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Dentro Soffia Il Vento (Italian Edition)
Dentro Soffia Il Vento (Italian Edition)
sorge il borgo di Saint Rhémy: un piccolo gruppo di case affastellate le une sulle altre, in
mezzo alle quali spunta uno sparuto campanile.
Al calare della sera, da una di quelle case, con il volto opportunamente protetto
dall’oscurità, qualche «anima pia» esce a volte per avventurarsi nel bosco e andare a bussare
alla porta di un capanno dove vive Fiamma, una ragazza dai capelli così rossi che sembrano
guizzare come lingue di fuoco in un camino. Come faceva sua madre quand’era ancora in
vita, Fiamma prepara decotti per curare ogni malanno: asma, reumatismi, cattiva digestione,
insonnia, infezioni… Infusi d’erbe che, in bocca alla gente del borgo diventano «pozioni»
approntate da una «strega» che ha venduto l’anima al diavolo. Così, mentre al calare delle
ombre gli abitanti di Saint Rhémy compaiono furtivi alla sua porta, alla luce del sole si
segnano al passaggio della ragazza ed evitano persino di guardarla negli occhi.
Il piccolo e inospitale capanno e il bosco sono perciò l’unica realtà che Fiamma conosce,
l’unico luogo in cui si sente al sicuro. La solitudine, però, a volte le pesa addosso come un
macigno, soprattutto da quando Raphaël Rosset se n’è andato.
Era inaspettatamente comparso un giorno al suo cospetto, Raphaël, quando era ancora un
bambino sparuto, con una folta matassa di capelli biondi come il grano e una spruzzata di
lentiggini sul naso a patata. Le aveva parlato normalmente, come si fa tra ragazzi, ed era
diventato col tempo il suo migliore e unico amico. Poi, a ventuno anni, in un giorno di sole
era partito per la guerra con il sorriso stampato sul volto e la penna di corvo ben lucida sul
cappello, e non era più tornato.
Ora, ogni sera alla stessa ora, Fiamma si spinge al limitare del bosco, fino alla fattoria dei
Rosset. Prima di scomparire inghiottita dal buio della notte, se ne sta a guardare a lungo la
casa dove, in preda ai sensi di colpa per non essere andato lui in guerra, si aggira sconsolato
Yann, il fratello zoppo di Raphaël… il fratello che la odia.
Ritornando su un tema caro alla letteratura di ogni tempo – l’amore che dissolve il rapporto
tra una comunità e il suo capro espiatorio – Francesca Diotallevi costruisce un romanzo che
sorprende per la maturità della scrittura e la solidità della trama, un’opera che annuncia un
nuovo talento della narrativa italiana.
Francesca Diotallevi è nata a Milano nel 1985. È laureata in
Scienze dei Beni Culturali e lavora in uno studio legale. Tra le sue
opere Le stanze buie, Amedeo, je t’aime e il racconto pubblicato in e-
book Le Grand Diable, prequel di Dentro soffia il vento.
FRANCESCA DIOTALLEVI
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Il file è siglato digitalmente, risulta quindi rintracciabile per ogni utilizzo illegittimo.
Agli inizi noi eravamo degli uccelli, avevamo le ali e ogni giorno
volavamo alti sulle cime degli alberi e delle montagne per procurarci
il cibo. Eravamo uccelli, e con l’arrivo dell’inverno ci dirigevamo
verso paesi più caldi. Quando la stagione cominciava a cambiare,
quando le foglie sugli alberi iniziavano a ingiallire e quando i vermi e
gli altri esseri sulla terra cominciavano a ritirarsi nelle loro tane,
lasciavamo un paese e ci dirigevamo verso un altro.
Una volta, dopo un lungo periodo in cui non avevamo toccato cibo,
giungemmo su una regione ricca di frumento, come mai avevamo
visto prima. Piombammo su quei campi, mangiammo talmente tanto e
diventammo così pesanti da non poterci più alzare in volo. Così
quella notte restammo in mezzo all’erba e al frumento.
La mattina dopo, invece di volare via, prestammo ascolto alla voce
del nostro stomaco e riprendemmo a mangiare. Restammo in quel
campo; diventammo giorno dopo giorno sempre più pesanti; non
riuscivamo più a volare e, per spostarci da un luogo all’altro, eravamo
costretti a saltellare. Poi le foglie cominciarono a ingiallire sugli
alberi, i vermi e le altre creature della terra scivolarono nelle loro
tane; il vento freddo dell’inverno prese a soffiare, ma noi non
riuscivamo ad alzarci in volo.
L’erba si diradò e i gambi del frumento diventarono secchi. Anche
noi, osservando tutti quegli esseri brulicanti, prendemmo a scuotere le
granaglie dai gambi, ne facemmo dei mucchi e li spingemmo nei
buchi della terra. Le piume delle nostre ali si coprirono di croste, si
incollarono e cominciarono a diradarsi. Le ali assunsero la forma di
braccia e di mani. E poiché non eravamo più in grado di volare,
scavammo delle tane sulle spiagge dei fiumi e sui fianchi delle
montagne.
Noi siamo uccelli. Le nostre braccia sono due ali. Ogni volta che
vediamo una montagna, ci prende il desiderio di raggiungere le sue
vette; ma non siamo più in grado di volare, e dobbiamo camminare,
se vogliamo raggiungerle. Ma un giorno, il popolo Kalo, il popolo
degli zingari, riacquisterà le sue ali.
1. Leggenda popolare zingara in E. Petoia (a cura di), Miti e leggende degli zingari, Franco
Muzzio Editore, Roma, 2004.
Agape
«Sei stato sgarbato e hai offeso il nuovo parroco. Sono mortificata dal
tuo comportamento» disse mia madre, diversi minuti dopo che
avevamo lasciato il borgo per tornare alla fattoria. Teneva il mento
sollevato e camminava senza guardarmi.
«Mi scuserò con don Agape. Non ce l’avevo con lui» dissi,
sospirando.
«Sarà proprio il caso che ti scusi il prima possibile. Non tollero che
la gente possa pensare che ho cresciuto un figlio tanto villano».
Roteai gli occhi al cielo e rallentai l’andatura, affiancandomi ad
Agnés.
«Ti ho visto nel cimitero. Parlavi con Fiamma» sussurrò lei, dopo
qualche secondo, quando nostra madre fu abbastanza lontana sul
sentiero da non sentirci.
Mi irrigidii. «Non stavo parlando con lei. Non proprio».
Agnés si voltò a guardarmi, accigliata. «Cosa significa “non
proprio”? O ci hai parlato o non ci hai parlato».
«Le ho solo detto che deve smetterla di venire a cercarlo. Lui non
tornerà».
Mia sorella sospirò: «Non le hai mai dato le lettere che lui le ha
scritto, vero?»
Inspirai, contraendo la mascella.
All’inizio, Raphaël aveva scritto con regolarità. Le sue prime
lettere erano giocose e divertenti, si stupiva di tutto, si entusiasmava
per un nonnulla. Non era mai stato in nessun posto che non fosse
Saint Rhémy, prima di essere chiamato alle armi. Le lettere
arrivavano in due buste separate, una delle quali, pur recando il nostro
indirizzo, era per la ragazza dei boschi. Non le avevo aperte e non
gliele avevo mai consegnate.
Quando avevano smesso di arrivare, e di Raphaël non avevamo più
ricevuto notizie, avevo avuto la tentazione di leggerle, poi di
stracciarle e gettarle nel camino; ma non avevo fatto nessuna delle
due cose. Legate con uno spago, le conservavo sotto il materasso,
senza sapere il perché. Ero convinto che la strega non meritasse le
parole di mio fratello, ma al contempo non avevo il coraggio di
liberarmene.
«Dovresti dargliele, se le hai ancora» disse Agnés, con aria grave.
«Gli voleva bene anche lei, dopotutto. E lui ne voleva a lei».
«Straparli, Agnés. Non dobbiamo nulla a quella donna. Comunque,
quelle lettere le ho gettate da un pezzo».
Mia sorella fece spallucce e restò in silenzio. Era un argomento
doloroso anche per lei.
Lucien Borel, che avevo già avuto modo di conoscere nelle settimane
precedenti, si mostrò oltremodo cortese e disponibile. La sua casa era
molto più grande della canonica, e l’uomo aveva a disposizione uno
studio già stipato di volumi.
«Mi duole chiedervi questo favore, ma…» balbettai, nervoso,
torcendo la tesa del cappello.
«Nessun problema, reverendo. Ho spazio a sufficienza e sarò ben
lieto di custodire i vostri libri, fino a quando non troverete una
sistemazione adeguata alle vostre esigenze. Nel frattempo, potrete
venire qui ogni volta che avrete bisogno di consultarli, io e mia
moglie saremo lieti di ospitarvi».
«Siete davvero gentile. Vi sono obbligato».
Il maestro di Saint Rhémy agitò brevemente la mano davanti a sé.
«Sciocchezze. Chiunque ami i libri è il benvenuto in casa mia. E la
stessa cosa vale anche per i suoi libri».
Gli sorrisi. Un sorriso pieno di calore, che esibivo forse per la
prima volta da quando vivevo tra quelle persone schive e silenziose,
così diverse da tutto quello cui ero abituato. Per un istante ripensai al
caos di Roma, al suo via vai continuo di volti e voci, all’espansività
della gente, quel loro alzare i toni e ridere con fragore.
Gli uomini si adattano all’ambiente in cui vivono, pensai. Lassù,
tra quelle montagne impervie, c’era un silenzio tanto profondo da
farti dubitare della vita stessa. Ci si svegliava con il sorgere del sole e
altrettanto si faceva per coricarsi, al tramonto. La gente era temprata
dal ghiaccio e dalla fatica, dalle sfide che doveva affrontare per
sopravvivere in un luogo inaccessibile e spietato, come era quel
piccolo borgo spazzato dal vento. Me ne stavo rendendo conto
anch’io, e più mi scontravo con le difficoltà che fronteggiavo ogni
giorno, più mi convincevo che Dio aveva fede in me, nelle mie
capacità, se mi aveva spinto a una prova tanto grande.
Non posso deluderlo, questo pensavo quando pativo il freddo e la
fatica, quando i miei sforzi sembravano vani e lo sguardo tagliente di
don Jacques mi diceva che non ero all’altezza del compito che mi era
stato assegnato.
Prendere i voti era stata una diretta conseguenza della mia
condizione di secondogenito. La mia era una famiglia importante,
agiata. Con un fratello indirizzato a prendere in mano le redini
dell’azienda fondata dal mio bisnonno e uno zio vescovo, che
rivestiva un ruolo di spicco in Vaticano, il mio futuro era stato deciso
ben prima che il Signore mi infondesse la vocazione. Non mi ero
tirato indietro; ero sempre stato un’occasione mancata, il figlio
mediocre, quello che non brillava negli studi e nella vita in generale.
Un bambino scialbo che si era trasformato in un adolescente timoroso
e indeciso. Avevano deciso al mio posto, e io avevo seguito la strada
che qualcun altro aveva tracciato davanti a me. Fino al momento in
cui, terminato il seminario, mi ero trovato davanti a una scelta:
proseguire gli studi e la carriera in Vaticano, come era scontato che
facessi, o svincolarmi da tutto, tentare di camminare con le mie
gambe.
Contrariamente a ciò che tutti si aspettavano, e di certo si
auspicavano, scelsi la seconda alternativa. Non era coraggio,
tantomeno determinazione. La mia, me ne resi conto molto presto, era
paura. Se fossi rimasto sotto la tutela dello zio, mi sarei sentito
giudicato in ogni mio gesto, in ogni parola. Dovevo affrancarmi da
tutto. Inoltre, avevo bisogno di capire se la fede, che in me
tentennava, si sarebbe fortificata fino a diventare davvero una
ragione. E per capirlo dovevo andare lontano, il più lontano possibile,
da chiunque avrebbe potuto tendermi una mano, aiutarmi.
Volevo essere io quello che aveva aiuto da dare. Per una volta mi
sarei reso utile.
«Vi ringrazio» dissi ancora. «Trovo molto prezioso il vostro
contributo alla comunità, i vostri alunni sono fortunati ad avervi come
insegnante».
Lucien Borel si strinse nelle spalle. «Mi lusingate, reverendo, ma
non sono convinto che abbiate ragione. Insegno loro a leggere e
scrivere, tuttavia la vita che conducono li spinge presto ad
abbandonare i libri per dedicarsi ad altro».
Sul suo volto scorsi l’amarezza provocata dalla sconfitta di non
aver visto nessuno dei suoi alunni emergere per diventare altro. I
genitori avevano bisogno dei figli a casa, le famiglie necessitavano di
braccia che potessero lavorare nei campi e aiutare tra le mura
domestiche. Non ci guadagnavano niente a farli studiare, anzi erano
convinti che fosse soltanto una perdita di tempo, uno spreco di denaro
e risorse.
«È il vostro impegno che vi fa onore, a prescindere dai risultati».
Il maestro mi rivolse un’occhiata curiosa. «Potreste dire la stessa
cosa di voi? Talvolta, ho l’impressione che senza i risultati lo sforzo
non valga nulla».
Era un uomo mite e discreto, eppure in quella frase scorsi una
scintilla di ribellione. Doveva avere un carattere più ostinato di quello
che mi aveva dato a intendere fino a quel momento.
Lasciai passare qualche secondo prima di rispondere, cauto:
«L’impegno lo dobbiamo a noi stessi, e al Signore. Lui conosce il
nostro valore, indipendentemente da tutto».
Per un breve istante l’uomo che avevo davanti sembrò a disagio.
Distolse lo sguardo, posandolo sui libri nello scaffale di legno. «Ho
avuto anche alunni brillanti, sapete? Ragazzi che avrebbero fatto
strada, se avessero proseguito gli studi. Raphaël Rosset…» mormorò,
tornando a guardarmi. «Era un ragazzo di sorprendente intelligenza.
Ed era curioso, curioso di tutto. È morto in guerra» concluse cupo.
Abbassai lo sguardo. Era la seconda volta che mi parlavano del
figlio minore dei Rosset, e io ogni volta associavo quel giovane senza
volto al più coriaceo e impenetrabile fratello maggiore, che da
qualche settimana si trovava in aperta ostilità con me. O con Dio
stesso.
In quel momento, la porta dello studio si aprì e si affacciò la
signora Borel. Era una donna minuta, dal volto gentile, i capelli
bianchi nascosti sotto un fazzoletto e gli occhi arrossati. Suo marito,
nelle mie precedenti visite, mi aveva detto che la moglie soffriva
spesso di disturbi legati alla vista. Quel giorno, però, mi sembrò
migliorata rispetto ai precedenti.
«Volete fermarvi a pranzo, don Agape?»
Qualche minuto dopo mi trovavo seduto tra i due coniugi nella
piccola sala da pranzo. Il tavolo era apparecchiato con ciotole di
legno riempite di polenta, in cui la signora Borel versò un sugo di
carne denso e scuro.
Mentre il maestro mi serviva un’abbondante coppa di vino, provai
a riportare il discorso dove lo avevamo abbandonato: «E così…
Raphaël Rosset è stato uno dei vostri studenti più diligenti?»
«Non ho detto diligenti, ho detto brillanti» precisò Lucien,
spezzando con le mani una forma di pane nero. «Sì, era un ragazzo
pieno di entusiasmo. Incontenibile, per certi aspetti».
Scossi la testa. «Sembra così diverso dal fratello…»
Lucien mi rivolse un’occhiata penetrante. «Ho sentito che avete
avuto dei problemi con Yann Rosset».
«Problemi? In tutta onestà, non saprei dirvi quale sia la ragione che
lo ha allontanato dalla chiesa. Padre Jacques mi ha detto che, prima
del mio arrivo, Yann Rosset era un uomo devoto e timorato di Dio.
Eppure, sono convinto di non aver fatto o detto nulla che potesse
offenderlo».
«Avete provato a chiedere a lui il motivo di questo
comportamento?» mi domandò la signora Borel, che mangiava
silenziosa, lo sguardo vacuo, ma sembrava ascoltare tutto con molta
attenzione.
«Sì, ma non ho ottenuto granché… Temo che Yann sia un uomo
fin troppo schivo, tutte le volte che ho fatto visita al podere non lo ho
mai trovato. E la stessa cosa mi è accaduta con la ragazza che vive nei
boschi. Sembra che si volatilizzino, quando mi avvicino».
I coniugi Borel si scambiarono un’occhiata, e qualcosa di non detto
passò tra loro.
La signora Borel appoggiò il cucchiaio e si sollevò. «Vado a
ravvivare la brace» disse, stringendo gli occhi.
Lucien sembrava a disagio. Abbassò la voce, per non farsi sentire
dalla moglie: «Dunque i vostri tentativi di incontrare Fiamma non
sono andati a buon fine?»
«Se non l’avessi vista con i miei occhi al limitare della proprietà
dei Rosset, il giorno dopo il mio arrivo, stenterei a credere che esista»
risposi, scuotendo la testa e servendomi un’altra abbondante porzione
di sugo. All’improvviso, sollevai il volto, colto da un pensiero che
non mi aveva sfiorato fino a quel momento. «Quella sera, lei era lì e
guardava verso il podere. E Yann Rosset…» sbattei le palpebre,
riportando alla mente lo strano sguardo, teso e fisso con cui l’uomo
aveva a sua volta guardato lei. «Yann Rosset non l’ha scacciata.
Loro… si osservavano. Come se si studiassero» considerai, la mano
con cui tenevo il cucchiaio sollevata a mezz’aria. Yann Rosset,
ripensandoci, non mi sembrava il tipo di persona che darebbe
confidenza a una simile reietta, una donna considerata da tutti foriera
di sciagure.
Il maestro assunse un’espressione guardinga. Sua moglie, alle
nostre spalle, stava gettando alcuni ramoscelli tra le fiamme. «Hanno
qualcosa che li unisce, l’affetto per qualcuno che non c’è più. Mi
piacerebbe raccontarvi questa storia, ma in un altro momento. Un
momento più adatto» sussurrò, lanciando brevi occhiate colpevoli alla
signora Borel.
Capii che sua moglie non tollerava simili argomenti tra le mura di
casa e, per un po’, misi a tacere la curiosità. Tuttavia, dopo un
tentativo di far virare la conversazione sull’imminente desarpa, e
sulla conseguente festività del borgo, non riuscii a tacere e domandai:
«Mi piacerebbe sapere qualcosa di più su Fiamma. Non ha un
cognome, tanto per cominciare? E come mai vive in quei boschi da
sola? Voi sembrate essere l’unica persona, in tutta Saint Rhémy,
disposta a parlarne».
«Perché vi interessa tanto?» domandò a quel punto la moglie del
maestro, rivolgendomi uno sguardo carico di disapprovazione.
Era sempre stato un mio difetto, non capivo mai quando era il caso
di tacere. Lucien Borel mi aveva dato a intendere che me ne avrebbe
parlato più avanti, eppure non ero riuscito a mordermi la lingua e
pazientare. «È un’anima perduta che intendo ricondurre…»
«Tempo sprecato, signor curato» mi interruppe la signora Borel.
Fino ad allora mi era sembrata mite e remissiva, ma in quel momento
il suo sguardo, per quanto arrossato, era deciso e diretto. «Lei non
vuole essere salvata da voi. Dovreste lasciarla dove sta».
«Ma…»
«È come sua madre, una creatura selvatica. Tentate di blandirla, e
vi si rivolterà contro. Tendetele una mano, e ve la azzannerà senza
pietà. Dicono che possa trasformarsi in una grossa volpe dai denti
appuntiti…»
«Adélaïde» disse Lucien, ma piano, come se non osasse
contraddirla.
Lei sospirò: «Lo so, sono tutte sciocchezze». Scosse la testa, con
un sorriso amaro dipinto sulle labbra. Poi tornò a fronteggiarmi:
«Tuttavia, ve lo dico con il cuore, reverendo: quella donna non
appartiene al borgo, non farà mai parte di noi. Ci sono battaglie già
perse in partenza, e questa è una di quelle».
Stavo per dire qualcosa, ma il modo in cui Lucien scosse la testa mi
costrinse a tacere, una volta per tutte.
Mi accomiatai mezz’ora dopo, imbarazzato. Il pasto si era concluso
con la signora Borel chiusa in un ostinato silenzio, mentre suo marito
cercava di tenere viva la conversazione con argomenti superficiali che
non interessavano a nessuno.
Mi chiesi cosa celasse l’astio di quella donna di solito dolce e
accomodante. Non mi era sfuggita, prima di uscire da casa loro, la
bottiglia che avevo visto su un ripiano della credenza. Era la stessa
bottiglia che avevo scorto in numerose abitazioni del villaggio. Una
pozione, un filtro, qualunque cosa fosse, erano state le mani di
Fiamma a prepararla.
Gli abitanti del borgo dicevano di odiarla e la temevano, ma era da
lei che andavano a cercare conforto dai loro mali. Capii che, se
volevo incontrarla, avrei dovuto fare la stessa cosa.
Yann
Indossavo una camicia pulita e avevo scrostato gli scarponi dal fango.
Scendevo di rado al borgo; da quando avevo iniziato a disertare la
chiesa, poi, ancora meno.
Raggiunsi il paese sotto un cielo bianco, che prometteva neve.
Novembre era alle porte, e le creste delle montagne erano già
imbiancate. Scesi per la via principale espirando dalla pipa lievi
volute di fumo, che si disperdevano nell’aria rarefatta insieme al fiato
caldo.
Gli zingari occupavano un angolo della piazza sotto la chiesa.
L’uomo portava i capelli lunghi raccolti in una coda fermata da un
laccio di cuoio e aveva una fisarmonica al collo. La ragazzina
danzava al suono della musica, roteando su se stessa e muovendo con
grazia le mani dalle dita lunghe. La gonna era fatta di balze colorate e
si gonfiava intorno a lei a ogni volteggio. Per terra, accanto ai suoi
piedi, c’era un piattino, sul quale erano appoggiate poche monete.
Mi arrestai, rivolgendo ai nomadi un’occhiata di disapprovazione.
Erano arrivati il giorno della fiera, quando il paese era in festa per la
desarpa. Uomini e donne dalla carnagione brunita e dalle vesti
colorate, ragazzini con le dita sporche e i capelli lunghi. Attaccato
addosso portavano l’odore di luoghi lontani, di terre sconosciute.
Parlavano diverse lingue, avevano accenti misteriosi e volti segnati da
infinite storie. Per vivere, riparavano pentole. In paese li chiamavano
zingari stagnini, perché il metallo diventava cera liquida tra le loro
mani esperte, anche se questo non faceva altro che aumentare la
diffidenza che li circondava. Chiunque sapesse piegare il fuoco era
visto con sospetto. Le donne danzavano e leggevano il futuro nel
palmo della mano.
Non era la prima volta che li vedevo, anche se dall’ultima erano
passati molti anni, quasi venti.
Ero un bambino, allora. Agnés aveva quattro anni, Raphaël due. Io,
che ne avevo sei ed ero il fratello maggiore, ero stato
responsabilizzato dai nostri genitori: «Bada ai più piccoli, che non si
allontanino verso il bosco. Gli zingari li rubano, i bambini».
Si erano fermati alcune settimane, accampandosi tra gli alberi,
vicino al ruscello. Don Jacques ne aveva fatta una questione
personale. Vent’anni prima in lui c’era tanta energia da piegare una
montagna, e quell’energia, alimentata dal disprezzo, l’aveva
impiegata per contrastare quei viaggiatori senza patria e senza Dio.
Una battaglia vinta, sebbene gli fosse costata un’anima: una pecora
fuggita dall’ovile, attirata dalla musica soave che i vagabondi
suonavano alla sera, radunati attorno al fuoco, e smarritasi per
sempre. Si trattava della madre di Fiamma, e don Jacques considerava
questo imperdonabile. Gli era sfuggita dalle mani, finendo dritta tra le
grinfie del demonio, e con lui aveva fornicato fino a dare alla luce
quella figlia che aveva capelli di brace e occhi da bestia selvatica.
Tutti, al borgo, conoscevano la storia, anche se nel corso degli
anni, passando di bocca in bocca, era stata modificata fino a diventare
quasi una leggenda.
Vivienne veniva dalla bassa valle. Orfana di entrambi i genitori, era
stata cresciuta in un istituto e mandata, ancora ragazzina, a lavorare
nella canonica di Saint Rhémy. Una ragazza bionda e sottile con gli
occhi spaventati e le labbra pallide. Era esile come un giunco, ma
lavorava sodo e, per questo, si era presto conquistata la fiducia del
parroco e della comunità. La domenica mattina andava a messa con il
capo coperto, lo sguardo sempre basso. Non parlava con nessuno, al
punto che in molti si erano chiesti se non fosse ritardata o forse muta.
Ma Vivienne era semplicemente silenziosa.
Quando non lavorava alla canonica, faceva lunghe passeggiate in
montagna. Si portava un cesto e, quando tornava, aveva con sé erbe e
piante, bacche e funghi. Sapeva distinguere le erbe benevole da quelle
cattive, i funghi buoni per farci la zuppa e quelli che ti facevano
morire sul colpo, se solo ne assaggiavi un pezzo.
Poi, un giorno, portati dal vento che soffiava dalle cime, erano
arrivati gli zingari. Si erano accampati nel bosco, e don Jacques aveva
proibito alla sua domestica di risalire il sentiero, inoltrandosi nella
foresta, finché quegli uomini, dai capelli d’inchiostro e dalle
sopracciglia tanto scure da ricordare le ali di un corvo, non se ne
fossero andati. Ma la curiosità è femmina, e Vivienne doveva covare
già dentro di sé il germe della ribellione. Una notte era uscita e non
aveva più fatto ritorno alla canonica.
Dicevano di averla vista danzare a piedi nudi, i capelli sciolti sulle
spalle, attorno a un fuoco che bruciava incubi. La musica gitana si
sollevava dalle montagne, gli abitanti di Saint Rhémy si erano chiusi
la porta di casa alle spalle, serrandola, e si erano segnati facendo gli
scongiuri. Quella notte, il diavolo aveva camminato tra loro e si era
fatto beffe del parroco rubandogli un’anima da sotto il naso.
Quando gli zingari erano ripartiti, tutti si erano aspettati che
Vivienne se ne andasse con loro. Invece, era rimasta, anche se non era
più tornata al villaggio. La foresta era diventata la sua casa e, nove
mesi dopo, aveva dato alla luce una bambina con una nuvola di
capelli incandescenti sulla testa. Gli zingari sapevano piegare il
fuoco, come il demonio, e lei, a quella figlia venuta dagli inferi,
aveva dato un nome che non facesse scordare a nessuno le proprie
origini.
Entrata nel capanno mi accorsi subito che qualcuno era stato lì. Per
terra, vicino alla porta, era posata una cassetta che conteneva degli
attrezzi. Il mio cuore accelerò i battiti, e lo odiai per quel suo stupido
sperare, per quella ostinata incapacità di arrendersi, nonostante tutto.
Chiusi gli occhi e immaginai Yann aggirarsi silenzioso nella mia
casa; era venuto per riparare il tetto, inutilmente. Alla fine, quando il
coraggio aveva avuto la meglio sul disprezzo, era tornato e aveva
capito che quello che gli avevo detto l’ultima volta che ci eravamo
guardati negli occhi era vero: non avevo bisogno di lui, potevo
cavarmela da sola, ero in grado di sopravvivere.
Non sarebbe più tornato.
Mi avvicinai al camino. Lo scialle, che ricordavo di aver lasciato
sulla poltrona, era per terra. Lo raccolsi e me lo strinsi addosso;
odorava di tabacco. Affondai il volto nella lana e cercai di respirare il
suo odore, quel poco che aveva lasciato di sé.
La sua pelle non la potevo dimenticare. Mi si era impressa addosso,
e non riuscivo a scrollarla via. Ci avevo provato a odiarlo. Lui, in
fondo, mi odiava con facilità. Ma ogni tentativo era vano. L’odio
tornava da me trasformato in amore, come quei cani che, anche se li
scacci a calci, non smettono di scodinzolare, le orecchie basse e lo
sguardo fiducioso.
Mi chiesi se anche Raphaël avesse cercato di odiarmi. Se, mentre
affondava tra il fango e la cenere, avesse provato a lasciar scivolare
via il mio nome e il mio volto. Se nei suoi ultimi istanti mi avesse
pensato, maledicendomi.
Non mi aveva mai scritto, e io non mi sarei mai perdonata di non
aver voluto ascoltare le sue ultime parole, perché prima di partire era
venuto a scusarsi, a chiedermi perdono, e io, chiusa nel mio orgoglio
ferito, l’avevo lasciato andare via senza pensare che avrei potuto non
vederlo mai più.
Agape
Le dita strette ai fogli su cui don Jacques aveva annotato gli appunti
per il mio sermone, guardai i fedeli radunati tra quelle spoglie pareti
grigie e deglutii.
La chiesa era fredda e il fiato usciva dalle bocche come un esile
sbuffo di fumo. Seduti sulle panche mi osservavano con il mento
alzato e l’espressione indifferente. Non gli importava davvero quello
che avevo da dire; volevano solo tornare a casa e riscaldarsi, avevano
i loro pensieri, le loro preoccupazioni, cose reali, non astratte come
quel Dio che tutte le settimane si riunivano per pregare. Quel Dio che,
spesso, rimaneva sordo alle loro accorate suppliche.
Da due giorni aveva ricominciato a nevicare. Il cielo si era fatto
opaco e nebuloso, le montagne erano svanite nella foschia e persino il
bosco sembrava essere scomparso sotto tutto quel bianco, da cui non
spuntavano altro che rami scuri e sparuti.
Mi schiarii la voce e abbassai lo sguardo ai caratteri obliqui e
affilati che don Jacques aveva vergato sulla carta, senza lasciare la
minima sbavatura.
«Dal Libro del profeta Daniele» esordii, il fiato che mi tremava fra
le labbra. «“Signore, Dio grande e terribile, che conservi il patto e la
benevolenza a coloro che lo amano e che custodiscono i suoi
comandamenti! Abbiamo peccato, abbiamo commesso colpe, siamo
stati empi; ci siamo ribellati e ci siamo allontanati dai tuoi
comandamenti e dai precetti. Non abbiamo ascoltato i tuoi servi, i
profeti che hanno parlato nel tuo nome ai nostri re, ai nostri capi, ai
nostri padri e a tutto il popolo della terra. A te, Signore, la giustizia e
a noi la vergogna sul volto…”» Mandai giù un groppo amaro. Don
Jacques aveva improntato l’omelia sulla paura e sul terrore che Dio
poteva, e doveva, incutere nel cuore dei peccatori: «“Dio, grande e
terribile…”»
Sollevai gli occhi dal pulpito. Gli abitanti di Saint Rhémy se ne
stavano immobili e avvizziti nei loro cappotti consunti, negli scialli di
lana rigida, pallidi, le labbra serrate, gli sguardi bassi. La loro
apparente docilità era terrificante.
Don Jacques, seduto accanto all’altare, teneva come al solito gli
occhi chiusi e le dita artigliate al pomo del bastone. Quando si rese
conto che indugiavo, sollevò le palpebre, rivolgendomi un’occhiata di
rimprovero per intimarmi di proseguire.
Scossi la testa e posai le mani sui fogli, nascondendo le parole che
aveva voluto impormi, credendo che non avessi la sua stessa forza
persuasiva, la sua capacità di penetrare nella mente di quella gente
semplice, per cui avere fede in Dio significava credere che la vita non
fosse tutta lì, in quel luogo impervio esposto alle intemperie, dove per
vivere occorreva avere un coraggio che andava ben oltre le proprie
forze. Parole piene di acredine e di avversione verso chiunque osasse
scostarsi dalle leggi divine.
«Dio» dissi, raddrizzando la schiena «Dio è nei dettagli».
La mia voce assunse un tono diverso, e i fedeli se ne resero conto.
Sollevarono la testa, osservandomi perplessi.
In quel preciso istante mi accorsi che volevo la loro attenzione.
Fino ad allora mi ero nascosto, avevo sperato di passare inosservato,
mi ero sottratto ai compiti per cui mi sentivo inadeguato. Non era
forse quello il motivo per il quale mi ero rifugiato lassù, in un
minuscolo paese abitato da poche anime?
Cercavo un modo per sfuggire a me stesso, alle scelte che avevo
compiuto senza esserne appieno consapevole. La mia famiglia mi
aveva ceduto al Signore sperando di ricevere in cambio un po’ di
gloria mondana, di vedermi assegnato a un ruolo di prestigio in
ambito ecclesiastico. Grazie alle conoscenze dello zio anche uno
come me, che non aveva mai dimostrato particolari attitudini in nulla,
poteva ambire a fare carriera. Invece, li avevo delusi, di nuovo. La
mia decisione di diventare il curato di una piccola parrocchia di
montagna, che io millantavo come un atto di coraggio e dedizione,
non era altro che l’ennesimo tentativo di sfuggire alla mia vita. Cosa
avevo fatto in quei mesi di volontaria reclusione lassù, se non tentare
di convertire una donna che aveva molta più fede di quanta ne avessi
io stesso? Non erano forse le sue parole che mi venivano in aiuto in
quel momento?
Dio, il Dio che abitava nel mio cuore, era molto diverso da quel
Dio inflessibile e vendicativo che animava e pervadeva i discorsi di
don Jacques.
«Dio ci insegna la misericordia» esclamai, tendendo una mano ai
fedeli. «Primo: non giudicare. Sforziamoci di essere imparziali, di
mettere a tacere i giudizi. Anche se siamo responsabili di qualcuno,
non dobbiamo mai giudicare le sue intenzioni; non sappiamo quali
siano i suoi sentimenti profondi, e il segreto del suo cuore non
appartiene che a Dio. Condannare è ancor peggio: è dare un giudizio
definitivo. Evitiamo la più piccola condanna, nelle nostre parole e nei
nostri gesti. Al contrario, sforziamoci sempre di assolvere, di scusare,
di rimettere a ciascuno il suo debito; cerchiamo di perdonare sempre e
riceveremo anche il perdono del Padre. È così che verrà il regno di
Dio “come in cielo così in terra”».
Guardai gli abitanti di quel piccolo villaggio, a uno a uno: Lucien
Borel e sua moglie, che sedevano l’uno accanto all’altra, grigi e
stanchi. La vita li aveva privati di molto, aveva agito su di loro in
maniera imperscrutabile. Corinne Rosset e sua figlia Agnés, rimaste
sole a presenziare alla messa; Corinne, con un figlio morto in guerra e
l’altro incapace di lasciare andare il gomitolo di dolore che gli
opprimeva il petto, che gli impediva di guarire, di tornare a vivere.
Chissà dov’era in quel momento Yann Rosset, che con Dio non
voleva avere più nulla a che fare. I miei occhi si spostarono su Marie,
nelle prime panche. Mi guardava con aria preoccupata, cercando di
ammonirmi con lo sguardo: don Jacques non era contento di me e,
quando don Jacques non era contento, il suo malumore si riversava su
di lei. Lei, però, quel giorno, non aveva nessuna intenzione di farsi
guastare il buon umore. Quel pomeriggio Yann l’avrebbe portata a
fare una passeggiata, forse le avrebbe chiesto di sposarlo. Poco
distante da Marie sedeva Basile Blanche, che aveva lo sguardo
bovino e si puliva le unghie con la lama di un coltellino che
dall’inizio della funzione si era rigirato incessantemente fra le mani.
Presenziava in chiesa perché era quello che qualunque buon cristiano
avrebbe fatto, ma non aveva mai ascoltato una parola né mormorato
una preghiera.
Quello era il mio gregge, loro erano una mia responsabilità.
Giurai a me stesso che non mi sarei più lasciato influenzare da
nessuno e finii la messa nel silenzio più assoluto. Per la prima volta,
da quando dicevo la messa a Saint Rhémy, avevo la loro totale
attenzione.
Iniziai a tremare, vinta dal ricordo di quella notte. Yann si fece serio.
«Fa freddo» disse, sollevandosi.
Quando si staccò da me, mi sentii morire il respiro tra le labbra. Se
ne sarebbe andato. Si era preso ciò che voleva, non c’era nient’altro
che potessi dargli. Tutto ciò che avevo, tutto ciò che ero, l’avevo
messo nelle sue mani.
Rimasi in silenzio, guardandolo alzarsi e, nella sua nudità, aggirarsi
per la casa. Si piegò verso il camino, dove non restava altro che
cenere fredda, e vi buttò alcuni ramoscelli secchi e della corteccia.
Restò lì, piegato sulle ginocchia, a osservare le fiamme che, con
fatica, attecchivano al legno. Un soffice bagliore si diffuse
nell’ambiente ormai buio, allungando le ombre intorno a noi.
La cicatrice sulla sua gamba era un solco di sofferenza impossibile
da colmare. Yann era venuto da me e mi aveva amata, ma restava
comunque una fortezza senza ponti levatoi, un luogo impervio in cui
soffiava sempre il vento. Il freddo che aveva dentro non potevo
scioglierlo.
Rimasi silenziosa, aspettando il momento in cui si sarebbe
rivestito, uscendo dalla mia vita. Ma non accadde. Anche lui
sembrava indugiare, indeciso su quale fosse il comportamento da
adottare, o forse solo combattuto. Dal suo sguardo, fisso sul fuoco,
traspariva il tormento, la lotta interiore che lo faceva esitare. Se fosse
rimasto, non avrei potuto dargli più di quello che aveva già preso: me
stessa. Yann questo lo sapeva.
Alla fine si alzò, ma non si diresse dove, poco prima, avevo
lasciato cadere i suoi vestiti. Tornò da me. Si stese al mio fianco,
abbracciandomi da dietro, affondando il volto tra i miei capelli, il
fiato che mi solleticava la nuca. Le mani, ruvide e callose,
avvolgevano i miei seni; le sue ginocchia si piegarono nelle mie. Visti
dall’alto saremmo sembrati un solo corpo.
«Hai ancora freddo?» domandò in un sussurro.
«Quando sei accanto a me, non so cosa sia, il freddo» mormorai.
La sua presenza era qualcosa di caldo e confortevole, qualcosa cui
non ero abituata.
«Bene. Ora dormi».
«E tu?» domandai, senza riuscire a mascherare una traccia di
panico nella voce. Odiavo sentirmi inerme, piena di incertezze.
«Io resto qui, vicino a te» rispose, stringendomi a sé. C’era, in
quella sua stretta, senso del possesso e protezione insieme. Nessuno
mi aveva mai abbracciata così, mi faceva sentire amata, completa.
Una sensazione che non avevo mai provato, nemmeno con Raphaël,
che era parte della mia anima.
«Ti amo, Yann».
Lui non disse niente. Il fuoco continuò a crepitare, diffondendo
bagliori rossastri intorno a noi. Rimasi in ascolto, le orecchie tese, ma
non sentii altro che gli schiocchi del legno che bruciava, fino a
quando il sonno non si impossessò di me.
Mi svegliai all’alba, come facevo ogni giorno, e rimasi immobile
alcuni secondi, ascoltando il silenzio. Era troppo profondo, così
insondabile; mi spaventava. Mi voltai piano, il cuore che accelerava il
suo ritmo, per poi rallentare fino quasi a spegnersi.
Se ne era andato.
Di notte, in silenzio. Aveva lasciato morire il fuoco, raccolto i suoi
vestiti ed era svanito. Non mi ero accorta di niente.
Mi misi a sedere sul pagliericcio, avvolgendomi le braccia attorno
al corpo. Avevo freddo, freddo dentro. Mi sentivo morire.
Dopo alcuni secondi, mi costrinsi a raccattare lo scialle da terra e
me lo avvolsi attorno alle spalle. Sul pavimento, vicino alla porta,
c’erano i cocci di vetro e terracotta degli oggetti che, il giorno prima,
gli avevo lanciato addosso. Avrei dovuto fargli male, pensai. Avrei
dovuto impedirgli di avvicinarsi a me, di prendermi e imprimersi
sulla mia pelle più di quanto già non fosse. Ormai il danno era
irrimediabile: se prima ero riuscita a sopravvivere alla sua assenza,
ora che avevo conosciuto ciò che era in grado di dare, il suo modo di
amare, mi sentivo persa.
Mia madre aveva ragione: niente distrugge quanto l’amore.
Mi sollevai sulle gambe incerte. Tra le cosce avvertivo un pulsare
sordo, e una sbavatura di sangue si era seccata sulla mia pelle. Feci
qualche passo, confusa: mi sentivo smarrita nella mia stessa casa.
Non aveva violato solo il mio corpo, ma il mio intero mondo.
All’improvviso, qualcosa catturò la mia attenzione. Sul tavolo,
sgombro di ogni cosa, era posato un fascio di lettere. Mi avvicinai e
allungai un braccio. La mano mi tremava quando, dopo aver sciolto lo
spago che le teneva legate, scorsi la calligrafia ordinata e compunta di
Raphaël emergere dalla carta. Per un istante vidi tutto nero e dovetti
appoggiarmi allo schienale della poltrona per sorreggermi.
Raphaël. Quelle erano le lettere di Raphaël. Quelle che aveva
giurato di scrivermi e che io non avevo mai ricevuto. Una lacrima si
staccò dalle mie ciglia e precipitò nel vuoto.
Yann me le aveva sottratte. Per tutti quei mesi, in cui mi ero
convinta di meritare il suo silenzio, Yann aveva custodito quel
segreto. Mi aveva imbrogliata, si era fatto beffe di me sottraendomi
quanto avevo di più caro. Non lo avrei mai perdonato. Le gambe
cedettero e mi accasciai al suolo.
Sentivo il freddo del pavimento attraverso la pelle nuda. Lo scialle
mi era caduto, lasciandomi priva di difese. Tra le dita stringevo quei
fogli ingialliti che avevano attraversato la guerra per consegnarmi
parole ormai impossibili da afferrare, da rimettere nel giusto ordine.
Raphaël era morto. Di lui non restava niente, era svanito come la
neve in primavera, assorbito dal terreno su cui aveva versato il
sangue.
Ero annientata dal pensiero che il mio migliore amico, il ragazzo
con cui ero cresciuta e che, in un giorno di autunno, aveva cercato di
baciarmi con la forza, avesse infranto il silenzio tra noi e mi avesse
scritto. Sì, aveva giurato di farlo, ma la guerra cambia molte cose. La
guerra cambia le persone. Invece, Raphaël mi aveva davvero scritto.
E non aveva mai ricevuto risposta.
Era morto da solo, nel fango di una trincea o sui monti neri del
Carso, senza una parola di conforto da parte mia. Era morto credendo
che lo avessi abbandonato.
Quel pensiero faceva più male di tutto il resto. In quel momento,
sentii di odiare Yann. Lo odiavo come non avevo mai odiato nessuno
nella mia vita. Nemmeno Dio.
Rimasi immobile sul pavimento per un tempo che mi parve
infinito. I fogli stretti nella mano, la pelle esposta al gelo. Niente
sembrava sfiorarmi, nulla mi toccava.
Ero morta anch’io, morta dentro.
Solo quando, parecchio tempo dopo, qualcuno bussò alla mia porta,
mi costrinsi a sollevare il viso. Vedevo sfocato attraverso le lacrime
che mi riempivano gli occhi, senza riuscire a sgorgare. Si stavano
congelando, come il mio cuore. Presto non sarebbe rimasto altro che
un blocco duro impossibile da sciogliere.
«Fiamma, sei in casa?» disse una voce, oltre l’uscio. La voce di
Rhian.
Mi fece pensare ad Aerv, il bambino che avevo aiutato a nascere
nel bosco, e solo allora qualcosa sembrò rianimarsi in me,
permettendomi di sollevarmi e raccogliere da terra i miei vestiti, che
giacevano intonsi dove Yann li aveva lasciati cadere la sera prima.
Volevo cancellare ogni ricordo, dimenticare l’immagine di lui che
mi prendeva, che mi voleva. Di lui che mi diceva addio. Perché,
anche se non l’aveva fatto, era chiaro che quelle lettere erano un
addio. Yann sapeva che non l’avrei potuto perdonare per avermele
nascoste.
Aprii la porta, e Rhian mi apparve subito invecchiato rispetto
all’ultima volta che lo avevo visto. Eppure, non erano passati che
pochi giorni. Rughe profonde segnavano gli angoli della sua bocca,
gli occhi ristagnavano in un alone d’ombra e l’espressione era tesa e
preoccupata.
«Cosa è successo?» domandai, pensando subito al bambino.
«Aerv… Rose?»
«Aerv sta bene, e anche Rose. Stanno tutti bene, per ora». Rhian
infilò una mano in tasca e ne estrasse un oggetto piccolo e sottile, un
ago. Me lo mostrò tenendolo sul palmo della mano: era
completamente corroso dalla ruggine. «Il fato ci è avverso, Fiamma.
Questo è l’ago che abbiamo piantato nel terreno la notte in cui è nato
Aerv».
Sentii un brivido percorrermi la schiena, ricordando che Rhian mi
aveva spiegato che gli zingari misuravano in quel modo la sfortuna
che ognuno è costretto a sopportare nella vita.
«C’è dell’altro» aggiunse, senza darmi il tempo di parlare «la maga
ha letto i segni: qualcosa di terribile sta per accadere, qualcosa che si
abbatterà su tutti noi. Dobbiamo andarcene».
Lo guardai, senza capire.
Rhian sollevò lo sguardo alle montagne innevate. Sembravano
placide, immobili. Cime candide dipinte su uno sfondo grigio
piombo, ma io sapevo quanto potevano diventare crudeli. Tutto ciò
che è meraviglia e stupore cela in sé una fatale violenza. E lo sapeva
anche Rhian.
«Ce ne stiamo andando» disse, rivelandomi infine il motivo per cui
era venuto a bussare alla mia porta.
«Ve ne andate?» mormorai. «Ma… Aerv è così piccolo, e Rose è
debole. C’è troppa neve, come farete con i carrozzoni?»
«Troveremo un modo. Ce la siamo sempre cavata, lo faremo anche
in questa occasione». Mi fissò dritto negli occhi. «Il fatto di avere un
destino stabilito non significa che non possiamo tentare di sfuggire
alla malasorte».
«In questo caso, spero che la fortuna vi assista. Preparerò dei tonici
per Rose e per il bambino, per aiutarli a superare il viaggio».
«Fiamma…» Rhian sembrava combattuto. Alla fine, mi guardò
dritto negli occhi, e vidi qualcosa agitarsi dietro le sue iridi scure.
«Ho rivolto le stesse parole a tua madre, venti anni fa: vieni via con
noi. So che questa è la tua casa, che il tuo cuore appartiene a questo
luogo, ma… il bosco non è un posto sicuro, credimi. Parti con noi, ci
prenderemo cura di te, saremo la tua famiglia».
Lo guardai per un lungo istante, il tempo necessario ad assimilare
le sue parole. Stavo per scuotere la testa, per dirgli che non me ne
sarei mai andata da lì, ma qualcosa mi fermò. Cosa mi tratteneva, in
fondo? Ero sola.
Mia madre e Raphaël erano morti. Li avrei portati sempre nel
cuore, ma non li avrei rivisti mai più. Quanto a Yann, desideravo
soltanto dimenticare il suo nome. Dimenticare il male che mi aveva
fatto.
«Io…»
Rhian attese alcuni secondi, poi scosse la testa. Sembrava avere
fretta di andarsene, di tornare all’accampamento. «Tu pensaci» disse.
«Partiremo domani, al sorgere del sole. Questo non è più un posto
sicuro».
«Rhian!» Lo fermai, quando era già lontano nella neve. Lui si voltò
e i suoi occhi incrociarono i miei. Sapevo che non avrei avuto altre
occasioni per domandarlo: «Perché Vivienne non è partita con voi,
quando ne ha avuto l’occasione?» gridai. Le mie parole si dispersero
nella foschia rarefatta che ci avvolgeva. «Perché?»
Rhian lasciò passare qualche secondo. «Per amore» disse infine.
«Non poteva sopportare l’idea di abbandonare l’uomo che amava,
anche se lui aveva abbandonato lei».
In quel momento, capii. Finalmente capii mia madre, il suo dolore,
la sua solitudine. Il suo mettermi in guardia.
Ogni scelta che compiamo, ogni decisione che prendiamo
comporta un prezzo da pagare.
Fiamma,
inizio questa lettera senza sapere se leggerai le mie parole. Può
darsi che deciderai di bruciare la busta senza nemmeno aprirla, ma è
più probabile che non arrivi mai nelle tue mani. Me ne farò una
ragione, in fondo non mi aspetto alcuna risposta.
Scrivo perché non ho altro che mi aiuti a mettere a tacere i miei
rimorsi, che allevii il mio senso di colpa.
Il mondo, fuori della valle, è diverso da come l’avevo immaginato.
I primi giorni di viaggio sono stati i migliori, poi ogni cosa è
diventata grigia e fangosa. Ci siamo avviati come un gregge
inconsapevole, smarriti come le pecore che tante volte ho definito
bestie prive di cervello. Ora al loro posto ci sono io, ci siamo noi,
soldati strappati alle loro vite e buttati in questo calderone di cenere
e miseria.
Sono passate poche settimane, e mi sembra già di non ricordare
più i colori: il cielo è indefinito e monotono, la pianura giallastra e i
monti, a est, blocchi di pietra e granito senza forma e dimensione.
Ogni cosa è piatta, deformata rispetto a quella che dovrebbe essere
la sua vera essenza. Anche la vita.
Infatti, mi sembra di non stare vivendo. Sono congelato, aspetto
soltanto che questo incubo finisca. Aspetto di tornare a casa, di
riempirmi gli occhi con i boschi e le montagne, montagne vere, non
queste sciocche sagome senza prospettiva. Aspetto di tornare da te,
anche se forse tu di me non vuoi più sapere niente.
Mi dispiace, Fiamma. Per quel bacio e per tutto il resto. Non sono
stato un buon amico. Alla fine mi sono rivelato meschino ed egoista
come le persone che un giorno, da bambini, avevamo giurato di non
diventare mai.
Come vorrei tornare ai giorni spensierati della nostra infanzia,
quando eravamo soli contro il mondo e bastavamo l’uno all’altra.
Non avevamo preoccupazioni, allora, se non quella di sfuggire agli
altri bambini, che ci davano il tormento.
Ti ho sempre ammirata per il tuo coraggio. Vorrei averne una
briciola, quaggiù dove sono ora. Una sola scintilla del tuo coraggio
basterebbe a illuminare questo buio, che è fatto di fumo nero e terra,
che riempie le narici e la bocca e impedisce di respirare. Non siamo
ancora al fronte ma, giorni fa, in una locanda abbiamo incontrato un
ufficiale che tornava da lì: ci ha fatto paura. Ricurvo su se stesso, la
testa fasciata, mangiava da solo, in silenzio, indifferente alle risate e
agli scherzi di noi giovani reclute, ancora ignare di quello cui
stavamo andando incontro, ancora innocenti. Ancora in preda a quel
brivido di eccitazione che ci faceva apparire questa guerra come
l’occasione per dimostrare il nostro valore facendo gli eroi. Quanto
può rendere sciocchi l’ignoranza!
Vassez, che viene dalla bassa valle ed è il più schietto di noi, non ci
ha messo molto a cercare di coinvolgerlo nella nostra goliardia.
Invano. L’ufficiale ha sollevato su di noi due occhi vuoti, bui. È stato
il primo assaggio di guerra che ho avuto: gli occhi di quell’uomo.
Lentamente è sceso il silenzio anche fra noi, i nostri giochi hanno
smesso di essere piacevoli e hanno assunto un sapore acido, di cose
marce.
L’ufficiale ci ha scrutato a uno a uno, con quegli occhi di tenebra.
Il suo era uno sguardo colmo di amarezza e del tutto privo di
speranza. Alle domande insistenti di Vessez, che ha continuato a
incalzarlo senza rendersi conto di nulla, gli angoli della sua bocca si
sono piegati in giù. Il suo volto era una maschera di sgomento. «Non
vi posso raccontare come è il fronte. Dovrete vederlo con i vostri
occhi, e non ve lo auguro. Con le parole non si può descrivere:
bisogna vedere».
«È dura, sì, lo sappiamo» è stato l’ingenuo commento di Vassez,
che voleva darsi arie da uomo vissuto.
L’ufficiale ha scosso la testa. Nei suoi occhi si era spenta ogni
luce. «Non sapete niente».
Quella sera abbiamo finito di mangiare in silenzio, ognuno
immerso nei propri pensieri.
Due giorni fa ci hanno spostato in una nuova baracca, dove
resteremo una settimana. Da qualche ora ha iniziato a piovere e
siamo tutti incupiti. Persino le carte con cui ci intratteniamo sono
fradice.
Poco lontano si odono le detonazioni dell’artiglieria, il fragore
della guerra. Qui, però, non succede nulla. Solo pioggia e nebbia e
soldati che rientrano dal fronte. Marciano in silenzio, trascinando nel
fango i piedi gonfi per il congelamento, avvolti nei sacchetti da
trincea. Li vediamo passare davanti alle baracche, un esercito
stremato, agonizzante. Una schiera di disgraziati che non parlano,
camminano soltanto. I loro sguardi hanno la stessa vacuità che
caratterizzava lo sguardo dell’ufficiale alla locanda. Esprimono lo
stesso muto terrore.
Li osservo e mi chiedo cosa mi aspetti. Cosa ci sarà per me,
laggiù? Non sono certo di volerlo sapere, ma inizio a immaginarlo. E
allora sì, vorrei il tuo coraggio, Fiamma, per sopportare questo
orrore senza fine; questi giorni che si trascinano lenti e che mi
tengono lontano da te.
Al polso porto il braccialetto che ho intrecciato con i tuoi capelli.
Toccarlo mi rasserena, mi fa pensare a te, al giorno in cui ci siamo
conosciuti. Volevo una tua ciocca, per dimostrare agli altri bambini
di avere coraggio. Ma il mio coraggio sei tu.
Guardo il giorno fare spazio alla notte. Persino le stelle ci sono
precluse, in questa spoglia terra di nessuno. Così chiudo gli occhi e
immagino le nostre montagne e le nostre stelle, così abbaglianti, così
luminose.
Mi manchi, non smetterai mai di mancarmi.
La candela si sta consumando.
Buonanotte, amica mia.
Fiamma,
non hai risposto alla mia lettera di qualche settimana fa. Vorrei
soltanto sapere se stai bene, solo questo.
Quanto a me, sono in dubbio se raccontarti quello che accade qua
intorno, ma immaginando che non leggerai mai queste parole,
consapevole quindi di scrivere solo per me stesso, per non smarrire
del tutto il lume della ragione, ti riporto un resoconto dettagliato
della realtà.
Siamo all’inferno.
Quell’inferno che don Jacques minacciava nelle sue prediche, e di
cui noi ci facevamo beffe, esiste davvero. Io l’ho visto.
Ci hanno spostato ancora, dividendo il gruppo, piuttosto affiatato,
che si era creato. Sono finito con Vessez, che nel frattempo ha perso
molto del suo infantile entusiasmo, vicino al posto di sanità. Il tenente
colonnello medico è tutto tranne che rassicurante, e una
rassicurazione è tutto ciò che i feriti che arrivano in gran numero
ogni giorno chiedono. Restano sulle barelle cenciose per ore, sotto la
pioggia, aspettando il medico che riserva loro solo una visita
sommaria, prima di passare al paziente successivo.
Sono troppi, e lui è uno solo, ma questo non giustifica le sue
risposte brusche, i suoi modi spicci. L’ho visto scuotere la testa ed
esclamare: «Niente da fare» davanti a un poveretto che elemosinava
soltanto un’illusione.
La verità, Fiamma, è che abbiamo perso qualunque umanità. La
morte è diventata un’abitudine, non rappresenta più un’eccezione,
ma appartiene ormai alla quotidianità.
Ogni giorno io e Vessez portiamo fuori dal baraccamento le
barelle su cui giacciono i corpi dei soldati che il medico non ha fatto
in tempo a visitare e che sono morti nell’attesa, soli, sotto questo
cielo impietoso, dove persino il sole non osa affacciarsi. Fumiamo
una sigaretta lì, tra i corpi sfatti di quelli che non ce l’hanno fatta, e
torniamo al posto di sanità con le barelle vuote.
Non ci guardiamo più negli occhi. La guerra ha impresso su tutti
noi un unico marchio di cinismo necessario a sopravvivere.
Se mi vedessi adesso, non mi riconosceresti, credo. Persino io
fatico a riconoscermi, ma è pur vero che non mi scruto in uno
specchio da troppo tempo. Non ne avrei il coraggio.
Un tempo eri tu il mio specchio. Ti guardavo e sapevo di me molte
più cose di quelle che riuscissi a immaginare. Mi sono specchiato in
te, nei tuoi occhi, anche il giorno del nostro ultimo incontro, quando
ho agito in preda a un impulso che non voglio giustificare in nessuno
modo, e non mi sono piaciuto.
Mentirei se dicessi che non desideravo farlo da tanto, troppo
tempo, ma ho sbagliato tutto comunque, perché avrei dovuto saperlo
che non mi volevi. Sì, lo sapevo, ma ho finto che non fosse così.
Io ti amavo, Fiamma. Ti amo ancora.
Ecco, ora l’ho detto. Tra le bende macchiate di sangue e il fragore
delle detonazioni ho trovato il coraggio di confessare quello che ho
dentro da così tanto che non riesco nemmeno a ricordare quando ho
iniziato a provare questi sentimenti. Da sempre, suppongo.
Ridi di me, odiami, se necessario, ma non ignorare questo
accorato appello: io ti amo. Anche qui, dove amare è un lusso che
pochi possono permettersi.
Ma tu lo sai, vero? Conosci la forza di questo sentimento, perché
l’hai provata sulla tua pelle. Ne hai sofferto tanto quanto io ho
sofferto per te.
Non prendertela, non c’è astio nelle mie parole. Nessun rancore.
Può sembrarti assurdo, ma la guerra ha ridimensionato tutto. Ciò
che pensavo mi avrebbe spezzato il cuore, lo ha invece fortificato. La
distanza mi ha permesso di vedere le cose nella giusta prospettiva.
Lucien Borel lo diceva sempre: puoi scorgere davvero tutti i
particolari di un paesaggio solo quando non ne fai più parte.
Ora vedo tutto con chiarezza, Fiamma. Vedo il tuo amore per lui,
per mio fratello, e non mi sembra più insensato e scorretto come mi
era apparso un tempo, tutt’altro, perché, vedi, credo che anche lui ti
ami. A modo suo, naturalmente.
Yann non è un uomo semplice, ma tu questo lo sai. L’incidente lo
ha reso insofferente e lunatico. È un uomo senza pace, un uomo che
non riesce a perdonarsi. Tu sola puoi salvarlo.
Fallo, ti prego. Fallo per me.
Non so se riuscirò a tornare da questo incubo che si fa sempre più
scuro. I contorni delle cose svaniscono, una parte di me muore ogni
giorno. Solo tu rimani nitida, su uno sfondo di stelle. Ogni notte
chiudo gli occhi immaginando il tuo volto che mi sorride. Sfioro il
braccialetto e vedo i tuoi capelli muoversi nel vento come scintille di
fuoco. Sei tu che mi fai andare avanti. Sei la speranza in un universo
che ha smarrito ogni fiducia nel domani.
Buonanotte, amica mia.
Fiamma,
ho perso il conto dei giorni, il tempo ha smesso di esistere. La vita
si è trasformata in sopravvivenza, e ho l’impressione, a ogni passo
che faccio, che non ci sarà ritorno. Scrivere a te, anche se ormai
sono quasi certo che non riceverai mai queste lettere, è l’unico modo
che ho per tenermi ancorato alla realtà. Sei il mio punto fisso in un
mondo che ha smarrito ogni riferimento.
Ci hanno spostato sulla prima linea, finalmente ho conosciuto le
trincee e ho potuto dare una forma al terrore sordo che questa parola
evoca nei soldati che ho visto scendere da qui.
Sono ferite che si aprono nel fango, piaghe infette della terra.
Sopra, soltanto strepiti, sibili di pallottole, richiami rauchi e cozzare
di ferraglia. Non so più cosa sia il silenzio.
Quando siamo saliti per dare il cambio, abbiamo scorto due
soldati che vigilavano alle feritoie, immobili. Non hanno risposto ai
nostri richiami, e solo dopo qualche istante ci siamo resi conto che
erano morti. Avevano ancora il fucile in mano.
I due cadaveri sono stati spinti fuori, sul mucchio che ripara le
buche. Un olezzo disgustoso si è sollevato nell’aria, ma non ci
abbiamo fatto caso. Non le notiamo più, queste cose. È il solo modo
per andare avanti senza impazzire: restare indifferenti. Indifferenti ai
corpi che si disfano nella melma. Corpi di uomini che potremmo
essere noi, domani, o tra qualche ora. Resteremo qui, a ingrassare la
terra già gonfia di sangue. Le nostre ossa si cementificheranno alle
rocce, si perderanno nella memoria. Chi ci ricorderà, quando tutto
questo sarà finito? Ma, in fondo, finirà mai? Non ho più risposte da
darmi.
Penso ai giorni di sole su all’alpeggio, alla trasparenza
dell’acqua, al frinire delle cicale nei prati. Ho le montagne
conficcate nel cuore, non le posso dimenticare. Tu fai parte di tutto
ciò, sei il paradiso che ho perduto e in cui non posso tornare a
camminare.
Ti arrabbieresti, vedendomi così sfiduciato. Mi scrolleresti,
dicendomi di reagire, di non abbattermi. Ma tu non sai quello che sto
passando. Non puoi nemmeno immaginarlo.
Non dormo più. Di notte i colpi scrosciano attorno a noi come
grandine, una sparatoria continua, dal tramonto all’alba. Un
martirio intollerabile che tra non molto ci porterà alla follia.
Il cielo, sopra la trincea, è un livido disgustoso, offuscato dai fumi
dei colpi. Non vediamo altro, da quaggiù, costretti a questa
immobilità che ci rende isterici, i nervi a fior di pelle. Gli austriaci ci
tengono sotto mira incessantemente, non riusciamo neanche a
ritirare i viveri. Il più delle volte i soldati incaricati di portare la
gavetta vengono freddati sulla strada. Noi preferiamo patire la fame
per due giorni, piuttosto che osare affacciarci e andare a recuperare
il cibo e l’acqua.
La vita ci ha tradito, Fiamma. Quanti sogni infranti, quante
aspettative deluse.
Almeno tu cerca di essere felice. Vai da lui, non esitare, non avere
paura. Ciò che ti ho detto quella volta, nel bosco, non era altro che
una menzogna dettata dalla gelosia. È vero, Yann non ti ha mai
chiamata per nome, ma solo perché il tuo nome lo turba più di
quanto sia disposto ad ammettere. Sì, ti ha maledetta, ha scagliata
contro di te parole impronunciabili, solo e unicamente per
mascherare con il disprezzo ciò che custodisce in fondo al cuore.
Mio fratello ti ama. L’ho capito quella notte, quando ho visto il
modo in cui ti guardava, sopraffatto. Paura e desiderio: non è forse
questo l’amore?
Sono dovuto uscire, quella notte, perché la vista del sangue mi ha
sempre nauseato. Ora è diverso, mi sembra di non avere altro, nelle
narici, che quell’odore ferroso e salino. Mi annebbia la vista,
confonde i miei sensi, ma non posso sfuggirgli. Così come quella
notte non sono riuscito a sfuggire a ciò che i miei occhi hanno visto.
Lo stavi baciando o forse lui baciava te. Che importanza ha,
ormai? Lo avevate già capito, allora. È stato amore a prima vista,
quello che ti piega le ginocchia, che non ti lascia scampo.
In questa storia io non sono altro che uno spettatore. Forse ho il
merito di avervi fatto incontrare, null’altro.
Sono patetico, lo riconosco. Siedo quaggiù, in questa fossa che
forse diventerà la mia tomba, tra compagni che magari domani
saranno morti. Non credevo che il mondo sapesse essere tanto
crudele, che potesse strapparti di dosso ogni gioia e sputarla ai tuoi
piedi. Quello che mi avvilisce, che mi demoralizza, è vedere morire
così inutilmente. Non siamo altro che pezzi di carne da macello. La
Patria è soltanto un’illusione.
Perdonami se queste parole sono così crude, così colme di
sconforto. Vorrei stracciare il foglio, poi penso che non leggerai mai
queste mie lettere, e allora mi concedo uno sfogo che non è altro che
un urlo silenzioso lanciato verso stelle che non posso vedere, ma che
da qualche parte, in un cielo che non si è ancora capovolto, esistono
ancora. Così come esisti tu.
È l’unica cosa che mi dona sollievo: sapere che esisti
Sei ciò che rende questo mondo migliore, Fiamma.
Fiamma,
non scriverò altre lettere, dopo questa. È buio e fa freddo, troppo.
Dalle pareti pantanose della trincea affiorano scarpe e arti di
gente sepolta o sprofondata lentamente. Nei miei incubi peggiori non
avrei potuto immaginare un simile, raccapricciante spettacolo. Siamo
circondati dalla morte, non ci sono spiragli alla tragedia che si sta
consumando sotto i nostri sguardi impotenti, ormai passivi,
annientati.
Fuori della trincea è anche peggio: il terreno è seminato di spoglie
umane che si aggrovigliano, elmetti sforacchiati, che a nulla sono
serviti sotto il fuoco incessante delle mitragliatrici, fucili ormai
inutili, cappelli piumati imbrattati di fango e sangue; e carta da
lettere e cartoline che si sollevano pigre a ogni alito di vento, per
spostarsi di qualche metro. Parole che mai raggiungeranno le
persone alle quali sono destinate, ultime speranze, soffi di vita che si
perdono nel nulla.
Da uno spiraglio tra due sacchi scrutiamo questo cimitero di
miseria; morti insepolti, sepolti vivi. È la fine del mondo.
Dopo questo, non può esistere nient’altro.
I cecchini, dall’altra parte, ci attendono con selvaggia avidità, con
implacabile pazienza. Non restiamo che noi in questo buco scavato
nelle viscere della terra. Ultima scintilla di vita, ultimo bagliore di
umanità perduta. Non sfuggiremo a questa trappola funebre, che si
richiude su di noi ogni giorno di più.
Piove da due giorni. Siamo fradici, paralizzati dal freddo, sfiniti.
Sfibrati dall’attesa che si prolunga come un’ombra, quando il sole
scema dietro l’orizzonte. Mi resta un solo foglio e un mozzicone di
matita. Strappo il foglio a metà: una metà è per te, l’altra per Yann.
Devi farmi una promessa, Fiamma: portagli questa busta. Se le
mie parole non sono cadute nel vuoto, quando le leggerai, saprai da
tempo che ho ragione.
Tu lo ami, come non hai mai amato me. Non è un rimprovero e
nemmeno un rimpianto. Voglio solo la tua felicità, amica mia. Da
questo inferno, fatto di crepuscoli lividi e infiniti silenzi, non desidero
altro.
Non dormo da troppi giorni, ho le mani scarnificate, gli occhi
gonfi e la fronte mi brucia di febbre. Non riesco più a scrivere, quindi
perdonami se in questa mia ultima lettera sarò breve.
Sopra ricomincia il bombardamento, che si era acquietato per la
pioggia. Tra non molto la ripresa nemica si scatenerà su di noi per
debellare quest’ultima nostra folle resistenza. Non ho più tempo.
Dai l’altra busta a mio fratello, per favore. È importante, ti chiedo
soltanto questo.
Fiamma, lasciarti andare è la cosa più difficile che io abbia mai
fatto. Più difficile di questa guerra, che è il confine ultimo della mia
vita.
Se chiudo gli occhi, mi sembra di sentire la brezza della valle che
spira sui prati e sulle rocce rugginose, nella selva di larici rossi e tra
le betulle. Le montagne si stagliano contro il crepuscolo. Il bosco è
già al buio, ma su ai pascoli arriva ancora l’ultimo sole e fa caldo;
mentre noi, quaggiù, avvolti dall’ombra, iniziamo ad avere freddo.
Scende la notte e il cielo si accende di stelle, e sono tanto luminose
da lasciarti ammutolito. E non ci pensi, non ancora, che non siamo
altro che una manciata di biglie lanciate nell’infinito. Scintille fragili
e palpitanti che illuminano un mondo troppo buio.
E ci sei tu, che non smetti di sorridere.
Addio, amica mia, mio unico amore.
Agape
Spaccavo la legna nel fienile, fuori c’era troppa neve per farlo. La
luce non aveva ancora rischiarato il villaggio, restava una striscia
purpurea all’orizzonte. Il fiato delle bestie usciva nel gelo,
condensandosi in nuvole sottili nell’aria impregnata dal fetore del
letame e dal sentore più dolce del fieno secco.
Su di me conservavo il profumo di Fiamma, quell’odore selvatico
che mi era entrato sottopelle anni prima e non ero più riuscito a lavare
via. Sulle mie labbra il suo sapore iniziava appena a dissolversi.
Presto non sarebbe stato altro che un oscuro ricordo da sotterrare
dove tenevo nascosto tutto ciò che mi faceva male: nella parte più
buia di me.
Mi avrebbe odiato. Mi avrebbe maledetto e detestato, e ne avrebbe
avuto ogni ragione. L’avevo persa per sempre, ormai.
Calai l’ascia sul ceppo, guardando il legno spaccarsi, immaginando
che ogni colpo di scure fosse un colpo inflitto a me stesso. Nemmeno
io mi sarei perdonato. Mai.
Cedere all’istinto, possederla, vedermi privato di qualunque
volontà, se non quella del cuore, era la punizione che meritavo.
Essermi condannato a un’intera esistenza senza di lei, dopo aver
conosciuto il calore della sua pelle contro la mia, era ciò che
meritavo.
A dividerci ci sarebbe stato per sempre un abisso di dolore, quel
vuoto incolmabile che Raphaël aveva lasciato dietro di sé e che si
tendeva come una crepa fra me e lei. Era una ferita che nemmeno
Fiamma, con le sue abili dita, poteva ricucire. Era una ferita
insanabile.
La porta della stalla si aprì, e Agnés fece il suo ingresso avvolta
nello scialle di lana. Fra le mani stringeva i secchi del latte vuoti,
veniva per la mungitura. Si fermò, quando mi vide, rabbuiandosi:
«Yann? Che cosa…?» Guardò la legna che avevo spaccato, in preda a
quell’impulso distruttivo che mi animava da ore, da quando avevo
lasciato la casa di Fiamma. C’erano schegge di legno ovunque, tra la
paglia e nei miei capelli. Me le scrollai di dosso con un movimento
brusco.
«Spacco la legna, non lo vedi?» esclamai, piantando la scure nel
ceppo.
Agnés restò in silenzio per alcuni secondi. «Non sei tornato a casa,
questa notte» disse infine. «La mamma era in pensiero».
Mi asciugai il sudore dalla fronte con la manica della camicia. Non
avevo risposte da dare.
«Yann!» Un urlo improvviso, fuori della porta del fienile, ci
costrinse a sollevare la testa di scatto. Deglutii qualcosa di amaro nel
riconoscere la voce di Fiamma: era alterata dalla rabbia. E dalle
lacrime, forse. Rimasi paralizzato, incapace di muovermi.
Agnés inclinò il viso, scrutandomi con aria sospettosa e
preoccupata insieme. Poi, vedendo che non reagivo in alcun modo, si
mosse verso la porta della stalla.
«Aspetta» dissi, riscuotendomi. «Non…» Mi bloccai, indeciso su
come proseguire. Non potevo affrontare Fiamma in quel momento,
non dopo quella notte. Se l’avessi guardata negli occhi, se avessi
scorto l’odio che di certo in quel momento li faceva ardere, ne sarei
morto. Il suo disprezzo mi avrebbe annientato, mi avrebbe levato ogni
sentimento, non lasciando altro che un guscio cavo in cui l’eco del
mio cuore si sarebbe persa nel nulla, fino a consumarsi.
«Agnés, ti prego, non dirle che sono qui» sussurrai.
Mia sorella sembrava confusa.
«Yann!» gridò di nuovo Fiamma. La sua voce scavava solchi di
dolore nel mio cuore. La immaginavo fuori, nella neve, furibonda e
scarmigliata. Non ero in grado di sovrapporre quell’immagine a
quella che avevo di lei nei pochi istanti in cui aveva dormito tra le
mie braccia, così fragile, così indifesa.
Agnés aprì la bocca, stava per dire qualcosa. Un lampo di
comprensione passò nel suo sguardo. «Le lettere» disse infine. «Le
hai dato le lettere».
Il mio silenzio impotente confermò i suoi dubbi. Mi diede le spalle
e si diresse verso la porta. Quando la aprì, la luce del giorno si riversò
nel fienile. Una luce bianca e accecante che feriva gli occhi. Mi
ritrassi, restando nell’ombra.
La voce di Fiamma arrivò più nitida alle mie orecchie, mi colpì
come schegge di ghiaccio sul volto: «Dov’è quel vigliacco?»
Agnés si richiuse l’uscio alle spalle, e le loro parole mi furono
attutite.
«Yann non è qui. Non so dove sia. Torna a casa, Fiamma». C’era
un misurato equilibrio nel modo di esprimersi di mia sorella, che
cozzava con il tono stridulo della donna che amavo e che, in quel
momento, voleva urlarmi addosso tutto il suo disprezzo.
«Allora, dagliela tu, questa, e digli che non lo perdonerò mai, mai,
per avermi nascosto le sue lettere».
«Posso capire la tua rabbia…» disse Agnés, nel vano tentativo di
acquietarla.
«No. No, non puoi».
Immaginavo i suoi occhi colmi di lacrime, il volto stravolto,
deformato dall’ira, dalla delusione.
«Fiamma…»
«Non mi vedrete più» disse lei. «Mai più. Me ne sto andando, parto
con gli zingari. So che non vi interessa…» Prese tempo. Parlava al
plurale, sapeva che ero lì, che la stavo ascoltando. Si rivolgeva a me,
e le sue parole erano una lama affilata che mi scavava la pelle, che mi
feriva nel profondo. «Mi avete sempre disprezzato, mi avete nascosto
le sue lettere, condannandomi al silenzio. Perché? Perché? Meritavo
questo?» proseguì dura, implacabile. «Non sarò più un problema per
voi. Addio» concluse, mentre la immaginavo dare le spalle ad Agnés,
i capelli che si sollevavano attorno a lei come una nuvola
incandescente.
Per un istante, un solo istante, desiderai lasciar cadere ogni difesa,
correre da lei, consentirle di riversarmi addosso la sua rabbia e
supplicarla di non lasciarmi, nonostante tutto. Ma le mie gambe erano
di marmo, il cuore era sprofondato nel petto e taceva, muto. Rimasi
immobile, nascosto nell’ombra, come il peggiore dei codardi. Quando
non udii altro che il vento che soffiava fuori, capii che se ne era
andata veramente.
Se ne era andata per sempre.
Un colpo, un solo colpo, dato con forza contro la parete del fienile,
poi le ginocchia mi cedettero e mi accasciai, premendomi contro il
cuore la mano che sanguinava, le nocche spellate, scorticate come la
mia anima in quel momento.
Quando Agnés rientrò, mi trovò lì, rannicchiato in un angolo. Mi
guardò con un’espressione che non dimenticherò: una pena profonda
traspariva dal suo sguardo.
Stavo andando in pezzi davanti ai suoi occhi. Quei pezzi, che per
tanti mesi, per anni, avevo cercato a fatica di tenere insieme, si
frantumavano come ghiaccio sfiorato dal sole.
«Immagino tu abbia sentito quello che ha detto» mormorò.
Annuii, senza parlare. La voce mi avrebbe tradito.
Agnés sospirò, poi si piegò e appoggiò davanti a me una busta
ripiegata su se stessa.
«Questa è per te».
Dopo qualche istante, vedendo che non reagivo in alcun modo, si
voltò per andarsene.
«Ho sbagliato tutto, Agnés».
Mia sorella si arrestò, senza però tornare a guardarmi. «No, Yann.
Hai sbagliato alcune cose. Non sei infallibile, nessuno di noi lo è, in
fondo. Dovresti smetterla di odiarti. È questo il tuo problema: non
puoi perdonarti. Ma ci sono cose su cui non abbiamo alcun potere. La
morte di Raph è una di queste».
«Quali sono le altre?»
«La montagna che sfugge al tuo controllo, ad esempio, o il fatto
che tu e Raph vi siate innamorati della stessa donna». Indugiò, poi
espirò nell’aria una nuvola di fiato tiepido: «Non è tardi, Yann».
«Per cosa?»
«Per assolvere colpe di cui non sei diretto responsabile e rimediare
agli errori che hai fatto spinto da queste convinzioni. Pensaci. E leggi
quella lettera, è di Raphaël».
«Cosa?» domandai, confuso. Ero convinto che fossero parole di
Fiamma, un modo per dirmi addio.
«La calligrafia, sulla busta, è quella di Raphaël».
Ci misi del tempo a trovare il coraggio. Non ero mai stato un lavativo,
nella mia vita, ma quel giorno non misi piede fuori del fienile.
Temevo che, se mi fossi sollevato dall’angolo buio in cui mi ero
rintanato, come una bestia ferita che si allontana da tutto per morire
da sola, mi sarei sgretolato come una statua di sale.
Alla fine, quando la luce divenne fragile e pallida e il giorno iniziò
a scolorire nella notte, presi coraggio e stracciai la busta, estraendone
un foglio fragile come una foglia secca prossima a sbriciolarsi.
Erano le ultime parole di mio fratello. Oltre quel pezzo di carta e
inchiostro non sarebbe rimasto più nulla.
Chiusi gli occhi, il volto sprofondato nella pagina che odorava di
paglia e muffa, poi li riaprii e cercai di dare un senso ai caratteri fitti e
sottili che componevano la missiva.
Yann,
se in questo momento stai leggendo le mie parole, significa che lei
ti ha portato questa lettera.
Lei ti ama, Yann. Ti ama, come tu ami lei.
Non scuotere la testa, non accartocciare il foglio, non servirà a
niente. Da questa distanza vedo tutto con più chiarezza.
Se c’è una cosa che ho capito, da questa guerra che non lascia
scampo, è il senso del tempo. Ne abbiamo a disposizione uno sputo e
lo sprechiamo a vivere una vita che non vogliamo, mettendo a tacere
i nostri desideri. Siamo così fragili, così insensati.
Vai da lei, Yann. Amala, proteggila, lascia che si prenda cura di te.
Lei sola può sanare le tue ferite, quelle che ti porti dentro e
addosso da quella notte. Le hai permesso di ricucire la tua pelle,
permettile anche di rimettere insieme la tua anima.
Non hai colpe per quello che è successo, la montagna sa essere
crudele, come la vita. Pensavi di conoscerla, ma non si conosce mai
davvero ciò che si ama, lo si può solo amare.
Yann, la mia vita finisce qui, non la tua.
Rialzati, fratello mio. Rialzati e vai da lei, è tutto ciò che ti chiedo.
Vivi la vita che avrei voluto vivere. Ogni istante, ogni suo sorriso.
Sei mio fratello, e ti amo. Qualunque piega prenderà la tua
esistenza, questo non cambierà le cose.
Sei mio fratello, custodisci quanto ho di più caro. Lo lascio nelle
tue mani, di cui mi sono sempre fidato, di cui non smetterò di fidarmi.
Con affetto, Raphaël
Dalla busta cadde fuori un braccialetto di corda. Guardandolo con più
attenzione, mi resi conto che non era fatto di spago, ma di capelli. I
capelli di Fiamma. Raphaël non lo toglieva mai, era il suo
portafortuna.
Raphaël…
Una macchia bagnata si allargò sul foglio, sciogliendo l’inchiostro.
Prima che potessi rendermene conto, le lacrime mi stavano rigando le
guance. Lacrime di rabbia, di amarezza, di insopportabile dolore. Mi
piegai su me stesso, singhiozzando, emettendo suoni rauchi che
spaventarono le vacche. Gli animali avvertono la paura.
I palmi premuti contro gli occhi, piansi come piange un bambino,
le ginocchia al petto, la fronte schiacciata contro il muro. Il dolore mi
investiva a ondate, lasciandomi disarmato, impotente. Tutto quello
che pensavo di aver lasciato morire dentro me era vivo e gridava,
strepitava. I confini della mia carne non potevano trattenere quella
pena senza fine. Picchiai il pugno contro il muro ancora e ancora, fino
a non sentire più dolore.
L’amore che provavo, la ferita al cuore dove prima c’era il posto di
Raphaël, la voragine che si era aperta sotto i miei piedi quando la
montagna mi aveva tradito… Ogni cosa si riversò da me come un
torrente in piena che valica gli argini.
Alla fine mi ritrovai debole e tremante; dentro avvertivo un’eco di
insopportabile silenzio che mi terrorizzava più di tutto il resto. Mi
sollevai e, sulle gambe tremanti, lasciai il fienile.
Agape
Yann
Fiamma
Agape
Yann
Fiamma
Agape
Yann
Fiamma
Agape
Yann
Fiamma
Agape
Yann
Fiamma
Agape
Yann
Fiamma
Agape
Yann
Fiamma
Neve
Nota dell’autrice
Ringraziamenti
I mille volti della lettura
Romanzi, saggi, narrativa di viaggio