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DOPING

Con il termine doping si intende l'uso (o abuso) di particolari sostanze o medicinali con lo scopo di
aumentare il rendimento fisico e le prestazioni dell'atleta. II ricorso al
doping è un'infrazione sia all'etica dello sport, sia a quella della scienza medica. Il termine deriva dalla parola
inglese "dope": essa, in principio, indicava una mistura di vino e tè bevuta regolarmente dagli schiavi
americani per rimanere attivi e lavorare.
Il doping non è un fenomeno recente, fin dall'antichità si è fatto ricorso a sostanze e pratiche per cercare di
migliorare una prestazione sportiva; già nelle Olimpiadi del 668 AC viene riportato l'uso di sostanze
eccitanti (quali funghi allucinogeni). Nelle civiltà antiche si
faceva ricorso a funghi, piante e bevande stimolanti, con lo sviluppo dell'industria farmaceutica si assiste ad
una diffusione di sostanze quali alcool, stricnina, caffeina, oppio, nitroglicerina e trimetil (alla quale si deve
morte del ciclista Linton nel 1886).
I regolamenti sportivi vietano il doping, regolamentando strettamente le tipologie e le dosi dei farmaci
consentiti, e prescrivono l'obbligo per gli atleti di sottoporsi ai controlli antidoping, che si effettuano
mediante l'analisi delle urine e in taluni casi anche del sangue. Gli atleti che risultano positivi alle analisi
vengono squalificati per un periodo più o meno lungo; nei casi di recidiva si può arrivare alla squalifica a
vita.
Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) e le federazioni sportive nazionali collaborarono nel 1998 per
fondare l'Agenzia Mondiale Anti-Doping (WADA www.wada-ama.org), un organismo che congiunto al CIO
finanzia e collabora con le nazioni impegnate a sviluppare dei programmi per il rilevamento e il controllo del
doping atletico.
L'Agenzia Mondiale Anti-Doping svolge i suoi compiti compilando e aggiornando costantemente un elenco
delle sostanze e dei metodi che sono incompatibili con gli ideali dello sport e che dovrebbero essere vietati
nella competizione atletica. E' anche responsabile dello sviluppo e della convalida di nuovi, e
scientificamente validi, test di individuazione, nonché dell'attuazione di programmi internazionali efficaci,
nelle competizioni ufficiali e non ufficiali, per lo screening degli atleti. In aggiunta a questo sforzo
internazionale, un certo numero di paesi, inclusi gli Stati Uniti, hanno formato agenzie nazionali anti-doping,
organizzate in modo simile alla WADA, con il compito di monitorare e controllare il doping sportivo a
livello nazionale; le stesse agenzie istituiscono programmi di ricerca per sviluppare test ancora più efficaci
per individuare le sostanze e le metodiche proibite. Nelle agenzie degli Stati Uniti, questo sforzo nazionale
per l'anti-doping è coordinato dall'Agenzia Anti-Doping degli Stati Uniti.
La WADA ha attuato il suo programma sul controllo delle droghe nello sport mediante l'emissione e il
continuo aggiornamento del Codice Mondiale Anti-doping, che comprende un elenco delle sostanze e dei
metodi vietati.
È noto come il rendimento sportivo possa essere implementato dall'utilizzo di alcuni farmaci, ad esempio:

 Gli ormoni steroidei che provocano infatti una ipertrofia muscolare con riduzione delle masse


adipose, aumento della forza e della capacità di recupero dallo sforzo, mentre le anfetamine e gli
altri stimolanti del sistema nervoso centrale migliorano la prontezza di riflessi e la concentrazione.
L'alterazione dei parametri ematochimici, in particolare l'aumento dell'ematocrito (la percentuale di
elementi corpuscolati presente nel sangue: globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) ha come
risultato l'aumento dell'apporto di ossigeno ai tessuti, quindi una maggiore resistenza allo sforzo.
Tuttavia accanto agli effetti positivi sono ben noti effetti negativi di ciascuna di queste situazioni, in
particolare l'assunzione di ormoni steroidei risulta nella perdita delle proprietà meccaniche ed
elastiche dei tendini con facilità di rottura, nell' aumento della facilità alla formazione di trombi,
dunque del rischio di infarto, di complicazioni cardiovascolari.

 Le anfetamine, invece, possono provocare ipertensione, aritmie cardiache, crisi


convulsive, vomito, dolore addominale, emorragie cerebrali, psicosi, dipendenza e morte;
mascherando la fatica fisica possono indurre a sforzi eccessivi con conseguenti danni ai
tendini, muscoli ed articolazioni.
 La cocaina agisce inibendo il reuptake della dopamina a livello delle sinapsi; come effetti collaterali
può causare aritmie cardiache, infarto del miocardio, ipertensione
o ipotensione, ansia, depressione, attacchi di panico, aggressività, irritabilità, psicosi
tossiche, tremori, convulsioni, alterazione dei riflessi, mancata coordinazione motoria,
paralisi muscolare, respirazione irregolare, dipendenza e morte.

 Le modificazioni dell'ematocrito, in particolare l'aumento dello stesso, possono esitare nella


formazione di trombi intravascolari, con necrosi tessutale massiva ed embolia. Per gli sport di durata
negli anni Settanta era stata introdotta, nello sci di fondo e nel ciclismo, l'autoemotrasfusione.
Obiettivo di tale metodica era proprio l'aumento della massa eritrocitaria, quindi del trasporto di
ossigeno verso i muscoli. Questo razionale era alla base della prima forma di doping di tipo
biotecnologico.

 Qualche anno più tardi, l'ormone stimolante la produzione di globuli rossi, l'eritropoietina (EPO),
fu isolato dall'urina umana e successivamente ne venne determinata la composizione aminoacidica,
quindi identificato il gene, clonato e transfettato in cellule ovariche di cavia. Nel 1985
l'eritropoietina umana ricombinante entrava in commercio. Si apriva una nuova era per la cura delle
malattie del sangue da carenza di eritrociti. Allo stesso tempo, però, la somministrazione di EPO, che
mima gli effetti di un intenso allenamento in quota, diventava in breve una pratica generalizzata
nella corsa e nello sci di fondo, ma soprattutto nel ciclismo, disciplina che ha infine consegnato la
sostanza al clamore della cronaca nei Tour de France corsi nel 1998 e nel '99.

 Nella seconda metà degli anni '80, nasce: l'ormone della crescita (GH). La diffusione dell'uso del
GH si è accompagnata ad un notevole incremento di farmaci e supplementi alimentari che stimolano
la produzione ed il rilascio dello stesso, come certi aminoacidi, i beta-bloccanti, la clonidina (un
farmaco antipsicotico di ultima generazione), la levodopa e la vasopressina. Il GH era considerato un
valido sostituto e coadiuvante degli steroidi anabolizzanti, in quanto anch'esso stimola l'aumento
della massa corporea e possiede azione anabolizzante; in aggiunta, il GH aumenta la mobilizzazione
dei lipidi dai tessuti adiposi e ne accresce l'ossidazione come fonte di energia, risparmiando
il glicogeno muscolare. Sebbene diversi studi abbiano smentito i presunti effetti ergogenici del GH
sugli atleti, quest'ormone divenne ben presto un elemento essenziale nella preparazione di molti
atleti di punta, soprattutto per il fatto che non esisteva un test in grado di rilevarne l'assunzione (dai
giochi olimpici di Atene del 2004 è stato introdotto un test in grado di rilevarlo tramite l'analisi di un
campione di sangue). L'ormone della crescita veniva estratto dall'ipofisi dei cadaveri; per questo,
fra i soggetti trattati vi furono casi di malattia di Creutzfeldt-Jakob (una delle forme umane di
encefalopatia causata dai prioni) pertanto il GH umano venne ritirato dal mercato nel 1985. L'anno
successivo le ricerche biotecnologiche portavano alla produzione del GH umano ricombinante, il cui
uso nello sport non è esploso come gli steroidi a causa degli alti costi e della difficoltà di acquistarlo
allo stato puro.

 Più recentemente, un altro prodotto della ricerca biotecnologica con potenti effetti anabolizzanti ha
iniziato la conquista del mercato del doping: l'IGF-1 (insulin-like Growth Factor). L'IGF-1 è un
peptide analogo alla proinsulina usato nella terapia di alcune forme di nanismo e nella cura del
diabete resistente all'insulina.
Una delle maggiori sfide per i laboratori antidoping è proprio quella di riconoscere gli effetti
dell'utilizzo di questi peptidi ricombinanti con test antidoping specifici.

 Metodo per doparsi: autotrasfusione è il tipo di doping detto ematico. All’atleta si preleva fino a
un litro e mezzo di sangue, che viene conservato in frigorifero con l’aggiunta di sostanze
anticoagulanti. Nell’arco di 20-30 giorni, il sangue si riforma. Poche ore prima della gara, quello che
era stato prelevato viene reiniettato, facendo aumentare il volume complessivo fino a sei litri e
mezzo circa e accrescendo di conseguenza il numero dei globuli rossi: così ai muscoli arriverà più
ossigeno, con una più rapida produzione di energia e dunque migliori prestazioni e maggiore
resistenza alla fatica. Ma l’autotrasfusione porta con sé dei danni, se protratta: il cuore viene
sottoposto a un super lavoro; l’eccesso di globuli rossi apporta una quantità spesso tossica di ferro
(contenuto nell’emoglobina, la molecola dei globuli rossi implicata nel trasporto dell’ossigeno);
l’eccessiva ossigenazione determina un’usura superiore alla norma dei tessuti; si possono alterare i
meccanismi deputati alla produzione delle cellule ematiche, aprendo le porte a malattie autoimmuni,
tumori e patologie cerebrovascolari.
A complicare lo scenario si sono aggiunti i recenti progressi nel campo della terapia genica, ad esempio
l'evidenza di un aumento della performance muscolare in modelli animali dopo modificazioni geniche.
Il timore che la manipolazione genetica e le tecniche di terapia genica vengano applicate per cercare di
migliorare la performance sportiva, ha portato la WADA ad inserire il doping genetico nella lista dei metodi
proibiti. Per doping genetico si intende "l'uso non terapeutico di cellule, geni, elementi genici o della
modulazione dell'espressione genica, che possa aumentare la performance sportiva".

L'eritropoietina (EPO)
L'eritropoietina, nota ai più con la sigla EPO, è un ormone glicoproteico (costituito da 193 aminoacidi di
cui i primi 27 vengono persi al momento della secrezione) che regola la produzione di globuli rossi
(eritropoiesi). Viene sintetizzata soprattutto dalle cellule del rene e in piccola parte dal fegato che diviene il
principale produttore solo durante la vita fetale. L'utilizzo dell'eritropoietina in campo medico permette di
curare alcuni tipi di anemie, come quella dovuta ad insufficienza renale cronica.
Quali sono le sue funzioni? Dopo essere
stata immessa in circolo l'eritropoietina interagisce con specifici recettori (Epor) presenti nel midollo osseo,
il più importane organo emopoietico nell'adulto. In particolare il legame eritropoietina-recettore innesca una
serie di processi che portano alla formazione di nuovi globuli rossi.
Gli eritrociti sono le cellule più numerose del sangue: circa 4-6 milioni per millimetro cubo. Sono privi di
nucleo per lasciare più spazio all'emoglobina, una proteina in grado di fissare e trasportare l'ossigeno alle
cellule, caricandosi una parte dell'anidride carbonica ed eliminandola nei polmoni.
Nel nostro corpo non esistono riserve di eritroproteina e la sua sintesi varia in relazione alle richieste
metaboliche. In particolare la produzione di EPO viene regolata dalla presenza di ossigeno nei tessuti e in
minima parte dalla sua concentrazione nel siero. Se i tessuti non ricevono abbastanza ossigeno i reni
aumentano la secrezione di eritropoiteina e viceversa. Basta chiudere un soggetto per qualche ora in una
stanza con ridotta presenza di ossigeno per aumentare in modo significativo la produzione di eritropoietina.
Anche alcuni ormoni come il testosterone e gli ormoni tiroidei intervengono in questo processo di sintesi. I
livelli normali di eritropoietina nel sangue sono circa 2-25 mU/ml, ma possono umentare di 100-1000 volte
come risposta all'ipossia
ERITROPOIETINA SINTETICA
Il gene che regola la produzione di eritropoietina è stato isolato per la prima volta nel 1985.

L'EPO può essere sintetizzata in laboratorio sfruttando la tecnica del DNA ricombinante. Questo metodo,
abbastanza recente ma costoso, permette di estrarre un gene specifico dal DNA di una cellula e di inserirlo in
un'altra cellula che produrrà grandi quantità pure della sostanza codificata da quel gene (in questo caso
l'epo).

Differenze tra eritropoietina endogena e di sintesi

I globuli rossi sono il risultato di un lungo processo di divisione e differenziamento cellulare.Grazie alla sua
funzione l'eritropoietina è in grado di regolare questi passaggi selezionando e portando a maturazione solo le
cellule funzionali.

L'eritropoietina prodotta in laboratorio non è in grado di operare questa selezione. Di conseguenza in seguito
alla sua somministrazione vengono sintetizzate e immesse in circolo anche cellule imperfette con un maggior
rischio di patologie ematiche e tumorali.
Perché gli atleti ne fanno uso?
Una maggior concentrazione di globuli rossi nel sangue migliora il trasporto di ossigeno ai tessuti.
L'ertitropoietina viene quindi impiegata soprattutto negli sport di durata per favorire i processi aerobici
cellulari e garantire una maggiore resistenza alla fatica.
Sebbene alcuni studi abbiano attribuito all'eritropoietina modeste proprietà anaboliche (riparazione delle
cellule muscolari e aumento della massa magra) il suo impiego negli sport di potenza è limitato poiché poco
efficace nel miglioramento della prestazione.
EPO E DOPING: PERICOLI ED EFFETTI COLLATERALI
Come è noto i globuli rossi (GR) trasportano l'ossigeno ai tessuti e negli sport di resistenza, ad esempio
ciclismo, sci di fondo ecc., le richieste di ossigeno sono molto elevate. Da tempo, pertanto, sono state
indagate metodiche per aumentare la produzione dei globuli rossi in modo da migliorare la performance
sportiva. La più recente strategia è basata sul ruolo stimolatorio dell'eritropoietina sulla sintesi di globuli
rossi da parte del midollo osseo.
L'eritropoietina di origine esogena (sintetica) è molto più dannosa per la salute rispetto a quella endogena
secreta dal rene.
Abbiamo già visto come la somministrazione di questa sostanza provochi la produzione di globuli rossi
anomali ed aumenti il rischio di sviluppare patologie ematiche e tumorali (leucemie). Esiste tuttavia anche un
altro motivo per cui l'eritropoietina sintetica è molto pericolosa per la salute dell'atleta: l'aumento dei globuli
rossi diminuisce infatti la fluidità del sangue, aumentando la parte solida o corpuscolare (ematocrito). Questo
aumento di viscosità causa un innalzamento della pressione arteriosa (ipertensione) e facilita la formazione
di trombi che, una volta formatisi, possono occludere i vasi sanguigni (trombosi). Tale rischio aumenta
notevolmente in caso di disidratazione, come avviene solitamente nelle gare di durata.
Tra gli effetti collaterali più gravi di questa sostanza rientrano anche aritmie cardiache, morte improvvisa e
danni cerebrali (ictus).

Legge L.N. 376/2000 in materia di Antidoping


Con la L.n.376/2000 “Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportiva e della lotta contro il doping”
l’Italia si è dotata di uno strumento che se utilizzato appieno potrà senz’altro contribuire in modo efficace a
contrastare questo pernicioso fenomeno. Il provvedimento ha introdotto
profonde innovazioni alla disciplina dei controlli antidoping, ai loro criteri e metodologia; ma soprattutto
novità assolute e rilevanti quale ad esempio la responsabilità di carattere penale in aggiunta a quella sportiva,
per la prima volta attribuita a tutti gli attori delle varie fasi (prescrizione, vendita, somministrazione e
assunzione). Al centro dell’attenzione è posta la tutela della salute
dell’atleta, concetto molto più esteso della precedente definizione di doping. Viene infatti sancito il principio
che l’atleta può, come tutti, assumere farmaci e sottoporsi a pratiche mediche solo se ammalato. Può
sembrare ovvio e banale, ma per chi conosce le dinamiche del doping non è poi un concetto così scontato.
Quindi il trattamento è consentito solo in presenza di patologie certificate dal medico e secondo le modalità e
i dosaggi riconosciuti a livello internazionale e previsti dalle specifiche esigenze terapeutiche.
Viene poi istituita una Commissione nazionale per la vigilanza e controllo sul doping e per la tutela della
salute nelle attività sportive. Questa Commissione composta di esperti dei vari ambiti (medico, analitico,
legale, politico, sportivo) predispone le classi di sostanze dopanti tenendo conto anche di quelle del C.I.O.
(viene quindi ribadito l’ampliamento dei criteri per la loro individuazione), determina casi, criteri e metodi
dei controlli antidoping, individuando anche le competizioni, effettua controlli a sorpresa, predispone
programmi di ricerca su farmaci, sostanze e metodi utilizzabili a fine doping, individua forme di
collaborazione con il Servizio Sanitario Nazionale a tale fine, mantiene rapporti operativi con gli organismi
internazionali, promuove campagne di informazione e prevenzione sul doping. La Commissione infine
stipula convenzioni con i Laboratori Antidoping accreditati dal C.I.O. o con Laboratori Antidoping non
accreditati dal C.I.O. e coordinati dalle Regioni. Tra le misure accessorie una piccola, ma di rilevante portata:
l’obbligo di riportare la dicitura “farmaco doping” sulla confezione per quei farmaci contenenti sostanze
dopanti.
DOPING: ILLECITO SPORTIVO
La pratica del doping è un atto sportivo illecito per diversi motivi.

1. Essa costituisce un vantaggio acquisito slealmente. Ogni sport contempla, infatti, oltre alle regole
di gioco, anche dei divieti come, per esempio, il divieto di partenza anticipata (la cosiddetta falsa
partenza) o la proibizione di far uso di equipaggiamento non regolamentare. Il rispetto delle regole
serve a garantire a tutti i partecipanti uguali condizioni di partenza; la loro infrazione viene dunque
punita con la squalifica o con la sospensione delle gare.
2. L’uso indiscriminato di farmaci provoca rilevanti danni organici. Tutti i farmaci hanno un definito
indice terapeutico che deriva dal rapporto tra effetti curativi e tossici. Nessuna delle sostanze dopanti
agisce solo dove si vorrebbe. Vengono, infatti coinvolte più parti dell’organismo, con danni organici
spesso irreversibili. Nei casi più gravi si hanno esiti addirittura mortali, a volte dopo anni di distanza
dall’uso del farmaco.
3. Tale pratica ha una diffusione preoccupante tra i giovani. In passato i farmaci venivano assunti
solo in caso di malattie di una certa gravità. Oggi, invece, si ricorre ai farmaci per ogni piccolo
disturbo. Addirittura, sovente il trattamento farmacologico diventa un supporto per affrontare,
svolgere e migliorare le normali attività professionali. Negli sport la promozione di un modello
sbagliato di efficienza, forza, prestazione, bellezza si sostituisce al corretto spirito sportivo, basato
sulla volontà, sul sacrificio e sulla costanza dell’allenamento. Tra i giovani si diffonde la
convinzione che per vincere sia necessario essere supportati da qualcosa di artificiale. Si insinua
nelle loro abitudini una sorta di doping artigianale: ingeriscono sostanze di cui non conoscono del
tutto, o per nulla, gli effetti. E’necessario comprendere che i farmaci devono essere utilizzati
unicamente per far fronte alle malattie e non per migliorare l’efficienza fisica. Qualunque
sperimentazione di farmaci su soggetti sani è da considerarsi un atto illecito. Si deve contrastare
l’affermazione di una mentalità a favore del doping tra atleti, allenatori e sostenitori. Bisogna
combattere l’atteggiamento remissivo che considera il doping ormai così diffuso da non permettere
ai nuovi atleti di emergere, in alcune discipline, senza farne uso.
4. I giovani sportivi devono crescere con la consapevolezza di poter migliorare le proprie potenzialità
attraverso adeguati stili di vita, una corretta alimentazione e una buona programmazione degli
allenamenti. Il vero confronto con il proprio avversario deve rimanere un confronto tra atleti e non
tra farmaci.
FAIR PLAY
Il fair play, letteralmente “gioco corretto”, è un concetto che nasce in Inghilterra nell’Ottocento e viene
concepito inizialmente per le competizioni sportive.
Con il tempo si fa spazio in altri ambiti e si diffonde anche nei rapporti sociali e nella politica, perché il fair
play, ormai, non rappresenta solo un modo di comportarsi, ma anche un modo di pensare. Definirlo
come il semplice rispetto delle regole nel gioco sarebbe riduttivo, poiché si tratta di un concetto che si
collega e ne presuppone altri, di grande rilevanza, quali l’amicizia, il rispetto degli altri e dell’avversario, lo
spirito sportivo. Cosa significa in
concreto Il riconoscimento
del fair play da parte della politica e delle istituzioni è avvenuto gradualmente, man mano che il concetto si
radicava sempre di più nella mentalità degli organismi di governo dello sport. Ed è così che nel 1992,
durante la Conferenza di Rodi, il Consiglio d’Europa, costituito per l’occasione dai ministri dello sport,
approva il Codice Europeo di etica Sportiva. Si tratta di un
documento che, pur non fissando regolamenti precisi, prevede un quadro etico di riferimento con l’obiettivo
di diffondere una mentalità sportiva, che sia condivisa in ogni attività. In questo contesto, il fair play,
come sintesi delle considerazioni etiche, si trova al centro di tutto il codice, come elemento necessario e non
accessorio: deve guidare l’approccio allo sport che vede come principi cardine lotta ai brogli, al doping, alla
violenza verbale e fisica, alle discriminazioni. Un criterio guida, quindi, a cui tutti coloro che
promuovono esperienze sportive per giovani e bambini devono attribuire la massima priorità.
Praticare uno sport con fair play significa avere l’opportunità di conoscersi più a fondo, di fissare e
raggiungere obiettivi attraverso l’impegno e la costanza, di integrarsi con gli altri ed interagire, di divertirsi e
dimostrare le proprie abilità tecniche. Quali sono i
principi a cui attenersi Quando lo sport
non viene contaminato da interessi politici ed economici, dall’ignoranza e prepotenza, è una delle attività
maggiormente formative ed educative. Tra le principali
caratteristiche dell’attività sportiva c’è sicuramente l’immediatezza del suo linguaggio, che la rende
comprensibile da tutti e capace di trasmettere valori fondamentali e universalmente condivisi, quali la
capacità di assumersi responsabilità, l’interazione sociale, l’acquisizione di abilità tecniche e una conoscenza
più profonda di sé stessi. In particolare, quando si
parla di sport e di fair play, che si tratti di atleti o di tifosi, è importante attenersi ai seguenti principi:
· Giocare per divertirsi
· Giocare con lealtà
· Rispettare le regole del gioco
· Rispettare i compagni di squadra, gli avversari, gli arbitri e gli spettatori
· Accettare la sconfitta con dignità
· Rifiutare il doping, il razzismo, la violenza e la corruzione
· Essere generosi verso il prossimo e soprattutto verso i più bisognosi
· Aiutare gli altri a resistere nelle difficoltà
· Denunciare coloro che tentano di screditare lo sport
· Onorare coloro che difendono lo spirito olimpico dello sport
Esempi concreti di fair play nello sport
Dirigente sportivo, pedagogista e storico francese, conosciuto per essere stato il fondatore dei moderni
Giochi olimpici, Pierre de Coubertin amava ripetere che “l’importante non è vincere, ma partecipare”. Un
concetto semplice, ma colmo di saggezza, che nella pratica è stato messo in atto attraverso incredibili esempi
di fair play.
 Era il 1964, durante l’edizione dei giochi di Innsbruck, quando l’atleta italiano Eugenio Monti
venne sommerso di applausi per il suo gran cuore. Nel corso della finale della gara a squadre di
bob, la squadra britannica riscontrò un problema tecnico che, se non risolto, le avrebbe impedito
di gareggiare. Proprio in quell’occasione, Monti prestò agli avversari il suo bullone per
permettergli di continuare la competizione, che poi avrebbero vinto. Ciò che colpì di
quell’episodio, non fu soltanto il gesto di grande sportività del campione, ma il modo in cui
l’azzurro commentò la sconfitta: “hanno vinto perché sono andati più veloci, non perché gli ho
prestato il mio bullone”.

GIRO D’ITALIA: STORIA E CAMPIONI DELLA CORSA ROSA


Il Giro d’Italia è una manifestazione/competizione italiana nata nell’agosto del 1908 e messa in atto
per la prima volta nel maggio del 1909, grazie all’idea di un giornalista sportivo (Tullio Morgagni)
che promise 25000 lire al vincitore della manifestazione.
Dalla fondazione del Giro d’Italia ai cinque successi di Binda
L’idea nacque proprio dal fatto che in quel periodo le automobili erano poco diffuse e quindi il
mezzo di trasporto più utilizzato, e anche quello più economico, era la bicicletta. Essa si svolge nel
mese di maggio e coinvolge oltre 150 ciclisti che si battono per la conquista della Maglia Rosa e il
cosiddetto Trofeo Senza Fine, ed è oggetto di festa in tutte le città d’Italia.
Otto erano le tappe da 306 km a frazione, tre delle quali vennero conquistate da Luigi Ganna, il
primo vincitore assoluto del Giro d’Italia.
Nel 1914 venne inserita la graduatoria a tempo nel Giro d’Italia e le personalità che emersero in
classifica furono quelle degli sportivi Costante Girardengo e Alfredo Binda.
Girardengo era uno dei ciclisti più famosi a livello internazionale viste le sue nove vittorie dei
Campionati Italiani, le cinque vittorie della Milano-Sanremo e la vittoria della prima edizione del
Campionato del Mondo.
Era il periodo della prima guerra mondiale (ai reduci della guerra venivano date delle biciclette
gratuite), quando Girardengo vinse il Giro d’Italia nel 1919 rimanendo primo in classifica dalla
prima all’ultima tappa.
La vittoria del Giro d’Italia venne confermata a Girardengo fino al 1923, poichè a seguito di una
foratura della bicicletta, nel 1925 venne messo fuori gioco e battuto dal nuovo campione Binda, che
conquistò per cinque volte consecutive la Maglia Rosa.
GINO BARTALI E FAUSTO COPPI
Gli anni Trenta e Quaranta del ciclismo vennero animati dalla storica rivalità tra Fausto Coppi e
Gino Bartali, che portò l’Italia a dividersi in due fazioni: chi sosteneva Coppi e chi Bartali.
Sostenimento non solo di carattere sportivo, ma anche politico. La loro grande sfida si presentò nel
Giro d’Italia del 1940 quando entrambi facevano parte della stessa squadra (la Legnano) e Coppi
divenne gregario (aiutante del capitano) di Bartali. Durante quella competizione, un cane tagliò la
strada a Bartali che cadde, e Pavesi (direttore della squadra) decise di puntare su Coppi nella
classifica generale. Bartali si dimostrò in aiuto a Coppi anche quando durante la corsa, Coppi entrò
in crisi e volle ritirarsi, ma spinto a riprendere la bicicletta, egli continuò la corsa.
Dopo la seconda guerra mondiale, Bartali vinse il Giro d’Italia 1946 (con soli 46 secondi di
vantaggio rispetto a Coppi) e il Tour de France 1948. Ma nel 1947 e 1949 Coppi vinse la corsa, e in
particolare nel ‘49 giunse con 11 minuti di vantaggio al traguardo.
Da Charly Gaul al duello Merckx-Gimondi

Nella seconda metà degli anni ‘50 emerge la figura di Charly Gaul, che nel Giro d’Italia conquistò
la Maglia Rosa con il maltempo, pioggia e vento gelido (temperatura -4 gradi) tagliando il traguardo
in prima posizione con 7 minuti di vantaggio.
Verso la fine degli anni ‘60 nacque la sfida tra Gimondi e Merckx che vinsero otto edizioni del Giro
d’Italia (5 Merckx e 3 Gimondi). Ma questa sfida riguardò anche altre gare.
Nel giro d’Italia 1969 Merckx venne squalificato perché risultato positivo ad un controllo anti-
doping.
Nell’edizione del 1974 vinse con soli 12 secondi di vantaggio rispetto a Baronchelli e 33 secondi su
Gimondi.
Era negli anni 80’ e 90’ che c’era maggiore rivalità tra Giuseppe Saronni e Francesco Moser, capaci
di gareggiare e vincere su qualsiasi terreno.
In Francia, spiccó il nome di Bernard Hinault, uno dei più forti, tant’è che ogni volta che venne alla
corsa cosa egli non aveva mai rivali, perché dominava in tutto e per tutto: ricordiamo le vittorie
epiche come Roccaraso, Campitello Matese e Montecampione.
Nonostante Moser era più forte a livello di tempo, Saronni fu capace di incrementare il vantaggio in
salita, concludendo con il distacco finale di 2’09’ (vinse nell’83).
L’unica corsa vinta da Moser fu nel 1984, dove vi furono numerose polemiche.
Gli anni 90’ si aprono con il successo incredibile che ebbe Gianni Bugno, ció nonostante fu Miguel
Indurain a dominare il ciclismo internazionale: proprio grazie allo strapotere nelle prove contro il
tempo e la sua capacità di amministrare il vantaggio sulle montagne, quasi nessuno riuscì a
sconfiggerlo in questi anni.
Questi anni 90’ erano legati a un ragazzo di Cesenatico, scalatore formidabile in grado di i collare
un paese intero alla TV, Marco Pantani, che ad inizio carriera fu sfortunatissimo a causa di una serie
di cadute e incidenti che non gli permisero di competere al 100%.
Il capolavoro fu firmato al Giro d’Italia 1998, vinto su Pavel Tonkov.
Dopo aver vinto anche il Tour De France 1998, il corridore di Cesenatico tentó una nuova doppietta
nel 99’ dimostrando di avere una grande condizione, trionfando sul Gran Sasso e vestendo la maglia
da leader. (vinse poi all’Alpe di Pampeago e a Madonna di Campiglio, e nessuno sembrava più
potergli togliere la vittoria).
Fu qui che, dopo la vittoria a Campiglio, venne sottoposto ad un test in cui i suoi globuli
mostrarono una concentrazione superiore al consentito (ció non significava doping, ma venne
sospeso per 15 giorni, non potendo finire la corsa, vinta poi da Ivan Gotti).
Dopo quel giorno la sua carriera cambió radicalmente, e dopo aver spaccato con un gesto di rabbia
un vetro dell’albergo, accerchiato da Carabinieri e giornalisti disse: “mi sono rialzato dopo tanti
infortuni e sino tornato a correre, questa volta però per me rialzarmi sarà molto difficile”.
Tutto ciò lo portó alla depressione e alla morte il giorno di San Valentino del 2004.
Dopo Marco Pantani, si succedettero vari corridoi italiani a vincere il Giro d’Italia.
La Corsa Rosa tornó tra i grandi del ciclismo, e il giovanissimo Alberto Contador (già vincitore del
Tour de France) decise di partecipare al Giro d’Italia nel 2008.
Sebbene non vinse nemmeno una tappa, egli cercava di mantenere una certa regolarità, che gli
permise di trionfare con 1’57’ su Riccardo Riccó.
L’edizione del Giro d’Italia del 2010 vide la seconda vittoria di Ivan Basso, e la nascita di un
campione chiamato Vincenzo Nibali.
Nel 2011 ritornó vittorioso Alberto Contador, fino a quando una squalifica retroattiva lo provo del
Trofeo senza fine, e vinse così il giro d’italia Michele Scarponi.
Il 2013 e il 2016 sono gli anni di Vincenzo Nibali. Soprattutto quella del 2013 fu un’edizione senza
storia, con le vittorie a Bardonecchia, nella cronoscalata di Polsa e alle Tre Cime di Lavaredo (sotto
la neve).
Nel Giro d’Italia del 2016 arrivó così la vittoria in modo inaspettato, vincendo a Risoul e attacca a
Sant’Anna di Vinadio, vincendo la sua seconda maglia rosa.
Al Giro d’Italia del 2018 va ricordata l’impresa di Chris Froome, ma alla 19esima tappa attacca sul
Colle delle Finestre a 80km dall’arrivo, e Tom Dumoulin, il suo rivale diretto, tenta di inseguirlo
ma fu costretto a soccombere arrivando a oltre tre minuti.
Con quest’azione, Chris Froome si aggiudicó il Giro d’Italia, dopo 4 tour de France e 1 Vuelta di
Spagna, entrando nel club dei vincitori di tutte le tre tappe.
Nel 2019, Richard Carapaz, regaló al suo paese la prima gioia nel ciclismo mondiale.
I tre corridoi detengono il record di vittorie alla corsa: Alfredo Binda, Fausto Coppi, Eddy Merckx.
Per nazioni l’Italia comanda la classifica con ben 69 vittorie divise in due corridoi.
Mario Cipollini guida invece la classifica con dei corridoi con maggiori tappe vinte al Giro d’Italia,
con 42 vittorie in frazioni intermedie.

L’INFANZIA E LA PRIMA GIOVINEZZA


Gino Bartali nacque a Ponte a Ema, un piccolo paese a sud di Firenze, il 18 luglio 1914. Suo padre, Torello
Bartali, si guadagnava il pane lavorando a giornata, mentre sua madre aiutava a mantenere la famiglia
lavorando nei campi e ricamando. Gino aveva due sorelle più grandi, Anita e Natalina, e un fratello minore,
Giulio, che come lui aveva la passione per le corse in bicicletta. Gino cominciò a contribuire al bilancio
famigliare in giovane età andando a lavorare in una fattoria e aiutando sua madre con il ricamo.
All’età di undici anni, Gino fu costretto procurarsi un mezzo di trasporto per poter frequentare la scuola
media, perché la più vicina si trovava a Firenze. Usando in parte i suoi guadagni e in parte con l’aiuto di suo
padre e delle sue sorelle, Gino riuscì ad acquistare la sua prima bicicletta. Fu così che, pedalando sulle
colline toscane, Bartali cominciò a sviluppare e poi raffinare le sue doti di ciclista e di corridore. Nel 1931,
all’età di 17 anni, vinse la sua prima corsa.
LA CARRIERA CICLISTICA
Bartali diventò un corridore professionista nel 1935 e vinse il suo primo Giro d’Italia l’anno successivo, il
1936. Per accrescere la reputazione del ciclismo italiano all’estero, la Federazione Ciclistica Italiana lo
costrinse a gareggiare nel Tour de France del 1938, nonostante Bartali non si sentisse pronto. I Fascisti, che
con l’ascesa al potere di Benito Mussolini nel 1922 avevano assunto il controllo totale delle istituzioni
italiane sia pubbliche che private, speravano che una vittoria al Tour avrebbe dimostrato la superiorità del
Fascismo e della “razza Italiana.”
Bartali vinse il Tour de France, ma non avendo nessuna simpatia per il regime, non dedicò la vittoria al
Duce, come sarebbe stato d’obbligo. Di conseguenza, al suo ritorno in Italia, Gino non ricevette gli onori che
gli sarebbero spettati.
Il 1938 aveva anche portato un cambiamento molto importante nella vita degli Ebrei italiani: il Gran
Consiglio del Fascismo aveva infatti approvato le cosiddette Leggi Razziali, che si ispiravano alle Leggi di
Norimberga varate in Germania. Le Leggi Razziali escludevano quasi totalmente gli Ebrei dalla vita pubblica
italiana e, più tardi, sarebbero state usate per facilitare le deportazioni nei campi di concentramento.
Inevitabilmente, esse marcarono anche l’inizio di una più stretta alleanza con la Germania di Hitler.
Il 10 giugno 1940, l’Italia dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. In ottobre, Bartali fu richiamato
nell’esercito. A causa di un’aritmia cardiaca, gli fu affidato il ruolo di staffetta, compito per il quale gli fu
permesso di continuare a usare la sua bicicletta. Così, durante i tre anni successivi, Bartali poté continuare ad
allenarsi e a gareggiare.
GLI ANNI DELL’OCCUPAZIONE TEDESCA E L’AIUTO AGLI EBREI
L’estate del 1943 fu di cruciale importanza per l’Italia. In luglio, Benito Mussolini venne deposto e arrestato.
In settembre, il nuovo governo firmò l’armistizio con gli Alleati e, di conseguenza, la Germania invase le
regioni del nord, inclusa la Toscana. Con l’occupazione tedesca, le condizioni per gli Ebrei peggiorarono
ulteriormente.
Sempre nel settembre del 1943, il Cardinale Elia Dalla Costa chiese a Bartali di incontrarlo. Dalla Costa
aiutava da tempo in segreto gli Ebrei che avevano cercato rifugio in Italia dalle altre nazioni Europee. I
profughi avevano soprattutto bisogno di documenti falsi. Dalla Costa rivelò a Bartali il suo piano: con la
scusa dei suoi lunghi allenamenti in bicicletta, Bartali avrebbe potuto portare documenti contraffatti, e le foto
necessarie a completarli, nel telaio della sua bicicletta. Il piano era geniale perché il bisogno di allenarsi
costituiva una scusa perfetta e, inoltre, Bartali conosceva benissimo quelle strade.
Nonostante gli evidenti rischi, Bartali accettò. Per tutto l’anno successivo egli percorse centinaia di
chilometri con la sua bicicletta, nascondendo nel telaio documenti di vitale importanza. In alcune occasioni
Bartali venne accompagnato dai suoi compagni d’allenamento, i quali però non sapevano nulla dello scopo
segreto dei suoi viaggi. Quando venivano fermati a qualche posto di blocco, Bartali teneva occupate le
guardie chiacchierando di ciclismo. Se qualcuno accennava a voler controllare la bicicletta, Bartali li
convinceva a non farlo dicendo che le parti erano montate insieme in modo unico così da adattarsi
perfettamente alle sue caratteristiche di corridore.
Per pura coincidenza, poco dopo aver cominciato la sua collaborazione con la Resistenza, a Bartali fu chiesto
di nascondere una famiglia di Ebrei che egli conosceva molto bene. Gino disse ancora una volta di sì e
Giorgio Goldenberg, con sua moglie e suo figlio, vissero nascostri nella cantina di Bartali fino a quando
Firenze non venne liberata.
Nel frattempo, però, a causa delle condizioni difficili create dalla guerra, le corse ciclistiche professionistiche
erano state cancellate. Di conseguenza, la copertura di Bartali divenne meno credibile e, nel luglio del 1944,
Bartali fu condotto come sospetto a Villa Triste, a Firenze, il luogo dove i Fascisti imprigionavano e
torturavano i loro oppositori. Fortunatamente, uno degli ufficiali incaricati di interrogarlo era stato suo
comandante nell’esercito e convinse gli altri che Bartali era completamente estraneo a tutte le accuse.
LA LIBERAZIONE E GLI ANNI SEGUENTI
L’11 agosto 1944 Firenze venne liberata. Il conflitto e l’impegno nella Resistenza avevano indebolito Bartali
che dovette lottare per ritornare ad essere il campione di prima della guerra. Nonostante le difficoltà, Gino
vinse il Giro d’Italia nel 1946 e, con una prestazione straordinarie sulle montagne francesi, anche il Tour del
1948, dieci anni dopo la sua prima vittoria.
PREMIO “GIUSTO TRA LE NAZIONI”
Per molti anni, dopo la fine della Guerra, Bartali non parlò con nessuno del ruolo avuto nel salvataggio di
centinaia di persone. Egli condivise solo pochi dettagli con il figlio Andrea. Fu solo dopo la sua morte che il
suo contributo venne alla luce. Usando gli allenamenti alle gare come copertura, Bartali percorse migliaia di
chilometri tra Firenze, Luca, Assisi, Genova e Roma trasportando, nascosti nel telaio della sua bici, carte
d’identità contraffatte e altri documenti che dovevano rimanere segreti. I suoi sforzi contribuirono a salvare
centinaia di Ebrei in fuga da altre nazioni Europee.
NASCITA DEL PREMIO
Negli anni ’60 Yad Vashem iniziò un progetto mondiale per assegnare il titolo di “Giusti fra le Nazioni” ai
non ebrei che rischiarono le loro vite per salvare gli ebrei durante la Shoah agendo disinteressatamente. A
tale scopo Yad Vashem istituì una commissione guidata da un membro della Corte Suprema Israeliana, la cui
responsabilità è di assegnare il titolo. Questo è l’unico progetto al mondo che, usando criteri stabiliti, onora
le persone che salvarono ebrei durante la Shoah. L’assegnazione del titolo dei Giusti e gli alberi piantati nel
Viale dei Giusti fra le Nazioni hanno ricevuto attenzione mondiale e lo stesso concetto di “Giusto fra le
Nazioni” è diventato un simbolo importante ed universale. Fino alla fine del 2007 erano stati riconosciuti
22.000 Giusti.

LA STORIA DELLA BORRACCIA E I VALORI DELLA SPORTIVITÀ


La storia di oggi è una di quelle che tutti abbiamo davanti agli occhi, condensata in una immagine. Quella
borraccia passata tra i due, momento magico e mai svelato catturato da una foto di Carlo Martini sul passo
del Galibier, durante l’ascesa verso la mitica Alpe d’Huez. Era il Tour de France del 1952, Fausto Coppi
indossava la maglia gialla e quel passaggio di borraccia- di cui i due protagonisti mai vollero svelare la
direzione- mostrò al mondo quello che qualcuno aveva già capito, oltre le parole: una storica rivalità può
nascondere in sé una grande amicizia. Rispetto, amore per la strada e il sudore, sportività, coraggio, forza,
lealtà. Valori di uno sport che, forse, ormai non esiste più. Cemento, pavé, breccia, e ancora sudore, urla
della folla, e un’Italia che nel dopoguerra monta su quella bicicletta per scalare con la stessa fatica la
montagna verso il benessere. E in quella borraccia c’è tutta la vita e quella solidarietà umana che troppo
spesso negli anni a venire è stata messa da parte, nello sport come nella quotidianità.
GLI ARBORI DELLA RIVALITÀ-FAUSTO COPPI
Ma facciamo un passo indietro. 1940, Giro d’Italia, Bartali era già un campione affermato. Fausto Coppi era
un gregario della sua stessa squadra, la “Cicli Legnano”. Durante una tappa, Bartali fu attardato da una
caduta, i gregari si fermarono ad aiutarlo e fargli recuperare il gap col gruppone. Coppi invece, su ordine del
direttore sportivo della squadra, proseguì sino il traguardo per mantenere la buona posizione di classifica
conquistata sino ad allora. Inaspettatamente, o forse non per chi capiva di ciclismo, Coppi vinse la tappa
staccando tutti. Bartali si complimentò col giovane compagno di squadra, ma lo mise in guardia dalle salite
delle prime tappe di montagna. Coppi era un passeur, un passista da classiche di un giorno, mentre Bartali
era un famoso scalatore.
In quel giro Coppi, forte della migliore posizione di classifica, divenne l’uomo-vittoria e il campione più
esperto Bartali si mise al servizio dell squadra.
Nella tappa Firenze-Modena il piemontese Coppi scattò sull’Abetone e sotto una pioggia biblica vinse la
tappa e conquistò la maglia rosa. Ma sulle Alpi arrivarono difficoltà e crampi per il giovane Coppi, che si
decise a ritirarsi da quel giro. Ma Gino Bartali lo aiutò, lo spronò, e lo convinse. Nel ciclismo come nella vita
non si deve mai abbandonare. Fausto Coppi vinse il suo primo Giro d’Italia, Bartali dovette accontentarsi di
dominare la classifica degli scalatori.
Due anni dopo al celebre Velodromo Vigorelli, Coppi conquista l’allora ambitissimo record dell’ora, con
45,87 km percorsi, in un clima surreale dove il fiato era sospeso non per l’attesa sportiva ma per l’imminente
pericolo dei bombardamenti.
La Guerra ebbe il sopravvento su quelle meravigliose battaglie sportive. Almeno per un po’. Coppi fu
mandato in Africa con la fanteria, fu fatto prigioniero dagli inglesi, ma per fortuna riuscì a tornare in Italia
nel 1945 e riprendere la sua ascesa sportiva.
RIVALITÀ TRA COPPI E BARTALI
Nacque la rivalità tra Coppi e Bartali, che divise l’Italia diventandone a tratti anche una metafora della
divisione politica dell’Italia del dopoguerra. Un po’ come Don Camillo e Peppone, Coppi e Bartali divennero
l’emblema strumentalizzato dei due principali partiti della Repubblica neonata. Il Partito Comunista e la
Democrazia Cristiana.
Tra il 1940 ed il 1954 Coppi e Bartali dominarono la scena del ciclismo, con un bilancio di vittorie
strepitoso: 8 giri d’Italia (5 Coppi e 3 Bartali), 39 tappe (22 Coppi e 17 Bartali), 4 Tour de France (due per
uno), 7 Milano-Sanremo (4 Bartali e 3 Coppi.
Ginettaccio Bartali, per via di quel carattere scanzonato e dell’ironia pungente da buon toscanaccio.
Campione contadino, amante della buona tavola e del buon vino, simpatico e un po’ tradizionalista che
correva per la “Cicli Legnano”.
L’Airone Coppi, per quella sua eleganza sui pedali e nella vita, piemontese austero e gentiluomo,
magrissimo, tormentato e un po’ “maledetto” che fece grande la “Bianchi”.
Curzio Malaparte scrisse: “c’è sangue nelle vene di Gino, mentre in quelle di Fausto c’è benzina”.
Momenti di tensione in quella acerrima rivalità.
Al mondiale di ciclismo del 1948, disputato nei Paesi Bassi, Coppi e Bartali difendevano insieme la maglia
azzurra.
Si diedero battaglia per tutta la corsa, facendo saltare tutti i disegni tattici del selezionatore e consumando
tutte le loro energia. Ritirati entrambi. La federazione li sanzionò con due mesi di squalifica per
quell’assurda battaglia tra compagni di nazionale.
Eccoci a quella foto da cui siamo partiti, e al Tour de France del 1952. Da più di dieci anni quella rivalità
animava il ciclismo e l’Italia. Quella rivalità nascondeva una grande amicizia.
I due non svelarono mai chi passò la borraccia a chi. Mille illazioni e ricostruzioni furono fatte su quel
passaggio di borraccia.
FIORENZO MAGNI, IL TERZO INCOMODO
La storia della rivalità tra Coppi e Bartali fu anche la storia dell’affacciarsi sulla scena del ciclismo del “terzo
incomodo”, Fiorenzo Magni, meno forza e tecnica dei due campioni, ma scaltro e con tanto cuore. Vinse tre
Giri d’Italia, approfittando del fatto che i due campionissimi spesso si dimenticavano del resto del gruppo e
si davano battaglia l’un l’altro in una gara nella gara che accedeva la fantasia e le passioni dei tifosi.
La storia di Bartali e Coppi fu anche le storie di un’Italia che cambiava, rapidamente, mentalità, superando
pian piano il bigottismo contadino e provando ad emanciparsi (senza mai riuscirci) ma sempre sentendo la
necessità di nascondersi dietro un dito di ipocrisia. Coppi fu al centro anche delle cronache scandalistiche del
tempo per la relazione extraconiugale avuta con Giulia Occhini, moglie di un noto medico e tifoso del
ciclista, conosciuta durante la Tre Valli Varesine del 1948. La “Dama Bianca”. Tra Fausto Coppi e Giulia
Occhini iniziò una intensa storia d’amore, resa pubblica nel giugno del ’53 e subito additata da parte
dell’opinione pubblica e dalla Chiesa, con il Papa Pio XII che pubblicamente prese posizione condannando i
due amanti. Coppi e la moglie Bruna Ciampolini si separarono nel 1954, mentre la Occhini fu denunciata,
insieme all’amante, dal marito per adulterio (che allora era reato) e fu spedita in Ancona in attesa del
processo.
Il processo, celebrato nel marzo del 1955, si concluse con la condanna di Coppi a due mesi e della Occhini a
tre mesi di carcere con la condizionale. Ma ciò non fermò l’amore dei due, e la loro voglia di stupire il
mondo. L’airone sposò la Dama Bianca in messico ed nel 1955 ebbero un figlio, Angelo Fausto detto
Faustino.
Nel 1959 la coppia Coppi- Bartali si ricostituisce nel progetto della squadra “San Pellegrino”, diretta da Gino
Bartali, che dovrebbe avere come capitano proprio Fausto.
MORTE COPPI
Ma pochi mesi dopo, nel dicembre del ’59, Coppi partecipa con alcuni amici ciclisti francesi ad una gara nel
Burkina Faso, in occasione dei festeggiamenti per l’indipendenza del Paese. Forse durante una battuta di
caccia nei giorni successivi, il Campionissimo contrae la malaria. Febbre altissima al ritorno in Italia, il
ricovero in ospedale, le condizioni che si aggravano, l’intera nazione trattiene il fiato, come quella volta
sull’Alpe d’Huez. Ma questa volta non basta una borraccia, l’amicizia di Ginettaccio e la solidarietà
dell’Italia intera a scalare questa montagna. Fausto Coppi entra in coma e il 2 gennaio 1960, a poco più di
quarant’anni, muore.
MORTE BARTALI
“Ginettaccio” Bartali, morì per un infarto nel 2000, nella sua casa di Firenze.
Il 25 aprile 2006 il Presidente della Repubblica Ciampi lo insignì della medaglia d’oro al valore civile per
aver aiutato e salvato tanti ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Ancora una volta il mondo scopre
l’umanità, il coraggio e la solidarietà del grande Gino Bartali.
Mi piace pensare che questa sia la chiave dell’enigma su chi passò quella borraccia durante la scalata
dell’Alpe d’Huez. A volte le parole contano, altre volte non sono necessarie per capire la grandezza di
piccoli gesti.
La storia di Gino Bartali
È stato uno dei più importanti personaggi del ciclismo italiano, non solo per la rivalità con Fausto Coppi
Gino Bartali, ciclista italiano considerato tra i migliori di sempre, era nato il 18 luglio 1914 e morì il 5
maggio 2000. È ricordato per aver vinto tre Giri d’Italia e due Tour de France tra gli anni Trenta e Cinquanta
e per la sua storica rivalità sportiva con Fausto Coppi. Ottenne una grandissima notorietà soprattutto dopo la
Seconda guerra mondiale, proprio grazie alla rivalità con Coppi e alla mitica vittoria del Tour nel 1948,
quando aveva quasi 34 anni. Ma è anche stato un personaggio importante per la storia italiana.
Bartali nacque a Ponte a Ema, un paesino diviso Firenze e Bagno a Ripoli, in Toscana. Ancora prima di
ottenere il suo primo contratto con una squadra professionistica di ciclismo, nel 1935 si iscrisse da
indipendente alla Milano-Sanremo, una delle corse più famose del ciclismo italiano: da sconosciuto e senza
una squadra ad aiutarlo, arrivò quarto. Nonostante un guasto alla bicicletta quando era in prima posizione.
Grazie alla grande prova nella Milano-Sanremo, Bartali fu ingaggiato dalla Frejus, squadra legata
all’omonimo marchio di biciclette di Torino. Corse il suo primo Giro d’Italia nel 1935– arrivò settimo – e
nello stesso anno vinse i campionati italiani di ciclismo. L’anno dopo ottenne un contratto con la Legnano,
che allora era la squadra di Learco Guerra, uno dei ciclisti italiani più famosi dei primi del Novecento.
Bartali vinse il suo primo Giro d’Italia nel 1936 e vinse ancora nel 1937, quando fu designato capitano della
squadra italiana mandata al Tour de France. Una brutta caduta nella tappa da Grenoble a Briançon gli impedì
di vincere la corsa: lo fece l’anno seguente, nel 1938, a ventiquattro anni. In anni in cui in Italia il ciclismo
era tra gli sport più popolari in assoluto, Bartali diventò subito una celebrità. Poi arrivò Fausto Coppi.
Al Giro d’Italia del 1940, a causa di una foratura e di una brutta caduta nella seconda tappa, Bartali si trovò
quasi spacciato. Da pochi mesi, però, nella sua squadra correva anche un ventenne di nome Fausto Coppi: a
quel punto era quello della squadra messo meglio in classifica e si decise di puntare su di lui. Coppi vinse
così – con l’aiuto di Bartali, che corse da gregario – il suo primo Giro d’Italia: l’ultimo prima della
sospensione di qualche anno a causa della guerra.
Al primo Giro d’Italia dopo la guerra, nel 1946, Bartali ci arrivò quasi 32 enne. Coppi – che nel frattempo
era stato in un campo di prigionia durante la guerra e che poi era passato dalla Legnano alla Bianchi – era più
giovane ed era considerato il favorito. Senza arrivare primo nemmeno in una tappa, con grande abilità ed
esperienza, alla fine quel Giro lo vinse Bartali, che era probabilmente ancora il ciclista più famoso e amato in
Italia. «Bartali è un calcolatore», scrisse il Corriere della Sera l’8 aprile del 1946, il giorno dopo la fine del
Giro: «è di quelli che sanno spendere con sapiente cautela le energie e sanno mettere in serbo i gelosi minuti
e i preziosissimi secondi della classifica generale. Bartali non è la cicala di un solo canto, è un formicone
saggio».
Per una serie di coincidenze e ritiri, nel 1948, a quasi 34 anni, Bartali si trovò ad essere il capitano della
squadra italiana invitata al Tour de France (al Tour le squadre di club presero definitivamente il posto delle
nazionali dagli anni Settanta in poi). Bartali non partì da favorito, anche perché il resto della squadra italiana
non era composta da gente fortissima, ma con due grandi vittorie nelle tappe più difficili – di quelle che sono
rimaste nella storia del ciclismo – riuscì a vincere il suo secondo Tour de France. Non erano passate ancora
due settimane dall’attentato al segretario del Partito Comunista italiano Palmiro Togliatti e in Italia –
dopo giorni di proteste e scontri di piazza – non pochi pensavano che sarebbe iniziata la rivoluzione. Pare
che la vittoria di Bartali al Tour, per la grandiosità dell’impresa e la fama del suo protagonista, contribuì a
calmare le cose.
Bartali non era ancora “finito” – corse ancora diverse volte sia il Giro che il Tour, con discreti risultati – ma
non ottenne più grandi vittorie. Si ritirò nel 1954 con una gara organizzata per l’occasione a Città di Castello,
la città dove si era nascosto per qualche mese alla fine della guerra. Bartali morì il 5 maggio del 2000. Sei
anni più tardi, l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi consegnò a sua moglie Adriana
Bartali la medaglia d’oro al valor civile per il ruolo che Bartali aveva avuto durante la Seconda guerra
mondiale nel salvare la vita a decine di ebrei italiani, trasportando foto e documenti da una città all’altra,
nascosti nei tubi della sua bicicletta. Nel 2013, per lo stesso motivo, fu dichiarato «Giusto tra le Nazioni»,
l’onorificenza conferita da Israele ai non ebrei che si sono distinti per salvare anche solo un ebreo durante la
Seconda guerra mondiale.

Il Tour de France è il giro di ciclismo su strada più famoso e importante del mondo. Questa corsa si
svolge ogni anno dal 1903 (esclusi i periodi della prima e della seconda guerra mondiale) nel mese di luglio.
Per circa 3 settimane i ciclisti che vi parecipano attraversano in lungo e in largo il pentagono di Francia, e a
volte i paesi confinanti.
L’idea venne a un giovane giornalista di ciclismo, chiamato Géo Lefèvre. Per risollevare la crisi del
giornale per cui lavorava propose l’organizzazione di un evento unico: una gara a tappe di ciclismo che
attraversa tutta la Francia. Essendo il ciclismo molto popolare all’epoca, in questo modo il giornale, L’Auto-
Vélo, poté assicurarsi tanta pubblicità e un consistente aumento delle vendite.
Il giornale era contraddistinto perché stampato su carta gialla, proprio per questo la maglia del corridore
in testa alla classifica generale prese lo stesso colore. Per lo stesso principio la maglia rosa del giro d’Italia
ha il colore de La Gazzetta dello Sport.
Tra le altre classifiche vengono eletti il miglior scalatore, il migliore tra i giovani, la migliore squadra. Ad
ogni tappa viene anche affidato il “Premio della combattività” al ciclista più agguerrito.
Tra i vari riconoscimenti, per un periodo, venne attribuito quello per l’ultimo in classifica: la Lanterne
Rouge (lanterna rossa). L’ultimo arrivato portava sotto la sella un segno di riconoscimento rosso. La
tradizione voleva anche che facesse l’ultima tappa con una lanterna e un giro d’onore all’arrivo. Quello
dell’ultimo posto è per cui ancora ambito tra i corridori che cercano visibilità mediatica. Dal 1980 però, per
scoraggiare questa pratica, gli organizzatori decisero di eliminare dal tour l’ultimo classificato di ogni tappa.
Come anche per il giro d’Italia, la corsa ha una svolta nelle tappe di montagna. Alcune montagne sono
diventate leggendarie per gli appassionati di questo sport. Tra le più famose ci sono il colle del Tourmalet
(2.114 m sui Pirenei), il Colle del Galibier (2.645 m nelle Alpi) e il mont Ventoux (1.909 m in Provenza).
Dal 1975 la tappa conclusiva del Tour termina a Parigi, nella cornice degli Champs-Elysées, per la
felicità dei turisti e dei parigini che vi assistono in massa.
Per altre informazioni ed eventi a Parigi legati al tour de France, appuntamento sulla pagina degli Eventi
a Parigi

Spesso si associa la Shoah ad immagini post belliche di carneficine, Bergen-Belsen, Buchenwald. desolate,
violente foto in bianco e nero, scattate durante la liberazione da terrorizzati soldati Inglesi e Americani:
anonime montagne di corpi , gambe e braccia scheletrici ammucchiati vicino a fosse comuni. Guardando
queste immagini è difficile ricordare che quei corpi nudi e dimenticati erano esseri umani.
Sei milioni di persone non erano nate per essere vittime, ma per avere vite piene ed un futuro: erano felici per
i loro bambini, guardavano i tramonti, ballavano ai matrimoni, facevano il tifo per squadre sportive,
prendevano il sole sulla spiaggia, partecipavano a gruppi giovanili, facevano arte e musica, lavoravano duro
e avevano speranze e sogni per il futuro.

Tutto questo gli è stato brutalmente portato via: l'ideologia Nazista li ha condannati a morte soltanto perché
erano Ebrei.

Si dice spesso: “Una immagine è meglio di mille parole”. Negli archivi dello Yad Vashem ci sono centinaia
di fotografie di Ebrei prese durante la loro vita quotidiana, prima che ci fosse un piano per sterminarli come
nazione. Sono foto di persone, ora congelate nel tempo, che si erano fermate per catturare un momento
speciale da conservare per il futuro: un figlio amato , una felice riunione di famiglia, le facce piene di
speranza di due novelli sposi. Nessuna di loro immaginava il terribile destino che le attendeva, nessuna
poteva sapere che quegli scatti sarebbero stati l'ultima e sola eredità di un'intera vita, l'unica prova che
fossero mai esistite realmente. Tragicamente non tutti i visi di queste foto sono stati identificati:
quelli che li conoscevano e li amavano, che li avevano fotografati sono spesso stati uccisi assieme a loro e
non abbiamo potuto dare un nome ad ogni viso, come sarebbe stato doveroso.
Noi speriamo che mostrando alcuni visi dietro le statistiche degli uccisi ad Auschwitz, potremo rendere
queste persone più tangibili: prima di essere uccisi dai nazisti, prima di diventare aridi dati per gli storici,
erano persone; avrebbero potuto vivere ricche vite eccitanti o noiose vite normali o non comuni, ma loro
erano vivi, prima di essere falciati via. Dopo aver visto gli occhi di queste persone nelle fotografie esse non
saranno più anonime, se non altro queste foto ci avranno fatto fermare per un attimo a considerare che erano
persone come noi, ed ognuno di loro era un universo. Se noi possiamo capire questo avremo fatto un passo
avanti nella comprensione di ciò che abbiamo perso nella Shoah.

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