono distinguere
due significati diversi a seconda del rapporto che si instaura tra etnia, nazione e
comunità politica (stato nazionale). Nel primo caso, il concetto di nazione designa una
collettività (popolo) che si richiama a una discendenza comune, ai vincoli creati dalla
lingua, dai costumi e dalle tradizioni comuni, e che, in virtù di tale comunanza,
rivendica a sé il diritto di organizzarsi, su un dato territorio, in forma di stato sovrano.
In questo caso, la nazione si fonda sull’etnia ed entrambe, etnia e nazione, precedono
la formazione dello stato – nazione. In altre parole, la nazione nasce attraverso la
mobilitazione dei sentimenti di appartenenza etnica in vista della fondazione di uno
stato.
Nel secondo caso, invece, il concetto di nazione designa una collettività di cittadini che
hanno comuni diritti e doveri nell’ambito di uno stato territoriale. In questo caso lo
stato precede la formazione della nazione e questa può essere composta anche da
etnie differenti.
Questi due concetti di nazione rimandano ai diversi processi di formazione degli stati
nazionali. Alcuni stati nazionali sono nati dalle trasformazione di stati dinastici
preesistenti per effetto di processi di modernizzazione che hanno coinvolto le varie
sfere della vita sociale (economia, politica, militare, educativa); come principio di
legittimazione la nazione si è sostituita agli antichi principi dinastici, sia nella forma
democratica dei diritti di cittadinanza, sia nelle forme plebiscitarie o totalitaria
(Francia, Spagna, Olanda, Gran Bretagna, Svezia, Russia). La nazione si è formata o
perché un etnia è diventata dominante o perché si è formata una coscienza nazionale
che ha messo in secondo piano le varie etnie o nazionalità preesistenti sul territorio, le
quali sono state a seconda dei casi cancellate, oppresse, oppure mantenute in
posizione subordinata o garantire da statuti di autonomia (Catalani e Baschi in
Spagna).
Altri stati nazionali sono nati dalla disgregazione di stati dinastici, imperi o federazioni
multinazionali attraverso la rivendicazione di gruppi etnici di darsi un’organizzazione
statuale (stati nati dalla disgregazione dell’impero asburgico, dalla disgregazione
dell’Urss).
Vi è, infine, il caso di quegli stati nei quali si sviluppa una coscienza nazionale sulla
base, tuttavia, di una pluralità di origini etniche e di nazionalità. Si tratta di stati a
base multietnica e multinazionale.
Vi sono nel mondo moderno vari esempi di stati multietnici e multinazionali (Usa,
Australia, Svizzera). Prendiamo il caso degli Usa, un paese che si è formato attraverso
successive ondate di immigrazione di popolazioni di varie razze, etnie, culture e
religioni. Non c’è dubbio che la grande maggioranza degli abitanti degli Usa si sentano
oggi appartenenti alla “nazione americana”, nonostante le loro diverse origini e
nonostante il fatto che alcuni tratti delle loro culture d’origine si mantengano anche
dopo varie generazioni. La nazione in questo caso manca di qualsiasi fondamento
etnico, ma non è per questo meno solida; la nazione americana ha i suoi miti, le sue
memorie, i suoi eroi, i suoi simboli e sviluppa comunque tra i suoi membri un forte
sentimento di appartenenza al quale si sentono estranei forse soltanto gli “indiani”,
vale a dire i discendenti degli antichi abitanti del continente nordamericano.
Lo stato multietnico e multinazionale più grande nel mondo attuale è senz’altro l’India.
In India convivono una pluralità di gruppi etnici, linguistici e religiosi. Su una
popolazione di circa 1 miliardo e 100 milioni di abitanti si contano almeno 225 gruppi
linguistici e circa 1.500 lingue tra le quale l’hindi è parlato da circa 450 milioni di
persone, ma altre lingue sono parlate ciascuna da 50 milioni di persone. Di fronte a
questa varietà le tensioni e i conflitti risultano tutto sommato localizzati negli scontri
tra hindu e sik nella regione Punjab e tra hindu e musulmani nella regione del Kashmir.
L’India è un esempio della possibilità di organizzazioni statuali profondamente
eterogenee al loro interno dal punto di vista etnico, linguistico e religioso.
Lo stesso non è avvenuto nella ex Unione Sovietica dove, sulla base del principio che
ad ogni nazionalità debba corrispondere uno stato, sono nati dal 1990 in poi una
miriade di nuove entità statali, ognuna delle quali rivendica la sovranità su un
determinato territorio. La storia ha tuttavia prodotto nel tempo un tale intarsio di
gruppi etnici e di nazionalità che ogni tentativo di tracciare un confine produce più o
meno cospicue minoranze e quindi guerre, deportazioni e operazioni di pulizia etnica.
Ogni stato nazionale europeo ha le sue minoranze e quando a queste non viene
garantito uno statuto di autonomia che ne assicuri la sopravvivenza culturale,
vengono di fatto assimilate o annientate, oppure deportate dai territori dove vivevano
da secoli. Il principio dello stato nazionale è quanto mai impietoso con le minoranze
(successe agli italiani dell’Istria e della Dalmazia).
Il tentativo di creare in Europa, cioè sul terreno dove storicamente si sono verificati i
più aspri conflitti etnico – razziali degli ultimi due secoli, un’entità statale
multinazionale, lascia sperare che sia possibile la convivenza sullo stesso territorio tra
popolazioni diverse per razza.
Parentela e discendenza
Dalle ricerche storiche è emerso che i flussi migratori che hanno avuto luogo nel corso
dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione non solo non indeboliscono le relazioni di
parentela, ma anzi sono possibili grazie ad esse. Le reti parentali hanno avuto infatti
enorme importanza per richiamare nuove persone, organizzare i loro spostamenti,
aiutare ad adattarsi alla nuova situazione.
Esogamia ed endogamia
Si usa endogamia per indicare le norme sociali che prescrivono la scelta del coniuge
all’interno di un gruppo, si usa esogamia per riferirsi invece alle norme che vietano di
sposarsi con una persona dello stesso gruppo. Questi due termini devono essere
sempre usati in riferimento ad un gruppo ben definito (clan, villaggio).
La norma che i membri dello stesso nucleo familiare devono sposarsi all’esterno è
ampiamente diffusa. Nelle società occidentali, le relazioni sessuali e i matrimoni tra
persone dello stesso nucleo familiare sono definiti incesto e condannati. Ma nelle
società del passato vi sono state notevoli differenze riguardo alle categorie di
consanguinei fra i quali il matrimonio non è consentito. Nessuna cultura tollera il
matrimonio tra genitori e figli. Quello invece tra fratello e sorella è stato ammesso e
persino incoraggiato in alcune società (antico Egitto).
Il tabù dell’incesto è stato spiegato in diversi modi. Alcuni l’hanno ricondotto al fatto
che le unioni fra consanguinei sono biologicamente pericolose perché generano figli
con minori probabilità di sopravvivenza. Altri hanno invece posto l’accento sui
vantaggi sociali e culturali di questa forma di esogamia. Il tabù dell’incesto, secondo
questa concezione, previene le rivalità e i conflitti all’interno della famiglia, perché non
si entra in competizione per i partner sessuali all’interno della famiglia; rafforza
l’unione tra marito e moglie; cementa la società perché moltiplica i matrimonio tra non
consanguinei.
L’esogamia riguardo al clan esiste oggi solo in pochi paesi (Africa nera a sud del
Sahara). Tale regola nasce probabilmente dall’esigenza di avere buoni rapporti con
persone di altri clan, di sviluppare alleanze politiche o assicurarsi un’accoglienza
pacifica.
Due sono i casi più famosi di società nelle quali si pratica l’endogamia. Il primo è
quello dell’India dove le norme impongono di sposarsi con una persona della stessa
casta, perché si ritiene che il contatto con le caste più basse sia ritualmente
contaminante per le persone di quelle più alte. Il secondo è quello dei paesi arabi, nei
quali le norme prescrivono di sposarsi con un parente prossimo, possibilmente con il
figlio dello zio paterno. La regola del matrimonio fra cugini paralleli patri laterali è così
coercitiva che il cugino può opporsi alla decisione della figli dello zio paterno di
sposare qualcun altro. La funzione di questa regola è probabilmente di evitare che una
parte del patrimonio esca fuori dal clan (dote).
Comunque, i dati di cui disponiamo mostrano tuttavia che il matrimonio con i parenti è
oggi molto meno diffuso di un tempo.
Monogamia e poligamia
Poche sono le società che hanno conosciuto la poliandria (società dei Toda dell’India,
una donna sposa contemporaneamente due o più fratelli e va a vivere con loro).
La poliginia è invece ancora assai diffusa nei paesi dell’Africa nera, dove negli ultimi
decenni non ha perso d’importanza. La quota degli uomini sposati che ha più di una
moglie è particolarmente alta nell’Africa occidentale (Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria)
mentre è più bassa in quella orientale e centrale.
Difficile è dire a cosa sia dovuta la fortuna della poliginia. L’opinione pubblica dei paesi
occidentali ritiene che la funzione principale della poliginia sia di offrire agli uomini una
certa varietà sessuale. Gli antropologi hanno messo in luce che ben altre sono le
funzioni e le ragioni del suo successo. Essa dà agli uomini dei vantaggi di carattere sia
demografico che economico. Per un uomo dell’Africa nera sposare più donne significa
avere più figli e poter disporre di più terra. In un sistema itinerante, in cui la
coltivazione delle piante alimentari spetta alle donne, mentre l’abbattimento degli
alberi per preparare nuovi appezzamenti di terra è compito dei giovani, l’uomo di una
famiglia poliginica riesce a produrre molto più di quello che ha una sola moglie. D’altra
parte, dovendo le mogli dedicarsi sia alla coltivazione che ai lavori domestici, una
donna può essere favorevole all’arrivo di un’altra moglie, perché spera di poter ridurre
il suo carico di lavoro.
Alcune ricerche hanno mostrato che perché un uomo abbia più mogli sono necessarie
due condizioni demografiche. La prima condizione è che vi sia una forte differenza fra
l’età al matrimonio degli uomini e quella delle donne. Ciò significa che questo ultime
si sposano giovanissime (15 anni), mentre i primi lo fanno ad un’età più avanzata (25
anni). In questo modo, nella classe di età fra 10 e 20 anni, quasi la metà delle donne
sono coniugate e quasi tutti gli uomini sono celibi. Nella classe di età successiva sono
in stato di matrimonio tutte le donne e la metà degli uomini. L’altra condizione ha che
fare con le seconde nozze. A causa della forte differenza di età al matrimonio fra
uomini e donne e dell’alto tasso di mortalità di queste società, le mogli restano vedove
molto presto. Inoltre, una parte rilevante delle coppie divorzia dopo i primi anni. Tutte
le donne però si risposano e lo fanno quasi subito (4 o 5 mesi dalla fine del primo
matrimonio). In alcune zone vige la norma del levirato, che prevede il diritto – dovere
da parte del fratello del morto di sposare la vedova di lui. I figli che avrà saranno
considerati figli del defunto.
Queste due condizioni hanno tre conseguenze importanti. La prima è che il numero di
donne coniugate è molto maggiore di quello degli uomini nella stessa condizione. La
seconda è che, nella popolazione maschile, al crescere dell’età aumenta la quota di
coloro che hanno due o tre mogli. La terza è che, nella popolazione femminile, al
crescere dell’età sale la quota delle spose di seconde nozze.
Le prime indagini empiriche sulla famiglia in Europa sono state condotte da Frèdèric
Le Play. Per analizzare la ricca documentazione raccolta, Le Play elaborò uno schema
di classificazione che prevedeva tre tipi ideali di famiglia.
- La prima è la famiglia patriarcale, nella quale tutti i figli sposati convivono sotto
lo stesso tetto con i genitori, sottoposti all’autorità del padre.
- Nucleare è detta la famiglia formata da una sola unità coniugale, sia completa
(marito, moglie e figli) oppure incompleta (madre vedova con figli), detta anche
monoparentale.
- Estesa viene chiamata la famiglia con una sola unità coniugale e uno o più
parenti conviventi. A seconda del rapporto di questo con il capofamiglia si parla
si estensione verticale (padre del capofamiglia) o orizzontale (fratello del
capofamiglia).
- Multiple sono le famiglie con due o più unità coniugali. Anche qui, a seconda del
legame fra queste unità, si parla di multiple verticali (padre, madre, figlio e
sposa) o orizzontali (fratelli che vivono con le rispettive mogli e figli).
Ma, oltre che per la struttura, le famiglie possono essere distinte anche a seconda dei
rapporti di autorità e di affetto esistenti fra coloro che ne fanno parte, dei modi
con cui essi interagiscono e si trattano, dei sentimenti che provano l’uno per l’altro. Da
questo punto di vista, si può contrapporre la famiglia patriarcale a quella coniugale
intima. Per patriarcale si intende un tipo di famiglia che, quale che sia la sua
struttura, è caratterizzata da una rigida separazione dei ruoli fra i suoi membri, sulla
base del sesso e dell’età, e da relazioni di autorità fra marito e moglie, genitori e figli,
suocere e nuore, fortemente asimmetriche. In questo tipo di famiglia, inoltre, i genitori
influiscono considerevolmente sulla scelta del coniuge e, anche dopo il matrimonio, il
legame fra lo sposo e i genitori conserva una straordinaria importanza. Coniugale
intima è invece definita quella famiglia che, quale che sia la sua struttura, presenta
un sistema di ruoli più flessibili, meno legato al sesso e all’età, e in cui le relazioni di
autorità sono più simmetriche. In questa famiglia, inoltre, la scelta del coniuge è più
libera e il legame coniugale assume un’importanza maggiore di quello fra lo sposo e i
suoi genitori.
Hajnal ha sostenuto che, nella società preindustriale, vi erano due diversi modi di
formazione della famiglia.
- Il secondi sistema di formazione della famiglia, tipico di tutti gli altri paesi
(soprattutto asiatici), si basava su tre regole del tutto diverse. In primo luogo, gli
uomini, ma soprattutto le donne, si sposavano abbastanza presto (i primi sotto i
26 anni, le seconde sotto i 22). In secondo luogo, la nuova coppia andava a far
parte di una famiglia multipla, in cui vi era un’altra coppia più anziana e dunque
il marito non diventava subito capofamiglia. Infine, non vi era l’uso di andare a
servizio alcuni anni prima di sposarsi.
I dati di cui disponiamo mostrano la validità di una parte delle tesi di Hajnal. In Europa
ancora nella prima metà del Novecento, soprattutto in quella centro – settentrionale,
le donne si sposavano molto più tardi che in Asia o in Africa.
Le ricerche storiche hanno messo in luce che, per molto tempo, nei paesi asiatici, si
seguiva il secondo sistema di formazione della famiglia. Si formavano famiglie multiple
orizzontali. D’altra parte, nei paesi dell’Europa nord – occidentale, almeno dal
Cinquecento in poi, la grande maggioranza della popolazione ha sempre seguito la
regola di residenza neolocale andando a vivere in una famiglia nucleare. Poiché
seguire queste regola significava procurarsi i mezzi necessari per mettere su casa, la
popolazione si sposava tardi. Prima del matrimonio, molti andavano a servizio in
un’altra famiglia per guadagnare le risorse necessarie per le nozze. Questo sistema di
formazione della famiglia ha avuto grande importanza anche per l’andamento della
fecondità.
Altri dati non possono essere interpretati con lo schema di Hajnal. Lo si può dire di
quanto si sa del Giappone, che a differenza degli altri paesi asiatici, non seguiva il
secondo sistema di formazione della famiglia. Anche in Giappone, come in India e in
Cina, si sposavano tutti, ma in molte zone lo facevano più tardi. Diversa era anche la
struttura della famiglia. Mentre in Cina e in India dominava la famiglia multipla al
tempo stesso orizzontale e verticale, in Giappone era molto diffusa la famiglia multipla
verticale o a ceppo (solo un figlio restava in casa con la moglie).
Per quanto riguarda l’Italia, se andiamo indietro nel tempo troviamo sia il prima che il
secondo dei due sistemi di formazione della famiglia. Il primo, ad esempio, era seguito
nei centri urbani, ma soprattutto in Sardegna. Il secondo metodo di formazione della
famiglia era assai diffuso nelle campagna fiorentine del Quattrocento.
Ma insieme a questi vi sono stati nel nostro paesi altri due sistemi di formazione della
famiglia. Il primo ha dominato per lungo tempo nell’Italia meridionale. La popolazione
femminile si sposava in giovanissima età. L’uso dei garzoni nelle famiglie agricole era
sconosciuto. I due sposi seguivano la regola di residenza neolocale e mettevano su
casa per conto proprio. Il secondo sistema di formazione della famiglia era seguito, nel
corso del Settecento e dell’Ottocento, nelle campagne delle regioni della mezzadria: in
Toscana e in Emilia, nelle Marche e in Umbria. In queste zone, l’uso dei garzoni nelle
famiglie agricole era abbastanza diffuso. Dopo le nozze si seguiva la regola di
residenza patrilocale e si andava a vivere in famiglie multiple orizzontali o orizzontali e
verticali. La popolazione femminile si sposava in età avanzata (24 – 25 anni).
Gli studiosi di scienze sociali hanno per lungo tempo pensato che la famiglia
nucleare e coniugale sia nata con il passaggio dalla società tradizionale a quella
moderna. Tale sistema era incompatibile con la famiglia complessa tradizionale,
perché funzionava reclutando delle persone in base non alle caratteristiche ascritte
ma acquisite e provocando una forte mobilità geografica e sociale della popolazione.
Le ricerche condotte negli ultimi decenni dagli studiosi hanno tuttavia messo in crisi
l’idea che il periodo dell’industrializzazione costituisca lo spartiacque fra la famiglia
tradizionale e quella moderna e hanno presentato un quadro molto più ricco e preciso
dei mutamenti avvenuti negli ultimi secoli nella famiglia dei paesi occidentali;
distinguendo fra i mutamenti nella struttura (nucleare) e quelli nelle relazioni interne
alla famiglia (coniugale).
Tenendo conto di ricerche svolte in paesi europei si può arrivare alla conclusione che,
almeno dalla metà del Cinquecento, nell’Europa centro – settentrionale, la grande
maggioranza della popolazione ha sempre seguito la regola di residenza neolocale e
dunque che la famiglia nucleare ha preceduto di secoli l’industrializzazione.
Diversa è stata la storia dei mutamenti della struttura della famiglia nei paesi
dell’Europa meridionale e in particolare dell’Italia. Da noi infatti le famiglie complesse
hanno avuto nel passato un’importanza maggiore che nei paesi dell’Europa centro –
settentrionale e l’urbanizzazione e l’industrializzazione hanno fato un rilevante
contributo all’affermazione della regola di residenza neolocale.
Nel caso dei mezzadri il contratto obbligava la famiglia a vivere nel podere e a
subordinare alle esigenze di questo le sue dimensioni e la sua composizione (il
proprietario sceglieva con cura la famiglia e non dovevano esserci troppe bocche
inutili da sfamare; per questo nessun componente poteva sposarsi senza
l’autorizzazione del proprietario).
Tuttavia anche in Italia vi sono state grandi zone nelle quali la famiglia nucleare ha
preceduto di secoli l’industrializzazione. Nel Seicento, in Puglia, in Sicilia e in altre zone
meridionali la maggioranza della popolazione seguiva la regola di residenza neolocale.
Nelle regioni centro – settentrionali, gli artigiani, quando si sposavano mettevano su
casa per proprio conto. In modo simile si comportavano gli strati più poveri della
popolazione urbana, quelli formati spesso da immigrati, i quali però vivevano molto più
spesso da soli o in famiglie senza struttura coniugale.
Soltanto le persone appartenenti ai ceti più elevati seguivano dopo le nozze la regola
di residenza patrilocale e andavano a vivere in famiglie multiple verticali o orizzontali
e verticali. Ma, anche in questi ceti, il passaggio alla famiglia nucleare è iniziato verso
la fine del Settecento, cioè molto prima dell’avvio del processo di industrializzazione,
ed è stato provocato soprattutto da mutamenti avvenuti nelle regole di trasmissione
della proprietà da una generazione all’altra, con la crisi del modello basato sul
fedecommesso e la primogenitura.
Più difficile è tuttavia interpretare questi fatti. Molti storici hanno efficacemente
mostrano che l’abbandono dei neonati o altri comportamenti “crudeli” può da solo
dirci quali fossero i sentimenti dei genitori verso i figli. Neppure l’infanticidio. Tuttavia
sappiamo che le relazioni esistenti fra i membri di una famiglia erano un tempo molto
diverse da quelle di oggi. In tutti i ceti sociali, nelle famiglie multiple come in quelle
nucleari, dominava un modello di autorità patriarcale,una gerarchia di posizioni e di
ruoli definiti in base all’età, al sesso e all’ordine di nascita. Al vertice vi era il maschio,
padre e marito. E a lui la moglie, i figli e le nuore erano completamente subordinati.
Fra marito e moglie vi era una rigida separazione dei ruoli, che faceva si che, quando
non lavoravano, essi trascorressero la maggior parte del tempo non insieme, ma con
altre persone dello stesso sesso. I rapporti fra i coniugi erano dominati dal distacco
e dal riserbo (nelle famiglie nobili si davano del “voi”, nei ceti più bassi la moglie dava
del “voi” al marito e lui del “tu” alla prima).
In molti paesi asiatici, nell’ultimo mezzo secolo, la famiglia coniugale ha fatto dei
grandi passi avanti. In questi paesi vi è innanzitutto un importante cambiamento nel
campo della scelta del coniuge. In effetti un tempo, in Cina, in India e in Giappone,
esso non era una faccenda personale, privata, ma un affare di famiglia, della famiglia
e per la famiglia. Per i genitori e i parenti dello sposo, il matrimonio serviva a generare
dei bambini che permettessero di perpetuare la linea di discendenza e di acquisire una
donna che aiutasse nei lavori domestici e che curasse e assistesse la suocera e il
suocero quando questi diventavano vecchi.
Completamente mutate sono nei paesi asiatici anche le relazioni interne alla famiglia e
in particolare quelle fra i coniugi e fra essi e i genitori dello sposo. Nella famiglia
multipla tradizionale cinese e indiana, i due coniugi, appena sposati, dovevano
mantenere l’uno verso l’altro un atteggiamento freddo e riservato. Fuori dalla camera
da letto essi dovevano evitare ogni manifestazione di affetto e potevano perfino
rivolgersi poco la parola, salvo nei casi in cui il marito doveva dare degli ordini alla
moglie. La giovane moglie e un eventuale rapporto di affetto fra lei e il marito
venivano visti come una minaccia incombente all’unità e alla compattezza della
famiglia multipla.
La famiglia coniugale ha perso importanza nei paesi occidentali. Qui, a partire dalla
metà degli anni sessanta, si è avuto contemporaneamente una diminuzione del
numero delle nozze, un forte aumento delle separazioni legali e dei divorzi e una netta
flessione della fecondità. E questi cambiamenti hanno favorito la nascita di nuovi tipi
di famiglia.
In tutti i paesi occidentali sono in corso da tempo due tendenze di segno opposto, che
hanno portato ad un progressivo allontanamento fra il momento del primo rapporto
sessuale completo e quello del matrimonio. Da un lato infatti si è avuto un
abbassamento dell’età al primo coito. Dall’altro invece vi è stata una diminuzione della
nuzialità e un innalzamento dell’età al matrimonio.
La diminuzione del numero dei matrimoni è iniziata in tutti i paesi occidentali nel
corso degli anni sessanta e settanta. Ovunque la flessione della nuzialità è stata
accompagnata da tre diverse tendenze. In primo luogo, vi è stato un forte aumento del
numero di giovani che vivono da soli (Danimarca, Francia). In secondo luogo, dalla
metà degli anni settanta è aumentata la propensione dei giovani a restare sempre più
a lungo nella casa dei genitori. In terzo luogo, la diminuzione della nuzialità è stata
accompagnata dalla diffusione delle convivenze more uxorio, cioè di quelle famiglie
di fatto che si formano quando due persone di sesso diverso abitano insieme come
coniugi senza tuttavia essere unite in matrimonio (apparse alla metà degli anni
sessanta in Svezia). Si può dire genericamente, che quanto più è alta la percentuale
della popolazione dei paesi dell’Europa che si dichiara cattolica, tanto più bassa è la
quota di giovani coppie eterosessuali che convivono more uxorio.
Questi mutamenti nel costume hanno provocato dei cambiamenti anche nelle norme
giuridiche. L’adulterio non è più considerato reato. I figli naturali, nati fuori dal
matrimonio (un tempo “illegittimi”), hanno ormai gli stessi diritti di quelli legittimi
riguardo sia al mantenimento e all’educazione che all’eredità dei genitori. In alcuni
paesi si tende all’equiparazione tra famiglia naturale e famiglia legittima anche nel
campo dei rapporti patrimoniali.
In tutti i paesi, l’uso di convivere more uxorio con un’altra persona dell’altro sesso è
iniziato negli strati più secolarizzati delle popolazioni urbane e si è poi esteso agli altri
strati (in Svezia è iniziato nella classe operaia).
In alcuni paesi sta crescendo tuttavia l’importanza delle unioni libere, di quelle
famiglie di fatto che si pongono in alternativa a quelle legittime fondate sul
matrimonio. Esse durano più a lungo, sono feconde e non sfociano nelle nozze.
Soprattutto è a causa di questa tendenza che negli ultimi trentacinque anni, in tutti i
paesi occidentali, è aumentata la quota dei figli naturali, nati fuori dal matrimonio.
Le ricerche finora svolte hanno messo in luce che i motivi più importanti della
formazione di famiglie di fatto sono altri due. In primo luogo, le convivenze more
uxorio sono delle “unioni sperimentali”, che nascono come una forma di reazione alla
crescente instabilità coniugale (alti tassi di divorzio).
In secondo luogo, le famiglie di fatto nascono spesso anche dalle esigenze delle
donne, soprattutto di quelle con un alto libello di istruzione e con un’attività
professionale. Questo tipo di convivenza viene scelto perché la natura fluida e
flessibile della famiglia di fatto permette alle donne di rinegoziare diritti e doveri con
l’uomo con cui abitano, di rimandare il momento della nascita del primo figlio, di
ottenere maggiori spazi per l’attività di lavoro extradomestico.
A partire dal 1965, in tutti i paesi occidentali, vi è stato un forte aumento del numero
delle separazioni legali e dei divorzi. Tale aumento è continuato ininterrottamente
fino ad oggi in alcuni di questi paesi, in altri invece si è fermato all’inizio degli anni
ottanta.
Gli Usa sono il paese sviluppato in cui l’instabilità coniugale è maggiore. All’ultimo
posto vi sono la Spagna, il Portogallo e l’Italia, nei quali le coppie che divorziano sono
di meno. Anche nel nostro paese, tuttavia vi è stato un forte aumento dell’instabilità
coniugale. Ma fra le varie zone dell’Italia vi sono delle grandi differenze anche da
questo punto di vista. Da un lato vi sono regioni come l’Emilia – Romagna e la Liguria
dove vi è un alto tasso di instabilità coniugale. Dall’altro lato invece vi sono regioni
come quelle meridionali dove le separazioni legali e i divorzi sono molto meno
frequenti.
In tutti i paesi occidentali divorziano più frequentemente coloro che si sono sposati
molto giovani, che non appartengono ad alcuna confessione religiosa, che hanno
avuto genitori che si sono separati. Inoltre, in molti di questi paesi vi è una relazione
positiva fra instabilità coniugale e ceto sociale, cioè quanto più elevato è quest’ultimo
tanto più facile è che i coniugi restino insieme tutta la vita. In Itali invece avviene
l’opposto, cioè si separano e divorziano più frequentemente i professionisti e gli
imprenditori. Ma la situazione dell’Italia di oggi è, da questo punto di vista, molto
simile a quella che si aveva un secolo fa negli altri paesi occidentali nei quali il divorzio
è stato introdotto prima. Ciò fa pensare che finché il divorzio non si è istituzionalizzato,
finché i costi economici per sostenerlo non sono diminuiti, finché le persone dei ceti
più bassi non hanno superato il timore e la diffidenza che provano verso gli avvocati e
i tribunali, a rompere il matrimonio per via legale sono soprattutto le persone dei ceti
più elevati, mentre le altre ricorrono più frequentemente alla separazione di fatto.
Un tempo il divorzio veniva considerato come una sanzione contro il coniuge che si era
macchiato di una colpa (adulterio). Nel corso degli anni settante il sistema divorzio –
sanzione è stato abbandonato e sostituito da quello del divorzio – fallimento o rimedio.
Perché oggi un tribunale decreti la rottura di un matrimonio basta che fra marito e
moglie vi siano delle “differenze inconciliabili” che provochino un “fallimento” del
matrimonio e rendano la convivenza “intollerabile”.
In alcuni paesi, questo “fallimento” viene definito con un criterio oggettivo: un periodo
di tempo in cui i coniugi siano stati separati di fatto. Ma in altri paesi la definizione è
soggettiva, se non ci sono figli il divorzio viene subito concesso, altrimenti circa sei
mesi. In Italia il divorzio non si è affiancato alla separazione legale (presente già
nell’Ottocento), ma si è aggiunto ad essa. Ciò significa che da noi, a differenze che in
altri paesi, quello che porta alla rottura completa del matrimonio è un processo a due
stadi, perché da noi chi vuole divorziare deve di solito ottenere prima la separazione
legale. Un’importante conseguenza di questa peculiarità del nostro paese è che da noi
il divorzio avviene a un’età più avanzata che in altri paesi, perché dal momento
dell’ottenimento della separazione legale devono passare tre anni per poter essere
richiesto il divorzio.
Le famiglie ricostruite
Famiglie che ricordano quelle ricostituite sono esistite anche in passato, quando le
persone rimanevano vedove abbastanza giovani e molte di loro si risposavano. Ma le
famiglie ricostituite di oggi, nate dal divorzio, sono in realtà molto diverse sia da quelle
create dopo la vedovanza sia dalla famiglia coniugale classica.
Oggi la ricostruzione della famiglia comporta l’aggiunta di uno o due nuovi genitori ai
due già esistenti. Una caratteristica di fondo della famiglia ricostituita dopo un
divorzio è di avere dei confini più incerti e ambigui di quella coniugale, in termini sia
spaziali (figli affidati alla madre) che biologici (fratello “uterino”, cioè da parte di
madre ma con padre diverso) o giuridici. Quelli che fanno parte della famiglia
ricostituita non vivono sempre nella stessa casa e non hanno tutti lo stesso cognome.
Quanto ai figli, non tutti hanno lo stesso sangue nelle vene.
L’ambiguità di confini delle famiglie ricostituite dipende dalla storia coniugale dei due
adulti che l’hanno formata. Quando entrambi hanno alle spalle almeno un matrimonio
e un divorzio e portano con sé almeno un figlio, la nuova famiglia che creano è
strutturalmente molto complessa. Lo è invece poco quando uno solo dei due adulti è
stato sposato senza per altro aver avuto figli.
Le ricerche finora condotte mostrano che le seconde nozze sono ancora più fragili
delle prime, cioè si divorzia più frequentemente che nelle prime nozze. Questo è stato
spiegato con due diverse ipotesi. Per la prima ipotesi, se le persone che si risposano
divorziano più frequentemente è perché esse sono diverse dalle altre, cioè sono più
secolarizzate e sono più disposte a ricorrere al divorzio nel caso in cui il loro
matrimonio sia infelice. Per la seconda ipotesi le differenze vanno ricercate non nelle
persone che si risposano ma nella qualità del rapporto che nasce con le seconde
nozze. E questo rapporto è molto più difficile di quello delle prime nozze sia perché le
famiglie ricostituite sono strutturalmente più complesse e hanno confini più ambigui
sia perché esse non sono ancora pienamente istituzionalizzate. A differenze cioè di chi
fa parte di una famiglia coniugale, chi vive in una famiglia ricostituita non ha di fronte
a sé dei modelli di comportamento socialmente accettati e condivisi da seguire e da
utilizzare per affrontare i vari problemi che si trova di fronte.
Educazione e istruzione
L’educazione è una e molteplice. Molteplice perché ve ne sono tanti tipi quanti sono gli
strati in cui si articola una società (formazione di un imprenditore è differente da
quella di un operaio). Tuttavia essa è anche una, perché tutti i tipi diversi di
formazione poggiano sempre su una base comune. Ogni società, ogni paese, ha un
patrimonio di idee, di valori, di conoscenze, che cerca di trasmettere a tutti coloro che
vi entrano, qualunque sia la casta, il ceto o la classe a cui appartengono.
- In primo luogo, ogni generazione lascia alla successiva la cultura materiale della
società in cui è vissuta, l’insieme di strumenti e di oggetti che ha a sua volta
ereditato o che ha prodotto (automobili, strade, ponti).
- In secondo luogo, ogni generazione trasmette alle seguenti i modi di agire
standardizzati, che possono essere comunicati anche senza mezzi verbali (come
allevare i bambini, come cucinare i cibi).
Per più del 99 % della loro storia, gli esseri umani hanno vissuto in culture solo orali,
nelle quali l’educazione ha avuto luogo, in famiglia o sul lavoro, con contatti faccia a
faccia, con una lunga serie di conversazioni. Fu solo, dal VII secolo a.C. che, nelle città
– stato della Grecia, venne creato il primo sistema completo di scrittura alfabetica, che
esprimeva i singoli suoni linguistici con segni vocalici e consonantici, e che di qui si
diffuse in seguito in tutto il mondo.
Secondo molti studiosi il passaggio dalla cultura orale a quella scritta ha avuto
conseguenze di grande portata. Tra le tante cose, essa ha reso possibile lo sviluppo
della burocrazia moderna, che è basato non solo su regole scritte e sull’esistenza di
archivi, ma anche su metodi di reclutamento spersonalizzati. Tuttavia, quello che è
certo è che il passaggio dalla cultura orale a quella scritta è stato accompagnato dalla
nascita e dallo sviluppo della scuola. Fino a quanto il patrimonio culturale è stato
trasmesso solo con rapporti faccia – a – faccia e con conversazioni, la socializzazione è
avvenuta all’interno della famiglia e del gruppo di pari. Quando invece si è cominciato
a servirsi della scrittura come mezzo di comunicazione, una parte crescente
dell’educazione ha avuto luogo nella scuola (nel V secolo a.C. è stata istituita, in
Grecia, la scuola elementare).
Pur avvicinando alla nuova forma di comunicazione scritta tutti o quasi tutti, la scuola
ha creato nuove disuguaglianze e divisioni fra i vari gradi di alfabetizzazione.
L’educazione primitiva era un processo che manteneva una continuità tra i genitori e i
figli, mentre, l’educazione moderna sottolinea invece il ruolo della funzione educativa
nel creare discontinuità: nel rende alfabeta il figlio dell’analfabeta.
Teorie sull’istruzione
La teoria funzionalista
c) ne consegue che man mano che il livello di qualificazione richiesto dalle occupazioni
nella società industriale cresce, aumenta la percentuale della popolazione che deve
passare attraverso le istituzioni scolastiche, così come aumenta la durata del periodo
che questa deve trascorrere in esse.
La teoria marxista
Per la verità, Karl Marx si era occupato ben poco dei problemi della scuola. Ma, a
partire dagli anni settanta, alcuni filosofi, sociologi ed economisti hanno elaborato una
teoria dell’istruzione sviluppando alcune idee di Marx. Questi studiosi pensano che per
capire come sono nati, come operano e perché possono cambiare i sistemi scolastici
moderni è necessario guardare ai rapporti di produzione e alla lotta fra le classi sociali.
Il sistema scolastico opera in questo modo perché esiste una stretta corrispondenza
fra i rapporti sociali che vi sono a scuola e quelli che vigono nel mondo della
produzione. Infatti, fra gli studenti e gli insegnati e fra questi e i loro superiori vi è la
stessa divisione gerarchica del lavoro esistente nelle aziende. Ma gli aspetti più
importanti della corrispondenza sono tre. In primo luogo, gli studenti hanno tanto poco
potere sul loro curriculum di studi quanto i lavoratori sulle loro mansioni. In secondo
luogo, sia l’istruzione che il lavoro sono attività puramente strumentali, che vengono
svolte per ottenere premi (voto a scuola, salario in azienda) o per evitare conseguenze
spiacevoli (bocciatura, licenziamento). In terzo luogo, alla frammentazione del lavoro
nel mondo della produzione corrisponde una fortissima competizione fra gli studenti
provocata dal sistema di valutazione del loro rendimento da parte degli insegnati.
La teoria weberiana
Secondo Weber per analizzare i sistemi di istruzione e i mutamenti che essi hanno
subito nel corso del tempo tenendo conto della stratificazione sociale e degli interessi
e dei conflitti che essa crea. Per Weber i tipi fondamenti di potere sono tre:
carismatico, tradizionale, legale – razionale. Per ogni tipo di potere vi è un
diverso ideale educativo.
Weber spiega che, già all’inizio del Novecento, esami e titoli di studio avevano
acquistato un’enorme importanza nelle strategie di chiusura e di monopolizzazione
delle posizioni di vantaggio sociale ed economico. Rifacendosi a questa impostazione,
molti sociologi sostengono oggi che le professioni (avvocato) tendono a raggiungere il
monopolio del diritto di fornire determinati servizi (difendere in tribunale la causa di un
cliente) e, attraverso l’uso di credenziali educative, del diritto di decidere chi può farlo.
Coloro che si richiamano a questa teoria sostengono inoltre che i ceti elevati hanno
influito sulla struttura interna dei sistemi scolastici e sulle materie che vi venivano
insegnate. Dal momento che ciò che unisce i componenti di un ceto è una cultura
comune, usata come segno distintivo di appartenenza al gruppo, l’istruzione di ceto
ha avuto per molto tempo, e ha tuttora, notevole importanza. Completamente
staccata dalle attività pratiche, essa ha avuto spesso natura estetica e cerimoniale
(eleganza della calligrafia). In Europa, la scuole di maggior prestigio sono state quelle
in cui si insegnavano i classici, il greco e il latino.
Fatti e teorie
I dati di cui disponiamo mostrano tuttavia che le variazioni nello spazio e nel tempo
dell’istruzione non possono essere spiegate solo con le tre teorie (funzionalistica,
marxista e weberiana). Molti altri fattori hanno influito sull’andamento dell’istruzione:
la religione, le concezioni che della scuola hanno avuti i gruppi dominanti, lo sviluppo
dello stato nazionale.
La religione
All’inizio del XX secolo, l’area più progredita, in cui la quota della popolazione che
sapeva leggere e scrive superava il 90 % si estendeva dalla Svezia alla Svizzera,
passando per la Germania, ma comprendeva la Francia orientale, i Paesi Bassi,
l’Inghilterra e la Scozia. L’analfabetismo dominava invece in Russia, nella penisola
balcanica, in Italia, in Spagna e nel Portogallo.
Questi dati possono far pensare che in tutta Europa il tasso di alfabetismo dipendesse
solo o esclusivamente dal livello di sviluppo economico. Ma questo non è vero. A ben
vedere, le differenze esistenti all’inizio del XX secolo nel grado di istruzione fra le varie
regioni europee erano in gran parte riconducibili al peso della varie confessioni
religiose e al diverso atteggiamento che cattolici e protestanti hanno a lungo avuto nei
riguardi dell’alfabetizzazione e dei libri. Le ricerche storiche hanno dimostrato che la
Riforma protestante diede un contributo straordinario alla diffusione della
scolarizzazione. Le dottrine protestanti sostennero che, per diventare consapevole
della fede e della vita cristiana, per raggiungere la salvezza, ciascun individuo doveva
leggere con i proprio occhi le Sacre Scritture. Esse dunque si impadronirono
dell’invenzione della stampa a caratteri mobili e promossero la pubblicazione di Bibbie
in volgare, libri di preghiera e di catechismo.
Per molti secoli i gruppi dominanti hanno visto nell’istruzione di massa un grave
pericolo, perché, una volta istruiti, gli strati più bassi della società non avrebbero
accettato la loro degradante condizione e si sarebbero ribellati ai loro superiori.
In altri gruppi dirigenti e in altri movimenti ritroviamo invece l’idea, che ha finito per
affermarsi in tutti i paesi occidentali, che la diffusione dell’istruzione fra tutta la
popolazione fosse la politica migliore da seguire. L’argomentazione più importante a
favore della diffusione dell’istruzione è che questa era il miglior mezzo di controllo
sociale.
Ritroviamo queste diverse concezioni dell’istruzione anche nei vari stati dell’Italia
preunitaria. Così nello Stato pontificio dominava il modello del controllo sociale
attraverso l’ignoranza del popolo. Nel Granducato di Toscana si fece invece a poco a
poco strada il modello opposto, del controllo sociale attraverso la diffusione
dell’istruzione.
Dopo l’Unità, la classe dirigente italiana si trovò di fronte alla necessità di creare una
coscienza nazionale e di fare accettare a tutti il nuovo sistema sociale e politico, e
dunque si rifece al secondo modello, proclamando per la prima volta l’obbligatorietà e
la gratuità dell’istruzione primaria.
Varie ricerche hanno mostrato che i paesi nei quali ha avuto origine la scuola di massa
sono quelli in cui il concetto moderno di sovranità e il principio di nazionalità si sono
affermati prima. Gli stati nazionali si basavano infatti su alcune idee di fondo che
favorivano la nascita e lo sviluppo dei sistemi scolastici. In primo luogo, pensavano
che l’attore principale della società e dello stato fosse l’individuo. In secondo luogo,
ritenevano che la nazione altro non fosse che un insieme di individui e, di
conseguenza, che lo sviluppo nazionale presupponesse quello individuale. In terzo
luogo, avevano fiducia nel futuro e nel progresso. In quarto luogo, attribuivano grande
importanza all’infanzia, fase nella quale gli individui erano ancora malleabili e
potevano essere formati. Erano di conseguenza convinti che, con la scuola e un corpo
di insegnati professionisti, fosse possibile formare adulti leali e produttivi,
contribuendo in questo modo allo sviluppo della nazione.
Somiglianze e differenze
Fra i vari paesi vi sono oggi significative differenze riguardo all’istruzione, ma alcune di
esse si sono ridotte nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Questa è la conclusione a cui si
giunge mettendo a confronto questi paesi riguardo a quattro aspetti dell’istruzione.
Il terzo aspetto è costituito dal curriculum della scuola elementare. Dal 1920 ad oggi,
nei paesi di tutto il mondo vi è stata una tendenza alla standardizzazione dei curricula
della scuola elementare, cosicché oggi vi è una forte somiglianza riguardo alle materie
insegnate. Oggi, nel curriculum tipo delle scuole elementari di tutto il mondo, più di un
quarto delle ore di insegnamento è rivolto alla lingua nazionale, il 18 % alla
matematica, l’8 % alle scienze naturali, solo il 3 % alla storia, la geografia e
l’educazione civica.
Le differenze fra i due tipi di sistema scolastico sono diminuite nel corso del tempo,
anche se non sono scomparse. Il momento della separazione fra gli studenti che
possono e quelli che non possono entrare all’università ha luogo in Italia a 18 – 19
anni, al termine della scuola secondaria.
L’istruzione e le disuguaglianze
Sociologi e psicologi si sono rivolti soprattutto all’analisi delle relazioni fra le prime tre
forme di disuguaglianza.
Per trovare una definizione comune, alcuni studiosi hanno sostenuto che l’intelligenza
è ciò che viene misurato dai test del QI (quoziente d’intelligenza).
Da tutti i dati raccolti in molti decenni risulta che il QI degli allievi è correlato sia con il
rendimento scolastico sia con le caratteristiche dell’ambiente d’origine. Chi ha un
punteggio più elevato nei test di intelligenza apprende meglio e più rapidamente
quello che i docenti insegnano. Ma gli studenti di gruppi etnici e quelli di classi sociali
svantaggiate raggiungono nei test di intelligenza punteggi più bassi degli altri.
Alcuni studiosi hanno sostenuto che le differenze nel quoziente di intelligenza fra classi
sociali alte e basse dipende in gran parte da fattori ereditari. Queste affermazioni
hanno provocato un violento dibattito, nel quale la grande maggioranza degli studiosi
hanno respinto questa tesi per vari motivi.
Il primo è che i test del QI sono condizionati culturalmente e premiano coloro che
hanno maggiore familiarità con alcune idee e conoscenze. Ad essere favoriti sono in
genere i bambini bianchi di classe media, nella cui esperienza rientrano più facilmente
quelle forme di ragionamento astratto presupposto da alcune domande dei test. Ma se
fossero formulate diversamente, a trarne vantaggio sarebbero i bambini di altri
ambienti sociali.
In secondo luogo, le prove a sostegno della tesi precedente non sono considerate
soddisfacenti. Che l’intelligenza sia in parte innata e in parte appresa, in parte dovuta
a fattori ereditari e in parte a fattori ambientali, è fuori discussione. Misurare il peso di
queste due componenti è tuttavia assai difficile, a volte pesa di più il fattore ereditario,
altre volte di più quello ambientale.
Quanto più elevata è la classe di origine, quanto più probabile è che uno studente
abbia un buon rendimento scolastico e che continui a lungo gli studi, fino alla laurea e
oltre. Oltretutto, ciò che influisce sul successo negli studi è il titolo di studio dei
genitori, a prescindere dal loro reddito e dalla loro occupazione.
Di questa relazione fra classe sociale e successo scolastico sono state fornite
spiegazioni assai diverse. Per la teoria del deficit, se i giovani provenienti dalla
classe sociali più basse hanno un cattivo rendimento scolastico e interrompono presto
gli studi è perché, la famiglia non fornisce loro né le capacità cognitive e linguistiche
né i valori, gli atteggiamenti e le aspirazioni che la scuola richiede (situazione di
“privazione culturale”).
Critici nei riguardi di questa impostazione sono i sostenitori della teoria della
differenza, che rimproverano alla teoria del deficit di cercare le cause dei fallimenti e
dei ritardi non nelle istituzioni scolastiche, ma solo nei bambini e nel loro ambiente
d’origine. Spostando l’attenzione dalla scuola al bambini, la prima teoria fa
dimenticare le discriminazioni sociali che la scuola opera nei confronti del bambini.
Varie ricerche mostrano che, se gli allievi provenienti dalle classi sociali più basse
hanno un cattivo rendimento scolastico è perché questo è quello che la scuola e gli
insegnanti si aspettano da loro.
Secondo Bourdieu, sociologo francese, se gli studenti delle classi agita vanno meglio a
scuola è perché godono di privilegi sociali. La famiglia trasmette ai figli un certo
capitale culturale, cioè un complesso di conoscenze e valori, e un certo ethos di
classe, cioè un complesso di atteggiamenti nei riguardi della cultura. Il primo influisce
sul rendimento scolastico, il secondo soprattutto sulla durata della carriera scolastica.
Questa eredità culturale viene trasmessa per osmosi, rafforzando, nei membri della
classe colta, l’idea che le loro qualità siano indotte da doti naturali.
Trattando tutti gli studenti come se fossero uguali, la scuola conferisce alle differenze
culturali di partenza una sanzione formale, le legittima e le giustifica. Induce così gli
individui a pensare che le disuguaglianze sociali siano dovuto alle doti, cioè siano
naturali. La scuola accorda inoltre un vantaggio supplementare ai più avvantaggiati,
perché il sistema di valori impliciti che presuppone e che trasmette è molto simile a
quello delle classi più agiate.
Istruzione e meritocrazia
Negli ultimi decenni, molti studiosi, hanno affrontato il problema del ruolo
dell’istruzione nei processi di mobilità sociale.
Gli studiosi che si rifanno alla teoria funzionalistica ritengono che questo ruolo sia
costantemente cresciuto e che la società moderna sia diventata sempre più
meritocratica. Ciò che caratterizza infatti tale società è il processo di
razionalizzazione, il passaggio dal particolarismo all’universalismo, dall’ascrizione
all’acquisizione, come criterio di selezione e ricompensa. In altri termini, ciò che in
questa società determina la posizione degli individui nel sistema di stratificazione (la
quantità di potere e il livello di reddito e di prestigio di cui godono) è sempre meno
l’origine sociale e sempre più le loro doti innate e le competenze acquisite (titolo di
studio). Questa è la principale legittimazione delle disuguaglianze della società
moderna.
Queste ricerche hanno di solito preso in considerazione tre variabili: l’origine sociale, il
titolo di studio conseguito e la destinazione di classe delle persone appartenenti a una
determinata popolazione. Ora, secondo la teoria funzionalista, l’influenza dell’origine
sociale sul titolo di studio è conseguito è diminuita; è diminuita anche quella
dell’origine sociale sulla destinazione; ma è aumentata l’influenza del titolo di studio
sulla destinazione sociale.
Tre sono le principali impostazioni seguite dalle ricerche sul microcosmo della classe
scolastica. La prima riguarda lo stile di leadership degli insegnanti; la seconda le
strategie degli insegnati e degli allievi e le negoziazioni che avvengono fra di loro; la
terza l’applicazione alla vita della classe del concetto di profezia che si auto adempie.
Stili di leadership
Le numerose ricerche condotte seguendo questo metodo hanno messo in luce che gli
insegnanti parlano per un’enorme quantità di tempo. Vi sono differenze significative a
seconda dell’età degli allievi, nel senso che la quota del tempo occupata dai discorsi
dell’insegnante è tanto maggiore quanto più questi sono grandi.
Metà del tempo in cui parla, l’insegnante lo dedica a far apprendere i contenuti della
sua materia in senso stretto, spiegando o interrogando gli allievi. L’altra metà la
occupa nell’organizzazione della classe, per mantenere il controllo su di essa e la
disciplina. Di solito, egli rende esplicite le sue aspettative di comportamento degli
allievi la prima volta che li incontra. Ma le riafferma e le ribadisce più volte anche in
seguito.
Strategie e negoziazioni
In genere, l’insegnate e gli allievi hanno fini diversi ed elaborano strategie diverse
per imporre agli altri la loro definizione della situazione. L’insegnante ha più potere.
Ma il suo dominio sulla classe non è mai completo. Per questo, fra l’uno e gli altri ha
luogo un continuo processo di negoziazione, attraverso il quale la realtà della classe
viene costantemente definita o ridefinita. La negoziazione implica la ricerca di un
accordo. Perché l’insegnamento e l’apprendimento possano avere luogo, è necessario
che siano stabilite e mantenute alcune regole. In tutte le scuole vi sono norme ufficiali,
stabilite tempo prima che l’insegnante e la sua classe si incontrino per la prima volta e
inizino a lavorare. Tuttavia, nella vita quotidiana della classe nascono continuamente
nuovi problemi, che richiedono nuove regole, e queste ultime vengono negoziate e
rinegoziata fra insegnante e allievi.
Si parla di profezia che si auto adempie quando una definizione falsa di una
situazione dà origine a comportamenti che la rendono vera. Le azioni delle persone
non dipendono infatti solo dagli aspetti oggettivi di una situazione, ma anche dal modo
in cui essi la definiscono, cioè dal significato che ha per loro. Questa è l’idea di fondo
del teorema formula dal sociologo W.I. Thomas: “se gli uomini definiscono certe
situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze”.
Economia e società
Economia e società
In cerca di una definizione di economia
Potremmo intendere con il termine “economia” l’insieme delle attività orientare alla
produzione, alla distribuzione e al consumo di beni e servizi per la sussistenza
dell’uomo. Questa sembra una definizione semplice e precisa, a cominciare dallo
stesso termine sussistenza, ma non è così.
Le cose che consideriamo oggi necessarie alla vita sono per quantità e qualità molto
diverse da quelle che erano considerate tali anche solo qualche decennio fa,
cambiando da paese a paese, da una cultura ad un’altra. In realtà, il termine
sussistenza è oggi adoperato in relazione a condizioni minime di sopravvivenza o per
definire i bisogni economici di società arretrate e povere.
L’osservazione che i bisogni cambiano e si estendono mette nella giusta direzione per
precisare il significato di economia. Possiamo considerare un primo punto importante,
la vera e propria sussistenza, è solo un aspetto, o una parte dei fenomeni
dell’alimentazione o del vestire, i quali hanno anche altri scopi o funzioni (moda,
posizione o funzione sociale).
Questo punto di vista è adottato dagli economisti, che individuano anche un modo
tipico di comportamento sul mercato. Essi osservano che in genere i mezzi a
disposizione per i nostri fini sono scarsi e considerano economico un comportamento
che, di fronte alla relativa scarsità dei mezzi per realizzare determinati fini, è orientato
a ottenere il massimo risultato con i mezzi a disposizione, o un dato risultato con il
minimo dei mezzi. Questo comportamento è chiamato dagli economisti
comportamento razionale.
L’origine del mercato è antica, ma esistono società che non lo conoscono e sino
all’epoca moderna esso non ha svolto un ruolo centrale nell’economia. Ci si può allora
chiedere se per studiare società dove non esiste il mercato, sia comunque utile
considerare che le persone, per far fronte ai loro bisogni, si comportino secondo criteri
di razionalità economica, cercando di rendere massimi i loro vantaggi o minimi i loro
costi, piuttosto che semplicemente secondo abitudini e comportamenti tradizionali,
senza porsi il problema se non sia possibile migliorare le proprie condizioni di vita
distribuendo meglio le risorse fra diversi fini e bisogni.
Dal punto di vista formale riesce facile comprendere l’economia nelle società
contemporanee. Si deve però anche considerare che nelle società contemporanee la
produzione di certi beni o servizi può avvenire sia con riferimento al mercato, sia in
altro modo (mangiare al ristorante o mangiare ciò che è preparato in casa). Quando
consideriamo nell’economia contemporanea anche queste attività, adottiamo un
punto di vista sostanziale.
Le società hanno affrontato in modi diversi i loro bisogni di sussistenza con l’uso della
terra, così come in forme diversissime sono stati combinati e organizzati i fattori della
produzione. Per far ordine in questa varietà ci si può chiedere se siano individuabili in
astratto alcuni tipici modi di integrazione dell’economia nella società, ovvero sistemi di
regole secondo cui in una società il lavoro, le risorse e i prodotti sono distribuiti e
destinati ad attività di produzione e consumo.
Reciprocità
I due tipi di reciprocità sono accomunati dal fatto che si tratta di relazioni regolate da
norme e sanzioni morali, le quali hanno anche un contenuto economico, ma
incapsulato all’interno delle relazioni sociali, dalle quali non può essere separato. Le
relazioni descritte assomigliano più al dono che a uno scambio economico e proprio
come i doni esse esprimono e servono a confermare dei legami sociali. L’attesa di
restituzione e quella di restituire, mantengono aperta la relazione fra persone e
famiglie e la riproducono nel tempo, stabilendo delle aspettative ricorrenti. Chi non
rispetta gli obblighi della reciprocità nella famiglia è disprezzato e isolato; alle stessa
maniera non rispettare la reciprocità bilanciata porta alla rottura totale di una
relazione tra famiglie.
Abbiamo visto che le regole della reciprocità cambiano passando da relazioni strette di
parentela a relazioni più esterne tra famiglie o villaggi (anello di Kula). In un cerchio
ancora più esterno stanno le popolazioni con le quali non si hanno rapporti. Il concetto
di reciprocità negativa è stato usato per indicare un tipo di relazioni culturalmente
prescritte in questa cerchia, che sono la negazione di reciprocità: il molte società
arcaiche, guerra, furto e rapina sono ammessi nei confronti degli esterni e
conferiscono onore.
Redistribuzione
Scambio di mercato
L’espressione mercato viene usata anche per indicare l’insieme di quei rapporti, che si
instaurano tra venditore e compratore nella definizione del prezzo, il quale sarà dato in
base anche al costo di produzione del bene, e per definire il particolare meccanismo di
regolazione complessiva dell’economia, basato sulla formazione di prezzi fluttuanti a
seconda della domanda e dell’offerta.
Tuttavia, moneta e prezzi possono esserci senza che ci sia scambio di mercato in
senso proprio. Anche le attuali economie prevalentemente di mercato comprendono
categorie di beni con prezzi fissati per decreto, chiamati prezzi amministrativi: in Italia
fino a pochi anni fa la benzina. Dello stesso genere sono le tariffe fissate per un
servizio pubblico.
Le quantità di una merce che vengono offerte e domandate sul mercato variano al
variare del loro prezzo. I compratori hanno denaro in quantità limitata rispetto a
bisogni diversi; se si comportano come attori razionali ognuno cercherà di spendere in
modo calcolato, distribuendo le sue risorse per acquisti di merci diverse.
Dal punto di vista del venditore, solo pochi di essi possono offrire merce a un basso
prezzo. Infatti, il ricavo della vendita deve almeno coprire le spese di produzione e
pochi sono capaci di impiegare al meglio senza sprechi i mezzi di produzione: lavoro,
le materie prime, le macchine. Gli altri che progressivamente producono a costi più
elevati, non possono scendere sotto un certo prezzo che è via via più elevato. L’offerta
aumenta dunque all’aumentare del prezzo.
Se nel tempo la domanda di una merce cresce, i prezzi tendono dunque a salire e il
mercato, in questo modo, lancia un segnale ai venditori: i produttori saranno allora
invogliati a produrre quantità aggiuntive di quella merce. Viceversa, se la domanda
diminuisce i produttori si sposteranno ad altre merci. Inoltre, chi produce deve
sforzarsi di usare e combinare in modo efficiente i fattori della produzione. Se non fa
così, il costo del suo prodotto sarà superiore a quello di altri che producono in modo
più efficiente, con i quali non potrà concorrere sul mercato. In questo senso si dice che
la concorrenza di mercato garantisce efficienza economica.
Adam Smith, con le sue teorie, e l’inizio dell’economia politica, ovvero di una
scienza specializzata nello studio della natura e delle cause della ricchezza delle
nazioni, derivano dal fatto che sino ad allora il mercato non si era ancora esteso al
punto da diventare il regolatore (tramite la mano invisibile) di un’intera economia in
crescita.
L’economia regolata dal mercato si basa sulla proprietà privata dei mezzi di
produzione e sul fatto che anche il lavoro è fornito per un compenso fissato dalle parti
con una contrattazione di mercato. Si chiama capitale una somma di denaro investito
per produrre o commercializzare delle merci, in vista di un profitto. Una maggiore o
minore prospettiva di profitto, segnalata dalla tendenza dei prezzi di mercato, spinge a
investire in una produzione piuttosto che in un’altra; se chi ha realizzato il profitto lo
reinveste l’economia si sviluppa. In questo modo l’imprenditore diventata una figura
sociale specializzata, che ha nella società la sola funzione di produrre e vendere,
motivata dal profitto e indirizzata dal meccanismo di mercato. La stessa economia si
incarica di controllarlo perché assolva alla sua funzione, distribuendo premi o sanzioni
(fallisce, guadagna o perde).
L’istituzione della produzione e del commercio è l’impresa, esclusivamente orientata
all’attività economica.
In forme diverse, presso tutti i popoli si trovano simili processi di nascita e lenta
istituzionalizzazione del commercio.
In Europa, verso la fine del Medioevo, i centri di maggior sviluppo sono le città italiane.
Appunto è con lo sviluppo del primo capitalismo delle città italiane, fra Medioevo e
Rinascimento, che in Europa il commercio e il mercato cominciano a trovare un posto
più stabile e riconosciuto nella società.
Tutte queste resistenze all’affermazione del commercio perché lo sviluppo del mercato
è parte del più comprensivo processo di modernizzazione. Il cambiamento definito
come passaggio dalla comunità alla società, comprende anche il passaggio da
economie di sussistenza, basate sulla reciprocità e redistribuzione, a economie in
sviluppo regolare dal mercato. Il mercato è stato un importante veicolo di
modernizzazione. Il cambiamento come regola, l’universalismo, la razionalità, il
carattere specifico e limitato delle relazioni che libera da dipendenze personali, e che
viene fissato solo da legami contrattuali, sono caratteristiche del mercato e aspetti
generali della cultura della modernizzazione.
Dal punto di vista strettamente culturale, si può dire in sintesi che le reazioni sono
resistenze alla possibilità che il mercato e l’economia da mezzi diventino fini.
La dimostrazione dell’importanza delle reazioni culturali è nel fatto che senza il
sostegno culturale il mercato non può funzionare. Basta a dimostrarlo l’osservazione
che lo scambio di mercato non si innesca se non esiste la fiducia reciproca che i patti
saranno rispettati. Diverse società e culture sono in grado di garantire in misura
maggiore o minore la risorsa fiducia, che continuamente deve essere ricostituita nei
processi di socializzazione e controllo sociale. Per un’economia arrestata essa è un
vero e proprio prerequisito dello sviluppo, mentre in un’economia avanzata, un clima
scorretto nelle relazioni economiche richiede controlli costosi e produce dunque
inefficienza del mercato.
Il polo del puro mercato può essere definito economia del laissez – faire.
Comunque, ogni stato, che garantisca questo tipo di economia, definisce le regole del
diritto commerciale, fiscale, del lavoro che fissano i modi legittimi in cui l’azione
economica può svolgersi. In questa economia l’intervento dello stato è comunque
limitato al minimo e riguarda le condizioni generali perché il gioco economico si possa
svolgere con il meno possibile dei vincoli.
Fin ad oggi non si è trovato un meccanismo efficiente, agile e veloce come il mercato,
anche se si tratta di un meccanismo imperfetto. Le decisioni sono sempre prese in
condizioni di incertezza, cattive informazioni e valutazioni conducono a errori, e molte
decisioni sbagliate possono cumularsi. Proprio a questi errori che si cumulano sono
dovuti i cicli economici, vale a dire la successione di fasi di crescita e di recessione
dell’attività economica, con oscillazioni al di sopra o al di sotto di una linea di
tendenza, per stabilizzare le quali il governo interviene frenando o stimolando
l’economia, con variazioni del costo del denaro o della pressione fiscale. Questi assetti
regolativi, ovvero queste particolari combinazioni di mercato e intervento politico,
sono chiamati keynesiani.
Questi principi sono stati diversamente seguiti e sviluppati nei diversi paesi, e sono a
loro volta parte di un insieme più vasto di caratteristiche organizzative e istituzionali
dell’economia che distingue capitalismi nazionali. A grandi linee si sono potute
distinguere due forme tendenziali di assetti istituzionali. Quella anglosassone
(Inghilterra e Usa) che ha conservato una maggiore regolazione di mercato, e quella
europea continentale (e giapponese) dove l’intervento pubblico è stato maggiore. Nel
capitalismo continentale il mercato è stato maggiormente sostenuto dalla produzione
di beni pubblici; è stato stabilizzato da procedure rispettate di contrattazione fra stato,
associazioni di imprenditori e sindacati e compensato dallo sviluppo di vasti sistemi di
welfare. Se l’economia è regolata da combinazioni di mercato e politica, è in gioco la
capacità che il sistema politico ha di combinare diverse domande e pressioni che si
esprimono nella società con le esigenze delle imprese che operano sul mercato. I livelli
di salari e stipendi, per esempio, tendono a crescere non troppo rapidamente se sono
compensati da servizi efficienti forniti dallo stato. Interventi di questo genere, se
coordinati fra loro, possono tenere sotto controllo l’andamento dell’economia nel suo
insieme, garantendo un equilibrio fra consumi, salari, prelievo fiscale, spesa pubblica,
investimenti, in grado di garantire occupazione e crescita economica. Questo
accadeva in passato.
Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale sono stati quelli di maggior
avvicinamento a politiche keynesiane, e si può anche notare che risultati nettamente
migliori hanno avuto i capitalismi continentali rispetto a quelli anglosassoni. Sino alle
fine degli anni sessanta sviluppo economico, spesa per consumi e spesa sociale
aumentano insieme.
Fra i motivi del perché le politiche keynesiane non funzionano più bene, vi è quello che
il costo crescente dei sistemi di assistenza (con l’invecchiamento della popolazione); in
generale la spesa pubblica ha raggiunto quote importanti del prodotto nazionale,
sottraendo risorse agli investimenti produttivi. Ma va anche considerato che una lunga
fase di crescita e regolazione concentrata dell’economia aveva consolidato gruppi di
interesse costituiti, allontanandosi sempre più dalla verifica di efficienza del mercato.
Con l’aperture internazionale delle economie, e la comparsa di nuovi grandi
protagonisti, come Cina e India, la concorrenza si è fatta più forte e i processi si sono
accelerati; inoltre la stessa apertura consente decentramento di attività e capitali in
altri paesi e diminuisce l’efficacia della politiche economiche nazionali, mentre quelle
sociali sono ostacolate. In effetti, l’imperativo della regolazione sembra oggi diventato
piuttosto quello dell’innovazione. Dove lo stato investe molto in alcuni settori con
ricadute nell’intero sistema, e dove esiste anche una tradizione finanziari disponibile a
sostenere iniziati promettenti, l’innovazione è facilitata; e dobbiamo considerare che
sempre più gli investimenti nei settori ad alta tecnologia e ricerca sono quelli che
trainano la crescita.
Possiamo tracciare una specie di mappa di orientamento per individuare i diversi tipi di
economia formale e informale, tracciata considerando che l’economia è un insieme di
attività di lavoro, per la produzione di beni e servizi, e che sia lavoro che beni e servizi
possono essere comprati o venduti sul mercato ovvero forniti fuori mercato.
- Economia formale, ovvero economia di mercato. Indica le attività che con lavoro
remunerato producono beni e servizi venduti sul mercato.
- Economia di beni acquistati sul mercato per un lavoro fuori mercato. Essa serve
a individuare il tipo particolare di economia domestica del “fai da te” (mobili
acquistati in scatola di montaggio).
Questo schema di può essere usato non solo per distinguere un tipo economico
dall’altro, in un dato momento, ma anche per sviluppare ipotesi su spostamenti da un
tipo all’altro. Nel tempo infatti le attività tendono in parte a spostarsi dall’una all’altra
forma di organizzazione. Un esempio: la biancheria era una volta in gran parte lavata
in casa (economia domestica); successivamente, con lo sviluppo delle lavanderie nelle
grandi città, una parte importante si è spostata all’economia di mercato, mentre con la
diffusione delle lavatrici si è passati a una economia del “fai da te”.
La questione più interessante sulla quale lo schema può attirare l’attenzione, è che
aspetti formali e informali sono spesso strettamente intrecciati in determinate
strutture di azione. Il lavoro senza copertura assicurativa e non dichiarato al fisco che
si compie in una piccola impresa (economia di mercato parallela) può per esempio
essere svolto la sera, come secondo lavoro, da un operaio con rapporto di lavoro
regolare e copertura assicurativa in una grande impresa (economia formale).
Gli studi sugli intrecci tra economia forma e informale hanno permesso importanti
analisi sugli spostamenti da un’economia all’altra, e le nuove combinazioni di
economia formale e informale hanno spesso fornito la traccia per interpretare
importanti tendenze di cambiamento sociale.
I soggetti attivatori dello sviluppo economico sono stati diversi in circostanze diverse,
ma questo significa anche modi in parte diversi di organizzazione economica e la sua
integrazione nella società (Inghilterra soggetto promotore le imprese in un economia
di laissez – faire).
Significa pensare a uno sviluppo sostenibile, che non esaurisca le condizioni fisiche
che lo rendono possibile e che si preoccupi delle condizioni ambientali in cui si
troveranno a operare le generazioni future. Per essere realizzato, ciò richiede profonde
modificazioni nell’azione economica, nella abitudini di consumo e in generale nelle
forme di integrazione dell’economia nella società. Per porsi obiettivi di equilibrio
ambientale, o di sviluppo sostenibile, è necessario prendere in considerazione
conseguenze più lontane nello spazio e nel tempo, delle singole scelte economiche. I
problemi ambientali si spostano dunque verso più complessi equilibri fra mercato e
regolazione politica dell’economia.
Il lavoro
Chiamiamo lavoro ogni attività diretta a trasformare risorse materiali per produrre
beni e servizi necessari alla sussistenza dell’uomo. Si tratta dunque dell’attività
economica per eccellenza. In una società a economia prevalentemente di mercato per
lavoro si intende per lo più un lavoro che produce un reddito (esclusione dei lavori
domestici).
La popolazione non attiva comprende chi non si offre al mercato, come i bambini e i
ragazzi non ancora in età di lavoro, gli anziani, chi studia, chi vive di rendita, chi non è
in grado di lavorare a causa di un’invalidità, le casalinghe.
Agricoltura, industria e servizi sono i tre grandi settori della produzione, suddivisi al
loro interno. La massima parte di queste attività è oggi realizzata da imprese, presso
le quali sono occupati lavoratori dipendenti. La specializzazione settoriale delle
imprese e delle attività è un altro aspetto della divisione sociale del lavoro nella
società: viene usata l’espressione divisione del lavoro sociale.
Un terzo aspetto della divisione del lavoro riguarda la sua organizzazione. Lo sviluppo
economico e l’aumento della capacità produttiva sono stati possibili suddividendo e
coordinando in modo sistematico all’interno di un’unità produttiva diversi compiti e
mansioni che richiedono capacità diverse a chi le esegue. In genere un’economia
sviluppata ha dunque anche un’elevata organizzazione o divisione tecnica del
lavoro.
La popolazione attiva
Sono distinti tre settori di attività nel mondo: l’agricoltura (compresa la pesca),
l’industria, i servizi. L’ultima di queste categorie, quella dei servizi, mette purtroppo
insieme attività fra loro eterogenee (attività che non sono né agricoltura né industria):
per questo si parla anche di terziario e nelle tavole statistiche si usa la dizione “altre
attività”. All’interno del terziario si possono distinguere le attività di trasporto e
comunicazione, le attività commerciali, gli alberghi e i ristoranti, le attività finanziarie
delle banche e delle assicurazioni, la pubblica amministrazione, e altre ancora. Il
terziario comprende un insieme di professioni molto diverse che vanno da un’altissima
specializzazione a una forte dequalificazione. La composizione interna della categoria
dei servizi è molto diversa a seconda del grado di sviluppo.
Nel mondo in complesso, si può stimare che ormai meno della metà degli occupati
lavorino in agricoltura. Inoltre, gli addetti ai servizi hanno superato quelli all’industria
in modo netto.
Nei paesi occidentali industrializzati, all’inizio degli anni novanta i servizi pesano quasi
il 70 %, mentre l’agricoltura è ridotta al 7 % (agricoltura molto pesante nell’Africa sub
sahariana). Mentre l’industria diminuisce il suo peso nei paesi industrializzati, negli
altri cresce, e si raddoppia nei nuovi paesi industrializzati dell’Oriente.
In Italia il tasso di attività della popolazione in età da lavoro è notevolmente più basso
della media europea. Il tasso di occupazione, in Italia, ha il valore più basso dei paesi
europei, le differenze riguardano soprattutto l’occupazione femminile, mentre per gli
uomini la distanza dagli altri paesi si accorcia. Il tasso di disoccupazione giovanile, del
nostro paese, ha un valore superiore alle media dell’Europa dei 25.
I dati della popolazione attiva variano anche nel tempo. Fino al 1972 si osserva una
tendenza di lungo periodo alla diminuzione sia degli occupati che delle forze lavoro,
mentre successivamente sia gli uni che gli altri aumentano, con una progressiva
divaricazione che segna un aumento tendenziale della disoccupazione. Molti fattori
sono in gioco nel determinare questa tendenza, ma sul piano strettamente statistico si
può notare che l’inversione è in gran parte dovuta all’ingresso crescente delle donne
nel mercato del lavoro, che comporta in parallelo l’aumento vistoso del tasso di
attività femminile e più debole del tasso di occupazione, mentre il tasso di attività dei
maschi si stabilizza.
Condizioni di lavoro
Sono comunque anche in gioco cambiamenti nell’offerta sul mercato del lavoro: il part
– time, per esempio, può essere anche effettivamente una scelta in relazione ad altri
impegni o attività. In generale esso riguarda molto più le donne che gli uomini.
Probabile è che, per quanto riguarda, le donne, in certi casi si tratti di un ripiego, in
mancanza di un lavoro a tempo pieno, ma in altri di una strategia per combinare in
modo accettabile lavoro e famiglia.
In generale si può dire che i tipi diversi di lavoro atipico sono diversamente diffusi in
Europa come effetto della diversa composizione e organizzazione dell’economia, delle
politiche adottate in campi diversi, di tradizioni culturali (Spagna, paese europeo di
massima diffusione). La diffusione varia poi anche a seconda dei settori (poco diffuso
nell’edilizia e in agricoltura; molto diffuso nello spettacolo e nella scuola).
L’espressione lavoro nero è usato in genere per indicare l’attività di chi non risulta a
libro paga dell’imprenditore. Il lavoro nero può essere considerato il caso limite del
lavoro non – normale. Si tratta dunque di lavori più o meno saltuari e occasionali, non
regolarizzati contrattualmente e non tutelati. Alcuni sostengono che l’emersione del
lavoro nero nascosto, vale a dire regolarizzare in modo esteso il lavoro dal punto di
vista legale, è favorita anche dalla diffusione dei lavori atipici previsti per legge di cui
si è parlato.
Un caso particolare di lavoro nero è costituito dal secondo lavoro. Il caso è di chi,
avendo già un’occupazione garantita, svolge una seconda attività nascosta (presso le
famiglie, effettuando piccole riparazioni o lavori di manutenzione, oppure, presso
un’altra impresa senza avere garanzie previdenziali e pensionistiche). In Italia il
fenomeno è molto diffuso i bioccupati sono tanti quanti i disoccupati.
Economisti e sociologi del lavoro hanno sviluppato un modello in diverse varianti che
tiene conto di una grande, ma significativa differenza fra due parti del mercato. Per
questo si parla di modelli dualistici del mercato del lavoro e di dualismo del
mercato del lavoro.
Una variante semplice possiamo formularla nel modo seguente. I mercati di vendita
sui quali operano le imprese sono più o meno stabili e prevedibili. Le imprese che
soddisfano una domanda relativamente stabile e standardizzabile sono abbastanza
sicure da poter rischiare investimenti tecnologici che migliorino la loro efficienza e
possono di conseguenza pagare salari più elevati. Possono anche far ricordo alle
“quote forti” del mercato del lavoro (lavoratori di mezza età ed esperti). Il contrario
succede alle piccole imprese che operano su mercati instabili e imprevedibili; offrendo
salari inferiori e occupazione discontinua, esse fanno ricorso alle “quote deboli” del
mercato del lavoro (donne, giovani, minoranze etniche). Per motivi diversi,queste
categorie si accontentano di soluzioni più o meno precarie e meno remunerate del
problema del lavoro.
Il modello dualistico del mercato del lavoro cerca dunque dal lato della domanda di
lavoro delle imprese le radici economiche dei lavori precari (dualismo del sistema
produttivo legato all’incertezza). Attira poi l’attenzione sulle caratteristiche dei
soggetti e sui meccanismi di socializzazione e controllo sociale per spiegare le
motivazioni ad accettare lavori precari (gestione sociale dell’incertezza). I meccanismi
in questione possono essere diversi a seconda dei paesi o delle zone (donne accettano
il part – time in determinate fasi del ciclo della vita). Applicato alla ricerca, il modello
fornisce interpretazioni plausibili di certi casi concreti, ma per altri o per diversi aspetti
lascia insoddisfatti.
Un altro modello dualistico si basa sulla distinzione fra mercati interni e mercati esterni
del lavoro. Il mercato esterno è il vero e proprio mercato sul quale si offrono, in
concorrenza fra loro, persone non ancora occupate o in cerca di un posto per loro
migliore. Con l’espressione “mercato interno” si intendono invece procedure all’interno
di un’organizzazione per spostare gli occupati da un posto a un altro, e per stabilire dei
percorsi di carriera. Esattamente si tratta di processi organizzativi.
In situazioni diverse un’impresa può ricorrere all’uno o all’altro dei mercati. Tuttavia,
sin che possono, le imprese hanno vantaggi a ricorrere al mercato interno. L’azione dei
sindacati, che proteggono gli occupati, tende a rafforzare questi meccanismi. Il
modello spiega dunque una fonte di rigidità del mercato del lavoro a vantaggio di chi
già è occupato e può in parte spiegare, per esempio, la difficoltà dei giovani ad entrare
nel mercato del lavoro.
Nella lunga fase di crescita economica del dopoguerra anche la disoccupazione è stata
contenuta nelle economie avanzate, grazie all’attuazione, da parte degli stati, di
politiche keynesiane (spesa pubblica, welfare e assistenza ai disoccupati). Il
meccanismo si è inceppato negli anni 70’, e ora il tasso tollerabile di disoccupazione è
del 6 %.
In alcuni casi, le condizioni di lavoro sono così precarie, oltre che mal pagate, faticose
e sgradevoli che emerge un paradosso della disoccupazione: l’immigrazione da
paesi poveri in presenza di forte disoccupazione nazionale. Ciò si verifica perché le
condizioni di lavoro scendono al di sotto della soglia accettata da una popolazione e
garantita dalla legislazione del lavoro, dai sistemi di welfare, dal sostegno familiare o
da altri meccanismi che offrono risorse di sussistenza al disoccupato in cerca di lavoro.
A seconda delle dimensioni, dei settori e dei tipi di produzione, ma anche a seconda
dei reparti di una stessa azienda, esistono differenze significative nel modo di dividere
e organizzare il lavoro. Ci che si dirà compone un quadro semplificato, riferito
soprattutto alle forme di organizzative confluite nella grande produzione di serie.
Queste hanno del testo influenzato in generale il modo di coordinare le attività
produttive negli anni della grande crescita. Le forme moderne di organizzazione
industriale si affermano nella prima metà del XX secolo. Opportuno è osservare tali
cambiamenti organizzativi in rapporto anche ai cambiamenti delle tecniche di
produzione. Per valutare le grandi novità del lavoro in fabbrica, si può inoltre metterlo
a confronto con il tradizionale lavoro artigiano.
Taylorismo e fordismo
Di tale genere era l’organizzazione del lavoro di fabbrica all’inizio del Novecento. Essa
era alquanto disorganizzata, uno stesso lavoro poteva richiedere tempi di attuazione
differenti a seconda delle squadre, essere fatto in modi diversi, essere diversamente
remunerato a seconda degli accordi del caposquadra con gli operai che lui stesso
assumeva. Da considerazioni come queste nacque l’idea di introdurre un metodo
nell’organizzazione del lavoro. La proposta più compiuta fu la cosiddetta
organizzazione scientifica del lavoro (Scientific Management), ideata da F.W. Taylor. I
metodi a lui ispirati costituiscono il taylorismo.
Taylor partì dall’idea che per acquistare efficienza era necessario progettare
un’organizzazione centralizzata, nella quale fossero rigidamente divisi i compiti di
decisione e pianificazione del lavoro (spostati alla direzione) da quelli di esecuzione. Il
processo complessivo di lavorazione doveva essere smontato in una serie di
operazioni, ognuna delle quali definisse un posto di lavoro. Le singole operazioni
potevano poi essere standardizzate, fissandone tempi e metodi, tenuto conto dello
sforzo necessario e di un corretto modo di esecuzione; in tal modo, esse diventavano
esattamente prevedibili. Il personale veniva selezionato secondo opportune tecniche e
diversamente remunerato secondo quello che veniva valutato il suo apporto alla
produzione. Il sistema organizzativo complessivo era la ricomposizione di tali attività
standardizzate, adattate le une alle altre e controllabili.
Faceva parte della proposta di Taylor che i lavoratori fossero spinti ad accettare le
nuove condizioni da un salario maggiore che derivava da una produzione più
efficiente. Questo non bastò però a evitare vivaci reazioni, perché il nuovo metodo
sottraeva ai lavoratori potere e autonomia.
Taylor era poi ingenuo nel credere che si potesse “scientificamente” stabilire il modo
migliore di fare una cosa, e a volte il taylorismo finì per diventare sinonimo di
compressione dei tempi di lavoro. Merito di Taylor fu in ogni caso quello di porre per la
prima volta il problema dell’organizzazione del lavoro in azienda; l’organizzazione
industriale successiva può essere considerata uno sviluppo a partire dai suoi schemi.
Una nuova fase si apre con l’avvio della grande produzione di serie, basata
sull’introduzione estesa di un nuovo tipo di macchina: le macchine speciali. Queste
compiono poche operazioni, non richiedono importanti e diversi interventi di
regolazione e funzionano con continuità (veloci e non flessibili). La conseguenza è che
gran parte del lavoro richiesto è più semplice di quello dell’operaio di mestiere
(aumentano gli operai non qualificati).
Dopo il mestiere e il taylorismo – fordismo, si apre allora per il lavoro una terza fase,
nella quale nuove qualificazioni necessarie per operazioni di controllo tecnico,
manutenzione, riparazione aumentano, mentre i lavori di esecuzione diretta e passiva
tendono a diminuire. I robot che agiscono con movimenti simili al braccio umano, e
macchine a controllo numerico che svolgono da sole lavorazioni diverse sulla base di
programmi inseriti in un calcolatore sono esempi delle nuove tecnologie, di nuovo
flessibili.
Il sistema Toyota
Oggi è finita l’epoca della grande crescita e i mercati sono diventati più limitati, più
differenziati e più instabili: nella nuova situazione si tratta di avvicinarsi alla
condizione di produrre soltanto quello che è già richiesto da un cliente. Ciò rende
necessaria una rivoluzione organizzativa.
Nel fordismo le decisioni su che cosa e quanto produrre sono fissate dalla direzione a
monte. Rovesciando lo schema organizzativo, è l’ordinazione di un certo numero di
beni pervenuta agli uffici commerciali che mette in moto lungo la linea produttiva la
richiesta dei diversi componenti, i quali vengono allora prodotti solo nella quantità
necessaria. In fabbrica non circola nessuna componente che già non si sappia a che
auto è destinato: è la cosiddetta produzione just in time, con la quale si intende che
nel corso dell’assemblaggio di un bene (auto) ciascun componente arriva alla linea di
montaggio nel preciso momento in cui ce n’è bisogno e solo nella quantità necessaria.
Infine possiamo dire che, la tesi di una continua dequalificazione del lavoro, sostenuta
da Braverman, è stata smentita. Sembra infatti che, con il passaggio alle nuove forme
di organizzazione, in media si possono riscontrare un miglioramento della
qualificazione professionale e maggiori ambiti di autonomia nello svolgimento delle
attività lavorative.
Nei servizi troviamo lavori molto specializzati e ben remunerati accanto ad altri
dequalificati e poco pagati: le due categorie aumentano insieme.
Per sondare il mondo dei servizi da questo punto di vista ci serviremo di una famosa
ricerca innovativa di Esping – Andersen, che ha suddiviso gli occupati in modo
inconsueto, allo scopo di mettere soprattutto in evidenza le categorie di servizi più
lontani dalla produzione.
Nella categoria degli addetti alla produzione e alla distribuzione di beni fisici ci sono
anche addetti contati nel terziario (nei paesi avanzati gli occupati del commercio
addetti alla distribuzione sono circa un quinto del totale degli occupati). L’economia
dei servizi staccati dalla produzione è poi analizzata in riferimento a tra categorie: i
servizi al consumatore (bar, ristoranti); i servizi sociali (salute, istruzione) e i servizi
alle imprese (consulenze, servizi legali e finanziari). Possiamo chiamare
postindustriali questi settori che sono in espansione. Oltre alla percentuale di
addetti in ogni categoria rispetto al totale, la ricerca permette di valutare la qualità del
lavoro riportando la percentuale di occupati non specializzati in ogni categoria.
Germania, Svezia e Usa hanno andamento del tutto simili. In sintesi, la Germania negli
anni ottanta è ancora un paese piuttosto tradizionale nella sua struttura professionale.
Industria e commercio contano ancora molto, le imprese affidano all’esterno servizi
avanzati di cui hanno bisogno, mentre i servizi al consumatore e i servizi sociali, che
corrispondono al ricorso all’esterno da parte delle famiglie per i bisogni prima in gran
parte soddisfatti al loro interno, hanno avuto una crescita contenuta. Svezia e Usa
sono complessivamente più postindustriali, ma vi è un’importante diversità. Si tratta
del peso rilevante assunto in Svezia dai servizi sociali, con quote alte di lavoro non
specializzato, e del maggior peso relativo negli Usa dei servizi al consumatore, con
quote molto elevate di lavori cattivi. Queste diversità dipendono dalla regolazione
politica e sindacale dell’economia.
I servizi al consumatore si espandono con il lavoro fuori casa delle donne e l’aumento
del tempo libero, tanto più quanto meno sono costosi: un mercato liberalizzato, con
popolazione non protetta dalla legislazione sociale e non rappresentata
sindacalmente, e dunque con soglie basse di accettazione delle condizioni di lavoro ha
permesso l’espansione di lavori poco remunerati in questi servizi negli Usa, sovente di
immigrati appartenenti a minoranze etniche.
In Svezia la tradizione di un welfare state esteso, che mantiene soglie più alte, non ha
fatto crescere i servizi al consumatore, comportando invece una quota elevata e in
aumento degli addetti nel settore dei servizi sociali. Si tratta in gran parte di donne,
molte non qualificate, sovente con lavoro part – time; siccome l’assistenza è pagata
dello stato che ricorre alla tassazione, l’espansione del settore coincide anche con
salari più bassi di quelli nel settore privato.
Le relazioni industriali
I sindacati
Verso la metà del XX secolo è iniziata la tendenza, in quasi tutti i paesi sviluppati, al
passaggio dal sindacato di mestiere a organizzazioni che comprendono l’insieme dei
dipendenti di un settore (ad esempio, dell’automobile), indipendentemente dalla loro
professionalità; la tendenza è stata sollecitata dallo sviluppo della produzione di massa
e dall’organizzazione fordista; infine possiamo notare la tendenza, alla formazione di
grandi federazioni (confederazioni) nazionali di sindacati di diversi settori, che restano
più o meno autonomi al loro interno.
Rispetto agli Usa in Europa, in alcuni paesi (Francia, Olanda, Belgio, Italia), hanno più
formazioni di sindacati costituiti su una base ideologica o vicinanza politica. Questo
pluralismo sindacale non si verifica nei paesi scandinavi, in Germania, in Austria, dove
troviamo una sola federazione, molto organizzata.
Mentre negli Usa le parti sociali (lavoratori e padroni in rapporto alla politica)
chiedono ai poteri pubblici soltanto di fissare e garantire regole di contrattazione, in
Europa più spesso esse sollecitano l’intervento dello stato in quanto regolatore
dell’economia attraverso la spesa pubblica e la legislazione sociale, industriale, del
lavoro. In altre parole: mentre in America i sindacati sono attori collettivi
dell’economia, in Europa stanno piuttosto fra economia e politica. Diventa allora più
esplicita una funzione, che già in parte è propria delle federazioni nazionali: quella di
agire anche per compensare categorie svantaggiate rispetto ad altre più
avvantaggiate.
Una ricerca comparativa fra diversi paesi, su lungo periodo, ha mostrato che in
generale l’andamento degli scioperi è piuttosto autonomo nei confronti del ciclo
economico. Solo in alcuni casi il puro modello economico riesce a spiegare
l’andamento della conflittualità, mentre più spesso le variabili economiche relative al
ciclo sono una componente importante della spiegazione, collegate però all’influenza
più o meno marcata di variabili del secondo modello, che a sua volta, lasciato solo,
spiega solamente casi eccezionali.
Produzione e consumo
Imprenditori e imprese
Nella definizione data, l’imprenditore può apparire in più vesti, in relazione a diverse
funzioni che esercita. Anzitutto è una persone che rischia un capitale, in operazioni di
mercato che spera producano un guadagno. L’imprenditore è poi un organizzatore,
che costruisce l’azienda, e un dirigente che la dirige.
L’Italia ha una certa particolarità nella produzione industriale: pur essendo un paese
ad alto sviluppo, e pur essendosi questo di solito realizzato nelle diverse economie con
un processo di concentrazione delle attività produttive, l’economia del nostro paese ha
invece una struttura molto dispersa, vale a dire caratterizzata da molte piccole
imprese. Si possono indicare due processi che hanno influenzato la conservazione e il
rinnovamento di tradizioni commerciali, professionali e artigianali. Il primo, che è
precedente nel tempo, è la protezione politica che il lavoro autonomo e la piccola
impresa hanno avuto, come elementi di stabilizzazione sociale e importante base
elettorale dei partiti di governo per un lungo periodo, a fronte di un forte partito
comunista che aveva il quasi monopolio dei voti della classe operaia. Ciò ha per certi
aspetti ritardato la modernizzazione del sistema produttivo e mantenuto aree di
inefficienza in questo. Il secondo processo, più recente ed economicamente più
dinamico, è la spinta verso l’industrializzazione diffusa.
Spesso la nascita della grande industria è associata allo sviluppo della tecnologia.
L’idea di base è che sostituendo lavoro umano con macchine che consentono un’alta
velocità di produzione, i costi per unità di prodotto di abbassano. Si può anche dire che
con l’introduzione di macchina aumenta la produttività del lavoro, e cioè la quantità
prodotta per addetto. In questo modo si sviluppa una produzione in grande serie di
beni standardizzati (produzione di massa o di grande serie), che per diventare
economicamente conveniente richiede mercati abbastanza grandi. Mercati in
espansione e capacità tecnologica sono dunque due condizioni di fondo per lo sviluppo
della grande imprese.
La grande impresa prende forma internando attività che in precedenza erano svolte o
che comunque avrebbero potuto essere svolte da singole, più piccole imprese
indipendenti. Una fabbrica di automobili ingloba una fabbrica di produzione di
ingranaggi oppure può effettuare compravendite da essa sulla base di accordi.
Poste le cose in questi termini, si apre una prospettiva interessante per studiare la
questione delle dimensioni di impresa nelle economie contemporanee. Mercato e
organizzazione (“gerarchia”) possono infatti essere pensate come alternative che
dipendono dai costi di transazione. Se un’impresa deve comprare da un’altra un
prodotto semplice occasionalmente, o ripetendo l’acquisto senza variazioni nel tempo,
e se ci sono molte imprese che offrono il prodotto di cui ha bisogno, in concorrenza fra
loro, probabilmente il mercato è la soluzione più conveniente perché trasmette
sufficienti informazioni sul prodotto, sul suo costo e sulle intenzioni del venditore. Ma
la transazione può essere complessa, riguarda per esempio una fornitura dilazionata
nel tempo oppure possono esserci pochi venditori. In questi casi possono svilupparsi
comportamenti opportunistici da parte del venditore, che si basano su un’imperfetta
informazione dell’acquirente e che sfruttano in un momento successivo vantaggi
imprevisti, quando l’acquirente non può più tirarsi indietro o modificare la condizioni
del contratto. In tal caso, diventa preferibile “produrre” invece che “comprare”, ovvero
diventata preferibile la crescita organizzativa ovvero la gerarchia. Accanto a variabili
di mercato e tecnologiche è così individuato un nuovo campo di variabili organizzative
che incidono sulle dimensioni.
In generale, con riferimento ai costi di transazione si può dunque rilevare quali fattori
giochino a favore del coordinamento delle attività tramite l’organizzazione e quali a
favore del coordinamento tramite il mercato (un network di relazioni sociali
preesistenti fra possibili contraenti favorisce il coordinamento delle attività tramite il
mercato).
Si tratta di uno sviluppo importante dello schema, perché apre all’analisi dei sistemi di
imprese. Forme tipiche che può assumere l’organizzazione di un sistema di imprese
indipendenti sono le joint – venture (contratti con cui imprese diverse decidono di
collaborare alla realizzazione di un prodotto o di un’opera, coordinando le loro capacità
e dividendo per quote investimenti e profitti), il franchising (contratti con i quali
un’impresa concede a una catena di altre, a un presso in parte proporzionale alle
vendite, di rivendere un suo prodotto sotto il suo controllo, utilizzando un marchio
comune e garantendo l’assistenza tecnica).
Le grandi imprese, a causa della crisi della grande crescita del dopoguerra e con i
mercati diventati sempre più mutevoli e differenziati, hanno aumentato l’importanza
delle relazioni fra imprese e le forme di coordinamento che stanno fra organizzazione e
mercato. Dal punto di vista dell’azienda si hanno avuti alcuni cambiamenti
nell’organizzazione del lavoro per far fronte a queste nuove condizioni. Dal punto di
vista dell’imprese che opera sui mercati, possiamo osservare che la grande impresa a
produzione di massa è in difficoltà e che fa la sua comporta l’impresa – rete.
L’impresa – rete è un’impresa grande che coordina una rete di imprese minori,
collegate da rapporti di quasi – mercato o quasi – organizzazione. Una condizione
importante per il suo sviluppo deriva da nuove possibilità aperte dalla tecnologia. Più
precisamente, si devono considerare gli effetti dell’applicazione della microelettronica
ai processi produttivi e della telematica nel controllo dei sistemi di imprese.
Le macchine a controllo numerico sono l’esempio tipico del primo caso. Si tratta di
macchine che, sulla base di programmi diversi inseriti in un calcolatore, permettono di
variare rapidamente i processi di lavorazione e anche i prodotti. Si tratta di una
tecnologia molto flessibile, che si presta a produzioni di piccola serie e al limite di
pezzi unici, ma che insieme può essere ad alta produttività. L’introduzione della
microelettronica (delle macchine a controllo numerico) consente di decentrare
produzione in imprese autonome che si specializzano in una determinata lavorazione o
componente, e che non necessariamente lavorano per una sola più grande impresa.
Tuttavia, in nessun paese le piccole imprese sono scomparse; ovunque invece hanno
segnato una tenuta o una ripresa. Il punto fondamentale è che le piccole imprese
hanno aperto la strada della specializzazione flessibile. Dal punto di vista
economico il modello del dualismo produttivo non è sufficiente a dar conto di tipi
diversi di piccole imprese.
Fra le condizioni che hanno permesso la crescita della grande industria si considerano
mercati di consumo abbastanza ampi e standardizzabili. Piccole imprese possono
dunque anzitutto sopravvivere in mercati locali, che per qualche motivo non risentono
della capacità di penetrazione della produzione di massa: alti costi di trasporto o
difficoltà di organizzare la distribuzione. Si tratta però di condizioni sempre più ridotte.
E tuttavia, anche il più vasto pubblico dei consumatori non sembra oggi, in economie
più ricche, disposto a una produzione eccessivamente standardizzata (differenziazione
dell’abbigliamento nelle classi sociali). Imprese con piccole serie di produzione in
settori come l’abbigliamento, la pelletteria, i mobili, l’arredamento trovano dunque
loro “nicchie” di mercato, a volte molto sicure. Le nuove tecnologie
microelettroniche permettono anche a loro un sentiero di crescita tecnologica
conservando elasticità, mentre l’espansione di imprese – rete può cercare di attrarle
nella propria orbita. In entrambi i casi, si vedono spazi per imprese minori, più o meno
autonome.
Una produzione più diversificata richiede anche macchine adatte ai particolari bisogni
di un’impresa che produce un certo prodotto, che non sono esattamente gli stessi di
un’altra. La produzione di piccola serie richiede dunque anche macchine differenziate,
o adattate: piccoli produttori sono diventati così spesso anche specialisti nella
produzione di macchine utensili.
I distretti industriali
Gli economisti hanno usato il concetto di distretto industriale per indicare e studiare
queste forme territoriali di divisione del lavoro fra piccole imprese con produzioni di
piccola serie, il cui spazio nell’economia contemporanea è aumentato.
I sociologi hanno cercato di spiegare perché alcune regioni e paesi piuttosto che certi
altri siano stati così capaci di sfruttare le nuove possibilità della specializzazione
flessibile; a tale fine, si sono chiesti se non esistessero caratteri particolari della
società locale, in queste zone e non altrove presenti, che fossero adatti a quel tipo di
economia.
Le società locali che più hanno mostrato di essere capaci di sfruttare le possibilità sono
caratterizzate da tessuti fitti di città e cittadine, che hanno attrezzato e distribuito sul
territorio funzioni urbane: tradizioni spesso antiche di commercio, artigianato e piccola
produzione, servizi bancari e amministrativi, strade e infrastrutture civili, buone scuole
di base e di formazione professionale, corretta ed efficiente amministrazione locale, il
tutto cementato da forti identità culturali locali. Questo ambiente sociale ha fornito
conoscente tecniche e commerciali diffuse fra molte persone, una consuetudine
condivisa con l’idea e le pratiche di mercato, network di relazioni personali che
permettono una fiducia reciproca per trattare insieme facilmente di affari (costi di
transazione bassi). Molti si sono dunque trovati in condizione di provare a rischiare
l’avventura imprenditoriale.
Diverse figure sociali di queste città sono state dunque le attivatrici del processo, che
hanno interagito con campagne caratterizzate a loro volta da una particolare struttura
sociale: quella della famiglia agricola autonoma che viveva in un podere isolato nella
campagna. Questo ha fornito alle imprese operai che a casa avevano imparato molti
mestieri e che potevano contare sulla famiglia di origine se all’inizio erano poco pagati
(avevano a casa prodotti agricoli per l’autoconsumo, e potevano tornare a contribuire
alla produzione agricola da vendere). Gli imprenditori non hanno solo origine urbana.
A volte anche le grandi famiglie contadine, combinano diverse fonti di reddito, agricolo
e di lavoro industriale, hanno accumulato abbastanza capitale da sostenere attività
artigianali e poi magari industriali di un figlio che si metteva in proprio.
Si può dire che queste società hanno utilizzato in modo selettivo risorse culturali che
appartenevano al loro patrimonio tradizionale, investendole in nuove possibilità
economiche che in generale si aprivano.
In tutte le tipiche regioni italiane di piccole imprese, ormai da parecchi anni, c’è stato il
passaggio dalla crescita estensiva (che deriva cioè da un crescente impiego di
nuova manodopera, poco pagata, con scarse attrezzature tecnologiche) alla crescita
intensiva (con investimenti tecnologici che aumentano la produttività del lavoro e con
paghe mediamente più elevate). Alle risorse originarie necessarie tendono a
sostituirsene altre nuove. La famiglia contadina non è più così importante. Gli
imprenditori devono interagire velocemente con imprese e su mercati sparsi per il
mondo. I cambiamenti di molti distretti che resistono bene anche in tempi difficili
dell’economia mostrano però che continua a essere possibile il flessibile gioco di
squadra fra imprese a livello locale, anche se si richiede un’azione concordata fra
attori pubblici e privati, per favorire in modo diffuso attrezzature e beni di cui le
imprese hanno bisogno e che non si trovano più semplicemente nella cultura
tradizionale condivisa: centri di ricerca, ferrovie ad alta velocità, nuovi piani regolatori.
Da questo punto di vista, lo sviluppo dei distretti è possibile se continua a essere
un’impresa collettiva, ma questa sarà sempre più un’impresa costruita
consapevolmente: i distretti hanno bisogno di stabilire reti esterne per l’accesso a
risorse di conoscenza, commerciali, finanziarie. Fra le maggiori tendenza di evoluzione
si riscontra il decentramento della produzione di alcuni distretti all’estero, per esempio
nei paesi dell’Europa orientale dove il costo del lavoro è inferiore, e questo vale in
particolare per i settori o lavorazioni ad alta intensità di lavoro.
Diversi sono i modi possibili in cui l’economia si innesta nella società locale, sfruttando
le risorse culturali e istituzionali disponibili a seconda dei casi. La ricerca comparata ha
mostrato che i distretti si sono diffusi in Europa, ma quasi mai si ripete esattamente il
modello indicato per l’Italia. Il carattere di crescita diffusa “dal basso” ha poi attirato
l’interesse sulla formula dei distretti da parte dei paesi sottosviluppati.
I distretti industriali sono stati e sono una risorsa importante e in evoluzione del
sistema industriale italiano. Tuttavia va rilevato che, a fronte del dinamismo delle
piccole imprese che li popolano, sta purtroppo la debolezza del sistema delle grandi
industrie.
Quella dell’industria italiana è una storia di rapido successo. In una prima fase, sino
all’inizio degli anni settanta, la ricostruzione e il cosiddetto miracolo economico si
sono basati soprattutto sulla grande produzione meccanica e automobilistica, su
grandi opere di infrastruttura e produzioni di base, sull’edilizia. In questa fase sono
state decisive le grande imprese private e pubbliche.
Successivamente il fenomeno più vistoso è stata l’industrializzazione diffusa. A volte
questa è anche chiamata l’industria del made in Italy, perché esporta molto. In
effetti, il nostro paese è un grande esportatore di prodotti tessili, dell’abbigliamento,
di calzature, di prodotti in pelle, di mobilio, di gioielleria, e in genere di prodotti di
consumo durevole di piccola serie. L’avanzo nell’interscambio commerciale di queste
produzioni è aumentato nel tempo, mentre è cresciuto il disavanzo per i settori nei
quali siano da sempre deficitarii.
Il punto da sottolineare è che fra i settori in cui importiamo più di quanto non
esportiamo troviamo anche le parti più moderne dell’economia (elettronica di
consumo, industria farmaceutica, telecomunicazioni). Anche fra le piccole imprese del
made in Italy troviamo produzioni ad alta tecnologia e imprese innovative. Il ruolo
dell’industria minore è stato decisivo per la crescita del paese e per la tenuta
dell’occupazione. La debolezza relative nei settori di punta resta però un carattere
critico, sul lungo periodo, dell’economia italiana.
Finanza e produzione
Un’impresa costituita come società per azioni dispone anzitutto dei capitali investiti
dai suoi azionisti. Questi possono essere grandi azionisti, anche membri di famiglie di
capitalisti proprietari, magari da più generazioni (capitalismo familiare). Le azioni di
una società possono però essere anche molto disperse fra piccoli azionisti. Una public
company è una società con proprietà delle azioni molto diffusa: in tal caso i dirigenti
hanno un peso maggiore sulle scelte di gestione. Spesso si dà però il caso di un
sindacato di controllo, formato da un gruppo di pochi grandi investitori, in possesso di
una quota di azioni sufficiente a garantire il controllo della società.
Le azioni, una volta emesse, possono essere comprate e vendute: la borsa è il mercato
dove questo avviene. Quando si diffondono giudizi di solidità e aspettative di futuri
buoni risultati economici di un’impresa, che garantiranno dunque sicuri e buoni
dividendi agli azionisti, molti cercheranno di comprare azioni e il loro prezzo salirà;
scenderà in caso di cattive previsioni. La borsa funziona anche come una specie di
termometro dello stato di salute delle imprese e, di riflesso, dell’economia nel suo
insieme. Oltre alle azioni, le società emettono per finanziarsi un altro tipo di titoli, le
obbligazioni, che sono debiti a lungo termine a reddito fisso.
Le banche sono imprese commerciali che raccolgono e imprestano denaro. Per le loro
necessità finanziarie, le imprese possono ricorrere anche a banche, per prestiti a breve
o a medio e lungo termine.
Tocchiamo qui il punto più delicato degli assetti attuali del capitalismo, che tende a
essere squilibrato da azioni speculative aggressive di operatori e centri finanziari in
grado di manovrare anche masse molto ingenti di capitali. Questa rincorsa al
guadagno basato sul valore di mercato delle azioni, più che al valore prodotto
dall’attività economica di un’impresa, pone difficoltà a progetti industriali di lungo
termine e facilita anche forme di devianza economica.
L’economia dei paesi anglosassoni si distingue per un’ampia diffusione delle quote
proprietarie delle imprese, per l’elevato finanziamento diretto di queste con emissione
di azioni e obbligazioni e, nel caso di ricorso al credito bancario, per l’indipendenza
gestionale dalle banche, che non possiedono azioni e non partecipano ai consigli di
amministrazioni. In Inghilterra e Usa sono importanti gli investitori istituzionali:
assicurazioni, fondi di investimento, fondi pensione. La separazione fra proprietà e
gestione è marcata.
I processi finanziari pongono delicati problemi di controllo, per ottenere rispetto delle
regole del gioco economico e per un sufficiente rispetto delle istituzioni democratiche.
La posta in gioco è alta, perché grandi concentrazioni industriali e finanziarie possono
condizionare con la loro azione in modo pesante l’organizzazione della società nel suo
insieme; d’altro canto, un robusto ed efficiente sistema finanziario, efficacemente
controllato, ma anche indipendente da ingerenze indebite del potere politico, è
essenziale al funzionamento dell’economia moderna.
La new economy
Circa la velocità di diffusione basti pensare che la velocità di trasmissione dei dati
aumenta di circa il 18 % all’anno, che gli accessi a Internet aumentano ogni anno del
70 %, mentre il commercio elettronico (transazione tra imprese) aumentano ogni anno
dell’80 %.
La novità più rilevante è che oggi al centro dell’economia c’è la produzione di beni
immateriali, vale a dire di informazioni che possono essere sviluppate,
immagazzinate e distribuite in quantità e velocità finora inimmaginabili. In queste
condizioni, la conoscenza è diventata davvero la fondamentale risorsa produttiva, e la
ricerca basata sulle possibilità delle nuove tecnologie dell’informazione stimola
l’innovazione dei prodotti e dei processi in tutti i settori produttivi. Nuovi campi si
aprono pi insieme alla ricerca scientifica e alle applicazioni economiche.
Siamo alla vigilia di cambiamenti epocali dell’organizzazione economica.
Le conseguenze sociali
Secondo alcuni, le nuove condizioni giocano a favore di una diffusione del potere
economico. La new economy ha appena iniziato a esplorare il potere dal basso. Con
Internet stiamo assaggiando le immense potenzialità dei sistemi disseminati, della reti
con un controllo centrale ridotto al minimo. Rifkin osservano il crescente ricordo a
servizi offerti dal mercato, considera che è diventato meno importante possedere un
bene, e decisivo invece la possibilità di accesso alla sua fruizione; si può allora temere
una società di persone che, espropriate di diritti di proprietà, diventino dipendenti da
pochi grandi gestori dell’accesso a ogni tipo di servizio a pagamento.
Un’economia del genere è regolata dal libero mercato, ma tende alla formazione di
grandi monopoli. In effetti, richiede un’attenta politica antitrust, vale a dire che
mantenga la libera concorrenza. Questo è anche un modo con cui la politica difende il
suo spazio di azione rispetto alla crescita eccessiva del potere economico.
Per quanto riguarda l’interazione tra persone sembra vada diffondendosi un senso di
insicurezza, e che aumenti la difficoltà a immaginarsi in percorsi coerenti di vita;
diminuisce anche la possibilità di dedicarsi a pratiche stabili di interazione con altri
nella vita quotidiana, coltivando un capitale sociale di relazioni diffuse, come risorse
comune a un gruppo di persone per molti scopi diversi, nelle quali si manifesta la
capacità auto – organizzativa della società, e si forma e riproduce la fiducia
interpersonale. Nascono nuove “comunità virtuali” di persone che la sera dialogano a
distanza su Internet, ma diminuisce l’associazionismo.
Il consumo di massa
L’economia americano J.K. Galbraith osserva che il flusso di istruzioni su cosa e quanto
produrre non va in genere dal consumatore al mercato al produttore (sequenza
ritenuta), ma dal produttore al mercato al consumatore (sequenza aggiornata). Le
grandi imprese riescono a controllare i loro mercati e a indurre il comportamento di
consumo.
Non è facile decidere cosa si un bisogno reale o un consumo inutile, o non necessario.
Se si esce dal livello minimo della sussistenza, la valutazione di un bisogno o di un
consumo diventa culturale, e può cambiare nel tempo.
Lo studio del consumo di massa, e la critica del consumismo, per essere davvero
efficaci devono tuttavia scendere da un livello troppo astratto e assumere punti di
vista che lascino spazio alla comprensione della capacità di reazione degli attori.
Questa può essere colta sia a livello dell’interazione sociale nella vita quotidiana che
dell’azione collettiva. In particolare, per ciò che concerne l’azione collettiva, non sono
solo significativi i movimenti e le organizzazioni a difesa del consumatore (fenomeno
del consumerismo). Più in generale, associazioni, movimenti sociali e organizzazioni
politiche sono in grado di mettere in discussione specifici modi e tipi di consumo,
contrastando immagini di sequenza ritenuta e mostrando la loro realtà in termini di
sequenza aggiornata, passivamente subita dal consumatore. Attraverso nuovi
comportamenti dal basso ottenuti nell’interazione sociale e con l’azione collettiva
impegnata in un conflitto culturale o politico, un modello prevalente di consumo può
allora essere cambiato (caso tipico è il crollo del consumo del tabacco).
La spinta alla chiusura nella sfera privata contrapposta all’impegno pubblico, non
sembra dunque un effetto scontato dell’aumento dei consumi. Probabilmente, fasi di
privatismo e fasi di impegno politico e sociale si susseguono con un andamento ciclico.
La comparsa della produzione flessibile, con un’offerta più differenziata a seconda
della domanda dei clienti, potrebbe essere interpretata come un più raffinato controllo
sul consumatore, oppure come la risposta a consumatori che magari, nella fase più
critica in cui è entrata l’economia oggi, consumano meno, ma stanno diventando
culturalmente più esigenti. Forse entrambe le cose.
Non è chiaro come evolveranno i consumi. Per questo, nella letteratura sull’argomento
si trova insieme chi pensa a un futuro mondo alla McDonald’s, vale a dire di
consumatori standardizzati e chi all’opposto vede emergere nuovi consumatori
imprenditori, capaci di strategie personali di consumo che combinano stili di vita e
attività di lavoro mutevoli.
Il consumatore non è mai davvero solo. La stessa espressione “folla solitaria” richiama
l’idea dell’isolamento, ma anche quella dell’appartenenza a un insieme di altre
persone in situazione analoga perché sottoposte agli stessi stimoli: da questo punto di
vista il consumo è considerato un comportamento collettivo. Un tema classico al
riguardo sono i meccanismi della moda.
Simmel ci ha lasciato su questo tema un famoso saggio intitolato La moda. Nella sua
essenza, la moda è una delle forme in cui si esprimono due esigenza contrastanti e
compresenti del vivere dell’uomo in società: la tendenza alla fusione con il gruppo e il
distinguersene individualmente. La prima si esprime psicologicamente con
l’imitazione, che dà sicurezza e solleva da responsabilità di scelta personale; come
tale è elemento di continuità e stabilità. Ma contro la stabilità gioca invece la
differenziazione individuale, il distinguersi rispetto agli altri. La moda è appunto una
forma culturale in cui si esprime questa tensione presente in generale nei fenomeni di
gruppo.
Con un argomento sottile si può poi rendere conto della presa particolare della moda
nell’epoca moderna. Nella grande città l’uomo contemporaneo è sottoposto a un
eccesso di stimoli, che alla lunga diminuiscono le sue capacità di reazione: sono la
differenza e la novità che riescono allora più facilmente a destare la sua attenzione.
Questo meccanismo sarebbe all’opera anche in comportamenti che appaiono
insignificanti: il passaggio dal sigaro alla sigaretta, accesa e spenta in continuazione,
sarebbe un cambiamento di consumo che risponde a tale logica. Ciò sottolinea un altro
aspetto del comportamento di moda: il fascino esercitato dal confine, ovvero il fascino
dell’inizio e della fine, dall’andare e del venire. Elemento essenziale della moda è
perciò anche la sua fragilità.
Nella nostra cultura sopravvivrebbero tratti un tempo tipici della cultura “barbarica”,
che definiva onorifiche solo attività predatorie e oziose, e non onorifiche quelle
produttive. Su questa base si è distinta anticamente una “classe agiata” che elaborava
stili di vita in cui lo sciupo di risorse e di tempo in attività inutili veniva esibito come
prova di superiorità. Qualcosa insomma che ha a che fare con il potlatch (torneo
cavalleresco di un tempo è sostituito dalla pratica nello sport, che richiede lunghi
allenamenti). Effettivamente certi modi di vestirsi o di adornarsi delle donne di oggi
servono proprio a mostrare lontananza oziosa dalla praticità richiesta dal lavoro
produttivo.
Su consumi e stili di vita come distinzione sociale è stata svolta in Francia un’ampia
ricerca da Bourdieu.
Questa mette in relazione le condizioni di vita definite dalla classe sociale e specifici
stili di vita e di consumo che, sulla base di rilevazioni empiriche, possono essere
appunto considerati tendenzialmente tipici di determinate classi. Esistono più classi o
frazioni di classe che devono essere considerate, fondate sulla disponibilità di mezzi di
produzione oppure di capitale culturale, espressione con cui l’autore intende risorse
culturali in genere formate con gli studi.
Gli stili di vita sono differenziati e resi operanti da criteri di gusto. Questi criteri di
gusto costituiscono dei sistemi coerenti. Gli stili di vita non sono il semplice riflesso
della popolazione di classe, ma conseguenza di un gioco di classificazioni culturali
operate e subite dai diversi gruppi. I criteri sono impliciti nelle scelte e nei
comportamenti quotidiani delle persone, e non hanno bisogno di essere riconosciuti o
ostentati per essere attivi.
Con questa rete concettuale sono stati organizzati dati statistici nazionali sui consumi
e altri raccolti con questionari. Dall’insieme risulta che gusti nell’alimentazione, nel
modo di vestirsi, nell’arredamento e nell’uso della casa, nei consumi culturali, nelle
attività sportive e così via individuano stili di vita propri per esempio dell’alta
borghesia, dei professori universitari, dei funzionari pubblici, dei dirigenti del settore
privato, della piccola borghesia del commercio, o degli operai. Questo consumi non
sono soltanto e direttamente corrispondenti alla capacità di spesa, anche se da questa
sono influenzati, e oltre che dalla posizione di classe sono influenzat