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Capitolo 1 - Introduzione storica alla psicologia

Gli studiosi del nostro tempo, specialmente gli storici e filosofi della scienza, sono piuttosto titubanti
nel classificare la psicologia come tale.
Alla fine del XIX sec. si cominciano a formare i primi laboratori di psicologia sperimentale, tra questi
Lipsia e Vienna.
Il laboratorio di Vienna presenta studiosi come Ludwing e Brücke, mentre quello di Lipsia ha
esponenti come Wundt.
Questo studioso introduce nel laboratorio “l’uomo adulto, bianco e normale” che colpisce soprattutto
per la sua unicità, le cui risposte a stimoli saranno simili, ma anche diverse rispetto ad altri uomini; e
diversificate in base al momento, all’età e certe volte ad una situazione sperimentale ad un’altra.
Questo laboratorio riuscirà a fornire insieme agli strumenti, anche un modo di organizzare la
sperimentazione (1879).
Dalla fisiologia alla psicologia: la Germania. Il programma della psicologia in Germania, fu
formulato da Gustav T. Fechner, il cui obbiettivo principale era dimostrare l’identità tra mente e
corpo, tra spirito e materia. Nel 1860 Fechner formulò la nota legge per cui la sensazione aumenta in
funzione del logaritmo dell’intensità dello stimolo e avviò un ampio programma di ricerca sui processi
sensoriali.
La psicologia poteva divenire una scienza non solo sperimentale, nel senso che era in grado di
riprodurre e studiare le sensazioni nelle condizioni artificiali del laboratorio, ma anche, e soprattutto,
quantitativa, dal momento che le leggi che caratterizzavano le sensazioni erano esprimibili mediante
rapporti matematici. Obbiettivo ultimo della psicologia era determinare le leggi con cui si
compongono gli elementi sottostanti ai processi coscienti studiati sperimentalmente mediante
l’introspezione, o auto-osservazione, utilizzando, cioè, lo stesso metodo adottato dai fisiologi per
studiare gli organi sensoriali. L’introspezione diveniva così il criterio interpretativo di quanto accade
all’interno dell’organismo nelle diverse situazioni sperimentali e la validità degli assunti che ne
derivano dipendeva dall’osservazione scrupolosa e attenta di alcune condizioni.
Nel laboratorio di Lipsia, i temi affrontati con maggiore impegno e quantità di ricerche sperimentali
erano ancora quelli relativi alle sensazioni, secondo una chiara impronta fisiologica.
Dopo il 1890 Wundt ridusse la sua attività di laboratorio per dedicarsi allo studio del pensiero, del
linguaggio e dei costumi sociali; questi temi rientravano nella “psicologia dei popoli”.
Nello stesso periodo Herman Ebbinghaus pensò di poter estendere l’uso del metodo sperimentale
allo studio delle funzioni mentali superiori, in particolare della memoria. Ebbinghaus era convinto di
poter misurare la difficoltà del materiale da apprendere in base al numero di ripetizioni necessarie
per apprenderlo. Utilizzò come materiale da apprendere, sillabe prive di senso poiché queste non
comportavano associazioni o significati che avrebbero facilitato il compito di apprendimento “puro”.
Con i suoi esperimenti giunse a stabilire la “curva dell’apprendimento”. Ebbinghaus dimostrò inoltre
che la psicologia poteva far propri gli strumenti elaborati da altre discipline oltre la fisiologia, come la
statistica e la matematica.
In questi anni, tra gli psicologi di lingua tedesca, venne contrapposta un’impostazione diversa,
definita “empirica”.
Oswald Külpe, per quanto allievo e collaboratore di Wundt, se ne allontanò dopo aver constatato i
limiti della psicologia studiata a Lipsia. Sotto l’influsso delle teorie di Brentano e Ebbinghaus, nel
1896 Külpe diede origine alla cosiddetta scuola di Würzburg. Il suo programma consisteva nello
studio del pensiero e il giudizio, si trovava una gran quantità di sensazioni, ma nulla che
corrispondesse propriamente ad un “giudizio”. Inoltre il pensiero non era accompagnato sempre dalla
produzione di immagini.
Le illusioni ottiche. Si tratta di fenomeni che erano già noti fin dall’antichità, ma che divennero
oggetto di indagine sistematica solo nei primi decenni dell’Ottocento: venivano variati i parametri
degli stimoli e si controllava se l’illusione si manteneva oppure no.

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Un’altra classe di illusioni, molto importante per lo sviluppo della ricerca sperimentale in psicologia,
fu quella relativa al movimento (illusione della cascata). Si tratta di “immagini consecutive”, che si
verificano cioè dopo l’osservazione prolungata di un oggetto. Queste immagini consecutive hanno
caratteristiche opposte agli stimoli che sono stati precedentemente osservati.
Oltre alle spiegazioni della teoria della forma, nella seconda metà del Novecento sono state
avanzate altre ipotesi basate sui nuovi dati della neurofisiologia e della psicologia cognitiva per cui le
illusioni dipenderebbero, nell’approccio neurofisiologico, da caratteristiche innate dei sistemi
sensoriali, oppure nell’approccio cognitivo, da processi mentali di “ricostruzione” dello stimolo
secondo criteri e aspettative dell’osservatore.
Dalla fisiologia alla psicologia: la Russia. Lo sviluppo della psicologia in Russia resta
strettamente legato alla fisiologia. Ivan P.Pavlov sviluppò la teoria dei riflessi condizionati.
Studiando i processi fisiologici della digestione nei cani, Pavlov scoprì che, accanto ai riflessi semplici,
o incondizionati, costituiti dalla risposta fisiologica ad un certo stimolo, si possono avere anche dei
riflessi condizionati, che costituiscono una forma elementare di apprendimento.
Il linguaggio è l’espressione principale della vita psichica umana ed è alla base dei processi della
coscienza. I processi psichici superiori, pensiero, linguaggio e memoria, non hanno un’origine
naturale, ma sociale e, per spiegarli, bisogna uscire dall’ambito dell’organismo e cercare le loro radici
nei rapporti tra gli uomini, nelle condizioni della storia sociale.
Il linguaggio e la creatività, possono essere compresi solo nella dimensione sociale dell’essere umano
e nella storia della cultura.
Dalle scienze naturali alla psicologia: la Gran Bretagna. La psicologia faticò ad affermarsi in
Inghilterra a causa di preclusione dell’ambiente accademico a riguardo dello studio di attività mentali.
Solo nel 1897 venne fondato il primo laboratorio di ricerca presso l’University College di Londra, che
segnò il completo distacco della psicologia dalla filosofia.
La psicologia doveva essere considerata una disciplina strettamente legata alle scienze biologiche e
allo studio comparato uomo-animale. Questa prospettiva troverà un valido supporto nella teoria
dell’evoluzione di Charles Darwin.
Francis Galton, cugino di Darwin, distinse le diverse capacità umane, tra queste l’intelligenza. Una
volta isolato un certo numero di capacità, ne indagò la distribuzione nella popolazione per verificare
se esisteva un meccanismo nervoso preposto alla trasmissione ereditaria di capacità straordinarie
tipiche del genio. Ebbero inizio così la psicometria e lo studio delle differenze individuali.
Nel 1901 a Londra Galton avviò la pubblicazione della rivista Biometrika e fondò diverse istituzioni
che dettero notevole impulso alla ricerca, come il laboratorio di eugenetica e antropometria nel cui
ambito vennero raccolti i dati che sarebbero stati utilizzati per la formulazione dei primi test
d’intelligenza.
Vi fu poi un altro studioso che dette un grande contributo allo sviluppo della psicologia inglese:
Charles Spearman, che si dedicò all’elaborazione di nuove tecniche per quantificare i risultati
sperimentali. Si deve a questo psicologo l’introduzione dell’analisi fattoriale nello studio della
personalità.
Tuttavia il passaggio dalla filosofia alla psicologia si realizzò ad Oxford con George Stout che insegnò
filosofia della mente e metafisica. Mentre nel 1893, a Cambridge, il medico William Rivers ottenne un
incarico di psicologia fisiologica. Dapprima svolse ricerche psicofisiche sulla fatica e sugli effetti dei
farmaci, poi orientò i suoi interessi verso l’antropologia.
Dal 1922 al 1957 insegnò psicologia a Cambridge Frederic Bartlett, che approfondì lo studio della
percezione, della memoria e del pensiero. Per Bartlett la percezione è il frutto dell’interazione degli
stimoli fisici con l’organizzazione del sistema nervoso, interazione che determina una forma di
apprendimento. In questo senso l’essere umano classifica ed interpreta le informazioni che
provengono dall’esterno secondo processi e schemi mentali appresi.
Il contributo di Bartlett alla psicologia sarà riscoperto per la portata euristica del concetto di
“schema” solo all’inizio degli anni ’70.
Dalla psicopatologia alla psicologia: la Francia. Può essere considerato il fondatore della
psicologia francese lo studioso Theodule Ribot, che riteneva che la psicologia dovesse essere

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sperimentale e che proprio nella malattia fosse possibile ravvisare la forma migliore di
sperimentazione. L’essere umano era considerato e studiato nell’insieme molto complesso delle sue
manifestazioni comportamentali, con particolare riferimento ai processi mentali superiori e alla
personalità a cui è possibile ricondurre l'origine dei comportamenti patologici. Uno degli autori più
importanti della psicologia francese fu Binet. Per lui l'oggetto della psicologia doveva essere lo
studio della condotta. Si dedicò allo studio dell'isteria intesa come forma di nevrosi e non tracciò
una netta delimitazione tra psicologia normale e patologica. Il metodo da lui impiegato per la terapia
era la catarsi, che consisteva nel far ricordare al paziente in condizioni normali avvenimenti specifici
della sua vita passata. Nel 1894 Binet divenne titolare del laboratorio di psicologia fisiologica che era
stato attrezzato con tutti gli strumenti usati a Lipsia.
Binet studiò l'intelligenza con il metodo dell'introspezione giungendo a conclusioni analoghe a
quelle degli psicologi della scuola di Wurzburg, per cui esisterebbe un pensiero senza immagini che
non può essere colto con la sola introspezione. Ciò che poteva essere analizzato, secondo Binet, era
il rapporto tra un individuo ed un altro e, all'interno dello stesso individuo, si potevano mettere in
evidenza le relazioni che sussistono tra i diversi processi psichici e stabilire quali sono quelli
determinanti.
Binet formulò una scala metrica dell'intelligenza secondo cui era possibile stabilire un ordine
relativo di punteggi conseguiti nel risolvere determinate prove in un gruppo di bambini della stessa
età e distinse l'età cronologica dall'età mentale seguendo l'ipotesi di Galton per cui esiste una
“capacità Generale” relativa alle varie età dell’individuo.
Un altro autore francese fu Wallon, che identificò l'oggetto di indagine della psicologia nel
comportamento inteso come attività globale degli individui nell’interazione che essi hanno con
l'ambiente in cui vivono. Alla psicologia spetterebbe la ricerca di come vengano utilizzate queste
funzioni cui è riservato il compito di garantire la sopravvivenza e la creazione di forme di vita
altamente complesse e raffinate. Wallon non studiò lo sviluppo del carattere e della personalità
dall'età infantile a quella adulta.
Complessivamente si può osservare che in Francia la psicologia si è sviluppata in parziale dipendenza
dalle teorie inglesi per quanto riguarda la teoria dell'evoluzione che finì per assumere un carattere
puramente filosofico speculativo. Inoltre la tradizione di studi matematici favorì lo sviluppo delle
tecniche statistiche rendendo la psicologia francese relativamente estranea alla problematica della
psicologia di stampo tedesco. Questo fino alla metà dell'800. Occorre ricordare che dal 1920 in avanti
a Parigi e a Ginevra insegnerà a Jean Piaget.
Piaget elaborò una teoria generale della conoscenza fondata sul concetto di sviluppo secondo un
principio di continuità tra filogenesi ed ontogenesi. Per Piaget l'adattamento all'ambiente consiste
nel rapportarsi dialettico di strutture e funzioni.
L'intelligenza si identifica con le strutture sempre più complesse che sottostanno al comportamento
dalle forme di vite inferiori fino all'uomo. L'assunto di base era che la coordinazione delle azioni nel
bambino appena nato fosse già una forma di intelligenza e che con la maturazione biologica e sociale
ed il complicarsi del comportamento, si determinassero funzioni sempre più complesse. Piaget definì
“genetica” la sua prospettiva per indicare che in base allo studio del divenire delle strutture del
pensiero del bambino si può comprendere non solo come tali strutture operano nell'adulto, ma anche
l'uso che ne fa l'essere umano per la costruzione della conoscenza scientifica che costituisce la forma
più complessa di pensiero.
La psicologia negli Stati Uniti. Anche negli Stati Uniti fu principalmente dalla filosofia che ebbe
origine la psicologia. Williams James teorizzò una psicologia sperimentale, originale rispetto a
quella che veniva elaborata in Europa. Il punto di partenza della sua concezione fu la teoria
dell'evoluzione e, in particolare, lo stretto rapporto tra l'individuo e l'ambiente in cui vive. Compito
della psicologia è lo studio della vita mentale di cui si analizzano i fenomeni e le condizioni in cui
essi avvengono. L'essere umano non è solo il frutto della ragione e del pensiero, ma anche
dell'emozione e dell'azione; l’intelletto subisce l'influsso degli aspetti fisiologici del corpo, così come la
ragione quello di esigenze diverse. La funzione cognitiva è un perfezionamento dell'organizzazione
percettiva afferente il cui sistema è alla base dell'istinto, dell'emozione e dell'azione volontaria.

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Contrariamente a quanto si credeva, James considerò le emozioni come la percezione di certi
cambiamenti concordi nel momento in cui si verificano: si ha, così, una corrispondenza immediata tra
la successione degli stati di coscienza e quella di processi globali del cervello ad essi relativi. James
ha riconosciuto l'importanza della psicologia sociale e dello studio della personalità oltre che
l'importanza delle abitudini: tanto più un'azione è ripetuta, tanto minore sarà l'attenzione richiesta
all’individuo per compierla.
Per quanto riguarda lo studio della personalità il “Sé” non è un'entità separata ed astratta, ma è
costituito dall'immagine che ognuno si crea di se stesso, immagine che ha un aspetto sociale,
costituito dal ruolo occupato dalla persona all'interno della società.
Per James l'immagine psicologica deve attenersi rigorosamente ai fatti e ai dati empirici, senza
postulare processi che non possano essere osservati.
Il metodo di studio è l'introspezione ma non quella di laboratorio, ma quella che consiste nella
capacità di cogliere le impressioni e gli stati sempre mutevoli della coscienza. Il limite di questo
metodo è la soggettività.
In sintesi la psicologia di James metteva in luce la ristrettezza problematica degli studi di Lipsia
determinati troppo rigidamente dall'istanza sperimentale, e prefigurava nuove linee di sviluppo che
condurranno ad una psicologia di stampo funzionalista e comportamentista.
La matrice europea della prima psicologia statunitense. James nei suoi soggiorni europei
aveva visitato i principali laboratori di psicologia. Tuttavia, il primo vero laboratorio di psicologia negli
Stati Uniti fu quello fondato, nel 1883, da Stanley Hall. Nel 1892 Hall fu uno dei massimi sostenitori
dell'istituzione dell'American Psychological Association. Sul piano teorico sostenne che l'ontogenesi
dovesse essere intesa come una ricapitolazione della filogenesi: nello sviluppo del bambino si
ripetono le varie fasi che la razza umana ha attraversato nel corso dell'evoluzione dall'uomo primitivo
a quello attuale.
Dapprima si dedicò allo studio della psicologia del bambino, poi a quella dell'adolescente e, infine, a
quella della senescenza. Fece uso sistematico di questionari e con i suoi collaboratori ed allievi si
dedicò all'elaborazione di importanti test mentali e di tecniche per misurare le differenze individuali.
Questi studi furono ripresi da James Cattell che era convinto dell'importanza di studiare le
differenze individuali in modo rigoroso mediante classificazioni, quantificazioni e valutazioni
comparative, secondo l'idea dal che fosse possibile isolare capacità particolari e capacità specifiche.
Edward Titchner, di origine inglese, può essere considerato il più fedele continuatore della
psicologia wundtiana negli Stati Uniti. Per Titchner la psicologia doveva essere una ricerca di base
pura, non una disciplina applicata. Il suo oggetto doveva essere l'esperienza considerata dal punto
di vista del soggetto che la vive. La coscienza veniva quindi intesa come la somma globale delle
esperienze che in un certo momento sono presenti nell'individuo, ma distinta dalla mente (patrimonio
delle esperienze accumulate durante la vita). Questa psicologia pura, inparziale ed impersonale,
come la fisica, aveva lo scopo di formulare leggi esplicative. Il metodo non poteva che essere
l'introspezione di cui mise in risalto i limiti senza mai metterne in discussione la validità sostanziale.
Funzionalismo e pragmatismo. Se i limiti del metodo introspettivo favorirono la ricerca di un
nuovo metodo, (comparativo e psicometrico) così anche l'oggetto della ricerca doveva mutare. Per
James, Stanley Hall e Cattel, la coscienza, in quanto meccanismo autosufficiente da un punto di vista
funzionale, non era più un oggetto da analizzare scomponendone i componenti, doveva, invece,
esserne approfondito lo studio dei meccanismi operativi che consentono l'adattamento dell’individuo
all'ambiente.
La concezione di funzionalità, assunse con John Dewey caratteristiche peculiari: si sviluppò nella
corrente filosofica del pragmatismo e la biologia evoluzionistica venne utilizzata per lo studio delle
idee considerate come strumenti adattivi dell'organismo. Questo orientamento, che riproponeva sul
piano del mentale i concetti di "lotta per la sopravvivenza" e di "sopravvivenza del più adatto"
realizzati nella versione spencereiana dell'evoluzione non più in senza deterministico, ma dinamico
venne sviluppata da Dewey e da Angell.

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La scuola di Chicago venne fondata nel 1892 da Dewey secondo cui il comportamento doveva essere
studiato in quanto ha un significato per l'individuo che lo compie, il riflesso è solo un mezzo per
stabilire una coordinazione utile.
La conoscenza è lo strumento fondamentale per relazionarsi all'ambiente che è sempre mutevole e
che, proprio per questo motivo, richiede un continuo apprendimento. La psicologia deve essere una
disciplina sperimentale volta allo studio di tutti i mezzi che possano agevolare questa continua
interazione tra individuo e ambiente. Angell, che succede a Dewey, precisa meglio l'impianto teorico
del funzionalismo che ormai era divenuto la psicologia ufficiale per il suo sintonizzarsi con la cultura
prevalente. Affermò che l'oggetto della psicologia doveva essere l'attività mentale concepita come
un insieme di processi la cui funzione consisteva nella condivisione e nell'impiego dell'esperienza per
realizzare una forma di azione definita “comportamento adattivo".
Nella caratterizzazione del nuovo concetto di "esperimento di laboratorio", il funzionalismo esercitò
un'influenza determinante. Il nuovo metodo usato era ancora sperimentale e consisteva
nell'osservazione, semplice o controllata, per determinare se il soggetto riesce, o meno, a
raggiungere l'obiettivo prefissato e per analizzare le variabili che, di volta in volta, possono
ostacolare o facilitare tale conseguimento. Il nuovo oggetto di studio era il comportamento nella sua
globalità.
Thornedike (1901) contribuì in modo significativo a rendere il funzionalismo più originale. Formulò
la "legge dell'effetto” per cui gli atti che in una data situazione producono soddisfazione finiscono
con l'essere associati a quella situazione così che, quando essa si ripresenta, ci sono maggiori
probabilità che gli stessi atti vengano ripetuti rispetto al passato: ciò significa che il comportamento
implica una scelta. La risposta appresa è quella che soddisfa uno stato di "bisogno” dell'animale,
relativo alla situazione specifica. Thornedike definì la sua concezione "connessionista” nel senso che i
processi psichici sono costituiti dalle connessioni, innate o acquisite fra la situazione e la risposta. Per
Thornedike poteva essere analizzato solo ciò che era direttamente osservabile o ripetibile. La
constatazione è che il comportamento relativo ad una scelta, anticipa la possibilità di concepire una
teoria della motivazione basata su "bisogni” o “pulsioni” fondamentali dell'essere umano.
La reazione alla “crisi”: il comportamentismo. Intorno al 1910 si verificò una “crisi” della
psicologia, dovuta agli apporti della psicologia animale, dal successo delle teorie psicoanalitiche e
dalla diffusione delle ricerche applicate nello studio delle capacità.
Questi studi sembravano sfaldare la psicologia in un qualcosa che non aveva più un corpo organico.
Si assiste allora, a due tentativi volte alla ricostituzione di un nucleo centrale al quale ricondurre una
nuova psicologia.
Da una parte Watson elabora il comportamentismo che trova nella psicologia animale e comparata
un precursore naturale; dall’altra, in Germania, la Gestalt rilancia, su basi decisamente nuove,
l’antico problema del significato psicologico dell’esperienza e, in particolare, dei fenomeni percettivi.
Watson, dal 1903 al 1920, elaborò la concezione comportamentista il cui postulato principale
consisteva nel totale rifiuto di affrontare il problema della coscienza per l'impossibilità di definirla e
descriverla, come nella scelta dell’ osservazione del comportamento manifesto. L'oggettività della
scienza psicologica può essere conseguita solo riconducendo quanto più è possibile i processi psichici
a quelli fisiologici, cioè assumendo una prospettiva di riduzionismo fisiologico.
Watson riteneva che il metodo adeguato per garantire la scientificità della psicologia fosse
l'osservazione del comportamento manifesto. Il merito di Watson fu quello di avere steso la
problematica metodologica relativa allo studio degli animali e delle forme di vita inferiori, allo studio
di tutto il comportamento nella sua globalità e non solo di qualche aspetto specifico del
comportamento o a qualche abilità particolare. Il presupposto era che ogni risposta deve avere
un gruppo di elementi antecedenti e costanti che sono causa di tale risposta. In questa
concezione, il concetto primario era quello di “comportamento manifesto dell'organismo" inteso
come il complesso insieme interfunzionale che si esplica nelle risposte.
Poiché dall'organismo dipendeva anche il sistema nervoso, questo non meritava un'indagine
particolare.

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Il manifesto comportamentista fu scritta da Watson nel 1913 nell’articolo”La Psicologia come la vede
un comportamentista” in cui teorizzava l'importanza della psicologia animale per lo studio della
psicologia umana. La fortuna della psicologia comportamentista, dipende da una sostanziale affinità
tra la psicologia elaborata da Watson e il contesto culturale in cui si inserisce.
La reazione alla “crisi”: la Teoria della Gestalt. In Germania si stavano delineando correnti
psicologiche in netta opposizione all'orientamento wundtiano. In questa prospettiva la percezione
non era considerata una semplice combinazione passiva di elementi sensoriali, bensì il frutto di
un’attività organizzatrice della mente che agisce sugli elementi dell'esperienza: è questa
attività che può spiegare l'unitarietà e la coerenza dell'esperienza. Christian von Ehrenfels affermò
che non tutte le percezioni possono essere analizzate come semplici combinazioni di sensazioni, dato
che esistono anche delle “Gestalten Qualitaten” (Qualità - forma).
La forma non è una sensazione ma è un elemento nuovo che interviene nella percezione. La mente,
infatti, dà forma alle sensazioni elementari. Von Ehrenfels era giunto a questa conclusione utilizzando
un metodo che non era l'introspezione, ma l'osservazione “semplice” senza cercare di
approfondire ciò che poteva essere celato dietro quanto è dato nell'immediato apparire, o
manifestarsi, di certi fenomeni.
Era un orientamento prettamente fenomenologico. In quest'ottica di “ osservazione ingenua" venne
maturando la “Gestalttheorie” (teoria della forma) la cui formulazione compiuta avverrà solo tra il
1920 e 1930.
Max Wertheimer nel 1912, fece degli studi sperimentali sulla visione del movimento chiamando
quello che aveva scoperto “movimento stroboscopico”.
Il movimento apparente non poteva essere spiegato come la semplice somma degli stimoli
stazionari. Dalla scoperta di questo autore nasce oggi il cinema, con la sequenza di foto che
proiettata una di seguito all’altra riproducono il movimento.
La scuola di Berlino, costituita da Wertheimer, Kohler e Koffka, approfondì lo studio della
percezione. La teoria della Gestalt, anti-associazionista, anti-causalista e antimeccanicista, si basa
sull'assunto che le leggi che governano la vita psichica sono leggi psicologiche non riconducibili a
quelle fisiche. L'attività psichica sarebbe indipendente, entro certi limiti, dall’ esperienza, per cui
l’influenza del mondo esterno, cioè il ruolo degli stimoli, ha un carattere “virgolette occasione”
anziché di “causa” per i processi impercettibili. Allora tra la sfera psicologica e quella cerebrale non
c'è una relazione di causa effetto, ma di isomorfismo o parallelismo di strutture. In questa
prospettiva la percezione diviene un processo estremamente complesso in cui il fattore
organizzazione, relativo agli stimoli esterni, assume un ruolo fondamentale e il processo cerebrale
sottostante costituisce il sistema dinamico in cui gli elementi della percezione interagiscono.
Anche l'intelligenza e il pensiero si articolano secondo processi individuali innati. Kohler dimostrò che
anche gli animali hanno un comportamento intelligente intendendo l’insieme di processi messi in atto
per conseguire un fine mediante l'uso di strumenti. Wertheimer distinse il pensiero riproduttivo dal
pensiero produttivo che, invece, è creato in quanto produce conoscenze nuove.
Il pensiero produttivo è un comportamento molare, cioè richiede il riconoscimento dell'importanza di
un particolare elemento nel fornire la soluzione che consiste nel ripristinare la buona forma del
campo (vedere il problema in un’altra prospettiva non comune), costituita dal problema. Questo
riconoscimento viene chiamato “Insight” ed implica una dinamica che ripristina situazione di
equilibrio tra gli elementi del problema e comporta una ristrutturazione non solo del campo
percettivo, ma anche del sistema emozionale e intellettuale.

Il neo-comportamentismo. Accanto al modello di ricerca watsoniano, si delineò un'altra


impostazione, sempre di tipo comportamentista. I maggiori rappresentanti di questa corrente definita
neo-comportamentista, furono: Guthrie, Tolman, Hull e Skinner.
Guthrie elaborò una teoria dell'apprendimento basato sul presupposto che le connessioni tra
stimolo e risposta avvengano o per condizionamento o per la formazione di abitudini. In
questa prospettiva il compito della psicologia è la formulazione di leggi, o generalizzazioni, che
possono trovare esemplificazione nel singolo comportamento. La psicologia, dunque, studia il

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movimento degli organismi senza affrontare il problema dell'azione che l'organismo esercita
sull'ambiente nel suo complesso. Le teorie di Guthrie furono molto criticate.
Tolman si interessò al concetto di istinto e all'accettazione dell'esistenza di una componente
intenzionale nel comportamento. Riconobbe una grossa importanza alla finalità e all'intenzionalità del
comportamento. Indipendentemente dal fatto che ne abbia coscienza o meno, anche un topo in un
labirinto è sempre guidato da uno scopo, per cui ogni risposta comportamentale deve essere
concepita come un fenomeno complesso. Tra le cause ultime del comportamento (stimoli,
ereditarietà, apprendimento passato e stati fisiologici contingenti), e il comportamento e
effettivamente prodotto si frappone un “set” o insieme di fattori che determinano il comportamento
di fatto esibito. Questi fattori sono proprietà funzionali del comportamento e nessuna descrizione
adeguata del rapporto stimolo-risposta può prescinderne. Il comportamento era determinato da un
campo di variabili la cui struttura è relativa alla relazione segno-significato e esprime una
subordinazione dei mezzi ad un fine.
La teoria di Tolman resta fondamentalmente comportamentista. Tuttavia, questa teoria si differenzia
sostanzialmente da quelle di Guthrie e Skinner poiché non riduce il comportamento solo ai modelli di
condizionamento, ma ne basa l'organizzazione sul ruolo delle variabili intermedie, delle mappe
cognitive e dell'apprendimento latente.
Carl Hull pensava che la psicologia avrebbe potuto raggiungere il grado di teorizzazione delle altre
scienze se avesse adottato il metodo ipotetico-deduttivo che consiste nel definire induttivamente una
serie di postulati o azioni, tra loro logicamente connessi, da cui dedurre delle conclusioni da
sottoporre a verifica empirica per poi confermare o rifiutare il sistema di leggi così costruito. In base
all’azione rigorosa per il metodo ipotetico-deduttivo, Hull fu in grado di costruire la prima, e forse
anche ultima, teoria matematico-formale del comportamento. Secondo tale teoria, l'organismo
è soggetto ad un continuo processo di adattamento biologico all'ambiente.
Il comportamento che deriva da questa continua interazione era orientato alla riduzione di un
bisogno relativo alle modificazioni dell'ambiente che possono turbare le condizioni di vita ideali
dell'organismo, che ricerca stimoli che provocano piacere, rifuggendo da quelli che provocano dolore.
La teoria di Hull, quindi, riconosce che ci sono relazioni dinamiche tra gli stati interni e, in particolare,
tra la scelta di un'abitudine specifica e la produzione della reazione motoria corrispondente.
Skinner si allontana dalla posizione di Tolman e Hull e ritorna alla posizione di Watson. Secondo
Skinner, scopo principale della psicologia è stabilire relazioni funzionali tra lo stimolo e la risposta
in modo da cogliere le modalità per cui una particolare risposta dipende da una serie di stimoli. In
questa ottica i problemi metodologici sono relativi esclusivamente alla situazione sperimentale.
Skinner teorizza un tipo di condizionamento definito "operante". Questa forma di condizionamento
si verifica quando, nel suo agire nell'ambiente, l'animale stesso rinforza un proprio comportamento
spontaneo. Il comportamento, pertanto, può essere “rispondente”, se viene evocato da stimoli,
oppure “attivo” se è prodotto da un condizionamento operante.
La psicologia non comportamentista. Fin dalla metà degli anni Trenta del Novecento la psicologia
della personalità si afferma come studio dell’economia motivazionale dell’adattamento sia nella
prospettiva psicoanalitica che in quella sociale. Le insufficienze teoriche del comportamentismo
orientano l’interesse dei ricercatori verso tematiche precedentemente ignorate perché giudicate
irrilevanti e metodologicamente fuorvianti: il linguaggio, la motivazione, il pensiero, le emozioni e la
percezione.
Nel 1949 James Bruner e Leo Postman mostrano quanto le aspettative, i bisogni e le motivazioni
dei soggetti influenzino i fenomeni percettivi. Inoltre Egon Brunswink mostrò, con i suoi studi, che
gli stimoli costituiscono dei significati per l’organismo e che i processi cognitivi possono essere
interpretati come un’operazione di confronto tra tali significati o come una loro trasformazione.
Gli studi degli etologi Thorpe, Lorenz, e di altri psicologi come Harlow, contribuiscono a demolire la
falsa contrapposizione tra istinto, ereditario e immutabile, e apprendimento, prodotto dal
condizionamento, prospettando una visione articolata e dinamica del problema incentrata sul
carattere flessibile del comportamento.

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Hebb sostenne che la problematica neurofisiologica e quella psicologica si sovrappongono senza che
l’una possa ridursi all’altra. Al filosofo spetta il compito di ricavare i dati circa il funzionamento delle
parti del sistema nervoso, allo psicologo quello di porre in relazione tali acquisizioni con i
comportamenti nel tentativo di ricavare nuovi dati dalla divergenza tra il comportamento
effettivamente osservato e quello prevedibile in base alle conoscenze già possedute. La novità
concettuale della teoria di Hebb consiste sia nell’affrontare il problema dell’organizzazione del
comportamento morale, sia nel considerare come oggetto qualificato di analisi il comportamento
mediato da attività centrali autonome, come il pensiero in senso lato.
George Miller presenta un’indagine sul linguaggio inteso come mezzo sociale di comunicazione che
apre nuove e più adeguate prospettive allo studio del comportamento linguistico. L’esigenza di
considerare il fenomeno linguistico come prodotto di un individuo, comporta una serie di problemi
che rimandano da una parte alla struttura del linguaggio, e dall’altra, all’organizzazione del pensiero
che viene espresso in termini linguistici.
La psicologia cognitivista. Nel 1956 fu tenuto al Massachusetts Institute of Technology un
convegno, in cui furono presentate tre relazioni che avrebbero cambiato il modo di concepire
l'oggetto dell'indagine psicologica che non sarà più solo il comportamento, ma anche la mente da cui
quest'ultimo trae la propria organizzazione. Da queste relazioni derivò l'entusiasmo per la possibilità
di costruire macchine dalle prestazioni cognitive umane, cosa che non era possibile prima di sviluppi
enormi nella programmazione di elaboratori euristici e dello sviluppo della teoria delle decisioni e dei
giochi.
Delle relazioni, la prima fu di Newell e Simon che simularono l'assoluzione dei problemi da parte di
un calcolatore.
La seconda relazione fu quella del linguista Noam Chomsky che affermava che il modello del
linguaggio finora adottato, secondo la prospettiva comportamentista, poteva essere superato.
Chomsky sosterrà che la teoria dell'apprendimento è per principio inadeguata a rendere conto
dell'abilità del parlante a usare il linguaggio, dal momento che il numero delle frasi
grammaticalmente corrette di una lingua è potenzialmente infinito ed è impensabile che un bambino
possa rendere il linguaggio sperimentando tutte le possibili combinazioni di frasi per potere e alla
fine, diventare consapevole della probabilità delle associazioni. Ci deve essere quindi una
predisposizione biologica allo sviluppo del linguaggio, una sorta di meccanismo che realizzi quel
sistema innato di regole, la grammatica, che dà luogo alla produzione solo di frasi ben formate.
La competenza linguistica, la grammatica universale, si era spiegata nella produzione effettiva del
linguaggio, interagendo con le altre competenze cognitive, come la memoria, che pongono dei vincoli
al sistema di regole effettivamente realizzato nella produzione.
Nella tale relazione Miller indicò nel magico 7 più o meno 2, il limite della capacità della memoria
immediata. Si poteva dire che l'essere umano è un elaboratore a capacità limitata.
Broadbent propose un modello di come può avvenire tale elaborazione: l'informazione in ingresso
viene filtrata e trasmessa a successivi stadi di elaborazione che consentono il passaggio dall'input
all'output.
Miller, Galanter e Pribram affermarono che potenzialmente tutto il comportamento è pianificato
centralmente proprio come un computer che è programmato per svolgere certe operazioni. Così il
“piano”, cioè una struttura che caratterizza la rappresentazione del mondo esterno da cui ha origine
il comportamento, fornisce il fondamento concettuale per interpretare i processi cognitivi.
In questa prospettiva il comportamento è considerato come un insieme complesso di meccanismi di
controllo che si autoregolano la cui unica base è il TOTE (test – operate – test - exit), cioè un
semplice meccanismo di retroazione o feedback.
Altri teorici cognitivisti furono Bruner, Goodnow e Austin. Tali autori dimostravano che i soggetti
non associano meccanicamente risposte specifiche a stimoli specifici, ma piuttosto tendono ad
inferire quei principi o quelle regole sottostanti i problemi che consentono di trasferire
l'apprendimento a problemi differenti. L'attività del soggetto non si limitava a mettere in opera
processi di selezione, anzi, era proprio attraverso un processo costruttivo che l'informazione veniva
"strutturata" secondo particolari modalità riconducibili a strategie complesse la cui scelta era relativa

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a meccanismi interni che rappresentavano delle proprietà funzionali del pensiero in quanto attività.
Nel 1960 il Center for Cognitive Studies, fondato da Bruner e Miller, divenne un riferimento sicuro
per tutti gli psicologi che vedevano nella teoria dell'elaborazione umana dell'informazione lo
strumento adatto ad individuare l'organizzazione della mente.
Proprio il carattere sequenziale dell'elaborazione umana dell'informazione, induceva a utilizzare i
tempi di reazione nello studio dei processi cognitivi. Il principio era che a tempi di reazione più lunghi
corrispondeva una elaborazione più complessa.
Negli anni ’60 il panorama della ricerca psicologica era articolato in tre diverse direzioni che avevano
una rilevanza molto diversa. Così da una prima fase in cui la ricerca privilegiava l'identificazione delle
strutture nelle quali avviene l'elaborazione dell'informazione, si passa, all'inizio degli anni ‘70, ad una
seconda fase in cui viene prestata maggior attenzione alla dimensione funzionale del sistema
cognitivo abbandonando la concezione degli stadi o dei "magazzini" in cui avverrebbe l'elaborazione
dell'informazione.
Accanto ad una memoria di lavoro costituita dalle conoscenze che servono in un certo momento
dell'elaborazione cognitiva, si postula una memoria permanente costituita da tutte le conoscenze che
potenzialmente possono essere attivate, ovvero trasferite nella memoria di lavoro. Per quanto venga
mantenuto il nuovo linguaggio della teoria dell'informazione, i problemi che emergono dallo studio
del linguaggio, dalla percezione e dalla soluzione dei problemi, rimandano alla necessità di
considerare il ruolo che vi hanno fattori quali l'affettività, il contesto, la cultura e la stessa storia
individuale e di rivalutare i contributi che la psicologia precomportamentista aveva dato al loro
studio.

Capitolo 2 - Epistemologia e metodologia nella ricerca psicologica

La conoscenza scientifica e le sue trasformazioni nel tempo. Già nell'antico pensiero greco, era
viva l'esigenza di distinguere tra diverse forme di conoscenza e individuarne una che, più di tutte le
altre, offrisse garanzie di certezza. Questa forma di conoscenza è quella che attualmente noi
chiameremo conoscenza scientifica.
A partire dall'epoca moderna, la concezione della conoscenza certa muta: viene rifiutato il principio di
autorità, come pure una concezione astrattamente razionalistica e viene affermato il primato della
conoscenza fondata sull'esperienza. Per quanto riguarda la possibilità che l'esperienza sia fonte
di errori e di conoscenze ingannevoli (possibilità che aveva suscitato la diffidenza degli antichi nei
suoi confronti), secondo questa nuova concezione tali errori si possono evitare se l'analisi
dell'esperienza è condotta in modo rigoroso, seguendo una serie di regole che permettono di
distinguere tra gli aspetti più superficiali e potenzialmente ingannevoli dell'esperienza e quelli più
certi e sicuri, fonte di conoscenze vere.
I criteri di scientificità secondo l’ideale moderno di scienza. Secondo la concezione moderna di
scienza, un processo di conoscenza, per essere valido e certo, deve rispettare alcuni importanti
criteri e determinate metodologie. Il primo criterio fondamentale è quello dell’”empiricità” e
dell’"oggettività": la scienza può studiare solo oggetti empirici ed oggettivi, cioè fenomeni
testimoniati dall'esperienza, per scoprire i rapporti che intercorrono tra di loro.
Vengono distinti due tipi di qualità degli oggetti naturali:

- “qualità primarie” (massa, estensione, forma, ecc.);


- “qualità secondarie” (colori, sapori, odori) che non sarebbero oggettive, in quanto frutto
di percezioni o interpretazioni soggettive.

Dall’empiricità e dall'oggettività derivano la “pubblicità” e la “misurabilità” dei dati osservativi.


I criteri scientifici sin qui indicati delimitano l'ambito dei fenomeni, o meglio delle qualità dei
fenomeni che possono essere studiate scientificamente secondo l'ideale moderno di scienza. Sono la
fisica, i suoi oggetti e le sue metodologie a offrire uno schema di riferimento su cui si costruisce

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questo ideale di scienza che, non solo caratterizza e delimita l'ambito dell'indagine scientifica, ma
anche ne stabilisce le diverse fasi e metodologie.
1. Osservazione.
2. Formulazione delle ipotesi.
3. Verifica delle ipotesi attraverso la sperimentazione. La verifica sperimentale è da ritenersi
valida se l'esperimento ha la caratteristica della leggibilità e cioè che qualsiasi ricercatore può
ripetere lo nello stesso modo, ottenendo i medesimi risultati.
Lo schema logico che la regola la formulazione dei cibi, delle leggi e delle teorie, secondo l'ideale
moderno di scienza, è un "modello esplicativo”, causale e deterministico. Il modello esplicativo si
propone di individuare le cause reali che necessariamente danno luogo a un certo fenomeno.
Come la pensiamo oggi. Oggi l'ideale contemporaneo di scienza, e cioè il modo in cui noi
intendiamo la scienza, si è in parte modificato rispetto a quello elaborato nell'epoca moderna a
partire dalla fine dal dell'800. Per prima cosa si è modificata l'idea empirica dei fenomeni da
indagare. Al metodo "induttivo", che consiste nella generalizzazione di dati osservativi dopo che
sono stati messi alla prova con procedure sperimentali, si affiancava il metodo "ipotetico e
induttivo". Questo metodo consiste appunto nel dedurre, o derivare da una certa concezione
teorica, non necessariamente fondata sull'osservazione, una serie di conseguenze osservabili che
possono essere messe alla prova dell'esperienza.
Anche il concetto di oggettività subì profonde scosse proprio sul terreno della fisica ( si pensi ad
Albert Einstein e alla teoria della relatività); a un fisico, infatti, si deve l'enunciazione del cosiddetto
"principio di indeterminazione", secondo il quale non si possono compiere misurazioni
assolutamente oggettive, poiché le stesse procedure di misura modificano in qualche modo, seppure
minimamente, il fenomeno osservato.
Scienza e psicologia. Alla fine dell'800 alcuni autori della psicologia si proposero di attuare una
trasformazione radicale della loro disciplina per portarla nell'ambito della conoscenza scientifica. Ne
seguì una distinzione netta tra “scienze della natura” e “scienze umane” che si conservò nei secoli
dando luogo a caratterizzazioni molto diversi delle une e delle altre.
Le scienze della natura furono definite come "scienze nomotetiche ", cioè capaci di scoprire le
leggi che regolano l'andamento di vasti ambiti dei fenomeni.
Le scienze umane furono definite come "scienze idiografiche”, cioè più interessate alla
conoscenza del caso singolo piuttosto che alla scoperta di leggi generali.
Questa diversità indusse anche a distinguere tra “scienze della natura”, definite come scienze
esplicative, capaci di spiegare oggettivamente i fenomeni identificando le loro cause, e “scienze
umane”, definite come scienze comprensive cioè con modalità di conoscenza fondate su intuizioni
soggettive, non riconducibili a catene causali oggettive.
Il dibattito tra psicologi è stato aspro e le posizioni estreme che ha assunto sono state rappresentate
negli anni, da una parte, dai sostenitori di un oggettivismo puro e, dall'altra, dai sostenitori di un
soggettivismo puro. Un tentativo di mettere in relazione mondo soggettivo e mondo oggettivo fu
compiuto dai sostenitori della psicofisica, Weber e Fechner, che cercarono di scoprire le leggi che
mettevano in relazione alle variazioni del mondo fisico oggettivo e quelle del mondo psichico
soggettivo, proponendo criteri indiretti di misura delle variabili psichiche attraverso le misure delle
variabili fisiche.
Una prospettiva di grande valore storico, è stata quella dell'operazionismo psicologico. Per
operazioni si intende un certo modo di affrontare il problema del significato delle affermazioni
scientifiche e, più in generale, della verifica delle teorie scientifiche affermatosi nella prima metà del
‘900 a partire dalle analisi epistemologiche di pensatori neopositivisti.
Secondo questa prospettiva, anche concetti soggettivi quali pensiero, emozione, sentimento,
intelligenza possono essere studiati oggettivamente se si descrivono le operazioni concrete
attraverso le quali questi fenomeni possono essere osservati e misurati. Il mondo soggettivo è stato
tradizionalmente studiato: pensieri, opinioni, credenze, emozioni e sentimenti sono stati analizzati in
maniera più semplice, cioè attraverso i resoconti verbali che le persone ne fanno. In questo caso
resta naturalmente aperto il problema della fedeltà del resoconto. Il resoconto dell'esperienza

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soggettiva è però un comportamento oggettivo la cui fedeltà può essere accresciuta, con adeguate
metodologie di indagine atte a incrementare la sincerità di coloro che rispondono.
Vi è ancora un altro modo utilizzato dagli psicologi per avere accesso ai processi mentali soggettivi:
si tratta del metodo simulativo, elaborato dalla scienza cognitiva.
Con il termine “scienza cognitiva” si indica un ambito di ricerca interdisciplinare, applicato allo
studio dei processi mentali, organizzatosi verso la fine degli anni settanta, al quale fanno riferimento
psicologi, studiosi di intelligenza artificiale, linguistici, cibernetici e informatici. Questi studiosi
condividono una certa posizione teorica secondo la quale la mente umana può essere studiata
paragonandola a un calcolatore elettronico poiché, come quest'ultimo, essa è concepibile come un
sistema complesso che elabora informazioni. Il “metodo simulativo” proposto dalla scienza cognitiva,
ritiene che la mente possa essere compresa attraverso un “metodo costruttivo”, vale a dire
attraverso la costruzione di modelli teorici che ne simulano il funzionamento e che possono essere
trasformati in programmi per calcolatori.
Gli ambiti di indagine sono:
- la ricerca di laboratorio, interessata allo studio dei fenomeni psichici ben delimitati
analizzati con metodo sperimentale;
- la ricerca sul campo rivolta ad uno studio del più vasto ambito sociale;
- l'ambito clinico dedicatosi allo studio degli aspetti patologici del mentale con l'utilizzo di
metodologie sperimentali ed osservative;
- la scienza cognitiva, diversa dalle precedenti poiché è strettamente legata all'uso del
calcolatore elettronico.
La ricerca in laboratorio ed il metodo sperimentale. Il laboratorio si dimostra particolarmente
adatto all'applicazione del metodo sperimentale perché è un ambiente artificiale controllato, dove il
ricercatore può sia osservare, sia provocare risposte motorie, verbali e psicofisiologiche procedendo
alla loro registrazione e misurazione con strumenti adeguati. Le variabili in gioco possono quindi
essere isolate, controllate e riprodotte fuori dal contesto in cui naturalmente si manifestano. Ciò
permette di individuare quale effetto una variabile può avere su un'altra, e di utilizzare un "modello
di spiegazione causale" dei fenomeni studiati. La controparte negativa di questi vantaggi è
rappresentata dalle artificiosità delle situazioni sperimentali sacrificando quindi la " validità ecologica
" della ricerca.
L'organizzazione e la validità di un esperimento. Uno dei requisiti fondamentali di un buon
esperimento è la sua validità. Un esperimento è valido quando effettivamente mette alla prova le
ipotesi di partenza e cioè realmente indaga il nesso tra certi effetti e le loro cause supposte.
L'isolamento e il controllo delle variabili, la scelta casuale del campione, l'assegnazione casuale dei
soggetti ai gruppi sperimentali sono le regole importanti da seguire è per effettuare un esperimento.
Le variabili e il loro controllo. In un esperimento abbiamo “variabili quantitative”, “variabili
qualitative”e “variabili indipendenti”, o fattori, le variabili dalle quali si ritiene dipenda il
fenomeno che si sta studiando.
Sono chiamati "livelli delle variabili" indipendenti, i diversi valori che le variabili indipendenti
assumono nell'esperimento. Le variabili dipendenti costituiscono il fenomeno che si sta studiando e si
vuole spiegare e di cui si misurano le variazioni in funzione del variare dei livelli della o delle variabili
indipendenti.
In altri casi è utile introdurre un "gruppo di controllo", cioè un gruppo a cui il trattamento o i
trattamenti non vengono somministrati. Questo serve a verificare in modo sicuro se il o i trattamenti,
al di là dei loro diversi livelli, hanno effetti reali su lui soggetti.
La scelta dei soggetti. In un esperimento ideale, i soggetti dovrebbero essere reperiti attraverso
una "scelta casuale" dall'universo. La scelta casuale implica che ogni soggetto di una certa
popolazione abbia la stessa probabilità di essere scelto. La scelta casuale e le numerosità dei soggetti
garantiscono che si dispone di un "campione rappresentativo" della popolazione, o universo di
riferimento. Rappresentativo significa che il campione scelto riproduce fedelmente, seppure in forma
ridotta, le caratteristiche della popolazione da cui è stato estratto e ciò garantisce che le conclusioni

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dell'esperimento realizzato su quel campione stiano generalizzabili all'intera popolazione, o universo
di riferimento.
L’assegnazione dei soggetti ai gruppi. Nel caso in cui si voglia studiare l'effetto di più trattamenti
su certe variabili dipendenti, si possono organizzare due tipi di disegni sperimentali:

- “disegno tra i soggetti” → i soggetti sono distribuiti in tanti gruppi quanti sono i
trattamenti, o livelli, della variabile indipendente, quindi ciascun gruppo è sottoposto a un solo
trattamento e gli effetti di un trattamento sono indipendenti da quelli degli altri. Se ben
strutturato, il disegno tra soggetti è quello che offre più garanzie, poiché permette di
realizzare il miglior controllo della situazione sperimentale. Si realizzano infatti
contemporaneamente le due condizioni che lo ottimizzano: il controllo delle variabili
indipendenti e l'assegnazione casuale dei soggetti ai gruppi.
- “disegno entro i soggetti” → tutti i soggetti vengono assegnati a un solo gruppo e questo
gruppo viene sottoposto a tutti i trattamenti. In questo caso, ovviamente, non è più possibile
studiare l'effetto dei trattamenti in modo indipendente, poiché, essendo essi applicati a tutti i
soggetti, non si può escludere che ognuno di essi influenza e l'altro, per un effetto cumulativo.
Il disegno entro i soggetti ha un notevole vantaggio rispetto al disegno tra i soggetti, cioè
quello di essere meno dispendioso e di più facile realizzazione, poiché richiede il reclutamento
di un solo gruppo di soggetti, mentre per il disegno tra i soggetti, occorrono tanti gruppi di
soggetti quanti sono i trattamenti.

L'uso dell'uno o dell'altro disegno, oltre che da problemi di convenienza, dipende anche dagli obiettivi
della ricerca.
I quasi esperimenti. In altri tipi di esperimenti, chiamati “quasi esperimenti”, il ricercatore non
può far variare a suo piacere, cioè controllare, la variabile indipendente, oppure, pur lavorando con
più gruppi, non può assegnare i soggetti casualmente a questi gruppi. Questi limiti riducono la
validità dell'esperimento è quindi la possibilità di considerare sicuri che generalizzabili i risultati.
E esperimenti su singoli soggetti.
Anche nel caso di un singolo soggetto dobbiamo arrivare a disporre di dati siti simili, cioè di misure
ripetute per fare e ricerca scientifica. Nel caso degli esperimenti con soggetti singoli, quindi, i gruppi
di misure effettuate in tempi diversi sul singolo soggetto costituiscono le misure effettuate su gruppi
diversi, o sul medesimo gruppo, in tempi diversi, e le misure della linea di base hanno una funzione
paragonabile a quella di gruppo di controllo.
La ricerca sul campo: le inchieste. Non è teoricamente impossibile progettare un esperimento sul
campo, ma la sua realizzazione è sicuramente più difficile che comunque possibile solo in situazioni
ben delimitate, in cui si può avere un relativo controllo delle variabili in gioco senza dover intervenire
in modo manipolativo.
Inchieste condotte con questionario. Il fine generale delle inchieste è quello di studiare e
conoscere l'opinione o gli atteggiamenti di gruppi di persone in relazione a determinati argomenti o
problemi. Il questionario, un insieme organizzato di domande volte a far emergere l'opinione dei
soggetti su determinati temi, è lo strumento maggiormente utilizzato in un'inchiesta. Anche in questo
caso si può in qualche modo parlare di variabili indipendenti e di variabili dipendenti: queste ultime
sono le risposte dei soggetti, le prime sono rappresentate da alcune categorie che il ricercatore
decide di prendere come riferimento per valutare se e come influenza e non le risposte degli
intervistati. Nella prima parte del questionario dovremmo predisporre una serie di domande che
raccolgano le informazioni che saranno le nostre variabili indipendenti. Nell'analisi dei dati vedremo
se esiste realmente una relazione tra questi fattori e le risposte che misurano l'opinione studiata,
cioè la nostra variabile dipendente.
Rapporti causali che rapporti di connessione. La situazione sperimentale ideale permette di
evidenziare rapporti causali, cioè di dire che una certa variabile dipendente è causata da una certa
variabile indipendente poiché gli effetti di altre possibili variabili sono stati esclusi attraverso la

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tecnica dell'isolamento delle variabili e, più in generale, attraverso tutte le forme di controllo che
la situazione sperimentale prevede.
La controllabilità del contesto è notevolmente minore rispetto all'esperimento in laboratorio.
L'opinione degli individui varia quindi in funzione di mille aspetti che costituiscono il loro ambiente e
che noi non possiamo né isolare gli uni dagli altri, né far variare a nostro piacimento come faremmo
in un esperimento. Quello che le inchieste mettono in evidenza non sono rapporti causali, ma
rapporti di connessione tra variabili.
Il campione. Per il campione valgono le stesse regole dell'esperimento in laboratorio.
Domande aperte e domande chiuse.
Le risposte aperte garantiscono maggiore validità al questionario, poiché raccolgono direttamente
l'opinione dei soggetti intervistati, ma sono più difficili da analizzare perché vanno interpretate e
categorizzate dal ricercatore. Le risposte chiuse sono meno valide, poiché costringono i soggetti a
scegliere tra opinioni alternative indicate dal ricercatore. Esse però sono più facili da esaminare e non
richiedono interventi interpretativi. Le domande aperte vanno utilizzate quando si ha una conoscenza
molto scarsa del tema che stiamo indagando. Quelle chiuse vanno utilizzate nelle situazioni contrarie.
A queste condizioni, garantiscono la validità del questionario.
La sincerità delle risposte. C'è un comune atteggiamento di protezione della propria sfera privata.
Spesso questa modificazione segue la regola del “sono come tu mi vuoi”. Si tratta di quel criterio
spesso indicato come “desiderabilità sociale delle risposte” che fa sì che le persone che rispondono
andranno a presentarsi come persone normali, non devianti, e cioè persone che condividono assieme
al contesto sociale, abitudini, a sistemi di credenze, valori, comportamenti e attitudini. Per
controllare, per quanto possibile, la tendenza a mentire occorre dare alla persona che risponde, la
certezza che il questionario che compila è, e resterà, rigorosamente anonimo.
La ricerca sul campo: i metodi osservativi. La ricerca osservativa non implica nessuna
manipolazione di variabili e nessun assegnazione di soggetti a gruppi. Si fonda sulla semplice
osservazione di determinati comportamenti di singoli o di gruppi del contesto in cui si svolge la loro
vita quotidiana.
Questo metodo si ispira alla "metodo etologico". Dopo un periodo di osservazione ragionevolmente
lungo, quelle che sembravano successioni disordinate di comportamenti cominciano ad acquisire per
l'osservatore un senso.
L'oggettività dell'osservazione. Le ricerche osservative possono essere distinte in base a più
parametri, dai quali deriva il loro livello di oggettività e precisione.
I principali sono:
- la delimitazione chiara di ciò che si vuole osservare;
- il grado di coinvolgimento delle ricercatore nel contesto osservativo;
- la strumentazione utilizzata per registrare i comportamenti;
- la preparazione di una buona griglia di osservazione.
Quando impiega uno strumento di osservazione in grado di registrare fedelmente ciò che accade, il
ricercatore sa cosa vuole osservare e dispone di una buona griglia di osservazione. Un livello di
oggettività e precisione minore si ha quando il ricercatore è coinvolto nel contesto osservativo e
registra il comportamento per iscritto, durante o dopo la fase osservativa. L'intervento del ricercatore
è duplice: può influire su ciò che accade nel contesto che può influire sul resoconto che ne fa
attraverso le interpretazioni personali e soggettive.
La formulazione e la conferma di ipotesi. Si va alla ricerca di certe regolarità nei comportamenti
umani, in determinati contesti, alle quali si attribuisce un senso. Si cerca di studiare le relazioni tra le
unità comportamentali che emergono dall'osservazione. Ipotesi definite nascono dall'osservazione
stessa che riguardano sia il senso che ipotetica mente si attribuisce a certe sequenze
comportamentali, sia alle relazioni che le legano.
Gli ambiti di applicazione. Uno degli ambiti in cui questo metodo è frequentemente utilizzato è
quello dell'osservazione dei bambini molto piccoli.
La dimensione temporale dell'osservazione. La durata temporale delle osservazioni è molto
varia e si differenzia in relazione alle caratteristiche specifiche dell'oggetto studiato e a ciò che il

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ricercatore vuole far emergere dalle sue osservazioni. Dobbiamo definire a priori il periodo di tempo
a cui siamo interessati. Sarà necessario stabilire un criterio per la campionatura dei comportamenti
da osservare in modo da ottenere diversi osservazioni parziali che siano rappresentative, nel loro
insieme, dell'intero periodo preso in esame.
Nel caso in cui si sia interessati a studiare l'evoluzione di un certo fenomeno, o comportamento, nel
tempo, possiamo avere due scelte: un'osservazione longitudinale o un'osservazione trasversale. Nei
due casi si tengono costanti i periodi osservati. Nel primo però, si mantengono costanti anche i
soggetti osservati; nel secondo, invece, questi ultimi variano.
La ricerca in ambito clinico. La psicologia generale studia le principali funzioni psichiche ed ha
come oggetto un'unità tipo, l'uomo “medio”, che presenta caratteristiche di tipicità tali che la sua
soggettività individuale, con i suoi problemi e le sue sofferenze, può essere considerata un
particolare trascurabile. Quello che è irrilevante per uno psicologo generalista diventa invece
l'oggetto specifico dell'attenzione del clinico.
La sofferenza e il disagio, che costituiscono elementi di deviazione dalla norma, che sono più che mai
connessi alla singolarità degli individui, sono l'oggetto privilegiato della sua attenzione. Se lo
psicologo generalista è più interessato alle unità che stanno nella regione centrale della campana di
Gauss, il clinico è invece più interessato a quelle che, per alcune loro particolarità, spesso legate a
stati di sofferenza, si collocano nelle posizioni marginali della curva normale. La sofferenza psichica
può essere ricondotta a "categorie di sofferenza", vale a dire modalità tipiche di vivere, a sentire e
manifestare un certo disagio.
Le ricerche cliniche. Anche in psicologia clinica si possono effettuare ricerche utilizzando metodi
sperimentali, quasi sperimentali, inchieste ed osservazioni.
La diagnosi. La diagnosi è una procedura di ricerca induttiva: in una prima fase osservativa ( un
colloquio o, per un bambino piccolo, una fase di osservazione di comportamento spontaneo) si
raccolgono alcuni elementi che, alla luce di una particolare teoria psicologica della personalità o del
funzionamento psichico sembrano particolarmente significativi. A partire da questi, si formulano delle
ipotesi diagnostiche che poi si confermano o disconfermano con l'utilizzo di strumenti appropriati che
vanno dal colloquio approfondito e mirato all'uso di reattivi psicodiagnostici in grado di valutare le
funzioni di base, le attitudini o i tratti di personalità.
Lo psicologo, per formulare il suo giudizio diagnostico, confronta il suo paziente, oltre che con la
teoria che utilizza per leggere i comportamenti e i sintomi, anche con tutti i pazienti che ha
conosciuto in precedenza e sui quali ha formato la sua esperienza professionale. La diagnosi è una
procedura di ricerca, ma certo non è una ricerca sperimentale. La validità di una diagnosi dipende dal
suo grado di oggettività e questa dipende dall'affidabilità degli strumenti utilizzati, ma anche, in
grande misura, dall'abilità, dalla preparazione e dall'esperienza dello psicologo clinico.
Accrescere la sicurezza della diagnosi è il cosiddetto criterio di "validazione consensuale". La
diagnosi dello psicologo clinico segue procedure analoghe a quelle della diagnosi medica, sebbene
incontri maggiori difficoltà, dovute al minor grado di oggettività che può essere raggiunto.
La psicoterapia: una pratica di ricerca e di cura. La psicoterapia è una forma di cura della
sofferenza e del disagio di natura psicologica che non si avvale dell'uso di farmaci e che viene
realizzata attraverso la relazione e l'interazione tra un paziente è un terapeuta. Lo psicoterapeuta è
garante del carattere assolutamente privato della relazione terapeutica. Il suo scopo è quello di
migliorare la situazione del paziente, cioè di diminuire la situazione di sofferenza e di disagio che lo
ha indotto consultare un terapeuta.
L'obiettivo ultimo è un processo di cambiamento. Ciò si realizza attraverso un processo di
conoscenza della personalità del paziente, delle sue modalità relazionali e delle possibili cause del
suo disagio. C’è dunque un doppio obiettivo in ogni psicoterapia: conoscere e cambiare. Attraverso
una maggiore conoscenza di sé e delle proprie modalità comportamentali e relazionali, si dovrebbe
lavorar elaborare una forma di interazione con il proprio ambiente che sia fonte di maggior benessere
psicologico.
Psicoterapia e criteri di scientifici età. La psicoterapia rappresenta un caso limite dei disegni di
ricerca sui casi singoli. La prima differenza riguarda lo scopo: la ricerca ha soltanto l'obiettivo di

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conoscere il caso e non di intervenire su di esso; la psicoterapia si propone di conoscere per
cambiare e dunque che innesca un processo di cambiamento continuo del caso. Un'altra differenza
riguarda le modalità osservative: l'osservazione sul caso singolo può essere pubblica, può trattarsi di
misure oggettive e non richiedere che si restauri una particolare relazione affettiva tra osservatore è
osservato.
La relazione paziente terapeuta è, per contratto, privata. Inoltre, è di natura e in pratica, affettiva.
Anche lo psicoterapeuta formula delle ipotesi, per esempio sulla personalità del paziente, sui suoi
atteggiamenti relazionali, sulle cause del suo disagio, e cerca di verificarle o falsificarle attraverso
l'osservazione del paziente e l'interazione con lui.
Il problema della verifica. La verifica non è pubblica e si fonda sull'osservazione, o sull'intuizione,
del singolo terapeuta. C'è un atteggiamento severo dei critici nei confronti della psicoterapia che ha
sollecitato lo sviluppo di molte ricerche, volte a dare maggiore fondatezza e rigore metodologico
attraverso l'uso di procedure che:
- dessero maggiore concretezza empirica ha costruiti teorici a volte troppo astratti e
indeterminati, attraverso proposte condivise di operazionalizzazione dei loro aspetti
fondamentali;
- rendessero più oggettiva l'osservazione attraverso l'uso costante della trascrizione di quanto
avviene nella relazione terapeutica, per dare un carattere più pubblico ai dati di questa
osservazione;.
- introducessero criteri condivisi per la valutazione del cambiamento terapeutico;
- curassero la formazione dei terapeutici ai metodi osservativi.
Quelle che spesso vengono indicate come debolezza del metodo clinico, e soprattutto delle metodiche
psicoterapeutiche, e che possono solo in parte essere emendabili attraverso le procedure appena
elencate, sono le realtà collegate alla grande complessità dell'oggetto di analisi dello psicologo
clinico: l'uomo.
Lo psicologo clinico osserva il suo paziente come una persona, vale a dire come una complessa unità
che comprende aspetti psichici, sociali, biologici, e con questa persona e gli entra in comunicazione
per poterla comprendere meglio.
L’ambito e il metodo di ricerca della scienza cognitiva. Il presupposto centrale di questa
corrente deriva dalle teorie e dalle ricerche sull'intelligenza artificiale ed è l'idea che la mente umana
possa essere descritta e studiata come se fosse un calcolatore elettronico, e i processi psicologici che
producono conoscenza come processi di elaborazione delle informazioni, paragonabili a quelli
compiuti da un calcolatore. L'obiettivo della scienza cognitiva è studiare il contenuto della mente
intesa come " scatola nera", cioè come un contenitore di fenomeni non osservabili.

Il metodo simulativo. Il metodo utilizzato dalla scienza cognitiva è di tipo ipotetico-deduttivo


poiché la ricerca inizia con la costruzione di teorie della mente che si ispirano al calcolatore
elettronico. Da queste teorie vengono dedotti modelli più specifici e relativi a un qualche processo
mentale limitato.
Infine, questi modelli vengono sottoposti a verifica con il metodo simulativo. L'operazionismo ritiene
che il mentale possa essere studiato attraverso i suoi esiti comportamentali sottoponibili a operazioni
di osservazione e misura; la scienza cognitiva ritiene che il mentale vada studiato in quanto tale che
non solo attraverso i suoi esiti comportamentali.
L'intelligenza artificiale e connessionismo. In realtà ci sono delle differenze interne tra le varie
correnti della scienza cognitiva. Una di queste viene indicata come Intelligenza Artificiale “dura” e
il suo principale esponente è Marvin Minsky. Secondo questa prospettiva la verifica di un modello
simulativo va fatta solo sui suoi esiti e questi vanno considerati validi se sono non solo simili, ma
addirittura migliori di quelli a cui giungerebbe un uomo.
Per questa prospettiva non è importante che siano simili nell'uomo e nel calcolatore le procedure
intermedie di elaborazione dell'informazione che partano a certi esiti. È sufficiente invece, che siano
simili gli esiti.

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Diversa è la prospettiva dell'intelligenza artificiale morbida in cui principali autori sono Newell,
Shaw e Simon. Secondo questa prospettiva è importante che un modello simuli fedelmente non solo
gli esiti di un processo mentale ma anche le procedure intermedie attraverso le quali esso si realizza.
Inoltre, gli esiti devono essere non migliori, ma veramente simili a quelli umani. Questo è il
cosiddetto criterio di verosimiglianza tra procedure di calcolo e processi mentali. Una certa
prospettiva è rappresentata dal connessionismo: un filone di ricerca più recente.
Secondo il connessionismo, un metodo simulativo e il programma che esso genera sono validi se
simulano fedelmente gli esiti di un certo atto mentale, le procedure con cui serializzata e infine anche
le strutture "hardware" del cervello umano che rendono possibile la sua realizzazione.
Si ritiene, da parte dei connessionisti, che un certo funzionamento dipenda strettamente da una
certa struttura che impone facilitazioni e vincoli.
Vantaggi e svantaggi del metodo simulativo. Il metodo simulativo presenta sicuramente
notevoli vantaggi, poiché ha il merito di offrire nuovi strumenti teorici ed applicativi che hanno lo
scopo di penetrare nel buio della mente, ed è in grado al contempo di offrire garanzie di scientificità
in questo studio degli aspetti interni della mente. Uno svantaggio, o aspetto negativo, del metodo
simulativo della scienza cognitiva, sta nel fatto che, prende come modello esplicativo della mente
umana il calcolatore elettronico, esso rischia di appiattire la mente stessa sul calcolatore e cioè di
descriverla non tenendo conto delle sue proprie caratteristiche, legate al funzionamento del cervello,
ma di descriverla tenendo conto delle caratteristiche di funzionamento di un calcolatore.
In effetti, gli studi di modellistica della mente elaborati dalla scienza cognitiva hanno trascurato sia
agli aspetti "caldi" della mente, sia gli aspetti più intrinsecamente soggettivi.

Capitolo 3 - La misurazione in psicologia

Le prime misurazioni dei fenomeni psichici. Il concetto di misurazione dei fenomeni e la


descrizione della loro dimensione quantitativa, è alla base del concetto moderno di scienza.
Sin dall' ‘800 la psicologia fu una disciplina di tipo filosofico e speculativo. Helmotz misurò il tempo
di reazione, cioè l'intervallo che separa lo stimolo dalla risposta, e constatò che esso era tanto più
lungo quanto maggiore è la distanza tra il punto stimolato e il sistema nervoso centrale cui veniva
trasmessa la stimolazione. Questo dato sulla velocità di conduzione del sistema nervoso umano,
fondato sui risultati che Helmotz avevo ottenuto in preparati nervo-muscolo di rana, mise in crisi la
concezione dell'immediatezza della traduzione di un atto psichico (volontà) in un comportamento
motorio.
Lo stesso autore, misurando il tempo di reazione per diversi tipi di risposte richieste, stima anche il
tempo supplementare richiesto per compiere azioni di cui si è consapevoli. Si ha infatti che
l'intervallo stimolo-risposta nel riflesso rotuleo, che non richiede l'intervento della corteccia cerebrale
e quindi non coinvolge la coscienza, è minore di quello necessario, ad esempio, per scherzare ed
evitare un incidente.
Weber determinò che la “soglia differenziale”, detta anche “soglia appena percettibile”, con la
quale indicava la minima differenza percettibile tra due stimoli, è proporzionale all'intensità assoluta
degli stimoli utilizzati.

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La formula (DR = kR dove DR è l'incremento che si deve dare a uno stimolo affinché si abbia una
differenza percettibile e k è una costante) è denominata “rapporto di Weber” e indica che i soggetti
sono capaci di identificare come diversi due stimoli che si differenziano per un valore che rappresenta
una percentuale costante nella misura di riferimento.
Fechner, allievo di Weber, derivò, attraverso una serie di passaggi matematici, quella che fu
chiamata "legge di Weber-Fechner" in ossequio al suo maestro: S = logR, dove R sta per
l'intensità fisica dello stimolo, S sta per sensazione soggettiva e k è una costante.
Dalla legge W-F deriva che la sensazione di aumento di peso è la stessa, sia passando da 50 a 100
grammi, sia da 20 a 40 grammi o da 200 a 400 grammi. Fechner indicò quella che era la “soglia
assoluta” cioè il valore minimo di intensità di uno stimolo percepibile.
Donders, incuriosito dagli aneddoti riportati dagli astronomi che sostenevano misurazioni dei tempi
di spostamento degli astri, se effettuate da persone diverse, si differenziavano tra loro in maniera
non casuale, ma sistematica. Elaborò una strategia per misurare il tempo necessario per compiere
ogni operazione per la misurazione degli astri, in analogia a quanto aveva fatto Helmotz per misurare
la velocità di conduzione nervosa. Stimò il tempo impiegato per eseguire le operazioni mentali
necessarie, dividendole in tre compiti diversi che richiedevano 1,2 o 3 operazioni mentali. Ipotizzò
che il primo compito avrebbe richiesto una sola operazione, il secondo compito tre operazioni mentali
è il terzo avrebbe richiesto due operazioni mentali.
Nei suoi esperimenti, Donders rilevò che i soggetti impiegavano tempi più lunghi per eseguire il
secondo compito, un po' inferiori per eseguire il terzo compito mentre il tempo più breve si aveva
nell'esecuzione del primo compito. Sottraendo il tempo impiegato per il terzo compito da quello
impiegato per il secondo (metodo sottrattivo), si poteva stimare anche il tempo necessario per
eseguire l'ulteriore operazione necessaria nel secondo compito rispetto al terzo, cioè selezione della
risposta.
Sviluppi recenti della psicofisica. Il modello proposto da Fechner, basato sulla stima delle soglie
differenziali a diversi livelli di intensità della sensazione, fu criticato negli anni 50 da Stevens.
Il metodo di Stevens consisteva nel chiedere ai soggetti di esprimere una valutazione comparativa
di stimoli di intensità fisica diversa. Stevens trovò una relazione tra intensità fisica e intensità
soggettiva e esprimibile nell’equazione S = kIb. Il valore dell’esponente b è diverso per ciascuna
modalità sensoriale. Per la maggior parte delle modalità sensoriale b è compreso tra 0 ed 1: ciò
comporta una crescita della sensazione soggettiva più lenta rispetto alla crescita del intensità fisica;
l'equazione così ottenuta è matematicamente equivalente a quella suggerita da Fechner.
Per la sensazione di dolore provocata da una scossa elettrica, il valore di b è invece superiore ad 1:
ciò comporta una crescita della sensazione soggettiva più rapida rispetto alla crescita dell'intensità
fisica.
Il differente andamento della relazione tra intensità fisica dello stimolo e sensazione soggettiva per
diverse categorie di stimoli ha un forte valore attivo. I diversi metodi codificati da Fechner per
identificare la soglia assoluta, riflettevano la difficoltà di identificare un’intensità stabile per la
stimolazione di soglia. Ai fattori di variabilità interindividuali si aggiungono infatti anche dei fattori
intraindividuali, come il periodo dello sviluppo, il diverso momento della giornata, la stanchezza,
eccetera. A questi ultimi fattori, di ordine fisiologico, si possono aggiungere altri aspetti più
propriamente psicologici (di ordine cognitivo e motivazionale) che diventano evidenti nelle condizioni
di incertezza del soggetto.
Lo sperimentatore deve tenere conto, oltre che del primo tipo di errore,della “mancata
rilevazione”, cioè dire che uno stimolo non esiste quando esiste, anche di un secondo tipo di errore
che chiameremo "falso allarme". Il soggetto rileva con certezza e senza malafede, un segnale che
non esiste. La rilevazione di uno stimolo qualsiasi equivale alla distinzione di un segnale dal rumore
di fondo. Man mano che il livello di intensità si abbassa, la sensazione tenderà a confondersi con gli
effetti di altri debolissimi stimoli ambientali. È possibile arrivare a stimare la discriminabilità di un
segnale variando sistematicamente le conseguenze delle risposte positive dei soggetti. In un caso si
potrebbe premiare il soggetto per un successo più di quanto non lo si punisca in caso di falso
allarme.

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Il caso opposto potrebbe essere quello in cui il premio in caso di successo è inferiore alla punizione in
caso di falso allarme.
Le scale di misura.

- Scale nominali → classificano le variabili più che misurarle. Esempio maschi e femmine,
gioia e dolore, eccetera. Non è possibile che un individuo appartenga a classi diverse (mutua
esclusività delle categorie). La classificazione in base a questo tipo di scale si fonda sul
presupposto che le classi siano tra loro qualitativamente diverse.
- Scale ordinali → esiste una dimensione che permette di ordinare le variabili tra loro.
Esempio sergente, tenente, capitano, maggiore, colonnello, generale; sacerdote, vescovo,
cardinale, papa. Non è possibile risalire a differenze quantitative tra le classi. Non si può
sapere, ad esempio, se tra il primo e il secondo in una gara di corsa c'è più differenza in
termini di distacco che tra il secondo e il terzo.
- Scale a intervalli → questo tipo di scale ha una proprietà in più: quantificare e prendere in
considerazione le differenze tra i soggetti. Questo tipo di misura, però, non ci dice nulla sul
rapporto tra le misure. Ciò è dovuto al fatto che il riferimento per la misura è convenzionale
ed arbitrario. Pensiamo alla temperatura: 0 gradi, punto di congelamento dell'acqua, è uno
zero convenzionale. Non significa assenza di proprietà. Quasi tutte le scale psicologiche sono
misurate su questa scala.
- Scale di rapporto → sono presenti tutte le proprietà delle scale precedenti, compresa la
proprietà dei rapporti. Possono essere eseguite tutte le operazioni a nostra disposizione. Un
esempio tipico è il tempo o l'altezza o il peso.
Attendibilità e validità. L'attendibilità corrisponde alla sua affidabilità, cioè alla sua capacità di
fornire misure simili se viene applicata più volte, magari in condizioni diverse, allo stesso soggetto.
Una tecnica di misura sarà tanto più attendibile quanto più la correlazione tra le misure ricavate dai
diversi individui sarà elevata, cioè quanto più i punteggi dei diversi soggetti saranno simili non solo
nelle ripetizioni ma anche nei rapporti reciproci.
Il fatto che una misura sia attendibile, non significa però che soddisfi pienamente le richieste di chi la
applica. Infatti l'attendibilità non si garantisce che tale prova misuri proprio quello che si voleva
misurare (criterio della validità). Così mentre si può affermare che una misura non attendibile non è
neppure valida, non è vero il contrario: infatti una misurazione attendibile non è necessariamente
valida.
Quando utilizziamo metodi di misurazione indiretti dobbiamo accertarci della loro validità. Gli aspetti
principali che definiscono la validità di uno strumento di misura sono tre:

- Validità di contenuto. Lo strumento che noi utilizziamo deve contenere innanzitutto e


elementi che si riferiscano all'obiettivo della misurazione.
- Validità di criterio. Si riferisce alla correlazione tra le misure ottenute con il nostro
strumento e altre misure ottenute in occasioni indipendenti con strumenti di provata pari
validità.
- Validità di costrutto. Si riferisce invece ai presupposti teorici e sui quali si basa la nostra
misura.
Statistica descrittiva e inferenziale. La statistica descrittiva fornisce gli strumenti per la
descrizione e la rappresentazione dei risultati.
Si hanno tre misure della tendenza centrale:
1. la media che corrisponde al valore ottenuto sommando i punteggi ottenuti dai singoli soggetti
/ il numero dei soggetti;
2. la mediana che è il valore ottenuto dal soggetto che si situa nel punto centrale di una
graduatoria messa in ordine crescente;
3. la moda che è il valore riportato dal più elevato numero di soggetti.
La media viene utilizzata per misure ottenute con le scale a intervalli o a rapporto, la mediana con
scale ordinali e la moda con scale nominali.

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La statistica inferenziale permette di stimare sia il rischio di trovare una differenza tra due o più
gruppi di dati quando questa non esiste (errore di tipo Alfa, o primo tipo) sia quello di non trovare
una differenza quando invece esiste (errore di secondo tipo, o Betta).
Un altro uso frequente della statistica inferenziale è quello di verificare se due misure sono tra loro
correlate attraverso il coefficiente di correlazione r.
La psicometria. Il termine psicometria significa "misura della psiche" e indica quel insieme di
conoscenze di tecniche che sono state sviluppate nell'ambito della psicologia scientifica per misurare
aspetti e dimensioni dei processi psichici. Un test psicometrico è una misura obiettiva e
standardizzata di un campione di comportamento.
Misura obiettiva significa che lo strumento è stato costruito in modo tale che esso può essere
applicato anche da operatori diversi e che il valore ottenuto non è influenzato dalle caratteristiche
individuali dell'operatore o da altri fattori esterni.

Capitolo 4 - Le basi biologiche del comportamento

Il comportamento e la mente sono direttamente connessi al sistema nervoso. Per le neuroscienze il


prefisso “psico” indica uno stato insoddisfacente del livello di conoscenza del legame tra il
funzionamento di parti specifiche del sistema nervoso ed il comportamento.
Conseguenze importanti del funzionamento del sistema nervoso sono la mente e la coscienza.
“mente” e “cervello” sono termini usati in modo equivalente, ma il cervello ha funzioni (come ad
es. le funzioni neurovegetative) che non sono comprese nel concetto di mente.
La coscienza, separata dal concetto di veglia, secondo Damasio è di due tipi:
• “core consciousness” più semplice, legata ad un evento sensoriale o ad una scena
specifica (il “qui ed ora”), conseguenza del funzionamento di zone vicine alla linea mediana
del cervello;
• “extended consciousness”, legata alla storia dell’individuo e situata nella parte
sottocorticale connessa.
Il cervello. Il cervello è tutta la nostra conoscenza del mondo. In esso è anche contenuta la
rappresentazione del nostro corpo, in zone della corteccia più ampie (per rappresentare le mani o i
piedi) o meno ampie (per rappresentare il tronco e le braccia). Questa rappresentazione (il cui
disegno fatto assegnando a ciascuna parte del corpo una grandezza proporzionale a quella utilizzata
per la sua rappresentazione nel cervello) è chiamato homunculus, spiega il fenomeno dell’arto
fantasma (sensazioni provenienti da arti mancanti).
L’encefalo è composto da miliardi di neuroni (100mila miliardi) connessi tra loro attraverso le
3
sinapsi (circa 600 milioni per mm ) ed ha un peso che varia da 1,4kg a 1,8kg.
La parte preposta alle funzioni superiori, quali il linguaggio, è la corteccia cerebrale, che presenta
una struttura regolare.
Il sistema nervoso centrale è generalmente simmetrico ed è costituito dall’encefalo e dal midollo
spinale. L’encefalo si divide in varie strutture corticali e sottocorticali. La corteccia cerebrale,
composta da due emisferi, è divisa in quattro lobi:
- frontale: sovrintende a funzioni come la pianificazione di azioni, il controllo del movimento,
la vita sociale, l’emotività e la personalità.
- parietale: sono elaborate le sensazioni somatiche e l’immagine corporea.
- temporale: insieme al lobo frontale dell’emisfero sinistro è la sede del linguaggio.
- occipitale: è la sede della visione e quello temporale è connesso alle funzioni uditive,
all’apprendimento, alla memoria e alle emozioni.
Lo sviluppo del sistema nervoso. La struttura del cervello è controllata da circa 100mila geni. I
primi neuroni compaiono il 42° giorno di vita, e il loro numero aumenta di circa 580mila neuroni al
minuto sino al 4° mese.
Le connessioni sinaptiche alla nascita sono in numero uguale rispetto a quelle dell’adulto. Esse
aumentano di numero sino al 3° anno di vita, arrivando ad essere 3-4 volte più numerose rispetto a

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quelle dell’adulto, per poi diminuire fino alla pubertà attraverso il meccanismo dell’apoptosi (morte
cellulare programmata).
Gli studi sullo sviluppo cerebrale sono resi possibili da quelli sul suo metabolismo, che è
proporzionale all’attività elettrica del cervello. Non esiste una dimostrazione del fatto che un
metabolismo più elevato comporti una maggiore efficienza del cervello (mito dei primi tre anni).
Moduli cerebrali. Le tecniche di “brain imaging” hanno mostrato che esiste un’ organizzazione
modulare del cervello, a livello di corteccia cerebrale. Esistono delle aree specializzate in specifiche
funzioni, come ad esempio la percezione dei colori (V4) e del movimento (V5).
A livello psicologico, questo implica che se un soggetto è più efficiente di un altro in una particolare
abilità, non si può concludere che il primo sia più intelligente del secondo, poiché l’intelligenza è
costituita da varie abilità.
Plasticità del sistema nervoso. Il sistema nervoso si evolve durante lo sviluppo per consentirne il
suo adeguamento all’ambiente. Questa capacità di adattamento è particolarmente attiva nei primi
anni di vita, mentre nei successivi le modifiche sono più modeste.
E’ stato individuato un periodo, chiamato periodo critico, durante il quale se non si ricevono stimoli
adeguati relativi ad una certa modalità sensoriale, risulta difficile o impossibile il suo sviluppo
successivo. Ad esempio se non si interviene precocemente nella rimozione di una cataratta
congenita, i bambini riacquistano una visione ridotta che migliora ben poco nonostante l’esercizio o
addirittura possono arrivare a sviluppare un atteggiamento di rifiuto della visione, preferendo il
mondo di suoni al quale erano stati abituati durante il periodo critico.
Nell’adulto si riscontra una minore plasticità. Tuttavia è stato dimostrato che all’esercizio di un’ abilità
corrisponde la modifica o l’ingrandimento dell’area della corteccia ad essa relativa, come nel caso dei
musicisti che si esercitano nell’uso di un determinato strumento (in particolare la chitarra).
Riorganizzazioni a livello corticale si verificano anche in caso di lesioni periferiche. Le cellule corticali
predisposte all’elaborazione degli stimoli provenienti dalla parte lesionata, si riorganizzano per
elaborare stimoli provenienti da zone ad esse adiacenti dal punto di vista della rappresentazione
mentale del corpo. Ad esempio nel caso dell’amputazione di un arto, prima si ha il fenomeno dell’arto
fantasma stimolando opportune zone della faccia, ed in seguito si riscontra una maggiore
rappresentatività dell’area facciale. Analogamente, per il danneggiamento di zone della retina
(scotomi), in un primo tempo il soggetto percepisce la mancanza di tali zone, ma in seguito tale
percezione scompare perché a livello celebrare non esiste più la rappresentazione dello scotoma (le
cellule che rispondevano alla zona danneggiata, si sono riorganizzate per rispondere alle zone
adiacenti).

Capitolo 5 - Vigilanza, coscienza e attenzione, veglia e sonno

La maggior parte degli studi effettuati sull’adulto hanno preso in considerazione innanzitutto
l’esistenza di due modalità fondamentali di funzionamento del Sistema Nervoso Centrale (SNC) per
quanto riguarda le modalità di interazione con l’ambiente circostante:

- la veglia;
- il sonno → stato dell’organismo caratterizzato da una ridotta reattività agli stimoli ambientali
che comporta la sospensione dell’attività relazionale e modificazioni della coscienza,esso si
instaura spontaneamente e periodicamente, si autolimita nel tempo ed è reversibile.

La definizione di sonno necessita di alcune precisazioni:

- riduzione della reattività: si verifica un innalzamento della soglia degli stimoli sensoriali, al
di sotto della quale essi non vengono di solito percepiti o elaborati.
- spontaneamente e periodicamente si riferiscono all’organizzazione ritmica del sonno e
della veglia:

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- il sonno si autolimita in quanto termina invariabilmente con un risveglio
spontaneo quando ha raggiunto una determinata durata;
- il sonno è reversibile in quanto i soggetti possono essere risvegliati in qualsiasi
momento da stimoli sufficientemente intensi.

L’alternanza del sonno e della veglia comporta modificazioni sia del comportamento sia delle attività
mentali e costituisce un settore di ricerca tipicamente interdisciplinare, che ha attinto contributi da
numerose discipline.
Gli stati comportamentali. La parola “stato” indica una condizione che si riferisce a “una
combinazione di circostanze o attributi appartenenti per un certo periodo a una persona o a un
oggetto, a un modo particolare di essere definito dalla presenza di determinate circostanze o
attributi, a una condizione”.
La definizione degli stati comportamentali secondo tali criteri esclude l’eventualità di una loro
elencazione particolareggiata e nel contempo limita il numero degli stati.
La stabilità nel tempo è la principale caratteristica degli stati comportamentali che li differenzia da
eventi transitori quali i movimenti corporali o apnee. Le caratteristiche complesse degli stati fanno sì
che non sia possibile riconoscere la presenza di un determinato stato a partire dall’analisi di una sola
variabile.
Gli stati definiscono, inoltre, condizioni mutamente esclusive, nel senso che l’occorrenza di uno stato
esclude la simultanea occorrenza di tutti gli altri; inoltre sono caratterizzati da un’organizzazione
ciclica in quanto essi susseguono secondo una sequenza non casuale.
La scelta delle variabili. Per variabile si intende un fenomeno biologico, osservabile direttamente
o registrabile per mezzo di metodiche elettrofisiologiche, che è stato prescelto come indicatore per la
categorizzazione degli stati comportamentali.
I parametri, invece, indicano le proprietà statistiche delle variabili (es. ritmo cardiaco). Il numero
dei parametri necessari a identificare gli stati non è mai superiore a 3 o 4; tale valore rappresenta il
compromesso fra un’identificazione affidabile e i rischi, connessi con un loro numero eccessivo, di
un’eccessiva frammentazione degli stati comportamentali e di un aumento di periodi caratterizzati
dalla presenza simultanea di parametri che identificano stati diversi.
Caratteristica molto importante di una variabile è costituita dalla sua stabilità nel corso del tempo
(es. regolarità o irregolarità del ritmo respiratorio).
Una distinzione importante deve essere operata fra i criteri che definiscono uno stato
comportamentale e le sue concomitanti: queste ultime sono eventi o fenomeni episodici che si
producono esclusivamente durante un determinato stato comportamentale e che sono stato-specifici.
Caratteristiche fisiologiche e comportamentali del sonno. I progressi tecnologici degli ultimi
decenni hanno consentito di descrivere in maniera più dettagliata l’organizzazione del sonno; in
particolare grazie all’utilizzazione di tecniche poligrafiche (EEG → registrazione
elettroencefalografica), Aserinsky e Kleitman hanno potuto identificare e descrivere il sonno REM
(movimenti oculari rapidi → sonno a onde rapide, simile alla veglia attiva).
Il sonno viene distinto in sonno REM e sonno non-REM (NREM); quest’ultimo viene classificato, in
base alle caratteristiche dell’EEG, in quattro stadi (1,2,3,4).
Nell’adulto sano, abituato a dormire una sola volta al giorno nel periodo notturno, il sonno inizia
con lo stadio 1, seguito dagli altri stadi; successivamente compare la prima fase di sonno REM. Il
passaggio tra sonno NREM e REM avviene di solito in modo quasi istantaneo.
Un ciclo di sonno è costituito dalla sequenza composta da un periodo di sonno NREM e da una fase di
sonno REM; la sua durata media è di 90 minuti. Durante il sonno notturno si osservano di solito 4-6
cicli di sonno.
Gli stadi 3 e 4 del sonno NREM, ossia il sonno a onde lente, prevalgono nelle prime ore della notte,
mentre il sonno REM si concentra prevalentemente nelle prime ore del mattino.
Nel neonato il ritmo veglia-sonno è polifasico, cioè presenta più episodi di sonno nel corso delle 24
ore, inoltre il sonno REM, generalmente, compare subito dopo l’addormentamento e precede il sonno
NREM; avviene cioè il contrario dell’adulto.

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Le trasformazioni più rilevanti dell’organizzazione del sonno si concentrano nel primo anno di vita,
altre nel corso dell’adolescenza e dell’invecchiamento.
Il neonato a termine. Nel periodo neonatale il sonno si presenta in 6-9 episodi, che durano
complessivamente circa 16-17 ore, con limiti estremi che vanno dalle 11 alle 23, occupate per la
metà del tempo dal sonno REM e l’altra metà dal sonno NREM.
L’episodio di sonno più lungo della giornata è in media di 4 ore e mezza, mentre il periodo di veglia
più lungo arriva a 2 ore e mezza circa.
Il tracciato EEG presenta poche differenze da quello della veglia, se non per quanto riguarda la
presenza di onde lente di 2-4 c/sec.
La fase di sonno REM di addormentamento ha una durata compresa fra i 5 e i 20 minuti, dopodichè,
attraverso una transizione della durata di alcuni minuti, il soggetto passa in sonno calmo.
Il primo anno di vita. La durata complessiva del sonno NREM aumenta notevolmente nel corso dei
primi mesi di vita per effetto di un incremento notturno, in particolare durante la prima parte della
notte; la durata del sonno NREM diurno, invece, on si modifica con l’età.
Il sonno NREM si distribuisce in maniera prevalente nella prima parte della notte a partire da 4 mesi
d’età, mentre l’aumento del sonno REM non è ancora emerso alla fine del primo anno di vita.
Infanzia e adolescenza. Dal punto di vista EEG, nel corso dei primi anni di vita diviene
progressivamente più evidente la differente distribuzione delle onde delta all’interno del sono NREM.
Per quanto riguarda l’organizzazione a 3 anni, i cicli diventano progressivamente meno numerosi e
più lunghi, il primo tende a caratterizzarsi per la presenza più abbondante di onde lente, i risvegli
notturni tendono a scomparire.
Dopo i 5 mesi i due tipi di sonno continuano a succedersi con una periodicità simile a quella
osservata in precedenza.
Uno studio sul sonno pomeridiano di bambini di età compresa fra 7 e 9 anni ha mostrato, dal punto
di vista dell’organizzazione, che il ciclo di sonno è più breve di quello notturno.
Tra i 6 e i 15 anni la durata complessiva del sonno diminuisce, anche se lievemente; la proporzione
del sonno a onde lente (3,4) diminuisce lievemente, mentre aumenta quella dello stadio 2.
Il sonno nell’anziano. Con l’invecchiamento l’organizzazione del sonno subisce delle importanti
modificazioni:

- lo stadio 1 aumenta;
- lo stadio 2 rimane invariato;
- lo stadio 3 è immodificato;
- lo stadio 4 diminuisce.

La quantità di sonno REM non è modificata nell’anziano; tuttavia la distribuzione preferenziale del
sonno REM nella seconda parte della notte tende a scomparire.
La latenza dell’addormentamento aumenta; i risvegli notturni dopo l’inizio del sonno sono numerosi;
il tempo totale di sonno mostra una grande variabilità, anche se prevale una diminuzione dello
stesso. Il tempo passato a letto senza dormire aumenta nell’anziano e si riduce, pertanto la sleep
efficiency (rapporto tra il tempo tot di sonno e il tempo tot trascorso a letto) scende da 0,92
nell’adulto a 0.70 nell’anziano.

Cenni di fisiologia del sonno

Nel tentativo di localizzare le strutture cerebrali che regolano il sonno, Von Economo aveva
osservato che i pazienti affetti da encefalite epidemica mostravano lesioni dell’ipotalamo posteriore
se il quadro clinico era dominato dalla sonnolenza e lesioni dell’ipotalamo anteriore se invece
prevaleva l’insonnia. Egli aveva attribuito questa correlazione anatomo-clinica all’esistenza di due
centri rispettivamente della veglia e del sonno, la cui attività è in opposizione. L’esistenza di due
centri ipotalamici è stata confermata nel ratto da Nauta nel 1946.

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Teoria “passiva” del sonno. Bremer, nel 1935, aveva visto che la sezione dei peduncoli cerebrali
provocava la comparsa di uno stato ininterrotto che era del tutto indistinguibile, dal punto di vista sia
comportamentale sia elettrofisiologica, da quello di un animale addormentato.
Poiché gli impulsi trasmessi dai nervi cranici erano in grado di provocare il risveglio dell’animale, fu
ipotizzato che gli impulsi sensoriali, giungendo alla corteccia attraverso le vie sensoriali, fossero
responsabili del mantenimento dello stato di veglia.
Moruzzi e Magoun hanno mostrato che la stimolazione della Formazione Reticolare (FR: regione
che deve il suo nome alla presenza di piccoli raggruppamenti di cellule nervose separati da un
intreccio di fibre) del tronco dell’encefalo, provoca il risveglio, che è indistinguibile da quello
osservato in seguito alla stimolazione dei recettori sensoriali periferici. Gli autori interpretarono
questi dati ipotizzando che le vie sensoriali dirottino parte dei loro impulsi sulla FR.
Secondo questa teoria, cosiddetta “passiva” del sonno, la sospensione delle influenze attivatici del
sistema reticolare attivatore (SRA) del tronco dell’encefalo sui centri superiori sarebbe essenziale
perché si verifichi l’addormentamento; la sua stimolazione tramite le vie sensoriali provoca infatti
una risposta consistente nella desincronizzazione dell’EGG e nell’incremento della capacità di
ricezione e discriminazione degli stimoli sensoriali.
Teoria “attiva” del sonno. Il controllo del sonno coinvolge numerose strutture cerebrali, in
particolare le strutture nervose del tronco cerebrale che controllano alcune funzioni vitali essenziali
(respirazione, regolazione cardiovascolare…) e che debbono pertanto necessariamente mantenersi
attive ininterrottamente, assumono la funzione di controllare l’alternanza dell’attività e dl riposo delle
strutture superiori.
Aspetti fisiologici specifici del sono REM: l’atonia posturale e le onde ponto-genicolo-
occipitali (PGO). La presenza di un centro nervoso inibitore situato nel ponte spiega perché durante
il sonno REM gli animali e l’uomo rimangono quasi perfettamente immobili. Infatti, la sua attivazione
provoca una paralisi (“atonia posturale”) in quasi tutti i distretti muscolari, in particolare in quelli
antigravitari del tronco e degli arti, e impedisce tutti i movimenti: questa “paralisi” termina
generalmente alla fine del sonno REM, anche se può persistere nel sono NREM nella seconda metà
della notte e in taluni casi per alcuni secondi dopo il risveglio.
I ritmi biologici. Un contributo importante alla comprensione di diversi aspetti del sonno è venuto
dagli apporti della cronobiologia, la disciplina il cui obiettivo è quello di indagare l’andamento nel
tempo dei fenomeni biologici. Due concetti elaborati da questa disciplina sono:

- Zeitgeber: indica i fattori esogeni che influenzano i ritmi biologici;


- Circadiano: indica i ritmi biologici la cui periodicità è di circa 24 ore.

Il cosinor è una tecnica di analisi statistica utilizzata in cronobiologia che consente di descrivere
l’andamento ritmico del ciclo per mezzo di una sola curva sinusoidale e di testarne la significativa
statistica.
Un approccio di ricerca sul sonno derivato dalla cronobiologia è quello cosiddetto free running, che
consiste nella verifica della ciclicità di numerose funzioni fisiologiche nel corso di lunghi soggiorni in
ambienti sperimentali caratterizzati dall’assenza dei più abituali Zeitgeber.
Obiettivi pratici delle ricerche di cronobiologia sono costituiti dalla messa a punto delle modalità
ottimali per affrontare i sempre più frequenti spostamenti attraverso diversi fusi orari oppure le
rotazioni dei turni di lavoro.
Distribuzione circadiano del sonno. La lunghezza del sonno è legata al ritmo circadiano della
temperatura corporea. Se a dei soggetti viene imposto di addormentarsi in ore diverse, ma poi
vengono lasciati dormire a volontà, in condizioni di completo isolamento per quanto riguarda le
informazioni sul trascorrere del tempo, senza che pertanto possano rendersi conto di che ora sia
quando vanno a dormire. Il sonno più lungo, che può raggiungere anche la durata di circa 10 ore, è
quello che segue all’addormentamento serale, mentre il più breve è quello successivo agli
addormentamento del mattino.

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Ci si potrebbe pertanto chiedere se le apparenti differenze stagionali dei ritmi veglia-sonno siano la
conseguenza di modificazioni di tale ritmo circadiano della temperatura.
Distribuzione del sonno e della veglia in condizioni di “free running”. Dopo pochi giorni nelle
condizioni descritte sopra, la relazione fra il ritmo circadiano della temperatura corporea e quello del
sonno si modifica: il soggetto tende ad addormentarsi nelle ore in cui la temperatura corporea è ai
valori minimi.
Dopo u paio di settimane in circa la metà dei soggetti si assiste a un completo “disaccoppiamento”
dei due ritmi, caratterizzato da episodi di sonno di durata estremamente variabile.
I soggetti, in genere, scelgono di coricarsi nei momenti di maggiore sonnolenza, la quale oscilla con
un massimo tra le 2 e le 4 del mattino e un minimo fra le 18 e le 20. per quanto riguarda i risvegli, la
maggior parte di essi si verificano nella fase ascendente del ritmo della temperatura.

Tipologie del sonno

La durata del sonno quotidiano è diversa e relativamente costante per ciascun individuo. Nei giovani
adulti, ad esempio, la durata media del sonno è di 7,5 ore, con una deviazione standard di circa
un’ora.
L’analisi dell’organizzazione del sonno dei soggetti che dormono per brevi periodi → short sleepers,
ha mostrato che il sonno di questi ultimi presenta le stesse quantità di diversi tipi di sonno e stadi di
sonno NREM osservate nelle prime 6,5 ore dei soggetti che dormono in media 7,5 e di quelli che
dormono per periodi più lunghi → long sleepers.
Negli short sleepers non si ha quindi una diminuzione del sonno a onde lente, ma diminuisce lo
stadio 2, che scompare nei soggetti che dormono abitualmente meno di 5,5 ore. Invece il sonno dei
long sleepers si caratterizza per una maggiore durata del sonno REM e dello stadio 2 che si aggiunge
nelle ore del mattino.
Il sonno notturno dei long sleeper si caratterizza per uno o due cicli di sonno supplementari, simili al
ciclo di sonno finale dei soggetti che dormono 7-8 ore e che rendono ragione della quantità
supplementare di stadio 2 e di sonno REM. Infine, è da sottolineare che nei soggetti che dormono
meno si riscontrano quantità proporzionalmente inferiori di veglia intra-sonno e di stadio 1; in altre
parole il oro sonno è meno disturbato e più efficiente.
Un altro aspetto che differenzia gli individui è la distribuzione del sonno nell’arco delle 24 ore. La
tendenza ad anticipare o a ritardare il sonno rispetto a un ipotetico punto di riferimento è
probabilmente anch’essa distribuita secondo una curva gaussiana, per cui alcuni individui tendono ad
anticipare il sonno, altri a ritardarlo. I due gruppi estremi della popolazione sono detti:

- allodole: si caratterizzano per un precoce addormentamento serale e un risveglio mattutino a


ore molto precoci; tali individui si caratterizzano per la rapidità con la quale raggiungono i
livelli ottimali di efficienza mentale.
- gufi: hanno un comportamento che si caratterizza per la notevole efficienza nelle ore serali e
nella prima parte della notte, associata a una certa difficoltà ad addormentarsi se non a tarda
ora. Tali individui tendono a svegliarsi a tarda ora al mattino e al risveglio, anche se
posticipato, palesano una certa lentezza a raggiungere i livelli ottimali di efficienza mentale.

Privazioni di sonno e i suoi effetti. La privazione di sonno può essere:

- non selettiva: può essere totale oppure parziale, in quest’ultimo caso i soggetti ai quali non
viene consentito di dormire o viene concesso solo un periodo di sono limitato, debbono in
seguito eseguire compiti complessi. Numerosi esperimenti eseguiti sull’uomo sono stati
protratti per diversi giorni, raggiungendo e superando le 200 ore (record → 264 ore = 11
giorni).
L’organismo umano sopporta abbastanza bene la privazione di sonno sia dal punto di vista
fisiologico che psicologico. Per quanto riguarda il primo non sono mai state riscontrate

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alterazioni importanti, solo un aumento del fabbisogno calorico associato ad una lieve
ipotermia. Dal punto di vista psicologico compaiono disturbi percettivi e del linguaggio, che si
accompagnano a sonnolenza. Non sono mai state riscontrate manifestazioni psicotiche
permanenti.
La quantità di sonno recuperata nel corso delle notti immediatamente successive a un periodo
di privazione totale di sonno è in genere inferiore a 1/3 di quella complessivamente perduta.
Gli esperimenti riguardanti la privazione parziale di sonno hanno confermato la possibilità
di ridurre senza conseguenze apprezzabili il tempo di sonno a condizione che la restrizione sia
progressiva e che il sonno restante sia indisturbato. In questo modo, una persona che dorme
in media 7,5 ore a notte può ridurre, per un periodo illimitato, il tempo dedicato al sonno a
5,5-6 ore, senza incorrere in un eccesso di sonnolenza diurna o di un calo delle prestazioni. È
improbabile che l’efficienza degli individui possa mantenersi a livelli normali se essi dormono
meno di 3-4 ore per notte. È opportuno precisare che gli individui accettano un certo
“adattamento” a riduzioni graduali del tempo di sonno solo qualora il sonno concesso sia
ininterrotto e indisturbato.
Hp: il sonno a onde lente e la porzione iniziale di sonno REM sono essenziali, mentre al resto
del sonno si può rinunciare senza incorrere in un aumento della sonnolenza diurna o in un
calo delle prestazioni.
- selettiva: la privazione di sonno REM rende in genere i soggetti confusi, meno integrati,
incapaci di trarre sostegno dalle altre persone, meno efficienti, più sospettosi, ansiosi, insicuri
e introversi. Durante la privazione dello stadio 4, i soggetti danno l’impressione di disagio
fisico, di essere meno aggressivi e meno preoccupati riguardo a vaghi disturbi fisici.
Nel corso delle notti immediatamente successive a privazione selettiva di ciascuno dei due tipi
di sonno si osserva un loro incremento che compensa solo parzialmente la quantità di sonno
perduta.
Il sogno: definizione ed elementi storici. Il sogno, inteso come l’esperienza soggettiva della
propria attività mentale durante il sonno e della quale le persone si ricordano al risveglio, è stato
ritenuto in numerose civiltà antiche una modalità privilegiata di comunicazione fra le divinità e i
comuni mortali.
Riducendo le barriere fra preconscio e inconscio, il sonno permette l’attivazione di un processo
psichico di tipo regressivo che trasforma i pensieri latenti della veglia, in percezione sensoriale che
viene sottoposta a elaborazione secondaria.
Freud ha distinto il contenuto manifesto del sogno dal contenuto latente; egli riteneva che il
primo fosse il risultato di una serie di trasformazioni operate dalla censura onirica sul materiale
primitivo al fine di impedirne l’accesso, almeno nella sua forma originaria, alla coscienza del
soggetto. Il contenuto latente risulterebbe, infatti, inaccettabile da parte dell’Io del soggetto,
provocherebbe in lui angoscia e indurrebbe inevitabilmente anche il suo risveglio.
Numerose ricerche sperimentali hanno mostrato che il sonno interviene nei processi di memoria e si
è sviluppato un modello secondo il quale l’esperienza mentale del sogno è ritenuta il prodotto di un
sistema complesso di elaborazione dell’informazione a più livelli.
Psicofisiologia del sogno. Alcune ricerche hanno mostrato che dopo i risvegli sperimentali durante
il sonno REM i soggetti fornivano quasi sempre resoconti articolati e dettagliati di un’attività mentale
caratterizzata dall’impressione soggettiva di aver sognato, dalla ricchezza della componente visuo-
allucinatoria e dalla presenza di contenuti bizzarri. Il ricordo era invece meno frequente se il risveglio
veniva provocato durante il sonno NREM.

Funzioni del sonno

Si pensa che il sonno costituisca un periodo di recupero a livello sia fisiologico sia psicologico. I
risultati di numerose osservazioni e ricerche sperimentali hanno suggerito che il sonno svolga un
ruolo nel recupero somatico:

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- la velocità di divisione cellulare aumenta durante il sonno;
- gran parte della secrezione di ormone della crescita nell’uomo avviene durante il sonno;
- la disponibilità di energia nelle cellule è più elevata durante il sonno;
- la durata del sonno a onde lente è proporzionale alla durata della veglia precedente;

Recupero cerebrale. I dati sulla privazione di sonno che mostrano un deterioramento a carico
essenzialmente delle funzioni cognitive più complesse fanno ritenere che sia essenzialmente il
cervello ad avere bisogno di sonno; il cervello è infatti incapace di “rilassarsi” al di fuori dei periodi di
sonno, in quanto durante la veglia mantiene sempre un certo livello di reattività agli stimoli e di
“prontezza” ad entrare in azione.
Le teorie protettive. Pavlov riteneva che l’inibizione progressiva “assume il ruolo di protettore
degli elementi corticali, prevenendo l’eccessiva stanchezza o gravi e pericolose alterazioni funzionali”.
Secondo questa prospettiva, dunque, il sonno proteggerebbe l’individuo evitando che il suo cervello
raggiunga livelli di affaticamento tali da compromettere l’efficacia del suo comportamento
nell’affrontare i pericoli ambientali.
La conservazione dell’energia. Tale teoria si basa su due osservazioni di ordine filogenetico
riguardanti il sonno a onde lente:

- soltanto gli animali omeotermi (mammiferi e uccelli) presentano il sonno a onde lente;
- nei mammiferi la durata del sonno è inversamente proporzionale al metabolismo.

Il sonno a onde lente si sarebbe evoluto parallelamente alla termoregolazione al fine di consentire
all’animale di far fronte all’incremento delle richieste energetiche. Questa ipotesi permette di rendere
ragione della ridotta capacità di termoregolare durante il sonno REM rispetto al sonno NREM.
Le teorie etologiche. Secondo queste teorie le pressioni ambientali favoriscono, all’interno di
ciascuna specie, la sopravvivenza degli individui capaci di sospendere per periodi relativamente
prolungati la loro attività e reattività. Lo sviluppo dei sistemi adattivi che migliorano la sopravvivenza
aumentano le possibilità di ottenere cibo e la sicurezza all’interno della propria nicchia ecologica.
Le teorie istintuali. Secondo queste teorie il sonno, in analogia con altri comportamenti istintivi, ha
un’organizzazione specie-specifica, innata, scatenata da determinati stimoli esterni e rappresenta
pertanto l’espressione di un impulso, piuttosto che del soddisfacimento di un bisogno.
Funzioni del sonno REM (sogno). Il sogno, a differenza di quanto sostenuto dalla psicoanalisi, non
nasconderebbe significati profondi, bensì sarebbe il risultato dei tentativi da parte delle strutture
telencefaliche di dare un senso, attraverso un’operazione di sintesi, alle immagini generate nel corso
dell’attivazione casuale delle diverse regioni del tronco cerebrale.
Secondo la teoria di Crick e Mitchison il sonno REM svolgerebbe una funzione di
“disapprendimento” e pertanto il contenuto dei sogni non avrebbe un significato: durante il sonno
REM il cervello provvederebbe a “gettare l’immondizia” costituita dalle connessioni sinaptiche
“sbagliate” che si formano inevitabilmente nel corso della veglia.

Capitolo 6 - Motivazione e Emozione

La motivazione ha a che fare con ciò che ci spinge a fare le cose. Essa si riferisce infatti alle forze
che dirigono e sostengono il comportamento, rendendolo possibile. La motivazione è strettamente
legata alle emozioni poiché anch’esse hanno conseguenze importanti per l’azione umana. Alcuni
studiosi ritengono che le emozioni altro non siano che motivazioni speciali, mentre altri ritengono
invece che le emozioni abbiano la funzione di amplificare le motivazioni.
Ross Buck ha sostenuto che le emozioni sono degli indicatori di ciò che lui chiama il “potenziale
motivazionale” dell’individuo, cioè la sua capacità di intraprendere una varietà di percorsi d’azione.
Le teorie dell’istinto. Per esprimere il carattere naturale della motivazione, spesso è stata usata la
nozione di istinto. Essa è stata applicata dagli studiosi del comportamento animale di ispirazione

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etologica, per individuare dei modelli comportamentali innati, a carattere automatico ed involontario.
Un esempio molto noto di questi comportamenti è quello dello spinarello maschio.
I comportamenti istintivi sono fissi, in quanto non appresi e non modificabili dall’apprendimento, e
sono rigidi, poiché tutti gli individui della stessa specie rispondono, in determinate condizioni
fisiologiche, ad uno stesso stimolo ben preciso nello stesso modo.
I comportamenti istintivi possono assumere forme molto complesse, all’apparenza dei rituali, che
seguono una ben precisa sequenza comportamentale. Alcuni autori di ispirazione evoluzionistica
hanno cercato di estendere la nozione di istinto al comportamento umano, cercando di spiegare
comportamenti anche molto complessi come ad esempio i comportamenti aggressivi, di aiuto, e
quelli riguardanti le scelte sessuali.
In particolare la sociobiologia propone di spiegare il comportamento umano su base genetica,
basandosi sull’idea che la selezione naturale serva alla sopravvivenza del gruppo, piuttosto che del
singolo individuo. Tuttavia la teoria evoluzionistica è apparsa inadeguata per spiegare la variabilità,
la complessità e la differenziazione comportamentale della nostra specie, dove il ruolo
dell’apprendimento e fondamentale. Vi sono però alcune risposte molto semplici che sembrano avere
le caratteristiche del comportamento istintivo.

Le teoria della riduzione delle pulsioni. Le pulsioni sono motivazioni simili agli istinti, ma
mostrano un elevato grado di variabilità interindividuale. Ad esempio la fame e la sete sono innate e
si manifestano in maniera automatica, ma possono essere soddisfatte in una grande varietà di modi.
La teoria della riduzione delle pulsioni sostiene che le pulsioni abbiano una valenza omeostatica,
ovvero che diano luogo a comportamenti atti al ripristino dell’equilibrio interrotto. Anche questa
teoria fa riferimento al carattere naturale e biologico del comportamento ma, a differenza della teoria
degli istinti, riconosce il ruolo importante dell’apprendimento.
Le pulsioni diventano fonti di apprendimento, dando luogo ai cosiddetti fenomeni di rinforzo. Questa
teoria distingue le pulsioni primarie come la fame e la sete, dalle pulsioni secondarie che sono
apprese (come il bisogno di denaro), ma che generano bisogni che comunque devono essere
soddisfatti per ripristinare l’equilibrio.
Le teorie dell’arousal e dell’incentivo. Le teorie sulla riduzione delle pulsioni non spiegano alcuni
comportamenti che sembrano motivati dalla rottura di un equilibrio, piuttosto che dal suo
ristabilimento. Ad esempio i comportamenti esplorativi non danno luogo ad alcuna riduzione delle
pulsioni, ma al contrario accrescono il livello di attivazione dell’organismo.
L’”arousal” è definito come il livello generale di attivazione di diversi sistemi fisiologici, e può essere
rilevato, ad esempio, attraverso l’attività elettrica del cervello, l’attività cardiaca e la tensione
muscolare.
I sostenitori della teoria dell’arousal affermano che le persone siano motivate non tanto ad
abbassare, ma piuttosto a mantenere, il livello ottimale a dell’arousal, che varia da individuo ad
individuo.
Zuckermann ha parlato di ricerca di sensazioni (“Sensation seeking”) ed ha elaborato un’
apposita scala per misurare la differenza del bisogno di stimolazione tra gli individui.
La teoria dell’incentivazione invece, si focalizza sull’influenza che gli stimoli esterni hanno sul
comportamento dell’uomo, che sarebbe regolato da una relazione costi-benefici. L’individuo sarà
incentivato ad adottare quei comportamenti che apportano effetti positivi, mentre eviterà quelli che
producono effetti negativi. La valutazione del valore degli incentivi (cioè del loro potere incentivante)
avviene comunque in funzione degli stati interni.

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L’alimentazione. La fame è una delle più note pulsioni primarie, regolata da numerosi organi. In
particolare lo stomaco sembra essere in grado di analizzare chimicamente il cibo e di inviare i
risultati al cervello, il quale può analizzarne il valore nutritivo per determinare se è ancora necessario
continuare a nutrirsi. Il sangue trasmette al cervello le informazioni relative alle nostre necessità di
nutrimento. Il cervello controlla il livello di alcune sostanze:
- l’insulina, un ormone secreto dal pancreas quando aumenta il livello di glucosio nel sangue;
- la colecistochina, un neuro trasmettitore rilasciato dal cervello, che genera sazietà o
provoca nausea quando in eccesso;
- la leptina, una sostanza per il controllo del grasso corporeo.
L’ipotalamo è particolarmente importante per il controllo della fame e della nutrizione. Il nucleo
ventro-mediale se stimolato interrompe l’attività di nutrizione, mentre l’ipotalamo laterale spinge a
mangiare. Sembra quindi, che questi due centri interagiscano tra loro, per mantenere un punto di
riferimento nel peso corporeo.
E’ importante anche il ruolo che diversi neuro-trasmettitori hanno per l’assunzione di determinate
sostanze. Ad esempio il consumo di carboidrati tende ad essere ridotto dalla serotonina, mentre
aumenta con il neuropeptide Y.
Il comportamento alimentare umano e regolato anche da altri fattori quali ad esempio il gusto, la
varietà di cibo disponibile, la voglia di un particolare tipo di alimento, il modo con cui il cibo si
presenta, gli aspetti di natura culturale e l’età.
Sono considerati disturbi alimentari quei comportamenti che si distaccano in misura notevole dalle
richieste biologiche e dagli standard culturali, determinando anche variazioni patologiche del peso.
L’obesità è da mettere in relazione con l’assunzione in quantità superiori alla norma di alimenti, ma
anche con fattori predisponenti, ad esempio di tipo genetico (geni ob che rilasciano la leptina, un
inibitore della fame) e a fattori psicologici (come lo stress). Si è ipotizzato che le persone obese
mangino di più perché insensibili agli stimoli interni e dipendenti da quelli esterni (Schachter).
Le persone obese sarebbero incapaci di trattenersi quando si presenta loro del cibo in abbondanza.
La dipendenza dagli stimoli esterni potrebbe essere l’effetto e non la causa dell’obesità.
Nisbett (1972) propone la teoria del punto di regolazione, secondo cui l’organismo avrebbe un
peso-bersaglio da raggiungere attraverso l’aumento o la diminuzione dell’attività metabolica e della
fame. Nelle persone obese, il punto di regolazione sarebbe spostato al di sopra dei valori normali.
Esperimenti hanno mostrato che persone obese e di peso normale sottoposte a dieta si
comportavano nello stesso modo, mentre le persone obese non sottoposte a dieta avevano lo stesso
comportamento delle persone di peso normale non sottoposte a dieta.
I disturbi alimentari più noti sono:
- l’anoressia nervosa (rifiuto del cibo, fino ad alla denutrizione patologica e alla morte nel
4% dei casi);
- la bulimia nervosa (alternanza di abbuffate e di eliminazione forzata del cibo, che
provoca disturbi gastro-intestinali dovuti agli acidi prodotti dal vomito).
Le cause di questi disturbi non sono note. Le persone anoressiche sono affette da autopunitività e
hanno una personalità eccessivamente perfezionistica, mentre le bulimiche sono descritte come
depresse.

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La sessualità
Biologia della sessualità. Si discute ancora sulla questione di considerare il sesso come una
pulsione biologica (come bere o mangiare) o come un comportamento frutto
dell’apprendimento. E’ innegabile che entrambe le componenti (quella ormonale e quella
culturale) esercitino una grande influenza nell’attività sessuale umana. Gli ormoni sessuali
(estrogeni ed androgeni) regolano il desiderio e l’attività sessuale. Gli estrogeni sono
presenti in quantità maggiore nelle femmine e minore nei maschi e viceversa gli androgeni
sono presenti in maggior misura nei maschi.
La variazione del livello di questi ormoni, produce una corrispondente variazione del desiderio
sessuale. Gli ormoni sessuali hanno anche un effetto organizzatore che, manifestandosi nei primi
giorni di vita con la modifica di alcune aree del cervello, determina il modo con cui l’individuo
risponde alle variazioni dei loro livelli.
La differenziazione sessuale di alcune aree cerebrali (dimorfismo) dà luogo a comportamenti che
possono essere alterati in seguito a danneggiamenti di tali aree, Le Vay (1991) ha mostrato che nei
soggetti maschi omosessuali, l’area pre-ottica mediale dell’ipotalamo è la metà rispetto a quella dei
soggetti maschi eterosessuali. Kinsey (1953) ha studiato il comportamento sessuale delle donne e
degli uomini ed ha evidenziato notevoli differenze.
L’attività mentale dell’individuo e le norme culturali hanno una notevole influenza sul desiderio
sessuale. Le persone hanno attività sessuali non soltanto per rispondere ad una eccitazione
fisiologica, ma spesso sono spinte da motivazioni di tipo psicologico (ad es. affetto, intimità,
accondiscendenza).
Molto spesso le persone hanno rapporti sessuali contro voglia: il desiderio di evitare un litigio da
parte delle donne, oppure il timore di essere considerati poco virili negli uomini. Vi sono anche casi di
violenza vera e propria, che solitamente vengono causati solo in parte dal desiderio sessuale. Spesso
i violentatori sono spinti da motivazioni superficiali e lo stupro è una manifestazione di aggressività
più che di sessualità.
La sessualità appare modulata in modo vario nelle diverse culture e nelle diverse epoche. In passato
si sono alternati periodi di grande libertà sessuale e di austerità, che si manifestava anche nel
rapporto tra i sessi in generale o addirittura nell’abbigliamento. Le culture differiscono fra di loro per
quanto riguarda il tipo di pratiche sessuali, i modi in cui queste avvengono, le norme che regolano i
rapporti tra i sessi ed i significati ad esse connessi. Anche all’interno della stessa cultura si
riscontrano differenze, connesse all’appartenenza a gruppi sociali differenti.
L’attività sessuale nella nostra specie è generalmente eterosessuale e ciò e sostenuto sia da ragioni
biologiche che culturali.
Vi è una quota di individui che ha un comportamento sessuale differente, o perché diretto a soggetti
dello stesso sesso (omosessualità) o perché prevalentemente eterosessuale, ma occasionalmente
omosessuale (o viceversa).
Nelle culture occidentali, l’omosessualità è stata considerata come una forma di anormalità, e fu
cancellata dalla classificazione dei disturbi mentali solo nel 1973. Ricerche condotte su coppie di
fratelli (Bailey e Pillard, 1995) sembrano confermare che l’omosessualità ha un origine biologica.
L’impatto degli ormoni sessuali sull’orientamento sessuale, differenze nella regione ipotalamica,
l’insensibilità dell’omosessualità a trattamenti di tipo psichiatrico, l’ininfluenza sul comportamento
sessuale dei bambini allevati da coppie omosessuali, sembrano avvalorare l’ipotesi dell’origine
biologica anche se attualmente non si può affermare che sia la causa esclusiva dell’omosessualità.

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Attaccamento e amore. Sentirsi in contatto fisico con un individuo amato è un bisogno primario
(Bowlby, 1969). L’”attaccamento” si collega alla funzione di protezione dei piccoli dai predatori e la
privazione del contatto fisico può avere conseguenze molto gravi.
Margaret e Harry Harlow (1967) hanno dimostrato che i piccoli di scimmie preferiscono madri
artificiali ricoperte di panno piuttosto che sagome metalliche. Le figure di attaccamento
rappresentano una base sicura per l’esplorazione dell’ambiente. L’ansia della separazione dalle figure
di attaccamento e l’ansia dell’estraneo è provata da tutti i bambini fino a 2.5 - 3 anni,
indipendentemente dall’appartenenza culturale.
Ainsworth (1973) ha condotto un esperimento con la tecnica della strange situation:
1) Una madre è posta in un ambiente non familiare con il suo bambino, nel quale vi sono
giocattoli:
2) Un estraneo è fatto entrare nella stanza, cerca di giocare con il bambino e la madre esce;
3) La madre ritorna e gioca mentre l’adulto esce;
4) La madre esce di nuovo per 3 minuti mentre l’adulto estraneo rientra;
5) La madre ritorna definitivamente dal bambino
Questo esperimento ha mostrato i seguenti tipi di attaccamento:
• attaccamento sicuro → il bambino piange quando la madre si allontana e mostra
contentezza quando rientra (preferenza per la madre); si evidenzia con madri che sono state
sensibili ai bisogni del bambino, dando loro affetto e sicurezza;
• attaccamento evitante → i bambini non fanno differenza tra la madre e l’estraneo (non
protestano, ma non fanno particolari feste); si ha quando le madri sono a loro volta evitanti,
con espliciti atteggiamenti di rifiuto;
• attaccamento ansioso ambivalente → il bambino protesta quando viene lasciato, ma
oppongono resistenza al contatto con la madre non lasciandosi consolare: si verifica con
madri insensibili ai segnali e incapaci di interagire con i loro figli.

Ricerche longitudinali hanno mostrato che gli attaccamenti insicuri non sono collegate a delle cure
insufficienti, ma al tipo di comportamento della madre.
I bambini con attaccamento insicuro si mostrano aggressivi tra i 2 e 3 anni, ma gli effetti possono
essere gravi anche a lungo termine (come mostrato da Harlow con le scimmie). Dando luogo a
problemi di natura comportamentale o psicologica.
I vari tipi di amore adulto hanno una forte coerenza con i tipi di attaccamento avuti durante
l’infanzia. Ad esempio:
• persone evitanti hanno avuto lunghi periodi di separazione dalla madre;
• amore insicuro, ansioso o ambivalente porta ad amanti impazienti e preoccupati di perdere
il loro partner;
• le persone con amore sicuro non sono gelose e ne preoccupate di perdere il partner.
Secondo la cultura popolare esistono varie forme di amore: romantico, appassionato, immediato,
instabile o tormentato (desiderio sessuale e aggressività) e amore di compartecipazione (rispetto e
reciprocità).
Gli ingredienti di questi tipi di amore sono (Stenberg, 1994): passione (desiderio sessuale), intimità
(comprensione e affetto), impegno (reciproca lealtà). Ad esempio mescolando passione ed intimità si
ottiene l’amore romantico, mentre con intimità ed impegno si ottiene l’amore di compartecipazione
ed esistono tipi di amore basati su una sola componente. Un amore completo dovrebbe avere tutte le
componenti, modulate in base ai vari periodi.
Lee (1973) ha etichettato sei diverse tipologie di amore:
- indus (giocoso),
- eros (appassionato),
- storge (affettuoso),
- mania (possessivo),
- pragma (basato sulla razionalità),
- agape (disinteressato).

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Hendrik & Hendrik (1992) hanno rilevato gli atteggiamenti che cittadini americani hanno rispetto
all’amore, che non evidenziano differenze particolari tra i due sessi. Non vi è una modalità valida per
sempre per la formazione di una coppia.
Motivazioni cognitive e sociali. Il nostro comportamento non è istintivo ma è guidato da scopi in
molti casi collegati tra loro in modo gerarchico (da scopi più concreti a quelli più astratti). In altri casi
gli scopi fanno parte di catene diverse che possono entrare in conflitto tra loro (ad esempio lavorare
studiando).
Gli scopi dipendono in maniera più o meno forte dal comportamento concorrente di altre persone e
dalle nostre aspirazioni. che influenzano le aspettative circa il risultato del nostro comportamento.
Esistono processi cognitivi di attribuzione delle cause del successo o dell’insuccesso.
Weiner (1980) ha distinto i seguenti gruppi di cause:
• interne o esterne al soggetto;
• stabili o instabili;
• controllabili o incontrollabili.
L’impegno è una causa interna variabile e controllabile, mentre l’abilità è una causa interna, stabile e
non controllabile. Se l’insuccesso è attribuito all’impegno, si sarà motivati a ritentare mentre se è
attribuito all’abilità si sarà più demotivati. Quindi è importante non solo il perseguimento degli scopi,
ma anche il loro mantenimento, nonostante gli insuccessi.
Alcune attività le svolgiamo ci danno piacere, mentre per altre dobbiamo sforzarci di portare a
termine il compito.
Il senso di autoefficacia. Un problema rilevante è rappresentato dal fatto che vi sono persone che
si scoraggiano presto di fronte alle difficoltà da affrontare. Gli scopi che gli individui perseguono
costituiscono un quadro di riferimento essenziale e possono essere ricondotti a due classi
fondamentali:

- scopi di prestazione: implicano la ricerca di un giudizio favorevole sulla propria competenza


(performance);
- scopi di apprendimento: implicano la ricerca di un aumento della propria competenza
(learning).

Quando un individuo è motivato da scopi di performance, una prestazione insufficiente viene


percepita come un fallimento e ciò lo spinge ad abbandonare. Quando invece è motivato da scopi di
apprendimento, un fallimento viene percepito come un’informazione di cui tener conto e come una
sfida in più.
Sentirsi competitivi ed efficaci è un motivo importante per gli individui.

Che cos’è un’emozione?. Si guarda alle emozioni come a risposte adattive dell’organismo
alle sollecitazioni ambientali. Le emozioni operano una dissociazione tra stimoli e risposte, a
partire dalla quale la condotta dell’organismo diventa più lenta, ma più varia e flessibile. I maggiori
vantaggi di questa separazione sono rappresentati dal fatto che si interpone una sia pur breve
latenza tra l’evento-stimolo e la risposta.
Le funzioni delle emozioni sono molteplici:

- capacità di determinare rapidamente i cambiamenti fisiologici necessari per sostenere le


risposte adattive dell’organismo;
- preparazione all’azione;
- funzioni sociali e più specificatamente interpersonali (possibilità di coordinarsi e di cooperare
comunicando i propri piani e le proprie intenzioni attraverso l’espressione);
- modificazione dell’attività cognitiva.

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Scherer ha mostrato come le emozioni rappresentino una conquista evolutiva di eccezionale
importanza, di cui s’intravedono gli antecedenti nello sviluppo delle specie superiori sociali, e che
naturalmente raggiunge il suo culmine nella complessa emozionalità umana.
Le emozioni sono caratterizzate da n’espressione facciale con la quale segnaliamo le nostre emozioni
e le nostre intenzioni comportamentali agli altri individui.
Le teorie delle emozioni.

- teorie fisiologiche: sono costituite dalla percezione delle reazioni viscerali e neurovegetative
del nostro organismo a stimoli ambientali di tipo emotivo. Si verifica un avvenimento
emotivamente rilevante; questo provoca in modo diretto un’attivazione fisiologica a livello
periferico.
- teorie evoluzionistiche: sottolineano la continuità e la somiglianza delle espressioni
emotive umane con quelle del mondo animale, in particolare dei primati, e hanno sostenuto
risposte adattive innate.
- teorie costruzionalistiche: le emozioni non vanno intese come entità biologicamente
determinate, ma come costruzioni sociali.
- teorie cognitive: si riferiscono a quelle concezioni che ritengono che la cognizione abbia un
ruolo essenziale nella generazione delle emozioni. Queste teorie propongono un approccio di
tipo “dimensionale” o di “appraisal” , che rispecchia le implicazioni personali di una persona.
Per queste teorie l’emozione è attivata dalla valutazione cognitiva, da parte dell’individuo,
degli effetti che le circostanze produrranno sul suo benessere.
- teorie psicoanalitiche: si guarda alle emozioni non come a fenomeni di breve durata, ma
come a fenomeni di lunga durata, con un’origine essenzialmente interna come elaborazione di
relazioni affettive in cui i processi di tipo inconscio sono ancora dominanti e l’ambivalenza è
un tratto intrinseco.

Capitolo 7 - La percezione

La percezione è il risultato dell’elaborazione cognitiva dell’informazione sensoriale. La sensazione è


il processo di trasformazione dei segnali provenienti dall’esterno (onde elettromagnetiche) in impulsi
nervosi e della loro trasmissione alle aree corticali. L’elettrofisiologia ha potuto determinare l’area
corticale interessata a ciascun tipo di sensazione. Tuttavia gli organi recettori raccolgono una stretta
gamma di segnali, importanti per la vita della specie; questa gamma varia da specie a specie
(Gibson, 1976).
Quando raggiungono la corteccia, gli stimoli nervosi interagiscono con i neuroni, dando luogo alla
percezione propriamente detta.
Da un punto di vista elettrofisiologico, essa si fonda sull’integrazione di attività svolte da milioni di
neuroni. Dal punto di vista della psicologia cognitiva, essa è legata ad altri processi come
l’attenzione, la memoria ed il linguaggio.

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La percezione dei suoni. La capacità di elaborare suoni ha permesso lo sviluppo di due processi
cognitivi: la musica ed il linguaggio. La finestra sensoriale uditiva va da 20 a 20.000 Hz e l’udibilità
ha un andamento ad U, cioè le frequenze intermedie sono udibili a volumi più bassi.
L’orecchio è costituito da:
• orecchio esterno, costituito dal padiglione auricolare che termina con la membrana
timpanica;
• orecchio medio, in cui la membrana timpanica è collegata al martello che, attraverso
l’incudine e la staffa, amplifica la pressione prodotta dal suono;
• orecchio interno, nel quale la pressione arriva alla coclea che è immersa in un liquido. Le
onde causate nel liquido dalla pressione, giungono all’organo del Corti ed il movimento delle
ciglia delle cellule ciliate che vi si trovano, provoca la trasmissione degli impulsi all’emisfero
opposto del cervello (trasmissione controlaterale).
La percezione visiva. La percezione visiva è un fenomeno molto complesso che implica
l’intervento di sistemi specializzati per l’analisi delle varie proprietà dell’informazione visiva. Esistono
numerosi modelli di come si perviene al riconoscimento a partire dall’interazione di sottosistemi
specializzati.
Il processo di riconoscimento si divide in:

- analisi strutturale: sono analizzate le proprietà fisiche del segnale visivo al fine della
costruzione strutturale (forma). Queste operazioni primarie furono studiate dai teorici della
Gestalt (Wertheimer).
- confronto: le proprietà strutturali sono confrontate, per il riconoscimento, con le tracce
presenti in memoria.

Il riconoscimento può avvenire:


• in modalità “bottom-up” o “data-driven” se dai dettagli raccolti sull’oggetto si risale alla
sua identificazione;
• in modalità “top-down” o “conceptually-driven”, se è guidato dal contesto in cui si trova
l’oggetto.

Le proprietà dello stimolo visivo analizzate dai neuroni corticali sono:

- la lunghezza d’onda
- la frequenza spaziale
- l’orientamento
- il movimento
La frequenza spaziale è definita come il numero di cicli per grado visivo. Un ciclo è dato dall’alternarsi
di un area a luminanza maggiore con una a luminanza minore. Le frequenze spaziali basse forniscono
informazioni sulla configurazione generale dell’oggetto, mentre le frequenze spaziali alte forniscono
informazioni sui dettagli. Secondo David Marr, esiste una prima fase (abbozzo primario o “primal
sketch”) basata sull’analisi delle frequenze spaziali e delle differenze di luminanza che danno luogo ai
bordi.
In una seconda fase (2.5D sketch) avviene l’integrazione con altri dati, come la profondità relativa
delle superfici ed il movimento.
Infine nella terza fase (3D sketch) l’oggetto è identificato completamente.
Per quanto riguarda l’influenza dell’orientamento degli oggetti sul loro riconoscimento, esistono tre
teorie:
a) gli oggetti sono memorizzati privi di orientamento, ovvero sono memorizzate solo le
relazioni strutturali tra gli elementi che li compongono;
b) la rappresentazione degli oggetti ha un orientamento canonico, quindi la loro
identificazione avverrebbe operando mentalmente una rotazione;
c) esistono più rappresentazioni dello stesso oggetto, con orientamenti diversi.

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Secondo la prima teoria che fu formulata, il riconoscimento avverrebbe in base ad un semplice
processo di confronto (template matching) tra le sagome degli oggetti presenti in memoria e la
sagoma percepita. Alla configurazione dei fotorecettori che si ha nella prima fase del riconoscimento,
corrisponderebbe l’attivazione di un'unica cellula rilevatore (detector-cell). Il limite di questa teoria è
dato dal fatto che ci dovrebbero essere tante cellule rilevatore per quanti sono gli oggetti e le loro
possibili configurazioni ed inoltre non spiega il riconoscimento di oggetti mai visti prima.
Un'altra teoria afferma che lo stimolo visivo è composto da caratteristiche essenziali e che gli oggetti
sarebbero rappresentati da aggregati di tali caratteristiche. Il riconoscimento avverrebbe
indipendentemente dalle dimensioni e dall’orientamento (feature analysis).
Adottando tale ipotesi, Selfridge ideò un programma per computer (pandemonium) i cui
componenti, i demoni, erano in grado di riconoscere singoli elementi di una figura; insiemi di questi
elementi venivano poi confrontati con pattern, per stabilire di quale oggetto si trattava.
Gibson utilizzò i risultati di questo esperimento, per elaborare un insieme di 12 caratteristiche idoneo
al riconoscimento delle lettere dell’alfabeto. Le teorie basate sull’analisi delle caratteristiche ebbero
notevole diffusione anche grazie alle scoperte in ambito neurofisiologico (esistenza di cellule in grado
di analizzare caratteristiche specifiche dello stimolo visivo, precedentemente Hebb aveva ipotizzato
l’esistenza di “assemblee cellulari” specializzate nel riconoscimento di caratteristiche specifiche).
Negli anni ’70 è stata proposta una teoria in base alla quale esisterebbero nella parte alta della
corteccia cerebrale, neuroni in grado di riconoscere classi di oggetti.
Secondo la recente teoria dell’integrazione delle caratteristiche (Treisman), che riprende
quella dell’analisi delle caratteristiche, nella prima fase avverrebbe l’identificazione in parallelo delle
qualità salienti dello stimolo senza l’impiego di risorse attentive; la percezione avviene solo in una
seconda fase, quando si ha l’integrazione delle qualità salienti attraverso un processo sequenziale.
Un'altra teoria (Bierdman) è la teoria dell’integrazione delle componenti, che aggiunge alla
teoria precedente un ulteriore livello di integrazione. L’integrazione delle caratteristiche avrebbe
come risultato dei componenti geometrici elementari, detti geoni, i quali verrebbero a loro volta
integrati per la percezione delle figure complesse.
Il riconoscimento di facce. Un’ abilità molto importante ai fini della sopravvivenza della specie, è il
riconoscimento di facce, che è basato sempre sulle frequenze spaziali. Questa abilità compare fin
dalla nascita, ed è localizzata in cellule della corteccia temporale inferiore. Disturbi di queste aree
provocano il mancato riconoscimento delle facce (prosopoagnosia) non solo relativamente al
riconoscimento della persona a cui appartiene la faccia, ma proprio al fatto che si tratti di una faccia.
La categorizzazione. La categorizzazione è il fenomeno per cui un soggetto percepisce regioni
discontinue o discrete, a fronte di variazioni continue dello stimolo o viceversa, quando un soggetto
effettua discriminazioni cognitive su stimoli simili. Questo fenomeno è particolarmente evidente nella
percezione dei colori. Sembra che esista una relazione diretta tra il numero di categorie
qualitativamente diverse che vengono riconosciute a fronte della variazione continua dello stimolo, e
il livello di sviluppo linguistico (Berlin e Kay).
La categorizzazione avviene anche a livelli cognitivi più alti, quando è necessario raggruppare gli
stimoli o distinguere uno stimolo da un altro. In base alla terminologia della Treisman, il “prototipe” è
il tipo della classe a cui appartiene l’oggetto osservato (ad es. “cane”, “gatto”) mentre il “token” è un
oggetto della classe (ad es. “alano” o “siamese”).
Un primo problema è capire come gli oggetti vengono assegnati alle categorie. Ciascun prototipo
sarebbe descritto da un numero limitato di caratteristiche, che se riscontrate nell’oggetto
comporterebbero l’assegnazione di quell’oggetto alla classe rappresentata dal prototipo. Il processo
di formazione dei prototipi riguarda la determinazione delle caratteristiche rilevanti per la distinzione
delle classi.
Una prima ipotesi è che il prototipo di una classe è dato dall’oggetto che si è presentato con
maggiore frequenza all’osservatore (moda). Un altro modello afferma che il prototipo sarebbe
costituito con la media delle caratteristiche salienti degli oggetti osservati.

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Secondo la Roch, i prototipi sarebbero organizzati tra loro secondo due dimensioni. Lungo la
dimensione verticale ci sono tre livelli: sovraordinato, base, subordinato; si procede dal
particolare al generale e viceversa.
Lungo la dimensione orizzontale ci sarebbero gli esemplari tipici delle classi, collegati ai diversi livelli
in modo gerarchico. Tuttavia studi su pazienti cerebrolesi, hanno dimostrato che esiste una
organizzazione più generale, ovvero un livello superiore al sovraordinato, che distingue gli oggetti
viventi da quelli non viventi. Le tecniche di neuro-imaging hanno mostrato che esistono due aree
corticali distinte per l’elaborazione di queste due macrocategorie. Per gli animali ed i vegetali,
l’identificazione sarebbe basata sui dettagli visivi, mentre per gli oggetti non viventi sarebbe basata
sulle loro proprietà funzionali.

Capitolo 8 - L’immaginazione e l’attenzione

L’immaginazione è il processo attraverso il quale sono create immagini mentali degli stimoli, con
caratteristiche strutturali e funzionali simili a quelle della percezione (Kosslyn).
Shepard e Metzler diedero un contributo allo studio dell’immaginazione, con i loro esperimenti sulla
rotazione mentale (riconoscimento di oggetti attraverso la creazione di immagini mentali e la loro
successiva rotazione).
L’attenzione è un insieme di processi con cui la mente opera una selezione degli stimoli provenienti
dal mondo esterno, allo scopo di attivare solo su di essi i processi cognitivi. Tale concezione
dell’attenzione (attenzione selettiva) si diffuse dopo gli studi dello psicologo inglese Broadbent,
secondo il quale gli stimoli verrebbero selezionati in base alle loro caratteristiche fisiche e alle
aspettative/interessi del soggetto.
Studi recenti hanno dimostrato invece che esiste l’abilità di svolgere più compiti
contemporaneamente (attenzione divisa) purché riguardino processi cognitivi con caratteristiche
differenti (Hirst e Colmar) come ad es. guidare l’auto e ascoltare musica. Quindi esisterebbero delle
risorse cognitive che verrebbero assegnate ai compiti da svolgere. Il compito che riceve le risorse per
la sua esecuzione ottimale è detto compito primario, mentre gli altri compiti sono detti compiti
secondari. Le curve POC (Performance Operating Characteristics) mostrano le prestazioni ottenute
durante lo svolgimento simultaneo di due compiti. Ricerche sulla distribuzione delle risorse cognitive
sono state fatte in campo aeronautico, in cui un pilota d’aereo deve controllare varie fonti di
informazioni (Gibson e Broadbent).
Esistono operazioni compiute senza l’impiego di risorse cognitive (azioni automatiche) ed altre che
necessitano di risorse cognitive (azioni controllate).
Modelli recenti (Shallice) fanno riferimento ad un “sistema attenzionale supervisore”, che
sopprime i processi cognitivi in conflitto in base al loro livello di attivazione (selezione competitiva).
Lesioni nelle regioni perifrontali provocano alterazioni nei processi di attenzione e di modulazione
delle risorse cognitive.

Capitolo 9 - Apprendimento e memoria

L’apprendimento è un processo importante, legato all’evoluzione e alla sopravvivenza di una specie.


Senza apprendimento non c’è adattamento e senza adattamento non c’è possibilità di sopravvivenza.
Condizionamento classico. Una forma elementare di apprendimento è il condizionamento. Il
condizionamento classico fu studiato in Russia da Ivan Pavlov, che ai primi del ‘900 ricevette il
Nobel per le sue ricerche nel campo della digestione. Pavlov osservò che un cane emette la saliva
alla sola vista del cibo, cioè prima che questo sia messo in bocca per la masticazione. Ideò un
esperimento che consistette nel mettere un cane di fronte ad una ciotola e ad una lampadina
(inizialmente spenta). Dopo averlo tenuto a digiuno qualche ora, del cibo viene fatto cadere nella
ciotola (SI, stimolo incondizionato) e si ha la salivazione (RI, risposta incondizionata). Dopo qualche
tempo si ripete l’immissione del cibo nella ciotola e contemporaneamente si accende la lampadina
(SN, stimolo neutro perché normalmente non provoca la salivazione). La sequenza SI-SN-RI viene

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ripetuta per qualche tempo (fase di acquisizione). In seguito (fase di apprendimento) si osserva la
salivazione del cane (RC, risposta condizionata) alla sola accensione della lampadina (SC, stimolo
condizionato). La sequenza SC-RC è appresa perché il cane non prima non emetteva saliva alla sola
accensione della lampadina. Se si continua ad accendere la luce senza mai presentare il cibo, la
salivazione tende rapidamente a non verificarsi più (fase di estinzione). Dopo l’estinzione, il recupero
dell’associazione SC-RC, si ha in ambienti al di fuori di quello sperimentale dove, durante l’estinzione,
l’SC ha funto da stimolo inibitore.
Si può ottenere anche un condizionamento di 2° livello associando ad SN (la lampadina) un altro
stimolo S1N (un campanello). Se dopo il condizionamento di primo livello, si ripete la sequenza SN-
S1N-SI-RI, alla fine si ha che S1C-RC, cioè il cane emette saliva al suono del campanello. Questo da
luogo al fenomeno della generalizzazione, in base al quale stimoli simili ad SC, danno luogo ad una
RC. La discriminazione invece è il fenomeno opposto, e fa si che uno stimolo troppo diverso da SC
non dia luogo alla RC.
Condizionamento operante. Gli studi sul condizionamento classico hanno aiutato a comprendere
alcuni aspetti dell’apprendimento, ma sono di scarsa rilevanza pratica perché inducono risposte gia
acquisite a stimoli che normalmente non provocano tali risposte.
Un altro tipo di condizionamento è il condizionamento operante basato sulla legge dell’effetto
(una azione ha maggiore probabilità di essere ripetuta se ha prodotto degli effetti positivi). Questo
tipo di condizionamento fu studiato da Thornidike che appunto scopri questa legge e che considerava
l’apprendimento un fenomeno basato su prove ed errori. Egli compi un esperimento nel quale un
gatto affamato veniva messo in una gabbia chiusa da un chiavistello, ed un pezzo di pesce era
collocato in modo tale che il gatto non potesse raggiungerlo dall’interno della gabbia. Dopo una seria
di tentativi inutili, il gatto muovendosi nella gabbia tocca casualmente il chiavistello e quindi può
raggiungere il pesce. Man mano che le prove si ripetono, il gatto compie un numero di movimenti
inutili sempre minore.
Skinner approfondì gli studi sul condizionamento operante dimostrando che il comportamento, una
volta appreso, non era più casuale ma diventava volontario. Chiuse un topo affamato in una gabbia
con un pulsante che, se premuto, rilasciava del cibo; al pulsante collegò un dispositivo in grado di
rilevare la pressione esercitata dal topo. Dopo un certo numero casuale di pressioni sul pulsante che
provocavano il rilascio del cibo, il topo premeva il pulsante esercitando una maggiore pressione,
dimostrando quindi la volontarietà del suo gesto.
Una tecnica per ridurre i tempi del condizionamento consiste nell’indurre comportamenti sempre più
prossimi a quello desiderato, fino al raggiungimento dell’obiettivo. In seguito i comportamenti
approssimati scompaiono grazie al fenomeno dell’estinzione, non associando ad essi alcun premio.
Il condizionamento operante non si basa solo sui pochi rinforzi primari (quelli associati ai bisogni
primari. Le applicazioni pratiche sono possibili grazie ai più numerosi rinforzi secondari (se ad un
topo è offerto del cibo quando preme una leva e si accende una luce, quando si accende la luce il
topo premerà la leva). Le applicazioni sono sia di carattere militare che di tipo civile. L’uomo può
essere sottoposto ad una vasta gamma di stimoli-rinforzo.
Come elaboriamo l’informazione. La figura seguente mostra lo schema dei meccanismi che
sarebbero implicati nell’elaborazione dell’informazione, che avviene tra la percezione dello
stimolo e la produzione della risposta. Numerosi modelli sono sorti a causa della necessità di
scomporre tali processi di elaborazione in unità e sotto-unità, allo scopo di studiarli in modo
sistematico.
Un’informazione deve essere recepita dagli organi sensoriali e tradotta in segnali comprensibili per il
sistema
di

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elaborazione, in modo da essere disponibile per i processi percettivi che interpreteranno
l’informazione in base all’esperienza e alla situazione in cui si verifica la percezione.
Questa selezione è in parte dovuta all’impossibilità di recepire una quantità eccessiva di stimoli
sensoriali: il risultato della selezione viene successivamente sottoposto a processi di percezione. Una
volta superata questa prima selezione, l’informazione viene passata in tre distinti magazzini di
memoria: Memoria sensoriale, Memoria a breve termine (MBT) e Memoria a lungo termine
(MLT). Ciascun magazzino differisce dagli altri per come l’informazione viene conservata, per la
durata dell’immagazzinamento e per la quantità di informazioni conservate. Il passaggio nei tre tipi
di memoria è obbligato.
Durante il passaggio da un magazzino al successivo si può verificare un’ulteriore perdita di
informazioni attribuibile, in gran parte, ad interferenze nei processi di codifica.
Le difficoltà in fase di codifica dell’informazione sono alla base dei problemi di recupero del
magazzino a lungo termine.
È possibile distinguere tre differenti tipi di memoria a lungo termine: procedurale, episodica e
semantica.
La memoria procedurale. La memoria procedurale è preposta alla conservazione delle sequenze
comportamentali necessarie per raggiungere determinati scopi. I programmi di sequenze complesse
relativi a come ci si comporta in determinate situazioni, sono detti script (copioni). La loro esecuzione
avviene in modo automatico, senza che vi sia alcun controllo (guidare l’auto, rispondere al telefono,
ecc.).
La memoria episodica. La memoria episodica conserva i ricordi riferiti a situazioni, eventi, persone
particolari che abbiano la caratteristica di essersi verificati una sola volta nella vita. Questi ricordi
sono caratterizzati da una codifica multimodale e da una particolare vividezza. Spesso non abbiamo
coscienza di ricordare certi episodi, ma è sufficiente un indizio (come ad es. una foto) per farli
riemergere. I ricordi immagazzinati nella memoria episodica sono di frequente fortemente connotati
emotivamente.
La memoria semantica. La memoria semantica è la memoria preposta alla conservazione delle
nostre conoscenze (la data di un avvenimento, un teorema, il nome di un letterato, ecc.) sia quelle
frutto dell’esperienza che quelle frutto dello studio. Queste informazioni sono conservate in modo
quasi esclusivamente verbale. La memoria semantica gioca un ruolo fondamentale in compiti come il
riconoscimento ed, insieme alla memoria episodica, costituisce la memoria dichiarativa (o
preposizionale). La differenza tra memoria episodica e semantica è che nella prima il fattore tempo
costituisce un elemento fondamentale, mentre nella seconda no (oggi sono andato al lavoro, 2 x 2 =
4).
La memoria sensoriale. Il fenomeno della persistenza delle immagini (quando si chiudono gli occhi
dopo aver fissato un oggetto a lungo, ci sembra per qualche istante di vederlo ancora) ha indotto ad
ipotizzare l’esistenza di una memoria sensoriale in cui tali immagini sono conservate per brevi
periodi.
Sperling (1960) effettuò un esperimento nel quale veniva chiesto ai soggetti di ricordare le lettere
presenti in una delle tre righe di una matrice di lettere 3x3 che veniva loro presentata per un certo
periodo di tempo. Subito dopo la scomparsa della matrice, l’intensità di un suono indicava di quali
delle tre righe il soggetto doveva richiamare le lettere. Fu osservato che la prestazione non
dipendeva dalla riga da ricordare, come se i soggetti la leggessero da un memoria temporanea. Si
scoprì inoltre che le prestazioni dei soggetti degradavano in modo tanto maggiore, quanto più grande
era il ritardo tra la scomparsa della matrice ed il segnale acustico. Questo dimostrava l’esistenza di
una memoria sensoriale a capacità illimitata (cioè che conserva tutto quello che si è visto) di breve
durata.
Nella vita quotidiana, generalmente l’informazione è fissata per un tempo sufficientemente lungo,
tale cioè da non richiedere l’uso della memoria sensoriale (Just e Carpenter, 1984).
La codifica dell’informazione. L’attenzione seleziona gli stimoli da sottoporre ai processi cognitivi,
ed è un fenomeno indipendente da cause individuali, fisiche ed ambientali. È a questa caratteristica
dell’attenzione che si deve il fenomeno del “cocktail party” (Cherry, 1957) per il quale si è in grado

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di isolare, tra le tante voci presenti ad una festa, un frammento di discorso relativo ad un argomento
o ad una persona interessante.
Gli stimoli filtrati dall’attenzione, per poter essere memorizzati, devono essere codificati, ovvero
rappresentati. Un sistema di codifica è un modo per rappresentare la realtà che può essere più o
meno legato al tipo di stimolo, che utilizza dei linguaggi simbolici di rappresentazione (visivo,
verbale, acustico, ecc.). Data la complessità degli stimoli che riceviamo, deve essere scelta una
strategia di codifica che può andare dalla semplice ripetizione di ciò che si vuole memorizzare, all’uso
di complesse mnemotecniche che utilizzano associazioni fantasiose per ricordare nomi, eventi,
discorsi. Le strategie di apprendimento sono diverse per ciascun individuo.
I codici più utilizzati sono il codice verbale (con il quale rappresentiamo una informazione
attraverso la sua descrizione) e il codice per immagini (che usa una rappresentazione di tipo
iconico).
Per Paivio (1971) il tipo di codifica varierebbe in base al materiale da apprendere. L’efficacia
dell’apprendimento sarebbe legata all’uso contemporaneo delle due codifiche (per ciascuna parola di
un elenco, si richiama la corrispondente immagine e viceversa per memorizzare una nuova immagine
le si da un nome). L’importanza del ruolo delle immagini è emersa negli esperimenti di Paivio in cui si
chiedeva ai soggetti di determinare quali tra due parole rappresentavano gli oggetti più grandi. E’
stato dimostrato che per rispondere a questa domanda, viene utilizzata una codifica per immagini,
poiché le risposte sono più veloci quando gli oggetti appartengono a categorie diverse (oca –
lavatrice) e più lente quando appartengono allo stesso gruppo (gallina – oca).
Memoria a breve termine e memoria di lavoro. Poiché i tempi di codifica sono superiori a quelli
di permanenza dell’informazione della memoria sensoriale, è necessario supporre l’esistenza di un
altro tipo magazzino, chiamato memoria a breve termine.
Nelle prime teorie (Atkinson e Shiffrin, 1968), questa memoria era descritta come un magazzino di
dimensioni limitate, in grado di conservare le informazioni per un tempo limite di 30 secondi. Si
ipotizzò inoltre l’esistenza di un sottomagazzino che avrebbe avuto lo stesso funzionamento di un
buffer di reiterazione di dimensioni comprese tra 5 e 9 unità di memoria (“span di memoria”). Le
informazioni verrebbero memorizzate nel buffer a sempre nella posizione iniziale, facendo “slittare”
di una posizione tutte le informazioni memorizzate in precedenza. Quando le unità di informazione si
esauriscono, quella in ultima posizione (la prima ad essere stata memorizzata) viene persa. Questo
buffer di reiterazione spiega l’effetto “primacy” (tendenza a ricordare i primi elementi di una lista) e
l’effetto “recency” (tendenza a ricordare gli ultimi elementi).
Il doppio codice per la codifica degli stimoli, ha spinto ad ipotizzare l’esistenza di un doppio
meccanismo di reiterazione, che infatti fu dimostrata sperimentalmente da Baddeley (1986). Egli
utilizzò il termine “memoria di lavoro” alla quale sarebbero asserviti due sottosistemi, il circuito
articolatorio ed il blocco visuo-spaziale il cui funzionamento sarebbe legato rispettivamente
all’emisfero sinistro e a quello destro (Smith, Jonides e Koeppe, 1996). Esisterebbe anche un
“esecutivo centrale” per il controllo di questi due sottosistemi.
Il recupero dell’informazione. L’informazione che subisce un numero sufficiente di reiterazioni,
viene immagazzinata nella memoria a lungo termine, che è di dimensioni illimitate e conserva i dati
per un tempo indefinito. Squire distingue la memoria nel modo seguente:

• memoria dichiarativa (memoria episodica e memoria semantica);


• memoria non dichiarativa (memoria procedurale)

Le strategie di codifica risultano fondamentali per l’efficacia del recupero. Ad esempio la ripetizione è
efficace per imparare una poesia a memoria, ma non per imparare la dimostrazione di un teorema.
Anche la frequenza con cui accediamo alle informazioni ne facilita il recupero, poiché non viene
memorizzata una copia esatta dell’informazione da ricordare. Ad esempio quando si studia, si cerca
di memorizzare i concetti chiave per poi ricostruire intorno ad essi il contenuto di quanto si è
appreso.

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La memoria prospettica. La memoria prospettica è preposta a conservare i piani d’azione in modo
tale che l’ottimizzazione dei tempi e degli spazi, frutto della pianificazione, siano tradotti in azioni
concrete. La memoria prospettica interagisce con quella semantica e quella episodica ed ha bisogno
della memoria di lavoro. Studi hanno mostrato che cali nelle prestazioni si verificano tra gli 11 ed i
14 anni (per mancanza di esperienza) e dopo i 70 anni (per inefficienza della memoria di lavoro).
Perché dimentichiamo. La capacità illimitata della memoria a lungo termine non garantisce la
possibilità di recuperare queste informazioni quando servono. Si parla di dimenticanza, quando non si
riesce a ricordare ciò che realmente si è appreso (dimenticare un argomento all’esame, quando lo si
è riferito ad un amico poco tempo prima), mentre è causa del “mancato apprendimento” il fatto di
non ricordare ciò che si crede di aver appreso (ad es. telefonare ad un amico).
Le cause della dimenticanza possono essere:

1) mancato utilizzo di certi contenuti della memoria (teoria del disuso o del decadimento);
tanto meno un contenuto è rievocato, tanto più è probabile che vada perduto;
2) impiego di strategie di recupero non congruenti rispetto a quelle con le quali è stata
effettuata la codifica;
3) presenza di grandi quantità di informazione in memoria (teoria dell’interferenza);
4) condizioni emotive in cui è avvenuto l’apprendimento (blocco emotivo) o il recupero
(rimozione). Ad esempio in chi assiste ad eventi particolarmente drammatici, lo stress
emotivo sembra cancellare qualsiasi ricordo dell’evento.
Disturbi della memoria. Il disturbo più frequente della memoria è l’amnesia, che può essere
retrograda (quando non si ricordano gli eventi del passato remoto) e anterograda (quando non si
ricordano gli elementi del passato più recente). L’amnesia, in entrambe le sue forme, può essere
causata da traumi cranici o emotivi.
Disturbi della memoria possono essere sintomo di demenza, come ad es. quella di Altzheimer. Altre
cause dei disturbi della memoria possono essere infettive (come ad es. l’AIDS, morbo di Creutzfeldt-
Jacob) o causati da veleni.

Capitolo 10 - Il linguaggio

Parlare sembra un atto ovvio. Gli aspetti più interessanti del fenomeno linguistico sono:

• la sua ambivalenza, come elemento che caratterizza, rendendola unica da questo punto di
vista, la specie umana e nel contempo traccia al suo interno linee di divisione culturale;
• la sua complessità, poiché parlare implica l’attivazione di numerosi processi.

L’uso del linguaggio è legato alle procedure della mente, alle forme della cultura e al contesto
dell’interazione sociale.
Tuttavia l’essere umano dispone di un ampio sistema di segni e di procedure di costruzione del
senso. Charles Peirce affermò che era necessario un fattore mentale interpretante per il
funzionamento dei segni, che giustifichi “perché qualcosa sta per qualcos’altro”.
I segnali enfatizzano la capacità dei segni di attrarre l’attenzione (es. i segni contenuti nei segnali
stradali); i sintomi enfatizzano la capacità dei segni di manifestare stati interni all’emittente (se parlo
con voce alta e tremante, vuol dire che sono in collera); i “simboli” fanno risaltare la capacità dei
segni di rappresentare la realtà (ad es. lo “smile” è un simbolo ndr.)
Comunicare significa costruire e condividere un modello mentale del mondo.
Comunicazione verbale e non verbale. Il linguaggio non è un sistema di segni isolato, ma si
integra con altri sistemi di segni che lo commentano, lo contestualizzano o lo supportano. La
semiotica è la scienza che indaga sui modi in cui è possibile comunicare. In particolare:

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CARATTERISTICA SIGNIFICATO •
Canale vocale uditivo La sostanza primaria del linguaggio è la catena sonora
Trasmissione a distanza e I suoni prodotti sono percepibili entro un certo spazio e chi li l
recezione direzionale riceve è in grado di localizzarne la provenienza a
Transitorietà Le onde sonore del segnale non lasciano tracce
Intercambiabilità Gli individui sono sia emittenti che riceventi p
Feedback totale Chi parla può ascoltarsi, così da controllare il segnale r
Specializzazione Nel parlare non si esplica un’altra funzione fisiologica o
Semanticità I segnali sonori sono strumenti per significare qualcosa s
s
Arbitrarietà Il rapporto significante significato è convenzionale.
e
Carattere discreto La catena sonora si articola in unità distinte (foni)
m
Distanziamento Nel parlare ci si può riferire a contesti non esperiti
i
Apertura Il sistema della lingua è produttivo di novità (creatività)
c
Trasmissione culturale Le lingue vivono nella forma della cultura, non nei geni a
Dualità di strutturazione Gli elementi minimi sono di due tipi: fonemi e morfemi
Prevaricazione Nel parlare si può mentire m
Riflessività La lingua consente di parlare della lingua o
Apprendibilità E’ possibile imparare più di una lingua s
tra che la distanza tra i corpi ha un valore comunicativo (la maggiore vicinanza al proprio
interlocutore indica una relazione più intima, mentre una maggiore distanza indica che tale
relazione è minacciata);
• la “cinesica” indaga la mimica (espressioni facciali) e la gestualità (rituali, emblemi, atti
illustratori, gesti involontari, gesti adattivi);
• la “paralinguistica” indaga il potenziale comunicativo della voce (modelli di intonazione,
ritmo dell’eloquio, variazioni di suono prodotte dal ridere, lagnarsi, ecc., le produzioni di
suono indistinte come “ehm, mmh” )

La matrice biopsicologica del linguaggio.

La conformazione del canale vocale ha numerose caratteristiche che favoriscono i meccanismi


articolatori della produzione dei suoni, mentre il motore del linguaggio è localizzato a livello cerebrale
nell’emisfero sinistro. Numerose prove avvalorano l’ipotesi dell’esistenza di un “bioprogramma” per
l’attivazione linguaggio. In particolare il fatto che sia nei destrimani che nei mancini, le aree
specializzate del linguaggio si trovano sempre nell’emisfero sinistro. Inoltre lo sviluppo delle abilità
linguistiche sembra concludersi verso la pubertà, fase che chiude il cosiddetto “periodo critico” dello
sviluppo.
Prove di quest’ultimo fatto sono:

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• l’apprendimento di una seconda lingua in età adulta, non porta alla padronanza fonetica e
prosodica (si riesce sempre a capire quando uno non è di “madre lingua”);
• la riabilitazione necessaria a causa di lesioni che si producono prima della pubertà, porta al
totale recupero delle abilità linguistiche, mentre se la lesione interviene dopo la pubertà il
recupero avviene solo in minima parte;
• la rieducazione di soggetti vissuti in condizioni sociali estreme (ad es. bambini “selvaggi”) è
efficace solo se fatta prima della fine della pubertà;
• la modalità di formazione delle lingue creole ed il fatto che genitori di bimbi che parlano il
creolo, nella prima generazione, non lo sappiano parlare (Bikertonn, 1988). Il creolo è un
“pidgin” che viene assorbito come lingua madre di una comunità. Il “pidgin” è un linguaggio
parlato dai non nativi per scopi commerciali, che ha la grammatica del paese di provenienza
ed il lessico del paese ospitante (come quello che parlano gli extracomunitari quando vendono
la loro merce)
Tratti distintivi del linguaggio. Il linguaggio umano ha tutta una serie di tratti che lo distinguono
da quello animale (che ne ha solo alcuni di essi). Il linguaggio animale è limitato dalla ristretta serie
di interazioni geneticamente determinate tra elementi della stessa specie e tra specie diverse (rituali
di accoppiamento, marcatura del territorio, segnali di allarme, ecc.).
Agli inizi del ‘900 numerose ricerche cercarono di verificare la possibilità di comunicare con gli
animali.

Tuttavia l’insegnamento del linguaggio presenta due problemi:


1) il canale fonatorio animale non è adeguato;
2) il linguaggio non serve solo a rappresentare la realtà, ma è anche una pratica di
costruzione del senso.
I coniugi Kellog allevarono loro figlio ed uno scimpanzè con la stessa dedizione, ma dopo quattro
anni lo scimpanzè era in grado di emettere un solo suono. Verso la metà del ‘900 si utilizzò un
approccio diverso, ovvero quello del linguaggio dei segni. Pur essendo in grado di padroneggiare le
parole apprese, gli animali hanno esibito una limitata capacità di comporre frasi (brevità delle frasi,
ambito di esperienza ristretto – cibo, bagno, ecc – Herbert Terrace). Per quanto ci siano ancora dei
dubbi, si possono trarre due conclusioni dalle ricerche fin ora fatte:
1) il linguaggio utilizzato dagli animali è talmente primitivo da non poter essere
comparato con le abilità di un bambino;
2) le capacità comunicative degli animali, appaiono assai limitate rispetto alle loro
capacità di intelligenza generale.

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I bambini crescono nella lingua. Un interessante interrogativo è capire come i bambini imparino
così presto un compito complesso come il parlare. La complessità del compito ha indotto ad
ipotizzare l’esistenza di una predisposizione genetica, ma non si può sottovalutare il ruolo importante
dell’ambiente sociale, ed il contributo dei tutor linguistici, che tendono ad adottare un linguaggio
breve, semplice, con suoni ben scanditi.

MESI TAPPE RAGGIUNTE


1 Il bambino da segni di risposta ai suoni
2 Sorride se stimolato. Suoni vocalici gutturali
4 Lallazione: borbottii, gorgoglii. Suoni privi di significato per il bambino, pieni di
Ci
intenzioni comunicative per gli adulti
si
6 Balbettio pon
8 Modelli intonazionali e
l’int
9 Giochi gestuali (cucù) err
11 La prima vera parola (usata come nome) oga
12 Enunciati monoremaici. Ad es. “bau” per “cane” e “pappa” per “mangiare” tivo
di
15 Pronunzia dalle 4 alle 6 parole. Protorichieste (“ate” sta per “voglio del latte”) e co
protoasserzioni “ane” sta per “quello è un cane”. Per Vygotskij (1934), le prime parole me
evocano un “complesso” di significati. Generalizzazione estrema del significato delle avv
parole (ad es. ogni luce nel buio sarà chiamata “luna”, se il bambino impara la parola eng
luna quando gli mostriamo il satellite della terra nel buio della notte. a il
18 Enunciati dirematici (in media 2 parole per frase). Abbozzo di una prima struttura pro
sintattica e grammaticale, realizza una gamma più ricca di intenzioni comunicative. ces
Grammatica “a perno” in cui una parola in posizione fisse funge da cardine, mentre so
l’altra varia (“no pappa”, “no ate”, ecc.) di
svil
21 Ha un vocabolario di circa 50 parole
upp
24 Comincia l’interiorizzazione sistematica della grammatica o
27 Interrogazioni, negazioni dell
Usa i pronomi in modo appropriato a
30
ling
36 Usa circa 250 parole e forma frasi con circa 3 parole ua
60 Costruzioni rare e complesse nel
ba
120 Linguaggio maturo
mbi
no. Molti ritengono che esso avvenga per imitazione del linguaggio utilizzato da chi si prende cura di
loro. Questo punto di vista fu adottato da Skinner, secondo il quale l’apprendimento avverrebbe con
le modalità del condizionamento operante. Noam Chomsky, contrariamente all’approccio
comportamentista, affermava che l’essere umano ha una predisposizione genetica nel trattamento
della lingua.
Esisterebbe un dispositivo (LAD, Language Acquisition Device) che guiderebbe il bambino nella
formazione di frasi corrette e nell’applicazione di regole. L’esistenza del LAD sarebbe dimostrata
secondo Chomsky, dal fenomeno universale riscontrato nei bambini, dell’ipercorrettismo, cioè
nell’applicazione delle regole di grammatica anche quando sono previste delle eccezioni. Inoltre i
soggetti nati sordi organizzano il loro linguaggio gestuale secondo regole assimilabili a quelle della
lingua parlata.
Le principali critiche alla teoria di Chomsky sono:

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1) non è necessaria l’esistenza del LAD, poiché i processi cognitivi che presiedono alla
formazione del linguaggio sono comuni anche per la formazione di altre abilità;
2) per l’acquisizione delle competenze linguistiche, non sarebbe sufficiente l’innesco
biologico del LAD, perché essa avverrebbe anche grazie al LASS (Language Acquisition
Support System).
Per Bruner è l’interazione routinaria tra il caregiver ed il bambino a gettare le basi dell’agire
linguistico. Secondo Jean Piaget (1923) il linguaggio nel bambino si manifesta secondo una forma
egocentrica ed una forma socializzata.
Nella forma egocentrica, il linguaggio si manifesta:
1) nell’ecolalia (quando parla per il solo piacere di farlo);
2) nel monologo (quando parla per sé, come se pensasse ad alta voce);
3) nel monologo collettivo (quando i bambini si parlano senza ascoltarsi).
Secondo Vygotskij, il linguaggio egocentrico è una tappa intermedia per passare dal linguaggio
esteriore a quello interiore. Espressioni come “parlare a se stessi” identificano una serie di
atteggiamenti che vanno dalla elaborazione delle informazioni al dialogo interiore con cui diamo voce
alla coscienza nei suoi aspetti metacognitivi ed emotivi. Per quanto riguarda l’apprendimento di una
seconda lingua si consideri che, mentre per un bambino imparare a parlare è un processo
connaturato alla sua evoluzione, per un adulto significa dover ristrutturare la sua condotta linguistica
per inserirvi nuove forme grammaticali.
Le strutture della lingua. La lingua è un sistema che governa un lessico (un numero indefinito di
parole), secondo una grammatica (un numero imprecisato di regole). Ogni lingua è caratterizzata da
fonemi, cioè da una molteplicità di suoni elementari (da 20 a 40), che di per sé non hanno alcun
significato, ma che operano da tratti sonori minimi in grado di differenziare.
Lingue diverse hanno fonemi diversi o danno valore diverso agli stessi fonemi. L’alfabeto è un
tentativo di riprodurre con dei segni grafici (grafemi) i fonemi, secondo una corrispondenza biunivoca
con qualche eccezione. Ogni lingua stabilisce diverse possibilità di composizione tra i fonemi (ad es.
in italiano non esiste sz). Unendo i fonemi, si passa ad un livello successivo: i morfemi. I morfemi
sono composti fonetici dotati di un significato minimo (ad es. “ante” identifica chi pratica una certa
azione). L’unità lessicale minima è la parola, che si configura come una sequenza accettabile di
fonemi, dotata di un significato in una determinata lingua. Essa può essere composta da uno o più
morfemi.(ad es. “grattacielo” è composta da due morfemi, “gratta” e “cielo”). I meccanismi di
formazione delle parole sono controllati dalle regole morfologiche, attraverso i morfemi derivazionali
che possono essere:
• prefissi, quando sono posti prima del morfema radice (s-piacevole, in-felice);
• affissi, quando sono posti dopo il morfema principale (consapevol-ezza, mostruos-ità). Gli
affissi consentono di variare la tipologia di parola (ad es. passando dall’aggettivo al sostantivo
come dolc-e e dolc-ezza).
La competenza sintattica. Le persone dispongono le parole in precise totalità strutturate: le frasi.
La sintassi descrive il tipo di regole che permettono di identificare e di produrre frasi corrette in una
determinata lingua. Chomsky mette in risalto l’indipendenza della componente sintattica di una
lingua che permette di produrre, a partire da un insieme limitato di regole e di parole, un numero
illimitato di frasi ben formate, anche se molte di esse sono prive di significato (es. Verdi idee incolore
dormono furiosamente). Chomsky ipotizza che la competenza sintattica abiliti i parlanti a muoversi
tra la “struttura superficiale” e la “struttura profonda” delle frasi e viceversa (e quindi spiega perché
siamo in grado di riconoscere che due frasi simili nella struttura hanno un significato diverso e
viceversa).
La mente è equipaggiata con un “analizzatore sintattico”, che induce a seguire due tipi di regole:
1) regole della struttura sintagmatica, in base alle quali passare dal livello più astratto (frase),
al livello più concreto (lessico);
2) regole trasformazionali, che specificano il tipo di organizzazione da assegnare passando
dalla struttura profonda a quella superficiale.

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Il passaggio alla struttura superficiale delle frasi è più o meno complesso in funzione del numero di
regole necessarie a generarle. Soggetti impegnati in vari compiti (ad es. decidere se le frasi sono in
forma attiva o passiva), hanno prestazioni inversamente proporzionali alla complessità
trasformazionale delle frasi.
Il significato. Conoscere il lessico di una lingua vuol dire averne memorizzato le regole semantiche,
cioè sapere in quali condizioni le parole realizzano il loro potenziale di significato, e quindi si possono
usare. Il significato delle parole non attiene semplicemente al fatto che esse sono usate per riferirsi a
qualcosa (logica del segno). Le parole hanno un doppio profilo di significato: la denotazione (il
nocciolo concettuale di ciò che viene comunemente inteso) e la connotazione (valenze aggiuntive che
evocano sfumature emotive, sociali e personali relative al loro uso effettivo). Il significato riguarda
anche la relazione tra le parole. Essa può essere:

• di sinonimia, se due parole sono così simili nel loro significato da poter essere
intercambiabili;
• di “antonimia”, se hanno significati opposti;
• di “iponimia”/ “iperonimia”, se il significato di una parola è incluso/include quello di
un'altra;
• di “omonimia”/”omofonia”, se due parole si scrivono/pronunciano allo stesso modo ma
per pura casualità poiché i loro significati sono diversi.

Inoltre le parole possono avere altre caratteristiche:

• “polisemia” è la caratteristica di una parola di avere significati diversi ed indipendenti –


utilizzate nelle metafore;
• le espressioni “deittiche”, che hanno bisogno di una conoscenza extralinguistica per
essere comprese (qui, la, oggi)
• le parole a valenza “presupposizionale”, cioè quelle che hanno un significato sotto-
inteso oltre a quello esplicito (ad es. smettere implica che un’azione prima accadeva); questo
tipo di parole incorpora nel significato la continua negoziazione tra il “dato” ed il “nuovo”, cioè
il meccanismo basilare dell’organizzazione del discorso.

Ogni enunciato (il “nuovo”) si basa sull’assunto che esista un quadro cognitivo comune pre-esistente
(il “dato”).
Un altro aspetto rilevante del significato è dato dall’arbitrarietà dell’associazione tra i fonemi
(significanti) e i concetti (significati), che è accettata in modo inconsapevole come convenzione tra i
parlanti. Poiché esiste una doppia rappresentazione delle parole attraverso i fonemi ed i grafemi, i
fonemi possono conservare un potere marginale nella rievocazione del significato, come accade nelle
parole “onomatopeiche” che vogliono riprodurre nel suono il loro significato (“ticchettio”, “patatrac”,
ecc.). Esse sono una interpretazione e non una imitazione, di una presunta realtà oggettiva,
altrimenti sarebbero uguali in tutte le lingue. Ricerche hanno dimostrato che le parole delineano un
profilo sonoro che può essere assimilato a dei contorni figurativi, anche quando non ne conosciamo il
significato (es. “maluma/takete”). I fonemi possono avere significato simbolico poiché i parlanti
sfruttano la “sinestesia” cioè la capacità di cogliere somiglianze e parallelismi tra i dati provenienti da
diverse fonti sensoriali.
La possibilità di trasfigurare i suoni in immagini è utilizzata nel campo artistico ed in quello
commerciale e politico (campagne di persuasione) dove si cerca di attrarre l’attenzione sulla forma
espressiva, piuttosto che sul significato concettuale.
Il differenziale semantico è una tecnica utilizzata per stabilire il significato comunemente attribuito
ad una parola. Essa consiste in una serie di scale a 7 punti, ai cui estremi opposti ci sono due
aggettivi antonimi. Ai soggetti, data una parole, si richiede di attribuirle un punteggio su ciascuna
delle scale. Utilizzando questa tecnica, Osgood (1957) ha dimostrato che i soggetti connotano le
parole in base a tre dimensioni: la valutazione, la potenza, l’attività. Il significato connotativo

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attribuito alle parole varia in funzione di molti parametri quali l’età, il genere, la personalità, l’identità
sociale.
Linguaggio e pensiero. La relazione tra linguaggio e pensiero è molto complessa. Un primo aspetto
è costituito da come le persone hanno accesso al loro lessico mentale. Sembra che la mente acceda
al lessico con modalità differenti a seconda che si stia parlando od ascoltando. L’unità costitutiva del
lessico può variare dai morfemi a intere frasi che esprimono modi di dire e si può accedere al lessico
in base a chiavi di ordine fonologico, grafemico o semantico. Il modello Logogen (Morton, 1979)
descrive una procedura di accesso automatica al lessico, che consiste nell’analisi delle caratteristiche
fisiche della parola, che avviene nel modo seguenti:
1) numero di lettere;
2) lettera iniziale e finale;
3) lettera centrale;
4) seconda e penultima lettera.
Il concetto è lo schema che organizza la conoscenza del mondo evocata da una certa parola.
Heidbreder 1947 ha dimostrato che è più facile acquisire concetti concreti rispetto a quelli astratti.
Nel suo esperimento proponeva una serie di 9 figure rappresentanti dei concetti, etichettate con
parole inventate e i concetti venivano proposti in 3 forme diverse (27 figure). In seguito veniva
proposta una quarta serie e veniva chiesto ai soggetti di etichettare le 9 figure.
La più piccola unità cognitiva che possa valere come asserzione sul mondo è la proposizione, che
descrive una relazione tra concetti. Ciò di cui si dice (il soggetto o “tema”) è posto in relazione con
ciò che se ne dice (predicato o “rema”). Le proposizioni sono organizzate in reti, a formare un modelli
mentali che contengono la nostra comprensione di come stanno le cose nel mondo, e che guidano le
nostre interazione.
Il priming (azione di innesco) consiste nell’esecuzione agevolata di operazioni cognitive concernenti
materiale verbale, dovuta alla percezione subliminale di una parola (ovvero alla sua presentazione
per un tempo minore di quello necessario per l’interpretazione del suo significato). Se si presenta la
parola “frutta”, e poi si chiede di leggere delle parole che compaiono sullo schermo, le parole che
appartengono alla categoria frutta sono lette più prontamente delle altre.
Lingua e cultura. La lingua permea le complesse procedure attraverso le quali le varie comunità
umane organizzano la loro esperienza del mondo, e rende visibili le principali funzioni della cultura
(media tra sfera biologica ed ambiente fisico, supporta l’attribuzione del senso – sensemaking –,
tratteggia l’orizzonte etico).
Una questione sui linguaggi umani è se essi esprimano la natura delle cose o si reggano su
convenzioni storico-sociali. Secondo l’ipotesi Saphir-Worf (teoria della relatività linguistico-
culturale), la lingua pone forti vincoli sul modo in cui ogni comunità culturale può concepire il mondo.
Ad esempio Whorf (1956), rileva che i cartelli “Barili di benzina” e “Barili di benzina vuoti” allertano
in modo diverso, poiché l’aggettivo “vuoti” induce a pensare che la situazione di pericolo sia minore
(anche se in realtà è il contrario perché i gas nei barili vuoti aumentano la probabilità di esplosione).
Secondo Whorf, il linguaggio determina direttamente la rappresentazione del mondo (ad es. gli
eschimesi hanno molte parole per indicare i vari stati della neve, e quindi essi ne hanno una
percezione più fine rispetto ad altra culture).
La teoria della relatività linguistico-culturale nella sua versione radicale si presta alle seguenti
critiche:

• l’ipotesi risulta infalsificabile e quindi arbitraria;


• ogni comunità sarebbe rinchiusa nel suo universo simbolico;
• la traduzione linguistica sarebbe una pratica illusoria

Roch e Mervis (1975) hanno dimostrato che la percezione dei colori non dipende dal numero di
parole del lessico che servono ad etichettarli. Individuarono una serie di 11 categorie di colori focali e
dimostrarono che le popolazioni che parlano una lingua indoeuropea non hanno nessun vantaggio

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percettivo rispetto ad un popolo della Nuova Guinea che ha solo due termini per etichettare i colori,
nel senso che entrambe riconoscevano meglio i colori focali rispetto a quelli non focali.
Una versione meno radicale dell’ipotesi di Saphir-Worf, sostiene che il sistema linguistico mette a
disposizione delle persone modelli interpretativi che le orientano nella costruzione della loro realtà di
riferimento. Bloom (1984) rileva che l’80% dei soggetti di madre lingua inglese riesce a rispondere
positivamente a problemi formulati sfruttando la risorsa linguistica del controfattuale (ipotizzare una
situazione che non si è verificata) mentre soggetti di madre lingua cinese tendono a respingere il
problema. Lo studioso cinese Au (1983) contesta questa conclusione dimostrando che con una
opportuna traduzione anche i soggetti di madre lingua cinese rispondono al problema (“Se tutti i
cerchi fossero grandi e se questo piccolo triangolo fosse un cerchio, sarebbe anch’esso grande?”).
Quindi la lingua non pone vincoli alle persone, ma è lo strumento che sostiene la mente. Il nesso tra
percezione e linguaggio è mostrato da Lftus e Palmet (1974): alla domanda “A che velocità
procedevano i veicoli quando è avvenuto l’urto?” si risponde indicando una velocità inferiore rispetto
alla domanda “A che velocità procedevano i veicoli quando è avvenuto lo schianto?”. Le parole non
sono semplici etichette, ma modelli interpretativi
Funzioni e varietà della lingua. La lingua ha le seguenti funzioni (Karl Buhler, 1934):

• funzione espressiva → le persone rendono noti i loro pensieri, le loro emozioni, il loro
vissuto “privato” (ad es. contesto poetico);
• funzione appellativa → le persone si rivolgono agli altri tentando di modificarne la mente
o il comportamento (pubblicità, manifesti politici, ecc.)
• funzione rappresentativa → si descrive un mondo di riferimento (testi scientifici)

Altre funzioni della lingua sono (Roman Jacobson, 1963):

• funzione fatica → si parla per il semplice piacere di farlo e per rinsaldare le relazioni
• funzione poetica → attribuire valore estetico a certi risultati della produzione verbale
• funzione metalinguistica → parlare si riflette sulla lingua

La lingua è il prodotto delle pratiche comunicative delle persone, fotografandone la grande varietà.
Tale varietà è connessa all’evoluzione temporale (locuzioni arcaiche o appena coniate), alla
distribuzione dei parlanti sul territorio (dialetti), alla differenziazione delle situazioni e dei tipi di
relazione che si stabiliscono tra i parlanti. Quest’ultima variazione è regolata dalla definizione dei
registri, ovvero da modalità espressive come quella “informale” (con grammatica “a maglie larghe”)
e “formale”. Un altro tipo di variazione è rappresentato dalle “lingue settoriali” che incorporano
l’esperienza acquisita in un determinato settore (giuridico, medico, ecc.). Ogni lingua settoriale rende
operativo il principio di differenziazione psicologica del “noi verso loro” (noi = le persone che parlano
una certa lingua settoriale, loro = gli altri).
Il farsi del discorso nella conversazione. Con la conversazione, gli uomini gestiscono il
progetto di dare un senso al mondo e a loro stessi. Il discorso è una attività di enunciazione di senso,
ancorata ad un orizzonte culturale di attese condivise e specificate di volta in volta da un determinato
contesto. L’approccio di considerare il contesto in cui avviene la conversazione, si ispira all’enfasi
posta da alcuni filosofi del linguaggio (Austin, Searle e Grace) sul carattere attivo e negoziale della
comunicazione verbale.
Da un punto di vista psicologico, il senso del parlare è nel tipo e nella modalità di azione sociale a cui
gli individui danno corso. Ci si riferisce ad un contesto, per trasformare in atti comunicativi le
potenzialità di senso offerte dalle varie componenti del linguaggio.
La natura del contesto è spazio-temporale: se le persone condividono ciò che possono sperimentare
nel mondo qui ed ora, allora possono interagire linguisticamente (Slama-Cazacu, 1961). La logica del
discorso è sociale poiché il contesto è anche un ambiente socio-relazionale-culturale, anche se si
verifica come pratica individuale (cioè che dice il signor Tizio).

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Il discorso è stato anche studiato come tale, nei suoi meccanismi. La turnazione è l’insieme di regole
che le persone hanno interiorizzato al fine di controllare reciprocamente il modo in cui alternarsi
durante il discorso.

Sacks, Schegloff e Jefferson (1974) individuano tre procedure:

1) se il parlante seleziona il suo successore è tenuto ad interrompersi (Che ne pensi


Giovanna?)
2) se non è il parlante a scegliere chi deve intervenire, uno dei partecipanti può prendere
autonomamente la parola, approfittando di una breve pausa fatta dall’altro, interrompendolo
bruscamente o sovrapponendone la voce;
3) se nessun altro interviene, il parlante può continuare a parlare ma non è tenuto a farlo

L’alternanza permette lo svolgimento della conversazione che, per ampi segmenti, avviene
liberamente. Ogni conversazione avviene secondo modalità differenti che dipendono da vari fattori
quali il contesto, il numero dei partecipanti, il tipo di relazione che esiste tra di essi; una comitiva di
amici, gli ospiti di un talk-show, un gruppo di ricercatori conversano in modo alquanto differente. Vi
sono elementi costanti nella conversazione, quali le formule di apertura e di chiusura e quelle che
servono a stabilire il reciproco posizionamento nell’interazione. Durante queste fasi vengono
applicate procedure di routine, in modo da liberare risorse attentive.
Un altro fenomeno è la “sequenza complementare” (o coppia adiacente), una struttura che si ha
quando quello che uno dice ha un alta rilevanza condizionale su ciò che dirà l’altro (ad es. il saluto, le
scuse, i complimenti). Il mancato rispetto delle aspettative dovute alla sequenza è caricato di senso
(ad es. “se non ricambia il saluto è in collera con me”).
La conversazione è possibile per il “principio di cooperazione”, in base al quale ognuno dei
partecipanti fornisce il suo contributo così come pensa che sia richiesto per realizzare lo scopo del
parlare insieme.
Tale principio impegna i parlanti nell’applicazione inconsapevole di alcune regole (Paul Grice, 1975):

1) massimo della quantità (non essere ne troppo reticente, ne troppo ridondante);


2) massimo della qualità (essere sincero e affidabile);
3) massimo della relazione (essere pertinente);
4) massimo del modo (essere chiaro e non ambiguo, evitare formulazioni oscure e
disordinate).

Questa struttura esiste in tutti i tipi di discorso, poiché ciascuno riconosce implicitamente l’altro come
meritevole di considerazione in quanto ne trova ragionevoli gli scopi, anche quando si tratta ad es. di
competizione o inganno. La forza dell’impianto è tale da dare un senso anche alla violazione di una
delle sue strutture. Le tattiche della retorica, come la metafora e l’ironia, funzionano perché le
persone sono capaci di capire ciò che non viene detto.
L’andamento della conversazione è regolato in automatico, perché in generale i partecipanti
preferiscono non sovraccaricarla con il significato di ciò che stanno facendo. Tuttavia qualche volta
vengono inseriti dei frame metacomunicativi (come ad es. “Stavo scherzando”, “Dici sul serio?”), che
rendono visibile che i parlanti sono impegnati nell’azione comune del parlare.
L’immagine di se che un interlocutore vuole offrire agli altri è indicata dalla frequenza e dall’ampiezza
dei suoi interventi e dallo stile conversazionale adottato che denotano personalità remissive,
estroverse, dominanti, ecc.
La nozione di atto linguistico (John Austin, 1962) è preliminare ad ogni indagine interessata alla
dinamica delle interazioni verbali. La teoria standard distingue varie modalità di realizzazione
dell’atto linguistico:
1) atto locutorio (atto di dire qualcosa) organizzando dei contenuti proposizionali;

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2) atti illocutori (ciò che si fa nel dire qualcosa) con i quali l’espressione verbale è
modellata da una certa forza (ad es. tono della voce che può esprimere ordini, asserzioni,
domande) in base alla quale il parlante assume che siano riconoscibili le sue intenzioni;
3) atto perlocutorio (ciò che si fa con il dire qualcosa), poiché non avrebbe senso
parlare se non si mirasse a produrre degli effetti sugli altri e su di sé (ad es. persuadere,
istigare, allarmare, intimorire, consolare).
Gli atti perlocutori riguardano la dimensione affettiva del parlare (ad es. sensazione di liberazione
quando si confessa una colpa o si rivela un segreto).
L’atto linguistico può realizzarsi in due forme:
a) diretta, quando c’è congruenza tra il significato delle parole e lo scopo per cui sono
state prodotte (ad es. “Che ora è?” per conoscere l’orario);
b) indiretta, quando non c’è congruenza immediata tra le parole e lo scopo (ad es. “Hai
l’orologio?”).
Anche se il più delle volte usiamo le forme indirette per mascherare le nostre reali intenzioni, esse
risultano appropriate in molti contesti (come ad es. nel caso della cortesia). La griglia concettuale
dell’atto linguistico è stata criticata (Anolli e Ciceri, 1995 Mininni 1992) soprattutto per il concetto di
“forza dell’atto illocutorio” non è definito chiaramente e non basta a far trasparire l’intenzione del
parlante. Infatti essa dipende dal contesto in cui viene prodotto l’atto. Ad es. (Speber e Wilson,
1986): solo dallo scambio di battute: “Vuoi un caffé?”, “Mi terrebbe sveglio…” non si capisce se
l’offerta è stata accettata oppure no. Questo dipende dal contesto (se devo andare a dormire, se
devo affrontare un lungo viaggio, ecc.).
Le forme espressive consentono ai parlanti di compiere quasi qualsiasi atto illocutorio e ogni
intenzione illocutoria può prendere forma in qualsiasi modo di dire. La nozione di “atto linguistico”
rende evidente che la comunicazione verbale è l’ambiente in cui gli individui forgiano i loro strumenti
cognitivi per intervenire sulla realtà.
Accordi e conflitti. Il prototipo degli eventi comunicativi è la relazione di coppia (uomo-donna,
padre-figlio, ecc.). La storia delle persone è riconducibile alla dinamica con cui esse costruiscono
insieme il significato di ciò che le coinvolge. Watzlawick (1967) in “Pragmatica della comunicazione
umana”, mette appunto alcuni principi di tale dinamica, evidenziando che alcuni disturbi nella
relazione di coppia sono l’effetto di routine comunicative che si basano su paradossi pragmatici
(ovvero richieste irrealizzabili). In generale le persone possono non concordare sul modo di attivare
gli schemi interpretativi degli eventi comunicativi.
Si deve tener conto che:

1) Non si può non comunicare: due persone che condividono un ambiente di riferimento sono
costrette ad interpretarsi:
2) Ogni evento comunicativo è bifacciale, in quanto veicola contenuti (fornisce notizie) e
registra relazioni;
3) L’evento comunicativo può essere segmentato in fasi differenti, spesso non coincidenti
(punteggiatura);
4) Le persone possono comunicare usando sistemi di segni retti da logiche differenti (ad es.
lingua – segni “digitali”, arbitrari – e mimica – segni “analogici”, motivati);
5) Ogni evento comunicativo posiziona i partecipanti nella dimensione del potere
interpersonale;
6) Ogni evento di comunicazione interpersonale ha carattere sistemico, per cui gli effetti di
certe posizioni, retroagiscono sulle loro cause

Il significato di ciò che avviene in un incontro è dialogico, cioè richiede una costruzione congiunta
(Bachtin, 1975).
Di per sé il conversare richiede un impegno a cooperare, indipendentemente dagli scopi che i parlanti
si prefiggono. Ad es. per litigare, bisogna parlarsi con intenti lesivi. Tuttavia si può sempre sbagliare

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nell’attribuire agli altri certe intenzioni o nel pensare che gli altri attribuiscano a noi certe intenzioni.
Quando si cerca l’intesa, i discorsi costruiscono mondi che non sono in contrasto tra di loro perché
ciascuno si fa carico del vissuto dell’altro.
A volte le persone si parlano per mostrare quanto lontane siano gli interessi che giustificano le loro
opinioni, anche se alcune forme di conflitto possono favorire la conoscenza reciproca e l’adattamento.
In generale il conflitto si manifesta con attacchi all’interlocutore (ad es. interrompendolo, tendendogli
trappole comunicative, sabotando le sue intenzioni, non avvalorando i suoi presupposti, e
squalificandolo come interlocutore così da ridurlo al silenzio (Mizzati, 1998).
Capire per capirsi. Le persone non si parlerebbero se non avessero almeno l’illusione di capirsi. La
competenza recettiva della lingua è più ampia e precoce di quella produttiva. Di solito conosciamo
più parole di quante non ne usiamo, sappiamo riconoscere il valore delle figure retoriche prima di
imparare ad usarle. Quando ascoltiamo, si attivano contemporaneamente diverse procedure. La
mente ricostruisce una rappresentazione dei concetti del parlante, mettendo insieme sia le
informazioni provenienti dall’esterno (“bottom-up”) sia quelle provenienti dal sistema percettivo
(“top-down”).
Come dimostra l’analisi spettrografica, in cui la suddivisione in parole non segue la forma dell’onda
sonora, la comprensione non è una semplice registrazione di fenomeni fisici. Per capire occorre
essere vigili, avere accesso al lessico ed alla propria conoscenza del mondo, di individuare
informazioni implicite e di anticipare la conclusione del discorso.
Anche la comprensione del discorso è guidata dal principio di cooperazione, poiché per dare un senso
alla conversazione, ognuno è interessato a farsi capire attenendosi alle massime conversazionali (non
essere reticente, ridondante, ecc. essere sinceri, pertinenti, ecc.). La violazione delle massime
conversazionali, conduce al fraintendimento e quindi al fallimento dello scopo della conversazione
(miscommunication).
Vi sono delle situazioni in cui il principio di cooperazione viene accantonato in maniera implicita o
esplicita:

• occultando la violazione delle regole comunicative come nella menzogna, nei raggiri, nelle
seduzioni o negli inganni, che sono situazioni in cui si nasconde il vero intento;
• rendendo esplicita la violazione, al fine di chiarire meglio quello che si vuole dire sempre
ritenendo che l’interlocutore capisca il valore strumentale della violazione (Infantino, 2000) –
(come ad esempio la frase ironica “Che bella giornata!” detta in un giorno di pioggia);
• ricorrendo a forme equivoche (Bavelas, 1990) nelle situazioni in cui il parlante deve optare
tra due possibilità ritenute entrambe negative (perché ad es. una calpesta la verità e l’altra
lede l’autostima) e invece ne sceglie una terza ambigua, lasciando all’altro l’intepretazione.
Dire per spiegarsi. Fare discorsi è una attività ugualmente complessa rispetto a quella di capirli.
Per certi scopi può essere utile rintracciare gli indizi delle intenzioni legate alle proposizioni,
descrivendo gli “atti linguistici” che le costituiscono. Per altri scopi può essere utile considerare i
vincoli derivanti dal fatto che le proposizioni rientrino in un certo genere discorsivo (colloqui di
lavoro, raccontare barzellette, ecc.), che suggerisce la condotta verbale che conviene avere (cioè
cosa dire e cosa non dire).
Gli “universi del discorso” circoscrivono quello che noi possiamo dire e intendere con gli altri in vari
ambiti (scientifico, politico, morale, ecc.). La mente è impegnata ad elaborare una versione degli
eventi ed a presentare resoconti che cercano di farsi valere, attraverso la composizione degli atti
linguistici nella struttura di un genere discorsivo. Le principali procedure (o moduli espressivi) sono il
“narrare” e l’”argomentare” (Mininni, 2000) e qualsiasi attività linguistica rappresenta un equilibrio
fra questi due moduli. In effetti il parlare corrisponde a due modi di funzionare della mente
Il testo argomentativi rivela un modo di “pensare-parlare” che consiste nel fornire dei dati a sostegno
di una conclusione, attraverso gli atti di “motivare”, “giustificare”, “provare” e “dichiarare”, che sono
richiesti dalle esigenze sociali di “argomentare”. Il testo narrativo rivela un modo di “pensare-
parlare” che impegna a rispettare la consequenzialità della vita secondo una “grammatica della
storia”, riconoscibile in varie situazioni (resoconto della giornata, articolo giornalistico, ecc.).

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L’attività del parlare identifica le persone come attori sociali (Antaki, Widdicomb, 1998) perché è
modellata all’interno di copioni culturali (dai generi discorsivi) e che rende trasparente l’architettura
dell’intersoggettività che obbliga a spiegare agli altri e a se stesso per quali significati è impegnato a
giocare la sua vita.
Per gli psicologi contestualisti, il modello cognitivista della mente come computer è riduttivo, perché
questa non si limita solo ad elaborare dati e a calcolare probabilità, ma crea anche dei “modelli” su
come interagire con le altre menti e con il mondo (Bruner, 1990). La mente non si limita a registrare
delle situazioni, ma tenta di trovare un senso per esse. E’ questo quello che accade per l’atto sociale
del parlare, che è talmente importante da poter valere come modello per gran parte delle attività
psichiche delle persone.
Quando parla nelle varie situazioni sociali, l’individuo agisce come avvocato di se stesso cercando di
battersi per la propria versione delle cose e di renderla compatibile con quella degli altri. Anche il
pensare è un dibattimento tra un argomento (“logos”) ed il suo opposto (“anti-logos”), per cui
aderire alla metafora dibattimentale/oratoria vuol dire spiegare ciò che facciamo non solo con i
modelli di reti neurali, ma anche attraverso i vincoli e le strategie della negoziazione del significato in
un contesto storico (individuale) – per cui tutto ciò che intendiamo in un dato momento è sempre
l’esito di un confronto argomentativo. Nel modello oratorio della mente, pensare è discutere con sé e
contro di sé, in un movimento inarrestabile di posizioni. Questo modello ha come conseguenza la
rivalutazione della “metafora”, concepita come modo di accrescere e di raffinare la capacità di capire
le cose (ad es. come nella frase “La disoccupazione è un cancro sociale”).
Esito e quindi esisto. Quando le persone parlano, il ritmo dell’eloquio non è sempre costante.
Parlare implica tutta una serie di attività mentali (individuare lo schema sintattico, scegliere le unità
lessicali, monitoraggio della correttezza grammaticale, valutazione del contesto) che devono
svolgersi in modo sincrono rispetto al “farsi del discorso”. Per compiere queste attività, a volte è
necessaria una pausa, che può essere:

• pause vuote, più lunghe delle altre, che tendono a verificarsi prima delle parole più
importanti del discorso ed indicano un controllo metacognitivo che la mente attiva nelle fasi
decisive (“Una specie di …”, “Come dire …”);
• pause piene, brevi interruzioni che vengono coperte da vocalizzazioni (“hmm”) o da
segregati verbali;
• pause di giuntura, che sono attimi di silenzio che si verificano quando il parlante deve
articolare sintagmi o intere frasi all’interno di un più vasto segmento testuale (Goldman-Eiser,
1968).

Il parlare dunque, comporta delle forme di esitazione. Esse possono verificarsi, soprattutto per
persone meno assertive, in diverse circostanze:

• quando il parlante non ha facile accesso alle informazioni che costituiscono il discorso (esami
all’università, testimonianze in interrogatori, ecc.);
• in situazioni di stress (paura, collera, ecc.).

L’esitazione è una dichiarazione implicita dell’essere impegnato a pensare perché l’attività cognitiva
di pianificazione e controllo del discorso richiede più tempo di quello previsto per eseguire un
progetto di frase (quello della frase in corso/che sta per essere pronunciata? Ndr).
Gli errori (lapsus) invece, sono il risultato dell’incepparsi della corrispondenza tra pianificazione ed
esecuzione del discorso. Essi consistono in anticipazioni, posticipazioni, permutazioni, fusioni
(Fromkin, 1973). L’ipotesi di Freud sul fatto che gli errori siano una manifestazione dell’inconscio è
più suggestiva, ma meno controllabile empiricamente.
I fenomeni di esitazione non raggiungono il livello di consapevolezza, perché le risorse attentive sono
impiegate nel parlare. Il parlante ha consapevolezza della sua esitazione, solo nei casi in cui non

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riesce a trovare il termine che gli serve in quel momento, ma dispone di molte informazioni su di
esso (significato, lettera iniziale, numero di sillabe, ecc.).
I vari fenomeni di esitazione nel parlare, indicano come le persone siano attivamente impegnate
nelle pratiche discorsive (Edwards, 1997).
Le patologie del linguaggio si distinguono per durata (temporanee, legate ad un certo periodo
della vita – disfonie, dislalie, ecc. – o permanenti) o per ubicazione (periferiche se riguardano
imperfezioni nella forma dell’apparato vocale-uditivo (ad es. palatoschisi), centrali se sono a carico
delle aree della corteccia cerebrale).
Le patologie più importanti sono:
1) la sordità;
2) le balbuzie (inceppamento continuo dei meccanismo fonoarticolatori, dovuto a cause organiche –
cattivo funzionamento della respirazione – o psicologiche – insicurezza, ecc. – );
3) dislessia (difficoltà di traduzione dei fonemi in grafemi, dovuta a carenze nella percezione visiva,
incertezza nell’assimilazione dello schema corporeo e nella riproduzione dei ritmi, difficoltà nei
rapporti familiari, turbe emozionali);
4) le afasie, ovvero disturbi specifici causati dalla lesione di specifiche aree corticali
Oralità, scrittura, multimedialità. Per la cultura orali, i discorsi sono eventi o modi dell’agire e
come tali sono intrisi di potere. Per la cultura scritta, i testi sono una rappresentazione una
conoscenza del mondo e di sé.
L’invenzione della scrittura ha modificato radicalmente il modo di comunicare perché:

• stabilisce il primato sensoriale della vista rispetto a quello dell’udito (McLuhan, 1964);
• la dinamica dell’oralità implica una propensione al coinvolgimento, quella della scrittura offre
la possibilità di un maggiore distacco (Ong, 1982);
• la costruzione di modelli generali, il ragionamento sillogistico, l’abilità dell’autodescrizione
sono molto meno frequenti tra gli analfabeti (Lurija, 1974). Il sillogismo diventa più plausibile
quando si è in grado di leggere, ovvero di “vedere” come opera il parlare

Esistono due possibili strategie di lettura:

• la via “lessicale” → nel riconoscere una parola, il lettore sa anche come si pronuncia.
Questa via è praticata nel leggere le parole irregolari (glicine, chattare, ecc.);
• la via “fonologica”→ impegna il lettore a combinare i risultati di una verifica nel sistema di
conversione grafema-morfema (Tabossi, 1999). Questa via è praticata per leggere parole non
disponibili nel lessico mentale.

Le abilità congiunte del leggere e dello scrivere, generano una nuova forma di soggettività, in quanto
è possibile sperimentare un maggior controllo sull’attività sociocognitiva di questo nuovo modo di
comunicare (Forrester, 1996). Oltre alle regole di corrispondenza grafemi-morfemi, si tratta di:

1) assimilare le opportunità ed i vincoli della testualità;


2) favorire la tendenza astrattiva della capacità di simbolizzazione. Vigotskij considerava lo
scrivere come l’algebra del parlare, per cui queste abilità comportano delle trasformazioni nel
modo di funzionare di tutti i processi cognitivi;
3) instaurare un modello di pianificazione dinamica e autocontrollata dell’attività verbale

Le abilità di lettura e scrittura favoriscono anche una consapevolezza metalinguistica (Pinto, 1999)
che consiste nella capacità di distinguere tra il significato di un segno linguistico ed il referente di un
segno linguistico (ad es. se ad un bimbo si chiede se la parola cane morde, la risposta sarà
affermativa). Tale consapevolezza è favorita dalla multimedialità (fusione tra il linguaggio grafico,
sonoro, iconico) che caratterizza la maggior parte delle pratiche comunicative attuali.

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La costruzione sociale del senso. E’ opinione comune che ciò che le persone dicono e il modo in
cui lo dicono, riveli l’appartenenza ad un certo tipo di società. Le scelte linguistiche costruiscono
l’identità sociale e personale degli individui, poiché evidenzia come essi si collocano nella rete dei
resoconti che la società mette a disposizione (Harrè e Gallett, 1994).
L’ordine del discorso (Foucacult, 1970) corrisponde alla costruzione sociale del senso in molti modi:

• la pratica sociale del parlare, genera gli schemi cognitivi con cui le persone danno un assetto
(gerarchico) alla loro esperienza del mondo;
• le varie forme del parlare stabiliscono il “senso comune”, consentono agli individui di vivere
in un universo consensuale in cui tutti sanno di potersi avvalere di elementi comuni;
• I discorsi rendono operative le rappresentazioni sociali, ovvero le modalità conoscitive con
cui gli individui negoziano il significato da dare alla realtà.

I discorsi quotidiani sono veicoli di “ideologie” (sistemi dominanti di idee/mascheramento della realtà
al fine del controllo sociale) poiché collegano gli individui alla struttura sociale. Veicoli delle ideologie
sono gli stereotipi, generalizzazioni eccessive che esprimono una valorizzazione (positiva o negativa)
di oggetti socialmente rilevanti. Gli stereotipi alimentano i pregiudizi, cioè interpretazioni
ingiustificate adottate dagli individui o dai gruppi, per proteggersi dalla paura degli altri. La forma più
pericolosa di pregiudizio riguarda l’appartenenza etnica, che per gli individui rappresenta la forma di
identificazione primaria.
Un interpretazione ideologica è operante gia quando le persone etichettano i gruppi o i fatti
socialmente rilevanti. Ricerche hanno dimostrato che esiste una tendenza sistematica delle persone
ad esprimere in un certo modo il favoritismo verso il proprio gruppo di appartenenza (LIB – Linguistic
Intergroup Bias) (Maas, 1989), Il “positioning” (posizionamento) rispetto ad un certo gruppo,
influenza l’”accounting” (resoconto) dei fatti negativi. Ad es. si usa la forma passiva o termini
concreti e specifici, per descrivere il fatto negativo compiuto dal gruppo per cui si simpatizza.
Viceversa si userà la forma attiva e termini generici.
La collocazione sociale delle persone ne definisce anche il loro status enunciativo e come distribuire i
diritti ed i doveri reciproci (ad es. come nel rapporto insegnante-allievo, medico-paziente, ecc.). Agli
estremi, l’asimmetria comunicativa può essere attenuata (come nel rapporto insegnante-allievo)
oppure può essere marcata da una forte dinamica emotiva (come nel rapporto uomo-donna).
Basil Bernstein (1971), sociolinguista inglese, ipotizzando che l’appartenenza a strati sociali diversi
comportasse anche un diverso potenziale espressivo, propose la teoria del deficit linguistico”, in base
alla quale i bambini appartenenti a strati sociali più poveri disponevano di un “codice ristretto”
spendibile nell’interazione immediata e meno valido nel seguire i percorsi didattici, che richiedono un
“codice elaborato” in possesso dei bambini dei ceti medio-alti. William Labov (1972), contrastò
questa teoria e propose la “teoria della differenza”, secondo cui ogni stato sociale ha il proprio
potenziale comunicativo adeguato per affrontare le sue specifiche condizioni di vita.
Il potere di cui ognuno si rivela dotato nel parlare non è una qualità stabile, ma è legata ad una
immagine di Sé esposta a critiche e revisioni perché deve essere sempre ratificata dagli altri. La
capacità di influenzare gli altri è costantemente negoziata, perché ognuno è tenuto a verificare se la
propria interpretazione delle cose è accettata dagli altri, se il proprio ruolo è riconosciuto, ecc.

Capitolo 11 – Intelligenza e pensiero

Oltre che a percepire, selezionare, elaborare e comunicare le informazioni, la mente è impegnata in


attività che servono per andare oltre l’informazione data, al fine di affrontare e risolvere problemi
mai incontrati prima, di fare previsioni, di scoprire cose nuove. Tutte queste attività sono
comunemente chiamate “pensare”. Alla base del pensiero c’è l’intelligenza.
Alcuni studiosi (Sternberg, 1985) hanno cercato di individuare le teorie implicite dell’intelligenza,
ovvero complessi di opinioni che ogni individuo possiede circa l’intelligenza. I comportamenti
rappresentativi dell’intelligenza che citati più frequentemente sono: capacità di ragionamento logico,

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passione per la lettura, capacità di comprendere ciò che si legge e buon senso. Raggruppando i dati,
sono emerse: capacità di risolvere i problemi, abilità verbale, competenza sociale. Quindi
l’intelligenza è collegata ad aspetti cognitivi, sebbene nelle culture non occidentali comprenda anche
caratteri non cognitivi (ad es. la prudenza, il rispetto delle norme, dei divieti e delle tradizioni, la
saggezza delle persone anziane).
Ricerche (Azuma e Kashiwagi, 1987) tra la popolazione giapponese, mostrano che l’intelligenza viene
contraddistinta dalla capacità di pensare velocemente, di cogliere l’essenziale e di prendere
rapidamente decisioni, dalla capacità di ascoltare, dalla calligrafia e dai rendimenti scolastici. Quindi
sembra che il concetto di “intelligenza” sia relativo al contesto culturale.
Le persone usano le loro teorie sull’intelligenza per valutare l’intelligenza degli altri. In un
esperimento (Sternberg, 1987) veniva fornito dagli intervistati, un punteggio di intelligenza più alto a
persone immaginarie nella cui descrizione erano dotate delle caratteristiche ritenute salienti
dell’intelligenza.
Tipi di intelligenza. Le prime teorie ritenevano che l’intelligenza fosse una capacità generale ed
omogenea che si manifesta in modo simile nei diversi campi in cui l’individuo si applica. Binet e
Simon (1905) strutturarono i test che il governo francese aveva commissionato per valutare
l’intelligenza dei bambini per poter inserire quelli con difficoltà in classi differenziate, in modo da
rilevare l’età mentale dei soggetti.
Un soggetto ha età mentale x se risponde adeguatamente alle prove a cui in media sanno rispondere
i soggetti di età cronologica x. Per cui l’intelligenza veniva valutata come differenza tra età mentale
ed età cronologica. Il Quoziente di Intelligenza (QI, Stern 1912) è il rapporto tra età mentale ed età
cronologica moltiplicato 100.
L’idea che l’intelligenza non fosse una capacità generale, si affermò grazie all’impostazione
fattorialista, secondo cui l’intelligenza è considerata come una struttura articolata composta da
“fattori”. Esperimenti mostrarono che in uno stesso gruppo i soggetti rispondevano con prestazioni
differenti, a prove volte ad individuare differenze individuali nell’esecuzione di vari compiti.
Per quanto riguarda i fattori che compongono l’intelligenza, esistono varie teorie.
• Spermann (1923), ipotizza l’esistenza di un fattore generale g, e di alcuni altri fattori
specifici per varie abilità. L’intelligenza sarebbe determinata principalmente dal fattore g,
integrato con gli altri fattori.
• Cattell (1971) distingue tra intelligenza fluida (abilità indipendenti dall’esperienza e dalla
cultura) ed intelligenza cristallizzata (effetto dall’acculturazione, delle conoscenze acquisite,
dell’esperienza).
• Vernon (1972), distingue un attitudine verbale-scolastica (linguaggio e calcolo) e una
pratico-operativa (abilità spaziali e manuali).
• Thurstone (1938), individua 5 attitudini: ragionamento astratto, ragionamento spaziale,
abilità numerica, fluidità di pensiero, significato verbale.
Gardner (1983), seguendo la prospettiva secondo la quale l’intelligenza si differenzia in base
all’ambito in cui si trova ad operare, ha formulato la teoria delle “intelligenze multiple”. In un
approccio simile a quello delle teorie implicite, l’intelligenza sarebbe composta da abilità distinte, ma
non da fattori specifici per dominio. La specificità delle forme di intelligenza sarebbe determinata
biologicamente (in funzione della specifica area della corteccia) e psicologicamente (in funzione del
tipo di stimolo, del modo di elaborarlo, dalle strategie di elaborazione, alle caratteristiche delle
risposte fornite).
Gardner distingue vari tipi di intelligenza:
1) linguistica;
2) musicale.
3) logico-matematica;
4) spaziale;
5) corporea (usare il proprio corpo per fini espressivi);
6) intrapersonale (capire se stessi);
7) interpersonale (cogliere la personalità e le intenzioni altrui);

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8) naturalistica (risolvere problemi traendo spunto dalle caratteristiche dell’ambiente
naturale);
9) esistenziale (cogliere il significato della vita e della realtà).

Architetture dell’intelligenza. L’intelligenza può essere considerata non solo composta da


elementi posti sullo stesso piano, ma anche da elementi posti a livelli differenti. Guilford (1967)
ipotizza che le capacità mentali siano organizzate secondo tre assi:
• l’asse delle operazioni, che comprende le attività di base compiute dalla mente con le
informazioni ricevute dal sistema percettivo-sensoriale (cognizione, memoria, produzione
convergente, produzione divergente e valutazione).
• l’asse dei contenuti, che fa riferimento alla natura delle informazioni (contenuto figurativo,
simbolico, semantico e comportamentale)
• l’asse dei prodotti cioè i risultati dell’applicazione delle operazioni ai contenuti (unità, classi,
relazioni, sistemi e trasformazioni).

Si definiscono quindi 120 possibili combinazioni tra le componenti dei 3 assi.


Stenberg (1983), propone una teoria “triarchica” dell’intelligenza, che si compone di tre sotto-teorie:
• teoria contestuale, che definisce l’intelligenza in rapporto all’ambiente;
• teoria esperenziale, che studia le relazioni tra l’individuo e i compiti che deve affrontare;
• teoria componenziale, che cerca di individuare le componenti dell’intelligenza

Le componenti sono singole operazioni mentali e sono organizzate in base a tre livelli:
• meta-componenti (operazioni di pianificazione, controllo e valutazione dei processi
cognitivi); sono responsabili dell’organizzazione generale del pensiero;
• componenti di prestazione (implementazione dei processi cognitivi – ad es. confronto,
inferenze);
• componenti di acquisizione di conoscenze, capacità di operare in modo selettivo
nell’identificazione, nella codifica, nel confronto e nella combinazione di informazioni nuove;
utili per affrontare problemi che si presentano per la prima volta.
Pensare per analogie. Un modo per affrontare situazioni nuove consiste nel cercare,
nell’esperienza passata, riferimenti che possono essere trasferiti. Questo processo prende il nome di
transfer e un tipo particolare di transfer è il ragionamento per analogia. Tale modalità di
ragionamento consiste nell’applicare ad una situazione nuova, conoscenze già acquisite in una
situazione precedente tramite un processo che permette di individuare una serie di corrispondenze
tra i due episodi. Un tipo di analogia è l’”analogia di proporzione” che si esprime con A:B=C:D (ad es.
coperchio:pentola=tappo:?). Secondo Sternberg (1977), le situazioni di questo tipo sarebbero risolte
in sei fasi:
1) codifica, ovvero percezione dei termini dell’analogia;
2) inferenza, ovvero individuare la relazione tra A e B;
3) proiezione (mapping), comprensione della relazione tra A e C;
4) applicazione, come l’inferenza solo che avviene tra C e i possibili valori di D;
5) giustificazione, cioè verifica e spiegazione della risposta;
6) risposta.

L’analogia di proporzione si verifica solo nelle situazioni sperimentali. Nella vita reale, le
problematiche da affrontare sono molto più complesse. Per avvicinare la situazione sperimentale a
quella reale, si utilizza una procedura in due fasi:
• fase di acquisizione, nella quale viene presentato uno stimolo (fonte o “source”) che
contiene idee utili alla soluzione del problema successivo;

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• fase di problem-solving, nella quale viene presentato un problema (“target”) il cui contesto
è molto diverso da quello della fase precedente, che può essere risolto applicato un principio
contenuto nella fonte

Esperimenti eseguiti con tale metodo (Gick e Holyoak, 1980 – esempio del generale e del pompiere,
box 8.1) hanno individuato tre fasi nella soluzione dei problemi per via analogica:
1) costruzione della rappresentazione mentale del source e del target;
2) proiezione del source sul target, che inizia con il rilevamento di corrispondenze tra le due
rappresentazioni;
3) generazione di un piano di soluzione per il target, attraverso le azioni descritte nel source

Il piano di soluzione (3) è inteso come uno schema, una struttura organizzato gerarchicamente con
uno stato iniziale, un obiettivo da raggiungere e la strategia da utilizzare. L’analogia è utilizzata
quando, ad un livello sufficiente di astrazione (o di “profondità”), source e target condividono lo
stesso schema. Le corrispondenze profonde sono più facili da individuare se source e target hanno
qualche somiglianza superficiale. Gick e Holyoak ritengono che il source può essere rappresentato
con diversi livelli di astrazione e ciascun livello ha un grado di corrispondenza diverso con i possibili
target. Maggiore è l’astrazione più alto è il grado di completezza dell’analogia, ma se l’astrazione
porta alla soppressione delle differenze la somiglianza analogica diminuisce, perché si tende
all’identità[X1].
Il ragionamento induttivo. Un altro modo di ragionare è quello di mettere insieme più esperienze
per ricavarne quegli elementi comuni che ci permettono di risolvere una situazione. Questo processo
si chiama ragionamento induttivo: da vari casi particolari, si ottiene una regola generale[X2]. Un
esempio di ragionamento induttivo è la formazione dei concetti, che riassumono tutti gli elementi che
vi sottostanno.
Sono stati predisposti degli esperimenti, per determinare il processo di formazione e le
caratteristiche dei concetti:
• Hull (1920), mostrava degli ideogrammi cinesi nei quali era sempre presente un elemento,
dichiarava il concetto di cui erano esemplari, e chiedeva ai soggetti di determinare quale
elemento dell’ideogramma definiva il concetto. Si obiettò sul fatto che i concetti non vengono
sempre definiti da un elemento fisico-percettivo comune.
• Smoke (1932), ideò degli esperimenti nei quali l’elemento delle figure che definiva il
concetto era di tipo relazionale (ad es. distanza tra due coppie punti). Si obiettò che spesso i
concetti sono definiti da più attributi.
• Bruner (1956), mise a punto un esperimento con un mazzo di carte e ciascuna carta era
definita da quattro parametri (numero, tipo e colore delle figure e tipo di bordi) con tre
possibili valori. Stabilendo delle categorie, lo sperimentatore diceva al soggetto a quale
categoria apparteneva la carte che veniva girata e poi ad un certo punto chiedeva al soggetto
di individuare le categorie[X3]. Si obietto che le carte costituivano un universo chiuso e ben
definito.

Rosch e Mervis (1975), misero in evidenza che i concetti non sono stabiliti sulla base di un elenco di
caratteristiche, ma sono organizzati in base a “somiglianze di famiglia”. Non tutti gli esemplari sono
ugualmente rappresentativi di un concetto (la mucca è più rappresentativa della balena del concetto
di mammifero), poiché in essi vi sono degli elementi che possiedono le proprietà che maggiormente
ricorrono negli esemplari della categoria (ma che di per sé non la definiscono), mentre altri elementi
sono comuni anche ad altre categorie Il pensiero induttivo, sempre partendo da fatti particolari,
porta anche alla formulazione di ipotesi.
Un esperimento (Watson, 1960) in cui lo sperimentatore, fissa una regola, produce delle triplette di
numeri che la rispettano e chiede ai soggetti di individuare la regola, mostra quanto segue:
• i soggetti tendono a formulare delle ipotesi molto specifiche (a fronte di 2-4-6, numeri
crescenti pari, terzo numero somma degli altri due, ecc. piuttosto che numeri crescenti);

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• i soggetti tendono a produrre esempi che confermano le proprie ipotesi (es. 6-8-10 e non 5-
9-11 o 3-6-9 piuttosto che 3-6-7)

Ragionamento deduttivo. La deduzione consiste nel ricavare conclusioni particolari da


affermazioni generali. Una forma di deduzione è il “ragionamento condizionale” (se A allora B, o A
implica B), che consiste nello stabilire se un concetto generale è applicabile ad un caso particolare.
Gli errori compiuti in questo tipo di ragionamento sarebbero dovuti (esperimento con le carte di
Wason, 1966):
• alla tendenza a validare un principio attraverso casi positivi e non esempi falsificanti (A
implica B, non devo trovare anche un “se A allora non-B);
• all’affermazione del conseguente, cioè a ritenere erroneamente che se A implica B allora
anche B implica A

Tali errori sono meno frequenti se il compito viene presentato mantenendo la stessa struttura logica,
ma facendo riferimento a situazioni concrete (es. del viaggio)
Un'altra forma di deduzione è il “sillogismo categoriale”, che è del tipo “se A implica B e se B implica
C, allora A implica C (se tutti i rombi sono parallelogrammi, e se tutti i parallelogrammi hanno le
diagonali uguali, allora tutti i rombi hanno le diagonali uguali). Si possono produrre effetti psicologici
che portano a degli errori:
• effetto atmosfera, che comporta una conclusione errata se le premesse sono entrambe
affermazioni su parti di insiemi (ad es. “Alcuni studenti sono permalosi, e alcuni permalosi
sono antipatici, non implica che alcuni studenti sono antipatici).
• Una conclusione scorretta dal punto di vista logico può essere ritenuta valida se è conforme
a ciò che accade nella realtà; viceversa una conclusione valida dal punto di vista logico può
non essere ritenuta valida perché non conforme.

Ragionamento probabilistico e presa di decisione. Il ragionamento probabilistico consiste


nel compiere previsioni sul verificarsi di certi eventi e di prendere decisioni sulla base di queste
previsioni. Il ragionamento probabilistico non segue le stesse regole del calcolo delle probabilità e
della statistica, tanto che a volte si stima più probabile un evento che lo è di meno (“fallacia della
congiunzione”). Questo accade perché riteniamo alcuni enunciati (a volte i meno probabili) più
rappresentativi dell’idea che ci siamo fatti delle cose (ad es. rosso-nero-rosso-rosso e ritenuto più
probabile di rosso-rosso-rosso-rosso alla roulette, perché è più rappresentativo della casualità – in
realtà hanno la stessa probabilità).
L’errata valutazione della probabilità può dipendere anche dalla facilità con cui riusciamo a farci
venire in mente (“disponibilità”) un caso che possiede determinate caratteristiche. Ad esempio se si
chiede di stimare il numero di maschi e di femmine in una lista di nomi contenenti lo stesso numero
di maschi e di femmine, ma tra i maschi ci sono nomi famosi, allora il numero di maschi sarà
sovrastimato (e viceversa tra le femmine ci sono nomi famosi). (Tversky e Kahneman, 1983).
Le fallacie nella valutazione della probabilità possono portare a prendere delle decisioni incongruenti
con la situazione, come mostrano i seguenti esempi.
• per fronteggiare un epidemia che ucciderà 600 persone si può: a) salvare 200 persone; b)
salvare 600 persone con 1/3 di probabilità e far morire tutte le 600 con probabilità 2/3; c)
moriranno 400 persone; d) 1/3 di probabilità che nessuno muoia, e 2/3 che muoiano 600
persone. Viene scelta l’alternativa d) (Tversky e Kahneman, 1981).
• Se una persona è in un negozio dove una cravatta è venduta a 10E ed una giacca a 160E e
la si informa che in un altro negozio, la stessa cravatta è venduta a 5E, la persona si sposta
per comprare la cravatta. Se invece la si informa che la giacca è venduta a 155E, la persona
tende a non spostarsi dal negozio in cui si trova.
• Se si perde un biglietto prima di un concerto non si è disposti a ricomprarlo, mentre se si
perde denaro pari all’importo del biglietto, si è disposti a comprare un biglietto per andare al
concerto.

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Lo spazio del problema. Le varie forme di pensiero producono risultati specifici, ma è necessario
anche considerare come procede il pensiero in generale. La soluzione di un problema (secondo la
teoria HIP), richiede che vengano definiti i seguenti elementi:
1) lo stato iniziale
2) lo stato finale che si intende raggiungere
3) la gamma delle operazioni che possono essere applicate per raggiungere lo stato finale da
quello iniziale
4) le condizioni a contorno, ovvero i vincoli posti nell’applicazione delle operazioni (ad es.
vincoli sul numero di operazioni, ecc.).

Lo spazio del problema è determinato da tutti i possibili stati che sono raggiungibili a partire da
quello iniziale, applicando le operazioni. Esso è rappresentato da un grafo, i cui nodi sono gli stati
collegati con archi che rappresentano le operazioni che determinano il passaggio da un stato all’altro.
La soluzione del problema è l’insieme delle operazioni, applicate tenendo conto dei vincoli, che dallo
stato iniziale ci permettono di arrivare a quello finale (es. del problema degli Honbbit). Per trovare la
soluzione del problema è possibile utilizzare il metodo algoritmico o quello euristico.
Il metodo algoritmico consiste nell’esplorazione sistematica di tutti i possibili stati raggiungibili
applicando gli operatori, a partire da un certo stato. Si provano, in modo sistematico, tutte le vie di
soluzione possibile. Se si giunge ad un punto morto, si torna indietro e si ricomincia la procedura
dallo stato precedente. Questa strategia garantisce che una soluzione, se esiste, venga trovata.
Tuttavia le combinazioni da esplorare aumentano in modo esponenziale, rendendo difficile
l’applicazione del metodo algoritmico a problemi complessi (ad es. la mossa di una partita a scacchi).
Si utilizzano strategie euristiche, cioè metodi che tendono a ridurre il numero di combinazioni da
esplorare.
Metodi euristici.
Alcuni metodi euristici sono:
• hill climbing – tra gli stati successivi, si sceglie quello che ha una maggiore affinità con
quello finale (ad es. per raggiungere l’altezza massima si sceglie lo stato più alto), e si
termina quando non ci sono più stati migliori di quello raggiunto. Questa strategia non
garantisce il raggiungimento del risultato ottimale.
• Subgoaling – si scompone l’obbiettivo finale in obiettivi intermedi più semplici (es. delle
Torri di Hanoi)
• Riduzione della distanza (Simon, 1978) – Si seleziona l’operatore che fa passare in uno stato
“più vicino” a quello finale (presuppone l’esistenza di una misura della distanza tra gli stati). –
esempio della pesata delle 24 monete

Un altro tipo di soluzione è la ricerca all’indietro, che consiste nel partire dallo stato finale per
determinare lo stato iniziale e conoscendo le operazioni che hanno prodotto lo stato finale.
Il pensiero divergente. In altri casi è noto che ciò che è dato (lo stato iniziale) non è adeguato e
che occorre trovare una situazione migliore non bene precisata. In questi casi, nei quali sono possibili
più vie d’uscita (gradi di libertà), si parla di “pensiero divergente” in contrapposizione con il “pensiero
convergente”, che invece si utilizza quando esiste un’unica soluzione pertinente. Il pensiero
convergente cerca la soluzione nei termini in cui è definito un problema, applicando regole note,
mentre quello divergente fa riferimento all’esperienza passata cercando la soluzione anche fuori dai
termini in cui è definito il problema (ristrutturando il problema in modo differente).
Gli aspetti del pensiero divergente sono (Guilford, 1967):
1) fluidità – la capacità di produrre tante idee senza far riferimento alla loro adeguatezza;
2) flessibilità – la capacità di passare da una successione di idee ad un'altra;
3) originalità – capacità di trovare idee insolite, ovvero idee che le altre persone mediamente
non hanno;

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4) elaborazione – capacità di percorrere fino in fondo la linea di pensiero intrapresa, sino a
raggiungere una elaborazione rapportabile al problema;
5) la valutazione – capacità di selezionare le idee più pertinenti agli scopi, tra le varie prodotte

Secondo Johnson-Laird (1988) esistono due tipi di selezione delle idee nel pensiero creativo;
• neo-darwiniana, che prevede un primo stadio di generazione casuale ed un secondo nel
quale solo le idee che superano certi criteri sopravvivono;
• neo-lamarckiano, in cui la produzione delle idee è guidata da un criterio

Il brainstorming è un metodo ideato da Osborn (1957) per sviluppare la creatività in ambito


aziendale. Per la soluzione di un problema si distinguono: 1) definizione precisa del problema; 2)
raccolta di informazioni necessarie; 3) produzione e sviluppo di una serie di idee; 4) valutazione,
selezione ed applicazione delle idee. Il brainstorming interviene nei punti (3) e (4): 1) produzione di
una serie di idee, senza riguardo rispetto alla soluzione e senza giudizi o filtri di alcun genere; 2)
valutazione delle idee in base alla loro efficacia. Maggiore è la varietà di idee, tanto più alta è la
possibilità di trovare soluzioni interessanti.

Associazioni creative di idee. Non sembra che le caratteristiche viste siano in grado di spiegare il
pensiero creativo. Mednick (1962) individua il pensiero creativo con la capacità di creare, in modo
utile, associazioni “remote” (non usuali) tra idee. La visione associazionistica della creatività è stata
ripresa da vari autori.
Weisberg (1986) sostiene che i soggetti creativi ricercano nella propria memoria e in modo attivo,
informazioni per immaginare possibili soluzioni. Simon (1984) postula l’esistenza di “elementi
mentali” che combinati danno luogo ad una serie di configurazioni. Più sono numerosi gli elementi,
maggiore è il numero delle combinazioni che si possono creare e minore è la forza dell’associazione
tra vari elementi (quindi sono più probabili le associazioni inusuali) Schank (1988) sostiene che il
modo più economico per trattare uno stimolo è quello di trattarlo allo stesso modo di uno familiare; il
pensiero creativo invece tratta lo stimolo riportandolo a situazioni simili, ma abbastanza diverse.
Si può incrementare la creatività con tecniche di tipo associazionistico. Il metodo delle relazioni
forzate (Arnold 1962) che pone in relazione due elementi al fine di farne scaturire un terzo (ad es.
leggere e letto) e l’analisi morfologica (Zwicky, 1969) che consiste nello scomporre il problema nei
suoi aspetti principali e nel combinare casualmente gli elementi ottenuti (es. del mezzo di trasporto).
Il pensiero produttivo e la ristrutturazione. Il pensiero produttivo consiste nell’individuare
qualcosa di nuovo a partire da ciò che è dato. Secondo la Gestalt, vi è un tipo di pensiero
“riproduttivo” che non dipende dalla struttura della situazione e che permette di riprodurre
meccanicamente procedimenti appresi in passato. Al contrario, il pensiero produttivo opera quando si
afferra il significato della situazione e si riesce ad impostare nuovi termini (Wertheimer, 1945). Ad
es. se per calcolare il volume di un solido applico una formula, uso il pensiero riproduttivo; se invece
calcolo il volume in un altro modo uso il pensiero riproduttivo.
Il pensiero produttivo non nasce da ricordi di situazioni passate o da tentativi, ma nasce da
un’illuminazione (insight) che pone il problema sotto un’altra luce. Classiche sono le osservazioni di
Koheler sul comportamento delle scimmie, nell’attirare il cibo che non riuscivano a raggiungere,
congiungendo improvvisamente i due bastoni che avevano a disposizione.
Il pensiero produttivo permette di comprendere la struttura profonda della situazione, consentendo di
riorganizzare i suoi elementi in maniera nuova, con nuovi ruoli e diverse prospettive, giungendo
quindi ad una ristrutturazione. La ristrutturazione non è riconducibile ai modelli associazionistici e
neppure all’ottica Human Information Processing, poiché esistono dei cambiamenti cognitivi di tipo
qualitativo.
I maggiori ostacoli al pensiero produttivo sono:

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• la fissità (Kanisza, 1974) di alcuni elementi del problema, che mostrano una certa resistenza
alla trasformazione e paiono come immutabili. Un tipo particolare di fissità è la fissità
funzionale, cioè la tendenza ad impiegare gli elementi del problema secondo il loro uso
comune;
• la meccanizzazione del pensiero, cioè la tendenza ad utilizzare strategie che si sono rivelate
vincenti in precedenza;
• atteggiamento latente, ovvero la tendenza ad utilizzare lo stesso modo di risolvere certi
problemi, anche su problemi diversi che non sono pertinenti, trasferendo da un contesto ad
un altro la stessa impostazione senza avvertire la diversità di struttura (Koffka, 1935)
• la direzione, cioè l’insistenza a praticare una strategia improduttiva, che dipende dalla
staticità della struttura che il soggetto assegna al problema

La soluzione di un problema può essere impedita anche da fattori linguistici, cioè dal modo con cui
viene formulato (es. del chirurgo che non può operare suo figlio, di cui però non è il padre).
Un fenomeno interessante è quello che si verifica quando si smette di pensare ad un problema, ma
poi la sua soluzione balena improvvisamente nella nostra mente. Le spiegazioni sono: gli individui si
riposano durante il lasso di tempo in cui non pensano al problema (affaticamento); si pensa ad altre
soluzioni (incubazione). L’incubazione offrirebbe opportunità di acquisire nuove informazioni
(Brandsford e Stein 1984). Potrebbe anche essere un modo per dimenticare le strade errate
imboccate per percorrere nuove direzioni. L’incubazione potrebbe essere un modo per continuare a
lavorare in maniera inconscia (Levine) o per realizzare in modo inconscio piani di soluzione preparati
a livello conscio.
Pensiero e metacognizione. La soluzione di un problema può essere impedita dal fatto che non si
fa uso della conoscenza relativa alle strategie di soluzione da applicare. E’ necessario che le persone
siano in grado di riconoscere le situazioni in cui utilizzare ciascun tipo di ragionamento, ovvero è
necessaria una competenza metacognitiva.
La metacognizione è l’insieme delle riflessioni che si è in grado di compiere circa il funzionamento
della mente propria e altrui (“pensare sul pensiero”). La metacognizione fa anche riferimento a ciò
che si sa, o si presume di sapere, circa il modo di funzionare della mente, al fine di controllare i
processi di pensiero. In questo modo si può decidere consapevolmente quale tipo di strategia
adottare.
Per Stenberg (1985) le componenti meta-cognitive sono: saper definire la natura del problema,
saper selezionare le attività necessarie e la strategia pertinente per la soluzione, saper selezionare la
rappresentazione mentale delle informazioni, saper distribuire le risorse intellettive e saper verificare
la soluzione.
Maggiore è la competenza metacognitiva di un individuo, più alto è il numero di successi che ottiene
nello svolgimento dei suoi compiti.

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