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Religioni e filosofie dell’India 31/03/21

A noi non è ben noto il contesto rituale espresso dal Ṛgveda, in quanto esso non dà informazioni
specifiche sull’esecuzione dei riti. Questo perché in effetti non è un manuale di esecuzione dei riti.
Siamo però in possesso di un modello simile, che appare in un periodo post-Ṛgvedico.
Cominciamo a conoscere il rituale a partire dal periodo medio-vedico, in cui il centro dell’attività
vedica è il territorio dei Kuru. Si tratta del periodo in cui nasce lo Yajurveda, il Veda delle formule
(yajus).
La tradizione vedica è associabile a tre periodi: vedico antico, medio vedico e tardo vedico. Il
periodo centrale è quello in cui venne creato lo Yajurveda, e pone in un contesto rituale ben
strutturato ciò che potremmo definire il binomio centrale divinità-sostanza, Agni e Soma, noto
anche come amṛta “ambrosia”: 1.la bevanda che conferisce l’immortalità, 2. L’immortalità, 3.
L’aggettivo immortale.
Lo Yajurveda amplifica il rituale: il rituale che doveva essere più semplice si fa più
complesso/articolato/strutturato. In epoca Yajurvedica si aggiungono altri rituali, ovvero il
complesso rituale si dota di nuovi riti, cerimonie, specialisti. Questi rituali vengono combinati in un
sistema, in cui tutto è coordinato alla perfezione, ognuno ha il suo ruolo preciso. In particolare,
viene elaborato il sistema dei riti, Śrauta, aggettivo che deriva da Śruti, letteralmente “ascolto”, e fa
riferimento alla trasmissione per via orale della tradizione vedica, anche se a volte è tradotta come
sostantivo “rivelazione” o viene usato per indicare la “tradizione vedica” stessa. L’aggettivo
invece, va inteso come “solenne” i riti Śrauta, infatti, sono i riti solenni, che godono dello status
più alto nell’ambito della tradizione vedica. Sono i riti vedico brahmanici per eccellenza, ma non
necessariamente più antichi.
È il periodo anche in cui si codifica la divisione del lavoro fra sacerdoti/la specializzazione dei
sacerdoti. Per quanto riguarda le specializzazioni (in ordine cronologico), ricordiamo l’hotṛ, colui
che compie l’offerta e che invoca, dalla radice hu “invocare, o fare un’offerta rituale”, l’invocatore;
l’udgātṛ, il cantore; l’adhvaryu, il sacerdote dello Yajurveda (periodo medio-vedico), colui che
dirige le operazioni, ma non necessariamente quello con lo status più elevato; il brahman, il
sacerdote che sorveglia, sovrintende al rito. Ciascuno di questi sacerdoti è accompagnato da tre
assistenti: abbiamo almeno 16 brāhmaṇa/celebranti specializzati (se ne aggiungeranno altri).
La Yajurveda Saṃhitā diventa il cuore della tradizione nel periodo medio-vedico. Alla raccolta
viene attribuita/impartita una forma che riflette quella del rituale.
Il rituale che abbiamo visto è l’Agnicayana, letteralmente cayana “costruzione” del fuoco, più
precisamente, (abbreviazione) la costruzione dell’altare del fuoco: costruzione di un grande altare a
forma di aquila o falco, composto da almeno da 5 strati di mattoni di argilla cotta (in una fornace
apposita, rituale), predisposizione di almeno 1000 mattoni, consacrati uno ad uno, posizionamento
dell’altare ad est della scena rituale (scena perché c’è una componente teatrale nel rito). Durante la
costruzione dell’altare, il committente (fondamentale, ma non del tutto attivo durante il rito) è
chiamato a recitare inni vedici Ayurvedici, con i quali chiede ad Agni che i mattoni si possano
trasformare per lui in mucche da latte, in cento, mille, diecimila, fino ad arrivare alla cifra di cento
volte centomila milioni (passione per l’aritmetica traspare). Nonostante il suo ruolo rimanga sullo
sfondo rispetto agli altri sacerdoti, è una figura che rimarrà centrale nella cultura indiana in
generale.
Il rito nella forma più generica è chiamato yajña “sacrificio”, dalla radice yaj “sacrificare”. Il rito è
concepito come un’attività sinergica di un gruppo di sacerdoti, brahman o Brāhmaṇa, per conto di
un committente, lo yajamāna1. Ancora nelle lingue indiane moderne è utilizzato per indicare il
datore del lavoro. Egli non è solo, ma accompagnato dalla moglie, la quale a volte è chiamata a
svolgere alcuni compiti rituali. In certi rituali complessi può persino avere un ruolo centrale, ad
esempio, nel rito del sacrificio del cavallo, il più fastoso del repertorio, l’aśvamedha2. Nella visione
del mondo indiana, il committente è chiamato a ricompensare i brahmani, alla fine del rito, tramite
un “salario”, la dakṣiṇā, simile a “sud”, che fa riferimento al fatto che il compenso veniva disposto
a sud del terreno rituale.
Rifacendoci a Frits Staal, è menzionata un’interazione tra i celebranti in un rito sacrificale , che
spesso fa da premessa a rituali più complessi, e che consiste nell’offerta di una focaccia di farina di
riso e di orzo. Gli altri riti di sacrificio ripetono, complicando e amplificando questa struttura di
base (principio della ricorsività):
- È richiesta la presenza di quattro sacerdotiadhvaryu (Yajurveda), l’hotṛ (Sāmaveda?) e
brahman (Atharvaveda) e l’Agnīdh, specializzato nell’accensione del fuoco (porta il fuoco
sul terreno rituale).
- Il sacrificio avviene in tre fasi. Prima fase: 1. l’Adhvaryu (direttore di scena) chiede
all’hotṛ di rivolgersi al Dio Agni; 2. l’hotṛ si rivolge al Dio impiegando i mantra Ṛgvedici.
Seconda fase: 1. l’adhvaryu (pone in movimento l’altro sacerdote) chiede all’Agnīdh di far
sì che il Dio oda; 2. L’Agnīdh si rivolge a voce alta al Dio (in terza persona), pregandolo
perché possa udire l’invocazione. Terza fase: 1. l’adhvaryu chiede all’hotṛ di pronunciare
la strofa di offerta per Agni; 2. l’hotṛ recita la strofa, innalza progressivamente la voce
(l’hotṛ recita a voce alta, secondo codici precisi), chiedendogli di recare l’offerta della
focaccia agli dèi. Mentre questo recita, l’adhvaryu mette la focaccia nel fuoco. Interviene lo
yajamāna, che pronuncia la famosa formula di rinuncia, con la quale dice “questa offerta
è per Agni, non per me”.
Questo è lo schema di base di tutta la ritualità sacrificale. Sulla base di questo schema sono
riprodotti i riti più complessi, usando il principio della ricorsività. Citando i sacrifici animali,
centrali nella ritualità vedico-brahmanica, ne esistono di vari tipi, ma quello che ricorre più spesso
(ed è accessorio del rito) è il sacrificio di un capro. Cambia rispetto al sacrificio della focaccia (di
riso e orzo), in quanto è richiesta la presenza di un altro sacerdote specializzato, chiamato
Maitrāvaruṇa, in riferimento alle divinità vediche Mitra e Varuṇa, divinità dei lacci; l’animale
sacrificale viene sacrificato stringendogli un laccio al collo. In questo caso, la prima fase prevede
che l’adhvaryu si rivolga al Maitrāvaruṇa, chiedendogli di rivolgersi all’hotṛ per invocare il Dio.
Il secondo snodo prevede che l’hotṛ si rivolga al Dio.
In altre fasi del rito i sacerdoti non interagiscono direttamente, per via della disposizione sul terreno
rituale. Questa non permette che i sacerdoti si possano vedere l’un l’altro, perciò questi devono
unicamente basarsi sulle indicazioni dell’adhvaryu (direttore di scena).
In epoca tardo vedica, nascono dei particolari rituali (citati anche nel Mahābhārata3), i sattra. Si
tratta di sessioni sacrificali, che durano da circa 13 giorni a 100 giorni, proseguendo giorno e notte.

1
participio futuro o participio presente medio, avente valore riflessivo, che chiede gli stessi suffissi del participio
presente, ma -māna (passivo o attivo ātmanepada), -(n)t (attivo parasmaipada) vanno aggiunti al tema del futuro; il
committente del sacrificio vede i risultati del sacrificio riflessi su di sé. Letteralmente “che sacrificherà”.
2
Uno stallone è lasciato libero di cavalcare per giorni e notti.
3
Si dice che il Mahābhārata fu tramandato per la prima volta durante uno di questi sattra.
Lo yajamāna in queste sessioni non è più necessario, ma sono i Brāhmaṇa a svolgere la sua
funzione. C’è da dire che lo yajamāna in questo periodo diventa sempre più simile al brahmano e
che il rituale diventa strettamente connesso alla casta brahmanica.
Scena rituale
Prācīnavaṃśa”capanna antica” (prācīn “antico, precedente”); fase del vedico antico, in cui era
parlato nella valle dell’Indo tra il 1700 e il 1200 a.C. e in cui il rituale si presenta in forma arcaica.
Si tratta di uno spazio quadrato. Ad ovest troviamo un altare circolare, altare del fuoco domestico
(gārhapatya “proprio del capo famiglia, “gṛhapati”). In questo fuoco vengono cotte le oblazioni,
come la focaccia menzionata precedentemente. Ad est dello spazio rituale si colloca un altare
quadrato chiamato Āhavanīya “dell’offerta” /il fuoco delle oblazioni, in cui le offerte cotte nel
fuoco domestico vengono versate. A sud è collocato il Dakṣiṇāgni “fuoco del sud”, in uno spazio
con forma semicircolare, nel quale vengono versate, sebbene in misura minore, delle offerte; esso è
utile per proteggere l’area rituale dagli influssi negativi e da esseri demoniaci potenzialmente
provenienti da sud. L’altare principale si trova tra il fuoco dell’ovest e dell’est , con forma
allungata, ma più stretta al centro, paragonata a quella di una donna, chiamato vedi, e consiste in
una buca poco profonda, cosparsa di una particolare erba rituale.
Nella fase del medio vedico (1200 a.C.-700 a.C.) questo spazio viene accompagnato da un ulteriore
spazio sacrificale, lo spazio del mahāvedi “grande altare”, di forma rettangolare. Ad est è collocato
l’altare del fuoco a forma di aquila/falco, dotato di un ampio tetto (seppur all’aperto), chiamato
vedi (dà il nome a tutto lo spazio sacrificale). Ad ovest si trova uno spazio chiuso, circondato da
mura, il sadas “sede, là dove si permane”, nel quale nel corso dei riti solenni Śrauta del soma, viene
bevuto il soma dagli specialisti del Ṛgveda e del Sāmaveda, e dove cantano le loro strofe (nel caso
dell’Hotṛ, accompagnato dai suoi assistenti), le recitano o cantano le melodie (nel caso dell’udgātṛ,
accompagnato dai suoi assistenti)casa dell’hotṛ, dell’udgātṛ e del soma. Al centro, havirdhāna
“sede/ricettacolo del soma/oblazione” (havis “Oblazione, ciò che è offerto”), è il luogo dove il soma
viene preparato e conservato fino a quando non è prelevato per essere utilizzato nel rituale. Un
ulteriore elemento si trova all’esterno della scena sacrificale, all’estremo oriente, il palo sacrificale
o yūpa, a cui vengono legate le vittime animali, in particolare il capro. Simbolo importante in
quanto concepito come axis mundi, che collega il cielo e la terra, concepito come albero sacro, le
cui regole di fabbricazione sono precise. Momenti importanti del rituale in realtà non sono visibili,
ma sono realizzati all’esterno dell’area rituale, come la soppressione della vittima sacrificale.
STRUTTURA dei riti solenni (Śrauta) del soma
Per questi si utilizza il terreno rituale del mahāvedi, innovazione del 1200 a.C., e sono caratterizzati
da 4 fasi, a sua volta divise in più fasi:
1. Stuti “lode”, canto di lode che avviene nel sadas, canto samavedico inaugurante il rito del
soma. (1) Si apre con una benedizione realizzata da parte dell’adhvaryu, che invoca lo
sposalizio di ṛ́c con sāman “strofe” e “canti”, viste come entità divine; (2) recitazione corale
da parte di due assistenti dell’adhvaryu; (3) la stuti, il canto di lode samavedico vero e
proprio; (4) recitazione in coro dell’adhvaryu e dello yajamāna.
2. Śastra, letteralmente “spada”, “recitazione Ṛgvedica” di versi specifici dedicati all’offerta
del soma, che avviene nel sadas, da parte dell’hotṛ (l’oblatore). (1) Recitazione preliminare
da parte degli addetti al Ṛgveda, (2) Recitazione dello Śastra (recitazione di mantra
Ṛgvedici), (3) invocazione dello hotṛ, (4) Recitazione conclusiva/mongitura della
recitazione, che implica una risposta da parte dello yajamāna, in cui celebrante e yajamāna
dicono: “che noi possiamo diventare re, signori di ricchezze”.
3. Havis “oblazione, offerta” del soma, che avviene sul vedi; ripete lo schema dell’offerta della
focaccia di riso/grano e orzo. (1) L’adhvaryu invita lo hotṛ a rivolgersi al dio; lo hotṛ
declama mantra Ṛgvedici rivolti al dio. (2) L’adhvaryu invita un celebrante specifico a
pronunciare una formula di buon auspicio; il celebrante pronuncia la formula (prega che il
dio possa udire le invocazioni). (3) L’adhvaryu invita lo hotṛ a pronunciare il mantra
collegato all’oblazione; lo hotṛ declama i mantra Ṛgvedici; l’adhvaryu versa il soma nel
fuoco e lo yajamāna declama la formula di rinuncia (Tyāga, da tyaj “rinunciare”).
4. Bhakṣaṇa “condivisione/divisione” (dalla radice “dividere, condividere”), consumazione
del soma da parte del committente (yajamāna) e dei celebranti, che avviene nel sadas. (1)
Ciascun celebrante che ha diritto a bere il soma, si rivolge all’adhvaryu chiedendogli di
essere invitato a bere il soma. (2) L’adhvaryu accetta e ad alta voce lo invita. (3) Il soma
viene in seguito bevuto e durante la consumazione vengono recitate ulteriori strofe
Ṛgvediche. (4) In conclusione, l’adhvaryu (che inizia la cerimonia e la chiude) recita un
inno Ṛgvedico per celebrare la consumazione del soma.
Approfondimento
Il Somayāga nella sua forma più semplice è chiamato Agniṣṭoma, dura solo un giorno, e non
prevede la costruzione di un altare, ma funge da modello per tutti gli altri riti/ è il rito centrale a
partire dal quale tutti gli altri riti sono descritti, nello specifico in base al modello-variante.
L’Agniṣṭoma è spiegato per intero, mentre di tutti gli altri riti sono menzionati solo i punti
dell’Agniṣṭoma da cui si discostano (spiego il modello, e descrivo in che modo le varianti
differiscono da quel modello).
Il rito del soma (Somayāga, parte dei riti Śrauta “solenni”) prevede un vero e proprio preludio
teatrale, una rappresentazione chiamata somavikraya, compravendita del soma”, necessaria nel
momento in cui non si ha a disposizione il Soma e messa in atto sul terreno sacrificale, individuato
ritualmente e consacrato. La pianta viene affidata dai sacerdoti ad un soggetto di casta inferiore, il
quale recita la parte del mercante di Soma.
Seguono 4 fasi: 1. stuti 2. Śastra 3. havis 4. bhakśana
L’elemento centrale dell’esecuzione del rituale è la spremitura degli steli e altrettanto importante è
l’atto di versare il Soma sulla fiamma. Nella forma più solenne, il Somayāga prevede dei rituali
accessori, gli Aṅga “sussidio”, che contribuiscono alla realizzazione dell’evento primario
(rappresentato dalla spremitura del Soma e la sua offerta agli dèi). Questi rituali accessori sono
anche costituiti da sacrifici animali, in genere il capro, dei quali il rituale impone di mangiarne i
resti.
Ciò pone un problema: i brahmani solitamente sono non violenti, praticano l’Ahiṃsā ed il
vegetarianismo. È però esplicitamente previsto che non si possa sacrificare un animale senza poi
mangiarne i resti. Proprio ai brahmani è proibito sacrificare senza mangiare parte della vittima, ma è
anche proibito mangiare carne che non sia frutto del sacrificio. I sacrifici animali sono di due tipi:
sacrifici accessori sussidiari al rito principali (sacrificio di sostanze vegetali), e sacrifici animali
indipendenti (il sacrificio animale costituisce l’elemento centrale del rito); un esempio è costituito
dall’Aśvamedha, il sacrificio del cavallo. Esso serviva ad intronizzare il Re e alla sua
proclamazione. Altro esempio è il Puruṣamedha, il sacrificio umano, citato nel Ṛgveda 10.90,
dove il sacrificio dell’uomo cosmico è posto all’origine del cosmo stesso.
La questione posta da questi riti è: come fanno i brahmani che hanno abbracciato l’Ahiṃsā ed il
vegetarianismo a sacrificare gli animali e a mangiarne poi la carne, senza macchiarsi di impurità?
Come si fanno a conciliare la posizione rituale legata al rito del Soma e che impone il sacrificio
animale e la posizione di carattere etico/morale che implica la pratica dell’Ahiṃsā e del
vegetarianismo? Un modo per conciliarli è la non esecuzione del sacrificio del Soma, anche perché
il Somayāga non è un rito di tipo obbligatorio, ovvero Nitya “costante”, ma è Kāmya “opzionale”.
Il che spiega perché il rito da un certo punto in poi non sia più stato eseguito, ovvero perché avrebbe
contravvenuto alla norma morale/rituale della non violenza.
Il rito del soma che è stato realizzato in Kerala nel 1970 è noto come Sāgniciti-Atirātra-
Somayāga, sacrificio del soma (Somayāga) che dura diversi giorni (Atirātra) dotato di (sā/sam
come, preverbio sanscrito) costruzione (citi, dalla radice ci “raccogliere”, letteralmente “impilare”)
del fuoco (agni), nello specifico dell’altare del fuoco, in genere realizzato con 1000 mattoni
suddivisi in 5 strati sovrapposti, a forma di un falco/aquila ad ali spiegate e che dopo il rito va
distrutto. L’altare si colloca nella parte orientale del terreno sacrificale e su di esso viene acceso il
fuoco ed è nel fuoco acceso sull’altare che si versa il Soma. Alla base dell’altare devono essere
poste cinque teste di esseri viventi: la testa di un capro, di un montone, di un toro, di un cavallo e di
un uomo. Nello stesso punto bisogna disporre una tartaruga viva. Da notare che le specie scelte
sono tutte grāmya “domestiche”, che si trovano all’interno del Grāma “villaggio”. Nel 1975 e nel
1990 non sono state però usate.
Esiste una convenzione, non normata dai testi che si occupavano del rituale, secondo cui le teste
delle vittime possono essere rappresentate da sculture di argilla o da Pistapaśu, animali fatti di
farina (paśu “animali” pista “farina”). Si tratta di una sostituzione prevista dalla tradizione e
nominata dalla Manusmṛti (il più importante testo normativo della tradizione indiana), ma non
sancita.
A questo proposito in India sorse una polemica. Negli ambiti brahmanici più conservatori si diceva
che il sacrificio andasse eseguito strettamente secondo le norme e non serviva quindi sostituire le
teste degli animali previsti con le sculture di argilla. Il rito non eseguito secondo le regole non solo
non è efficace, ma produrrebbe impurità nei committenti e in coloro che lo eseguono; invece, di
raggiungere lo svarga, questi andranno direttamente all’inferno. Altri sostenevano invece che anche
tramite variazioni si poteva considerare un rito valido perché erano previste dalla tradizione.
Secondo gli Śrautasūtra, raccolte che spiegano l’esatta esecuzione del rito (fanno quello che la
tradizione vedica non fa), sacrificare le vittime era assolutamente obbligatorio. Ci sono testi rituali
(ad esempio i brāhmaṇa più tardi) che affermano chiaramente che il sacrificio praticato in ambito
rituale non va considerato una forma di violenza, perché tramite esso le vittime, anche animali,
raggiungono lo svarga.
Storicamente i brahmani fanno sempre più proprio l’ideale della non violenza; inizialmente si tratta
di un precetto rituale/una necessità rituale, perché la sostanza che genera più impurità è proprio il
sangue (infatti gli animali venivano uccisi per soffocamento). I brahmani progressivamente
assorbono anche l’Ahiṃsā ascetica buddhista, la non violenza come ideale etico. Si può dire che i
brahmani abbiano subito l’influenza del buddhismo e che il brahmano diventa sempre più simile
all’asceta. Il fatto che quello che inizialmente è un precetto rituale diventi un imperativo morale fa
sì che venga gradualmente meno la celebrazione di sacrifici che implicano l’uso di violenza contro
gli animali, o almeno è un fattore che vi ha contribuito. Si evidenzia quindi un confine tra infrazione
rituale e morale molto sottile.

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