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Patrimoni Destinati e ordinamento Italiano

Cap. I Legislazione eversiva e destinazioni patrimoniali a finalità religiosa

1.Le finalità della legislazione “eversiva” ottocentesca: lo smobilizzo


Già nel 1800 la dottrina si era preoccupata di coniare il termine di giurisdizionalismo liberale, per
definire un sistema di relazioni tra Stato e Chiesa nel quale, a dispetto di un proclamato
separatismo, si realizzava invece una grande ingerenza civile nelle dinamiche ecclesiastiche;
ingerenza che appare quantitativamente prevalente nell’ambito economico.
Era condivisa la tesi che alla base della legislazione ecclesiastica vi fossero i problemi posti dalla
manomorta ecclesiastica. Nel 1800 l’ordinamento cercava una reazione alla manomorta
ecclesiastica (una condizione di privilegio concernente l’insieme dei beni, in genere immobili,
appartenenti ad un ente ecclesiastico, i quali non potendo essere trasmessi per successione ereditaria
stante la continuità temporale del soggetto giuridico ecclesiastico, non potevano essere assoggettati
alle imposte di successione dello Stato).
I motivi per cui la manomorta era vista con ostilità dallo Stato liberale ottocentesco sono svariati: in
primis la questione di un sistema economico come quello ecclesiastico fondato sull’immobilità e
sull’accumulo del patrimonio che mal si associava ad un sistema economico di tipo liberistico,
fondato sulla circolazione dei beni; e in secondo luogo le pressioni politiche esercitate dalla
borghesia capitalistica, desiderosa di accedere alla piena proprietà di beni immobili, in larga parte
posseduti da enti ecclesiastici o gravati da oneri a favore di questi ultimi.
Il primo elemento desumibile dal tenore delle disposizioni è la soppressione di una parte rilevante di
enti ecclesiastici (tutti gli enti regolari, e numerose tipologie di enti secolari).
La reazione si è avuta con la legislazione eversiva, una politica restrittiva che incise soprattutto
sugli enti e sui beni ecclesiastici; il dettato normativo evidenzia come la politica restrittiva non
riguardi l’ente ecclesiastico in sé, ma la sua esistenza come persona morale nell’ambito civile e la
sua attitudine giuridica ad acquisire i diritti propri della personalità giuridica: situazioni giuridiche
passive ed attive e la capacità di succedere, di acquistare e possedere beni, di stipulare contratti, di
agire in giudizio.
Il cc del 1865 non conosceva la categoria degli enti di fatto, ma la dottrina civilistica tenta di
definire gli ambiti di operatività g. degli enti privi di personalità giuridica. Inoltre parte della
dottrina, richiamandosi all’art.32 dello Statuto Albertino, riteneva configurabili associazioni
ecclesiastiche di fatto, che perseguono scopi di culto o religione e alle quali sono applicabili il
regime di diritto comune inerente a tutte le corporazioni di fatto (imputabili di situazioni g. attive e
passive, e la proprietà di un patrimonio). Tesi che trova sostegno in Coviello, il quale sosteneva la
validità degli acquisti per interposta persona a favore di enti ecclesiastici non riconosciuti (che deve
fare i conti col divieto di frodi pie→la nullità di disposizioni ed atti fatti in frode delle incapacità
stabilite dalle leggi per gli enti ecclesiastici, ancorchè fatti sotto nome di interposte persone).
Quindi di fatto le organizzazioni religiose continuano ad operare nonostante la legislazione
eversiva, e sotto il profilo economico non soffrono di carenza di mezzi, compresi quelli di natura
patrimoniale immobiliare. Gli strumenti giuridici sono diversi, ad es. il ricorso a società tontinarie
(una sorta di assicurazione sulla vita ante litteram, vd. nota) o altre tipologie di società.
La legislazione eversiva da un lato restringe le aree di riconoscimento della personalità giuridica per
gli enti ecclesiastici, dall’altra però disciplina la loro sopravvivenza di fatto. Infatti un esempio sono
tali disposizioni:
1) Legge 878/1855 in base alla quale i membri delle case religiose che cessano di essere
riconosciute come enti morali, potranno fare in comune gli atti necessari per provvedere alla
loro sussistenza ed al servizio di culto e saranno rappresentati dai rispettivi capi religiosi.
→si dà rilevanza civile allo statuto organizzativo canonico;
2) Le leggi del 1866-1867 non contemplano ipotesi di permanenza della vita in comune,
soprattutto per gli ordini religiosi maschili. La legge 3036/1866 riconosce ai membri degli
ordini, delle corporazioni e congregazioni religiose il pieno esercizio di tutti i diritti civili e
politici (anche se sembra più un’espressione della concezione del tempo che vedeva nei voti
religiosi una privazione dei diritti fondamentali dell’individuo; ha un forte contenuto
ideologico).
Inoltre veniva garantita la corresponsione di pensione ai religiosi, così da non essere condizionati da
necessità economiche qualora avessero voluto tornare a vivere al secolo.
Quindi, sotto il profilo formale, la legislazione eversiva non mirava all’eliminazione degli enti
ecclesiastici ma alla loro de-istituzionalizzazione, collegando la loro esistenza non tanto al
riconoscimento giuridico ma alla permanenza di una comunità capace di organizzarsi di fatto.
La proprietà ecclesiastica rivestiva un significato di affermata presenza sul territorio più che di bene
strettamente economico: sono quindi il peso politico e le ricadute sociali connesse a questa presenza
che il legislatore liberare intende ridurre e non l’efficienza del sistema economico ecclesiastico.

2…. E la tutela della destinazione delle rendite ecclesiastiche al culto


Tradizionalmente si descrive l’intervento eversivo come la trasformazione della proprietà
immobiliare ecclesiastica nella corresponsione periodica di una somma pecuniaria corrispondente
alla rendita ricavabile dai beni incamerati.
La legislazione eversiva si esprime con due diverse leggi:
1) La legge del 1866 prevedeva per i beni degli enti soppressi la devoluzione al demanio dello stato.
La Legge 3036/1866 con la quale fu negato il riconoscimento e quindi la capacità patrimoniale agli
ordini, corporazioni e congregazioni religiose regolari nonché conservatori e ritiri i quali
importassero vita comune ed avessero carattere ecclesiastico. Il patrimonio di tali enti soppressi fu
devoluto al demanio dello Stato, con l’obbligo di iscrivere una rendita del 5% a favore del neo
costituito Fondo per il culto (analogamente previsto dalla legge del 1967, per tutti gli enti secolari
soppressi). In più con questa legge venne sancita l’incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di
possedere beni immobili.
2) La legge 3848/1867 che, riprendendo la soppressione degli enti regolari della precedente legge,
la estese con modalità analoghe a tutti gli enti secolari che lo Stato, con propria autonoma
valutazione, riteneva superflui per il soddisfacimento dei bisogni religiosi della collettività o
dannosi agli interessi statali. Esclusi dalla soppressione e dalla conseguente spoliazione dei beni
furono le parrocchie, gli ordinariati, i canonicati, le chiese cattedrali, i seminari e le fabbricerie.
Il dato normativo dimostra che l’operazione attuata dalle leggi eversive si sostanzierebbe in
un’espropriazione del patrimonio degli enti ecclesiastici soppressi, con indennizzo pecuniario
equivalente alla rendita (5%). In realtà bisogna dire che sotto un profilo strettamente economico il
danno non fu particolarmente grave per gli enti ecclesiastici, in quanto da una parte
l’amministrazione del patrimonio ecclesiastico si era sempre caratterizzata per un’accentuata
staticità (per cui la Chiesa non effettuava molte alienazioni, limitandosi a percepire rendite
immobiliari anche per periodi plurisecolari) e dall’altra l’inalterata entità della rendita non
comprometteva di fatto la sopravvivenza economica di tali enti. Inoltre la redditività del patrimonio
ecclesiastico era nettamente inferiore a quella generale; pertanto come ricorda Jemolo, nel dibattito
che offre lo spunto per la Legge Crispi del 1980, fu proposta la corresponsione al clero di una
rendita del 3% del capitale, inferiore dell’interesse generale, tenendo conto proprio di questo scarso
reddito che davano i beni immobili di proprietà della Chiesa.
Pertanto, la trasformazione del patrimonio immobiliare degli enti ecclesiastici in una rendita del 5%
non ha comportato almeno nell’immediato una riduzione dell’entità delle risorse finanziarie
destinate alle finalità di culto; anzi le più aggiornate analisi mettono in rilievo che nei primi decenni
del ‘900 ed indipendentemente dalla legislazione eversiva, sono proprio gli enti ecclesiastici a
trasformare il loro patrimonio fondiario in cartelle di debito pubblico (a testimonianza che la
conversione dei beni immobili non fosse più avvertita quale operazione economicamente dannosa).
Quindi la conversione dei beni immobili in titoli di debito pubblico non è più percepita, nel ‘900,
come provvedimento punitivo.
Quindi l’attuazione della legislazione eversiva aveva dimostrato che, con riguardo agli aspetti
economici, gli enti ecclesiastici non avevano subito conseguenze tanto dannose da impedirne la
sopravvivenza. Infatti la legislazione del ’66-’67 non dispose l’incameramento dei beni ecclesiastici
a favore dello Stato, ma attribuì la proprietà dei beni degli enti soppressi o al Fondo per il culto o ad
enti perseguenti finalità analoghe.
Infine possiamo dire che la legislazione eversiva può essere legittimamente interpretata come il
tentativo dello stato di garanzia della destinazione dei proventi ricavabili dal patrimonio
ecclesiastico a finalità di interesse pubblico.

3. I Patrimoni Destinati fra incertezze civili e tradizione canonica


La ricostruzione delle finalità della legislazione eversiva trova particolari riscontri nelle disposizioni
riguardanti le fondazioni di culto e le destinazioni patrimoniali a finalità religiosa.
Le difficoltà sorgevano in quanto le molteplici forme di finalizzazione patrimoniale, che nel diritto
canonico vantavano un’antica tradizione, non trovavano riscontro nell’ordinamento civile e,
soprattutto in relazione alle fondazioni di culto, il legislatore per cercare di ricomprendere tutte le
fattispecie di destinazione patrimoniale, finisce per dare vita a norme generiche e addirittura errate.
Le prime difficoltà si manifestano già con l’art. 1 della l.3848/1867 dove si stabilisce che non sono
più riconosciute come enti morali “le istituzioni con carattere di perpetuità, che sotto qualsivoglia
denominazione o titolo sono qualificate come fondazioni o legati pii per oggetto di culto,
quand’anche non erette in titolo ecclesiastico”, in quanto non essendovi un preciso concetto di
fondazione in ambito civile, la normativa statale finisce per far riferimento all’ordinamento
canonico.
Il codice civile del 1865 non aveva una definizione della nozione giuridica di fondazione, mentre la
dottrina canonistica aveva elaborato il concetto di fondazione ecclesiastica. Secondo il diritto della
Chiesa era qualificabile come fondazione qualsiasi massa patrimoniale stabilmente destinata a
finalità religiosa, ricomprendendo sia le persone giuridiche appositamente costituite per lo
scopo della disposizione patrimoniale, sia qualsiasi altra entità giuridicamente configurabile,
strumentale all’adempimento dello scopo del disponente, a prescindere dal riconoscimento
della personalità giuridica da parte dell’autorità ecclesiastica. Infatti nell’ordinamento
ecclesiastico centrale è la finalità della destinazione patrimoniale, mentre la forma specifica ha
un’importanza subordinata.
Anche Francesco Ruffini ha sottolineato l’influenza che il diritto canonico ha esercitato
sull’ordinamento civile ai fini dell’elaborazione del concetto giuridico di fondazione.
La differenza tra le elaborazioni nell’ordinamento civile e quello canonico in relazione alla nozione
di fondazione si fa ancora più evidente al momento dell’emanazione delle leggi eversive. Infatti il
fatto che nel codice civile del 1865 mancasse una specifica regolamentazione delle fondazioni
costituisce la premessa della loro soppressione poi con la l.3848/1867. D’altronde la mancanza
nell’ordinamento civile di una categoria giuridica in cui inquadrare le corrispondenti destinazioni
patrimoniali perpetue, tipiche del diritto canonico, rende inevitabile l’intervento eversivo che, come
sappiamo, trova la giustificazione nel fine di smobilizzare la manomorta e tutelare la destinazione al
culto delle rendite ecclesiastiche. Nell’ord. Italiano la legislazione non aveva prodotto strumenti
giuridici idonei a garantire l’effettiva destinazione e la corretta amministrazione delle rendite
patrimoniali per scopi non lucrativi. E inoltre questo spiega perché gli strumenti normativi adottati
varino a seconda dei vari settori; si tratta infatti di disposizioni che si ritrovano nel codice civile del
1865, nelle leggi eversive e altre leggi speciali, formando una complessa regolamentazione che ha
dato luogo anche a dispute e che invece si può spiegare nella prospettiva di tutelare l’effettività
delle destinazioni patrimoniali.
Infatti anche lo stesso art.1 della l.3848/1867 ha prodotto delle incertezze proprio perché letta
unicamente nell’ottica dello smantellamento della manomorta ecclesiastica, senza cogliere anche il
fine di garantire le destinazioni patrimoniali. Non è chiaro ad es. se le fondazioni e i legati pii per
oggetto di culto siano un’unica fattispecie o siano due istituti giuridici diversi. Qualcuno ritiene che
siano distinte, qualcuno che invece il termine legato è usato, al pari di quello di fondazione, per
indicare istituzioni con carattere di perpetuità che abbiano per oggetto il culto. La dottrina si è
trovata a confrontarsi con le nozioni di fondazione o legato di culto, usate dal legislatore civile
senza una chiara identificazione, mentre elaborate nell’ord. Canonico.

4. La tutela delle destinazioni patrimoniali a prescindere dalla personalità giuridica come esito
comune delle discipline civile e canonica
Nel diritto canonico per lungo tempo si è fatto ricorso alla categoria concettualmente più ampia di
“pia causa” (la quale ricomprende qualsiasi forma di destinazione patrimoniale a scopo religioso)
nel tentativo di dare una valida qualificazione giuridica a ogni tipo di donazione a finalità religiosa.
In tale categoria rientrano sia gli atti di disposizione che diano vita a soggetti forniti di
personalità giuridica sia quelli che attribuiscono beni ad un soggetto di diritto già esistente,
con l’onere di adempiere determinati atti → entrambe le ipotesi sono classificate dal diritto
canonico come “fondazioni ecclesiastiche” e l’elemento in comune tra le due fattispecie non è il
riconoscimento di una personalità giuridica ma la destinazione di un patrimonio a uno scopo.
Nel legato pio persiste l’autonomia sostanziale della massa patrimoniale destinata rispetto al
soggetto legatario, il quale si trova ad essere un puro amministratore di beni ricevuti in legato, per
cui secondo alcuni il legatario era un puro esecutore del volere del fondatore, e che il legato si
presentasse come entità a sé, provvisto di personalità giuridica.
A fine 800 la dottrina italiana, in base alla corrispondenza tra autonomia patrimoniale e personalità
giuridica, afferma la personificazione dei patrimoni destinati.
Quindi la disposizione dell’art 1 della legge del 1867 non sembra criticabile per il fatto che aveva
stabilito un trattamento uniforme per due fattispecie non assimilabili tra loro, dal momento che una
sarebbe fornita di personalità giuridica, l’altra no. Non è la personalità giuridica che accomuna le
due figure oggetto di soppressione (fondazione di culto e legato di culto), ma la nota di autonomia
patrimoniale, goduta da entrambi.
Il problema è che il legislatore si trova in alcuni casi di fronte a masse di beni dotate di autonomia
patrimoniale che non costituiscono il sostrato di un ente dotato di personalità giuridica.
Però il dato dell’autonomia patrimoniale diviene oggetto della disposizione di cui all’art.1 della
l.3848/1867 (soppressiva delle istituzioni qualificate come fondazioni o legati pii per oggetto di
culto), e il legislatore civile mostra di allinearsi alla tradizione dell’ordinamento canonico nel
riconoscimento della rilevanza dell’autonomia patrimoniale a prescindere dal godimento della
personalità giuridica e che viene tutelata dallo stesso legislatore eversivo che, pur imponendo lo
smobilizzo dell’asse ecclesiastico, garantisce il flusso reddituale per il raggiungimento degli scopi
di culto.

Cap. II – La personalità giuridica come controllo delle immobilizzazioni nello


stato fascista
1.L’interesse della Chiesa Cattolica e dello Stato Fascista per un “inquadramento” del patrimonio
ecclesiastico
La legislazione eversiva dell’asse ecclesiastico, ha dato ampio spazio di operatività alle associazioni
non riconosciute. L’intervento eversivo se da una parte persegue l’obiettivo di porre sotto stretto
controllo l’attività delle formazioni sociali (soprattutto confessionali, con o senza concessione della
personalità giuridica), dall’altra finisce, nel caso della Chiesa cattolica, con lo scontrarsi con una
miriade di organizzazioni che continuano ad operare anche in assenza di riconoscimento della
personalità giuridica. Non meraviglia, per questo, come nei primi anni del ‘900 sia un dato diffuso
la crescente consistenza di patrimoni che risultano destinati a finalità religiose a prescindere dalla
imputazione in capo a enti forniti di personalità giuridica. Si tratta di destinazioni patrimoniali che
si conquistano spazi di legittimità nell’ordinamento giuridico, nonostante la vigenza della
regolamentazione del patrimonio ecclesiastico del legislatore liberale ottocentesco.
Coviello conta diversi contributi, molti relativi a questioni concernenti le destinazioni patrimoniali
“religiose” nel regime di vigenza delle leggi eversive, nei quali difende la possibilità di forme di
destinazione patrimoniale per finalità di religione.
Nicola Coviello è ben consapevole che la portata della soluzione di queste questioni va ben oltre i
rapporti Stato e Chiesa, coinvolgendo tematiche civilistiche di notevole spessore. In particolare nel
suo “Manuale di diritto civile” trova ampio spazio la problematica delle frodi pie (espediente a cui
facevano ricorso coloro che volevano trasmettere, di solito mortis causa, un bene ad un ente
ecclesiastico eludendo le leggi restrittive vigenti in materia). Coviello, nell’analizzare la situazione,
difende la legittimità dei negozi fiduciari che favorivano entità religiose, sul presupposto che
queste ultime dopo la soppressione non erano altro che enti di fatto, sottoposti alla disciplina
generale delle organizzazioni prive di riconoscimento e pertanto vietati solo se aventi finalità
contrarie alla legge (e non era tale la finalità di religione).
Il tema delle frodi pie e, più in generale, le problematiche connesse all’esistenza di entità operanti
nel mondo del diritto, ma prive di personalità giuridica rappresentano i settori privilegiati dall’area
di riflessione nel primo ventennio del secolo scorso, per l’attitudine a far vacillare postulati acquisiti
dal diritto civile.
Si può instaurare un parallelo col tema della condizione giuridica internazionale della Santa Sede,
dopo la debellatio dello Stato Pontifico nel 1870. Per la prima volta si affaccia nella comunità dei
popoli un soggetto, la Santa Sede, il quale opera come se fosse fornito di personalità giuridica
internazionale, pur senza rientrare nella categoria degli Stati, fino a quel momento gli unici soggetti
legittimati ad agire pleno iure nell’ordinamento internazionale.
Anche per gli enti ecclesiastici si assiste ad una vivace operatività nel mondo del diritto attraverso
diverse forme, senza che godano di personalità giuridica in ambito civile. Lo scarto tra l’attività
svolta e la posizione giuridica soggettiva (della Santa Sede e degli enti ecclesiastici), viene avvertito
problematico da parte della chiesa, che teme di non avere più gli strumenti giuridici per perseguire i
suoi obiettivi (timori che si attenuano per il consolidarsi di una prassi operativa, che relativizza gli
effetti della mancanza di un congruo riconoscimento giuridico della chiesa, sia a livello
internazionale che civile).
La rottura del legame tra personalità giuridica e autonomia patrimoniale, dato storico per la
tradizione canonica, è un dato emergente nell’ambito civile.
In effetti non vi era un vero e proprio ordine all’interno di questa complessa materia, al di là delle
leggi eversive e della legge 1402/1873 sulla nullità delle frodi pie che costituiva il tentativo da parte
dello Stato di reagire a un’evoluzione della situazione che rischiava di sottrarre al controllo
dell’autorità civile la circolazione e la destinazione di ingenti masse patrimoniali. Ma la reazione
dello stato si dimostra insufficiente.
Ruffini osserva che la scelta francese di consentire il riconoscimento della personalità giuridica alle
congregazioni religiose, ma di subordinarla di volta in volta alla determinazione delle modalità di
funzionamento delle stesse da parte del Consiglio di Stato, risulta più restrittiva della legge italiana
del 1866, soppressiva degli ordini religiosi. Mentre la legge francese, mediante la concessione della
personalità giuridica, sottopone a controllo l’attività delle congregazioni, la legislazione eversiva
italiana finisce col relegare nel sommerso dell’operatività di fatto e sottrarre ai controlli statuali una
quantità incommensurabile di entità religiosamente caratterizzate.
La situazione agli inizi del ‘900, in cui si ravvisa una rapida ricomposizione degli ordini religiosi, e
il risorgimento della manomorta, dà piena ragione dei motivi per i quali all’avvento del fascismo,
l’esigenza di un riordino della materia che ristabilisca il controllo sulla stessa da parte dello Stato,
venga avvertita con impellenza dall’ordinamento civile ed è significativo che la dottrina dominante
del tempo affermi, in corrispondenza con questo obiettivo, che la personalità è la forma giuridica
che lo stato dà secondo il suo libero apprezzamento a quelle entità sociali che ravvisa degne di
questa posizione.
Di fronte alla reazione dell’ordinamento civile, anche il legislatore canonico, con la codificazione
del 1917, esprime la volontà di restringere l’ambito di operatività dei soggetti, diversi dalle persone
fisiche, che sono sottratti ai controlli dell’autorità ecclesiastica. In questo modo forse
inconsapevolmente il legislatore canonico finisce con allinearsi alla visione positivistica dello Stato
liberale, che successivamente sarà fatta propria dal fascismo. Tale evoluzione ecclesiale riflette
sicuramente il comprensibile timore di atteggiamenti arbitrari, da parte dello Stato nell’attribuzione
o nella negazione della personalità agli enti ecclesiastici ma dall’altra parte rende difficilmente
giustificabile l’indispensabilità dell’intervento dell’autorità ecclesiastica per la costituzione di una
persona giuridica canonica.
Lo Stato e la Chiesa mostrano l’esigenza di centri di imputazione e responsabilità dei patrimoni
riferibili ad entità collettive. A ciò non era funzionale la legislazione eversiva dell’asse
ecclesiastico, superata nel Concordato Lateranense e l’assenza di una disciplina delle persone
giuridiche verrà colmata solo col cc del 1942.

2.La personalità giuridica degli enti ecclesiastici nei concordati europei di Pio XI
Gli Accordi tra il Cardinal Gasparri e Mussolini si inseriscono nel contesto dei numerosi concordati
stipulati da Pio XI nel suo Pontificato. La situazione cambia dopo il primo conflitto mondiale,
circostanza che impone un grande impegno diplomatico per ridisegnare i rapporti tra Chiesa e varie
Nazioni alla luce delle mutate condizioni di queste e per difendere la Libertas Ecclesiase dai vincoli
che il potere politico era solito imporle; per cui era necessario contrattare con i singoli Stati la
propria situazione giuridica e fissarla in testi/concordati che tutelassero questa posizione dai
mutamenti delle maggioranze.
Una nota che accomuna i concordati di questo periodo e li differenzia da quelli precedenti è
l’attenzione posta a stabilire le modalità di riconoscimento della personalità giuridica degli enti
ecclesiastici in ambito civile, per cui il denominatore comune è la determinazione di centri di
imputazione certi per quanto concerne la titolarità dei patrimoni di pertinenza ecclesiastica.
Di particolare interesse sono il concordato firmato nel 1922 con la Lettonia e quello con la
Romania del 1928.
Il primo rappresenta un caso unico in quanto viene stipulato con una nazione formatasi solo pochi
mesi prima e che quindi non è vincolata da nessuna pregressa legislazione ecclesiastica interna;
riconosceva la personalità giuridica di diritto privato in capo alla Chiesa
Cattolica nella sua astratta universalità, ma l’effettiva capacità di acquistare e possedere beni è
invece riconosciuta a quella parte dell’organizzazione ecclesiastica che opera nell’ambito del
territorio nazionale (in questo modo si evitava anche che potessero sorgere delle incertezze in
relazione all’individuazione dell’appartenenza dei beni ecclesiastici).
Il secondo concordato dispone il riconoscimento della personalità giuridica sia alla Chiesa cattolica
che ai singoli enti ecclesiastici, tuttavia il riconoscimento della personalità giuridica alla Chiesa ha
solamente carattere pubblicistico, mentre la personalità giuridica di diritto privato, nella quale è
compresa la capacità di acquistare e possedere, compete ai singoli enti ecclesiastici appartenenti alle
tipologie menzionate nel concordato stesso. Nell’area tedesca, i rapporti tra la Santa Sede e Hitler
rispecchiano le esigenze di controllo tipiche di un regime dittatoriale, si sancisce il diritto della
Chiesa di far riconoscere i propri enti a livello civile, tuttavia, ciò deve avvenire in seguito a
provvedimento formale dello Stato e secondo le regole del diritto comune.

3. … e nel Concordato Lateranense


Dai concordati stipulati in ambito europeo, i Patti Lateranensi del 1929 si distinguono per la
maggiore finezza giuridica delle disposizioni contenute, imposta dalla particolare complessità dei
problemi insiti nella regolamentazione degli enti ecclesiastici nel contesto italiano.
Il Concordato del Laterano si caratterizza per il fatto che non esprime un concetto unitario di ente
ecclesiastico, ma prevede il riconoscimento di singole categorie di enti. In via di principio
presupposto per il riconoscimento civile sono l’erectio o l’adprobatio canoniche (però a differenza
di quanto stabilito negli altri concordati europei queste non costituiscono condizione sufficiente per
l’attribuzione della personalità giuridica in ambito statuale; infatti a tal fine è richiesto anche un
provvedimento civile che giunge al termine di un procedimento amministrativo).
Anche nel Concordato italiano si manifesta il favor per l’attribuzione della personalità giuridica
civile agli enti ecclesiastici; risulta netto il superamento della legislazione eversiva ottocentesca e
ancora più significativa la volontà di non lasciare in alcun modo alcune situazioni di incertezza
nella titolarità dei beni connesse alle numerose controversie originate dalle varie fattispecie di
sospette interposizioni fittizie, finalizzate all’aggiramento delle norme soppressive dell’asse
ecclesiastico.
In particolare l’articolo 29 del Concordato, dà luogo ad una pluralità di disposizioni:
• stabilisce che gli atti compiuti da enti ecclesiastici e religiosi senza l’osservanza delle leggi
civili potranno essere riconosciuti e regolarizzati dallo Stato italiano su domanda
dell’ordinario da presentarsi entro tre anni dalla data di entrata in vigore del Concordato;
• gli atti relativi a trasferimenti di immobili dei quali le associazioni sono già in possesso,
saranno esenti da ogni tributo;
• norma per il riconoscimento delle fondazioni di culto viene estesa anche alle fondazioni di
fatto;
• consente agli enti precedentemente soppressi di regolarizzare solo gli acquisti a titolo
effettivamente oneroso, per i quali la sanatoria non implica violazione di diritti quesiti;
• sono ammesse le fondazioni di culto di qualsiasi specie purché rispondano alle esigenze
religiose della popolazione e non ne derivi alcun onere finanziario allo Stato;
• il concordato stabilisce il riconoscimento delle associazioni religiose, ma richiede da una
parte che abbiano la loro sede principale in Itala e siano ivi rappresentate, dall’altra che
siano approvate dalla Santa Sede.
La posizione di chi cerca di negare o limitare l’efficacia retroattiva della normativa concordataria
circa gli enti ecclesiastici risulta minoritaria.
La prima preoccupazione del legislatore concordatario in materia di enti è quella di superare la
diffusa presenza di patrimoni ingenti a destinazione religiosa, non attribuibili a centri di
imputazione certi, con conseguente difficoltà nell’esercizio delle funzioni di controllo e garanzia,
sia da parte dello Stato che della Chiesa. La disciplina di cui sopra, risponde pienamente a questa
esigenza nella disciplina del patrimonio ecclesiastico; questa regolamentazione chiude ogni
spiraglio a spazi di sopravvivenza per entità di fatto, dà senso alle pattuizioni lateranensi (nate
proprio per determinare la situazione giuridica degli enti ecclesiastici). Per quanto attiene al
patrimonio di pertinenza ecclesiastica, prima ancora che il soddisfacimento dei bisogni religiosi dei
fedeli, la politica dello stato fascista persegue l’obiettivo di controllare la disponibilità e l’utilizzo di
ingenti risorse finanziarie e di beni talora rilevanti maggiormente per il loro valore simbolico.
Nella normativa concordataria questo obiettivo statuale si incontra con le esigenze ecclesiali e
produce una regolamentazione degli enti incentrata sul riconoscimento della personalità giuridica e
sulla ricerca di centri di imputazione istituzionali dei “patrimoni destinati” che si articola in due
settori di disciplina: uno relativo alle associazioni religiose e l’altro alle fondazioni di culto.
Per quanto riguarda le Associazioni religiose il favor per il riconoscimento della personalità
giuridica si stempera con l’atteggiamento di sospetto del regime fascista nei confronti delle
formazioni intermedie a base personale e con l’esigenza di controllo del fenomeno associativo.
L’art.29 del Concordato stabilisce il riconoscimento delle associazioni religiose, ma richiede da una
parte che abbiano la loro sede principale in Italia, che siano rappresentate, giuridicamente o di fatto,
da persone che abbiano cittadinanza italiana e domicilio in Italia e dall’altra che siano approvate
dalla Santa Sede.
Per quanto riguarda le associazioni di fedeli, nel Concordato non vi è una norma che ne preveda in
via generale il riconoscimento civile, ma solo l’art.43 parla di un generico riconoscimento delle
organizzazioni dipendenti dall’Azione Cattolica Italiana, anche se risponde più ad una
preoccupazione del regime fascista di far sì che tali formazioni svolgano la loro attività al di fuori di
un partito politico e sotto l’immediata dipendenza della gerarchia della Chiesa.

4. Il riconoscimento delle fondazioni di culto “di qualsiasi specie”


Il favor per una definizione della titolarità domenicale dei patrimoni destinati a finalità religiose si
spiega meglio con riguardo alle fondazioni di culto.
L’art.29 lettera d del Concordato stabilisce che “sono ammesse le fondazioni di culto di qualsiasi
specie purchè rispondano ad esigenze religiose della popolazione e non ne derivi alcun onere
finanziario allo Stato. Tale disposizione si applica anche alle fondazioni già esistenti di fatto.”
Questo favor ha suscitato dispute dottrinali che sono approdate a conclusioni diverse tra loro.
Un primo orientamento individua la nozione di fondazione di culto in termini estremamente
restrittivi; prende le mosse infatti dal tenore letterale della disposizione, per osservare come in altre
norme del Concordato Lateranense si parli di fine di culto o di religione, mentre nella disposizione
in esame il concetto di culto sia stato inteso nel suo senso più rigoroso sino al punto da distinguerlo
da quello di religione.
Sul fronte opposto, altra dottrina propugna una interpretazione lata del concetto di fondazione di
culto e si spinge ad attribuire alla locuzione un significato onnicomprensivo. Il più convinto
assertore di questo orientamento è Del Giudice, che attribuisce un ruolo ermeneutico determinante
all’inciso della disposizione, nel quale l’ammissione delle fondazioni di culto viene subordinata alla
condizione che “non ne derivi alcun onere per lo Stato”. In questo modo la locuzione fondazione di
culto, finirebbe per comprendere non solo qualsiasi fondazione che sia diretta ad assicurare
qualsivoglia scopo ecclesiastico e alla quale si intenda debba essere conferita la personalità
giuridica, ma anche ogni altra istituzione ecclesiastica.
Un dato non passato inosservato è la sancita “ammissibilità” delle fondazioni di culto in luogo
della “riconoscibilità”, prevista dal Concordato per altre fattispecie di enti ecclesiastici. Si è così
ipotizzata la cittadinanza nell’ordinamento italiano delle fondazioni di culto prive di personalità
giuridica.
L’ammissibilità di tali fondazioni è presente solo nella terza stesura (nella terza bozza, non nelle
prime due) del Concordato laddove all’art.28 lettera e) il governo italiano si impegna a garantire
l’ammissibilità di fondazioni di culto istituite a favore di enti riconosciuti dalla legge.
Quindi vediamo come la genesi della norma di cui all’art.29 lettera d sia fortemente condizionata da
una visione della fondazione di culto, nella sua accezione soggettiva, quale atto di disposizione
senza dare una chiara determinazione normativa della configurazione giuridica dell’entità
patrimoniale che ne deriva. Però sicuramente tale normativa (concordataria degli enti ecclesiastici)
ha aperto la strada a una regolamentazione organica delle persone giuridiche (nell’ordinamento
italiano, introdotta successivamente dal codice civile del 1942) e per le fondazioni in particolare ha
contribuito al superamento della concezione ottocentesca di fondazione (intesa come atto di
destinazione tendenzialmente perpetua di un patrimonio) e all’affermarsi di una nozione di entità
soggettiva personificata a base patrimoniale.

5.La scomparsa di ogni riferimento normativo ai patrimoni “destinati”


I lavori preparatori al codice civile in Italia evidenziano una duplice consapevolezza: da un lato di
formulare per la prima volta nell’ord. Italiano un’organica regolamentazione delle persone
giuridiche; dall’altro che il mezzo adoperato dal regime liberale per contrastare la manomorta e
controllare il patrimonio ecclesiastico (in specie la legislazione eversiva) si rileva assolutamente
inadeguato, essendo invece a tal fine pienamente funzionale proprio il rimedio opposto e cioè la
riconduzione di ogni patrimonio alla titolarità di un ente dotato di personalità giuridica.
Viene esteso a livello generale il principio guida dei patti lateranensi, cioè quello di dare una
regolamentazione , all’interno della quale venga posto il requisito della personalità giuridica come
conditio sine qua non della titolarità dei patrimoni.
Il codice civile al titolo II del I libro tratta delle persone giuridiche, distinguendo tra associazione e
fondazioni e solamente in relazione alle prime disciplina le associazioni non riconosciute; la
previsione di quest’ultima fattispecie si giustifica per la ragione che nelle associazioni prevale
l’elemento personale su quello patrimoniale.
Invece il Codice non prevede espressamente l’ipotesi delle fondazioni non riconosciute, con la
conseguenza che la dottrina si è post il problema dell’ammissibilità delle fondazioni di fatto
nell’ordinamento italiano. Ora anche se in linea generale la tipica prevalenza dell’elemento
patrimoniale nelle fondazioni dovrebbe escluderne l’esistenza in forme prive di personalità
giuridica, la dottrina è riuscita ad individuare qualche fattispecie che potrebbe essere definita come
fondazione di fatto.
Il dibattito si è appuntato intorno al caso del patrimonio destinato alla costituzione di una
fondazione in attesa di riconoscimento, qualora il fondatore abbia già dato inizio all’attività
dell’opera da lui disposta; in conseguenza di ciò secondo il legislatore vi è l’irrevocabilità della
disposizione da parte del fondatore e la costituzione di un patrimonio autonomo.
In relazione a questa fattispecie una parte della dottrina osserva che sussistono due elementi: una
entità unitaria rilevante per il diritto ed un centro autonomo di imputazione di effetti giuridici che
permettono di scorgere anche in una fondazione non riconosciuta un soggetto di diritto.
In senso contrario si pronuncia uno dei più autorevoli studi a riguardo, nel quale si osserva che la
destinazione dei beni alla futura fondazione rappresenta il primo passo del processo formativo di un
nuovo soggetto di diritto, mentre il riconoscimento ne rappresenta l’ultimo, cosicché (nel periodo
compreso tra i termini che segnano l’iter da percorrere per la nascita dell’ente) non si potrà
sostenere che vi siano enti non riconosciuti ma solo enti in via di formazione, che diverranno tali
con il riconoscimento.
Una posizione dottrinale intermedia, riconosce invece la possibilità dell’esistenza di una fondazione
di fatto, ma la stessa è sempre un ente instabile: ha solo quella vita precaria che va dal negozio di
fondazione all’atto di riconoscimento.
Si tratta di una sottolineatura importante in quanto oggetto dell’intervento del legislatore sono i
patrimoni stabilmente destinati ad una finalità (e non di quelli privi di tendenziale perpetuità,
finalizzati a scopi temporanei), in una logica di interventi prima di soppressione e poi di
sottoposizione al riconoscimento della personalità giuridica in funzione di controllo.
La sostanziale assenza nell’impianto codicistico del 1942 della fondazione di fatto come categoria
generale, e la sua ricorrenza ammessa solo in via ipotetica, solo in relazione a patrimoni non
stabilmente desinati a una finalità istituzionale, è sintomo incontestabile della volontà legislativa di
quel tempo di evitare in ogni modo la formazione di masse patrimoniali non temporanee, unificate
da un vincolo di destinazione ma non riconducibili direttamente ad un ente personificato.
Conclusioni
La crisi della personalità giuridica e la “rivincita” dei patrimoni destinati
Tradizionalmente si identifica lo Stato liberale quale autore di una legislazione persecutoria nei
confronti del patrimonio ecclesiastico, sia privando gli enti della Chiesa di personalità giuridica sia
privandoli della possibilità di continuare ad essere titolari di patrimoni immobiliari.
In realtà l’azione del legislatore liberale era rivolta non tanto a sopprimere gli enti ecclesiastici,
quanto a smobilizzare le proprietà immobiliari, per il fatto di essere, in maniera tendenzialmente
perpetua, stabilmente destinate ad una specifica finalità religiosa e quindi sottratte perennemente
alla circolazione dei beni.
Si giustifica quella parte della legislazione eversiva che si preoccupa di includere nel proprio raggio
di azione qualsiasi forma di immobilizzazione patrimoniale ecclesiastica, a prescindere dalla
titolarità della stessa in capo ad un ente dotato di personalità giuridica.
Inoltre si tratta di una legislazione che costringe le organizzazioni religiose a configurare
diversamente il proprio patrimonio, infatti iniziano a nascere i primi enti di fatto che tentano di
garantire stabilità patrimoniale indipendentemente dal riconoscimento della personalità giuridica.
Dall’altra parte i Patti Lateranensi sono visti come soluzione ai problemi degli enti ecclesiastici che
ricevono di nuovo il riconoscimento e acquisiscono la piena titolarità di patrimoni immobiliari.
In realtà il motivo alla base dei Patti era quello di evitare la sussistenza di patrimoni destinati a
finalità religiosa, più o meno stabile, senza che lo Stato potesse esercitare una forma di controllo. La
preoccupazione dello Stato appare più evidente nella legislazione codicistica del 1942, laddove per
la prima volta in Italia si ha una organica regolamentazione delle persone giuridiche e l’esistenza di
enti di fatto viene prevista espressamente per gli enti di tipo associativo, ma non per le fondazioni
(cioè per gli enti specificamente ordinati a garantire destinazioni patrimoniali a lunga durata).
Ma a distanza di 70 anni dall’emanazione del codice civile può dirsi riuscito questo tentativo di
controllo di qualsiasi destinazione patrimoniale stabile?
Sembrerebbe di no. Ma in realtà lo si poteva evincere anche qualche anno dopo con l’avvento della
Costituzione che invece esalta il ruolo delle formazioni sociali a prescindere dalle caratteristiche
formali. Poi tutta l’evoluzione dell’ordinamento giuridico, successivamente alla Costituzione, in
riferimento alle persone giuridiche, si caratterizza per una progressiva “deformalizzazione” di
queste e dall’estendersi delle modalità di stabilizzazione delle destinazioni patrimoniali.
In ambito dottrinale si approfondisce il solco tra soggettività e personalità, accentuando le
potenzialità della prima e ridimensionando il mito della seconda, valorizzando il ruolo delle
formazioni sociali in funzione di promozione della personalità umana.
In ambito legislativo questa evoluzione ha conosciuto un’accelerata negli ultimi anni del ‘900, dove
si fa sempre meno riferimento alla categoria degli enti e invece ha acquisito sempre maggiore
rilievo la categoria delle “organizzazioni”, a dimostrazione del fatto che si dà più importanza
all’effettiva utilità sociale dell’attività svolta rispetto alla rilevanza giuridica della personalità. Per
es. la l.266/1991 si occupa della disciplina delle organizzazioni di volontariato, ponendo sullo stesso
piano soggetti forniti e privi di personalità giuridica.
Inoltre la prevalenza della destinazione patrimoniale rispetto alla configurazione soggettiva del
titolare del patrimonio medesimo trova riscontri anche nella recente produzione legislativa.
Un esempio è dato dal TRUST, istituto di derivazione anglosassone, caratterizzato per la netta
distinzione tra proprietario e beneficiario dei beni, che riesce un po’ a ridimensionare i dubbi circa
l’ammissibilità delle fondazioni fiduciarie nell’ordinamento italiano.
Un altro esempio è dato dall’art. 2645 ter cc che consente la trascrivibilità di atti pubblici di
destinazione di beni immobili o mobili registrati per un periodo non superiore a 90 anni o per la
durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela.
Si tratta quindi di una disciplina in cui l’elemento centrale è la destinazione patrimoniale mentre la
rilevanza dell’elemento soggettivo della titolarità risulta quasi ininfluente. Tale articolo, ad oggi,
rappresenta l’estrema evoluzione del processo di affievolimento della funzione della personalità
giuridica degli enti in favore del maggiore rilievo delle destinazioni patrimoniali.
L’esito di questo processo presenta delle similitudini con la situazione seguita alle leggi eversive
dell’800. Infatti allora nell’impossibilità di ricevere la personalità giuridica, le destinazioni
patrimoniali a finalità religiosa si realizzavano ricorrendo alle cd. “frodi pie” e a strumenti giuridici
per garantire lo stabile possesso in favore delle soppresse entità ecclesiastiche.
Attualmente invece non è lo stato a privare gli enti della personalità giuridica, ma c’è l’esigenza che
nasce dal tessuto sociale di realizzare obiettivi avvertiti come meritevoli di tutela tramite strumenti
più agili e che determina il ricorso all’utilizzazione di beni patrimoniali in forma stabile,
prescindendo dalla costituzione di persone giuridiche finalizzate alla titolarità patrimoniale.
Né nella legislazione concordataria del 1984 né in quella negoziata con i culti acattolici, è
riscontrabile la consapevolezza della rilevanza acquisita dalle fattispecie di destinazioni
patrimoniali distinte dalla personalità giuridica. Gli accordi del 1984 vedono la luce qualche anno
prima che iniziasse quel procedimento normativo che porterà alla relativizzazione del dato della
personalità giuridica. E questo spiega perché l’ordinamento canonico conosca già forme di
destinazione patrimoniale non subordinate al possesso della personalità giuridica, mentre nella
legislazione concordataria la materia dei patrimoni destinati non trovi uno spazio distinto da quello
della disciplina degli enti ecclesiastici.
Attualmente la materia dei patrimoni destinati a finalità religiosa è regolata in parte dalla normativa
unilaterale dello stato (ancora in gran parte da scrivere) e dalla normativa canonica, di antica
tradizione, nella misura in cui abbia acquistato rilievo nell’ordinamento giuridico civile.
Si può ipotizzare che tutto ciò sarà oggetto di futuri interventi normativi ma Guarino ci fornisce un
suggerimento: i patrimoni destinati rappresentano una fattispecie che, avendo superato sia la
legislazione eversiva che quella fascista, ha acquisito piena cittadinanza nell’ordinamento giuridico
italiano; però a tale cittadinanza è necessario che corrisponda l’adozione di una specifica
regolamentazione che riesca a coniugare le loro potenzialità di utilizzo con il rispetto dei principi
dell’ordinamento. (Infatti ad oggi sono regolati da provvedimenti settoriali, che considerano i
patrimoni destinati come istituti di carattere eccezionale e quindi con una regolamentazione
derogatoria rispetto ai principi generali e giustificabile solo in virtù di esigenze particolari).

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