Le misure della Serenissima per convivere con le pandemie L’invenzione della tracciabilità
di Nelli-Elena Vanzan Marchini
Dopo la pestilenza che colpì l’Occidente fra il 1348 e il 1351, il manifestarsi di successive e reiterate pandemie giunte a Venezia dai paesi con i
quali era in contatto, fece comprendere che con il contagio era necessario convivere e che, per prevenire l’emergenza epidemica con le sue
devastanti conseguenze demografiche ed economiche, si doveva mettere a punto un’articolata strategia sanitaria. La Repubblica, che aveva basato il
suo sviluppo sugli scambi commerciali mediterranei ed europei, aveva sviluppato l’attitudine all’osservazione dei mercati, delle variazioni dei pesi e
delle misure, dell’oscillazione dei prezzi e dei cambi, perciò non tardò a impiegare lo stesso criterio di rilevazione e verifica anche nei confronti dei
nuovi focolai di peste e della diffusione del contagio, acquisendo la consapevolezza che la propagazione del morbo, per prossimità e per contatto,
era favorita dagli scambi mercantili e dagli spostamenti di truppe, pellegrini e viaggiatori, sospenderli avrebbe significato bloccare lo sviluppo
economico e dunque non restava che premunirsi, chiudendo temporaneamente le frontiere nei confronti dei paesi infetti fintanto che non fosse
passato il pericolo.
3 NOVEMBRE 2019
di Nelli-Elena Vanzan Marchini
La navigazione e il commercio costituirono per Venezia le premesse di molteplici rapporti economici e culturali con le civiltà del
Mediterraneo e dell’estremo Oriente. Ai porti di Costantinopoli e di Alessandria giungevano, infatti, le carovane con le merci più rare e
preziose che pervenivano, poi, via mare al grande fondaco veneziano.
Come osserva Machiavelli ne “Il Principe”, i patrizi della Serenissima erano gli unici nobili al mondo che non disdegnassero misurarsi con
attività pratiche. La mercatura era per loro non solo una risorsa, ma un’arte e la navigazione era considerata una pratica nobile e
indispensabile come la guerra e, come e più della guerra, richiedeva perizia e preparazione.
Per navigare era necessario conoscere rotte, coste, isole con le loro peculiarità geografiche e climatiche; per commerciare con successo era
fondamentale monitorare l’andamento dei mercati, i cambi, le monete, i pesi, le misure e i costumi delle varie popolazioni. Era anche
indispensabile comunicare in più lingue o utilizzare quella “franca” che raccoglieva più idiomi, si usavano anche segni convenzionali e una
gestualità codificata dal pragmatismo delle civiltà che convergevano sulle coste dell’unico grande Mare Mediterraneo. Ma a partire dal 1348
cominciò a viaggiare anche una clandestina foriera di morte: la peste.
La peste, che ancora oggi ha i suoi focolai naturali nel Kurdistan, nell’Assyr, e nell’Asia centrale in cui è endemica, si riversava sui convogli
che percorrevano le vie carovaniere e giungeva ai porti del Mediterraneo Orientale. Il contagio aveva due veicoli privilegiati, un roditore,
il rattus-rattus, e la Xenopsilla Cheopis, una pulce che albergava sul suo vello e che si trasferiva anche sull’uomo. Negli spazi bui delle stive
delle navi i topi costituivano una minaccia per le merci, ma anche per le popolazioni con cui entravano in contatto scendendo nei porti
attraverso le gomene. Le pulci pestigene e pestifere potavano malattia e morte al topo per abbandonarlo, poi, e trasferirsi su un altro ospite
vivo, anche umano. L’incubazione e il decorso della peste erano di pochi giorni e la morte era rapida e dolorosa fra febbre alta, arsura e
delirio. La diagnosi era facilitata dal comparire di bubboni scuri all’inguine o alle ascelle in prossimità della parte morsicata dalla pulce. Il
contagio dilagava con rapidità e con ancor più elevata mortalità nelle sue forme setticemica e polmonare che non necessitavano delle pulci
per diffondersi ma del solo contatto orale fra uomini.
Venezia, per i suoi costanti rapporti con l’Oriente, si trovò in prima linea: non poteva rinunciare ai traffici sui quali fondava le sue fortune,
perciò adottò misure in difesa della salute pubblica inventando il primo lazzaretto della storia.
Il 28 agosto 1423, durante l’ennesima pestilenza, il Senato veneziano istituì una struttura per il ricovero e l’isolamento degli appestati dotata
di personale salariato dallo Stato. In quell’epoca in cui carità e assistenza erano gestiti dal clero, la Repubblica fondò il primo ospedale ad
alto isolamento utilizzando l’isola di Santa Maria di Nazareth, che portava il nome del preesistente convento di eremitani. Il nome del luogo
venne volgarizzato in Nazaretum, Lazaretum e infine in “Lazzaretto”. Tale denominazione fu poi adottata dalle analoghe strutture sorte in
Occidente sul modello di quella veneziana.
Fin dal 1423 il Senato sottolineò l’importanza dell’informazione come indispensabile premessa alla rapidità e all’efficacia dell’isolamento e
al successo della prevenzione. Ciascuno, dai capitani di nave ai marinai, a tutti i cittadini, era coinvolto nella lotta al contagio e invitato a
raccogliere ogni notizia per individuare e segnalare tempestivamente i casi di peste in città e sulle navi affinché venissero immediatamente
isolati. Ogni menzogna o reticenza era colpita con pene severe fino alla morte.
Nel 1468 al primo Lazzaretto ne venne affiancato un secondo in un’altra isola, destinata ad accogliere per un periodo di convalescenza gli
appestati guariti prima che potessero tornare in città e i sani che, avendo avuto contatto con malati, erano considerati “sospetti”, cioè
potenziali veicoli di contagio. Questo lazzaretto venne chiamato “Nuovo” per distinguerlo dal preesistente nominato “Vecchio”. Il
trasferimento dal primo al secondo segnava il viaggio verso la disperazione mentre l’itinerario inverso caratterizzava la speranza nella
guarigione e il cammino verso il reinserimento nella società dei sani. Nelle due strutture si articolò la strategia innovativa di prevenzione e
di lotta alla peste che la Repubblica attuò, non solo isolando persone e merci provenienti da paesi contagiati, ma anche mettendo in atto
complesse procedure di “contumacia e di espurgo” che richiesero un costante investimento di risorse economiche e comportarono il
rallentamento dei traffici. Si attivarono professionalità che, gravando sui viaggiatori e mercanti, garantirono cura e procedure di accoglienza
e di purificazione con un indotto economico sul territorio. La spesa per la prevenzione e la lotta alla peste nei lazzaretti costituì l’unica
possibilità di contrastare i tracolli economici e demografici comportati dalle epidemie.
Le due isole erano cinte di mura per difendere la città dal contagio che racchiudevano, avevano l’aspetto di fortezze e gli ampi spazi interni,
opportunamente frazionati, potevano differenziare i loro ospiti e i tempi delle contumacie. Le merci erano sottoposte a trattamenti di espurgo
dai miasmi pestilenziali che andavano dall’aereazione e manipolazione delle merci al lavaggio con acqua e aceto degli animali,
all’immersione in acqua di cere e spugne, alla scucitura degli abiti, all’esposizione al sole dei tappeti …
Per gestire l’articolato sistema dei lazzaretti veneziani in città e nel contesto di una più ampia strategia sanitaria nazionale e internazionale,
venne istituito nel 1486 il Magistrato alla Sanità che monitorò i porti mediterranei attraverso il suo corpo diplomatico e consolare, spie di
sanità e il controllo metodico dei resoconti di tutti i capitani che giungevano a Venezia imponendo certificazioni di viaggio per ogni
imbarcazione (patenti di sanità) e certificati (fedi di sanità) attestanti provenienza, stato di salute di ogni viaggiatore e la descrizione dei
suoi effetti personali e merci. La Repubblica esercitò così la supremazia sanitaria non solo sul suo Golfo, come era chiamato l’Adriatico,
ma su tutto il Mediterraneo e sulle vie di collegamento terrestre con l’Europa.
Poiché dopo la terribile pandemia del 1630 la peste non entrò più a Venezia, sebbene continuasse ad intessere i suoi commerci con il
Levante, tutti i porti mediterranei che vollero divenire concorrenziali si dotarono di lazzaretti e applicarono il suo modello di prevenzione,
cosicché, anche mentre declinava la sua egemonia politica sul Mediterraneo, permaneva la sua supremazia sanitaria. I cordoni sanitari della
Repubblica si rivelarono efficaci perché attivò lazzaretti lungo le coste dalmate, le isole Ionie e i suoi domini, altri lazzaretti, posti di blocco
e caselli di sanità controllavano le vie di comunicazione con l’Europa il che comportò l’allungamento degli spazi e dei tempi che la
separavano dalle zone infette. Con questo sistema la Serenissima riuscì a tenere la peste fuori dalla città, pur continuando a commerciare
con stati che furono flagellati dalle pandemie fino al secolo XIX. Il Magistrato alla Sanità, inoltre, diramava proclami a stampa a tutte le altre
nazioni per segnalare la comparsa di focolai epidemici persino nelle singole navi, comunicando i luoghi con cui aveva sospeso i rapporti
commerciali a scopo preventivo. Questa attività lo rese a pieno titolo l’unico ossevatorio sanitario internazionale, riconosciuto anche dai
nemici.
I due Lazzaretti sono sopravvissuti alle dominazioni straniere e alle speculazioni urbanistiche e testimoniano ancor oggi il loro passato. Gli
scavi hanno messo in luce migliaia di corpi di appestati e di persone che morirono anche per altri accidenti mentre stavano scontando la
contumacia. Le loro etnie e identità erano eterogenee per provenienza e classe sociale. Vi erano facchini e guardiani che sorvegliavano i
ricoverati e le merci, passeggeri e viaggiatori di tutto l’Occidente, cittadini veneziani. Molti di loro certamente morirono di peste. Durante le
epidemie si ricorreva anche ad altri cimiteri improvvisati nelle isole periferiche: nel 1348 si utilizzarono le due isole di San Marco di
Boccalama e S. Mauro di Fossamala verso la terraferma, nel 1630 si aprì un cimitero per appestati vicino al cimitero ebraico al Lido, ma si
utilizzò anche l’isola di San Clemente. I resti umani rinvenuti nei due Lazzaretti, benché molto numerosi, risultano troppo differenziati per
provenienza e non significativi per impostare studi e analisi scientifiche che giustifichino la profanazione di quei resti senza nome e con
troppe patrie. Da molto tempo le due isole, aperte per periodi limitati al pubblico da associazioni di volontariato, restano senza un progetto
di riqualificazione. Si è ipotizzato di crearvi un museo archelogico, dove raccogliere come in un grande deposito, reperti precedenti alla
grande storia della Repubblica di Venezia e alla civiltà anfibia che l’ha inventata. E’ da considerare il fatto che il pregevole Museo
Archeologico di Piazza San Marco, frutto del collezionismo antiquario dei patrizi Veneziani, a causa della mancanza di visitatori da tempo è
stato collocato nel circuito museale fra il Museo Correr e la Biblioteca Nazionale Marciana per indurre quanti vengono a Venezia per
conoscere la storia della Serenissima, ad attraversarlo. Alla museificazione delle due isole, che pulsarono della vita e delle attività
mediterranee, si dovrebbe preferire un uso polifunzionale di quegli ampi spazi naturalistici e architettonici, come è avvenuto in occasione
della Biennale. La scelta museale fatta per il Lazzaretto di San Carlo a Trieste non si è rivelata fortunata: il Museo del Mare che vi si è
insediato è attualmente chiuso in attesa di trasferimento in altro sito. Sarebbe auspicabile dunque che i due ex lazzaretti veneziani
venissero restituiti alla città come è stato fatto per i Lazzaretti di Ancona e di Spalato, rivitalizzandoli in armonia con il loro importante
passato che si può raccontare virtualmente in qualche sala, nel contesto del rilancio dei due complessi con progetti di sviluppo sostenibile e
con l’apertura degli antichi e amplissimi spazi ad attività di convegnistica e ricerca scientifica, restituendo anche i loro parchi alla fruizione
pubblica.
Immagini:
L’isola del Lazzaretto Vecchio
Interno di un edificio per le contumacie
Il Lazzaretto Novo
Per approfondimenti:
Nelli-Elena Vanzan Marchini (a cura di), Rotte Mediterranee e Baluardi di sanità, Milano-Ginevra, SKIRA 2004;
Eadem,Venezia e i lazzaretti mediterranei, (catalogo della mostra nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia), Mariano del Friuli,
Edizioni della laguna 2004;
Eadem, Venezia, la salute e la fede, Vittorio Veneto, De Bastiani 2011;
Eadem, Venezia e Trieste sulle rotte della ricchezza e della paura, Sommacampagna (VR), CIERRE Edizioni 2016.
Un cordone sanitario per secoli impenetrabile: la laguna di Venezia. La lunga “fase 2” della Serenissima.
27 APRILE 2020
Nel 1630 vennero violate le regole della prevenzione per accogliere il Marchese De Strigis, ambasciatore del ducato di Mantova, non al
Lazzaretto ma nell’isola di San Clemente. Il falegname che andò a sistemare il suo alloggio portò la peste a Venezia. Le esigenze della
diplomazia ebbero la meglio sulle cautele di sanità, così scoppiò una delle più gravi pandemie dell’età moderna che portò alla morte un
veneziano su quattro. Il Magistrato alla Sanità della Repubblica fece tesoro di quella esperienza e irrigidì il cordone sanitario che circondava
la città, per renderla impenetrabile alle minacce epidemiche che giungevano dall’esterno. Venezia non era una città fortificata, ma,
contrariamente al suo aspetto aperto e accessibile, era la sua laguna a costituire le sue vere e invalicabili mura. Gli accessi da terra e dal
mare erano pochi e facilmente sorvegliabili poiché le insidiose secche limitavano la navigazione; i canali, sia portuali che interni, venivano
presidiati dagli ufficiali di sanità che avevano ai loro comandi anche i capitani di tutte le altre magistrature che la pattugliavano per
riscuotere i dazi, controllare le vittuarie provenienti dalle isole, contrastare il contrabbando…. . Fra la conterminazione lagunare e la
Terraferma vi erano dei posti di blocco a Marghera, Lizza Fusina, Corte Fossetta, Torre di Caligo (vicino a Jesolo, alla confluenza del Caligo
con il Sile), sorvegliati da un custode e da guardiani di sanità armati che sbarravano il transito con rastelli (palizzate amovibili) e
controllavano le fedi di sanità di ogni viaggiatore, cioè i certificati che ne attestavano: l’identità con una approssimativa descrizione
somatica, la provenienza, i servitori, gli animali e i bagagli che lo accompagnavano.
Il controllo delle navi in entrata.
Gli accessi dal mare erano controllati dai caselli del Lido (casematte presidiate da guarnigioni). Sul campanile di San Marco erano
appostati, giorno e notte, i novellisti, osservatori che, appena avvistavano una nave in entrata, dovevano correre nella sede del Magistrato alla
Sanità vicina alla Zecca per dare la notizia (novella) del nuovo arrivo. Veniva subito inviata una barca di fanti armati con un guardiano che,
raggiunta la nave, ne prendeva il comando, perché il capitano potesse recarsi nell’ufficio del Magistrato a bordo di una delle sue scialuppe,
seguendo a distanza la barca dei fanti di sanità che controllavano che, durante tutto il tragitto, non avesse contatti con alcuno.
Giunto in ufficio, il capitano entrava da solo in una stanza in cui veniva interrogato dal segretario affacciato ad una finestrella che gli
garantiva la distanza di sicurezza. Si redigeva così la relazione dettagliata del viaggio, sottoscritta e giurata dal capitano che esibiva
la patente (certificato di viaggio) rilasciata dal porto di partenza e vidimata ad ogni scalo, attestante la salute o il grado di pericolosità dei
luoghi toccati durante la navigazione. In caso di falsa dichiarazione, il capitano rischiava la pena di morte. Nonostante ciò, non era
infrequente che qualcuno, dopo aver salpato l’ancora da porti appestati, distruggesse la documentazione e si facesse rilasciare una
nuova patente da un porto libero dal contagio. Per questo motivo era molto utile disporre di informatori e spie in tutto il Mediterraneo.
Compiute le pratiche burocratiche con l’esame dei libri di carico delle merci e delle fedi di Sanità di tutti i viaggiatori, si procedeva al
trasferimento delle merci e dei passeggeri dalle navi alle peate, grosse imbarcazioni a fondo piatto che li trasportavano nei lazzaretti, dove
sarebbero rimasti per un periodo più o meno lungo di contumacia in relazione alla pericolosità della rotta percorsa e ad eventi accidentali
come casi di malattia a bordo, contatti con pirati e corsari, soste in scali sospetti.
Le navi restavano in isolamento alla fonda nei canali periferici con i loro equipaggi sotto il controllo del guardiano, mentre le peate, dopo
aver scaricato le merci e i passeggeri, venivano espurgate con acqua salsa e aceto.
I Lazzaretti e il business degli espurghi.
Quando non vi era l’emergenza pandemica, entrambi i lazzaretti, anche quello Vecchio, fondato per il ricovero dei casi conclamati, erano
utilizzati per la prevenzione. I loro priori, ovvero i direttori responsabili della loro gestione, sovrintendevano a tutte le operazioni di carico e
scarico delle merci e dei passeggeri dalle navi e controllavano fosse osservata la rigorosa divisione e impenetrabilità fra i vari settori di
contumacia, separati per data di arrivo e per durata dell’isolamento, che poteva andare da 7 giorni a multipli di 7, rinnovabili in seguito al
manifestarsi di nuovi casi. In situazioni gravi la contumacia arrivava a 40 giorni. Va precisato che il termine quarantena è successivo ed
errato se applicato in maniera retroattiva ed esteso a tutte le pratiche di isolamento della Repubblica.
Ciascuno dei due priori era scelto dalla classe dei cittadini, non poteva essere consanguineo a nessun altro dipendente del Magistrato, nè
aver interessi in alcuna attività mercantile o commerciale. Restava in carica quattro anni e aveva l’obbligo di risiedere nel lazzaretto, era
stipendiato annualmente e, all’inizio del suo incarico, doveva versare una caparra di 1000 ducati a garanzia della sua onestà nel custodire le
merci e nel tutelare i diritti dei contumacianti. Il suo compito era considerato di tale importanza che non era sottoposto all’autorità di nessun
altro magistrato che non fosse quello alla Sanità; era coadiuvato da un sottopriore e non poteva allontanarsi dal lazzaretto, se non per recarsi
all’ufficio di sanità dietro esplicito ordine superiore. Doveva sorvegliare che nulla e nessuno entrasse o uscisse dal lazzaretto e che le
operazioni di rifornimento si svolgessero secondo le regole: due volte al giorno si avvicinavano al muro di cinta le barche dei vivandieri che,
restando a debita distanza, vendevano alle persone in isolamento quanto, di commestibile e non, era stato loro ordinato. La merce veniva
collocata in un apposito cesto appeso a una lunga canna, che permetteva di passare i prodotti ai guardiani senza alcun contatto e di ritirare il
denaro che veniva subito pulito con acqua salsa o con aceto.
Servizi e tutele per i contumacianti.
I vivandieri non potevano aumentare il costo delle mercanzie più di un soldo sul prezzo stabilito dal calmiere ed effettuavano le stesse
operazioni anche presso i bastimenti che restavano in contumacia alla fonda. Non potevano farsi sostituire, pena la perdita dell’incarico e
l’assunzione, al loro posto, del denunciante. Portavano sulle loro barche la bandiera di San Marco ed era loro proibito vendere vino o uscire
in mare facendo commercio a bordo delle imbarcazioni dei rimorchianti cioè di quanti pilotavano le navi dentro la laguna. Nel 1719 si
contemplò la pena di morte per i rimorchianti, che venissero meno al loro dovere di controllare la provenienza delle navi in entrata, facendo
issare a quelle sospette la bandiera gialla nell’albero di mezzana.
La rigorosa separazione delle competenze e degli ambiti di intervento dei funzionari di sanità e la moltiplicazione degli spazi dell’isolamento
erano avvertite come precauzioni indispensabili per bloccare o perlomeno per limitare i rischi di diffusione del contagio. Persino i tempi e
gli ambiti del culto nelle chiese dei due lazzaretti erano dettati dalla necessità di tenere i fedeli e il personale nei loro settori di contumacia,
evitando tra loro ogni contatto o commistione; la Ragion di Stato e gli interessi prioritari della salute pubblica entravano persino nel suolo
sacro per articolarlo in zone separate, nella ripetizione quasi ossessiva degli spazi dell’isolamento. Anche i rituali religiosi e civili connessi
alla morte erano frutto del compromesso fra le esigenze cristiane e quelle economiche di tutelare la volontà del moribondo da possibili
estorsioni da parte del personale, perciò il cappellano fungeva da notaio, redigendo i testamenti dei malati; il cadavere di qualsiasi persona
mancata in contumacia veniva inumato nel cimitero del lazzaretto e, se appestato, coperto di calce viva.
Garanzie e costi per i mercanti.
Le merci, sotto il controllo dei guardiani, venivano espurgate da bastazzi, cioè da facchini esperti nel trattamento delle mercanzie secondo
le modalità stabilite, sotto ampie e aereate tettoie che proteggevano dalle intemperie; ad esempio i tappeti venivano distesi e coperti di
sabbia, le balle di lana e cotone aperte e manipolate, le cere immerse in acqua, gli animali pennuti e lanuti trattati con acqua e aceto, le
lettere venivano affumicate…. Ad ogni nuovo arrivo venivano estratti a sorte i guardiani e i bastazi, che sarebbero rimasti in contumacia
con quella partita di merci e passeggeri, che prendevano in custodia evitando contatti con persone e cose delle altre contumacie. Le spese di
tutto il personale impiegato venivano liquidate dai mercanti all’atto della liberazione delle merci.
Non era infrequente che i mercanti tentassero di corrompere gli addetti alla sorveglianza delle loro merci, soprattutto nei periodi in cui il
mercato le quotava al massimo. Per lo più i guardiani infedeli venivano intercettati dalle barche del Magistrato alla Sanità o dagli ufficiali
addetti al controllo dei dazi che li coglievano in flagrante presso le navi in contumacia o i lazzaretti. Si verificavano allora dei conflitti a
fuoco e degli inseguimenti in laguna che terminavano con la cattura e la condanna dei rei, se invece questi riuscivano a fuggire, si
pubblicavano le sentenze di condanna che venivano inviate in tutti i dominii della Serenissima.
Il 18 aprile 1719, ad esempio, si condannarono al bando perpetuo, alla confisca dei beni e all’esecuzione capitale per fucilazione i tre
guardiani di Sanità posti alla custodia del trabaccolo “Il Sol”, della tartana “La Rosa” e della marciliana “La Luna Nova”. Arrivati a Venezia
dall’isola di Boiana in Montenegro, con l’aiuto di alcuni complici, avevano scaricato delle balle di tabacco che avevano fatto portare al
Fondaco dei Tedeschi, forzandone la serratura. Dopo essersi recati al Lazzaretto Vecchio per riscuotere dai mercanti, “interessati in esso
tabacco, la iniqua loro mercede”, uno di loro era tornato al Fondaco per rubare parte della merce. I colpevoli riuscirono a fuggire perciò il
Magistrato decise che venisse esposta una lapide infamante nel suo ufficio per ricordare l’accaduto.
Esecuzione capitale per chi violava il cordone sanitario.
Il 23 marzo 1751 venne giustiziato il marangon (falegname) Francesco Lorenzoni per aver attentato alla salute pubblica violando il cordone
sanitario. Il falegname era stato incaricato di eseguire dei lavori di restauro nel Lazzaretto Vecchio e in quell’occasione, con la complicità di
un suo giovane aiutante, cercò di sottrarre 40 masse di seta provenienti da Costantinopoli. Colti in flagrante, i due rei confessi furono
trattenuti nel lazzaretto per la contumacia, nel frattempo si celebrò il processo. Il giovane complice beneficiò delle attenuanti e si avviò a
scontare dieci anni di servizio al remo nelle pubbliche galere, il falegname, invece, fu condannato a morte per fucilazione.
Le modalità della pubblica esecuzione, davanti all’Ufficio del Magistrato, sulla fondamenta di Terranova, affacciata al Bacino di S. Marco,
con folto pubblico e solenne rituale, lasciano trasparire l’importanza dell’esemplarità della pena. In quell’epoca, anche se l’emergenza
epidemica non si riproponeva in città da ben 120 anni, era viva la paura per le terribili pestilenze di Marsiglia (1720) e di Messina (1743); il
governo era consapevole che la sicurezza e la salute dipendevano dall’impenetrabilità dei cordoni sanitari, dalla tracciabilità di tutti coloro
che entravano in laguna, dal monitoraggio di tutti i paesi con cui si intrattenevano scambi commerciali. Le informazioni sulla salute dei
singoli e sui focolai internazionali erano fondamentali per stabilire la durata delle contumacie o la chiusura dei confini. Un fatto era certo:
non si doveva mai allentare la sorveglianza perché, in poco tempo, ci si sarebbe ritrovati l’epidemia in casa. Per questo motivo le violazioni
delle misure di prevenzione e dei cordoni sanitari venivano colpiti con pene severe ed esemplari.
Le peculiarità ambientali dell’arcipelago-Venezia, racchiuso dalla sua laguna, furono utilzzate dal Magistrato alla Sanità per tenere lontane
le pandemie con un’articolata rete di cordoni sanitari sulle vie di terra e di mare per moltiplicare i tempi e gli spazi che dividevano la
Serenissima dai luoghi contagiati.
In tutto il Mediterraneo la peste continuò a imperversare fino alla fine del XIX secolo, ma a Venezia, dal 1630, non entrò più. La laguna
continuò ad essere considerata un cordone sanitario sicuro anche durante la Dominazione Austriaca che scelse l’isola di Poveglia per farne il
centro ad alto isolamento dell’intero Litorale Austriaco applicando il modello di sanità veneziano.
Per approfondimenti rinvio a:
Nelli-Elena Vanzan Marchini, Le leggi di Sanità della Repubblica di Venezia, voll. 5, Vicenza 1995-Treviso 2012;
Ead., Venezia, la salute e la fede, Vittorio Veneto, De Bastiani 2011;
Ead., Venezia e i lazzaretti mediterranei, Catalogo della Mostra (Biblioteca Nazionale Marciana), Mariano del Friuli 2004;
Ead., La peste del 1630 a Venezia e la Madonna della Salute, “Timer Magazine”, 21/11/2019.
Immagini:
Vincenzo Coronelli, Navi alla fonda, sec. XVII.
Le barche di armati che pattugliavano la laguna, sec. XVIII.
Laguna di Venezia, Il lazzaretto Vecchio, La casa del priore con la terrazza sulla laguna dalla quale i guardiani ricevevano le merci
dai vivandieri (foto Vanzan).
Il grande business della “Teriaca veneziana” ai tempi della Serenissima di Nelli-Elena Vanzan Marchini
di Nelli-Elena Vanzan Marchini
Nessun farmaco come la Teriaca godette di fama e fortuna per un periodo tanto lungo, essendo stato impiegato contro molti mali dall’antichità fino
al XX secolo. Usata in Egitto probabilmente già dal IV-III secolo a.C., la teriaca più che un vero e proprio farmaco inizialmente era un insieme di
antidoti. Infatti il termine greco theriaké dall’indoeuropeo therion significa “animale velenoso” la cui carne si riteneva efficace per contrastare il
veleno iniettato dal morso di animale o somministrato con gli alimenti.
Il numero di ingredienti oscillava da 4 a 40 sostanze.
Le prime notizie storicamente accertate narrano che Mitridate VI re del Ponto, vissuto fino al 63 a.C. in un’area geografica ricca di erbe
medicinali, essendo un dotto esperto di arti magiche, con l’aiuto del medico Crateva fabbricò questo antidoto composto, secondo Plinio, da 54
ingredienti per evitare di morire avvelenato. A quei tempi infatti era assai frequente che ai sovrani fosse riservata quella sorte. Il termine
mitridatismo ancor oggi indica l’assunzione di sostanze velenose a piccole dosi per abituare l’organismo a difendersi da somministrazioni più
massicce e mortali.
Quando Pompeo conquistò il Ponto, pare abbia trovato in uno scrigno la ricetta scritta di proprio pugno da Mitridate che venne poi utilizzata dai
medici romani. Un secolo dopo Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, la modificò sostituendo la carne di Scincus, rettile dell’Arabia e del
Nord Africa di difficile reperimento, con quella di vipera e portò i componenti al numero di 64: nasceva così la teriaca come farmaco che avrebbe
avuto la fama di panacea universale.
Tra i suoi numerosi elementi vi erano : la rosa, il giaggiolo, la cannella, la mirra, lo zenzero, lo zafferano, il dittamo, il pepe nero, la valeriana, la
terra di Lemno, il vino vecchio, il miele, l’oppio…. e ovviamente la carne di vipera.
Per i suoi intensi rapporti commerciali con il Levante e con il Nord Europa la Serenissima divenne la sede privilegiata della produzione della
miglior teriaca. Questa fetta di mercato divenne così importante per l’economia veneziana che il governo della Repubblica attraverso il Magistrato
alla Sanità ne controllò la qualità limitandone la produzione alle sole spezierie approvate, perciò definite “teriacanti”.
La fortuna dell’alessifarmaco (da alexeo e pharmacon = scaccia veleno), ritenuto in grado di contrastare qualsiasi malattia, favorì lo sviluppo di un
mercato parellelo che mise in circolazione sofistificazioni accessibili a tutte le borse. Il popolo delle campagne, costretto a spender poco, ricorreva
ad una “teriaca dei poveri” fatta di solo aglio. Con il nome di “teriaca veneziana” in molti mercati francesi si vendeva del miele cotto con polvere di
radici guaste, in Germania si usava il “diatesseron” un farmaco per cavalli.
Chi poteva permettersi la vera “droga divina” doveva spendere molto. La Teriaca fatta secondo tutti i crismi, comportava una lavorazione
complessa e dispendiosa: oltre ai vari componenti, alcuni importati dal Levante, conteneva la carne di vipera catturata nei colli euganei fra luglio e
agosto. Fin dal XVII secolo, per la crescita della domanda, si era dovuto ricorrere anche a vipere importate dai monti veronesi e vicentini, poi da
Treviso e dal Friuli e infine anche dall’Istria e dalla Carnia. Nei momenti di maggior richiesta del mercato, il fabbisogno mensile di ciascuna
spezieria si aggirava intorno alle 800 vipere che venivano decapitate, pulite dalle interiora, scuoiate e bollite finchè la carne si staccava dalla spina,
in modo da poterla impastare con pane abbrustolito e tritato per fare dei trocisci (da trochos= rotella) cioè delle grosse pastiglie che si lasciavano
asciugare e si spalmavano con opobalsamo o con olio di noce moscata.
Prima di comporre il farmaco, si esponevano per tre giorni nelle spezierie approvate tutti gli ingredienti perché fossero esaminati dai Collegi dei
Medici e degli Spezieri e dal Magistrato alla Sanità, per quel periodo restavano anche a disposizione del pubblico di acquirenti che venivano dai
paesi stranieri per acquistare il prodotto finito. Questa fase era molto importante dal punto di vista promozionale perché consentiva di valutare la
qualità dei singoli componenti e la lavorazione che iniziava il quarto giorno, il 24 agosto di ogni anno, festa di S. Bartolomeo. Gli stranieri erano
molto colpiti da questo rito popolare dai chiari risvolti ludici e commerciali. Charles De Brosses in una lettera del 29 agosto 1739 lo definì il “teatro
della teriaca”. Di fatto si allestiva una vera e propria rappresentazione seguendo un rituale pubblico controllato dallo Stato attraverso i suoi tecnici,
al tempo stesso si pubblicizzava la teriaca sul mercato internazionale legandola, come si direbbe in termini moderni, al “marchio di Venezia”.
Oltre al valore simbolico della carne della vipera, collegata al potere ambiguo del serpente nell’immaginario collettivo e nelle religioni antiche, si
faceva leva sull’immagine del ponte di Rialto come fondaco cittadino in cui confluivano i migliori prodotti da tutte le parti del Mediterraneo. Per
l’occasione si distribuivano gadget come ventole che raffiguravano il momento saliente della lavorazione della Teriaca. Due di esse tramandano
la scena ai piedi del Ponte di Rialto davanti alla farmacia all’insegna delle Testa d’Oro che esponeva i vasi contenenti i vari ingredienti sotto le
grandi scritte “teriaca” e “mitridatum”. Dai gradini si dipartono lungo la strada in bell’ordine due file di facchini che lavorano alacremente: da un
lato pestano con forza in enormi mortai e dall’altro maneggiano grandi setacci.
I loro abiti variopinti e curati come in una solenne rappresentazione erano degni della miglior comunicazione di massa. I pestatori vestivano una
giubba di color bianco, braghe rosse, sciarpa gialla e un berretto celeste bordato di giallo con una piuma, i setacciatori avevano una giubba azzurra.
Il cadenzato e festoso rumore della lavorazione era accompagnato dal canto di alcune strofe :
“D’antidoto glorioso in ogni loco
meglio è tacerne assai che dirne pocho
per veleni, per flati e mille mali
la triaca g’ha el primo in sti canali”
La teatralità dell’operazione era ancora viva nel 1850 quando il suo ricordo (in epoca austriaca il rito pubblico era stato abbandonato) ispirò
l’apertura dell’Opera buffa “Crispino e la comare” con il libretto di Francesco M. Piave e la musica di Luigi e Federico Ricci. La prima scena si
apre davanti a una spezieria dove i facchini cantano:
“Batti, batti, pesta, pesta
la Teriaca qui si fa.
più d’un morbo che molesta
per tal farmaco sen va”
Nella realtà i bastazzi o facchini erano soliti infarcire il canto anche di motti osceni indirizzati alle donne che passavano. Nel 1788 salì all’onore
delle cronache per il turpiloquio dei suoi bastazzi la spezieria “ai Due mori”in calle degli Stagneri.
Oltre ai battitori e setacciatori, altri lavoranti all’interno dell’officina medicinale cuocevano il miele in grandi caldiere, opportunamente ispezionate
prima dell’uso. Il miele serviva come eccipiente e dolcificante per amalgamare ogni ingrediente.
Durante la lunga lavorazione venivano distribuite ai facchini laute merende con pane vino e soppressa e, alla fine, con il compenso, anche un vasetto
di teriaca. Era stabilito anche un dono in zucchero e teriaca per i funzionari di sanità e i rappresentanti dei Collegi dei Medici e degli Spezieri che
seguivano tutte le operazioni.
Il composto ben lavorato veniva collocato in grandi giare di terracotta dove doveva rimanere chiuso e sigillato con il timbro di Sanità per almeno sei
mesi prima della vendita. Nel XVIII secolo il periodo fu ridotto a soli due mesi.
La teriaca veneziana godeva di una fama meritata perciò veniva esportata in nel Centro Europa (Francia Germania e Olanda), ma anche in
Inghilterra. Acquirenti importanti ad Est furono la Grecia, la Turchia e l’Armenia. Per promuoverla le spezierie veneziane facevano stampare dei
manifesti in molte lingue fra cui l’arabo.
Anche dopo la caduta della Repubblica, si continuò a produrla ma senza quella spettacolarità che l’aveva resa celebre . Nel 1773 si contavano a
Venezia 90 spezierie con altrettanti professori, 60 giovani e 30 garzoni, all’inizio dell’800 erano scese a 81.
La concorrenza commerciale che gli Asburgo fin dall’inizio del 700 avevano fatto a Venezia, utilizzando il rivale porto di Trieste a loro fedele,
divenne ingombrante quando la dominazione austriaca unì le due città sotto il suo giogo. Agevolazioni e incentivi potenziarono le attività della
classe mercantile e imprenditoriale triestina a danno di quella veneziana, mentre erano sorte a Trieste spezierie con nomi uguali o analoghi a quelle
veneziane: alla Testa d’Oro, al Redentore, all’Ercole Trionfante che ricorda quella all’Ercole d’Oro della famosa famiglia Zannichelli. Il mercato
venne così ivaso da farmaci con marchi simili a quelli che avevano resa famosa Venezia in questo settore.
All’inizio del Novecento, in seguito alla legge che proibiva l’uso e la vendita di stupefacenti senza prescrizione medica, si dovette togliere dalla
teriaca l’oppio che era l’ingrediente che più garantiva i suoi effetti analgesici. La famiglia Gottardi, che gestì la farmacia alla Testa d’Oro a Rialto
dal 1904 al 1968, continuò a produrla per la ditta Branca che la utilizzava per la fabbricazione del Fernet. Il preparato, infatti, nonostante fosse
lavorato con il miele, aveva un sapore molto amaro che caratterizzò l’inconfondibile gusto di quel liquore digestivo.
Nel 1957 la Branca annullò ogni richiesta di fornitura. Negli anni Novanta l’esercizio venne trasformato in tabaccheria e poi in negozio di vetri per
turisti. Le numerose spezierie veneziane seguirono un analogo destino e il loro numero subì una drastica riduzione in una città in continuo calo
demografico.
Venezia, porto di mare, nel Medioevo era l’emporio internazionale ed epicentro di un’economia basata sugli scambi tra l’Europa e l’Oriente.
Venezia era punto d’arrivo delle rotte dal Mediterraneo e da tutto il mondo allora conosciuto.
Con le navi, assieme ai preziosi prodotti orientali, giungevano però in Laguna anche pericoli per la salute, malattie sconosciute e incurabili, che
spinsero la Serenissima ad organizzare rigide difese sanitarie.
La frequenza allarmante delle pestilenze, fra il 1460 e il 1485, anno in cui morì lo stesso doge Giovanni Mocenigo, fa ipotizzare agli storici la
sopravvivenza di focolai mai completamente spenti e fece avvertire alla classe politica veneziana la necessità di istituire una magistratura stabile
perché la peste “ulterius non procedat et defectu provisionum non reddatur continua”. Il rischio che l’epidemia potesse trasformarsi in un morbo
endemico per la mancanza di adeguate misure (“defectu provisionum”), indusse il Senato a convocare una riunione ad hoc il 7 gennaio 1485
sollecitando tutti senatori ad intervenire, data la gravità e importanza della questione.
Nell’occasione si deliberò di istituire un Magistrato alla Sanità composto da tre Provveditori con incarico non retribuito da rinnovarsi ogni
anno.
Che non vi fosse grande entusiasmo nel ricoprire tale carica, lo dimostra la sanzione di 2000 ducati e altre più onerose per coloro che rifiutassero
tale mandato. Per alleggerire l’onere di questo incarico gratuito, si concesse ai tre Provveditori di ricoprire incarichi anche in altri uffici.
L’anno seguente, allo scadere della carica, i tre patrizi Domenico Morosini, Nicolò Muazzo e Antonio Grimani non vennero sostituiti e dovettero
passare altri tre anni perché, nel 1489, fossero nominati Ambrogio Contarini, Marco Foscolo e Luca Pisani. Da allora l’iter politico per la
definizione dei ruoli e delle competenze del Magistrato alla Sanità fu complesso e richiese investimenti per la creazione di un ufficio con un braccio
operativo armato e una burocrazia dedita, non solo alla registrazione delle persone e cose che entravano ed uscivano dai lazzaretti, ma anche al
monitoraggio della situazione internazionale e all’imposizione della tracciabilità di tutti gli arrivi nei domini veneziani. Le resistenze dei patrizi
non furono poche per il timore che il nuovo magistrato potesse ostacolare gli interessi mercantili, perché le misure per difendere la sanità
pubblica comportavano alti costi per la contumacia di merci e passeggeri e rallentavano gli scambi commerciali.
L’Ufficio di Sanità si organizzò, dunque, per gestire operativamente i due lazzaretti, per assicurare una strategia articolata e coerente in grado di
spegnere i focolai di peste nella città e nello Stato, e soprattutto per tenerla fuori dai territori della Repubblica. Si passò così dalla difesa della salute
nelle emergenze alla organizzazione della sanità cioè di una strategia politica costante che cercasse di prevenire il morbo. Il motto del Magistrato fu
“salus populi suprema lex esto” (la sicurezza delle persone sia la legge suprema ) e la sua azione si concretizzò sia sul fronte esterno che su quello
interno.
Dalla valutazione di costi e benefici appariva evidente che conveniva spendere in prevenzione piuttosto che sostenere il costo demografico
ed economico di una pestilenza conclamata. Il Magistrato alla Sanità utilizzò la stampa per diramare migliaia di proclami, usciti dai torchi della
tipografia ducale con il marchio di San Marco, affinché anche i nemici fossero informati dei luoghi infetti da evitare e della durata della contumacia
da adottare.
L’Impero Ottomano, seguendo i dettami della religione islamica, fatalista e passiva nei confronti della malattia, non adottava alcuna misura per
contenere o contrastare il contagio, per questo motivo la Serenissima lo considerò sempre “sospetto” e ritenne che al suo interno la peste non si
potesse mai considerare estinta. Perciò qualsiasi persona, merce o animale proveniente dai domini ottomani o dai paesi con essi confinanti, doveva
sottoporsi a espurgo e contumacia nei lazzaretti che il Magistrato alla Sanità fece sorgere lungo i suoi confini per mare e per terra.
La persistenza delle pandemie fuori dalla Repubblica indusse il Magistrato a creare cordoni sanitari con posti di blocco (“restelli”), e presidi
armati (“caselli”o casematte), imponendo ad ogni sorta di viaggiatore, convoglio o pellegrino la tracciabilità dei suoi spostamenti con la
certificazione della salute (“fede di sanità”) del luogo di partenza e di quelli toccati in itinere. Analoga documentazione fu richiesta ai capitani
delle navi che dovevano esibire le “patenti”, documenti di viaggio attestanti la salute dei porti di provenienza e degli scali fatti nonché le “fedi” dei
singoli passeggeri e delle merci.
Nel caso di notizia da parte degli ambasciatori di possibili epidemie, le varie città venivano “bandite” e per “decreto” a tutti i viaggiatori,
merci, animali provenienti da esse era impedito l’ingresso in città.
Venezia si trincerava entro le proprie case, teneva lontane le persone straniere, disinfettava le merci, verificava tutti i permessi e lasciapassare
sanitari (“fedi di sanità”).
Tale certificato era utilizzato come strumento di difesa delle epidemie nei tempi nei quali la vita, non solo economica, era strettamente dipendente
dalle misure di precauzione e dagli strumenti di controllo, come la messa al bando ed i cordoni sanitari di terra e mare che dopo la peste, divennero
sempre più frequenti.
La “fede di sanità” dell’Ufficio per la Sanità di Venezia nel 1713 riporta la scritta “Si parte di questa dominante sana (iddio lodato) & libera da
ogni sospetto di mal contagioso gl’in frascritti, con robbe, ò con mercantie, ò senza, come qui sotto sarà notato … / Officio della sanità di Venetia”.
Nel caso di Venezia, l’impianto iconografico è vistosamente simbolico. Oltre al rituale Leone di San Marco a rappresentare Venezia, è ritratta la
bilancia della Giustizia insieme alla spada simbolo del potere e della severità della legge.
Insomma “severi ma giusti”. La scritta “Gratis” era legato alla grazia, alla benevolenza di chi lo concedeva.
29 gennaio 1713, quando il Provisores Salutis Sacili (provveditori per la salute di Sacile), rilasciavano a 2 donne sacilesi, una di 56 anni e una di 15
anni, un documento amministrativo ufficiale, cartaceo, gratuito, nel quale spicca, nella parte alta, lo stemma del Comune di Sacile e quello della
Serenissima.
Era infatti il 29 gennaio 1713, quando il Provisores Salutis Sacili (provveditori per la salute di Sacile), rilasciavano a 2 donne sacilesi, una di 56
anni e una di 15 anni, un documento amministrativo ufficiale, cartaceo, gratuito (attuale pass), nel quale spicca, nella parte alta, lo stemma del
Comune di Sacile e quello della Serenissima.
Sacile aveva vissuto nella emergenza per la peste fin dal 1461 anno in cui in città scoppiò una grave epidemia di peste che procurò una ventina di
morti in 15 giorni, così come nel 1466 per la peste si decise di scavare le fosse e seppellire i morti, mentre nel 1468 venne deliberato di costruire un
lazzaretto per ricoverare gli incurabili.
Il Magnifico Consiglio eleggeva i provisores contra peste (i provveditori contro la peste) o provisores salutis Sacilli (i provveditori per la salute
di Sacile). Per la circolazione dentro e fuori città da parte delle persone doveva essere acquisito un pass ufficiale, cartaceo, gratuito, rilasciato
dall'autorità comunale competente. C'erano particolari disposizioni per i mercanti che arrivavano da luoghi appestati per i quali era obbligatoria la
quarantena. Infine si era provveduto alla costruzione del lazzaretto per il ricovero degli incurabili e pericolosi per la contagiosità del male, e
soprattutto la vigilanza era rigorosa.
Fede di sanità del 29 gennaio 1713 di Sacile. Clicca sull’immagine per ingrandire
La celebrazione dell’Anno Santo 1750 aperto da Benedetto XIV all’insegna delle missioni popolari, aveva portato a Roma un numero di
pellegrini mai raggiunto da nessun precedente Giubileo. Una parte di quei pellegrini provenivano da esotici paesi come l’Armenia e le Antille. Ma a
far paura erano quelli ben più numerosi provenienti dagli altri Stati italiani e da tutta Europa. Per partecipare all’evento era necessario avere
l’“Attestato di sanità”, chiamato anche “Passaporto marittimo”, “Patente sanitaria” o più semplicemente “Fede di partenza”.
Temendo che i nuovi arrivati oltre ai soldi portassero malattie contagiose, il papa ordinò che osti, locandieri e altri affittacamere dessero notizia «de’
forestieri che si fossero infermati nelle loro case», depositando la delazione in un’apposita buca (tuttora esistente), fatta murare nel 1749 sulla parete
alla sinistra della chiesa di San Salvatore alle Coppelle.
Giubileo 1750, censimento dei pellegrini al Giubileo 1750
ArcheoVenezia, Venezia e la Peste, Anno XXI, n.1, marzo 2011
Italia libera, Il “Green-pass”? C’era già nel 1500 e anche prima: si chiamava “attestato di sanità”
Timer Magazine, Le misure della Serenissima per convivere con le pandemie L’invenzione della tracciabilità