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ABITARE MINIMO

ABITARE MINIMO
Paolo Mestriner
Dipartimento di Architettura e Pianificazione - Diap
Politecnico di Milano, paolo.mestriner@polimi.it
Tel. 02.23995493 - 320.0199424

Abstract
L'architettura minima come vero e proprio filone trasversale in grado di unire realtà culturali, sociali e storiche
molto distanti tra loro. Un modo di fare architettura ma anche di interesse e cura del paesaggio, di critica positiva
al consumo “bulimico” di risorse, di territorio e di energie. Uno strumento in grado di soddisfare i bisogni
primari senza precludere la qualità della vita, propria e sociale indagando una possibile alternativa all'utilizzo
del territorio. L’architettura a scala minore come paradigma di un concetto allargato di sostenibilità, che va oltre
la sperimentazione di nuovi materiali e tecnologie, includendo concetti come il corretto e graduale sviluppo
economico-sociale. Uno strumento come risposta concreta ai bisogni urgenti di una società e di un ambiente,
riscoprendo prassi andate in disuso come l'auto-costruzione e l'auto-approvvigionamento, energetico e
alimentare. Buone pratiche per una sostenibilità, ancor prima che tecnologica, antropologica.
Abitare Minimo
“ Perciò dobbiamo imparare a pensare nei termini di
una struttura articolata che sappia cavarsela con una
molteplicità di unità a piccola scala”. Ernst Friedrich
Schumacher, 1973
“Perché l’angelo spostava i piccoli oggetti, cioè
creava via via piccoli spazi, ma creava un tessuto entro
cui la sua vita si svolgeva molto dignitosamente..”
Giovanni Michelucci, 2001
“Il progetto, seguendo il paradigma entropico,
congiuntamente al pensiero dell'essere, dovrebbe saper
pensare più in termini di decolonizzazione dello spazio,
contribuire a una riduzione dei carichi ambientali”
Nicola Emery, 2010

L'intervento proposto nell'ambito della giornata studio “abitare il territorio - paesaggi abitati / 9” è parte di un
percorso di ricerca che mira a indagare il progetto di architettura a scala minore come paradigma relazionale con
il territorio di riferimento. Abitare Minimo è la definizione che si è data a questo modello. Abitare il paesaggio,
infatti, non rappresenta unicamente l'esplicitazione di un'azione, ma è anche e soprattutto un modo di collocarsi e
quindi di vivere. Non ha a che fare con la sola quantità - che ne è la conseguenza – ma riguarda in primo luogo la
sfera qualitativa, iniziando dal rapporto e dai comportamenti che siamo capaci di instaurare con l'ambiente che ci
riceve.
Partendo da questa stretta relazione, fisica prima che concettuale, prende le mosse l'esperienza che ho cercato di
trasmettere; una posizione a prima vista distante, ma in verità vicina ai temi suggeriti dal seminario. La ricerca,
che negli anni ha assunto un carattere scientifico trovando nella letteratura, interna ed esterna alla disciplina, i
riferimenti e le conferme, ha approfondito in primo luogo gli esempi di alcune tipologie presenti nel paesaggio
rurale. Se infatti l'ambito a cui ci si riferisce pesca soprattutto nell'architettura spontanea, quella che Bernard
Rudofsky ha definito Architettura senza architetti, vi sono riscontri nella storia dell'architettura “erudita” che in
qualche modo hanno seguito questa traccia.
Si può quindi descrivere l'Abitare Minimo quell'architettura a scala minore capace di costruire un concetto
allargato di sostenibilità, che va oltre la sperimentazione di nuovi materiali e tecnologie, includendo concetti
come il corretto e graduale sviluppo economico, sociale e territoriale, in grado di unire realtà culturali e sociali
molto distanti tra loro. Una sorta di rete ante – litteram. Gli esempi approfonditi hanno fatto emergere l’utilizzo
in modo naturale di materiali e sistemi costruttivi che oggi chiameremmo bio, perché nati dal luogo. Dalla terra.
L’importante salvaguardia dell’ambiente, del paesaggio, passava da questa cura. Paradossalmente era il costruire
che tutelava il paesaggio, anzi, che lo formava. Molte erano architetture minute, che servivano a risolvere
necessità primarie, immediate. La ripetizione della stessa tipologia, dello stesso sistema costruttivo, degli stessi
materiali, della stessa forma, produceva un assonanza con il luogo, con quel luogo, come se fosse sempre stata lì,
anzi come se la natura avesse accompagnato l’opera dell’uomo.
Da questo punto di vista possiamo ritenere la micro – architettura una tipologia senza confini, sia sotto il profilo
funzionale che costruttivo. Un modello in grado di declinarsi in differenti configurazioni come dimostrano le
molteplici manifestazioni nei territori che viviamo, i numerosi esempi dell'architettura storica, i riscontri nel

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dibattito architettonico e le sperimentazioni nel panorama accademico e contemporaneo. Tutti esempi minuti,
che trovano la loro forza proprio nel rapporto con il contesto, inteso nelle molteplici accezioni: economico,
sociale, paesaggistico e culturale. È in quest'ottica che l'abitare minimo può essere utile ad una riflessione a scala
più ampia, interessando gli strumenti urbanistici.

Figura 1 (Vals, Switzerland, 2006)


Se osserviamo i nostri territori ci accorgiamo come negli ultimi decenni la pratica della pianificazione territoriale
ha sofferto una contraddizione tra la cultura del progetto e la sua attuazione. Nonostante gli strumenti normativi
si siano moltiplicati abbiamo assistito ad un dissesto ambientale che non ha paragoni con altri periodi storici.
Vero è che tutto ha inizio con l'industrializzazione ed il successivo boom economico, ma altrettanto vero è il
fatto che la tutela del paesaggio è stata delegata alle leggi più che alla cura dei singoli abitanti. Guardando gli
effetti poco rassicuranti degli ultimi trent'anni, il risultato che abbiamo davanti ci spinge a cercare soluzioni
mettendo in discussione il “sistema” che ha alimentato questi fenomeni. La ricerca di nuove prospettive è
diventata la sfida degli ultimi anni. Associazioni ed organizzazioni hanno alzato la soglia di attenzione e
alimentato il dibattito, ma per ora gli effetti reali sono tardi a venire, soprattutto per quanto riguarda la nostra
disciplina, la progettazione territoriale, sempre più distante dagli effetti reali. È un'autocritica, ma anche un
incitamento ad affrontare e risolvere il problema ambientale con gli strumenti propri della progettazione.
Lo studio dell'abitare minimo vuole rappresentare un'alternativa possibile. Lo sforzo è cercare di vedere le cose
da un altro punto di vista. Vi sono infatti dei presupposti, in questo modello, che esulano dalle dinamiche
sedimentate ed applicate al governo dei nostri territori. Prima di tutto non vi sono ragioni lucrose, là dove l'uomo
costruisce per sé e con la natura non c'è la possibilità di “costruire per vendere”. Gli esempi storici ce lo
insegnano, ma anche la semplice constatazione che l'abitare inteso in questo modo è di per sé un atto personale e
quindi non può che andare bene ai soggetti che lo generano. È come l'abito, nessuno si compra un vestito per sé
per poi rivenderlo con fini speculativi. Gestire un territorio “dall'alto” corrisponde, al contrario, a soddisfare
logiche economiche, politiche e di gestione delle risorse ambientali legate a processi viziosi. Viene da pensare
che [per le stesse ragioni del vestito] un legame più diretto, dal basso, possa indurre il rispetto necessario per il
nostro bene comune: l'ambiente che ci consente di vivere. Per questo assumono importanza pratiche riscoperte
come l'auto-costruzione e la sostenibilità, intesa come comportamento dell'uomo oltre che come opportunità
tecnologica. Se è vero che le urgenze ambientali hanno aumentato la soglia di attenzione verso
l'approvvigionamento energetico, è altrettanto vero che una coscienza collettiva è ancora lontana. Sono quindi
portato a credere [e molti esempi studiati lo dimostrano] che là dove c'è un operare diretto, non intermediato, tra

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uomo e territorio, si possa facilmente raggiungere la preservazione dell'ambiente garantendo “i bisogni delle
generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”.
Sì, perché un'azione diretta sul territorio induce una cura impedendo o comunque rallentando i dissesti
ambientali [idro-geologici ed estetici] vissuti in questi anni e che hanno la matrice comune in un'attività
antropocentrica, basata più sullo sfruttamento del capitale che sulla sua preservazione e valorizzazione. A tale
proposito sorprende come le parole dell'economo tedesco Ernst Friedrich Schumacher, siano rimaste disattese:
“Guardiamo più da vicino questo cosiddetto capitale naturale. […] Sono certo che nessuno vorrà negare che lo
stiamo trattando come se fosse un reddito, mentre è, senza ombra di dubbio, un capitale. Se lo trattassimo come
capitale ci preoccuperemmo della sua conservazione, dovremmo quindi fare tutto quanto è in nostro potere per
cercare di ridurre al minimo l'attuale ritmo di consumo.” Dal punto di vista della progettazione territoriale
significherebbe allentare il livello di utilizzo dei suoli, ma anche [e forse ancor prima] modificare l'opinione
diffusa che ad una minor occupazione [intesa come presidio] dei territori, corrisponda una maggior salvaguardia.
Se quest'ultima affermazione può apparire incoerente è perché si perde di vista l'importanza del rapporto diretto
con l'ambiente. Ma allora come tenere insieme questi due elementi? E ancora, “costruire di meno o costruire di
più?” Una risposta facile potrebbe essere costruire di meno ed occupare di più, nell'accezione di custodire. Una
capillare distribuzione dell'abitare produrrebbe infatti un effetto immediato di presidio del territorio. L'obiettivo
potrebbe essere quello di riassegnare una scala, e cioè, ancora una volta, non concepire il territorio come
elemento distante, ma fargli riassumere quella “dimensione umana” che è propria del sistema paesaggistico
riavvicinando le persone al territorio. Non è un fattore esclusivamente disciplinare, architettonico, ma anche e
soprattutto un principio sociale. Da quando mi occupo dei temi del paesaggio, dell’abitare il paesaggio, ho
l'impressione che questo aspetto sia determinante, nel senso che è nel rapporto diretto e fisico con l’architettura
che l’uomo trova la sua giusta dimensione, ed è nella fisicità dello spazio che riesce a reagire, ad influenzare, ad
esserne influenzato. Ecco perché l'Abitare Minimo. può rappresentare una possibile via di uscita, anche alla luce
degli insegnamenti di una tradizione. Nella storia infatti il rapporto tra l'uomo e il proprio territorio ha fondato le
sue radici sul reciproco scambio. Se da un lato ci si serviva dell'ambiente come risorsa per il proprio
sostentamento, dall'altro – proprio per questo motivo e cioè per l'importanza che il luogo assumeva – ci si
prendeva cura di quel sistema ecologico. Che significava principalmente agire in quel luogo, lavorare, presidiare,
dando valore, e tutto ciò si traduceva in un mutuo scambio. Manifestazioni tangibili di questa “regola” non erano
solamente i manufatti, ma anche e soprattutto la conservazione, la manutenzione e l'organizzazione dell'area di
pertinenza. L'architettura seguiva questa strada. Non vi era costruzione che non nascesse dalle peculiarità
materiche e dalle tradizioni costruttive del luogo. Non solo. Nella maggior parte dei casi [se non tutti] si
costruiva “in economia” sfruttando le risorse umane di una famiglia, di una comunità e, là dove era possibile, di
un unico individuo. L'origine probabilmente è da ricercare nell'usanza del self-made come mezzo rapido,
immediato e, non ultimo, conveniente. Se oggi la sostenibilità la associamo facilmente ad aspetti tecnologici, nel
passato era una pratica consueta, diffusa e condivisa. Non era possibile costruire un maso con materiali differenti
dal Cirmolo e dalla pietra dolomitica, così come non si poteva concepire in Sardegna un ricovero senza usare il
Cisto, il Ginepro e il granito locale. Questo metodo ha originato una casistica diffusa producendo esempi legati al
proprio ambito geografico e, simultaneamente, analoghi ad altri casi presenti in altri ambienti simili. Pensiamo
ad esempio alla trasversalità che unisce le architetture del mediterraneo, dalla Grecia al Portogallo, passando per
l'Italia e la Spagna.
Ciò che interessa maggiormente non sono solo le analogie climatiche, geologiche o produttive, ma i principi
progettuali e metodologici che hanno sostenuto queste architetture, cioè la capacità di trasformare l' occupare in
un occuparsi del proprio territorio. Da queste considerazioni si può dedurre che la matrice dell'abitare minimo è
attribuibile al mondo rurale. Tutti gli esempi sopra citati riportano ad un'attività agro-alimentare. Questo era il
suo scopo, supportare e agevolare il lavoro dell'uomo sulla terra. E oggi? È a partire dai temi sociali che
nell'ultimo decennio si aprono nuove correnti legate alla cooperazione internazionale e alla valorizzazione del
paesaggio. Nel primo caso organizzazioni non governative e associazioni private si adoperano per affrontare e
risolvere criticità socio-territoriali, nel secondo si fa largo la convinzione, soprattutto nel nord Europa, che la
valorizzazione dell'ambiente possa passare attraverso un sistema di micro – infrastrutture di appoggio ai flussi
turistici, ma anche alle comunità locali. In alcuni casi poi queste due modalità si fondono lavorando anche sulla
ricostruzione dell'identità dei luoghi.
Vi sono poi altre ragioni che spingono a pensare alla necessità di un perpetuarsi e di un rinnovarsi
dell'architettura a piccola scala. Il tema dell'architettura minima potrebbe essere inteso come strumento di
risposta concreto ai bisogni di una società in continuo cambiamento. I tempi che viviamo stanno determinando
un ripensamento degli standard, progettuali e costruttivi così come li abbiamo vissuti negli ultimi venti anni.
Nonostante ci sia un progressivo innalzamento dell'occupazione dei suoli aumentano le necessità abitative legate
alle emergenze ambientali e sociali, le ultime originate da quelle figure atipiche proprie dei nostri tempi.
Pensiamo agli studenti lavoratori, alle giovani coppie, ai lavoratori precari, ai genitori single, ma anche alla
temporaneità e quindi agli spostamenti come condizione necessaria per lavorare e approfondire le proprie
opportunità e conoscenze. [vedasi a questo proposito il saggio che Jaques Attali ha dedicato all'uomo nomade].
A tutto ciò si aggiunge la richiesta sempre più crescente di abitazioni “fuori standard” in grado di soddisfare i

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bisogni primari senza precludere una qualità della vita, propria e sociale. Ora, di fronte a queste urgenze quella
che possiamo chiamare “trans-architettura”, basata essenzialmente su di un “alloggiare temporaneo”, può
diventare uno strumento per dare risposte concrete a questi bisogni. Appare chiaro che un nuovo modo di vivere
debba essere intimamente legato ad un nuovo modo di abitare, rappresentato principalmente da nuove soluzioni.
Per fare questo c'è bisogno di rimettere in discussione le “abitudini”, prima legislative poi costruttive, che
socialmente e quasi ciecamente abbiamo assunto;. coinvolgere le amministrazioni locali come depositarie dei
bisogni dei cittadini e custodi di un territorio dove le azioni virtuose diventano sempre più necessarie.

Figura 2 (Putignano, Italy, 2012)

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Bibliografia
Ernst Friedrich Schumacher, (2011) Piccolo è bello, Milan, Ugo Mursia Editore S.p.A.
Bernard Rudofsky, (1964 Architecture without architects, New York, Doubleday & Company Inc, Garden City
Jaques Attali, (2006) L'uomo nomade, Milan, The Second Renaissance s.r.l.,

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