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In un avvallamento tra due montagne della Val d’Aosta, al tempo della Grande Guerra,

sorge il borgo di Saint Rhémy: un piccolo gruppo di case affastellate le une sulle altre, in
mezzo alle quali spunta uno sparuto campanile.
Al calare della sera, da una di quelle case, con il volto opportunamente protetto
dall’oscurità, qualche «anima pia» esce a volte per avventurarsi nel bosco e andare a bussare
alla porta di un capanno dove vive Fiamma, una ragazza dai capelli così rossi che sembrano
guizzare come lingue di fuoco in un camino. Come faceva sua madre quand’era ancora in
vita, Fiamma prepara decotti per curare ogni malanno: asma, reumatismi, cattiva digestione,
insonnia, infezioni… Infusi d’erbe che, in bocca alla gente del borgo diventano «pozioni»
approntate da una «strega» che ha venduto l’anima al diavolo. Così, mentre al calare delle
ombre gli abitanti di Saint Rhémy compaiono furtivi alla sua porta, alla luce del sole si
segnano al passaggio della ragazza ed evitano persino di guardarla negli occhi.
Il piccolo e inospitale capanno e il bosco sono perciò l’unica realtà che Fiamma conosce,
l’unico luogo in cui si sente al sicuro. La solitudine, però, a volte le pesa addosso come un
macigno, soprattutto da quando Raphaël Rosset se n’è andato.
Era inaspettatamente comparso un giorno al suo cospetto, Raphaël, quando era ancora un
bambino sparuto, con una folta matassa di capelli biondi come il grano e una spruzzata di
lentiggini sul naso a patata. Le aveva parlato normalmente, come si fa tra ragazzi, ed era
diventato col tempo il suo migliore e unico amico. Poi, a ventuno anni, in un giorno di sole
era partito per la guerra con il sorriso stampato sul volto e la penna di corvo ben lucida sul
cappello, e non era più tornato.
Ora, ogni sera alla stessa ora, Fiamma si spinge al limitare del bosco, fino alla fattoria dei
Rosset. Prima di scomparire inghiottita dal buio della notte, se ne sta a guardare a lungo la
casa dove, in preda ai sensi di colpa per non essere andato lui in guerra, si aggira sconsolato
Yann, il fratello zoppo di Raphaël… il fratello che la odia.
Ritornando su un tema caro alla letteratura di ogni tempo – l’amore che dissolve il rapporto
tra una comunità e il suo capro espiatorio – Francesca Diotallevi costruisce un romanzo che
sorprende per la maturità della scrittura e la solidità della trama, un’opera che annuncia un
nuovo talento della narrativa italiana.
Francesca Diotallevi è nata a Milano nel 1985. È laureata in
Scienze dei Beni Culturali e lavora in uno studio legale. Tra le sue
opere Le stanze buie, Amedeo, je t’aime e il racconto pubblicato in e-
book Le Grand Diable, prequel di Dentro soffia il vento.
FRANCESCA DIOTALLEVI

Dentro soffia il vento


NERI POZZA EDITORE
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I edizione eBook 2016-05


Collana I NARRATORI DELLE TAVOLE
ISBN 978-88-545-1373-0

In copertina: © Oleg Oprisco / Trevillion Images


Grafica Corrado Bosi, cdf-ittica.it
© 2016 Neri Pozza Editore, Vicenza
www.neripozza.it
Ai miei genitori

Nella pietà che non cede al


rancore,
madre, ho imparato l’amore.
Fabrizio de André

Infine, nel bel mezzo dell’inverno,


ho scoperto in me
un’invincibile estate.
Albert Camus
Quando gli zingari erano uccelli1

Agli inizi noi eravamo degli uccelli, avevamo le ali e ogni giorno
volavamo alti sulle cime degli alberi e delle montagne per procurarci
il cibo. Eravamo uccelli, e con l’arrivo dell’inverno ci dirigevamo
verso paesi più caldi. Quando la stagione cominciava a cambiare,
quando le foglie sugli alberi iniziavano a ingiallire e quando i vermi e
gli altri esseri sulla terra cominciavano a ritirarsi nelle loro tane,
lasciavamo un paese e ci dirigevamo verso un altro.
Una volta, dopo un lungo periodo in cui non avevamo toccato cibo,
giungemmo su una regione ricca di frumento, come mai avevamo
visto prima. Piombammo su quei campi, mangiammo talmente tanto e
diventammo così pesanti da non poterci più alzare in volo. Così
quella notte restammo in mezzo all’erba e al frumento.
La mattina dopo, invece di volare via, prestammo ascolto alla voce
del nostro stomaco e riprendemmo a mangiare. Restammo in quel
campo; diventammo giorno dopo giorno sempre più pesanti; non
riuscivamo più a volare e, per spostarci da un luogo all’altro, eravamo
costretti a saltellare. Poi le foglie cominciarono a ingiallire sugli
alberi, i vermi e le altre creature della terra scivolarono nelle loro
tane; il vento freddo dell’inverno prese a soffiare, ma noi non
riuscivamo ad alzarci in volo.
L’erba si diradò e i gambi del frumento diventarono secchi. Anche
noi, osservando tutti quegli esseri brulicanti, prendemmo a scuotere le
granaglie dai gambi, ne facemmo dei mucchi e li spingemmo nei
buchi della terra. Le piume delle nostre ali si coprirono di croste, si
incollarono e cominciarono a diradarsi. Le ali assunsero la forma di
braccia e di mani. E poiché non eravamo più in grado di volare,
scavammo delle tane sulle spiagge dei fiumi e sui fianchi delle
montagne.
Noi siamo uccelli. Le nostre braccia sono due ali. Ogni volta che
vediamo una montagna, ci prende il desiderio di raggiungere le sue
vette; ma non siamo più in grado di volare, e dobbiamo camminare,
se vogliamo raggiungerle. Ma un giorno, il popolo Kalo, il popolo
degli zingari, riacquisterà le sue ali.

1. Leggenda popolare zingara in E. Petoia (a cura di), Miti e leggende degli zingari, Franco
Muzzio Editore, Roma, 2004.
Agape

Il viaggio in treno era stato lungo, a tratti infinito, ma gli ultimi


chilometri, a bordo di quello scalcagnato barroccio che, non senza
fatica, si inerpicava verso la montagna, mi avevano svuotato di ogni
energia. Sospirai, osservando gli enormi colossi di pietra che mi
sovrastavano e strinsi i bordi della valigia tra le dita, rabbrividendo.
Nonostante fosse luglio, la temperatura era parecchio più bassa di
quella cui ero abituato. Pensai al caldo soffocante di Roma, al pigro
caos in cui era immersa la città e al cielo sconfinato che si tendeva
sulle sue rovine. Qui il cielo gareggiava con le montagne per
accaparrarsi lo spazio, e mi sembrava di essere finito in un grosso
imbuto di roccia. Non c’erano orizzonti; ovunque rivolgessi la mia
attenzione, i profili delle vette, alcuni spruzzati di neve, altri verdi di
bosco, rispondevano al mio sguardo.
«Manca molto?» domandai a Bernard, l’uomo che era venuto a
prendermi alla stazione di Aosta e che in quel momento guidava il
calesse senza avermi rivolto più che un breve cenno di saluto al mio
arrivo, per poi sprofondare in un cupo mutismo.
«No, reverendo, non molto» rispose con una strana cadenza.
Parlavo un ottimo francese, ma in Valle d’Aosta, mi avevano
spiegato, la gente usava il patois, e io non ero propriamente ferrato
sull’argomento.
«Quello è il borgo» aggiunse il mio Caronte, sollevando un braccio
e indicando un avvallamento tra due montagne, in cui mi sembrò di
scorgere un piccolo gruppo di case affastellate le une sulle altre, in
mezzo alle quali spuntava uno sparuto campanile. Mi sporsi dal
calessino scoperto, aguzzando la vista. Si stava facendo buio, e il
cielo, sopra le cime, sembrava un grosso livido, con sfumature che
spaziavano dal giallo al viola, virando verso il blu profondo. Di lì a
non molto sarebbe scesa la notte, e io ringraziavo il Signore per
avermi condotto, sano e salvo, alla mia nuova dimora, tra quella gente
che immaginavo semplice e operosa, e che sarebbe stato mio compito
guidare e unire nella fede di Dio.
Il calesse percorse cigolando le vie immobili del borgo. La strada
principale era così stretta che le case, sui due lati, sembravano
tendersi le une verso le altre, sfiorandosi. La chiesa, antica e di gusto
neoclassico, appariva stranamente stonata in mezzo alle abitazioni
semplici, in legno e pietra. Se ne stava lì, in quella che non sembrava
neppure una piazza, soffocata tra le case vetuste, con le finestre che
affacciavano sul sagrato.
Il calesse accostò sotto l’imponente scalinata della chiesa.
L’abitazione del vecchio parroco era poco distante. Bernard scese dal
carretto, porgendomi una mano per facilitarmi la discesa, poi scaricò
la mia valigia.
«Dovrebbero arrivare altri bagagli, nei prossimi giorni» lo
informai, dando per scontato che sarebbe stato suo compito andare a
ritirarli. L’uomo rispose con un grugnito e un cenno della testa.
Ci avviammo verso l’ingresso e, proprio mentre Bernard sollevava
una mano per bussare, la porta si aprì lasciandomi scorgere, sulla
soglia, la sagoma di una giovane donna.
«Eccovi, dunque. Ho sentito il rumore degli zoccoli sul selciato»
esordì, spalancando l’uscio e invitandoci a entrare. Indossava un
grembiule bianco sull’abito, e i capelli chiari erano acconciati in due
trecce arrotolate sopra le orecchie.
«Benvenuto, reverendo, è un piacere fare la vostra conoscenza.
Sono Marie, mi occupo della casa» si presentò, quando le fui
dinnanzi.
Aveva modi spicci e una stretta di mano vigorosa. Il suo volto era
arrossato, e immaginai che stesse cucinando, perché la casa era invasa
da un profumo delizioso. Il mio stomacò gorgogliò, e me ne
vergognai. Non mangiavo da quella mattina e, per un uomo della mia
stazza, era come essere digiuno da giorni.
«Buonasera, Marie» balbettai, impacciato, rigirandomi il cappello
tra le mani.
«Volete darmi il cappello e il soprabito? Intanto, vi mostro le
vostre stanze».
Marie non sembrava una persona che aveva tempo da perdere.
Sequestrò il mio cappotto e il copricapo, avviandosi per il corridoio a
passo di marcia, il seno florido che sobbalzava a ogni falcata. Non
potei fare a meno di seguirla in silenzio.
Mi condusse in una stanza piccola e accogliente. Le pareti erano
rivestite di perline di legno, e di legno erano anche il pavimento, il
letto, l’armadio e l’inginocchiatoio sotto la finestra. Era austera, ma
confortevole, così diversa da ciò cui ero abituato. Il mio pensiero
andò agli alti soffitti dell’elegante casa romana in cui avevo trascorso
l’infanzia, alla sfarzosa atmosfera delle chiese barocche in cui avevo
compiuto il mio percorso di studi. Tutti quegli ori, gli stucchi e i santi
di marmo. Il colonnato di San Pietro, al tramonto. C’era un punto, un
punto ben preciso, da cui era possibile scorgere tutte le colonne
allineate.
Deglutii, cercando di scacciare quei pensieri. Appartenevano al
passato. Saint Rhémy era il mio presente: una realtà del tutto
differente da quella da cui venivo. Ne fui felice. Desideravo
allontanarmi per poter dimostrare quanto stavo prendendo sul serio
quel compito. Quanto era forte la mia fede. Dovevo dimostrarlo
soprattutto a me stesso e, più fossero state dure le condizioni in cui
avrei dovuto operare, più il mio spirito si sarebbe rafforzato.
Marie mi lasciò solo a sistemare le poche cose che avevo con me in
quel momento, non senza prima avermi ricordato che la cena sarebbe
stata pronta nel giro di una manciata di minuti. Per un istante mi
chiesi dove avrei sistemato ciò che mi ero fatto spedire da Roma e
che sarebbe arrivato a giorni. Si trattava di libri, soprattutto. Senza,
mi sentivo perso. Lanciai un’occhiata dubbiosa alla piccola stanza.
Sul comodino accanto al letto era posata una vecchia Bibbia che
scricchiolò in modo sinistro quando provai a sollevare la copertina.
Nessuno doveva sfogliarla da anni, così la richiusi, temendo che le
pagine potessero sbriciolarsi da un momento all’altro.
Dopo essermi dato una breve rassettata e aver sciacquato le mani
nell’acqua gelida del catino gentilmente messo a mia disposizione,
scesi al piano inferiore, lasciandomi guidare dal profumo di cibo che
invadeva la casa.
In quella che immaginavo essere la sala principale, benché fosse di
modeste dimensioni, vidi un tavolo apparecchiato per due. Su una
poltrona, davanti a un camino spento, sedeva un uomo avvolto in una
coperta. Mi ero fermato sulla soglia e da lì riuscivo a scorgere solo i
sottili fili bianchi che ne solcavano il cranio quasi nudo. Il vecchio
parroco, di cui avrei fatto le veci, doveva essere parecchio in là con
gli anni. Un lieve russare si levava nella stanza. Mi schiarii la voce,
imbarazzato. Non sapevo come annunciare il mio ingresso senza
recargli disturbo. Per fortuna, alle mie spalle sopraggiunse Marie con
un grosso vassoio sul quale erano posate due ciotole fumanti e spesse
fette di pane nero abbrustolito. Posò tutto sul tavolo, mentre io mi
torcevo le dita, nervoso, poi si avvicinò all’uomo addormentato,
scuotendolo con delicatezza per una spalla.
«Padre Jacques? È ora di cena, ed è arrivato il nuovo sacerdote»
disse, a voce piuttosto alta.
L’uomo si riscosse, sbattendo le palpebre, e allungò una mano
davanti a sé, afferrando dalla coperta gli occhiali che dovevano
essergli caduti dal naso.
«È già qui?» gracchiò, con voce roca e gutturale. Si infilò le lenti,
voltandosi per guardarmi. Aveva sopracciglia bianche, folte e
cespugliose, un grosso naso a becco e labbra violacee, tanto sottili da
sembrare una ferita sul suo viso. «Ha fatto presto» fu l’unico
commento, dopo che mi ebbe squadrato per alcuni secondi. «Vuoi
aiutarmi, Marie?» disse quindi, rivolgendosi alla giovane domestica.
Lei si piegò verso di lui, ed ebbi l’impressione che lo stesse
sollevando tra le braccia robuste e ben tornite. Quell’uomo sembrava
più inconsistente di una foglia secca, un soffio di vento sarebbe
bastato a mandarlo a gambe all’aria. Quando si fu rimesso in piedi,
dopo che Marie gli ebbe porto il bastone, lo vidi fare qualche passo
incerto verso di me.
«E così voi siete don Agape, il parroco che viene dal Sud?» disse,
pronunciando la parola Sud come se fosse un insulto. O almeno così
mi parve in quel momento.
«Sì, padre. È un piacere fare la vostra conoscenza» dissi,
facendomi avanti e porgendogli la mano.
Lui la guardò con una smorfia di disgusto per alcuni secondi, poi si
rivolse alla domestica: «Marie, vuoi spostarmi la sedia? Ho fame e
voglio sedermi».
Marie, solerte, fece quello che con tanta malagrazia le veniva
chiesto. Il reverendo Jacques prese posto con aria accigliata.
«Be’, volete sedervi, don Agape? La minestra si raffredda, e a me
non piace quando è fredda: il formaggio si solidifica e diventa simile
a colla. A voi piace la colla, don Agape?»
Intimorito, mi affrettai a sedermi e ad afferrare il cucchiaio. «No,
certo che no…» risposi, intingendo la posata nel liquido denso e
verdognolo.
Il vecchio mi rivolse un’occhiata torva e penetrante, carica di
rimprovero. «Prima la preghiera» disse in tono gelido.
Mi sentii sprofondare, in profondo imbarazzo. Posai il cucchiaio
sul tovagliolo, giungendo le mani davanti a me. Don Jacques fece lo
stesso. Aveva dita lunghe e nodose, simili agli artigli di un uccello. Il
dorso della mano era coperto di macchie e solcato da sottili vene
azzurrine, che mi facevano credere che la pelle fosse sottile come
carta prossima a strapparsi.
«Ti ringraziamo, Signore, per questo cibo, e per aver aiutato il
nostro nuovo ministro del culto, don Agape, a giungere a noi sano e
salvo» disse, con quella voce raschiante come un rumore di unghie
sulla superficie di un vetro.
Mi affrettai ad annuire: «Amen».
Lui tossicchiò. Chiaramente aveva altro da dire, la preghiera non
era ancora terminata. «Ci auguriamo» proseguì «che il suo operato
presso la nostra parrocchia sia esemplare. Che possa essere una guida
saggia, un fratello amorevole, un padre severo, là dove occorrerà
esserlo». Dopo quelle parole sollevò appena le palpebre, lanciandomi
una breve e significativa occhiata. Capii, dal suo atteggiamento, che
non aveva la minima fiducia in me. «Amen».
«Amen» ripetei con un sospiro. Tutte le buone intenzioni che mi
avevano animato fino a quel momento sembravano essersi dissolte
davanti all’imperiosità del vecchio parroco di Saint Rhémy.
Iniziammo a mangiare in silenzio. La zuppa era ricca e saporita, il
pane ancora caldo e il vino, che Marie ci servì da una brocca, denso e
corposo. Io, che non ero abituato a bere, mi sentii girare la testa dopo
un bicchiere. Il reverendo Jacques non emetteva un fiato, sorbendo la
minestra a piccoli sorsi.
Dopo alcuni minuti, mi domandai se avrei dovuto dare avvio a una
conversazione, per spezzare quella gravosa assenza di rumori che
pesava su di noi come una cappa.
Non ce ne fu bisogno, tuttavia; fu lui stesso che mi interpellò: «E,
dunque, venite da Roma. Pensate di riuscire ad abituarvi a una realtà
così diversa?»
«Non vedo perché no» risposi, sentendo una vampata di calore
risalirmi dal collo fino a imporporarmi le guance. Avrei voluto
infilare due dita nel colletto della tonaca, per respirare meglio.
Il vecchio prete appoggiò il cucchiaio sul tavolo, pulendosi le
labbra con il tovagliolo. Il suo piatto era quasi intonso e non aveva
toccato né il pane né il vino. Mi chiesi se la mia voracità fosse
risultata inopportuna. Dovevano essere poche le cose che quell’uomo
non considerasse sconvenienti.
«Saint Rhémy è un piccolo borgo, ve ne renderete conto. C’è il
villaggio di Bosses, più a valle. I Comuni sono stati unificati nel
1782, la nostra chiesa è stata costruita subito dopo. A Bosses hanno
un’altra chiesa, San Leonardo, che fa parrocchia a se stante» mi
spiegò in tono sussiegoso. «Quella di Saint Rhémy è dedicata a San
Lorenzo. È una bella costruzione, non trovate?» mi domandò e, senza
darmi modo di rispondere, aggiunse: «Ma, certo, voi venendo da
Roma sarete abituato a ben altro».
«Trovo che il borgo e la chiesa siano incantevoli» risposi, cercando
di mostrarmi accondiscendente.
Marie tornò per aiutare padre Jacques a sollevarsi dalla sedia e a
rimettersi sulla poltrona. Fuori aveva iniziato a levarsi il vento. Lo
sentivo sibilare nella cappa del camino e sbattere contro le imposte.
«Credo… Credo che mi ritirerò» balbettai, muovendomi a disagio
da un piede all’altro. Era stata una giornata lunga e oltremodo
impegnativa.
«Domani vi aspetto per mostrarvi i carteggi della parrocchia. Poi
sarebbe utile e gradito che iniziaste a conoscere il borgo e i suoi
abitanti».
«Naturalmente» risposi, piuttosto irritato dai suoi modi saccenti.
Una volta raggiunta la mia stanza e messe in ordine le poche cose
che avevo con me, sedetti sul letto con il libro delle preghiere in
mano. Mi si chiudevano gli occhi dalla stanchezza, faceva freddo e
non vedevo l’ora di infilarmi sotto le coperte. Invece, mi costrinsi a
piegare le gambe sull’inginocchiatoio, congiungendo le mani davanti
al volto. Avevo lasciato le imposte aperte perché il buio mi procurava
un forte senso di claustrofobia, e da quella posizione riuscivo a
scorgere le numerose stelle che rischiaravano la notte. Non ne avevo
mai viste tante, in vita mia, e così luminose. Se davvero Dio abitava il
Regno dei Cieli, in quel momento dovevo essere più vicino a lui di
quanto fossi mai stato. Le creste delle montagne erano profili aguzzi
che si stagliavano contro il cielo d’inchiostro.
«Signore, aiutami, guidami in questo compito, rendimi un buon
pastore» mormorai, pensando a don Jacques e alla sua aria di
superiorità. Aveva definito gli abitanti del borgo onesti e devoti, un
gregge compatto, come se tra loro non potessero esserci differenze.
Come se i loro cuori non nascondessero vizi e passioni. E segreti,
anche. Tutti avevano dei segreti.
Affondai il volto tra le mani. Nonostante il freddo erano viscide di
sudore. «Signore, dammi la forza di credere nella mia scelta. Di
credere che sia la scelta giusta».
Yann

Era quasi sera, e la luce sui prati si stava affievolendo. Il sole


tramontava dietro le vette scoscese e l’ombra delle montagne si
allungava nella valle.
Mi detersi il sudore dalla fronte, osservando i braccianti che
assestavano le ultime, fiacche falciate. Nelle loro braccia non c’era
più lo slancio vigoroso che li aveva animati nelle prime ore del
giorno. Le donne li seguivano con i rastrelli, ammassando l’erba
appena tagliata. Più tardi si sarebbero occupate della legatura,
dividendo il raccolto in piccoli fasci, i balon. Vidi mia madre
scrollarsi la gonna dai fili di paglia e mia sorella Agnés appoggiarsi al
manico di legno dell’attrezzo, sospirando. Dal fazzoletto che portava
sul capo le sfuggivano ciuffi disordinati di capelli, il suo viso era
lucido di sudore.
Prima che facesse buio avremmo dovuto trasportare i balon nei
fienili, per evitare che l’umidità della notte rovinasse il foraggio.
L’aria iniziava a rinfrescare e, nel giro di qualche ora, le temperature
sarebbero precipitate.
Con un cenno della mano attirai l’attenzione degli altri uomini.
«Per oggi basta. Abbiamo fatto un buon lavoro» dissi, flettendo le
dita, indolenzite per aver maneggiato a lungo la falce. Anche la
schiena mi doleva per la posizione ricurva assunta per gran parte della
mattina e del pomeriggio. Luglio era il mese più operoso dell’anno, e
mietere era un lavoro duro. Da solo non sarei mai riuscito a portare a
termine la raccolta, così avevo assunto due braccianti, lavoratori
stagionali che pagavo alla giornata. Il sole non era ancora sorto dietro
le montagne, quando cominciavamo a mietere. Erano le ore migliori,
nelle braccia c’era energia e la falce era affilata.
Ci avviammo lungo il sentiero, la fronte bruciata dal sole e le
articolazioni doloranti, trasportando i fasci sulla schiena. Scendemmo
a valle costeggiando il torrente. Agnés si chinò sulla sponda, in un
punto in cui l’acqua spumeggiante raggiungeva la riva, e si bagnò il
collo e le guance.
«Ti prenderai un raffreddore» la rimproverò nostra madre,
accigliata. Notai che il suo sguardo non era rivolto ad Agnés, ma
sorvegliava i due braccianti.
Agnés bevve, con le mani a coppa. Un rigagnolo di acqua le scese
lungo il collo, e lei se lo asciugò incurante con il dorso della mano.
Mia sorella si avviava verso un’età in cui avrebbe dovuto trovarsi
presto un marito, gli uomini iniziavano a guardarla in un modo che
non mi piaceva affatto. Quando avevo provato ad affrontare il
discorso con lei, tuttavia, Agnés mi aveva messo a tacere in poche,
sbrigative battute: «E chi dovrei sposare, un vecchio? I giovani sono
partiti tutti per la guerra, non è rimasto più nessuno nella valle».
C’era una tale amarezza nelle sue parole, che non avevo saputo
cosa replicare. Perché tra quei giovani soldati che non avevano mai
fatto ritorno, nemmeno sotto forma di un corpo avvolto in una logora
bandiera, c’era nostro fratello Raphaël.
Raphaël, che era partito in un giorno di sole con il sorriso stampato
sul volto, l’entusiasmo ingenuo dei suoi ventuno anni. La penna di
corvo sul suo cappello era lucida come l’inchiostro, quel giorno.
L’ultimo in cui lo vidi.
La sua perdita aveva lasciato una voragine dietro di sé, e in quella
voragine stavo cercando di sopravvivere. Era difficile, a volte mi
sembrava impossibile; ma la vita andava avanti, nonostante tutto, e io
non potevo fuggire.
Agnés si sbagliava, comunque. Non tutti i giovani erano partiti. Io
non lo avevo fatto. Ero un giocattolo rotto, una risorsa inutilizzabile.
D’istinto portai una mano alla gamba sinistra. Faceva ancora male,
dopo tutti quegli anni. Ma a bruciare, più di ogni cosa, era il senso di
colpa. Se la gamba fosse stata sana, forse mio fratello sarebbe stato
ancora vivo. Forse sarei morto al suo posto. L’avrei preferito, tutto
sommato.
Ci rimettemmo in cammino. Il cielo si era tinto di un cupo color
lavanda, senza nubi all’orizzonte. Quella notte sarebbe stata fredda,
ma piena di stelle.
Quando raggiungemmo le prime case, era quasi buio. Dai
comignoli in pietra si levava un filo di fumo, qualcuno aveva già
iniziato a riscaldare la cena. La fattoria della mia famiglia si trovava
lontana dal centro del paese, al confine del bosco.
Arrivati davanti allo steccato della proprietà, mi diressi con i
braccianti verso la stalla per deporre i fasci. Le vacche, quelle che
non erano salite all’alpeggio, al nostro ingresso sollevarono la testa
dalle mangiatoie, ruminando. C’era un forte afrore di letame,
mescolato a quello più dolce del fieno. L’aria era tiepida e
confortevole. Mi era sempre piaciuto quell’odore, mi faceva sentire a
casa. Posammo le fascine e pagai i braccianti.
Mentre uscivo dalla stalla, slegai il bracciale di cuoio che portavo
al braccio quando falciavo. Era consunto, i lacci di pelle sottili e
prossimi a spezzarsi. Avrei dovuto procurarmene uno nuovo, per
l’anno a venire. Massaggiai la pelle arrossata del polso, dove il cuoio
aveva sfregato contro l’epidermide, ed estrassi dalla tasca la pipa. Mi
concedevo sempre un po’ di tabacco, prima di cena. Mi piaceva farlo
a quell’ora, quando le prime stelle si accendevano nella notte e io mi
sentivo svuotato dalla stanchezza. Lupo, il nostro cane da pastore, mi
seguì trotterellando; ma a un tratto si fermò, le orecchie tese e lo
sguardo vigile, emettendo un ringhio basso, un cupo brontolio.
Una figura risaliva il viale che portava alla fattoria. La scorgevo a
malapena, tra le ombre della notte. Strinsi gli occhi, cercando di
distinguere la sua sagoma. Vestiva come una donna, ma aveva la
stazza di un uomo. Quando fu più vicino, riuscii a scorgere l’abito
nero, in cui spiccava il colletto candido: il nuovo parroco.
«Voi dovete essere Yann Rosset» disse. Aveva il fiato corto e si
teneva una mano premuta contro il fianco, che sembrava dolergli
parecchio.
«Sono io» risposi, aggrottando le sopracciglia.
Lui estrasse un fazzoletto dalla tasca del soprabito, asciugandosi il
sudore dalla fronte. «È bella ripida, eh?» disse, indicando con un
cenno del capo la salita dalla quale era arrivato.
«Non mi pare» ribattei, caricando il fornello della pipa e
accendendolo.
L’uomo aspettò che finissi, prima di tendermi una mano. «Sono il
nuovo parroco, don Agape».
Gliela strinsi senza troppa convinzione. Sapevo che sarebbe
arrivato ma, in tutta onestà, mi sembrava troppo giovane per essere un
prete. O forse dovevo il mio stupore al fatto di essere abituato a
parroci vecchi e canuti. Quell’uomo appariva alto, ben piazzato, ma la
sua mano era molle e sudata, dalla presa insicura. Inoltre, avrei
giurato di non aver mai sentito prima un accento simile. Doveva
venire da lontano, dal Sud molto probabilmente.
Uno così, pensai, non avrebbe resistito a lungo tra quelle montagne
che sapevano essere impietose e crudeli con chi non le conosceva a
sufficienza per temerle. Nessuno lo sapeva meglio di me. Gli avrei
dato tempo fino all’arrivo della prima neve, poi tutto il suo
entusiasmo si sarebbe congelato come il fiato tra le labbra e, forse,
avrebbe scelto un posto meno impervio per radunare il suo gregge.
«Sto facendo il giro delle abitazioni per presentarmi» mi rivelò con
un sorriso che non ricambiai.
«Non vi occorrerà molto tempo, reverendo. Non siamo che una
manciata di cristiani, quassù».
«Sì, credo di aver già conosciuto tutti. Rimanete solo voi e la vostra
famiglia». Si tolse il cappello, grattandosi la fronte, poi lo riadagiò sul
capo. Lupo, ai suoi piedi, annusava sospettoso l’orlo della sottana, e
lui sembrava piuttosto a disagio.
«Cuccia, Lupo» dissi brusco, richiamando il cane. Presi una
boccata di fumo, espirandola lentamente. Una nuvola opalescente si
sollevò nell’aria che andava scurendosi.
«Mia madre sarà felice di fare la vostra conoscenza» dissi, dopo
qualche istante di silenzio.
Don Agape, rimasto in assorta contemplazione della macchia di
abeti che si estendeva oltre la staccionata del podere, sembrò
riscuotersi. «C’è una tale pace qui» mormorò. «Un silenzio così
profondo…»
«Già».
Anche la gente, qui, è silenziosa, avrei voluto dirgli. Nessuno dice
più di quel che dovrebbe. Siamo un popolo simile alle alte vette che
ci circondano, chiuso e coriaceo. E voi siete un prete forestiero e fin
troppo loquace. «Volete seguirmi in casa? Le donne saranno liete di
offrirvi qualcosa da bere e, se vorrete fermarvi per cena…» mi
bloccai a metà frase. Strizzai gli occhi, posandoli su una esile figura
apparsa al limitare degli alberi. La scorgevo a malapena, perché il
buio aveva già avvolto i profili delle montagne, ma non avevo
bisogno di vederla per sapere chi fosse. Veniva tutte le sere, sempre
alla stessa ora. Se ne stava lì, a guardare la fattoria che dileguava nel
blu della notte, poi tornava sui suoi passi, scomparendo nella
boscaglia.
Il parroco, rendendosi conto della mia momentanea distrazione,
volse lo sguardo al punto verso il quale era concentrata la mia
attenzione. Dovette accorgersi di lei, perché aggrottò le sopracciglia,
sollevando la tesa del cappello per vedere meglio. «Chi è quella
donna?» domandò, sorpreso.
La guardai: i lunghi capelli arruffati le scendevano sulle spalle e,
anche se era quasi buio, sapevo che avevano i riflessi delle fiamme. Il
vestito che indossava, dimesso e rattoppato, non le copriva neppure le
caviglie. Prima di svanire tra le ombre inclinò appena il capo, e io
strinsi la pipa fra le dita tanto forte che le nocche sbiancarono. Avrei
voluto scacciarla come si scaccia un animale selvatico, dirle che quel
suo tornare, giorno dopo giorno, era inutile e insopportabile. Invece,
come ogni sera, restai a scrutarla fino a quando non la vidi voltarsi e
svanire tra gli alberi. Il frusciare delle foglie sui rami era l’unico
suono a riempire il silenzio.
«Nessuno» dissi in risposta alle parole del parroco, senza staccare
gli occhi dal punto in cui, solo pochi istanti prima, c’era lei. «Non è
nessuno».
Fiamma

Aglio selvatico, assenzio e fusti di angelica, per le cui radici avrei


dovuto aspettare l’autunno. Il mio cesto straripava di erbe.
I fiori di camomilla andavano raccolti alla sera, in giornate asciutte.
Recisi i capolini con le unghie, staccandoli dalla pianta, e li conservai
nel palmo della mano. Il profumo che emanavano mi avvolse,
rasserenandomi.
Con il cesto sottobraccio costeggiai il torrente, risalendo verso il
bosco. Era quasi buio, ormai, ma non avevo bisogno della luce per
orientarmi. Conoscevo ogni sentiero, ogni roccia, ogni corteccia
d’albero. Ero nata lassù, tra gli abeti rossi e le betulle. Da diciannove
anni quel bosco era la mia casa.
Il capanno apparve tra le ombre della notte. A una prima occhiata
sembrava abbandonato, la pietra grigia era velata di muschio e al tetto
mancavano alcune tegole. La porta di legno scricchiolò quando la
aprii, e un intenso profumo di fiori secchi e bacche selvatiche invase
le mie narici. Posai il cesto su uno sgabello, accendendo il lume a
olio. Una pallida luce si riflesse sulle travi di legno del soffitto e sul
pavimento di nuda terra. Non ero avvezza alle comodità, allo stesso
modo in cui non ero avvezza ad avere compagnia.
La casa in cui vivevo ormai sola, da quando mia madre era venuta
a mancare due inverni prima, era piccola e inospitale, ma non avrei
potuto vivere altrove. Il bosco era l’unica realtà che conoscevo,
l’unico luogo in cui mi sentivo al sicuro. Ero abituata alle temperature
più rigide e non avrei mai rinunciato alla libertà che quella vita mi
consentiva.
Eppure, la solitudine a volte mi pesava addosso come un macigno,
soprattutto da quando lui se ne era andato.
Mi accoccolai sulla poltrona dal sedile sfondato, l’unica seduta
offerta dalla casa. L’avevo trovata vicino al paese, doveva essere
appartenuta a qualcuno che, avendo deciso di disfarsene, invece di
bruciarla, l’aveva gettata al limitare del bosco. Avrebbe anche potuto
essere un dono indirizzato a me, non ne ero certa. Avevo aspettato
che facesse sera per trascinarla, non senza una certa fatica, fino al
capanno. Ora ci stavo raggomitolata dentro, guardando il fuoco che
attecchiva sui pezzi secchi di corteccia che vi avevo gettato. Un caldo
odore di funghi aveva invaso l’ambiente e sui ciocchi si erano
formate bolle di resina e umidità. Le fiamme crepitavano,
diffondendo un lieve calore.
Appoggiai la fronte alle ginocchia, sospirando. Come ogni sera, ero
arrivata al confine che delimitava la proprietà dei Rosset e non avevo
avuto il coraggio di proseguire oltre. Da quando la neve si era sciolta,
in aprile, non facevo che tornare sui miei passi. Sapevo che era
inutile, che quasi di sicuro mi avrebbero scacciato, senza darmi modo
di parlare. Eppure sentivo di doverglielo, perché era la famiglia di
Raphaël, e Raphaël era l’unico amico che io avessi mai avuto.
Chiusi gli occhi, rivedendomi per un istante ancora bambina.

Mia madre aveva la voce di un angelo e, quando mi portava nei


boschi con lei per aiutarla a raccogliere erbe, funghi e bacche,
intonava canzoni che si sono fuse, nella mia memoria, con altre mille
storie. Erano ballate, vicende di incauti che si erano avventurati sulla
montagna senza sapere che la montagna poteva essere crudele e
implacabile con chi dimostrava di non conoscerla a sufficienza. I
viandanti di quelle leggende si perdevano tra gli alberi e la neve,
spesso incappavano in creature dei boschi come fate, gnomi e folletti,
esseri schivi e piuttosto dispettosi. Quando mia madre cantava,
pendevo dalle sue labbra e inciampavo nei miei piedi. Mi sembrava
lei stessa una fata dei boschi, con i capelli lunghissimi e la pelle
diafana.
Ci sarebbe voluto ancora qualche anno prima che mi rendessi conto
che, fuori della foresta, c’era un mondo intero che ci evitava e aveva
paura di noi. Gli abitanti del borgo si segnavano incontrandoci, la
parola «strega» passava di bocca in bocca, e nessuno osava
avvicinarsi. Eppure, al calar della sera, era alla nostra porta che
venivano a bussare, i volti opportunamente protetti dall’oscurità.
Chiedevano quelle che chiamavano pozioni, ma non erano altro che
semplici decotti. Asma, reumatismi, cattiva digestione, insonnia,
infezioni… Mia madre sapeva curare ogni malanno. In cambio ci
portavano pane e frutta, latte, uova e lana. Lasciavano tutto davanti
alla porta, non si fermavano mai più dello stretto necessario.
Da bambina mi chiedevo quale fosse il motivo per cui tutti
sembravano vivere insieme in armonia, mentre noi ce ne stavamo
isolate lassù, senza parlare con nessuno. Le poche volte che ho osato
rivolgere questa domanda a mia madre, lei mi ha sorriso con
indulgenza: «La gente sa essere cattiva, Fiamma. Che il destino ti
risparmi questa sofferenza».
Era convinta che il bosco offrisse tutto ciò che serviva per vivere.
Aveva fatto questa scelta anni prima, senza mai spiegarmene il
motivo, e io non le avevo mai domandato nulla. Era una madre
affettuosa e piena di premure. Si accertava che avessi da mangiare a
sufficienza, che fossi abbastanza coperta quando arrivava la prima
neve e che non giocassi troppo vicino alla riva del torrente.
Io, però, bramavo un amico, ed ero stufa di cercarlo tra i sassi, le
pigne cadute dagli alberi e i profili delle montagne, oggetti inanimati
cui infondevo il soffio della vita con l’immaginazione.
Poi, un giorno, arrivò Raphaël.
Quel giorno mia madre mi aveva lasciata sola. Era partita prima
che sorgesse il sole, con il cesto per la raccolta e il coltello per
tagliare i fusti ben avvolto in un panno. Saliva di quota, per andare a
prendere quelle piante che, come noi, non amavano la compagnia,
come la genziana e l’artemisia. Si era raccomandata che non mi
allontanassi dalla casa; temeva che potessi perdermi e, forse,
raggiungere per sbaglio il borgo. Aveva paura di quel posto più di
qualsiasi altra cosa.
Io, che non ero una bambina avventurosa e mi accontentavo di quel
poco che avevo, mi ero seduta nella radura poco distante dal capanno,
portando con me Tilli e Justine, le uniche due bambole che avessi mai
avuto. Le aveva cucite mia madre con la stoffa degli abiti che non
indossavamo più, erano imbottite di foglie secche e avevano capelli di
lana cisposa. A sei anni ero troppo piccola per notare queste cose e,
soprattutto, non avevo altri metri di paragone. Nei miei giochi quelle
bambole erano sempre madre e figlia, l’unico rapporto che avessi
coltivato fino a quel momento.
Era un caldo mattino di fine maggio, e un tiepido sole filtrava tra le
fronde degli alberi. Il bosco sembrava silenzioso, ma ascoltando con
attenzione era possibile scorgere una moltitudine di piccoli rumori
che riempivano l’aria. Immersa nei miei giochi, la mente occupata nel
tentativo di ricordare tutte le raccomandazioni che mia madre mi
faceva ogni giorno e che Tilli stava ripetendo a Justine, non lo sentii
arrivare. Quando vidi la sua ombra che si allungava davanti a me, era
già troppo vicino per permettermi di fuggire. Mi irrigidii, sollevando
appena il viso.
Davanti a me c’era un ragazzino sparuto, con una folta matassa di
capelli biondi come il grano e una spruzzata di lentiggini sul naso a
patata. Mi osservava con curiosità, ma senza paura nello sguardo e
senza cattiveria.
Non era la prima volta che incontravo un altro bambino. Spesso i
figli dei contadini si avventuravano nel bosco, sempre in piccoli
gruppi di tre o quattro, per venirmi a cercare. Ormai avevo imparato a
evitarli, se li sentivo arrivare mi nascondevo tra gli alberi o mi
chiudevo nel capanno. La prima volta, però, incuriosita, mi ero
lasciata avvicinare. Loro mi avevano gridato cose che non avevo
capito, non del tutto, e qualcuno aveva cercato un sasso tra le foglie
per lanciarmelo. «Strega, figlia del demonio, arpia» erano solo alcune
delle parole che ricordo. Con gli anni avrei imparato a buttarmi tutto
alle spalle, a compatirli per quel loro marcarmi con un insulto per
scongiurare la paura che io e mia madre incutevamo loro. Come se
vivere nel bosco lontane da tutto e conoscere i segreti delle piante e
delle erbe ci rendesse persone malvagie e pericolose. La
superstizione, io, non l’ho mai capita.
Il giorno in cui Raphaël sbucò nella radura di aghi di pino, tuttavia,
non riuscii a scappare. Rimasi immobile davanti a lui, con lo sguardo
terrorizzato di un animale braccato da un cacciatore. Lasciai cadere le
bambole e iniziai a tremare, mentre gli occhi mi si riempivano di
lacrime. Lui dovette rendersene conto, perché allungò le mani davanti
a sé, mostrandomi i palmi: erano vuoti, non c’era nulla con cui
avrebbe potuto ferirmi.
«Non volevo spaventarti» disse cauto.
Continuai a fissarlo, diffidente. Ero accovacciata a terra e mi chiesi
quanto tempo mi sarebbe occorso per alzarmi e correre via. Troppo,
probabilmente. Quel ragazzino sembrava più grande di me, e di certo
aveva gambe più lunghe delle mie.
«Mi chiamo Raphaël Rosset» proseguì lui, piegandosi sui talloni
per arrivare alla mia altezza. «Abito nella fattoria vicino al bosco.
Quella grande casa di pietra che si vede anche da qui» aggiunse,
indicando un punto tra gli alberi. Non volevo staccare gli occhi da lui,
temendo che approfittasse della mia distrazione per tirarmi qualche
brutto scherzo, così buttai un’occhiata veloce. Un sottile filo di fumo
si tendeva tra le cime degli abeti più a valle, proveniva dal comignolo
del podere che il bambino mi aveva indicato.
Quando tornai a fissarlo, accigliata, mi accorsi con stupore che si
era seduto davanti a me. Teneva le gambe incrociate e sembrava del
tutto a suo agio.
«Tu come ti chiami?» mi chiese.
Ci misi qualche istante per decidere se rispondergli. Avevo sei
anni, ed era la prima volta che qualcuno che non fosse mia madre, o il
suo amico Lucien, mi rivolgeva la parola.
«Fiamma» dissi, dopo alcuni secondi di silenzio. «Fiamma e basta»
specificai, ricordandomi che lui si era presentato con due nomi.
«Fiamma, certo» disse lui, esibendo un sorriso in cui mancavano
alcuni denti. Fu quello, credo, a convincermi che non poteva essere
un bambino cattivo. Nessuno che fosse malvagio avrebbe sfoggiato
un sorriso così caloroso e, allo stesso tempo, così imperfetto. «Ti
hanno chiamato Fiamma per i capelli, vero?» mi domandò,
puntandomi l’indice contro.
«Sì» mentii. In realtà, non ne avevo la certezza. Ero venuta al
mondo con una nuvola di capelli rossi come il rame. Con gli anni si
erano scuriti, diventando una massa di riccioli che potevano ricordare
le lingue di fuoco guizzanti nel camino. Mia madre aveva i capelli
chiari e lisci, dunque sospettavo di aver preso quella chioma leonina
da mio padre, ma non avevo la minima idea di chi fosse.
«Posso averne una ciocca? Dei tuoi capelli, intendo» disse a quel
punto Raphaël, sorprendendomi.
Aggrottai la fronte, cercando di capire cosa si celasse dietro quella
richiesta all’apparenza assurda. «A cosa ti servono i miei capelli?»
Lui si strinse nelle spalle. «Gli altri bambini pensano che io non
abbia il coraggio di venire qui da solo. Voglio dimostrare che si
sbagliano. Per questo mi serve una ciocca dei tuoi capelli, per far
vedere loro che ti ho incontrato».
Mi incupii. «I bambini del borgo mi odiano. Mi chiamano “strega”.
Cos’è una strega?» chiesi, approfittando della sua presenza per fare
quelle domande che mia madre eludeva, dandomi solo risposte vaghe.
«Le streghe sono vecchie e malvagie. E brutte, anche. Tu non
sembri una strega». Aveva raccolto una pigna da terra e ci stava
giocherellando. «Com’è vivere nel bosco? A me piacerebbe, ma mio
padre dice che i bravi cristiani non possono vivere come selvaggi».
Era stato il mio turno di stringermi nelle spalle. Non mi ero mai
interrogata sulla vita che conducevo, il bosco era la mia casa. C’era
solo un aspetto che mi rendeva malinconica e, guardando quel
bambino magro e spettinato, con le ginocchia sbucciate e le guance
rosse, decisi di giocarmi bene le mie carte: «Se ti do una ciocca dei
miei capelli, diventerai mio amico?»
Il sorriso sdentato fece la sua ricomparsa. Tese una mano verso di
me, con una mossa forse troppo precipitosa, facendomi sussultare.
«Affare fatto!» esclamò, entusiasta.
Perplessa, rimasi a guardare le sue dita lunghe, i palmi già segnati
dal lavoro alla fattoria.
«La devi stringere, se vuoi che l’accordo funzioni» mi suggerì lui,
a bassa voce.
Timidamente posai la mia piccola mano nella sua. Il suo calore mi
sorprese.
Con il tempo avrei imparato che Raphaël aveva sempre le mani
calde, anche quando le temperature precipitavano e il freddo gelava il
fiato sulle labbra. Avrei capito che quel giorno, il giorno in cui iniziò
la nostra strana amicizia che gli avrebbe procurato non pochi
grattacapi con la sua famiglia e gli abitanti del paese, Raphaël non era
meno solo di me. La ciocca di capelli che tagliai per lui con il
coltellino che si era portato, e che mi porse con riverenza, non lo rese
popolare fra gli altri bambini. Semmai tutto il contrario: lo
accusarono di essersi lasciato irretire da me, dissero che avevo usato i
miei malefici su di lui. Lo esclusero ancora di più, e lui si rifugiò nel
bosco, dove io iniziai ad attenderlo, impaziente di correre a giocare
insieme.
Raphaël, il migliore amico che abbia mai avuto. L’unico.
Indolenzita, mi sollevai dalla poltrona. Mi ero appisolata, lasciando
morire il fuoco. Il capanno era immerso nell’oscurità. Evitando i
graticci sparsi a terra, su cui avevo posato erbe e fiori a essiccare, mi
diressi alla finestra, spalancando le imposte. Un sottile spicchio di
luna stava sospeso sopra le cime degli alberi. Le montagne erano
sagome scure e immobili. Il mio fiato si condensò in una nuvola
azzurra che si sollevò lentamente, disperdendosi nella notte.
Quel pomeriggio, quando ero emersa dal bosco in prossimità del
podere dei Rosset, c’era il fratello di Raphaël davanti alla porta.
Parlava con un uomo che non avevo mai visto e che, a giudicare dagli
abiti, doveva essere il nuovo parroco di Saint Rhémy.
Pensai a Yann, agli sguardi carichi di disprezzo che mi rivolgeva.
Riuscivo a scorgere la sua espressione anche da lontano. Non mi
avrebbe permesso di avvicinarmi, non più, ne ero consapevole. In
fondo, quello che avevo da dirgli era qualcosa che avrei potuto tenere
solo per me, come un segreto. Perché Raphaël era venuto da me,
quando la guerra era finita. Io lo avevo visto.
Era una fredda mattina di gennaio, e una spessa nebbia avvolgeva
le montagne. In quell’atmosfera lattiginosa l’avevo scorto, non
lontano dalla radura del nostro primo incontro. Camminava tra gli
alberi incrostati di ghiaccio, la divisa da soldato logora e macchiata,
l’elmetto ammaccato.
Camminava con espressione smarrita e sulla neve, alle sue spalle,
non lasciava tracce.
Agape

«I Martin, i Jotaz e, per ultimi, i Rosset» dissi, spalmando un


generoso strato di burro su una fetta di pane. Il burro era giallo e
pastoso e aveva il sapore della panna. Il primo raggio di sole
riverberò sulla lama del coltello, riflettendo la luce sul volto di padre
Jacques, che mi ascoltava tenendo gli occhi chiusi e le mani giunte
sul tavolo. Gli stavo facendo il resoconto delle visite compiute il
giorno prima nelle abitazioni del villaggio, e lui annuiva di tanto in
tanto, anche se sembrava immerso in altri pensieri.
«Oh, sì, i Rosset. Brava gente» annuì, sollevando le palpebre e
lanciando una breve occhiata fuori della finestra. La neve, sulla cima
delle montagne, scintillava illuminata dal sole. «Henri Rosset si
occupava di tenere in ordine il passo del valico, ci ha lasciati nel
1911. Il figlio lo ha seguito qualche anno dopo. La guerra». Lo disse
come se stesse pronunciando un insulto, e di certo era così. La guerra
aveva stravolto gli equilibri del piccolo borgo, in cui da secoli la
gente nasceva e moriva senza mai allontanarsi dall’ombra che la
montagna gettava su quella manciata di anime solitarie.
Padre Jacques non accettava di aver perduto alcuni tra i membri più
giovani della comunità. Pecore che non avrebbero più fatto ritorno a
quel gregge che lui, con irriducibile caparbietà, si ostinava a voler
tenere compatto. Scosse la testa, come a voler scacciare un pensiero
molesto. «Avrebbe compiuto ventuno anni in ottobre» aggiunse
accigliato, fissandosi il dorso delle mani.
«Non si dovrebbe morire a vent’anni» dissi, deglutendo piano il
pezzo di pane che stavo masticando. All’improvviso, il cibo che solo
fino a pochi minuti prima avevo trovato gustoso e saporito, mi
sembrava indigesto.
«Non è nostro compito giudicare l’operato del Signore. Egli dà e
toglie secondo un disegno che non ci è dato conoscere» disse
l’anziano prete, sistemandosi gli occhiali sul lungo naso a becco. La
sua espressione era fredda. Mi costrinse ad abbassare lo sguardo alla
tazza di latte in cui galleggiavano pezzi di pane ormai molli. Mi era
passato l’appetito.
«E Yann Rosset?» domandai, giocherellando con alcune briciole
sparpagliate sulla tavola. «Ho notato che zoppica. È stato ferito in
guerra?» domandai, più per smorzare i toni del discorso che per un
reale interesse.
Padre Jacques strinse le labbra a una linea ancora più sottile. La
pelle del viso era rugosa e ricoperta di macchie. Sembrava un essere
millenario. «Il figlio maggiore dei Rosset era un soldato della neve,
un marronier. Sapete cosa significa?»
Scossi la testa, non avevo mai sentito quel termine.
«I marronier sono guide incaricate di accompagnare i viaggiatori
attraverso il passo del Gran San Bernardo. Questo li esonera dal
servizio militare. È una professione antica e onorevole» spiegò il
vecchio parroco, scuotendo la mano per scacciare una mosca, che si
era posata sul bordo della tazza da cui aveva sorbito un tè leggero e
senza zucchero. «A ogni modo, allo scoppio della guerra Yann Rosset
era già rimasto offeso. Non sarebbe potuto partire comunque».
«Cosa gli accadde?» non potei fare a meno di domandare, a quel
punto con sincero interesse. Yann Rosset mi era apparso chiuso, duro;
un uomo abituato alla fatica e alla solitudine, per niente avvezzo a
perdersi in chiacchiere. Una caratteristica, quest’ultima, che avevo
scorto in più di una persona, nel borgo. Era gente di montagna, il cui
carattere si era forgiato nelle condizioni più impervie, in un ambiente
ostile e impenetrabile. E così mi erano apparsi: impenetrabili.
Qualunque informazione che gettasse un po’ di luce su di loro
avrebbe potuto essermi utile a decifrarli, dato che dovevo essere il
loro pastore.
In quel momento la porta si aprì, e Marie fece il suo ingresso con il
vassoio vuoto, su cui iniziò a riporre tazze e cucchiai. Si muoveva
con destrezza, e la sua pelle, nella luce chiara del mattino, era fresca e
rosa come la corolla di un fiore.
«La montagna» rispose il vecchio parroco dopo alcuni secondi di
silenzio. «La montagna l’ha tradito. L’ha fatto nel modo più crudele,
risparmiandogli la vita e lasciandolo storpio».
La parola “storpio” tra le sue labbra suonava come qualcosa di
volgare e inappropriato.
Vidi Marie trattenere il respiro. La sua espressione si fece attenta e
scrutò don Jacques inclinando la testa. «Parlate di Yann Rosset,
reverendo?»
«E di chi, sennò?» Si tolse gli occhiali, pulendoli con la manica
della tonaca, per poi rimetterseli sul naso. «Come vi ho già detto, Dio
opera secondo quanto Egli ritiene giusto, ma lasciatemi dire che
quella famiglia è stata oltremodo sfortunata».
Pensai ai Rosset. Mi erano apparsi uniti, nonostante tutto. Corinne
Rosset, la madre di Yann e Agnés, a dispetto di tutte le tragedie che
avevano colpito la sua famiglia, mi aveva dato l’idea di essere una
donna integra e salda, una roccia difficile da spostare, forse persino
da scalfire. La loro era una delle case più grandi del villaggio, e la
fattoria era bene avviata. Guardai Marie che, rossa in volto, si
affrettava a togliere le briciole dal tavolo con un colpo di mano, per
poi raccoglierle con cura all’interno del palmo. Era una ragazza sana,
robusta, in età da marito. E Yann uno dei pochi scapoli rimasti a Saint
Rhémy dopo la guerra. Aveva una gamba offesa e un pessimo
carattere, ma di certo era considerato un buon partito dalle giovani
donne del borgo.
Mentre facevo quelle considerazioni, un ricordo mi colse
all’improvviso, facendomi quasi sobbalzare. «C’era una donna»
esclamai «al confine del podere dei Rosset. Stava ferma al limitare
del bosco, poi è scomparsa tra gli alberi» aggiunsi, cercando di
riportare alla mente l’immagine confusa che avevo di quella bizzarra
apparizione. Se non avessi avuto la certezza che Yann Rosset l’aveva
vista a sua volta, anche se poi l’aveva negato, avrei pensato di averla
solo immaginata.
Il silenzio che accolse la mia esclamazione mi fece pensare che le
mie parole fossero cadute nel vuoto. O avessero colpito nel segno.
Marie assunse di colpo un’aria circospetta, lanciando occhiate
allarmate verso il vecchio parroco, che dal canto suo vestiva la solita
espressione corruscata, le folte sopracciglia aggrottate, gli occhi
gelidi come il ghiaccio.
«Io… Ecco, mi stavo solo chiedendo chi fosse» balbettai,
sentendomi all’improvviso piuttosto a disagio.
Padre Jacques trasse un profondo respiro, come se si stesse
preparando ad affrontare un argomento spinoso, ma Marie fu più
veloce di lui: «Parlate della strega? Oh, don Agape, mi auguro che vi
siate segnato, quando l’avete vista» esclamò, strabuzzando gli occhi
azzurri e tondi che, nel viso paffuto, ricordavano due piccoli bottoni.
«Strega?» domandai, perplesso.
«Marie» la ammonì il vecchio parroco in tono secco.
Marie, tuttavia, era troppo infervorata per riuscire a calmarsi: «È
una strega, vi dico. Ha rinnegato il Signore per unirsi al demonio. Di
notte danza al sabba delle creature infernali e può trasformarsi in una
grossa volpe rabbiosa».
«Marie» ripeté padre Jacques, spazientito.
«Basile Blanche ha giurato di averla vista vicino al suo fienile!»
replicò la donna con voce stridula. «Quando ha provato a scacciarla,
lei gli ha mostrato i denti e aveva la bocca piena di schiuma».
Padre Jacques scosse la testa. «Se volete un consiglio, don Agape,
evitate di avventurarvi nel bosco da solo. Strega o meno, si tratta di
un’anima perduta che non può essere salvata. Una povera mentecatta
che non ha mai conosciuto la civiltà. Vive nei boschi come una bestia
selvatica, e non vi assicuro che non possa essere altrettanto
pericolosa, anche se personalmente non credo a tutte queste
sciocchezze». Emise un pesante sospiro. «Quanto al fatto che abbia
rinnegato Dio, su questo non nutro dubbi. Come vi dicevo, non può
essere salvata. Il suo è un triste destino».
Marie si segnò di nascosto, facendo gli scongiuri. Sbattei le
palpebre, basito.
Ogni gregge aveva una pecora nera. La donna che avevo visto
affacciarsi sul confine del bosco, mentre il sole tramontava dietro le
montagne, sembrava essere la macchia scura sull’irreprensibile
operato di don Jacques nella comunità di Saint Rhémy. Una creatura
lontana dalla luce del Signore, rimasta ai margini della comunità e
niente affatto desiderosa di farne parte.
Riuscire dove padre Jacques aveva fallito poteva essere il mio
modo di riscattarmi; di dimostrare che potevo essere a mia volta un
buon pastore, riportando al gregge anche chi sembrava condannato a
esserne per sempre escluso. Presi quella decisione animato dai più
nobili e caritatevoli sentimenti, spinto da un entusiasmo che non
avevo mai provato fino a quel momento. Sì, stavo facendo la cosa
giusta, quello era il disegno di Dio per me. Avrei teso una mano a
quella pecora smarrita, l’avrei ricondotta sulla retta via.
Yann

La voce del parroco rimbombava fra le pareti della piccola chiesa.


L’aria era umida e impregnata dolciastro dell’incenso. A riempire il
silenzio, dato dalle pause nell’omelia, erano colpi di tosse e fruscii di
pagine. Rivolsi un’occhiata a mia madre e a mia sorella, dall’altra
parte della navata: sedevano composte, i fazzoletti annodati sotto il
mento e il libro delle preghiere aperto sulle ginocchia. Erano le loro
espressioni a rivelare che le parole del nuovo parroco non stavano
ottenendo l’effetto desiderato: mia madre lo osservava accigliata,
mentre Agnés stava solo fingendo di ascoltare ed era immersa nei
suoi pensieri.
«Non sembra del tutto padrone di sé…» sussurrò al mio orecchio
Basile Blanche, senza staccare gli occhi dal pulpito su cui don Agape
snocciolava il suo sermone, un po’ balbettando, un po’ leggendo dalla
pila di fogli che aveva davanti. Di tanto in tanto si interrompeva per
tamponarsi la fronte luccicante di sudore con un fazzoletto, perdeva il
filo del discorso e sfogliava in fretta gli appunti, per riprendere a
parlare e impappinarsi subito dopo. Un vero strazio.
Don Jacques, seduto su una panca dietro l’altare, teneva le mani
artigliate al pomo del bastone e scuoteva la testa a brevi scatti. Le
labbra sottili, con gli angoli piegati all’ingiù, lasciavano trapelare il
disprezzo e la totale disapprovazione che nutriva nei confronti del
proprio successore. Se l’avanzare dell’età non gli avesse impedito di
svolgere tutte quelle attività che sono compito esclusivo di un
reverendo, avrebbe continuato ad amministrare la piccola parrocchia
di Saint Rhémy con il piglio deciso che l’aveva sempre caratterizzato.
Lo guardai, rattrappito su se stesso, la pelle segnata da rughe
profonde, i capelli ormai radi sul cranio lucido. Solo lo sguardo non
cedeva il passo all’età, quegli occhi gelidi che ti trapassavano da parte
a parte, spingendoti a confessare anche i peccati che non avevi
commesso.
Quando eravamo bambini, non c’era giorno che io e Raphaël non
ricevessimo una sonora strigliata da quell’uomo che non avevo mai
visto sorridere una sola volta in vita sua. Teneva in pugno gli abitanti
del borgo come si governa una mandria, con durezza e sollecitudine,
elargendo parole pietose con la stessa parsimonia con cui
amministrava i fondi della chiesa.
Faceva in modo che piegassimo il capo davanti a quel Dio
benevolo e vendicativo che in quel momento vedevo raffigurato nella
pala dietro l’altare. Un Cristo con lo sguardo sofferente e le braccia
spalancate, inchiodato alla croce come una farfalla in una teca. Mi
faceva uno strano effetto pensare che si era lasciato fare questo dagli
esseri umani che lui stesso aveva creato a propria immagine e
somiglianza. Quale pazzo metterebbe un pugnale in mano a una sua
creatura, chiedendo di essere pugnalato?
Mi avevano educato ad amarlo, quel Dio misericordioso che si era
fatto carne per togliere i peccati dal mondo. Ma l’amore non si
insegna, e in quel momento, guardando il nuovo parroco che si
agitava sul pulpito, cercando di mettere insieme un discorso sensato,
mi resi conto di qualcosa che, in fondo, avevo sempre saputo:
eravamo soli in quel mondo di roccia sferzato dal vento. Nessuno ci
guardava dall’alto, nessuno vegliava su di noi. Se gioivamo o
soffrivamo, se la montagna ci crollava addosso o se partivamo un
giorno senza fare ritorno, a nessuno sarebbe importato, perché non
c’era nessuno oltre il cielo immobile della notte.
Padre Jacques aveva dedicato l’esistenza a inculcarci in testa una
menzogna, e ora il nuovo parroco si apprestava a fare altrettanto.
Eravamo pecore che andavano ammansite e condotte a una verità
difficile da accettare: il risarcimento per quella vita di dolore e
privazione l’avremmo ottenuto solo smettendo di vivere e aspirando a
un’eternità di cui non c’era alcuna certezza.
Mentre don Agape scendeva dal pulpito, apprestandosi a spezzare
il pane per l’eucarestia, mi alzai dalla panca e, senza badare agli
sguardi perplessi degli altri fedeli, percorsi la navata e uscii.
Il borgo era immerso nella calda luce del sole di agosto. Mi infilai
il cappello e scesi dalle scale del sagrato. C’era un silenzio innaturale
con la comunità tutta radunata in chiesa, e mi ritrovai a camminare
sull’acciottolato senza una meta. Non potevo tornare al podere senza
le donne, che avrebbero preso quella mancanza di rispetto come un
affronto personale. Avrei già dovuto sorbirmi i rimproveri di mia
madre per la scortesia che avevo dimostrato lasciando la chiesa a
metà della funzione. Non aveva importanza che avessi passato da un
pezzo l’età delle ramanzine e che ormai fossi l’uomo di casa. Per mia
madre sarei sempre rimasto un ragazzino con la testa dura.
Dalla tasca della giacca estrassi la scatola del tabacco e iniziai a
caricare la pipa con gesti abituali. Camminando ero arrivato al
cancello del cimitero, che sorgeva accanto alla chiesa. Mi fermai
vicino al muretto, osservando sovrappensiero le lapidi di pietra e le
croci, tra le quali facevano capolino angeli di marmo dal volto
contrito. Chi riposava all’ombra delle loro ali non aveva mai lasciato
la valle e aveva vissuto abbastanza a lungo da poter scorgere lo
scorrere del tempo in ogni piega del volto e delle mani. Raphaël non
aveva avuto questa fortuna e non avrebbe avuto nemmeno una tomba
in cui riposare.
Strinsi le dita attorno al beccuccio della pipa fino a farmi male.
Mio fratello mi mancava ogni volta che respiravo. Era un nodo nella
gola che mi soffocava e non si era ancora sciolto in lacrime salate.
Non riuscivo ad arrendermi alla sua perdita, non potevo accettare che
non l’avrei più visto. Raphaël era ovunque. Quando mi svegliavo,
all’alba, mi sembrava di sentire i suoi passi sull’assito del pavimento.
Se aprivo le porte del fienile, lo vedevo accovacciato vicino alle
vacche con i secchi del latte. Era nei campi, nei boschi, nell’acqua del
torrente; sentivo la sua risata ovunque.
Scossi la testa, nell’inutile tentativo di scacciare quelle immagini
dolorose, e fu in quel momento che mi parve di scorgere una macchia
di rosso tra le lapidi velate di muschio. Abbassai la pipa, espirando
lentamente il fumo che mi riempiva la bocca.
Lei era accovacciata vicino a una tomba. Servendosi di un piccolo
coltello stava recidendo alcune piante spontanee che crescevano sotto
la pietra, riponendole in un pezzo di tessuto che teneva in grembo.
Rimasi a osservarla alcuni secondi, in silenzio. I capelli, di quel
colore così indecente, le ricadevano sulla spalla in una spessa e
disordinata treccia. La pelle del suo viso era tanto bianca che mi
chiedevo come potesse, il sole di agosto, non arderla viva.
La gente diceva che c’erano molti malefici che la proteggevano;
dicevano che aveva venduto l’anima al diavolo e che incrociare il suo
sguardo fosse come guardare negli occhi del demonio. Eppure, di
notte, con il favore delle tenebre, era da lei che andavano per avere
rimedi e pozioni capaci di risanare il corpo e lo spirito. D’istinto
portai una mano alla gamba sinistra, sentendo bruciare la carne là
dove si tendeva la lunga cicatrice che mi aveva reso non così
dissimile da quei poveri illusi che cercavano conforto nei filtri di
quella strega dai capelli di fuoco, e di sua madre prima di lei. Provavo
un senso di repulsione al pensiero che le sue dita avessero sfiorato la
mia pelle. Se fossi stato cosciente, glielo avrei impedito. Se fossi stato
in me, avrei scelto di morire, pur di non farla avvicinare. Era stato
Raphaël a decidere per me. Non glielo avrei mai perdonato.
La guardai recidere le foglie e i fiori, poi scavare con attenzione
per estrarre il ceppo intatto. Non aveva pudori a estirpare da un
cimitero quelle piante, le cui radici prendevano nutrimento dai
cadaveri che ingrassavano la terra. Solo una strega avrebbe potuto
farlo. E lo faceva la domenica mattina, certa che nessuno avrebbe
potuto disturbarla, perché qualsiasi onesto cristiano sarebbe stato in
chiesa a quell’ora.
«Rubare da un cimitero è un atto rivoltante, degno di una come te»
dissi, buttando fuori le parole con tutto il disprezzo che provavo.
Fiamma sollevò il volto di scatto, e io feci violenza su me stesso
per non distogliere lo sguardo. I suoi occhi erano verdi come l’acqua
del torrente in estate, quando si gonfiava e minacciava di straripare. E
ne avevano la stessa spietata intensità. Gli occhi di una creatura
selvatica.
«Ai morti non servono fiori. Non più di quanto gli servano parole
di conforto e angeli di pietra. Queste cose servono solo ai vivi»
rispose, dopo qualche istante. La sua voce era roca. La voce di
qualcuno poco avvezzo alle parole. Arrivò fino a me come un
sussurro, facendomi rizzare i peli sulle braccia. «Anche le piante
servono ai vivi» continuò, sollevandosi e riponendo nel fazzoletto il
piccolo arbusto reciso «per stare meglio».
«Tu non aiuti la gente a stare meglio. Tu la condanni all’inferno».
La ragazza chiuse gli occhi, scuotendo la testa, poi tornò a
guardarmi con più intensità di prima, e io mi sentii vacillare. Ci
separava una breve distanza; venti, trenta passi al massimo. Non
volevo starle così vicino.
«Devi smetterla di scendere al podere tutte le sere. Lui non c’è più.
E non tornerà. Lo capisci? Capisci le mie parole?» sputai fuori con
rabbia.
Lei continuò a fissarmi con quegli occhi da vipera. Occhi fatti di
muschio.
«Io… non voglio più vederti. Mai più» dissi, e la mia voce uscì
come un sibilo roco. Era ciò che desideravo più di ogni altra cosa e, al
contempo, ciò che più temevo. Perché, finché avesse continuato a
scendere al podere, Raphaël avrebbe continuato a vivere, da qualche
parte in me, o da qualche parte in lei. Non potevo più sopportare la
presenza di quella donna. Mi ricordava che ero un uomo spezzato, nel
corpo e nello spirito. Mi ricordava che ero vivo grazie a lei, e questo
era ancora più difficile da accettare.
Con le dita percorsi di nuovo la cicatrice sulla gamba offesa. La
sentivo anche attraverso la stoffa dei pantaloni. E, di nuovo, le sue
mani erano su di me. Avevano lavato il mio sangue, quelle dita sottili,
ricucito lembi di pelle. Mi avevano marchiato a vita. Il ginocchio si
era piegato in una posizione innaturale e, mentre sua madre lo
riportava al suo posto, avevo stretto la mano di quella ragazzina dai
capelli di fuoco, perché c’era tutto quel sangue, e Raphaël non ne
sopportava la vista. Raphaël era rimasto fuori, nel bosco.
Al mio fianco, quella notte, c’era soltanto Fiamma.

In quel momento le campane del piccolo campanile iniziarono a


suonare. La messa era finita, e la gente stava uscendo dalla chiesa. Mi
voltai, cercando di scorgere Agnés e la mamma. Quando tornai a
guardare verso il cimitero, Fiamma era svanita nel nulla.
Non era questo che si diceva delle streghe, che i rintocchi delle
campane servissero a scacciarle?
Rimasi diversi secondi a guardare il piccolo camposanto ormai
deserto, chiedendomi se davvero le mie parole sarebbero bastate ad
allontanarla per sempre dalla fattoria. E da me.

«Sei stato sgarbato e hai offeso il nuovo parroco. Sono mortificata dal
tuo comportamento» disse mia madre, diversi minuti dopo che
avevamo lasciato il borgo per tornare alla fattoria. Teneva il mento
sollevato e camminava senza guardarmi.
«Mi scuserò con don Agape. Non ce l’avevo con lui» dissi,
sospirando.
«Sarà proprio il caso che ti scusi il prima possibile. Non tollero che
la gente possa pensare che ho cresciuto un figlio tanto villano».
Roteai gli occhi al cielo e rallentai l’andatura, affiancandomi ad
Agnés.
«Ti ho visto nel cimitero. Parlavi con Fiamma» sussurrò lei, dopo
qualche secondo, quando nostra madre fu abbastanza lontana sul
sentiero da non sentirci.
Mi irrigidii. «Non stavo parlando con lei. Non proprio».
Agnés si voltò a guardarmi, accigliata. «Cosa significa “non
proprio”? O ci hai parlato o non ci hai parlato».
«Le ho solo detto che deve smetterla di venire a cercarlo. Lui non
tornerà».
Mia sorella sospirò: «Non le hai mai dato le lettere che lui le ha
scritto, vero?»
Inspirai, contraendo la mascella.
All’inizio, Raphaël aveva scritto con regolarità. Le sue prime
lettere erano giocose e divertenti, si stupiva di tutto, si entusiasmava
per un nonnulla. Non era mai stato in nessun posto che non fosse
Saint Rhémy, prima di essere chiamato alle armi. Le lettere
arrivavano in due buste separate, una delle quali, pur recando il nostro
indirizzo, era per la ragazza dei boschi. Non le avevo aperte e non
gliele avevo mai consegnate.
Quando avevano smesso di arrivare, e di Raphaël non avevamo più
ricevuto notizie, avevo avuto la tentazione di leggerle, poi di
stracciarle e gettarle nel camino; ma non avevo fatto nessuna delle
due cose. Legate con uno spago, le conservavo sotto il materasso,
senza sapere il perché. Ero convinto che la strega non meritasse le
parole di mio fratello, ma al contempo non avevo il coraggio di
liberarmene.
«Dovresti dargliele, se le hai ancora» disse Agnés, con aria grave.
«Gli voleva bene anche lei, dopotutto. E lui ne voleva a lei».
«Straparli, Agnés. Non dobbiamo nulla a quella donna. Comunque,
quelle lettere le ho gettate da un pezzo».
Mia sorella fece spallucce e restò in silenzio. Era un argomento
doloroso anche per lei.

Quella sera rimasi a osservare il bosco fino a quando la notte non


inghiottì le montagne nel suo manto scuro. Le cime degli abeti
frusciavano leggere e, nel cielo di agosto, riuscii a scorgere la scia
argentata di due o tre stelle cadenti. Attraversarono le tenebre come
scintille che andavano spegnendosi nell’oscurità, svanendo oltre i
profili aguzzi delle vette. Tempo addietro, un viaggiatore, che avevo
accompagnato oltre il valico del Gran San Bernardo, mi aveva
rivelato che le luci che illuminano la notte appartengono a stelle
ormai morte. Quello che vediamo non è altro che il ricordo di
qualcosa che non c’è più.
Scrutai il bosco finché i miei occhi non videro altro che ombre
confuse.
Lei non era venuta.
E io mi sentii inspiegabilmente perso.
Fiamma

L’infuso di foglie di lampone sobbolliva sul fuoco, diffondendo un


aroma dolce e pungente. Aggiunsi una manciata di foglie di altea e
due foglie di amamelide fresche, restando a osservare l’acqua tingersi
del colore della ruggine.
Le giornate si stavano accorciando, e le notti erano sempre più
fredde. Quella sera, soprattutto, tirava un forte vento, che sbatteva
contro le imposte e portava con sé, dalla cima delle montagne, l’odore
del ghiaccio. Mi accoccolai vicino al fuoco, rassicurata dal crepitio
delle fiamme.
L’estate stava finendo. In passato avevo atteso con ansia quel
momento, perché coincideva con la desarpa, la discesa delle mandrie
dall’alpeggio; e, con loro, degli uomini che per tre mesi avevano
vissuto sull’altopiano con le bestie.
Raphaël aveva iniziato a seguire suo padre sull’alpeggio a dieci
anni. Il giorno in cui Henri Rosset gli aveva comunicato che,
quell’estate, sarebbe diventato un lapaboura, un aiutante, l’avevo
visto spuntare dagli alberi trafelato. Si era fatto tutta la strada di corsa
e in quel momento teneva una mano contro la corteccia di un larice e
l’altra premuta all’altezza del cuore, cercando di riprendere fiato.
Avevo sollevato il viso, osservandolo.
Stavo aiutando mia madre a stendere in un luogo asciutto e riparato
le ombrelle di sambuco raccolte la mattina. Occorreva voltarle più e
più volte, durante la giornata, per rendere più veloce l’essiccazione ed
evitare la formazione di muffe. Mia madre era molto scrupolosa in
questo. Se fosse andato storto qualcosa, le piante avrebbero perso i
loro principi attivi, divenendo inutilizzabili e rendendo vano il nostro
lavoro. Capivamo che erano pronte quando risultavano friabili, così
sottili che potevi sbriciolarle sfiorandole; a quel punto potevamo
riporle. Le conservavamo in vasi di terracotta dal tappo di sughero,
corredati da un’etichetta di riconoscimento che decoravo io stessa con
piccoli fiori e piume di uccello.
Quando ebbe smesso di ansimare, Raphaël si raddrizzò, venendoci
incontro. Sul suo volto lentigginoso era stampato un sorriso che si
tendeva da un orecchio all’altro. «C’è una grossa novità!» esclamò,
pieno di entusiasmo.
Prima di conoscere Raphaël, non avrei saputo dare un senso alla
parola entusiasmo. Lui era così: prendeva ogni cosa con slancio,
passione e trasporto.
«Il prossimo mese salgo all’alpeggio con gli arpian. Vado a
lavorare sull’altopiano!» disse, allargando le braccia.
Io e mia madre, inginocchiate a terra, lo guardammo dal basso in
alto.
«Sono felice per te, Raphaël» disse mia madre, dopo qualche
secondo di silenzio. «Sarà senz’altro una bella avventura».
Lui annuì, i riccioli biondi che riflettevano la luce del sole. Si
sentiva adulto, responsabilizzato, per la prima volta valorizzato da
quel padre che non aveva mai fatto mistero di preferire il duro
pragmatismo del figlio maggiore alla spensieratezza con cui Raphaël
affrontava la vita.
«E tu, Fiamma, non sei contenta per me?» domandò, cercando
anche la mia approvazione.
«No» risposi, brusca.
L’espressione di Raphaël vacillò, eppure quel sorriso era difficile
da cancellare. Mi sollevai, mentre dalla gonna del mio abito cadeva
una pioggerellina di fiori bianchi. Avevo le dita che profumavano di
sambuco.
«Fiamma, non essere maleducata» mi ammonì mia madre, che
aveva scorto il malumore farsi strada in me.
«Non sono maleducata, maman. Mi ha fatto una domanda, e ho
detto la verità. Tutto qui».
Ma la verità era che, indipendentemente da quello che provava
Raphaël, ero soprattutto infelice per me. Il lavoro all’alpeggio
l’avrebbe tenuto lontano per mesi, riportandomi alla solitudine in cui
avevo vissuto prima che lui irrompesse nella mia vita. Mi voltai e
corsi verso il bosco.
Raphaël mi raggiunse poco dopo. Conosceva tutti i miei
nascondigli, e fuggire da lui era praticamente impossibile. Stavo
seduta su una roccia ed estirpavo con rabbia alcuni fusti di assenzio
che crescevano lì attorno. Sulle mani mi restava una patina argentata,
e un profumo acre si sollevava dalle piccole palline gialle che gettavo
nel prato a manciate.
«Perché sei arrabbiata?» mi domandò, incrociando le gambe e
sedendosi davanti a me.
«Non sono arrabbiata» risposi, evitando il suo sguardo. Avevo otto
anni e le ultime due estati le avevo passate arrampicandomi sugli
alberi, facendo il bagno nel laghetto e giocando con lui fino al
tramonto. Ero troppo orgogliosa per rivelargli che la sua assenza mi
avrebbe tolto il sorriso per i mesi a venire. Non volevo dirgli che mi
sarebbe mancato più di quello che riuscivo a immaginare in quel
momento.
«Sì, invece» disse Raphaël, scrutandomi da sotto i folti riccioli che
gli ricadevano sempre negli occhi. «È una bella cosa, sai?» aggiunse
subito dopo. «Un lavoro da grandi. Dovrò badare alle mandrie, dare
una mano nella casera e aiutare mio padre nella produzione del burro
e della fontina. Sai che nel pascolo avremo anche vacche di altri
allevatori? Sai che ogni mucca ha un campanaccio diverso, ognuno
con la propria intonazione?»
«Cosa vuoi che me ne importi? Queste cose noiose non interessano
a nessuno» sbottai. Mentivo, è ovvio. Tutto quello che Raphaël mi
raccontava era interessante, e cercavo di non perdere neppure una
parola dei suoi resoconti, spesso dettagliatissimi. Quel giorno, però,
avrei voluto soltanto tapparmi le orecchie e correre lontano.
«D’accordo» disse lui, dopo qualche secondo, un po’ abbattuto.
«Se non ti interessa, non fa nulla. Ci vediamo quando torno».
«Quando torni?» domandai, a un tratto spaventata.
«A settembre, alla desarpa».
Deglutii. Mi costava chiederglielo, ma, se non l’avessi fatto, ero
certa che lo avrei rimpianto: «E se… se troverai dei nuovi amici, ti
dimenticherai di me?»
«Impossibile».
«Come faccio a sapere che è vero?» gli domandai sospettosa.
Raphaël assunse un’espressione solenne. Poi sollevò la manica
della camicia, mostrandomi il braccio. Attorno al polso era legato un
sottile braccialetto color rame. In quei fili lucenti, tenuti insieme da
uno spago, riconobbi la ciocca di capelli che gli avevo donato
all’inizio della nostra amicizia.
«Lo vedi questo? È un portafortuna, ce l’ho sempre con me. Mi
riporterà sempre da te, perché tu sei la mia migliore amica».
Ero davvero impressionata, ma non volevo che se ne rendesse
conto. «Se sono io la tua migliore amica, perché te ne vai per tutti
questi mesi?»
Lui si era stretto nelle spalle, sul volto un’espressione seria: «Vado
a fare il mio dovere».
Vado a fare il mio dovere.
Erano le stesse parole che aveva usato dieci anni dopo, quando mi
aveva detto che sarebbe partito per la guerra. Io avevo gridato e mi
ero ribellata e, quando lui aveva cercato di calmarmi afferrandomi i
polsi, mi ero divincolata, urlando che non glielo avrei lasciato fare.
Questa volta l’avrei trattenuto, gli avrei impedito di partire. Perché io
l’avevo sognato. Avevo sognato un buco nero che lo inghiottiva e mi
ero svegliata con il sapore del fango tra le labbra e le lacrime che mi
rigavano le guance.
Raphaël, che non si era mai tirato indietro davanti a una
responsabilità, mi aveva abbracciata e aveva mormorato, tra i miei
capelli, che non dovevo preoccuparmi. Lui sarebbe tornato, come
quando partiva per l’alpeggio e stava lontano mesi, ma poi tornava
sempre.
Sarebbe tornato da me. Aveva il portafortuna che gli avevo donato,
in fondo.

Un bussare discreto alla porta mi distolse da quei pensieri. Mi


riscossi, sollevandomi e togliendo la pentola con l’infuso dal fuoco,
poi mi avvolsi in uno scialle e andai ad aprire.
Sulla soglia si stagliava la figura di un uomo alto, così alto che
dovette piegare il capo, quando lo invitai a entrare.
«Buonasera, Lucien» dissi, facendomi da parte e richiudendo la
porta dietro di lui. Il vento non aveva smesso di soffiare, e l’aria che
il maestro di Saint Rhémy portò con sé sapeva di resina, terra bagnata
e neve.
«Buonasera a te, Fiamma» ricambiò lui, scrollandosi dagli abiti gli
aghi di pino che le folate gli avevano gettato addosso. Si tolse il
cappello, passandosi una mano tra i capelli folti e candidi. Si avviava
verso la sessantina, ma appariva ancora un uomo di bell’aspetto,
nonostante il fisico asciutto e allampanato. Gli occhi, soprattutto,
erano di un sorprendente azzurro, che ricordava il cielo in inverno.
Era stato un amico della mamma, prima che mio, e le aveva fatto un
regalo di incalcolabile valore: le aveva insegnato a leggere e a
scrivere.
«Tira così forte che sembra voglia buttare giù la montagna» disse,
avvicinandosi al tavolo e posandovi sopra il sacco di tela che aveva
con sé.
Scostai la vecchia poltrona per farlo accomodare, poi ravvivai il
fuoco gettandovi alcuni pezzi di corteccia secca. Il decotto si era
intiepidito e, con l’aiuto di una garza, lo filtrai e lo misi in una
bottiglia.
«Ecco il vostro infuso» dissi, posando a mia volta la bottiglia sul
tavolo. «Dite a vostra moglie di applicare un impacco imbevuto di
liquido due volte al giorno. La congiuntivite dovrebbe sfiammare nel
giro di qualche giorno».
Lucien Borel si rigirò la bottiglia tra le mani alcuni secondi, con
aria meditabonda. Poi sollevò lo sguardo su di me: «Non vuoi vedere
i libri che ti ho portato?» domandò con calma.
«Certo» risposi, allungando una mano verso la sacca e sciogliendo
il laccio.
Lucien saliva al capanno una o due volte al mese, portandomi libri
che non avevo ancora letto e riprendendosi quelli che mi aveva
prestato in precedenza. In cambio, io preparavo il decotto per gli
occhi arrossati di sua moglie e i cataplasmi per i suoi reumatismi.
Quando c’era Raphaël, era capitato spesso che facesse da tramite
fra me e il maestro, che con l’avanzare dell’età trovava sempre più
difficoltoso inerpicarsi nel bosco quando faceva sera.
Sfiorai con le dita le copertine e i dorsi dei libri. Non sempre erano
storie, a volte nel suo sacco trovavo trattati scientifici e saggi di
erboristeria. Leggevo tutto, con avidità. Le notti, talvolta, erano tanto
lunghe da sembrare infinite. Anche se spesso avevo la sensazione di
non aver capito proprio tutto, mi piaceva soffermarmi sulle parole
stampate, sull’effetto che mi faceva rigirarmi tra le labbra termini
sconosciuti mai sentiti pronunciare.
«Stai bene, Fiamma?» mi domandò il maestro, mentre sfogliavo le
prime pagine di un tomo dall’aria impegnativa con una logora
copertina di cuoio rosso. «Mi sembri dimagrita. Mangi abbastanza?»
«Certo» risposi, facendo spallucce, ma non era vero. Dallo scoppio
della guerra avevo perso le persone che mi erano più vicine, mia
madre e Raphaël, e la mia vita si teneva insieme con un filo di
ragnatela. Sarebbe bastato un nonnulla per spezzarlo, lasciandomi alla
deriva.
Lucien giunse le mani, osservandomi con aria preoccupata. «Il
nuovo parroco di Saint Rhémy, don Agape, è venuto a chiedermi di
te».
«La cosa dovrebbe stupirmi?»
«Vorrebbe parlarti. Credo che abbia anche provato ad avventurarsi
fin quassù, ma… non è un uomo di montagna. Viene da Roma».
Annuii distratta, prendendo tra le mani un altro volume. Sì, avevo
visto quel goffo prete un paio di volte nell’ultima settimana.
Percorreva il sentiero con il fiato grosso, fermandosi di tanto in tanto
per tamponarsi la fronte con il fazzoletto. Mi ero ben guardata da
rivelare la mia presenza: ricevere una benedizione o, peggio, un
esorcismo, era l’ultima cosa che volevo.
«E cosa vuole da me? Una pozione, un filtro?» domandai in tono
ironico. L’unico uomo di chiesa che avevo conosciuto era don
Jacques, e non avevo intenzione di ripetere l’esperienza. Il parroco ci
aveva sempre odiate, di un odio profondo e ingiustificato, dettato
dalla sua presunta cristianità.
«Suppongo che sia nelle sue intenzioni tentare di riportarti in seno
alla comunità».
Osservai Lucien sollevando appena un sopracciglio. «Riportarmi?
Non ho mai fatto parte della comunità, e voi lo sapete. Se quel prete
dovesse chiedervelo di nuovo, ditegli di lasciarmi in pace e di
smetterla di avventurarsi nel bosco. È molto facile smarrire il sentiero
e, per chi non conosce la montagna, è pieno di insidie».
Lucien sospirò. «È quello che gli ho detto anch’io, ma…» Prese
tempo, giocherellando con la bottiglia che aveva tra le mani. Poi la
posò sul tavolo e mi guardò dritto negli occhi: «Non mi piace che tu
stia qui, da sola».
«Questa è casa mia».
«Sì, ma… prima c’era tua madre, era diverso».
«La solitudine non mi spaventa» dissi, voltandomi per prendere i
libri da restituirgli.
«Fiamma…»
«Lucien, voi mi siete molto caro, questo lo sapete. Siete stato un
buon amico per mia madre, quando non aveva nessuno, e lo siete per
me ora. Insistere, però, è inutile: non farò mai parte di loro, allo stesso
modo in cui loro non mi accetterebbero. Dovete farlo presente al
nuovo prete». Sollevai davanti al naso del maestro uno dei libri che
avevo già letto. Sulla copertina era raffigurato un cavaliere in una
scintillante armatura, la lancia in resta, mentre davanti a lui si
stagliavano le sagome di due mulini a vento. «Non vorrete che don
Agape faccia la fine di questo poveretto, spero?»
Un sorriso comparve sul volto di Lucien. «Saresti stata un’allieva
brillante» commentò, scuotendo la testa «quasi quanto…» Le parole
gli morirono sulle labbra, e io sospirai, spingendo il libro verso di lui.
… Quasi quanto Raphaël, certo. Raphaël, con la sua curiosità, la
sua voglia di imparare. Raphaël, che era l’orgoglio del maestro
Lucien e il cruccio della sua famiglia, perché con i libri non si mangia
in una famiglia di contadini e allevatori.
«Ho sentito che Yann Rosset è in rotta con la chiesa» riprese il
maestro, nel tentativo di cambiare discorso, restando, però, in
argomento. «Sono due settimane che non si fa vedere. Durante la
prima messa di don Agape, si è alzato e se ne è andato» mi informò,
grattandosi una guancia. «È stato piuttosto sgarbato da parte sua. La
madre, di certo, non ha approvato, e Dio solo sa quante ne ha già
passate quella donna…»
Distolsi lo sguardo, spostandolo verso le braci nel camino, e pensai
all’incontro che avevo avuto con Yann, qualche settimana prima,
quando mi aveva intimato di non farmi più vedere al podere.
Continuavo ad andarci, nonostante tutto, ma restavo nascosta tra gli
alberi per non sfidare la sua ira. E, ogni sera, lui era lì. Sembrava
aspettare, e probabilmente era così. Rimaneva in attesa, come facevo
anch’io, di vedere Raphaël comparire in fondo alla strada. La
differenza era che io sapevo quanto fosse inutile indugiare sperando
in un suo ritorno. Ma, forse, lo sapeva anche lui.
Mi mordicchiai un dito, tormentandomi una pellicina. Quel giorno,
al cimitero, era stato brusco e arrogante, come sempre, e io avevo
scorto la paura nei suoi occhi e nei suoi pugni serrati. La fiutavo, la
sua paura, come fanno le volpi. La riconoscevo, perché era anche la
mia. Nessuno mi spaventava quanto lui. Fissai i tizzoni ardenti che si
spegnevano nel camino e, per un breve istante, ricordai la notte in cui
Raphaël aveva bussato contro la nostra porta fino a scorticarsi i
palmi.
Mia madre, spaventata, mi aveva ordinato di non muovermi. Aveva
fatto appena in tempo ad accendere il lume a olio, quando Raphaël si
era precipitato dentro, portando con sé il gelo della montagna. Gli
abiti che indossava erano spolverati di neve.
«Lo hanno trovato» esclamò, ansimando nuvole di fiato ghiacciato.
«È vivo, ma è ridotto male…»
«Portatelo qua». Il tono con cui mia madre aveva soffiato fuori
quelle due parole non ammetteva repliche. Io, intorpidita dal sonno,
ero rabbrividita. Sapevo che il fratello di Raphaël era disperso, da
quando, il giorno prima, uno dei viaggiatori, che lui stava
accompagnando oltre il passo del Gran San Bernardo, era rientrato a
Saint Rhémy dando l’allarme: si era staccato un costone di roccia e
aveva travolto gli escursionisti. Le ricerche andavano avanti dalla
notte precedente. Guardai mia madre gettarsi uno scialle sulla camicia
da notte e uscire nella tormenta a prendere altra legna con cui
ravvivare il fuoco.
Quando gli uomini tornarono, avevamo già messo a bollire l’acqua
e strappato numerose strisce di tessuto per creare delle bende. Li vidi
oltre la porta, erano in quattro. Due di loro reggevano sotto le ascelle
Yann. Lo trascinavano nella neve, come se fosse disarticolato. Come
se tutte le ossa, sotto la pelle, si fossero sbriciolate. Raphaël li seguiva
tenendo il lume, cercando invano di ripararlo dalla neve che aveva
ricominciato a cadere copiosa.
Io e mia madre avevamo sgomberato il tavolo e lo facemmo
stendere lì, da quegli uomini che si guardavano attorno con aria
diffidente. Avrei giurato di averli visti fare gli scongiuri mentre si
ritiravano. Se fosse stato per loro, dissero, l’avrebbero portato dal
medico di Bosses. Lasciandolo nelle mani delle streghe, sarebbe
andato incontro a una fine certa. Ma, naturalmente, non era loro
compito giudicare e, se Raphaël aveva deciso così, chi erano loro per
opporsi?
Tagliammo gli abiti di Yann con le forbici e il coltello che
usavamo per recidere i rami e gli arbusti. I suoi vestiti erano rigidi e
incrostati di ghiaccio. Le labbra erano blu e la pelle del volto tanto
pallida da perforare l’oscurità. Se non fosse stato per il sibilo roco che
gli faceva alzare e abbassare il petto, l’avrei creduto morto.
«Frizionagli le mani e le braccia» disse mia madre, porgendomi
una piccola bottiglia colma di liquido ambrato. Arrotolai le maniche
del vestito fino al gomito e presi la mano di Yann nella mia,
sfregandogli le dita a una a una. Erano blu, ricoperte di piccoli tagli e
abrasioni. Doveva essersi aggrappato a qualunque cosa avesse trovato
sul suo percorso, mentre la montagna lo tradiva, lasciandolo
precipitare nel vuoto.
Quando mia madre tagliò e strappò la stoffa dei suoi calzoni,
trattenni a stento una smorfia di disgusto. Raphaël, che si torceva
nervosamente le dita alle mie spalle, non fu altrettanto discreto e
corse fuori a vomitare nella neve.
La ferita era lunga, profonda e slabbrata ai bordi. Riuscivo a
scorgere l’osso che affiorava dalla carne, su cui il sangue era sgorgato
a fiotti, per poi rapprendersi in un grumo scuro. Nell’aria si era
diffuso un odore metallico e salino.
«Dobbiamo lavarla, disinfettarla e ricucirla. Prendi l’achillea e
mettila in infusione» disse mia madre con piglio sicuro. Afferrai il
barattolo e gettai manciate di fiori secchi nell’acqua che bolliva sul
fuoco. L’infuso avrebbe provocato la sudorazione, riscaldandolo e
abbassandogli la febbre. Con quello che rimaneva, dopo avremmo
sciacquato la ferita.
Quando tornai accanto al tavolo, portando con me la ciotola e le
pezzuole, mi accorsi che le mani mi tremavano. Il corpo di Yann,
illuminato dalla fievole luce delle fiamme, mi apparve misterioso e
sconosciuto. Avevo quindici anni, ed era la prima volta che vedevo
un uomo nudo, se si escludeva Raphaël da bambino. Deglutii,
cercando di concentrarmi sulla ferita, che si tendeva dall’inguine fino
al ginocchio, piegato in una posizione innaturale.
Mia madre l’avrebbe raddrizzato, quel ginocchio, e Yann avrebbe
sollevato di scatto il busto dal tavolo, gridando come grida un maiale
quando viene sgozzato e afferrando la mia mano, per stringerla fino
quasi a spezzarla. Ma in quel momento, ancora privo di sensi, lasciò
che lavassi via il suo sangue, sfiorando la sua pelle morbida e bianca,
ricoperta di peluria. Lasciò che respirassi il suo odore forte, che
ricordava il legno del larice, un aroma amaro e selvatico.
Non avevo mai toccato un uomo prima di allora.
Più tardi, nel buio, la sua voce suonò esile, quasi un sussurro: «Non
andartene. Resta qua. Non lasciarmi solo».
Così ero rimasta lì, accanto a lui.

Il maestro Lucien si sollevò dalla poltrona, richiamandomi al


presente: «Sarà meglio che vada».
«Vi accompagno?»
«Non è necessario, ti ringrazio. Ormai conosco la strada» rispose,
infilandosi il giaccone e mettendosi in tasca il tonico che avevo
preparato per sua moglie.
Quando aprì la porta, una folata di vento si abbatté su di noi,
facendo vibrare i cardini e portando una manciata di foglie secche
dentro il capanno.
«Perdinci, è un miracolo che non abbia spazzato via anche le
stelle» bofonchiò Lucien, tenendosi il cappello con una mano.
«Arrivederci, Fiamma, abbi cura di te».
Rimasi sulla soglia a osservare il cielo terso e punteggiato di
minuscole luci d’argento, i capelli e le vesti che si gonfiavano.
«È un vento nuovo, questo» mormorai, cercando di distinguere i
diversi aromi che portava fino a me. C’era una nota speziata, in
quegli odori, che non avevo mai sentito. Mi parlava di luoghi lontani
e sconosciuti, di viaggiatori in cammino.
«Qualcosa sta per accadere».
Agape

Le casse con i libri vennero consegnate quando era passato quasi un


mese dal mio arrivo a Saint Rhémy. Ormai disperavo di vederle
arrivare.
Uscii sulla via principale del borgo, dove Bernard le stava
scaricando dal calesse, non senza evidenti difficoltà.
«Vi siete fatto spedire i mattoni del Colosseo, reverendo?»
domandò, quando mi vide, gettando una cassa a terra. Lo schiocco
prodotto dal legno che sbatteva sul selciato mi fece sobbalzare.
«No, io… Sono libri. E non è fatto di mattoni. Il Colosseo, intendo.
È in travertino e tufo, e…» Lo sguardo che Bernard mi rivolse fu
sufficiente a farmi chiudere la bocca. «Certo, stavate scherzando».
L’uomo inarcò le sopracciglia cespugliose, scuotendo la testa
prima di tornare al suo lavoro. Nel giro di pochi minuti davanti ai
miei piedi si era accumulata una decina di bauli.
Marie, che era uscita dalla canonica asciugandosi le mani sul
grembiule, inspirò a fondo. «E voi vorreste portare dentro tutta questa
roba?» domandò, stringendo le labbra.
«Ecco…»
«Non ve lo lascerà fare» mi anticipò, con aria di disapprovazione.
Si riferiva a don Jacques, naturalmente.
«Sono libri» tentai di giustificarmi.
«Sono troppi» tagliò corto lei, mettendomi a tacere. «Non c’è
abbastanza spazio, e lui si infurierà. Se posso darvi un consiglio,
reverendo, non fateglieli nemmeno vedere. Oggi è una giornata buona
per don Jacques; non vorrete essere proprio voi a rovinargliela,
spero?»
Il tono con cui l’aveva detto lasciava intendere che, nel caso in cui
l’umore del vecchio parroco fosse peggiorato, anche la giornata di
Marie sarebbe stata danneggiata in modo irreparabile. E il
responsabile sarei stato soltanto io.
«E cosa dovrei farne, dunque?» domandai, esasperato. «Ormai
sono qui… Non posso di certo rispedirli a Roma» sussurrai, per non
farmi sentire da Bernard che, le mani sulle reni, cercava di
raddrizzare la schiena dopo il duro lavoro appena compiuto.
Marie si strinse nelle spalle. «Potreste portarli a monsieur Borel, il
maestro. Ha più spazio e di certo avrà cura dei vostri libri».
Con aria sconsolata, guardai le casse accatastate davanti a me.
Marie aveva ragione, la canonica non era abbastanza spaziosa e,
oltretutto, dovevo condividerla con don Jacques. Il nostro rapporto
non era iniziato con il piede giusto e l’idea di dargli un ulteriore
motivo per sfogare su di me la sua ostilità non mi entusiasmava per
niente. «Forse avete ragione» borbottai, di malumore. «Bernard…»
«Signor curato?»
«Ecco, ci sarebbe… un cambio di programma».
Il cipiglio sul volto dell’uomo mi confermò che, se quella mattina
ero riuscito a evitare l’ira di don Jacques, non avrei potuto dire la
stessa cosa della sua.

Lucien Borel, che avevo già avuto modo di conoscere nelle settimane
precedenti, si mostrò oltremodo cortese e disponibile. La sua casa era
molto più grande della canonica, e l’uomo aveva a disposizione uno
studio già stipato di volumi.
«Mi duole chiedervi questo favore, ma…» balbettai, nervoso,
torcendo la tesa del cappello.
«Nessun problema, reverendo. Ho spazio a sufficienza e sarò ben
lieto di custodire i vostri libri, fino a quando non troverete una
sistemazione adeguata alle vostre esigenze. Nel frattempo, potrete
venire qui ogni volta che avrete bisogno di consultarli, io e mia
moglie saremo lieti di ospitarvi».
«Siete davvero gentile. Vi sono obbligato».
Il maestro di Saint Rhémy agitò brevemente la mano davanti a sé.
«Sciocchezze. Chiunque ami i libri è il benvenuto in casa mia. E la
stessa cosa vale anche per i suoi libri».
Gli sorrisi. Un sorriso pieno di calore, che esibivo forse per la
prima volta da quando vivevo tra quelle persone schive e silenziose,
così diverse da tutto quello cui ero abituato. Per un istante ripensai al
caos di Roma, al suo via vai continuo di volti e voci, all’espansività
della gente, quel loro alzare i toni e ridere con fragore.
Gli uomini si adattano all’ambiente in cui vivono, pensai. Lassù,
tra quelle montagne impervie, c’era un silenzio tanto profondo da
farti dubitare della vita stessa. Ci si svegliava con il sorgere del sole e
altrettanto si faceva per coricarsi, al tramonto. La gente era temprata
dal ghiaccio e dalla fatica, dalle sfide che doveva affrontare per
sopravvivere in un luogo inaccessibile e spietato, come era quel
piccolo borgo spazzato dal vento. Me ne stavo rendendo conto
anch’io, e più mi scontravo con le difficoltà che fronteggiavo ogni
giorno, più mi convincevo che Dio aveva fede in me, nelle mie
capacità, se mi aveva spinto a una prova tanto grande.
Non posso deluderlo, questo pensavo quando pativo il freddo e la
fatica, quando i miei sforzi sembravano vani e lo sguardo tagliente di
don Jacques mi diceva che non ero all’altezza del compito che mi era
stato assegnato.
Prendere i voti era stata una diretta conseguenza della mia
condizione di secondogenito. La mia era una famiglia importante,
agiata. Con un fratello indirizzato a prendere in mano le redini
dell’azienda fondata dal mio bisnonno e uno zio vescovo, che
rivestiva un ruolo di spicco in Vaticano, il mio futuro era stato deciso
ben prima che il Signore mi infondesse la vocazione. Non mi ero
tirato indietro; ero sempre stato un’occasione mancata, il figlio
mediocre, quello che non brillava negli studi e nella vita in generale.
Un bambino scialbo che si era trasformato in un adolescente timoroso
e indeciso. Avevano deciso al mio posto, e io avevo seguito la strada
che qualcun altro aveva tracciato davanti a me. Fino al momento in
cui, terminato il seminario, mi ero trovato davanti a una scelta:
proseguire gli studi e la carriera in Vaticano, come era scontato che
facessi, o svincolarmi da tutto, tentare di camminare con le mie
gambe.
Contrariamente a ciò che tutti si aspettavano, e di certo si
auspicavano, scelsi la seconda alternativa. Non era coraggio,
tantomeno determinazione. La mia, me ne resi conto molto presto, era
paura. Se fossi rimasto sotto la tutela dello zio, mi sarei sentito
giudicato in ogni mio gesto, in ogni parola. Dovevo affrancarmi da
tutto. Inoltre, avevo bisogno di capire se la fede, che in me
tentennava, si sarebbe fortificata fino a diventare davvero una
ragione. E per capirlo dovevo andare lontano, il più lontano possibile,
da chiunque avrebbe potuto tendermi una mano, aiutarmi.
Volevo essere io quello che aveva aiuto da dare. Per una volta mi
sarei reso utile.
«Vi ringrazio» dissi ancora. «Trovo molto prezioso il vostro
contributo alla comunità, i vostri alunni sono fortunati ad avervi come
insegnante».
Lucien Borel si strinse nelle spalle. «Mi lusingate, reverendo, ma
non sono convinto che abbiate ragione. Insegno loro a leggere e
scrivere, tuttavia la vita che conducono li spinge presto ad
abbandonare i libri per dedicarsi ad altro».
Sul suo volto scorsi l’amarezza provocata dalla sconfitta di non
aver visto nessuno dei suoi alunni emergere per diventare altro. I
genitori avevano bisogno dei figli a casa, le famiglie necessitavano di
braccia che potessero lavorare nei campi e aiutare tra le mura
domestiche. Non ci guadagnavano niente a farli studiare, anzi erano
convinti che fosse soltanto una perdita di tempo, uno spreco di denaro
e risorse.
«È il vostro impegno che vi fa onore, a prescindere dai risultati».
Il maestro mi rivolse un’occhiata curiosa. «Potreste dire la stessa
cosa di voi? Talvolta, ho l’impressione che senza i risultati lo sforzo
non valga nulla».
Era un uomo mite e discreto, eppure in quella frase scorsi una
scintilla di ribellione. Doveva avere un carattere più ostinato di quello
che mi aveva dato a intendere fino a quel momento.
Lasciai passare qualche secondo prima di rispondere, cauto:
«L’impegno lo dobbiamo a noi stessi, e al Signore. Lui conosce il
nostro valore, indipendentemente da tutto».
Per un breve istante l’uomo che avevo davanti sembrò a disagio.
Distolse lo sguardo, posandolo sui libri nello scaffale di legno. «Ho
avuto anche alunni brillanti, sapete? Ragazzi che avrebbero fatto
strada, se avessero proseguito gli studi. Raphaël Rosset…» mormorò,
tornando a guardarmi. «Era un ragazzo di sorprendente intelligenza.
Ed era curioso, curioso di tutto. È morto in guerra» concluse cupo.
Abbassai lo sguardo. Era la seconda volta che mi parlavano del
figlio minore dei Rosset, e io ogni volta associavo quel giovane senza
volto al più coriaceo e impenetrabile fratello maggiore, che da
qualche settimana si trovava in aperta ostilità con me. O con Dio
stesso.
In quel momento, la porta dello studio si aprì e si affacciò la
signora Borel. Era una donna minuta, dal volto gentile, i capelli
bianchi nascosti sotto un fazzoletto e gli occhi arrossati. Suo marito,
nelle mie precedenti visite, mi aveva detto che la moglie soffriva
spesso di disturbi legati alla vista. Quel giorno, però, mi sembrò
migliorata rispetto ai precedenti.
«Volete fermarvi a pranzo, don Agape?»
Qualche minuto dopo mi trovavo seduto tra i due coniugi nella
piccola sala da pranzo. Il tavolo era apparecchiato con ciotole di
legno riempite di polenta, in cui la signora Borel versò un sugo di
carne denso e scuro.
Mentre il maestro mi serviva un’abbondante coppa di vino, provai
a riportare il discorso dove lo avevamo abbandonato: «E così…
Raphaël Rosset è stato uno dei vostri studenti più diligenti?»
«Non ho detto diligenti, ho detto brillanti» precisò Lucien,
spezzando con le mani una forma di pane nero. «Sì, era un ragazzo
pieno di entusiasmo. Incontenibile, per certi aspetti».
Scossi la testa. «Sembra così diverso dal fratello…»
Lucien mi rivolse un’occhiata penetrante. «Ho sentito che avete
avuto dei problemi con Yann Rosset».
«Problemi? In tutta onestà, non saprei dirvi quale sia la ragione che
lo ha allontanato dalla chiesa. Padre Jacques mi ha detto che, prima
del mio arrivo, Yann Rosset era un uomo devoto e timorato di Dio.
Eppure, sono convinto di non aver fatto o detto nulla che potesse
offenderlo».
«Avete provato a chiedere a lui il motivo di questo
comportamento?» mi domandò la signora Borel, che mangiava
silenziosa, lo sguardo vacuo, ma sembrava ascoltare tutto con molta
attenzione.
«Sì, ma non ho ottenuto granché… Temo che Yann sia un uomo
fin troppo schivo, tutte le volte che ho fatto visita al podere non lo ho
mai trovato. E la stessa cosa mi è accaduta con la ragazza che vive nei
boschi. Sembra che si volatilizzino, quando mi avvicino».
I coniugi Borel si scambiarono un’occhiata, e qualcosa di non detto
passò tra loro.
La signora Borel appoggiò il cucchiaio e si sollevò. «Vado a
ravvivare la brace» disse, stringendo gli occhi.
Lucien sembrava a disagio. Abbassò la voce, per non farsi sentire
dalla moglie: «Dunque i vostri tentativi di incontrare Fiamma non
sono andati a buon fine?»
«Se non l’avessi vista con i miei occhi al limitare della proprietà
dei Rosset, il giorno dopo il mio arrivo, stenterei a credere che esista»
risposi, scuotendo la testa e servendomi un’altra abbondante porzione
di sugo. All’improvviso, sollevai il volto, colto da un pensiero che
non mi aveva sfiorato fino a quel momento. «Quella sera, lei era lì e
guardava verso il podere. E Yann Rosset…» sbattei le palpebre,
riportando alla mente lo strano sguardo, teso e fisso con cui l’uomo
aveva a sua volta guardato lei. «Yann Rosset non l’ha scacciata.
Loro… si osservavano. Come se si studiassero» considerai, la mano
con cui tenevo il cucchiaio sollevata a mezz’aria. Yann Rosset,
ripensandoci, non mi sembrava il tipo di persona che darebbe
confidenza a una simile reietta, una donna considerata da tutti foriera
di sciagure.
Il maestro assunse un’espressione guardinga. Sua moglie, alle
nostre spalle, stava gettando alcuni ramoscelli tra le fiamme. «Hanno
qualcosa che li unisce, l’affetto per qualcuno che non c’è più. Mi
piacerebbe raccontarvi questa storia, ma in un altro momento. Un
momento più adatto» sussurrò, lanciando brevi occhiate colpevoli alla
signora Borel.
Capii che sua moglie non tollerava simili argomenti tra le mura di
casa e, per un po’, misi a tacere la curiosità. Tuttavia, dopo un
tentativo di far virare la conversazione sull’imminente desarpa, e
sulla conseguente festività del borgo, non riuscii a tacere e domandai:
«Mi piacerebbe sapere qualcosa di più su Fiamma. Non ha un
cognome, tanto per cominciare? E come mai vive in quei boschi da
sola? Voi sembrate essere l’unica persona, in tutta Saint Rhémy,
disposta a parlarne».
«Perché vi interessa tanto?» domandò a quel punto la moglie del
maestro, rivolgendomi uno sguardo carico di disapprovazione.
Era sempre stato un mio difetto, non capivo mai quando era il caso
di tacere. Lucien Borel mi aveva dato a intendere che me ne avrebbe
parlato più avanti, eppure non ero riuscito a mordermi la lingua e
pazientare. «È un’anima perduta che intendo ricondurre…»
«Tempo sprecato, signor curato» mi interruppe la signora Borel.
Fino ad allora mi era sembrata mite e remissiva, ma in quel momento
il suo sguardo, per quanto arrossato, era deciso e diretto. «Lei non
vuole essere salvata da voi. Dovreste lasciarla dove sta».
«Ma…»
«È come sua madre, una creatura selvatica. Tentate di blandirla, e
vi si rivolterà contro. Tendetele una mano, e ve la azzannerà senza
pietà. Dicono che possa trasformarsi in una grossa volpe dai denti
appuntiti…»
«Adélaïde» disse Lucien, ma piano, come se non osasse
contraddirla.
Lei sospirò: «Lo so, sono tutte sciocchezze». Scosse la testa, con
un sorriso amaro dipinto sulle labbra. Poi tornò a fronteggiarmi:
«Tuttavia, ve lo dico con il cuore, reverendo: quella donna non
appartiene al borgo, non farà mai parte di noi. Ci sono battaglie già
perse in partenza, e questa è una di quelle».
Stavo per dire qualcosa, ma il modo in cui Lucien scosse la testa mi
costrinse a tacere, una volta per tutte.
Mi accomiatai mezz’ora dopo, imbarazzato. Il pasto si era concluso
con la signora Borel chiusa in un ostinato silenzio, mentre suo marito
cercava di tenere viva la conversazione con argomenti superficiali che
non interessavano a nessuno.
Mi chiesi cosa celasse l’astio di quella donna di solito dolce e
accomodante. Non mi era sfuggita, prima di uscire da casa loro, la
bottiglia che avevo visto su un ripiano della credenza. Era la stessa
bottiglia che avevo scorto in numerose abitazioni del villaggio. Una
pozione, un filtro, qualunque cosa fosse, erano state le mani di
Fiamma a prepararla.
Gli abitanti del borgo dicevano di odiarla e la temevano, ma era da
lei che andavano a cercare conforto dai loro mali. Capii che, se
volevo incontrarla, avrei dovuto fare la stessa cosa.
Yann

Le ombre confondevano i contorni delle cose, li rendevano meno


certi. Sollevai la scure e la calai con violenza sul ceppo che avevo
davanti. Sottili schegge di legno mi colpirono il viso e avvertii il
colpo vibrarmi nelle braccia, fino ai denti. Il tronco non si era
spaccato del tutto e dovetti sbatterlo con violenza un paio di volte per
reciderlo.
«Al diavolo» sbottai, asciugandomi il sudore dalla fronte con la
manica della camicia. Grosse nuvole gonfie di pioggia si stavano
ammassando sulle montagne, l’aria era fredda e aveva l’odore
dell’autunno ormai imminente, un vago sentore di sottobosco e terra
umida.
Era passato più di un anno dall’ultima volta che avevo avuto
notizie di mio fratello, e ancora non riuscivo a rassegnarmi
all’inarrestabile scorrere del tempo, al mutare delle stagioni, alla vita
che andava avanti nonostante tutto. Il dolore non si era rappreso
attorno a niente, non aveva un punto fisso, si espandeva all’infinito.
Abbattei la scure sul tronco che avevo davanti, ancora e ancora,
fino a quando non rimase incastrata nel ceppo sottostante. La lama
era penetrata a fondo ed estrarla si rivelò più faticoso del previsto.
Digrignai i denti, scorticandomi i palmi contro il manico, nello
sforzo. Quando ci riuscii, il contraccolpo mi fece indietreggiare di
qualche passo. Ansimai, guardando la legna spaccata che occupava
tutto lo spiazzo davanti al fienile. Sul ceppo erano incise tacche
profonde di colore più chiaro.
Le prime gocce di pioggia iniziarono a ticchettare lievi intorno a
me, sollevando la polvere dal terreno. Mi bagnarono la fronte e le
guance, infiltrandosi nella barba.
«Ti prenderai un malanno» disse mia madre, uscita di casa
avvolgendosi nello scialle. Mi guardò con aria preoccupata. «Per oggi
hai lavorato abbastanza. Vieni dentro, sta piovendo».
Scrollai le spalle, rivolgendole una breve occhiata. «Agnés?»
domandai, passandomi la mano tra i capelli ormai umidi. La camicia
mi si stava incollando addosso.
«Dovrebbe essere di ritorno a momenti, l’ho mandata in paese, a
cuocere il pane al forno».
La vidi stringere gli occhi, scrutando la strada che conduceva al
podere. Una nebbia fitta e bassa aveva avvolto le montagne,
nascondendone le cime. Gli alberi sembravano sfumare e scomparire
in quella bruma color latte.
«Sta arrivando qualcuno» disse, indicando con un cenno del capo
una figura che risaliva verso il podere. «È Marie».
Con un colpo secco piantai la scure nel ceppo. «Se è venuta per
conto di don Jacques, sta perdendo il suo tempo: non ho nessuna
intenzione di stare a sentirla. Veditela da sola, maman».
Lo sguardo di mia madre si fece duro. «Non ti azzardare. Sei stato
già abbastanza scortese con il nuovo parroco. E comunque ti ha già
visto» bisbigliò, sollevando un braccio nella direzione della donna,
che accelerò il passo per difendersi dalla pioggia che aveva iniziato a
cadere più fitta.
«Buonasera, signora Rosset» esclamò, giunta davanti a noi.
«Yann» disse, rivolta a me, con un sorriso appena accennato. Aveva
le guance rosse e lo sguardo acceso. Alcuni ciuffi biondi le
sfuggivano da sotto il fazzoletto e il petto prosperoso si alzava e si
abbassava veloce a ogni respiro.
«Marie, cara, vieni dentro. Sei già fradicia» disse mia madre,
mentre io grugnivo qualcosa di simile a un saluto, srotolando la
camicia sui polsi con movimenti bruschi. Rientrammo in casa, e lei si
adoperò per mettere la nostra ospite a suo agio.
«Oh, grazie. Ero venuta a portarvi le conserve della mamma» disse
Marie, accennando al paniere. «Non credevo che avrebbe iniziato a
piovere, questa mattina il cielo era di un meraviglioso azzurro…» Mi
rivolse una breve occhiata, poi distolse subito lo sguardo dai miei
occhi. «A ogni modo, ho fatto male le mie previsioni, perché già a
metà strada l’aria si era fatta scura e prometteva temporali. Sarò
zuppa, quando riuscirò a tornare alla canonica» si lamentò,
passandosi la mano sul collo bianco e lucido di pioggia, con un gesto
che non potei fare a meno di trovare provocante.
«Poverina» disse mia madre secca, sequestrando il cesto dalle mani
di Marie. «Ora mettiti davanti al camino e riscaldati. Manderemo
Yann alla canonica ad avvisare don Agape che non puoi rientrare per
il maltempo».
Inarcai le sopracciglia, contrariato. «È fuori discussione».
Mia madre, che stava togliendo dal paniere numerosi vasetti di
verdure in salamoia e marmellate, non sembrava disposta a cedere.
«Non vorrai che Marie si prenda un malanno, spero».
Solo a quel punto Marie si decise a intervenire in mio favore: «Oh,
non occorre, signora Rosset. Sono certa che Yann avrà altro da fare,
inoltre non vorrei proprio che il malanno venisse a lui, per colpa
mia».
Le sue labbra, mi resi conto in quel momento, avevano una
singolare forma a cuore.
«A Yann non farà male un po’ di pioggia» replicò mia madre. «E
non gli farà male nemmeno mettere piede in chiesa. Mi sembra che di
recente abbia visto assai poco le pareti della casa di nostro Signore».
«In effetti» si intromise Marie, prima che riuscissi a rispondere per
le rime «mi sono chiesta come mai non vi abbiamo più visto… Spero
che la vostra assenza non debba essere attribuita a qualche dissapore
con il nuovo parroco».
«Niente affatto» replicai seccato. Mi chiesi perché non mi fossi
dileguato in tempo, invece di restare e farmi vessare dalle due donne.
«Perché vi garantisco che è un brav’uomo» lo difese Marie,
nonostante non ve ne fosse alcun bisogno: non me ne poteva
importare di meno di don Agape. «Un po’ impacciato, certo. E
insicuro, anche. Ma è pieno di buone intenzioni».
«Le sue omelie non hanno lo spessore di quelle di don Jacques»
considerò mia madre, scuotendo la testa.
«È giovane e inesperto, dategli fiducia, signora Rosset. E poi è un
uomo istruito, avreste dovuto vedere le casse di libri che si è fatto
spedire da Roma… Non ho mai visto un uomo con così tanti libri. A
parte monsieur Borel. Agli uomini, di solito, non piacciono i libri».
Marie si rese conto troppo tardi dell’errore che aveva commesso e
dovette mordersi la lingua, ma ormai il danno era fatto. Mia madre si
incupì. Appoggiò il vaso di composta ai mirtilli sul tavolo e restò a
fissare le nervature del legno, le spalle impercettibilmente scosse da
un lieve sussulto.
«Mi dispiace» si affrettò a dire Marie. «Sono stata indelicata, so
che anche Raphaël…»
Sembrava mortificata, e gli fui riconoscente di quel sincero darsi
pena per aver, senza volere, portato il fantasma di mio fratello lì, in
quella stanza, tra di noi.
Nessuno lo evocava mai. Il suo nome non affiorava sulle nostre
labbra. Quelle di mia madre si erano sigillate per le troppe lacrime,
erano incrostate di sale. Le mie indurite dal gelo che avevo dentro.
Solo Agnés provava a tenere vivo il suo ricordo, ma ormai anche lei
taceva.
In quel momento, quasi l’avessi chiamata, mia sorella si affacciò
alla porta. Era arruffata e affannata, il fazzoletto bagnato di pioggia le
si era incollato alla nuca, e respirava a stento, come se fosse reduce da
una corsa.
«Basile Blanche» affermò, quasi senza fiato. Aveva avvolto la
forma di pane appena cotta in un canovaccio e la teneva stretta contro
di sé per evitare che si bagnasse. «Ha catturato una volpe» buttò
fuori, piegandosi per respirare meglio.
Mi irrigidii. Agnés sollevò gli occhi nei miei. C’era una scintilla di
paura che brillava nel suo sguardo, non si era nemmeno accorta di
Marie che sedeva davanti al camino. Forse, se l’avesse notata,
sarebbe stata più cauta. Marie era una brava ragazza, ma non riusciva
a tenere nulla per sé.
«È rimasta intrappolata in una tagliola, nella sua proprietà.
Yann…»
«E io cosa dovrei fare?» La interruppi, brusco. Sentivo lo sguardo
di mia madre puntato addosso. Marie ci osservava senza capire.
Agnés aprì la bocca, poi la richiuse. Di nuovo, Raphaël era lì con
noi. Ci guardava, ci giudicava. Ci esortava a fare qualcosa per salvare
quel poco che restava di lui.
«Vado a prendere il fucile» dissi solo, dopo un tempo che mi parve
infinito.
«Yann, non ti azzardare!» esclamò mia madre, la voce che le
tremava per la rabbia.
La ignorai e uscii diretto al fienile.
Soltanto fuori, nella pioggia, mi accorsi che Marie mi stava
seguendo.
«Yann, cosa volete fare? Dio, lasciate perdere…»
«Torna in casa, Marie».
«Quella volpe…»
«Ti ho detto di tornare in casa!» sbottai, alzando la voce.
Marie si arrestò sull’aia. Il terreno, sotto i suoi piedi, era umido di
pioggia, e l’orlo della gonna era incrostato di fango. Le guance,
lucide di acqua, non erano più rosse, ma pallide, e il suo sguardo era
insieme spaventato e indignato. «Perché lo fate? Per lei? Per la
strega?» mi domandò, ma con un filo di voce, come se non fosse certa
delle sue stesse parole.
Scossi la testa e mi allontanai a grandi passi.

Basile Blanche possedeva i terreni a ovest del borgo. Anche la sua


proprietà sconfinava nel bosco, e fu in quella direzione che mi avviai,
gli scarponi che affondavano tra le foglie disfatte. Il silenzio era rotto
solo dalla pioggia che cadeva fra gli alberi, gocciolando sui tronchi e
infiltrandosi nel muschio che copriva le rocce.
La volpe era una macchia rossa nel verde. Sdraiata a terra, con una
delle zampe anteriori incastrata fra i denti della tagliola, aveva il pelo
intriso d’acqua. Al suo fianco stavano di vedetta due ragazzini, nei
quali riconobbi Etienne Blanche, il più piccolo dei fratelli Blanche, e
Gustave Vevey, il nipote del fornaio. Doveva essere così che Agnés
aveva scoperto cos’era accaduto. Stavano pungolando la bestia con
dei rami secchi ma, quando mi videro avanzare nella loro direzione, si
raddrizzarono, guardando con una punta di apprensione il fucile che
tenevo abbandonato contro la gamba.
«Allontanatevi» intimai, con un gesto della mano. «E lasciate in
pace quella povera bestia».
Gustave Vevey si fece da parte lesto, ma Etienne, reso sicuro dal
fatto di trovarsi sulla sua proprietà, anche se era solo un ragazzino,
sollevò il mento rivolgendomi un’occhiata provocatoria.
«Mio fratello ha detto che dobbiamo aspettarlo qua e sorvegliare la
volpe. È andato a prendere il forcone per finirla» spiegò, senza traccia
di pietà nello sguardo.
Mi incupii. Era identico a Basile: la stessa corporatura tozza, l’aria
supponente, lo sguardo feroce. Lanciai un breve sguardo alla volpe.
Era inerte, ma respirava ancora. Sul terreno, sotto la zampa ferita, si
era rappresa una pozza di sangue scuro. Legato attorno al collo aveva
un nastro di stoffa blu, ormai logoro; non potevo sbagliarmi.
In quel momento, un rumore di passi alle mie spalle mi costrinse a
voltarmi. Basile era di ritorno; tra le mani stringeva la forca del fieno
e, a giudicare dall’espressione, non sembrava contento di trovarmi lì.
«Che diavolo ci fai qui, Rosset?» Senza aspettare risposta mi
superò, andando a mettersi vicino alla volpe. «Sei grossa, bagascia, e
sei furba, ma non abbastanza» disse, mentre sul volto gli si dipingeva
un sorriso soddisfatto. Con la punta dello stivale incitò la bestia, che
emise un debole ringhio, sollevando appena il muso e scoprendo una
lunga fila di denti aguzzi. Basile sollevò il forcone, pronto ad
affondarlo nel corpo dell’animale. Non gli interessava nemmeno che
la pelliccia si macchiasse di sangue, diventando inutilizzabile: la
uccideva per il gusto di ucciderla. Perché era convinto che sotto quel
pelo fulvo si celassero sembianze di donna e, come lui, tanti altri si
erano lasciati suggestionare da quella sciocca credenza.
I ragazzini, alle sue spalle, ebbero reazioni differenti: Gustave si
ritrasse ancora, sempre più pallido, Etienne invece si fece avanti, gli
occhi che brillavano di orgoglio e soddisfazione. Doveva vedere un
eroe in quel fratello grossolano e brutale, tornato dalla guerra con una
ferita al braccio che esibiva come se fosse un trofeo, vantandosene a
ogni occasione. Aveva avuto fortuna, Basile. O forse era stato solo
spietato, e per questo era riuscito a sopravvivere.
Raphaël no. Raphaël non possedeva un grammo di crudeltà, la sua
anima era candida come la neve che imbiancava la cima delle vette.
Sollevai il fucile, puntandolo contro Basile. «Uccidila, e io
ucciderò te».
Per un attimo, vidi la confusione passare sul volto dell’uomo, poi
nei suoi occhi si riaffacciò lo sdegno. «Ti ha dato di volta il cervello,
Yann? Metti giù quel fucile, perdio! Ci sono i ragazzini, qua».
«Tu metti giù quel forcone, e io farò altrettanto».
Basile sbatté le palpebre. Iniziava a capire che facevo sul serio.
«Sei pazzo!» sbottò. Eppure le sue mani allentarono la presa, e lasciò
andare il manico della forca. «Cosa credi di fare?»
«Non sono affari tuoi» risposi calmo, senza smettere di tenere il
fucile imbracciato. «Ora vattene».
«Questa è la mia proprietà» chiarì Basile, gli occhi ridotti a una
fessura. Etienne, alle sue spalle, seguiva la scena preoccupato. «Sei
sul mio terreno» ribadì, piantando con forza il forcone a terra.
«Me ne frego» dissi, sollevando la canna del fucile per puntarla nei
suoi occhi.
Basile scosse la testa. «Andiamocene» disse ai due ragazzi. «È tale
quale suo fratello: si è venduto l’anima al diavolo. Prenditela, la tua
strega, visto che ci tieni tanto» concluse, guardando ancora una volta
la volpe. «Spero che ti porti all’inferno, questa puttana. In ogni caso,
sei sulla buona strada».
Rimasi immobile, con il fucile spianato, finché non lo vidi
scomparire tra gli alberi seguito dai due ragazzini. Soltanto allora mi
resi conto che le braccia mi dolevano per la tensione e sciolsi le
spalle, sospirando. Se avesse detto anche una sola parola in più, lo
avrei ucciso a sangue freddo.
Certo di essere rimasto solo, mi avvicinai alla bestia, che giaceva
immobile. Un lieve rantolo le faceva alzare e abbassare la cassa
toracica. Sollevò la testa, quando mi piegai al suo fianco, e scoprì i
denti, abbassando le orecchie.
«Ti ho appena salvato la vita» borbottai. «Mostrati almeno un po’
riconoscente». La afferrai per la collottola, per evitare che mi
azzannasse, e, dopo aver slegato il nastro che aveva al collo, lo usai
per legarle il muso. Poi, servendomi di un ramo secco, feci scattare la
tagliola. Le lame erano penetrate in profondità nella carne, quasi
sicuramente avevano spezzato l’osso.
Appena provai a sollevarla, la volpe si agitò, dimenandosi
spaventata, ma era troppo debole e dopo poco si acquietò. Era zuppa
di acqua e aveva un odore pungente, selvatico.
«Ora ti porto da lei» sussurrai, affondando le dita nel pelo folto e
umido.
Non mi era sfuggita l’ironia della situazione. Anni prima, quasi
nelle stesse condizioni, qualcuno aveva portato me in quel capanno
nel bosco.
Mentre avanzavo nella foresta, affondando nel fango, l’acqua che
mi colava dalla barba, pensai che almeno uno dei debiti che avevo
contratto nei confronti di mio fratello sarebbe stato ripagato da quel
gesto. O almeno così speravo.
Fiamma

Aveva smesso di piovere, e una spessa nebbia aleggiava fra le betulle,


avvolgendo i tronchi lunghi e pallidi di filamenti argentati. La gente
della valle li considerava alberi magici, le leggende dicevano che da
quei rami le streghe ricavassero le proprie scope. Forse è per questo
che, tra le piante del bosco, la betulla ha sempre avuto la mia
predilezione.
Lasciai scorrere le dita sulla corteccia bianca e liscia. Le tacche
nere avevano la forma di tanti occhi che mi fissavano.
Le prime foglie avevano iniziato a cadere, e di lì a non molto la
foresta sarebbe apparsa spoglia e fredda.
Le cime delle montagne si stagliavano contro il cielo plumbeo del
tardo pomeriggio ed erano già spolverate di neve. Mi inerpicai sul
sentiero che costeggiava il ruscello, stringendomi addosso lo scialle
per difendermi dal freddo.
Non ero più la sola abitante del bosco. Avevo fatto quella scoperta
il giorno prima, scorgendo un filo di fumo che si srotolava nell’aria
come un nastro, svanendo oltre le cime degli alberi. Qualcuno aveva
acceso un fuoco non lontano dal capanno e, incuriosita, mi ero spinta
fino al limitare della radura dove io e Raphaël ci eravamo parlati per
la prima volta, anni prima.
C’era odore di legna bruciata, e un soffuso chiacchiericcio
riempiva l’aria. Attorno a un fuoco ricavato da rami secchi e fogliame
sedevano tre uomini e quattro donne dalla carnagione brunita. Le
donne avevano capelli lunghi e scuri, legati in strette trecce, e
indossavano abiti dai colori vivaci e scialli con le frange. Ai polsi e
alle orecchie portavano monili scintillanti. Ero rimasta sorpresa dal
loro aspetto poco ordinario, così inconsueto.
Alle loro spalle c’erano due carrozzoni dipinti di verde brillante e
rosso, e legati a un albero un cavallo e un mulo brucavano l’erba.
Rimasi a osservarli a lungo, affascinata e un po’ intimorita.
Sembravano usciti dai racconti che mia madre mi faceva quando ero
bambina, e mi domandai se non fossero spiriti portati dal vento, quel
vento forte e impetuoso che aveva soffiato fino alla sera prima.

Stavo ancora pensando a loro, più tardi, quando un rumore, oltre la


porta del capanno, mi richiamò al presente. Passi, un tonfo, qualche
istante di incertezza. Chiunque si trovasse là fuori, si stava chiedendo
se fosse o meno il caso di bussare. Di solito lasciavo che gli abitanti
del villaggio se la sbrigassero da soli con la propria coscienza,
aprendo soltanto quando si decidevano a rendere nota la loro
presenza. Quel pomeriggio, però, mi avvicinai all’uscio e lo spinsi
piano. Non so se fu istinto, o forse semplice curiosità: nessuno si
avventurava fin lassù, quando c’era ancora luce e poteva essere visto
e additato come mio complice.
Sulla soglia c’era Raphaël.
Rimasi senza fiato e sgranai gli occhi per lo stupore. Poi, in pochi
istanti, la fisionomia del mio migliore amico si modificò: l’iride
azzurra si scurì fino a diventare blu, i capelli si fecero più corti e la
mascella diventò dura e squadrata, ricoperta di barba. Non era
Raphaël l’uomo che sostava davanti alla mia porta, ma Yann.
Mi irrigidii. Yann non era più tornato al capanno, dopo quell’unica
volta in cui avevo lavato e ricucito la sua pelle. Yann mi odiava.
Per un breve istante guardai dritto nei suoi occhi e vi lessi il mio
stesso sconcerto nel trovarsi lì, al mio cospetto. Non eravamo più stati
così vicini. Fece un passo indietro e solo allora vidi ciò che aveva
depositato davanti alla mia porta. Il respiro mi si mozzò in gola.
Ribes sollevò il muso verso di me e batté piano la folta coda intrisa
di pioggia e aghi di pino. Aveva una zampa ferita, il sangue era
sgorgato copioso, incrostandosi al pelo.
«Cosa le hai fatto?» gridai, afflosciandomi a terra per prendere la
volpe tra le braccia.
Yann serrò i pugni. Nella mano destra stringeva il fucile. Avrei
dovuto sentirmi terrorizzata da lui, ma in quel momento provavo
soltanto una grande angoscia. Ribes era tutto ciò che rimaneva di
Raphaël. Se avessi perso anche lei, mi sarei scucita un punto dopo
l’altro, lasciando uscire da me ogni sentimento.
«È rimasta intrappolata in una tagliola, nel terreno dei Blanche. Te
l’ho riportata» chiarì Yann, brusco, distogliendo lo sguardo.
Capii che era a disagio. Con ogni probabilità avrebbe voluto
lasciare la volpe davanti alla porta e dileguarsi nella boscaglia, per
evitare di incontrarmi.
«Vattene» dissi, senza guardarlo. Presi la volpe tra le braccia e
affondai il volto nel suo pelo umido. Quando mi sollevai, vidi che lui
era ancora lì, immobile; sembrava combattuto.
«Vattene, oppure entra. Io non ho tempo da perdere» dissi,
dandogli le spalle. Lasciai la porta aperta, tuttavia, e dopo qualche
istante di indugio lo sentii seguirmi all’interno e richiuderla piano
dietro di sé.
Aveva giurato che, lì dentro, non sarebbe più entrato. Che con me
non avrebbe avuto più nessun tipo di contatto. L’aveva detto a
Raphaël, che me lo aveva riferito con un sorriso imbarazzato: si
vergognava dell’ingratitudine di suo fratello.
Ma Raphaël non c’era più, e la vita che avevamo vissuto prima non
sembrava avere punti in contatto con quella in cui ci muovevamo in
quel momento, ciechi e incerti.
Adagiai Ribes vicino al camino e la asciugai con lo scialle. Aveva
un corpo tanto esile che riuscivo ad avvertire tutte le costole sotto le
dita, e la piccola e sinuosa spina dorsale. Esaminai con cura la ferita,
maledicendo in cuor mio Basile Blanche per le trappole che, ne ero
certa, disseminava per me. Basile era stato uno dei bambini che con
più cattiveria si era dedicato a darmi il tormento, e lo stesso aveva
fatto con Raphaël. Che il mondo fosse un luogo ingiusto l’avevo
capito quando Basile era tornato dalla guerra, tronfio di orgoglio per
l’insignificante ferita riportata, mentre Raphaël vagava senza requie
sull’altopiano innevato, ultimo confine tra la terra e il cielo.
Mi guardai attorno, smarrita. Il pavimento era freddo, e la volpe
che avevo in grembo un bozzolo fradicio e inerte. Avrei dovuto
alzarmi e preparare un decotto con cui sciacquare la ferita; prendere
ago e filo e medicare la zampa, fasciarla in modo che l’osso tornasse
al suo posto. Ma non avevo la forza di fare nessuna di queste cose.
All’improvviso mi sentivo svuotata, priva di energie e sola.
Una lacrima precipitò dalle mie ciglia, sciogliendosi nel morbido
pelo dell’animale. Oltre le finestre vidi la luce affievolirsi e lasciare il
posto alle ombre della notte. Le braci del camino divennero l’unica
fonte di illuminazione della stanza. Quando anche gli ultimi tizzoni
fossero diventati cenere, Ribes sarebbe svanita e io con lei. Non mi
restava più nulla.
«Che diavolo stai facendo? Se te l’ho portata è perché volevo che
la salvassi, non per lasciarla morire qui con te. Se doveva morire, le
avrei sparato io stesso» disse Yann, scrollandomi per le spalle. Mi
costrinse a sollevarmi, poi prese la volpe e la posò sul tavolo,
facendosi spazio tra i vasi di vetro e i cesti colmi di foglie e pezzi di
corteccia.
Ero senza parole davanti a quella presa di posizione, alle sue mani
su di me.
«Fai quello che devi. Quello in cui sei brava». Il suo era un
imperativo assoluto, ma anche un atto di fede. Mi temeva, mi
disprezzava, non poteva perdonarmi per averlo reso ciò che era: un
uomo spezzato, che non poteva più sfidare le cime. Era stato ciò che
più di ogni cosa l’aveva fatto sentire vivo: scalare, affrontare la
montagna.
Io e mia madre l’avevamo sottratto alla morte, afferrando la sua
anima e ricucendola alla carne, ma l’uomo che avevamo riportato
indietro dal mondo delle ombre non sarebbe mai più stato lo stesso.
Qualcosa va ceduto in cambio alla morte che smania per averti,
questo mi aveva spiegato mia madre, e a me era sembrato sensato.
Yann, però, non la pensava allo stesso modo; avrebbe preferito
morire piuttosto che restare zoppo e veder partire il fratello senza
poterlo seguire, senza poterlo proteggere. Questo mi rinfacciavano i
suoi occhi gelidi, ogni volta che incrociavano i miei: di averlo salvato
per scaraventarlo all’inferno.
Eppure, in quel momento, si rivolgeva a me per non perdere quel
poco che restava di suo fratello. Perché quella piccola volpe fradicia e
tremante, lasciatasi addomesticare solo dalla pazienza e dalla
perseveranza del mio migliore amico, dimostrava quanto Raphaël
fosse bravo in quelle cose. Lo era stato anche con me.

Io e Raphaël stavamo costruendo una diga nel ruscello, scegliendo


con cura i ramoscelli da incastrare fra le pietre e saldare con il fango.
Un lavoro lungo perché la corrente, nel punto che avevamo scelto, era
forte.
Ci trovavamo immersi fino ai polpacci, e io avevo arrotolato il
vestito attorno alla vita, lasciando scoperte le gambe. A dodici anni,
senza aver mai sospettato che a qualcuno potesse importare qualcosa
delle mie cosce pallide, non avevo pudori, soprattutto con Raphaël.
Nel corso della nostra amicizia avevamo condiviso quasi ogni cosa:
lo stesso cibo e lo stesso letto; più di una volta, da bambini, avevamo
fatto il bagno nudi, studiando i nostri corpi con curiosità priva di
malizia, prendendo atto delle reciproche differenze con la stessa
naturalezza con cui avevamo appreso che alcuni animali hanno le ali
per volare e altri lunghe gambe per saltare, come gli stambecchi che
qualche volta avvistavamo tra i blocchi di roccia delle vette più alte.
L’uggiolio arrivò dal fitto della boscaglia, prima debole e
inconsistente, poi sempre più acuto. Un lamento straziante che
entrava sottopelle e faceva tremare il cuore. Io e Raphaël avevamo
lasciato cadere i rami nell’acqua e ci eravamo mossi insieme, a piedi
nudi, correndo tra gli alberi sulla scia di quel pianto disperato. Due
spari, a poca distanza l’uno dall’altro, ci avevano fatto sobbalzare.
Alcuni uccelli uscirono dalle fronde degli alberi in un agitato frullio
di ali, svanendo tra le nuvole.
Il cucciolo giaceva in una radura. Aveva le zampe legate con una
fune e guaiva spaventato. Accanto a lui un uomo sconosciuto, con un
fucile sottobraccio, si stava sistemando sulle spalle i corpi ancora
caldi di due volpi adulte. Dovevano essere i genitori del piccolo, che
non smetteva di chiamarli a gran voce, anche se non potevano più
sentirlo.
Era così che si consumava la caccia alla volpe, creatura per sua
natura scaltra e schiva. I cacciatori attiravano i cuccioli, inesperti e
curiosi, e poi spezzavano loro le zampe, lasciando che i loro guaiti
disperati richiamassero i genitori. E i genitori correvano sempre,
correvano anche se sapevano di andare incontro a una fine certa,
perché l’istinto di proteggere la prole è più forte di qualunque paura, è
la legge del sangue e non fa distinzioni tra bestie ed esseri umani.
Il cacciatore, un uomo robusto, con una folta barba scura, si
sorprese quando ci vide arrivare, trafelati. «Che ci fanno due
ragazzini come voi, qua?» borbottò, riservando una lunga occhiata
alle mie gambe nude. Fu la prima volta, credo, che un uomo mi
rivolse un simile sguardo; provai vergogna. Fui sbalzata, di colpo, nel
mondo degli adulti.
«State cacciando di frodo, monsieur» disse Raphaël in tono grave.
Aveva un’espressione che di rado gli avevo visto stampata sul volto:
seria, tesa. Non sopportava la violenza, tantomeno la vista del sangue.
L’uomo non fece nemmeno caso al mio amico. Era un adulto con
un fucile, che paura potevano fargli due ragazzini come noi? Dopo
essersi caricato le due volpi morte in spalla, rivolse una breve
occhiata al cucciolo che, ansando con la lingua fuori, continuava a
gemere, ma piano, come se non avesse più energia.
«Quello ve lo potete prendere, con la pelliccia di quelli piccoli non
si fa granché. Non ho nemmeno dovuto spezzargli le zampe, era
mansueto come un agnellino: non sopravvivrà a lungo».
Soltanto dopo che fu scomparso nella foresta vidi le spalle di
Raphaël rilassarsi. Per tutto il tempo era rimasto in tensione, come se
si aspettasse di dover fare qualcosa, lui che era sottile come un giunco
e raramente si difendeva quando ci azzuffavamo. Ero sempre io ad
avere la meglio su di lui, mai il contrario. Lui era quello remissivo,
paziente, docile. Io, se volevo, potevo diventare una furia.
Ci avvicinammo al cucciolo di volpe; doveva avere solo pochi
mesi, la pelliccia era ancora opaca e lanosa, la coda simile a un
cordino e le orecchie appena accennate. Era terrorizzata e, quando
provammo a slegarla, si dimenò, agitata. Raphaël la tenne ferma con
le mani, sussurrandole paroline incoraggianti, come se avesse potuto
davvero infonderle un po’ di coraggio solo con il suono della voce.
Funzionò. Era il suo talento, quello. Sapeva ammansire le creature
selvatiche. O, più semplicemente, sapeva farsi amare anche da chi,
per natura, tendeva a diffidare.
«La porto a casa» disse, quando la bestiola si fu tranquillizzata e,
arrotolata su se stessa, spingeva il muso sotto il suo braccio.
«Tuo padre non te la farà tenere» considerai dubbiosa. Alla
famiglia di Raphaël non piaceva nulla che provenisse dal bosco, me
compresa.
Spesso mi ero chiesta per quale motivo lui fosse così diverso dai
suoi parenti. Da bambina, per qualche tempo, avevo creduto che
Raphaël fosse davvero il fratello che mi era destinato e che, a causa di
un errore della fata che consegna i bambini, fosse stato lasciato a una
famiglia che non era la sua. La sua vera famiglia ero io.
«Non la lascio qui» aveva ribattuto il mio amico, con la fierezza
dei suoi quattordici anni. «Quell’uomo ha ragione: è troppo piccola.
Se la abbandoniamo, morirà».
Mi ero morsa il labbro, guardando quella palla di pelo fulvo
rannicchiata contro il suo petto. Non ero certa che mia madre sarebbe
stata d’accordo, ma si poteva tentare. «La terrò io, per te» suggerii,
risoluta. «Sarà comunque tua» ci tenni a precisare, perché non volevo
appropriarmi di qualcosa che sembrava appartenergli per scelta.
Lui mi guardò appena. Stava accarezzando la testolina lanuginosa
della volpe, si era già affezionato.
Quella capacità di amare al primo sguardo gliel’ho sempre
invidiata.

Avevo le dita fredde, e mi ci volle più tempo del necessario a far


passare il filo nella cruna dell’ago. La scarsa luce del capanno non mi
aiutava, e lo sguardo di Yann, che fermo vicino al tavolo mi
sorvegliava a occhi stretti, mi stava facendo innervosire. Sembrava
sfidarmi a sbagliare, a dargli un motivo per affermare di avere avuto
sempre ragione su di me: non ero una persona degna di fiducia.
Suturai la zampa di Ribes con qualche difficoltà e la fasciai ben
stretta, servendomi di un pezzo di legno per tenere l’arto dritto. Poi
sciolsi il nastro con cui Yann le aveva legato il muso lungo e affilato.
«Sei stata brava» mormorai, accarezzandole la testa, mentre lei mi
leccava piano il dorso della mano. Ribes era il nome che avevamo
scelto per lei dopo un’interminabile serie di proposte più o meno
serie. Stavamo ancora snocciolando nomi, quando la volpe si era
avvicinata a un cespuglio di ribes e aveva dimostrato di apprezzare
molto quelle piccole bacche rosse e asprigne.
Strinsi il nastro tra le dita e provai a scacciare quei ricordi dolorosi,
poi mi voltai verso Yann. «Grazie» mormorai, «avrebbe significato
molto per lui».
Ha significato molto per me, pensai.
Yann scrollò le spalle. Il suo volto, illuminato dal chiarore delle
braci, aveva una sfumatura rossastra. «Non sei più tornata» disse,
ignorando le mie parole.
«Mi hai chiesto tu di non farlo».
«Non pensavo mi avresti ascoltato».
Le sue parole crepitarono alcuni istanti nell’aria, prima di svanire.
Mi chiesi se celassero altro, una muta richiesta, qualcosa che non
osava confessare neanche a se stesso. Non lo conoscevo abbastanza
per riuscire a interpretarlo. Eppure, allo stesso tempo, mi sembrava di
conoscerlo meglio di chiunque.
Spinta dall’istinto allungai una mano verso di lui, sfiorandogli un
braccio. Lui si ritrasse come se l’avessi bruciato.
«Non mi toccare» sibilò, lo sguardo incattivito. «Non mi devi
toccare» ripeté, ma con una traccia di incertezza nella voce, come se
non fosse convinto fino in fondo della verità contenuta in quelle
parole. Si scostò, lanciando un’occhiata alla volpe. «Guarirà?»
domandò, nervoso.
«Sì».
«Resterà… zoppa?»
Lasciai scorrere le dita nel soffice pelo di Ribes. «È probabile».
Yann fece una smorfia, fu come se un’ombra scura passasse
davanti al suo volto. Spostò lo sguardo intorno a sé, osservando
quanto ci circondava. La mia vita era tutta lì, tra quelle pareti grigie,
in quei pochi oggetti. Mi sarei dovuta vergognare di quello sguardo
perplesso, invece ero orgogliosa. Guarda, avrei voluto dirgli, come ho
vissuto per diciannove anni. E come vivo. Non ho bisogno di
nessuno, neanche di te, del tuo respiro, della tua pelle.
Ma non era vero.
Yann sollevò lo sguardo al tetto. C’era una fessura da cui, nei
giorni di pioggia, filtrava l’acqua. Una pozza scura si era allargata sul
pavimento di terra battuta.
«Piove dentro. Qualcuno dovrebbe ripararlo» disse.
«Chi?»
Yann aprì la bocca, poi la richiuse. Stava per dire qualcosa, quando
bussarono alla porta.
Agape

Il bosco era pieno di fruscii, di schiocchi, di voci che sembravano


provenire da un altro mondo, un mondo che stava appena sotto la
superficie delle cose e di notte sconfinava nel nostro. Avrei dovuto
portare un lume, pensai, mentre mi inoltravo fra gli alberi, non
scorgendo altro che ombre indistinte.
Un uccello notturno gracchiò, poco distante, facendomi sobbalzare.
Mi fermai, ansimando, la mano premuta all’altezza del cuore.
Mi ero già perso svariate volte, ritrovando il sentiero per miracolo.
L’aria si era fatta sottile, e mi stavo quasi rassegnando all’idea di
passare la notte all’addiaccio, quando nelle narici percepii un distinto
aroma di legna bruciata. Mi raddrizzai, mosso dalla speranza di
riuscire a trovare ciò che cercavo: il capanno della strega, la casa di
Fiamma.
Non dovetti fare molta strada. Apparve tra i larici e le betulle una
casupola di pietra, le beole del tetto ricoperte di muschio e licheni e
un filo di fumo che si tendeva dal comignolo. Doveva essere stata la
casa di un taglialegna, prima di essere occupata dalla misteriosa
donna che tutti, nel borgo, vedevano come l’incarnazione del
demonio.
D’istinto portai la mano alla croce che tenevo appesa al collo.
«Signore, sto facendo la cosa giusta?» bisbigliai.
Alla domanda non rispose altro che il mormorio delle foglie mosse
dal vento.
Presi un respiro e bussai, restando in ascolto. Passò qualche
secondo, in cui, mi resi conto, trattenni il respiro, poi la porta si aprì,
lasciandomi scorgere uno spiraglio di luce e la sagoma di una donna
in penombra.
Mi fissò con occhi di brace e per un breve istante mi chiesi se non
avessi sottovalutato la situazione. Ogni leggenda aveva un fondo di
verità: e se quella donna fosse stata davvero pericolosa?
«Buonasera, sono…» balbettai, sentendo la lingua incollata al
palato. Mi resi conto, con una punta di terrore, di non avere più
saliva.
«Siete il nuovo parroco, lo so» disse lei, esprimendosi con una
proprietà di linguaggio che mi sorprese. Per qualche motivo mi ero
aspettato di avere a che fare con una donna allo sbando, una povera
mentecatta, come l’aveva definita don Jacques. Ma la ragazza che
avevo davanti era solo trascurata nell’aspetto, con quell’abito di lana
consunta e i capelli arruffati che le scendevano disordinati sulle
spalle. I suoi occhi, che a una prima impressione mi erano apparsi
malvagi, erano invece attenti e curiosi, acuti. Era uno sguardo
difficile da sopportare, se avevi segreti da nascondere: ti metteva a
nudo, scavava ogni strato, fino a raggiungere il nucleo.
«Vi occorre qualcosa?» mi domandò, anticipando qualunque cosa
avessi avuto intenzione di dire.
«No, io…»
«Nessuno bussa alla mia porta, se non ha una richiesta da farmi»
decretò, ritraendosi.
Temevo che mi sbattesse la porta in faccia così feci un passo
avanti, appoggiando la mano sul legno scuro. Le mie dita, grosse e
bianche, spiccavano nitide nel buio della sera. «Ho saputo… Ho
saputo che vi occupate di rimedi e medicamenti».
Fiamma si arrestò, lo sguardo sospettoso.
«Io soffro di… di una terribile emicrania» spiegai, deglutendo. «Mi
chiedevo se aveste un rimedio per alleviare questo malessere».
Non era una menzogna, anche se non era quello il motivo per cui
mi ero inerpicato nel bosco fino alla sua porta. Era vero, avevo
terribili mal di testa, che in giornate particolarmente cattive mi
costringevano a rifuggire la luce e mi toglievano qualunque
razionalità. Dubitavo, tuttavia, che qualcuno fosse in grado di
mitigare quel fastidio; nessuno dei medici ai quali mi ero rivolto in
passato, a Roma, aveva saputo aiutarmi.
La ragazza dei boschi lasciò passare qualche secondo, in cui
seguitò a scrutarmi come se avesse fiutato la mia insicurezza e mi
stesse sfidando a contraddirmi. O forse stava soltanto valutando se
fosse o meno il caso di farmi entrare. Ero pur sempre un uomo di
chiesa, e lei un’anima perduta.
Alla fine fece un passo indietro, lasciando che la porta cigolasse sui
cardini fino a spalancarsi.
«Se non vi sono altri motivi, oltre a quello della cura, entrate.
Altrimenti tornate sui vostri passi: se siete venuto a farmi la predica,
state sprecando il vostro tempo».
Mi diede le spalle, scomparendo all’interno; ci misi pochi istanti a
decidermi a seguirla. Ero arrivato fin lì con grande fatica, non avrei
sprecato quell’occasione.
L’ambiente che mi accolse era angusto e buio, e vi aleggiava una
varietà di essenze che, mescolandosi tra di loro, davano vita a un
persistente aroma selvatico. Era un odore che non avevo mai sentito
nelle case dei contadini di Saint Rhémy, che in genere emanavano un
fetore di paglia, latte cagliato e cuoio.
Nel piccolo camino, in cui era appeso un paiolo che, per un istante,
mi riportò alla mente immagini di streghe intente a mescolare
pozioni, ardevano alcuni tizzoni incandescenti che diffondevano
bagliori rossastri.
I miei occhi si sgranarono per lo stupore quando, dopo aver fatto
qualche passo nel capanno, mi resi conto di non essere l’unico
individuo che, quella notte, si era recato in visita da quella donna
misteriosa. Stupore alimentato dal fatto che l’uomo alto e accigliato,
che mi osservava dall’altro lato di un vecchio tavolo di legno, era
Yann Rosset e che davanti a lui, su quel banco malmesso, era
raggomitolata una volpe fulva dal muso aguzzo.
Non ero mai stato superstizioso, ma devo ammettere che la scena
che mi si parò davanti in quel momento avrebbe fatto dubitare il più
fervente sostenitore della ragione.
«Reverendo» disse Yann, brusco come sempre, rivolgendomi una
fuggevole occhiata colma di imbarazzo. Era evidente che avrebbe
preferito non farsi trovare lì, in una situazione che non avrei saputo
definire altro che compromettente.
«Buon Dio… Quella è una volpe?» domandai con un filo di voce,
ricordando che giù al borgo si vociferava che la strega potesse
trasformarsi proprio in quell’animale. Era stata una delle dicerie che
più mi avevano fatto sorridere, quando l’avevo sentita, ma in quel
momento mi chiesi se non avessi peccato di presunzione nel credermi
superiore a quelle che consideravo sciocche credenze dettate
dall’ignoranza.
«Avete buoni occhi, reverendo» disse Fiamma, in tono vagamente
ironico, mentre sceglieva con cura alcuni barattoli di vetro stipati su
uno scaffale dall’aria instabile. «E, se ve lo state chiedendo, è buona
come il pane, non farebbe male a una mosca. Monsieur Rosset me
l’ha riportata dopo averla trovata intrappolata in una tagliola. Se non
fosse stato per lui, a quest’ora sarebbe morta».
Yann ebbe un sussulto nel sentirsi chiamato in causa. Sembrava
molto nervoso, non faceva che lanciare occhiate sfuggenti alla porta.
«Capisco» dissi, anche se non capivo proprio niente. L’unica cosa
che intuivo era che la mia presenza aveva interrotto qualcosa, perché
avvertivo un sottile filo di tensione aleggiare nell’aria, e lo scorgevo
nei movimenti soltanto all’apparenza fluidi di Fiamma e nella
mascella serrata di Yann.
Mi schiarii la voce: «E così, vivete qui da sola?» domandai,
cercando di alleggerire l’atmosfera, ma ero anche curioso. Prima di
incontrarla avevo sentito le cose più assurde sul suo conto: faceva
gelare i raccolti, toglieva il latte alle vacche e alle puerpere e poteva
scrollare la montagna a proprio piacimento.
Era molto comodo per gli abitanti di quel piccolo villaggio esposto
alle intemperie, considerai, avere un capro espiatorio su cui scaricare
ogni responsabilità. Una strega cui imputare le più efferate
nefandezze.
La guardai muoversi sicura in quel piccolo ambiente, fra quelle
cose dimesse, da cui trasudava una povertà dignitosa, vissuta per
scelta. Era esile, spigolosa, la pelle di un innaturale pallore e i capelli,
per contrasto, di un rosso tanto vivido da lasciare supporre che
fossero davvero fatti di fuoco. Ma, forse, era soltanto il riflesso delle
braci morenti a conferire quelle sfumature prepotenti. Le mani
avevano dita lunghe ed esili, che si muovevano veloci, prelevando
fiori secchi da un vaso e mescolandoli a polveri e bacche. Nell’aria,
intorno a noi, si era diffuso un intenso profumo di menta.
Con la coda dell’occhio scorsi Yann Rosset scrutarla con la stessa
curiosa attenzione. La guardava come se ne fosse affascinato e
intimorito al contempo, e mi resi conto che era lo stesso modo con cui
l’aveva osservata la sera del nostro primo incontro, quando lei era
apparsa al limitare del bosco e lui era rimasto immobile, incapace di
distogliere lo sguardo.
«Nessuno» aveva detto quella volta, quando gli avevo chiesto chi
fosse quell’apparizione solitaria. «Non è nessuno». Se lei non era
nessuno per lui, perché allora si era arrischiato a liberare una volpe da
una tagliola per riportargliela? E perché era lì in quel momento,
rigido e silenzioso, nella sua casa?
Mi stavo facendo quelle domande, quando Fiamma mi rispose: «Sì,
reverendo, vivo qui da sola e ho intenzione di rimanerci». Aveva una
voce bassa e roca, come se, per quanto le parole uscissero fluide dalle
sue labbra, fossero una cosa rara, cui non era avvezza. Non diceva
mai più del dovuto, aveva la singolare capacità di mettere insieme
quel poco che serviva per spiegarsi in maniera adeguata, senza
aggiungere altro. È una dote che in pochi possiedono.
Capii che sapeva perché ero lì, che fin dal primo momento aveva
scorto le mie intenzioni.
«Non stavo sottintendendo nulla» mentii, spostando lo sguardo al
pagliericcio e alle coperte sdrucite che dovevano costituire il suo
giaciglio.
«Sì, invece. Voi mi state domandando perché me ne sto da sola,
quassù, quando potrei far parte della comunità, varcare le pareti della
vostra chiesa e adorare il vostro Dio» disse, disponendo sopra il fuoco
il composto che aveva preparato.
Trasalii a quelle parole, e mi sembrò che Yann Rosset facesse lo
stesso. «Non è solo il mio Dio» dissi, dopo qualche istante di
sbigottito silenzio. «È anche il vostro…»
Fiamma raddrizzò la schiena, sporgendo il mento in fuori.
«Conosco il vostro Dio, ha un corpo martoriato, uno sguardo
sofferente. Sì, una volta sono entrata nella vostra chiesa» confessò
con orgoglio. Dritta in mezzo alla stanza, illuminata dalla luce
incandescente dei tizzoni ardenti, sembrava incarnare tutte le più
oscure paure degli abitanti del borgo. «Dio non è lì dentro» concluse
con una sicurezza che, per un solo attimo, le invidiai. Se la mia fede
fosse stata forte quanto la sua blasfemia, avrei potuto sostenere
l’occhiata che mi rivolse, sentirmi al sicuro, nonostante tutto. Invece,
le sue parole erano onde che si abbattevano sulla mia fragile corazza,
e presagii che, se non mi fossi sottratto in tempo al suo sguardo
imperioso, ne sarei uscito inevitabilmente compromesso.
«E dove credete che sia?» domandai frastornato, con un filo di
voce. Inerpicandomi fin lassù, pensavo di avere una lezione da
impartire, dell’aiuto da dare, imbattendomi, invece, in un’ostinazione
che andava ben oltre ciò che mi aspettavo.
«Dio è nei dettagli, reverendo» rispose con naturalezza. Tolse il
pentolino dal fuoco e filtrò il liquido servendosi di un vecchio panno
di lana. Quando la bottiglia fu colma, la tappò e me la porse senza
troppe cerimonie. Non c’era affettazione in lei, nessuna forma di
artificiosità. «Ecco a voi, bevetene un bicchiere quando vi prende
l’emicrania».
«Grazie…»
Yann Rosset si riscosse. «Me ne vado» disse soltanto, come se fino
a quel momento fosse rimasto vittima di un incantesimo che gli aveva
impedito di muoversi, persino di respirare. Si voltò, prendendo il
fucile appoggiato alla parete, che notavo solo in quel momento.
Fiamma rimase immobile, non lo salutò, nemmeno lo guardò. Mi
parve strano.
«Yann» esclamai «se non vi spiace, vengo con voi. Non voglio
rischiare di smarrire la strada, e voi mi sembrate molto più esperto di
me».
Yann Rosset annuì, poi si avviò con quella sua camminata storta,
che poggiava tutto il peso sulla gamba destra. Nemmeno lui salutò
Fiamma, ma lo vidi serrare i pugni fino a far sbiancare le nocche.
«Arrivederci» mormorai, stringendo la bottiglia fra le mani e
cercando di stare dietro a Yann, che era oltre l’uscio.
Lei si affacciò alla porta, quando eravamo sul
sentiero. «Reverendo» esclamò, mentre il vento della notte le faceva
volteggiare i capelli, che si sollevarono attorno alla sua esile figura
come una nuvola incandescente «non disturbatevi a tornare. Non ho
bisogno di voi, del vostro aiuto. Non ho bisogno di nessuno»
concluse.
Anche se si rivolgeva a me, non era con me che stava parlando. I
suoi occhi, quegli occhi capaci di scavarti dentro, erano fissi in quelli
di Yann.
Yann

Erano passati parecchi giorni, forse settimane, da quando ero stato da


Fiamma, in quella casa in cui avevo giurato che non avrei mai
rimesso piede, se non nei miei incubi. Invece, ci ero tornato,
nonostante tutto, e l’avevo fatto di mia spontanea volontà. Cosa
diavolo mi diceva la testa?
Quella notte lei era stata incostante, come sempre, ma anche
fragile, e questo mi aveva spiazzato. L’avevo guardata piegarsi su se
stessa, l’avevo ascoltata piangere, lacrime e singhiozzi, e per un solo
istante le avevo invidiato quella capacità di lasciarsi andare. Di avere
dentro qualcosa che non fosse fatto di roccia e ghiaccio, qualcosa che
potesse sciogliersi e colare via. Via dagli occhi, via dal cuore.
Io, quel lusso, non potevo permettermelo, perché, se avessi versato
anche una sola lacrima, Raphaël sarebbe defluito da me come il
sangue che sgorga da una ferita, una ferita che, tolta la spina, poi
cominci a guarire.
No, io non volevo guarire. Io volevo tenermelo dentro quel fratello
che non avevo saputo proteggere, che non avevo potuto strappare via
dalla morte, come lui aveva fatto con me. Quel fratello che non aveva
tomba né fiori; che non avrebbe avuto un posto, nel mondo, dove chi
lo aveva amato potesse ricordarlo, piangere per lui. Così non le
sprecavo, quelle lacrime. Le custodivo come custodivo il dolore che
avevo dentro, l’unico sentimento che sembrava darmi ancora la
capacità di definirmi umano.
Fiamma, invece, era debole, aveva ceduto. Così era toccato a me
scuoterla, rimetterla in piedi, ricordarle perché ero lì. Quando l’avevo
afferrata per le spalle, ero rimasto sconcertato dalla consistenza delle
sue ossa; se l’avessi stretta più forte, mi si sarebbe sbriciolata fra le
dita.
Come poteva, una creatura tanto esile, incutere un simile terrore a
un intero villaggio? Cosa vedevano in lei che li faceva spaventare,
che li portava a segnarsi solo a sentire pronunciarne il nome?
Io stesso, me ne rendevo conto, mi ero lasciato sopraffare. Non era
che una ragazzina cui avrei potuto spezzare tutte le ossa con una
mano. Avrei potuto sbatterla al muro e avere ragione di lei in pochi
istanti. Cosa avrebbe potuto farmi? Graffiarmi la faccia, sputarmi
negli occhi, maledirmi? Eppure, qualcosa in lei mi faceva ritrarre di
scatto, se soltanto provava a sfiorarmi con la punta delle dita. Avevo
il terrore di quelle mani, capaci di scompormi e ricompormi a
piacimento. Avevano reso arida la mia carne, al punto che nessuna
carezza aveva potuto scaldarmi, nessun bacio era più riuscito a
scuotermi.
Ero stato con qualche donna, dopo l’incidente; attimi rubati, che
avevano il sapore dell’alcol che trangugiavo alla locanda, prima di
barcollare verso casa. Tutte si erano prodigate a darmi un piacere che
non avevo provato, se non per brevi istanti. Mi lasciavano
indifferente con i loro baci umidi, le cosce burrose strette attorno al
mio corpo, i seni penduli. Se provavano a toccare la cicatrice mi
ritraevo, mi passava ogni poesia. Che pensassero pure che ero un
incapace. Quella gamba era un terreno di battaglia cosparso di sale.
Quella notte mi ero lasciato alle spalle il capanno di Fiamma,
inoltrandomi nel bosco, e don Agape mi aveva seguito senza mai
chiudere la bocca. Mi stupivo sempre di quanto fiato avesse la gente
da sprecare. Aveva ripetuto le parole con cui lei lo aveva messo a
tacere, ne era sorpreso, come se non si aspettasse che una donna
esclusa da tutto e tutti potesse avere idee tanto ferme e saper esporle
con sicurezza.
Ero rimasto stupito anche io, in effetti, da quel suo sapersi
destreggiare con le parole. Ne ero rimasto sconcertato perché, per un
attimo, mi era parso che a parlare fosse stato Raphaël. Fiamma si
esprimeva come lui, ne aveva assimilato modi e gestualità, al punto
da sembrare una sua immagine distorta, come un riflesso nell’acqua
tremula di un ruscello.
Qualcosa di lui è rimasto, avevo pensato quella notte, guardandola
parlare con il parroco. Qualcosa che non morirà e resterà attaccato per
sempre addosso a questa donna che mio fratello aveva scelto come
unica amica, come compagna. Fiamma l’aveva assorbito, Raphaël,
come una spugna assorbe l’acqua, e ora lo lasciava uscire poco alla
volta: il modo di muovere le mani, quel suo piegare la testa da un lato
quando ascoltava, le parole che venivano dai libri. Si erano mescolati
e modificati a vicenda, si erano appartenuti, e forse si appartenevano
ancora, ovunque lui fosse.
Pensai alle lettere di Raphaël, quelle buste spesse, i fogli fitti di
parole che non avevo avuto il coraggio di leggere. Cosa le scriveva?
Cosa le raccontava?
Dentro quelle lettere c’erano più parole di quelle che avevo
pronunciato in tutta la vita. Le tenevo sotto il materasso, senza trovare
la forza di consegnarle alla persona cui erano indirizzate, senza
riuscire a gettarle nel camino. Dormivo sulle cose non dette che mio
fratello aveva scarabocchiato dal fondo di quei buchi di fango che i
soldati chiamavano trincee. Mi rigiravo, insonne, sulle sue speranze
spezzate, sulle paure e sulle confessioni che aveva riversato in quei
fogli imbevuti di inchiostro.
Sul suo amore per lei.
E non potevo dimenticare che le sue ultime parole, prima di partire,
erano state per Fiamma. Le ultime che avevo sentito dalla sua voce:
«Prenditi cura di lei, fallo per me. Non ha nessuno. Prenditi cura di
lei».

Con la desarpa le mandrie erano scese dall’alpeggio, e il mio lavoro si


era triplicato, ma andava bene così. Ero grato di quel ritorno alla mia
consolidata quotidianità, agli impegni che mi tenevano occupato
dall’alba al tramonto, impedendomi di pensare.
Mi svegliavo prima che sorgesse il sole, per la mungitura delle
vacche. Faceva freddo e per riscaldarmi appoggiavo la guancia al
fianco tiepido dell’animale, strizzando le mammelle mentre il latte
caldo colpiva il secchio. Poi preparavo il formaggio, le forme che
dovevano stagionare per tutto l’inverno; la fontina andava lavorata
subito dopo la mungitura, per evitare che affiorasse la panna.
Bisognava far scaldare il latte, aggiungere il caglio, controllare la
temperatura. C’era poi da pulire la stalla, portare fuori il letame,
spaccare la legna, dare da mangiare agli animali e predisporli alla
seconda mungitura, nel pomeriggio. Mia madre e Agnés si
occupavano dell’orto e delle conserve, ma alla seconda mungitura
riuscivano sempre a darmi una mano. Senza Raphaël, era tutto più
difficile.
Alla sera crollavo a letto, troppo stanco per pensare, e dormivo
sonni senza sogni.
Fino a quando lei aveva iniziato a venire da me.
Nel sogno, sempre lo stesso, nevicava forte e un vento gelido
spazzava la montagna, gettandomi addosso manciate di neve farinosa
che mi impedivano di vedere, persino di respirare. Avanzavo con gli
scarponi chiodati, incurante del ghiaccio che, sotto i miei piedi, si
faceva sempre più sottile, fino a frantumarsi in schegge affilate che
mi lasciavano precipitare, lacerando la mia carne. Gridavo senza
voce, il fiato risucchiato dal buio che mi inghiottiva, spegnendo ogni
cosa attorno a me. Quando mi svegliavo, ero nudo, solo e tremavo dal
freddo. Morire in montagna non mi faceva paura, era il buio che non
sopportavo. Poi, all’improvviso, una scintilla. Fiamma era al mio
fianco, e i suoi capelli ardevano come fuoco. Era nuda anche lei, i
fianchi esili, il seno piccolo e appuntito. Si stendeva accanto a me,
avvolgendomi con le sue ciocche ramate, scaldandomi.
Resta qui. Non andartene. Non lasciarmi solo.
Lei staccava un capello dalla sua chioma di brace, infilandolo nella
cruna di un ago, e con quello ricuciva la mia pelle, mi rattoppava
come un pupazzo da cui era fuoriuscita tutta la segatura. Quel capello
di brace mi era entrato nella carne, mi aveva ridato la vita e, allo
stesso tempo, avvelenato il sangue. Le dovevo tutto e la odiavo.
Non avevo paura di morire, ma lei mi aveva costretto a vivere.
Mi ero svegliato di soprassalto, accaldato nonostante il gelo che
ormai, ad autunno inoltrato, era diventato una morsa alla gola, e con
fastidio e imbarazzo mi ero reso conto di essere eccitato. Quel sogno
aveva turbato i miei sensi, e a nulla era valsa la fredda razionalità con
cui avevo scacciato quei pensieri. C’era solo una spiegazione
possibile: avevo bisogno di una donna, di dormirci insieme, di
sentirne la pelle morbida contro i palmi, il fiato caldo sotto l’orecchio.
Pensai a Marie, al petto abbondante che si alzava e si abbassava a
ogni respiro, alle sue guance piene e rubizze. Marie, che mi lanciava
sguardi allusivi e avrebbe fatto la felicità di mia madre, se le avessi
chiesto di sposarmi.
Non ci avevo mai pensato, al matrimonio. Eppure, in quel
momento, mi chiesi perché. Era l’unica cosa sensata che avrei potuto
fare: sposarmi, fare dei figli, dare nuove braccia al podere. Senza
Raphaël, quando anche Agnés avesse trovato un marito, la fattoria
sarebbe rimasta a me. Era mio compito assicurarmi che quell’eredità
prosperasse, che non andasse sperperata.
Marie, così bionda e disponibile, poteva essere un balsamo per i
miei tormenti, un antidoto a quel veleno che mi scorreva nel sangue,
corrodendo le mie vene, prosciugandole. Non l’amavo, e di certo lei
non amava me: ero un uomo a metà, spezzato nel fisico, logorato
nello spirito; eppure, ero certo che mi avrebbe detto di sì. Se non
altro, avrei smesso di avere freddo la notte, con una moglie accanto.
La casa era buia, silenziosa, rischiarata solo dal bagliore del fuoco
nel camino. Bevvi un sorso di vino direttamente dalla bottiglia,
asciugandomi la bocca con il dorso della mano, ipnotizzato dalle
fiamme che si attorcigliavano davanti a me, sprizzando scintille. Il
fuoco si contorceva, assumendo sfumature che viravano dal blu al
rosso vivido. Gettai un altro pezzo di legno nel camino e rimasi a
osservare le fiamme che piano piano lo avvolgevano, consumandolo.
A spezzare il silenzio erano il lieve russare di mia madre sul
soppalco e il respiro più discreto di Agnés. Io, quella notte, non avrei
più chiuso occhio.

Indossavo una camicia pulita e avevo scrostato gli scarponi dal fango.
Scendevo di rado al borgo; da quando avevo iniziato a disertare la
chiesa, poi, ancora meno.
Raggiunsi il paese sotto un cielo bianco, che prometteva neve.
Novembre era alle porte, e le creste delle montagne erano già
imbiancate. Scesi per la via principale espirando dalla pipa lievi
volute di fumo, che si disperdevano nell’aria rarefatta insieme al fiato
caldo.
Gli zingari occupavano un angolo della piazza sotto la chiesa.
L’uomo portava i capelli lunghi raccolti in una coda fermata da un
laccio di cuoio e aveva una fisarmonica al collo. La ragazzina
danzava al suono della musica, roteando su se stessa e muovendo con
grazia le mani dalle dita lunghe. La gonna era fatta di balze colorate e
si gonfiava intorno a lei a ogni volteggio. Per terra, accanto ai suoi
piedi, c’era un piattino, sul quale erano appoggiate poche monete.
Mi arrestai, rivolgendo ai nomadi un’occhiata di disapprovazione.
Erano arrivati il giorno della fiera, quando il paese era in festa per la
desarpa. Uomini e donne dalla carnagione brunita e dalle vesti
colorate, ragazzini con le dita sporche e i capelli lunghi. Attaccato
addosso portavano l’odore di luoghi lontani, di terre sconosciute.
Parlavano diverse lingue, avevano accenti misteriosi e volti segnati da
infinite storie. Per vivere, riparavano pentole. In paese li chiamavano
zingari stagnini, perché il metallo diventava cera liquida tra le loro
mani esperte, anche se questo non faceva altro che aumentare la
diffidenza che li circondava. Chiunque sapesse piegare il fuoco era
visto con sospetto. Le donne danzavano e leggevano il futuro nel
palmo della mano.
Non era la prima volta che li vedevo, anche se dall’ultima erano
passati molti anni, quasi venti.
Ero un bambino, allora. Agnés aveva quattro anni, Raphaël due. Io,
che ne avevo sei ed ero il fratello maggiore, ero stato
responsabilizzato dai nostri genitori: «Bada ai più piccoli, che non si
allontanino verso il bosco. Gli zingari li rubano, i bambini».
Si erano fermati alcune settimane, accampandosi tra gli alberi,
vicino al ruscello. Don Jacques ne aveva fatta una questione
personale. Vent’anni prima in lui c’era tanta energia da piegare una
montagna, e quell’energia, alimentata dal disprezzo, l’aveva
impiegata per contrastare quei viaggiatori senza patria e senza Dio.
Una battaglia vinta, sebbene gli fosse costata un’anima: una pecora
fuggita dall’ovile, attirata dalla musica soave che i vagabondi
suonavano alla sera, radunati attorno al fuoco, e smarritasi per
sempre. Si trattava della madre di Fiamma, e don Jacques considerava
questo imperdonabile. Gli era sfuggita dalle mani, finendo dritta tra le
grinfie del demonio, e con lui aveva fornicato fino a dare alla luce
quella figlia che aveva capelli di brace e occhi da bestia selvatica.
Tutti, al borgo, conoscevano la storia, anche se nel corso degli
anni, passando di bocca in bocca, era stata modificata fino a diventare
quasi una leggenda.
Vivienne veniva dalla bassa valle. Orfana di entrambi i genitori, era
stata cresciuta in un istituto e mandata, ancora ragazzina, a lavorare
nella canonica di Saint Rhémy. Una ragazza bionda e sottile con gli
occhi spaventati e le labbra pallide. Era esile come un giunco, ma
lavorava sodo e, per questo, si era presto conquistata la fiducia del
parroco e della comunità. La domenica mattina andava a messa con il
capo coperto, lo sguardo sempre basso. Non parlava con nessuno, al
punto che in molti si erano chiesti se non fosse ritardata o forse muta.
Ma Vivienne era semplicemente silenziosa.
Quando non lavorava alla canonica, faceva lunghe passeggiate in
montagna. Si portava un cesto e, quando tornava, aveva con sé erbe e
piante, bacche e funghi. Sapeva distinguere le erbe benevole da quelle
cattive, i funghi buoni per farci la zuppa e quelli che ti facevano
morire sul colpo, se solo ne assaggiavi un pezzo.
Poi, un giorno, portati dal vento che soffiava dalle cime, erano
arrivati gli zingari. Si erano accampati nel bosco, e don Jacques aveva
proibito alla sua domestica di risalire il sentiero, inoltrandosi nella
foresta, finché quegli uomini, dai capelli d’inchiostro e dalle
sopracciglia tanto scure da ricordare le ali di un corvo, non se ne
fossero andati. Ma la curiosità è femmina, e Vivienne doveva covare
già dentro di sé il germe della ribellione. Una notte era uscita e non
aveva più fatto ritorno alla canonica.
Dicevano di averla vista danzare a piedi nudi, i capelli sciolti sulle
spalle, attorno a un fuoco che bruciava incubi. La musica gitana si
sollevava dalle montagne, gli abitanti di Saint Rhémy si erano chiusi
la porta di casa alle spalle, serrandola, e si erano segnati facendo gli
scongiuri. Quella notte, il diavolo aveva camminato tra loro e si era
fatto beffe del parroco rubandogli un’anima da sotto il naso.
Quando gli zingari erano ripartiti, tutti si erano aspettati che
Vivienne se ne andasse con loro. Invece, era rimasta, anche se non era
più tornata al villaggio. La foresta era diventata la sua casa e, nove
mesi dopo, aveva dato alla luce una bambina con una nuvola di
capelli incandescenti sulla testa. Gli zingari sapevano piegare il
fuoco, come il demonio, e lei, a quella figlia venuta dagli inferi,
aveva dato un nome che non facesse scordare a nessuno le proprie
origini.

Mi diressi alla canonica, indifferente ai nomadi e alle note che si


levavano dalla vecchia fisarmonica istoriata, che l’uomo
accompagnava battendo il piede su un tamburello appoggiato per
terra. Per quanto mi riguardava, non avrei allentato i lacci della borsa
per gente come quella, che faceva della questua una professione.
Stavo per bussare, quando la porta si aprì e Basile Blanche apparve
sulla soglia, infilandosi il cappello in testa.
«Guarda, guarda, chi si rivede» disse, squadrandomi con malcelato
astio. «Yann Rosset, lo storpio, l’amante della strega».
Alle sue spalle Marie mi guardava storto. Ignorai Basile,
rivolgendomi a lei: «Mi fai entrare?»
Marie si riscosse, senza però abbandonare l’espressione accigliata.
«Arrivederci, Basile» disse, con il chiaro intento di congedarlo.
Basile sembrava combattuto. «Vuoi che aspetti qui, Marie? Non mi
fiderei a restare da sola con lui, se fossi in te».
«Non sono sola» rispose Marie, risoluta.
«Come vuoi». Basile scese gli scalini e, nel passarmi accanto, non
si lasciò sfuggire l’occasione di sussurrarmi all’orecchio: «Non
preoccuparti, non ho dimenticato il piccolo conto che abbiamo in
sospeso. Sto solo aspettando il momento per fartela pagare, a te e a
quella cagna rognosa cui tieni tanto. Voi Rosset siete tutti uguali, tutti
marci dentro».
Serrai i pugni, irrigidendomi, ma non fiatai. Non sprecavo il fiato
per gente come quella.
Basile si sistemò il cappello e, dopo avermi spintonato con
intenzione, passandomi accanto, si allontanò per le vie del borgo.
Marie mi fece entrare, chiudendo la porta alle mie spalle,
e restammo a osservarci nella penombra. C’era odore di pane
abbrustolito e di cipolle e, guardando il grembiule che aveva legato in
vita, immaginai che stesse preparando il pranzo per i due parroci.
Lanciai un’occhiata al suo seno, stretto nella camicetta, e avvertii una
vampa di calore salirmi dal collo. Volevo quel seno; lo volevo sotto le
mani e nella bocca.
«Cosa voleva Basile?» domandai, sperando che non si rendesse
conto del mio nervosismo.
Marie mi rivolse uno sguardo carico di rimprovero. «È venuto a
portare i cavoli e le rape del suo orto. In ogni caso, non vedo perché
dovrebbe interessarvi». Il tono era freddo, distaccato. Capii che
Basile aveva raccontato la sua versione dei fatti, che doveva essere
molto più colorita rispetto alla realtà.
«Infatti, non mi interessa. Sono venuto a scusarmi» dissi,
distogliendo lo sguardo e spostandolo alle perline che rivestivano
l’ingresso. I nodi del legno sembravano tanti occhi che mi fissavano
nell’oscurità, tanti musi di volpe. «Con te» aggiunsi, in modo che
fosse chiaro perché ero lì.
«Sono passate due settimane, Yann» disse Marie dopo qualche
secondo, guardandomi seria.
«Ho avuto da fare» replicai, aspro. Non ero bravo con le parole,
figurarsi con le scuse. E poi non volevo scusarmi per davvero, non
pensavo ci fosse qualcosa da farmi perdonare: quello che facevo,
come agivo, erano solo fatti miei. Tuttavia, ero stato sgarbato, lo
riconoscevo. Le avevo gridato addosso e ora dovevo rimediare,
oppure il suo corpo potevo anche scordarmelo.
Marie giocherellò distrattamente con i nastri del grembiule per
alcuni secondi, prima di sollevare gli occhi nei miei. «Sei venuto solo
per questo?» domandò, incerta, passando a un tono più familiare.
«Per scusarti con me?»
«Per che altro, se no?»
Lei sospirò. «D’accordo, Yann. Non fa niente. Anche se…» deglutì
«Basile mi ha raccontato quello che è successo. A volte, giuro, non ti
capisco. Non ti capisco affatto».
«A volte non mi capisco nemmeno io».
Marie mi osservò di sottecchi. «Lo fai per tuo fratello?» domandò
con un filo di voce. «Perché in questo caso…» lasciò morire la frase,
ma compresi lo stesso quello che avrebbe voluto dire e, senza
ragione, me ne risentii: Fiamma e Raphaël, certo. E io, in mezzo a
loro, che mi dibattevo senza sapere perché.
«Quello che faccio, per chi lo faccio, sono affari miei. Con te mi
sono scusato, era quello che volevo. Ora me ne vado». Mi infilai il
cappello, mettendo una mano sulla maniglia.
Marie parlò solo quando ero già fuori, come se avesse dovuto
ragionarci alcuni istanti prima di decidere: «Yann, la domenica
pomeriggio sono libera. Portami a fare una passeggiata, mi farebbe
tanto piacere».

Tornai alla fattoria pensando a dove avrei potuto portarla. Il tempo si


stava rovinando, le cime delle montagne erano avvolte dalla nebbia e
il freddo ti entrava negli abiti e sotto la pelle, ti sbriciolava le ossa.
Volevo toglierle i vestiti e affondare le mani nella sua carne bianca,
soffocare i gemiti tra i suoi capelli, togliermi ogni voglia, ogni
bisogno. Poi l’avrei sposata e sarei tornato a dormire sonni tranquilli.
I primi fiocchi di neve volteggiarono nell’aria alcuni istanti, prima
di sciogliersi nel fango del suolo. Dalle mie labbra non uscivano altro
che brevi sbuffi di fiato e, guardando gli alberi che delimitavano la
proprietà, mi chiesi se Fiamma fosse al riparo nel suo capanno, se
avesse abbastanza legna per il fuoco, se lo scialle che le stringeva le
spalle fosse abbastanza caldo per quel corpo esile, tutto spigoli e
angoli aguzzi.
Poi mi ricordai che aveva il tetto rotto.
Fiamma

Li spiavo da giorni. Nascosta tra gli alberi guardavo gli zingari


prendere l’acqua al ruscello, mettere da parte la legna e stendere i
vestiti bagnati ai rami degli alberi. La sera bevevano e suonavano,
radunati attorno al fuoco; ridevano molto, alcuni di loro avevano
denti fatti di oro. Le donne danzavano, le trecce sobbalzavano a ogni
passo e le gonne colorate si gonfiavano leggere.
Ogni giorno gli uomini e i ragazzini scendevano al borgo, in cerca
di un’occupazione. Riparavano oggetti, pentole soprattutto. Ne
avevano molte appese ai loro carrozzoni. Rame lucido che brillava ai
raggi del sole. Facevano scaldare il metallo sul fuoco e lo piegavano
come cera, dandogli la forma che volevano.
Restavo incantata a osservarli, così misteriosi, così indecifrabili.
Mi chiedevo da dove venissero e dove fossero diretti. Bruciavo di
curiosità, ma non avevo nessuno cui rivolgere le domande che da
giorni mi ronzavano in testa. Lucien era l’unico cui avrei potuto
chiedere qualche informazione, ma non saliva al capanno da
parecchio, e io non sarei scesa al borgo per bussare alla sua porta. Sua
moglie mi odiava, non dell’odio venato di diffidenza di chi mi
disprezzava perché gli incutevo timore; no, la signora Borel mi
detestava perché ero io, la figlia di Vivienne, la reietta che suo marito,
a differenza degli altri abitanti del villaggio, aveva sempre difeso e, a
suo modo, aiutato. Mia madre lo diceva sempre: non basta il cuore a
sconfiggere l’ignoranza e la superstizione. Lucien Borel, che aveva
studiato, era riuscito a guardare oltre.
Per questo amavo i libri: rendevano le persone migliori. A volte le
salvavano.
Da giorni non facevo che pensare a quello che era successo due
settimane prima. Yann che bussava alla mia porta, che entrava nella
mia casa. Yann che mi riportava Ribes, dopo averla salvata da una
morte certa. Non sapevo come interpretare il suo comportamento.
Una parte di me avrebbe voluto capirlo, riuscire a indagare sotto la
superficie, dare un senso ai suoi sguardi. L’altra diceva che era
meglio non farlo e lasciare le cose come stavano. Yann provava solo
a superare la perdita di Raphaël. Quando avesse smesso di cercarlo
ovunque, anche da me, in me, non sarebbe più tornato. Illudermi che
cercasse un contatto, che, nonostante tutto, non pensasse soltanto a
suo fratello ogni volta che le nostre strade si incrociavano, era sciocco
e insensato. Io e lui non avevamo nulla da spartire, al di là di
quell’unica notte di tanti anni prima.
Tuttavia, non solo a Yann pensavo. L’incontro con don Agape mi
aveva turbata. Il nuovo parroco di Saint Rhémy era diverso da come
mi ero aspettata. Alto, ingombrante e, tuttavia, timoroso, come se
occupasse uno spazio che non si sentiva in dovere di invadere, teneva
le spalle incurvate e lo sguardo basso e balbettava. Credevo che
l’abito scuro desse agli uomini che lo indossavano la presunzione di
credersi migliori degli altri, illuminati dalla luce divina e, per questo,
superiori a tutto e a tutti. Don Agape, invece, non sembrava sicuro di
sé, tantomeno delle sue convinzioni. Mi aveva chiesto un rimedio, ma
non me l’ero bevuta. Avevo imparato a sospettare degli uomini di
chiesa, della loro religione. Mia madre mi aveva insegnato a
diffidarne.

Una volta, quando ero bambina, mi aveva condotto al borgo.


Imbruniva, e l’aria era tanto fredda che tagliava le guance. Avevo le
labbra screpolate che tiravano, e nemmeno l’unguento di malva era
riuscito ad ammorbidirle. Non capivo perché dovessimo affrontare
quella camminata, quando avremmo potuto starcene rannicchiate
vicino al fuoco, mentre lei mi raccontava una storia.
«Dove andiamo, maman?» avevo domandato, mentre il fiato
tiepido si condensava davanti alla mia bocca.
Le strade del villaggio erano deserte, gli abitanti di Saint Rhémy se
ne stavano chiusi nelle loro case, e dai comignoli dei tetti di pietra si
levavano lunghi nastri di fumo che il vento disperdeva.
«Siamo quasi arrivate» aveva mormorato mia madre. Sul volto
un’espressione tesa e risoluta che non le avevo mai visto.
Svoltammo vicino al cimitero. Conoscevo quella strada perché
spesso, quando il sole calava e le ombre avvolgevano le montagne, mi
ci avventuravo con Raphaël. Sedevamo fra le tombe e lui mi
raccontava le storie delle persone che riposavano in quel fazzoletto di
terra. Io pendevo dalle sue labbra, cercando di tenere a mente ogni
storia, ogni aneddoto, anche il più insignificante. Quei morti senza
volto, ricordati solo da una vecchia lapide ricoperta di muschio, dei
quali a malapena leggevo i nomi incisi sulla pietra, rappresentavano
tutti gli uomini e le donne che avrebbero potuto amarmi, se fossero
stati ancora in vita. Perché la gente, quella vera, si guardava bene
dall’avere a che fare con me, e io pativo quell’isolamento che spesso
avevo giudicato forzato e incomprensibile.
Mia madre si fermò davanti alla scalinata della chiesa, e io
rabbrividii, stringendomi nel mantello di lana.
«Entriamo» disse lei in un sussurro. L’avevo guardata con gli occhi
sgranati. Mia madre non scendeva mai al borgo, ma l’idea che potesse
addirittura voler entrare in quella chiesa che, negli anni, avevo
imparato a vedere come un luogo oscuro e inaccessibile, mi lasciava
attonita. Salimmo i ripidi scalini e spingemmo la pesante porta di
legno scuro. Era aperta e si mosse con un cigolio di cardini che mi
fece venire la pelle d’oca.
Ci accolse un ambiente buio, rischiarato dalla tenue luce di alcune
candele prossime a smorzarsi. Nell’aria aleggiava uno strano odore,
qualcosa che aveva a che fare con la resina bruciata. Mi strinsi a mia
madre, che aveva fatto solo pochi passi prima di fermarsi davanti a un
altare sormontato da una statua su cui posai i miei occhi impauriti di
bambina. Per poco non mi scappò un urlo dalla bocca. C’era un
uomo, lassù, le braccia larghe, mani e piedi inchiodati e una corona di
spine sulla fronte, da cui sgorgava il sangue. Il suo sguardo era intriso
di cupa sofferenza, mi fece accapponare la pelle sulle ossa.
«Perché siamo venuti qui, maman? Non mi piace questo posto,
voglio tornare a casa» piagnucolai, distogliendo lo sguardo da
quell’orribile visione. Mia madre mi costrinse a guardare posandomi
una mano sotto al mento e sollevandomi il viso. Di nuovo, gli occhi
di quell’uomo mi trapassarono l’anima. Era nudo, fatta eccezione per
un pezzo di stoffa legato ai fianchi, ed era pieno di ferite.
«Voglio che tu guardi, Fiamma. Guarda con attenzione. Cosa
vedi?»
«Un uomo di legno» balbettai «inchiodato a una croce».
«Già, un uomo di legno» ripeté mia madre. Sembrava stupita e
sollevata insieme dalla mia risposta. Alzò il viso verso la statua; la
sua espressione trasmetteva una muta sfida. «Ti ho portato qui,
stasera, perché tu veda con i tuoi occhi chi ci giudica: un uomo di
legno» disse, senza distogliere lo sguardo. «Dio, bambina mia, non è
qui. Dio è la montagna che ci tiene al sicuro, pur esponendoci a tanti
pericoli. È l’acqua e il cibo che ci permettono di vivere, il fuoco che
ci riscalda. Dio è la pioggia che bagna i campi e il sole che scioglie la
neve. Dio è nei dettagli, figlia mia».
Si piegò, arrivando alla mia altezza. La guardavo con un misto di
paura e fascinazione. Non le avevo mai sentito pronunciare parole
tanto solenni, e il fatto che mi avesse portato lì, anche se era un posto
che non mi piaceva e la statua di quell’uomo inchiodato mi incuteva
un terrore sordo, mi avvinceva in un oscuro incanto.
Gli occhi di mia madre si specchiarono nei miei. Quegli occhi che,
un giorno, sarebbero diventati i miei: pieni di ostinazione e di muto
coraggio. «Non lasciare che qualcuno ti dica in cosa credere, ragiona
con la tua testa, segui l’istinto. Nessuno dovrà importi chi amare.
L’amore non si insegna, è l’unica cosa che non posso spiegarti. Non
posso dirti quali battaglie combattere, dovrai capirlo da sola e non
sarà facile. L’amore non lo è mai, richiede coraggio e tenacia. Non si
sceglie, è sempre lui che sceglie te».
Mia madre credeva nell’istinto, ma non aveva mai voluto rivelare
il nome di mio padre, nemmeno dal suo letto di morte. «L’ho amato»
aveva sussurrato a fatica, febbricitante, nei suoi ultimi momenti.
«Prego che non ti accada mai di amare come ho amato io, perché è
stata la mia rovina, anche se mi ha dato te, che sei la cosa più
importante della mia vita».
Le avevo tenuto la mano, fino alla fine, senza rivelarle che io
amavo già; che l’amore mi aveva scelto in una notte di tormenta, mi
aveva avvinto senza lasciarmi scampo. E anche se non lo volevo
quell’amore, che era sofferenza e solitudine, lo custodivo come mia
madre aveva custodito il nome dell’uomo che mi aveva dato la vita,
come un segreto da difendere a qualunque costo, da celare nella parte
più profonda di me.
Avanzai fino alla radura in cui erano accampati gli zingari. Un pony
bianco e nero brucava l’erba vicino a me. Sulla sua folta criniera
erano legati nastrini rossi. Mi piaceva il modo in cui quella gente
usava il colore, come se non lo temesse.
Guardai le donne muoversi tra i carrozzoni portando legna e
stendendo i panni. Una di loro era in avanzato stato di gravidanza.
Due ragazzini e un bambino che si reggeva appena in piedi
scorrazzavano tra gli alberi, rincorrendosi e ridendo fra loro. Avevano
capelli alle spalle, camiciole leggere e non portavano scarpe ai piedi.
Sembravano più felici dei bambini del borgo, che avevano già lo
sguardo appannato dalla stanchezza, perché seguivano padri e fratelli
maggiori al lavoro, e un giorno, come loro, avrebbero avuto la
schiena piegata dalla fatica e le mani dure e ruvide come la corteccia
di un albero. La stessa sorte che sarebbe toccata a Raphaël, se fosse
tornato. Ciò che aspettava Yann, ora che il destino gli aveva precluso
la montagna.
Rimasi a osservarli, incuriosita, fino a quando non vidi uno di loro
piegarsi, le mani sulle ginocchia, osservando con attenzione alcuni
funghi che crescevano vicino alle radici di un albero. Doveva essere
stato il colore ad attirarlo, il rosso vivo del cappello cosparso di
piccoli puntini bianchi. Anche gli altri bambini si erano fermati
accanto al fungo, studiandolo con attenzione. Il ragazzino che l’aveva
notato per primo allungò una mano, per raccoglierlo.
«Non toccarlo!»
I bambini fecero un salto, indietreggiando. Avevano gli occhi
sgranati.
«È velenoso. Non dovete toccarlo e, soprattutto, non dovete
mangiarlo. Mi capite quando parlo?»
«Chi sei tu?» mi domandò il più grande, dietro cui si erano nascosti
gli altri. Aveva un accento misterioso, diverso da tutto quello che
avevo sentito fino a quel momento. «Sei la Kechali, la strega? Giù in
paese dicono che ci vive una strega in questi boschi, sei tu?»
«Sì, sono io la strega. Non toccate quei funghi o vi ritroverete rigidi
come bastoni nel giro di qualche ora». Non era la cosa giusta da dire a
un gruppo di bambini, lo capii vedendo i loro volti sbiancare,
nonostante l’incarnato brunito. Ma non ero avvezza a parlare con i
bambini, né con le persone in generale. Voltai loro le spalle e mi
inoltrai nella foresta.
Quando arrivai al capanno, vidi che il tetto era già spolverato di
neve. Aveva iniziato a fioccare nel tardo pomeriggio e,
probabilmente, sarebbe andato avanti fino al giorno dopo. Sentivo il
freddo risalirmi dalle gambe, nonostante portassi calze di lana, fino a
serrarmi la gola. Entrai, lasciando che il profumo delle erbe selvatiche
poste a essiccare mi rasserenasse.
Dal buco nel tetto filtrava un cono di luce in cui volteggiavano
alcuni fiocchi di neve, che si scioglievano a contatto con il
pavimento, lasciando la terra umida. Avrei dovuto mettere una
pentola in quel punto, considerai, mentre accendevo il fuoco con la
poca legna rimasta e mi raggomitolavo nella poltrona.
Yann aveva detto che qualcuno avrebbe dovuto ripararlo e,
ingenua, avevo creduto che stesse per offrirsi di farlo lui stesso. Ma
erano passate due settimane, ormai avevo perso le speranze di vederlo
tornare.
Pensai ai suoi occhi che incrociavano i miei, sulla soglia, al modo
in cui le sue mani si erano strette alle mie spalle, sollevandomi,
pretendendo da me una reazione. Non eravamo più stati così vicini da
quella notte e, forse, non lo saremmo stati mai più. Non mi
importava. Alla sua assenza ero abituata da sempre, era la sua
presenza che mi disarmava, che mi rendeva fragile e confusa.
Piegai la testa nell’incavo del gomito, respirando attraverso la lana
dello scialle. Era duro e infeltrito, come il mio cuore. «Vorrei che tu
fossi qui, Raphaël» sussurrai, sentendo una lacrima tiepida bagnarmi
le labbra. Era passato quasi un anno da quando lo avevo visto
aggirarsi sull’altopiano solo e confuso. Due, da quando era partito.
Aveva giurato che mi avrebbe scritto, ma non lo aveva fatto.
Aveva promesso di tornare, ma a riapparire era stato soltanto il suo
riflesso.
Ero rimasta sola e, per quanto avessi sempre sostenuto di potercela
fare, di non avere bisogno di nessuno, mi stavo ammalando di
nostalgia.
Compresi di essermi appisolata solo quando un bussare insistente
alla porta del capanno mi fece svegliare di soprassalto. La legna si era
consumata nel camino, e un esile filo di fumo aleggiava tra la cenere.
Sollevandomi, rigida e infreddolita, sentii il mio cuore battere più
forte. Non era ancora buio, nessuno veniva da me prima che il sole
calasse dietro le montagne.
Ribes sollevò il muso dal cesto in cui era acciambellata, vicino al
camino. Dormiva avvolta nella coda, la zampa fasciata quasi del tutto
guarita. Avevo ragione, le sarebbe rimasta una lieve zoppia, ma non
per questo l’avrei amata di meno. Ero certa che mi sarei affezionata a
quella sua camminata storta, al modo di strascicare la zampa.
L’avrebbe resa unica. Le virtù si ammirano, ma è dei difetti che ci si
innamora.
Sulla porta non c’era chi mi ero aspettata o, più stupidamente,
avevo sperato di trovare. Due uomini dal volto scuro mi osservavano
dalla soglia. In mezzo a loro c’era il ragazzino che avevo ammonito
nel bosco quel pomeriggio.
«Eccola» disse il bambino, indicandomi. «È lei, la Kechali».
Avvertii una fitta di paura, come una puntura di spillo. Fino a quel
momento non avevo mai temuto nulla. Gli abitanti di Saint Rhémy mi
disprezzavano, ma non mi avrebbero fatto del male. Le loro sciocche
superstizioni, se da un lato mi costringevano a vivere isolata,
dall’altro mi proteggevano. Ma quegli uomini sconosciuti, quegli
zingari, non sapevano nulla di me, come io non sapevo nulla di loro.
Mi misi sulla difensiva, incerta su come potermi muovere in caso
di pericolo. Chiudergli la porta di casa in faccia non sarebbe bastato,
il legno era vecchio e marcio e costituiva una ben misera barriera.
Uno degli uomini, il più giovane, si rivolse a me: «Siamo qui per
ringraziarti» disse, sollevando appena la tesa del cappello di feltro
floscio. Non poteva avere più di vent’anni, le guance sporcate da un
velo di barba e i capelli raccolti in una coda.
«Ringraziarmi per cosa?» risposi diffidente.
«Jago ci ha detto che gli hai impedito di raccogliere alcuni funghi
velenosi» rispose, posando una mano tra i capelli del ragazzino e
tirandogli un orecchio con affetto. Jago si divincolò, infastidito. A
giudicare dalla somiglianza, dovevano essere fratelli.
«Non mi dovete ringraziare per una cosa del genere».
«Sì, invece, e credo che tu sappia il perché». A parlare, questa
volta, era stato l’uomo più anziano. Rughe profonde gli segnavano gli
angoli della bocca, ma non doveva avere più di una quarantina d’anni.
Contrariamente agli altri zingari, aveva occhi chiari, verdi come
acqua di lago. «La gente ci tollera a malapena. Se morissimo
avvelenati, ne sarebbero soltanto contenti» aggiunse, inclinando la
testa e scrutandomi con più attenzione.
All’improvviso, i suoi occhi si accesero di stupore. «Tu sei la figlia
di Vivienne» disse senza domandarlo, con appena una traccia di
incertezza nella voce.
Spostai lo sguardo su di lui, a mia volta stupita: «Conoscevi mia
madre?»
«Sì. Tanti anni fa. “Conoscevi”, hai detto. Vuole dire che…»
«Mia madre non è più di questo mondo».
«Mi dispiace» disse l’uomo. Sembrava colpito da quella notizia, in
qualche modo addolorato, e me ne domandai il motivo. In diciannove
anni non avevo mai incontrato il suo sguardo; quindi, se davvero
conosceva la mamma, il loro incontro doveva appartenere a un
passato anteriore alla mia nascita.
«Non mi ha mai parlato di voi».
L’uomo si strinse nelle spalle. «Sono passati tanti anni, venti
suppergiù. Sei identica a lei. La stessa espressione, gli stessi occhi.
Solo i capelli sono di un altro colore».
D’istinto mi portai una mano alla testa, lasciando scorrere le dita
tra i riccioli ramati, arruffati e pieni di nodi. Mia madre aveva i
capelli color del miele, lisci e morbidi. Glieli avevo sempre invidiati,
domandandole infinite volte perché, dato che ero sua figlia, non li
avessi ereditati come avevo ereditato il colore degli occhi. Per gli
abitanti di Saint Rhémy i miei capelli erano la prova degli ambigui
rapporti che legavano mia madre al demonio. Un giorno le avevo
confessato i miei timori, chiedendole se fosse vero, se davvero mio
padre avesse qualcosa a che fare con quel bizzarro colore così simile
al rame delle pentole.
Lei mi aveva sorriso, lo sguardo venato di malinconia, e mi aveva
accarezzato piano la testa, rassicurandomi: «Sì, è così, Fiamma, ma si
sbagliano a credere che tuo padre sia un demone venuto dall’inferno.
Tuo padre è un uomo, un uomo buono e gentile. Il migliore uomo che
possa esistere».
Lo zingaro si piegò davanti a me in una sorta di breve inchino,
distogliendomi da quei pensieri. «Sono Rhian. È un piacere fare la tua
conoscenza. Loro sono Tal e Jago, due dei miei figli».
Mi strinsi nello scialle, senza sorridere. «Io sono Fiamma».
L’uomo di nome Rhian fece uno strano ed enigmatico sorriso,
annuendo. Poi guardò alle mie spalle, scrutando l’interno del
capanno. «Nella tua casa nevica, Fiamma».
«Il tetto è rotto».
«Ci penserà Tal» disse lo zingaro, rivolgendo al figlio un’occhiata
che non ammetteva repliche. «Un favore per un favore, noi la
pensiamo così».
«Sarà un piacere» disse Tal, sorridendomi sornione. Aveva denti
bianchi e perfetti, che risaltavano sulla pelle scura. «Verrò domani,
porterò gli attrezzi».
Li guardai allontanarsi nella foresta, le spalle e i cappelli spolverati
di neve, l’andatura tranquilla. Pensavo a quello che Rhian aveva detto
della mamma, al suo strano sorriso quando gli avevo rivelato il mio
nome.
I suoi occhi erano verdi come acqua di lago.
Agape

«E così, sono tornati».


Padre Jacques era di pessimo umore. Seduto davanti alla finestra,
sgranava il rosario osservando la cima delle montagne svanire in una
foschia rarefatta. Nevicava da ore.
I primi fiocchi di neve mi avevano riempito il cuore di gioioso
stupore. Mi ero sentito un bambino quando, dopo aver sollevato il
volto al cielo bianco come cotone, avevo scorto centinaia di
minuscoli cristalli di ghiaccio cadere lievi.
A Roma la neve era rara e fuggevole. Se capitava che, in qualche
notte particolarmente fredda, spolverasse i tetti della città, la mattina
dopo si era già tramutata in fanghiglia e acqua sporca. In montagna,
invece, era pura e inviolabile. Si attaccava alle cose e alle persone,
ricopriva tutto, rendendo i suoni ovattati e cancellando i contorni
della realtà. Sembrava di muoversi in un sogno silenzioso.
Alzai gli occhi dai fogli su cui stavo componendo il sermone per la
messa. L’inchiostro mi aveva macchiato le mani, e la carta era piena
di sbavature nere.
«Come dite, prego?»
«Gli zingari» specificò il vecchio parroco, irritato, scandendo le
parole come se fossi duro d’orecchi. Il suo sguardo era fisso su un
punto lontano, oltre il vetro merlato di brina. Sembrava indagare tra le
ombre del passato. «Ve ne dovete liberare».
«Cos… Cosa?»
Il pennino mi cadde di mano, mentre una macchia di inchiostro si
allargava sul foglio, inghiottendo le poche parole che con fatica avevo
buttato giù fino a quel momento.
«Siete sordo, don Agape?» sbottò a quel punto padre Jacques,
voltandosi verso di me. Il suo volto era una ragnatela di rughe in cui
spiccava un chiaro e deciso cipiglio.
«N-no, ma ugualmente temo di non aver ben compreso le vostre
parole» balbettai, cercando di tamponare l’inchiostro con la carta e
peggiorando la situazione.
Il vecchio parroco mi osservò alcuni secondi con aria disgustata,
prima di scuotere la testa e riportare lo sguardo alla neve che non
accennava a smettere di cadere. «Se non siete sordo, e voi dite che
non è così, allora credo che abbiate compreso benissimo le mie
parole: non voglio che i nomadi si fermino a Saint Rhémy».
«Per quale motivo?» domandai, pulendomi di nascosto le dita sulla
tonaca. Nero su nero, nessuno se ne sarebbe accorto.
«Mi sorprende che lo domandiate. La questione è: perché
dovremmo volere che rimangano qui? Sono vagabondi, gente
maledetta, figli delle ombre. Porteranno solo guai».
«E voi volete che io… me ne liberi?» domandai.
Lo sguardo che padre Jacques mi rivolse mi fece tremare le
ginocchia.
«Siamo o non siamo i pastori di questo gregge?» domandò con
freddezza. La sua voce era dura e stridente come uno sfregare di
coltelli. «C’è un lupo, lassù tra le montagne. Un lupo famelico.
È nostro compito proteggere la comunità, ogni singolo membro della
comunità. Dio ci ha affidato l’incarico, non possiamo deluderlo. Non
questa volta».
Lo guardai e, per un istante, non mi parve esile e ricurvo come lo
avevo sempre visto, ma animato da una inarrestabile tenacia. Dalle
sue parole capii che c’era stata un’altra volta, in passato, e qualcosa
allora era andato storto.
«Io non posso costringere queste persone ad andarsene. Oltretutto,
non fanno niente di male».
Padre Jacques tese le labbra a una linea sottile. «Questa è una
vostra personalissima opinione, don Agape, e se ci tenete a saperlo
non la condivido. Quanto al fatto che sia o meno in vostro potere
scacciarli, non vi sto dicendo che dovete farlo di persona. Basteranno
le vostre parole a mettere in guardia i fedeli: devono sapere con chi
hanno a che fare. Scriverò io il vostro sermone per questa domenica,
sarà sufficiente che lo impariate a memoria».
Aprii la bocca, poi la richiusi. Ero rimasto senza parole. Inoltre,
avvertivo i primi sintomi di un tremendo mal di testa farsi strada in
me. Se avessi continuato a contraddire padre Jacques, non ne sarei
uscito vivo.
«Come volete, don Jacques. Ora credo che mi ritirerò in preghiera»
dissi, alzandomi e raccogliendo i fogli ormai inutilizzabili. La carta
aveva assorbito l’inchiostro, restandone compromessa.
Non sempre la luce vince sull’oscurità.

Giunto in camera sciacquai le mani nel catino, prima di rinfrescarmi


le tempie dolenti. Avvertivo un pulsare sordo dietro le orbite. Mi stesi
sul letto e posai i palmi sugli occhi, esercitando una leggera
pressione. Quando allentavo la presa, il dolore mi invadeva a ondate,
sempre più feroce.
Restai diversi secondi a osservare le scintille argentate che si
formavano sotto le palpebre abbassate, prima di ricordarmi del
rimedio che, qualche settimana prima, Fiamma aveva preparato per
me. Mi drizzai a sedere, guardandomi attorno con aria smarrita. Non
ricordavo dove avevo riposto la bottiglia.
Confuso mi sollevai, cercando di riportare alla mente la sera in cui,
stanco e infreddolito, ero tornato alla canonica dopo aver seguito
Yann Rosset attraverso il bosco. Non credevo che potesse avere un
passo tanto spedito, ma non dovevo nemmeno dimenticare che si
trattava di un uomo di montagna, e che io avevo già il fiato ridotto
dalla salita con cui mi ero avventurato fin lassù.
Anche se faticavo ad ammetterlo, e sebbene fossero passati giorni,
ero ancora turbato dall’incontro con la ragazza dei boschi. Mi ero
recato da lei animato dalle migliori intenzioni, ma con un po’ di
vergogna dovevo ammettere che ero stato io ad andarmene con la
testa piena di dubbi. Volevo ricondurla sulla retta via, invece era stata
lei a farmi smarrire, seppure per un momento, la strada.
Quella notte avevo dormito poco e male. Continuavo a rigirarmi tra
le lenzuola, pensando alle parole con cui Fiamma mi aveva messo a
tacere, al fuoco che sembrava pervaderla e dominarla, a partire da
quei capelli così irriverenti. Era una donna selvatica, brusca e
diffidente, ma allo stesso tempo si esprimeva con proprietà di
linguaggio e aveva convinzioni granitiche, difficili da scalfire. Mi
incuriosiva e intimoriva allo stesso tempo e non ero più tornato da lei
per non dover subire quel fascino oscuro che la sua persona, le sue
parole emanavano. Ero un uomo di chiesa, eppure l’avevo percepito.
E doveva percepirlo anche Yann Rosset, che la bramava con lo
sguardo e se ne teneva lontano come per un terrore cieco. Li avevo
visti, gli sguardi che le rivolgeva: erano pieni di possesso e di aspro
disprezzo. Mi chiesi se il suo trovarsi lì, quella notte, avesse qualcosa
a che fare con il fatto che ormai da mesi disertasse la messa
domenicale. Sarebbe stato logico dare credito alle dicerie che Basile
Blanche aveva messo in giro. Le avevo sentite anch’io. Parlavano di
patti con il demonio e corruzione dell’anima, nulla di diverso da
quello che avevo udito dalla bocca di don Jacques poco prima. La
superstizione, in quella valle di leggende e storie fantastiche,
aleggiava in ogni discorso, si mescolava a tutto ciò che non si poteva
spiegare; si modellava sulle cose complicate, quelle che per la loro
natura misteriosa risultavano incomprensibili, diverse.
La storia era piena di errori commessi da uomini che avevano dato
più credito alle credenze popolari che all’intelletto. Non volevo essere
uno di loro. Che don Jacques pensasse pure che non ero un buon
pastore. Non avrei bandito i nomadi soltanto per lavare la sua
coscienza sporca, per ricucire gli strappi del suo passato.
Aprii il cassetto del comodino e trovai la bottiglia con il rimedio
per l’emicrania. La soppesai alcuni secondi tra le mani, osservando il
liquido ambrato in controluce. Alcune foglioline non filtrate
galleggiavano in superficie e, quando tolsi il tappo, un penetrante
profumo di menta invase l’ambiente. Mi sembrò che i miei nervi si
calmassero all’improvviso.
Fiamma aveva detto che dovevo berne un bicchiere per calmare gli
spasmi. Solo in quel momento mi resi conto che non avevo una coppa
da cui bere.

Marie rimestava la polenta in piedi davanti al paiolo. Si era arrotolata


le maniche del vestito sopra i gomiti, e la sua fronte era lucida di
sudore, le gote arrossate per il caldo.
Entrai nella cucina e mi diressi alla madia che conteneva piatti e
bicchieri.
Marie mi rivolse un’occhiata interrogativa: «Vi occorre qualcosa,
don Agape?»
«Non disturbatevi, Marie. Cercavo un bicchiere».
La ragazza guardò con diffidenza la bottiglia che avevo in mano.
«Quella cos’è?»
In quel momento mi resi conto dell’errore che avevo commesso,
portandola con me.
«Un rimedio, per l’emicrania» spiegai compassato.
Lei scosse la testa, incredula: «Siete pazzo. Se lui dovesse
scoprirlo… non ve la farebbe passare liscia».
Presi un respiro, versando due dita dell’aromatico liquido, e restai a
osservarlo agitarsi tra le pareti di legno del bicchiere. Quelli di vetro
erano un lusso cui gli abitanti di Saint Rhémy non erano avvezzi.
«Sapete una cosa, Marie? Credo che mi abbiate preso tutti quanti in
giro, riguardo a quella donna. Non mi sembra una svitata, e nemmeno
una strega, se devo essere onesto» dissi, tracannando il rimedio in una
sola sorsata. Aveva un sapore pungente, ma non spiacevole. «Soltanto
una persona molto sola, molto diffidente e anche… molto ostinata».
Sì, ostinata era il termine che cercavo. Era caparbia come un fiore
di montagna, quella donna. Quei fiori che sbocciano in mezzo alle
pietraie e resistono soli e indomiti al vento che sferza i ghiacciai.
Marie mi fissò come se all’improvviso mi fosse spuntata un’altra
testa accanto a quella che già avevo sul collo. «Dovete stare attento»
disse, in un sussurro «molto attento a quello che dite, don Agape».
Per un istante mi parve di avere davanti mio zio: «Attento, Agape,
a quello che dici. Attento a come ti esprimi. Le parole sono l’arma più
potente che abbiamo, lo strumento per blandire il gregge che Dio ci
ha affidato, la chiave di tutto. Saranno le parole, Agape, a decretare il
tuo destino: scegli quelle giuste, e ti spalancheranno le porte dei cieli;
pronuncia quelle sbagliate, e contribuirai al tuo fallimento».
Ero stufo, stufo marcio di dovermi controllare, di cercare di fare la
cosa giusta, misurando ogni parola, mantenendo un atteggiamento
accondiscendente, sempre disponibile a sobbarcarmi ogni problema.
La testa mi scoppiava e decisi che, per quel pomeriggio, ne avevo
abbastanza di tutto: dell’intolleranza di don Jacques, delle
sciocchezze di Marie, perfino di me stesso, delle mie stupide paure,
della mia totale incapacità di impormi.
«Esco a fare due passi».
Marie non ebbe nulla da ridire: non gliene diedi il tempo.
Le strade erano imbiancate, e la neve iniziò subito ad attaccarsi al mio
cappotto, spiccando nitida contro il panno scuro. Mi calcai il cappello
in testa e, attento a non scivolare, mi incamminai piano.
Faceva freddo, ma non il freddo pungente dei giorni prima che
nevicasse. Era un freddo secco, che ti entrava dentro ma non ti
mordeva la carne. Potevo sopportarlo. Il fiato si disperdeva davanti a
me in nuvole leggere, mentre attraversavo il borgo, godendo di quella
solitudine perfetta. In giro non c’era anima viva, nessun suono
riempiva l’aria, i colori erano svaniti dal mondo. C’era solo quel
candore silenzioso, e immaginai che avrei potuto camminare fino a
perdermi in quello spazio bianco, non tornare più indietro. Sarebbe
stato come dissolversi nell’aria, sciogliersi nell’acqua.
Mi chiesi se il paradiso assomigliasse a quel vuoto perfetto. Il
bianco non era, forse, la somma di tutti i colori?
Nel frattempo, avevo raggiunto, pur senza avere una meta precisa, i
cancelli del piccolo cimitero. Li varcai senza pensarci e rimasi
piuttosto sorpreso di scorgere una figura femminile che, dandomi le
spalle, spolverava con rapidi colpi di mano una piccola lapide.
In quei pochi minuti di cammino avevo iniziato a credere di essere
l’ultimo uomo rimasto al mondo. Forse per quello mi ero recato
proprio al cimitero: per assicurarmi che qualcuno, prima di me, fosse
esistito.
La donna aveva un fazzoletto legato sul capo, e fu solo
avvicinandomi e rendendo nota la mia presenza che potei
riconoscerla: era Adélaïde Borel, la moglie del maestro.
«Signora Borel…» mormorai, arrivando al suo fianco.
Era piegata accanto a una tomba che non avevo mai notato nelle
mie precedenti visite al cimitero.
«Don Agape» rispose lei, senza guardarmi. Con la mano ripuliva la
neve che, indifferente ai suoi sforzi, continuava a depositarsi sulla
pietra. Le sue dita erano blu.
«Forse dovreste tornare a casa, signora. Inizia a fare freddo, freddo
davvero, e tra non molto sarà buio».
«Non posso» rispose lei. «Martin non sopporta la neve» aggiunse,
senza smettere di accanirsi. Aspettava che la neve si depositasse in
una soffice coltre, prima di spazzarla via con un colpo furioso di
mano.
«Martin?»
«Il mio bambino non vuole essere dimenticato. Quando nevica,
resta qua, tutto solo. Nessuno pensa a lui, soltanto io».
Il cuore mi si strinse in una morsa gelida. Non avevo idea che i
Borel avessero perso un figlio. Guardai la moglie del maestro: era
gracile e rugosa, poteva essere molto in là con gli anni o solamente
invecchiata prima del tempo. Il dolore agisce così, l’avevo già visto
accadere: prosciuga di ogni gioia, non lasciando altro che solchi
vuoti; indurisce il cuore e gli occhi, sbiadisce i colori.
Con delicatezza allungai un braccio, prendendo la mano della
signora Borel tra le mie. Era umida e gelida. «Non vi preoccupate,
signora, Martin è con Dio in questo momento. Non soffre il freddo, e
nemmeno la solitudine. Il vostro amore lo raggiunge. Voi, invece,
avete le mani gelate. Lasciate che vi accompagni a casa, vostro marito
sarà in pensiero».
Finalmente Adélaïde Borel sollevò gli occhi nei miei. Erano
arrossati come sempre. La pelle del volto era esangue, e dal fazzoletto
che portava legato in testa spuntavano ciuffi di capelli grigi. Quel
bambino doveva essere con Dio da tempo, pensai di sfuggita,
avvolgendole le spalle con un braccio e conducendola oltre i cancelli
del cimitero. Lei si lasciò accompagnare, docile come una bambina,
gli occhi fissi nel vuoto.
In prossimità della casa in cui viveva con il marito, si fermò,
tornando in sé. «Don Agape…» mormorò, sbattendo le palpebre; le
sue ciglia erano incrostate di neve, «lei me lo ha portato via».
«Come dite?» domandai, senza capire di cosa stesse parlando.
Sembrava meno confusa di quanto mi era apparsa al cimitero, ma non
lucida.
«Lei, me lo ha portato via».
«Lei chi?» chiesi, nel silenzio rarefatto del tardo pomeriggio. Le
ombre iniziavano ad allungarsi attorno a noi, velando di oscurità il
volto della signora Borel, ma i suoi occhi apparivano sinistri e nitidi
nel viso pallido. La cornea bianca era attraversata da sottili venature
rosse.
«La strega» sussurrò, stringendo la mia mano, le dita simili ad
artigli di ghiaccio. «Me lo ha portato via».
Yann

Non andai da lei quella sera. Era sopravvissuta diciannove anni in


quel bosco, resistendo a tutto, come il muschio e i licheni che
infestano i tronchi degli alberi. Avrebbe trovato un modo per ripararsi
dalla neve e dal freddo, avrebbe fatto come le bestie selvatiche di cui
era amica. Era una strega, in fondo.
Mi trascinai sul soppalco, esausto, e mi lasciai cadere sul letto,
dove rimasi a fissare le travi del soffitto pensando a Marie. Non
riuscivo a ricordare di che colore avesse gli occhi. Castani o forse
azzurri... Non me ne importava niente. Posai i palmi sulle palpebre e
immaginai che il tetto svanisse. La neve mi ricopriva lentamente,
soffocando i pensieri che si agitavano nella mia testa.
Non ero mai stato un uomo riflessivo e non mi piaceva esserlo.
Riaprii gli occhi e mi misi a sedere, accendendo il lume a olio che
tenevo appoggiato per terra. Dopo qualche istante, mi sollevai e alzai
il materasso, prendendo il fascio di lettere che conservavo là sotto.
Le strinsi fra le dita tanto a lungo che la carta si piegò,
stropicciandosi.
Raphaël aveva scritto anche a me. Fogli pieni di parole confuse e
inchiostro sbavato. Avevo scorso ogni riga ansioso, il senso di colpa
che mi pesava addosso come una coperta bagnata. La sua voce muta
mi aveva fatto sentire inutile e impotente. Vuoto.
La scala di legno scricchiolò e, quando sollevai lo sguardo, vidi
Agnés che saliva tenendo fra le mani un piatto di minestra.
«Te l’abbiamo tenuta da parte» disse, rivolgendomi uno sguardo
preoccupato.
«Grazie, ma non ho molto appetito».
«Già» borbottò mia sorella, appoggiando il piatto vicino al lume e
sedendosi sul letto accanto a me. I suoi occhi si posarono sulle lettere
di nostro fratello. Allungò una mano, sfiorando la carta sottile e
rovinata con la punta delle dita. «Posso?» domandò, a bassa voce.
Gliele cedetti di malumore. Lei le sfogliò piano, soffermandosi con
lo sguardo sulla calligrafia curata con cui erano annotati gli indirizzi.
Raphael era stato uno scolaro brillante, avrebbe potuto diventare
qualcuno, lasciare la valle, quel luogo impervio che ti costringeva a
vivere con la forza delle braccia. Era migliore di noi, di me. Meritava
di più.
«Queste» mormorò Agnés, indicando le buste ancora sigillate
«sono le lettere che ha scritto a Fiamma». Sollevò lo sguardo nel mio,
e io mi costrinsi a non abbassarlo. «Avevi detto di averle gettate via».
«Sì. Ho detto così».
Mia sorella sospirò, poi scosse la testa: «Perché ti comporti in
questo modo, Yann?»
«In che modo?»
«In questo». Agnés mi mostrò le lettere. «Corri da lei, se sai che è
in difficoltà, ma le tieni nascosto il fatto che lui le abbia scritto».
«Corro da lei? Di che diavolo stai parlando?» Per un istante pensai
che mia sorella mi avesse letto nel pensiero. Come poteva sapere che
avevo considerato l’idea di riparare il tetto del capanno di Fiamma?
Poi mi resi conto che si riferiva ad altro. «Mi hai chiesto tu di
impedire a Blanche di ammazzare quella dannata volpe. Te lo sei
dimenticato? E comunque non l’ho fatto per lei, lo sai».
Agnés abbassò lo sguardo, accarezzando piano i bordi di carta.
«Resta il fatto che queste non sono tue, non hai il diritto di
appropriartene. Lui avrebbe voluto che lei le avesse».
Appoggiò le buste sul materasso e si sollevò. La zuppa si era
raffreddata. Agnés si piegò a prendere il piatto. «Questa la porto giù,
se dovesse venirti fame scaldala sul fuoco. Io vado a dormire». Si
voltò, poi sembrò ripensarci e tornò a guardarmi. «Oggi pomeriggio,
dove sei stato?»
«Giù in paese. Perché lo domandi?»
Lo sguardo di Agnés trasmetteva una sincera preoccupazione, ma
anche diffidenza: non si fidava delle mie parole, pensava le stessi
mentendo. Pensava che fossi andato nel bosco.
«Basile Blanche sta mettendo in giro voci spiacevoli…» disse.
«Può dire quello che vuole, per quanto mi riguarda. Non me ne
importa un accidente di quel bifolco ignorante».
Agnés si strinse nelle spalle. «D’accordo, Yann. Volevo solo
metterti in guardia. Buonanotte».
«Cosa pensi di Marie?» le domandai d’impulso, prima che se ne
andasse.
Mia sorella sbatté le palpebre. «Cosa penso di Marie? Non
capisco…»
«Come moglie».
«Vuoi… sposare Marie?» esclamò, sgranando gli occhi.
«Ci sto pensando, sì».
«È… una brava ragazza» disse infine, senza convinzione. «Alla
mamma piace».
«Ma?»
«Ma non ne sei innamorato».
La guardai scuotendo la testa. «Innamorarmi di una donna è
l’ultimo dei miei pensieri, Agnés. Non ho tempo per queste cose».
Mia sorella inspirò, poi lasciò andare piano il respiro. «Sei un
uomo, Yann, non spetta a me dirti quello che devi fare della tua vita.
Se vuoi sposare Marie, perché credi che sarà una buona moglie, che ti
aiuterà con il podere e saprà prendersi cura di te e dei figli che avrete,
fai bene. Lei, probabilmente, sarà all’altezza di queste aspettative.
Prima, però, devi portare quelle lettere a Fiamma».
Aggrottai la fronte, confuso. «Questo cosa c’entra, adesso?»
«Raphaël ci credeva, nell’amore».
«Raphaël aveva letto troppi libri».
«Sei così ostinato!» sussurrò mia sorella. «Sposa Marie, se vuoi,
ma non farlo per il motivo sbagliato».
«Che sarebbe?» chiesi scettico. Quella conversazione mi sembrava
un enorme spreco di tempo.
«Fuggire da ciò che vuoi davvero. Da ciò di cui hai paura».
«Non voglio niente, e non ho paura di niente».
«Sì, invece. Hai paura di dare quelle lettere alla persona cui sono
destinate, o l’avresti già fatto».
Mi morsi le labbra, passandomi una mano sugli occhi. «Sono
davvero stanco» dissi per porre fine al discorso.
«Certo, come vuoi. Ti lascio dormire».

Quella notte dormii poco e male. Se chiudevo gli occhi, vedevo la


neve cadere nella casa di Fiamma, sciogliersi tra i suoi capelli di
fuoco, coprirle le labbra e le palpebre fino a dissolvere i suoi
lineamenti. Nel sogno mi avvicinavo, piegandomi su di lei, e la
scrollavo per le spalle. Lei si passava una mano sul volto, e io mi
ritrovavo a guardare negli occhi di Raphaël.
«Mi hai dimenticato» diceva. La sua pelle era di cera, le labbra
livide.
«No, non ti ho mai dimenticato. Non ti posso dimenticare»
rispondevo, scuotendo la testa, nella gola un nodo difficile da
sciogliere.
«Ti ho scritto tante lettere, e tu non mi hai mai risposto» diceva
Raphaël, allungando una mano verso il mio viso, mentre la sua
fisionomia si scomponeva, tornando a essere quella di Fiamma. «Mi
hai dimenticato» ripeteva lei, sfiorandomi con le dita. Erano gelide.
«Ho freddo» sussurrava, mentre dalle sue labbra usciva una nuvola di
fiato pallido. I suoi occhi, fissi nei miei, avevano lo stesso colore del
bosco: verdi, orlati di marrone e riscaldati da pagliuzze dorate.
Conoscevo poche cose come conoscevo i suoi occhi.
Mi svegliai di soprassalto, portandomi una mano al volto, dove
ancora avvertivo con chiarezza il suo tocco. Poi scostai le coperte dal
letto.
«Al diavolo» borbottai, cercando gli scarponi. Non volevo
accendere il lume per non svegliare Agnés e mia madre. Era notte
fonda, ma sapevo che non sarei più riuscito a dormire. Tanto valeva
lavorare.
Lupo, che dormiva acciambellato davanti al camino spento, sollevò
la testa, quando mi vide scendere dalla scala, e batté la coda sul
pavimento.
«Andiamo, bello. Oggi la giornata comincia prima» dissi,
infilandomi il giaccone e il cappello di lana. Nella tasca riposi il
fascio di lettere che Raphaël aveva scritto a Fiamma. Non accettavo
che Agnés avesse ragione: io non avevo nulla da nascondere, non
c’era niente che mi spaventava. Se non avevo consegnato a Fiamma
quelle lettere, era solo perché non me ne importava nulla. Ero stato
ingiusto, sì, ma non avevo mai preteso di essere una brava persona.
Quando aprii la porta, venni accolto da un paesaggio che aveva
perso ogni riferimento.
Non nevicava più, ma ogni cosa era sommersa di bianco. Il cielo
era blu, rischiarato soltanto da un lieve albore dietro le creste delle
montagne, e la neve riluceva di un azzurro pallido e delicato. Mi resi
conto che non sarei andato da nessuna parte, se prima non avessi
spalato tutto quel maledetto ghiaccio.

Il sole stava calando all’orizzonte quando, infine, mi decisi a


incamminarmi sul sentiero che portava al bosco.
Era stata una giornata ventosa, e la neve era volata via,
volteggiando in mulinelli farinosi sulla cima degli alberi. Alcuni
ciuffi d’erba spuntavano dal bianco e, mentre avanzavo, gli accumuli
si staccavano dai rami, piombando a terra con un tonfo. Lupo mi
precedeva con la coda dritta, annusando il sentiero e divertendosi a
strofinare il muso nei mucchi di neve.
Conoscevo quella strada a memoria, ogni pietra, ogni corteccia
d’albero. Le betulle si confondevano con il paesaggio, bianco su
bianco. I cespugli di mirto e ginepro erano svaniti sotto quel manto
candido.
Il capanno di Fiamma apparve tra gli abeti e i larici. Il tetto era
ricoperto di neve e, con un po’ di apprensione, non scorsi nessun filo
di fumo tendersi dal comignolo. Quando arrivai davanti alla porta,
vidi un piccolo sentiero di impronte svanire nella foresta.
Sembravano appartenere a più di una persona. Lupo annusò tutto con
interesse, poi iniziò a uggiolare seduto di fronte all’uscio.
Conosceva quella casa, aveva accompagnato Raphaël svariate
volte, e conosceva la donna che vi abitava. A giudicare dai guaiti,
doveva essere ansioso di incontrarla.
«Traditore» bofonchiai. «Dovresti stare dalla mia parte, invece di
svilirti per lei».
Presi un respiro e bussai. Al diavolo i miei sciocchi propositi di
tenermi alla larga da quel luogo, non facevo che tornare sui miei
passi. Passò qualche secondo, in cui non avvertii alcun rumore
provenire dall’interno della casa. Con una certa sorpresa mi resi conto
di provare una lieve inquietudine. Un sottile senso di angoscia si fece
strada in me. Ero preoccupato per lei.
L’avrei chiamata, se avessi osato pronunciare il suo nome. Bussai
con più energia. Anche Lupo si era innervosito e camminava avanti e
indietro con impazienza.
Fiamma non rispose. Solo a quel punto mi decisi ad aprire l’uscio.
Gli incubi che mi avevano tormentato quella notte divennero più
vividi che mai. Immaginai di trovarla raggomitolata su se stessa,
rigida, le dita blu e le labbra violacee. Temetti di averla uccisa con la
mia noncuranza, con la mia stupida indifferenza.
Nemmeno per un momento pensai che non fosse in casa e, quando
appurai che era proprio così, mi sentii infinitamente stupido.
Mi ero fatto assalire dall’ansia, condizionare dal senso di colpa per
non averle riparato il tetto prima che iniziasse a nevicare.
Sollevai lo sguardo al punto in cui, qualche settimana prima, avevo
visto cadere la pioggia, e mi resi conto che era stato sistemato.
Qualcuno l’aveva aggiustato. Qualcuno che non ero io.
Era ovvio che lei non aveva bisogno di me. Non aveva mai avuto
bisogno di me, quella piccola serpe dagli occhi di bosco.
«Andiamocene, Lupo. Siamo stati due sciocchi a salire fin quassù»
borbottai accigliato.
L’unico sciocco sei tu, disse una voce dentro di me. Cosa credevi?
Che ti avrebbe aspettato e accolto il tuo aiuto con gratitudine? Quella
è una strega. Nient’altro che una piccola intrigante. Sarà venuto il
demonio in persona a riparare quel dannato tetto.
Ripresi in mano la cassetta degli attrezzi, che mi ero dato la briga
di portare fin lì, e feci per andarmene, quando mi ricordai delle
lettere. Esitante, le sfilai dalla tasca della giacca e le appoggiai sul
tavolo di legno ricoperto di erbe e bottiglie. Non mi sarei preso il
disturbo di tornare una seconda volta. Oltretutto, in quel modo, non
avevo nemmeno dovuto incontrarla. Un colpo di fortuna, tutto
sommato.
«Lupo, andiamo» chiamai il cane senza troppa convinzione. Il sole
era scemato, e l’aria si era fatta più scura. Gettai un’occhiata al fascio
di lettere.
Cosa le aveva scritto, Raphaël? La amava, sarebbe tornato da lei, se
avesse potuto.
Mi facevano male quelle lettere abbandonate sul tavolo. Le ripresi,
cercando con lo sguardo un posto migliore in cui lasciarle.
I miei occhi si spostarono per quell’angusto ambiente. Il camino
pieno di cenere, la poltrona dal sedile sfondato, il giaciglio di paglia e
coperte. Come si poteva vivere così? Se Raphaël fosse tornato,
l’avrebbe portata via da lì. Forse se ne sarebbero andati insieme. Lui
meritava di più, e lei lo avrebbe seguito.
Avvertii una morsa calda serrarmi i muscoli della gola. Faticavo a
respirare. Sarei comunque rimasto solo, ma immaginarlo lontano e
felice era pur sempre meglio che saperlo morto. Quanto a Fiamma…
Saperla con lui era una liberazione. Sarebbe stata sua, di Raphaël, e io
sarei riuscito ad arrendermi. Davanti all’evidenza, avrei imparato a
rassegnarmi.
Guardai di nuovo il tavolo. Quattro anni prima c’ero io, là sopra.
Fuori infuriava la tempesta. La montagna mi voleva, la morte mi
chiamava, ma quando avevo aperto gli occhi c’era una ragazzina
china su di me. I suoi occhi, i suoi capelli, il fiato caldo che scioglieva
il gelo dal mio volto. Le sue esili dita sulla mia pelle. A un passo
dalla morte mi aveva teso una mano, avvincendomi a sé. Non ero mai
stato così vicino a qualcuno, nemmeno alle donne che avevo
penetrato.
Quella notte lei aveva deciso il mio destino e si era presa il mio
cuore. Non avevo più amato niente e nessuno da allora. Niente e
nessuno, tranne lei. Lei e Raphaël, che la amava quanto la amavo io,
pur senza conoscerla quanto la conoscevo io. Perché io e lei avevamo
un segreto, e nessuno ti conosce meglio di chi condivide i tuoi segreti.
Mi sedetti sulla poltrona. La gamba mi faceva male, e sentivo un
dolore acuto nel petto. Sul bracciolo era abbandonato lo scialle di
Fiamma. Lo presi, affondando il volto nella lana infeltrita, e respirai il
suo profumo. Era il profumo del vento che spirava sulle creste
innevate, l’odore del sottobosco umido e ombroso. Quel sentore di
muschio e resina e terra bagnata. Era l’odore della vita. Qualcosa che
non mi apparteneva e che non avevo il diritto di desiderare. Lo
allontanai da me, lasciandolo cadere a terra.
Mi sollevai, riponendo le lettere nella tasca della giacca. Agnés
aveva ragione, ero un vigliacco. Quelle lettere non erano mie, ma non
volevo che le avesse Raphaël per un’ultima volta, mentre a me non
restava più nulla. Era meschino, ed egoista, ma non potevo farci
niente.
Me ne andai di corsa, di notte, come un ladro che scappa. Eppure,
ero io quello cui era stato rubato qualcosa, qualcosa che non mi
sarebbe stato restituito.
Fiamma

Sollevai lo sguardo su Tal che, in piedi sul tavolo, riparava il tetto


canticchiando tra sé, in una lingua sconosciuta.
«Cosa?» domandai, confusa.
«Ho un parente che corre senza gambe e fischia senza bocca, chi
è?»
Me ne stavo rannicchiata in un angolo, diffidente. Tal non
sembrava pericoloso, tutt’altro, ma la vita mi aveva insegnato a non
fidarmi degli sconosciuti. E, per me, erano quasi tutti sconosciuti.
«È un indovinello» spiegò Tal. «Allora, hai capito chi è?»
Scossi la testa, accigliata, ma anche incuriosita. Da quando Raphaël
se ne era andato, nessuno si era più rivolto a me in quel modo, con
quella leggerezza, quella semplicità.
«Il vento!» esclamò Tal, sorridendo. Aveva un sorriso che scaldava
il cuore e, mio malgrado, mi ritrovai a ricambiarlo.
«È un tuo parente, il vento?»
«Sì, di tutti gli zingari. Siamo i suoi figli, i suoi fratelli».
«Deve essere strano vivere così, sempre in viaggio, in movimento».
«Non potrei immaginare di vivere in un altro modo».
«Io non sono mai stata in nessun posto».
Tal tastò il tetto con i palmi, poi, appurato che aveva fatto un buon
lavoro, scese dal tavolo, rivolgendomi una lunga e intensa occhiata.
«A volte mi chiedo come facciate, voi sedentari. Come potete vivere
sempre nello stesso luogo, per tutta la vita? C’è un mondo intero,
oltre queste montagne. Non saresti curiosa di vederlo?»
Mi strinsi nelle spalle, cercando di non lasciargli intendere il mio
disagio. «Avevo un amico che voleva vedere il mondo. Un giorno se
ne è andato e non è più tornato».
Tal ripose gli attrezzi in una sacca di cuoio. «Non posso dargli
torto».
«È morto in guerra».
Il ragazzo zigano mi guardò. Il suo sguardo si era rabbuiato.
«Il mondo fuori è un lupo famelico» mormorai, abbassando gli
occhi.
«Il destino di ognuno è già scritto» fu il suo solo commento. «Non
si sfugge al Fato».
Su di noi calò un fragile silenzio, rotto alcuni secondi dopo da Jago
che si affacciava alla porta del capanno. Indossava un maglione
sbrindellato, e i suoi capelli erano arruffati e spolverati di neve. «Hai
finito, Tal? La Puri Dhai dice che devi tornare subito: il bambino sta
nascendo!»
Tal sgranò gli occhi, e mi parve di vedere un lampo di paura
passare nel suo sguardo.
«Andiamo» disse sbrigativo, rivolto al fratello.
«Rhian dice che deve venire anche la Kechali» affermò Jago,
indicandomi con un cenno del capo. Nei suoi occhi di inchiostro si
mescolavano timore e curiosità. I miei capelli, soprattutto,
sembravano intimidirlo e attrarlo allo stesso tempo. Forse era il colore
o forse soltanto il fatto che li portavo sciolti; nessuna donna zingara
scioglieva a cuor leggero la propria folta chioma: i capelli erano
intrisi di magia che andava preservata, che non poteva essere
dispersa.
«Non possiamo obbligarla» rispose Tal, senza guardarmi. «Se
vuole accompagnarci, ci seguirà. Ora andiamo».
Uscì dal capanno, tallonato da Jago che continuava a voltarsi verso
di me, per controllare se li stavo seguendo. Non mi ci volle molto a
prendere la mia decisione. Nella fretta dimenticai di gettarmi lo
scialle sulle spalle.
Attraversammo il bosco innevato a passo sostenuto. La neve mi
entrava negli zoccoli, inzuppandomi l’orlo del vestito, ma non
rallentai l’andatura. Tal, davanti a me, si muoveva rapido, la schiena
dritta, il mento proteso in avanti. Stava per diventare padre, la
giovane e graziosa ragazza incinta che avevo visto all’accampamento
doveva essere sua moglie.
Raggiungemmo il ruscello e iniziammo a costeggiarlo; nessuno
parlava, e il silenzio ci avvolgeva come una fredda coperta. L’acqua
scorreva sotto il ghiaccio e non faceva rumore.
Nella radura in cui gli zingari si erano accampati la neve era stata
spalata e, vicino agli alberi, era stata piantata una tenda, discosta dai
carrozzoni.
Tal si avviò in quella direzione, ma si arrestò dopo pochi passi.
Attorno alla tenda era stato tracciato un cerchio sul terreno, e vidi che
nessuno osava attraversarlo. L’aria era pervasa da gemiti e lamenti, la
donna doveva essere in travaglio. Davanti all’ingresso della tenda
c’era un’altra donna. Stava in piedi, indifferente a quelle grida
strazianti, e salmodiava a bassa voce. Rimasi impietrita davanti a
quella scena.
Mia madre era una guaritrice e aveva aiutato più di una donna del
villaggio a dare alla luce un figlio. Nessuno lo diceva, ma tutti lo
sapevano. Vivienne era considerata foriera di sfortuna e amica del
diavolo, ma davanti alla sofferenza di una moglie con le doglie gli
uomini del villaggio preferivano sfidare la sorte e venire a bussare
alla nostra porta, piuttosto che assistere impotenti alla vita che si
faceva strada fra le tenebre. Mia madre non si era mai tirata indietro.
Si avvolgeva nello scialle, riponeva nel cesto le erbe utili a placare il
sangue e il dolore e scendeva al borgo.
«Fiamma».
Mi voltai e vidi Rhian avvicinarsi. Il suo volto era teso, ma riuscì
comunque a regalarmi un sorriso. «Sta nascendo il mio primo nipote»
disse in un sussurro.
«Cosa fa quella donna?» domandai, indicando la zingara che
recitava quelle che mi parevano formule e preghiere, anche se in una
lingua che non comprendevo.
«È una maga. Attira sul neonato buona sorte, fortuna e salute»
rispose lui.
«La madre sta soffrendo. Qualcuno deve aiutarla» dissi.
«Nessuno può toccarla a causa delle impurità che ogni nuova
nascita porta con sé. Nessuno di noi» specificò, facendomi intendere
che una persona estranea al loro clan avrebbe potuto farlo. Per questo
mi aveva voluto lì: conosceva Vivienne e sperava che io fossi come
lei, che avessi appreso i suoi segreti. Ero sua figlia, dopotutto.
Mi feci avanti, varcando il cerchio, e passai accanto alla maga,
piegandomi per entrare nella tenda. La partoriente aveva la schiena
inarcata e i gomiti piantati nel terreno. Guaiva come un cucciolo di
lupo. Mi inginocchiai al suo fianco e le scostai i capelli sciolti dalla
fronte umida di sudore.
Lei mi guardò con un misto di paura e sconcerto. «Sei una delle
Ourmes?» mi domandò, ansimando.
Scossi la testa. Non avevo idea di che cosa stesse parlando.
«Voglio solo aiutarti». Le posai una mano sul ventre teso e rigonfio e
sentii il bambino muoversi. «Come ti chiami?»
«Rose».
«Rose, andrà tutto bene» mormorai, accarezzandole piano una
spalla. L’avevo visto fare a mia madre, lei sapeva dare conforto, e io
speravo di riuscire a trasmetterne un po’ a quella ragazza giovane e
spaventata.
«Se non sei una delle Ourmes, chi sei?»
«Una donna, come te. Mi chiamo Fiamma».
Rose gettò indietro la testa emettendo un lamento strozzato.
Accanto a lei era posata una ciotola di latte e avena con tre cucchiai
infilati dentro. Le gettai un’occhiata sospettosa, che non sfuggì alla
ragazza zigana.
«Quella è per le Ourmes. Sono le dee del destino che verranno a
decidere la sorte del bambino…» Una contrazione le fece storcere il
viso in una smorfia di dolore.
Fuori della tenda la maga continuava a salmodiare riti e formule.
«Parlami di queste Ourmes» dissi per distrarla dal tormento.
«Hanno capelli intessuti di nebbia, e non bisogna contrariarle, dato
che sono molto permalose…»
Mentre Rose, fra un gemito e l’altro, mi raccontava delle fate
capricciose in grado di influenzare la vita degli uomini, mi piegai
davanti a lei. Iniziava a vedersi la testa del bambino.
Venne al mondo viscido e ricoperto di sangue, un maschio urlante
e paonazzo, con una folta nuvola di capelli corvini sul capo. Mentre
la madre riprendeva fiato, tagliai il cordone ombelicale e portai il
bambino all’esterno, dove venne prelevato dalle mie mani per essere
immerso in una conca di rame colma di neve fatta sciogliere sul
fuoco.
Quando fu compiuto il rito di purificazione il piccolo, che aveva
smesso di piangere e aveva gli occhi sgranati per lo stupore, venne
avvolto in fasce macchiate di sangue. Quel sangue era di Tal, che in
quel momento si stava pulendo con un panno il palmo su cui aveva
praticato una ferita superficiale.
«Sta rendendo noto che quello è suo figlio» bisbigliò Rhian al mio
fianco «sangue del suo sangue. Crea il primo legame tra loro, gli
trasmette la sua forza e la sua saggezza».
«Perché non lo prende in braccio?» domandai, dopo aver notato
che Tal, pur sembrando desideroso di stringere il figlio neonato fra le
braccia, si manteneva a debita distanza.
«Teme di rubargli l’anima. Finché il bambino non sarà battezzato,
è meglio così».
«E Rose?» chiesi, pensando alla ragazza che avrebbe partorito da
sola, se non fossi stata al suo fianco, e all’isolamento in cui si trovava
in quel momento di grande fragilità.
«Rose dovrà rimanere esclusa fino a quando non sarà purificata. Ci
vorranno diversi giorni».
Guardai il bambino che veniva passato di mano in mano. Ognuno
di loro mormorava qualche parola di buon auspicio, ma stavano tutti
attenti a non approfondire il contatto con quella nuova vita che
arrivava direttamente dall’oblio. Una scintilla di luce strappata al buio
e al nulla.
Quando ognuno di loro ebbe augurato la buona sorte al nuovo
arrivato, il bambino venne depositato nelle braccia di Rhian, che gli
rivolse una lunga occhiata compiaciuta. «Sei nato sopra una
montagna, e il tuo nome sarà Aerv. Benvenuto tra noi, Aerv».
Gli zingari lo acclamarono a gran voce, chiamandolo con il nome
che gli era stato assegnato, dopodiché il piccolo Aerv fu riportato
dalla madre per la prima poppata. Vidi Tal scrutare la moglie da
lontano, senza azzardarsi a oltrepassare il cerchio nel terreno. Il suo
sguardo bruciava di amore e desiderio. Sarebbero passati giorni prima
di potere riabbracciarla.
Fui costretta ad abbassare gli occhi. Quel sentimento mi faceva
male. «Cosa significa Aerv?» domandai a Rhian.
«Colui che guarda dal di sopra».
Annuii pensierosa. Avevo ancora le mani umide del sangue del
bambino e le ripulii immergendole nella neve. La donna che Rhian
aveva definito maga continuava a salmodiare preghiere.
«Andrà avanti tutta la notte, per ingraziarsi le Ourmes» mi spiegò
Rhian. «Quando il sole sorgerà, conficcherà un ago nel suolo e, dopo
tre giorni, controllando il grado di corrosione, conosceremo il destino
del bambino. Sapremo quanta sfortuna dovrà sopportare nella vita».
«Siete davvero convinti che tutto sia già scritto prima? Che al
destino non si sfugga?»
«Sì, è così Fiamma. Se non avessimo almeno il Fato in cui credere,
la nostra vita sarebbe fatta soltanto di incertezza. Non sappiamo dove
siamo diretti, non abbiamo sicurezze. Il dubbio è l’unica verità che
conosciamo. Il futuro è sulla stessa strada del passato: ogni cosa ci
viene offerta già compiuta».
Gli rivolsi un’occhiata penetrante. I suoi occhi sembravano
conoscere molti segreti, erano pozzi pieni di meraviglia, ma anche
abissi di dolore.
«Tu conosci molte cose, Rhian. Sei un uomo saggio».
«Anche tu sei una donna di grande saggezza, Fiamma, e ti
ringrazio per quello che hai fatto questa notte. Tua madre sarebbe
orgogliosa di te».
Lasciai passare qualche istante prima di rispondere: «Dalle tue
parole intuisco che dovevi conoscerla bene, e ti invidio per questo. Io
non so nulla di lei, prima di me. Non mi ha mai raccontato niente del
suo passato».
Rhian sorrise. «Forse perché la sua vera vita è iniziata con te».
Mi strinsi nelle spalle e sollevai il volto al cielo. Iniziava a
schiarire, le montagne erano avvolte da un sottile alone luminoso.
L’alba era prossima. «Sarà meglio che torni a casa».
«Non vuoi fermarti con noi?» mi domandò Tal, spuntando alle mie
spalle. «Festeggeremo l’arrivo di mio figlio. Balleremo e canteremo e
chiederemo alle fate di concedergli una vita fortunata».
Rhian gli posò una mano sul braccio. «La ragazza è stanca.
Lasciamo che vada a riposarsi. Stanotte ha fatto molto per noi».
Mi avvolsi le braccia intorno al corpo. Avevo freddo, mi sentivo
indolenzita e svuotata, come se quel bambino che avevo aiutato a
venire al mondo si fosse aggrappato alla mia anima e l’avesse scucita,
nel tentativo di restare congiunto al buio da cui proveniva. «Posso
farti una domanda, Rhian?»
Lui annuì.
«Cosa significa il tuo nome?»
Rhian sorrise, i denti bianchi che spiccavano sulla pelle scura.
«Fuoco. Il mio nome significa fuoco».
Lo guardai dritto negli occhi. «Abbiamo lo stesso nome».
Lui sospirò. «Tua madre, Vivienne, era una donna piena di luce.
Anni fa le chiesi di venire con noi, ma non volle partire. Ora so
perché: tu appartieni a questo posto. Ci sono persone destinate a fare
del mondo la loro casa e altre radicate a fondo in un luogo. Tu sei
come un fiore della valle, non puoi sopravvivere altrove. Vivienne
questo lo sapeva. Le tue radici sono qui, Fiamma».

Camminai piano nel bosco innevato e silenzioso. Oltre le montagne si


stagliava una sottile striscia purpurea, le cime degli alberi erano nere
contro il cielo livido. Prima di raggiungere il capanno mi fermai a
osservare l’alba che a fatica si faceva strada in mezzo alle tenebre.
Guardai le creste innevate che da diciannove anni riempivano i miei
occhi ogni volta che alzavo lo sguardo. Non avrei saputo immaginare
un orizzonte sgombro, un paesaggio che non comprendesse quei
profili familiari: il Gran Golliaz, il colle del Gran San Bernardo e il
maestoso Mont Velan. Cattedrali a cielo aperto, giganti di roccia con
un’anima propria.
Rhian aveva ragione: non me ne sarei mai andata. Ero il bosco e il
ruscello che lo attraversava, ero la roccia ferrosa e il ghiaccio del
valico. Conoscere le mie origini aveva poca importanza davanti a
quella realtà. La mia casa era lì.
Pensai ad Aerv, che era nato tra le montagne, ma forse di quei
luoghi non avrebbe conservato alcuna memoria. Pensai alla vita
errabonda degli zingari, alla loro esistenza raminga, priva di confini e
di punti fissi. E poi pensai a Raphaël, al giorno in cui mi aveva detto
che sarebbe partito, il dispaccio con la chiamata alle armi stretto nella
mano e un sorriso mesto stampato sul volto.
«Vado a fare il mio dovere. Forse riuscirò a vedere anche un po’ di
mondo. Sarà una guerra tanto breve che nemmeno ti renderai conto
della mia assenza; dicono che durerà pochi mesi, con l’inverno sarà
finito tutto».
Cercava giustificazioni, voleva mascherare l’entusiasmo che,
nonostante tutto, gli faceva immaginare quella partenza come l’inizio
di un’avventura esaltante; qualcosa di molto diverso dalla vita
monotona e faticosa di tutti i giorni.
Ero rimasta in silenzio, le mani immerse nel ruscello dove stavo
sciacquando la lana che un contadino ci aveva portato, per
ringraziarci di un filtro che io e mia madre gli avevamo procurato.
L’acqua fredda mi aveva intorpidito le dita, faticavo a muoverle.
«Forse nemmeno ti mancherò. Hai altro cui pensare adesso, o
sbaglio?» Il suo tono di finta noncuranza mascherava una sottile
traccia di rancore.
«Non capisco di cosa parli» avevo replicato, strizzando la lana e
posandola nel cesto accanto a me.
Raphaël si era piegato al mio fianco, scostandomi una ciocca di
capelli e sussurrandomi all’orecchio: «Lo sai benissimo di cosa parlo,
ma lui se ne frega di te. Non si ricorda nemmeno il tuo nome. Adesso
che ha ricominciato a camminare non ti insulta nemmeno più. Se ti
chiama, si riferisce a te come “la strega”. È fatto così, mio fratello. Ha
una pietra al posto del cuore».
Mi ero scostata infastidita, alzandomi con il cesto in mano. «Mi
stai dando noia, Raph. Se ci tieni a saperlo, nemmeno io ricordo il
nome di quel villano di tuo fratello».
Raphaël aveva fatto un passo indietro, scrutandomi sospettoso.
Sapeva. Lui sapeva.
Io, però, non avevo nessuna intenzione di confermare i suoi dubbi.
Lo superai, incamminandomi nel bosco. Non volevo guardarlo negli
occhi. Non volevo che se ne andasse, eppure, allo stesso tempo,
desideravo che mi lasciasse in pace, che mi permettesse di custodire i
miei segreti. Non ne avevo mai avuti per lui, ma all’improvviso era
diventato tutto più complicato tra noi.
L’amore sa essere oscuro e confuso. Un labirinto tortuoso in cui
viene smarrita ogni razionalità.
«Credevo che non mi avresti mai mentito, che non fossi capace di
mentire. Invece, lo fai, e anche piuttosto bene» disse la sua voce alle
mie spalle.
Continuai a camminare, nonostante tutto. Continuai a camminare
anche quando mi afferrò per una spalla, costringendomi a voltarmi
verso di lui. Un gesto talmente brusco che il cesto mi cadde di mano.
La lana umida si rovesciò per terra, macchiandosi di fango e aghi di
pino.
«Lasciami» sibilai, guardando Raphaël dritto negli occhi. Erano
azzurri come il cielo, ma in quel momento promettevano tempesta.
Non avevo paura di lui, non ne avevo mai avuta, se non il giorno
del nostro primo incontro, e solo per un attimo. Raphaël e io,
crescendo insieme, avevamo diviso ogni cosa, sconfinando l’una
nell’altro e viceversa, mescolandoci al punto che risultava difficile
stabilire dove finiva l’una e iniziava l’altro. Eppure, in quel momento,
eravamo distanti come mai prima, e quella distanza era destinata ad
aumentare ancora.
«Ammettilo: da quella notte è cambiato tutto» sbottò lui, senza
smettere di guardarmi. «Sei innamorata di lui? Di mio fratello?»
gridò, stringendomi il polso con cui mi teneva avvinta a sé tanto da
farmi male.
«Vai al diavolo» replicai, cercando di divincolarmi con uno
strattone. «Ti rendi conto di quello che stai dicendo?»
«Perfettamente» rispose lui. Il suo fiato caldo mi colpiva la fronte e
le guance. Mi fissò ancora per un istante, poi mi strinse a sé e
premette le sue labbra contro le mie. Mentre mi dibattevo per
liberarmi, sentii la sua lingua cercare di aprirsi un varco per insinuarsi
nella mia bocca.
«No…» dissi, ritraendomi e cercando di allontanarlo da me.
Raphaël mi riafferrò, torcendomi il polso tanto da farmi urlare dal
dolore.
«Lui sì e io no? Vi ho visti» mormorò, le labbra schiacciate su un
angolo della mia bocca, tanto che la voce gli uscì come un mugolio.
«Vi ho visti quella notte».
Lo spinsi via, ansimando, e lo guardai disgustata. Quello non era il
mio Raphaël. Sentii le lacrime fare pressione negli occhi.
Lui ricambiò la mia occhiata. Sembrava sorpreso da se stesso,
come se non si aspettasse di essere capace di fare una cosa del genere.
«Io…» balbettò.
Mi portai una mano al polso. Faceva male, troppo. Mi voltai e corsi
via.

Entrata nel capanno mi accorsi subito che qualcuno era stato lì. Per
terra, vicino alla porta, era posata una cassetta che conteneva degli
attrezzi. Il mio cuore accelerò i battiti, e lo odiai per quel suo stupido
sperare, per quella ostinata incapacità di arrendersi, nonostante tutto.
Chiusi gli occhi e immaginai Yann aggirarsi silenzioso nella mia
casa; era venuto per riparare il tetto, inutilmente. Alla fine, quando il
coraggio aveva avuto la meglio sul disprezzo, era tornato e aveva
capito che quello che gli avevo detto l’ultima volta che ci eravamo
guardati negli occhi era vero: non avevo bisogno di lui, potevo
cavarmela da sola, ero in grado di sopravvivere.
Non sarebbe più tornato.
Mi avvicinai al camino. Lo scialle, che ricordavo di aver lasciato
sulla poltrona, era per terra. Lo raccolsi e me lo strinsi addosso;
odorava di tabacco. Affondai il volto nella lana e cercai di respirare il
suo odore, quel poco che aveva lasciato di sé.
La sua pelle non la potevo dimenticare. Mi si era impressa addosso,
e non riuscivo a scrollarla via. Ci avevo provato a odiarlo. Lui, in
fondo, mi odiava con facilità. Ma ogni tentativo era vano. L’odio
tornava da me trasformato in amore, come quei cani che, anche se li
scacci a calci, non smettono di scodinzolare, le orecchie basse e lo
sguardo fiducioso.
Mi chiesi se anche Raphaël avesse cercato di odiarmi. Se, mentre
affondava tra il fango e la cenere, avesse provato a lasciar scivolare
via il mio nome e il mio volto. Se nei suoi ultimi istanti mi avesse
pensato, maledicendomi.
Non mi aveva mai scritto, e io non mi sarei mai perdonata di non
aver voluto ascoltare le sue ultime parole, perché prima di partire era
venuto a scusarsi, a chiedermi perdono, e io, chiusa nel mio orgoglio
ferito, l’avevo lasciato andare via senza pensare che avrei potuto non
vederlo mai più.
Agape

Le dita strette ai fogli su cui don Jacques aveva annotato gli appunti
per il mio sermone, guardai i fedeli radunati tra quelle spoglie pareti
grigie e deglutii.
La chiesa era fredda e il fiato usciva dalle bocche come un esile
sbuffo di fumo. Seduti sulle panche mi osservavano con il mento
alzato e l’espressione indifferente. Non gli importava davvero quello
che avevo da dire; volevano solo tornare a casa e riscaldarsi, avevano
i loro pensieri, le loro preoccupazioni, cose reali, non astratte come
quel Dio che tutte le settimane si riunivano per pregare. Quel Dio che,
spesso, rimaneva sordo alle loro accorate suppliche.
Da due giorni aveva ricominciato a nevicare. Il cielo si era fatto
opaco e nebuloso, le montagne erano svanite nella foschia e persino il
bosco sembrava essere scomparso sotto tutto quel bianco, da cui non
spuntavano altro che rami scuri e sparuti.
Mi schiarii la voce e abbassai lo sguardo ai caratteri obliqui e
affilati che don Jacques aveva vergato sulla carta, senza lasciare la
minima sbavatura.
«Dal Libro del profeta Daniele» esordii, il fiato che mi tremava fra
le labbra. «“Signore, Dio grande e terribile, che conservi il patto e la
benevolenza a coloro che lo amano e che custodiscono i suoi
comandamenti! Abbiamo peccato, abbiamo commesso colpe, siamo
stati empi; ci siamo ribellati e ci siamo allontanati dai tuoi
comandamenti e dai precetti. Non abbiamo ascoltato i tuoi servi, i
profeti che hanno parlato nel tuo nome ai nostri re, ai nostri capi, ai
nostri padri e a tutto il popolo della terra. A te, Signore, la giustizia e
a noi la vergogna sul volto…”» Mandai giù un groppo amaro. Don
Jacques aveva improntato l’omelia sulla paura e sul terrore che Dio
poteva, e doveva, incutere nel cuore dei peccatori: «“Dio, grande e
terribile…”»
Sollevai gli occhi dal pulpito. Gli abitanti di Saint Rhémy se ne
stavano immobili e avvizziti nei loro cappotti consunti, negli scialli di
lana rigida, pallidi, le labbra serrate, gli sguardi bassi. La loro
apparente docilità era terrificante.
Don Jacques, seduto accanto all’altare, teneva come al solito gli
occhi chiusi e le dita artigliate al pomo del bastone. Quando si rese
conto che indugiavo, sollevò le palpebre, rivolgendomi un’occhiata di
rimprovero per intimarmi di proseguire.
Scossi la testa e posai le mani sui fogli, nascondendo le parole che
aveva voluto impormi, credendo che non avessi la sua stessa forza
persuasiva, la sua capacità di penetrare nella mente di quella gente
semplice, per cui avere fede in Dio significava credere che la vita non
fosse tutta lì, in quel luogo impervio esposto alle intemperie, dove per
vivere occorreva avere un coraggio che andava ben oltre le proprie
forze. Parole piene di acredine e di avversione verso chiunque osasse
scostarsi dalle leggi divine.
«Dio» dissi, raddrizzando la schiena «Dio è nei dettagli».
La mia voce assunse un tono diverso, e i fedeli se ne resero conto.
Sollevarono la testa, osservandomi perplessi.
In quel preciso istante mi accorsi che volevo la loro attenzione.
Fino ad allora mi ero nascosto, avevo sperato di passare inosservato,
mi ero sottratto ai compiti per cui mi sentivo inadeguato. Non era
forse quello il motivo per il quale mi ero rifugiato lassù, in un
minuscolo paese abitato da poche anime?
Cercavo un modo per sfuggire a me stesso, alle scelte che avevo
compiuto senza esserne appieno consapevole. La mia famiglia mi
aveva ceduto al Signore sperando di ricevere in cambio un po’ di
gloria mondana, di vedermi assegnato a un ruolo di prestigio in
ambito ecclesiastico. Grazie alle conoscenze dello zio anche uno
come me, che non aveva mai dimostrato particolari attitudini in nulla,
poteva ambire a fare carriera. Invece, li avevo delusi, di nuovo. La
mia decisione di diventare il curato di una piccola parrocchia di
montagna, che io millantavo come un atto di coraggio e dedizione,
non era altro che l’ennesimo tentativo di sfuggire alla mia vita. Cosa
avevo fatto in quei mesi di volontaria reclusione lassù, se non tentare
di convertire una donna che aveva molta più fede di quanta ne avessi
io stesso? Non erano forse le sue parole che mi venivano in aiuto in
quel momento?
Dio, il Dio che abitava nel mio cuore, era molto diverso da quel
Dio inflessibile e vendicativo che animava e pervadeva i discorsi di
don Jacques.
«Dio ci insegna la misericordia» esclamai, tendendo una mano ai
fedeli. «Primo: non giudicare. Sforziamoci di essere imparziali, di
mettere a tacere i giudizi. Anche se siamo responsabili di qualcuno,
non dobbiamo mai giudicare le sue intenzioni; non sappiamo quali
siano i suoi sentimenti profondi, e il segreto del suo cuore non
appartiene che a Dio. Condannare è ancor peggio: è dare un giudizio
definitivo. Evitiamo la più piccola condanna, nelle nostre parole e nei
nostri gesti. Al contrario, sforziamoci sempre di assolvere, di scusare,
di rimettere a ciascuno il suo debito; cerchiamo di perdonare sempre e
riceveremo anche il perdono del Padre. È così che verrà il regno di
Dio “come in cielo così in terra”».
Guardai gli abitanti di quel piccolo villaggio, a uno a uno: Lucien
Borel e sua moglie, che sedevano l’uno accanto all’altra, grigi e
stanchi. La vita li aveva privati di molto, aveva agito su di loro in
maniera imperscrutabile. Corinne Rosset e sua figlia Agnés, rimaste
sole a presenziare alla messa; Corinne, con un figlio morto in guerra e
l’altro incapace di lasciare andare il gomitolo di dolore che gli
opprimeva il petto, che gli impediva di guarire, di tornare a vivere.
Chissà dov’era in quel momento Yann Rosset, che con Dio non
voleva avere più nulla a che fare. I miei occhi si spostarono su Marie,
nelle prime panche. Mi guardava con aria preoccupata, cercando di
ammonirmi con lo sguardo: don Jacques non era contento di me e,
quando don Jacques non era contento, il suo malumore si riversava su
di lei. Lei, però, quel giorno, non aveva nessuna intenzione di farsi
guastare il buon umore. Quel pomeriggio Yann l’avrebbe portata a
fare una passeggiata, forse le avrebbe chiesto di sposarlo. Poco
distante da Marie sedeva Basile Blanche, che aveva lo sguardo
bovino e si puliva le unghie con la lama di un coltellino che
dall’inizio della funzione si era rigirato incessantemente fra le mani.
Presenziava in chiesa perché era quello che qualunque buon cristiano
avrebbe fatto, ma non aveva mai ascoltato una parola né mormorato
una preghiera.
Quello era il mio gregge, loro erano una mia responsabilità.
Giurai a me stesso che non mi sarei più lasciato influenzare da
nessuno e finii la messa nel silenzio più assoluto. Per la prima volta,
da quando dicevo la messa a Saint Rhémy, avevo la loro totale
attenzione.

«Vedo che vi siete preso… parecchia libertà» disse padre Jacques


avvicinandosi, mentre riponevo il calice e le ostie nel tabernacolo.
Cercai di mantenermi tranquillo. Mi sentivo più forte di lui. L’abito
da sacerdote, in fondo, lo indossavo io. «Sì. Ho letto con molta
attenzione il vostro sermone e vi ringrazio per aver avuto la
gentilezza di scriverlo per me, ma ho giudicato opportuno spaziare su
altri… temi».
«Certo. Avete fatto bene». Strinse le labbra tanto che sembravano
una ferita purpurea sul suo volto appassito. Non mi faceva più paura,
come all’inizio. Mi sembrava soltanto molto vecchio, e solo anche.
Un faraglione indomito che non si sarebbe piegato di fronte a nessuna
tramontana.
Si allontanò zoppicando, e io seppi che non avrebbe perdonato la
mia presa di posizione. Me l’avrebbe fatta scontare, in un modo o
nell’altro. Don Jacques avrebbe ceduto le armi solo il giorno in cui
avrebbe reso l’anima al Signore.
Il borgo, fuori della chiesa, era svanito sotto una coltre bianca.
Sulla strada principale si diramava una scia di impronte che si
perdevano nei vicoli. I parrocchiani erano tornati alle rispettive
abitazioni, alla loro vita priva di sconti e di certezze. Solo uno mi
aspettava, immobile nella neve.
Scesi gli scalini della chiesa e mi affiancai a Lucien Borel.
«Ho trovato davvero ispirate le vostre parole di oggi, signor
curato» disse, dopo alcuni secondi in cui passeggiammo in silenzio,
l’uno accanto all’altro.
Quando, qualche giorno prima, avevo accompagnato a casa una
confusa e infreddolita signora Borel, il maestro di Saint Rhémy si era
limitato a ringraziarmi e a mormorare qualche imbarazzata
scusa. Non avevamo più affrontato l’argomento, e io sospettavo che il
suo indugiare dipendesse dal fatto che desiderava parlarne con me.
Gli lasciai il tempo necessario a radunare le idee, o forse soltanto a
trovare il coraggio di esprimersi.
Raggiungemmo i cancelli del piccolo cimitero. Le lapidi erano
ricoperte di neve, anche quella di Martin Borel.
Lucien lanciò un breve sguardo alla tomba del figlio, poi scosse la
testa e si voltò a guardarmi. «Mia moglie non riesce a farsene una
ragione» disse, espirando una nuvola di fiato tiepido. Sulla tesa del
cappello erano radunati tanti piccoli cristalli di ghiaccio.
«Ci sono cose contro cui la ragione nulla può. È il cuore quello che
deve abituarsi a battere senza un pezzo».
Il maestro sospirò. «L’inverno vi ha reso più saggio, reverendo. È il
vostro primo inverno nella valle?»
«Sì».
Annuì, come se sapesse qualcosa che io non avevo ancora
scoperto: «L’inverno, qui, ti cambia. Ti spezza le gambe o ti rende
più forte. Nessun inverno è come quello delle Alpi. Chiunque dica di
aver visto un inverno più rigido, mente».
«Me ne sto accorgendo».
Lucien Borel posò una mano sull’inferriata arrugginita del
cancello. Da quando aveva ricominciato a nevicare, nessuno era più
entrato nel cimitero. La neve, fra le tombe, era soffice e compatta,
intonsa.
«Se fosse stato ancora vivo, Martin avrebbe avuto venticinque
anni» disse il maestro. «Era un bambino splendido. Curioso e
intelligente, e buono anche. Be’, probabilmente tutti i genitori lo
dicono dei figli, ma lui…» La voce gli si incrinò. Scosse la testa,
distogliendo lo sguardo. «Polmonite. Come vi dicevo, l’inverno qui è
impietoso. Se non sai resistergli, se non ti opponi alla sua morsa, non
ti risparmia».
«Mi dispiace» dissi, addolorato.
«Sono passati tanti anni…»
Sì, considerai, erano passati tanti anni, dunque non mi spiegavo in
alcun modo le parole di Adélaïde Borel a proposito di quella che lei
definiva «la strega»: Fiamma non era ancora nata, e Vivienne doveva
ancora arrivare a Saint Rhémy, quando Martin Borel se ne era andato
per sempre.
In paese avevo scoperto che la madre della ragazza dai capelli rossi
era stata la domestica di don Jacques, prima di abbandonare la
canonica per trasferirsi in quel capanno nel bosco. Era incinta, ma
non aveva mai rivelato a nessuno chi fosse il padre del bambino che
portava in grembo. La gente diceva che si trattava di uno zingaro o
del diavolo in persona. A ogni modo, dubitavo che la madre di
Fiamma avesse qualcosa a che fare con il figlio dei Borel.
«Me lo ha portato via» aveva detto la moglie del maestro, ma con
molta probabilità non era lucida in quel momento, straparlava.
«Siete poi riuscito a parlare con Fiamma?» domandò in quel
momento Lucien, quasi mi avesse letto nel pensiero.
«Sì, ma non ne ho ricavato granché. È una donna piuttosto…
ostinata».
Un sorriso passò sul volto del maestro. «Sì, lo è. Ostinata.
Coraggiosa anche. Vive lassù tutta sola… L’inverno non la spaventa.
Non spaventava nemmeno sua madre».
Mi voltai verso di lui. Il volto, ora stanco e segnato dall’età,
conservava ancora tracce dell’uomo che doveva essere stato: mascella
volitiva, naso dritto e sguardo gentile. Le sopracciglia e i capelli
erano candidi come la neve che ci circondava. Doveva averli avuti
biondi, perché il loro candore tendeva al giallo. Gli occhi, di un
azzurro chiaro e limpido, custodivano una scintilla di malinconia, un
dolore mai sopito. O forse un segreto.
«Dovreste tornare da vostra moglie, monsieur Borel. Non lasciatela
sola troppo a lungo…»
Lucien Borel mi rivolse uno sguardo che, lì per lì, mi sembrò
alterato, come se gli avessi appena fatto un torto. «Non l’ho mai
lasciata sola, mai. Lei ha bisogno di me, non posso lasciarla sola. Lo
avete visto voi stesso quanto è fragile, quanto…» Scosse la testa.
«Non l’ho mai lasciata sola» ripeté, togliendosi il cappello e
spolverandolo dalla neve. Se lo rimise in testa e, dopo aver rivolto
un’ultima occhiata alla tomba del figlio, mi salutò con un breve cenno
del capo. «Arrivederci, signor curato, e state attento all’inverno: sa
essere implacabile, da queste parti».

Quando arrivai alla canonica, non rimasi sorpreso di trovare Yann


Rosset che aspettava Marie, la schiena addossata alla staccionata
ricoperta di neve e la pipa fra le labbra. Indossava un giaccone
consunto e scarponi pesanti. I fiocchi gli sbattevano contro il volto,
infiltrandosi nella barba. Non mi sentì arrivare; il suo sguardo
pensieroso indugiava sui fianchi dei monti, dove il bosco sembrava
sprofondare nel bianco.
«Yann».
Al suono della mia voce si tolse la pipa dalle labbra e mi guardò.
«Signor curato» borbottò, espirando una boccata di fumo insieme al
fiato tiepido.
Era un bell’uomo, Yann Rosset, alto, il fisico modellato dal duro
lavoro, lo sguardo penetrante. Se non fosse stato per la gamba zoppa,
e per quel carattere che definire pessimo era eufemistico, avrebbe
avuto un discreto successo con le donne, anche quelle della bassa
valle. Avevo il sospetto, però, che a Yann Rosset non importasse
affatto. Non gli importava nemmeno di Marie, in fondo. Me ne resi
conto quando la porta della canonica si aprì e lei scese con cautela
dagli scalini coperti di ghiaccio, facendo attenzione a non scivolare.
Aveva acconciato i capelli in strette trecce, le gote erano accese e
indossava la sua gonna migliore, quella rossa con il bordo decorato.
Gliel’avevo vista addosso in occasione della processione della
Madonna delle nevi.
Yann la guardò, ma nei suoi occhi non passò alcuna emozione,
nulla che avesse a che fare con il modo in cui guardava la ragazza dei
boschi, come se ne avesse fame, una fame insaziabile. Il ricordo di
come aveva guardato Fiamma faceva venire la pelle d’oca persino a
me, che ero un uomo di chiesa.
Svuotò la pipa battendola contro la coscia, e il tabacco consumato
macchiò la neve ai suoi piedi.
Mi chiesi se si rendesse conto di quello che stava facendo: se
avrebbe ferito Marie, seguendo un giorno i suoi impulsi, o se avrebbe
tradito se stesso e il proprio cuore e le sarebbe rimasto accanto,
nonostante tutto. Propendevo per la seconda ipotesi. Yann Rosset
dava l’impressione di qualcuno che, una volta presa una decisione, la
segue fino in fondo.
«Signor curato». Marie sembrava sorpresa di trovarmi lì, fuori
della canonica, il cappello ormai ricoperto di neve. Mi guardò con un
misto di imbarazzo e disapprovazione. «Lui non è affatto di buon
umore, vi avviso» sussurrò, passandomi accanto.
«Con don Jacques me la vedrò io, non vi preoccupate, Marie.
Pensate a… passare un piacevole pomeriggio, e fate attenzione a non
prendere freddo».
Lo sguardo di Marie scintillava di malizioso orgoglio. «Non
prenderemo freddo» asserì, aggrappandosi al braccio di Yann, che mi
parve spiazzato da quel gesto.
Le parole di Marie ci avevano fatto arrossire entrambi.
Mi affrettai a salutarli e salii incespicando gli scalini che portavano
all’ingresso. Soltanto quando fui davanti alla porta mi voltai a
guardarli, mentre si allontanavano lungo la strada innevata.
Camminavano vicini, lui con la schiena dritta, la gamba sinistra rigida
che si sforzava di trascinare il meno possibile per mantenere il passo
di lei. Doveva essere la prima volta che prendeva una donna
sottobraccio, sembrava del tutto impreparato a quell’intimità.
Adattarsi all’andatura di chi ci sta accanto, quando il passo non è lo
stesso, è più difficile di quanto si possa immaginare.
Quando furono svaniti nella foschia, mi apprestai ad aprire la porta.
Fu allora che un’esile voce mi fece quasi sobbalzare.
Il bambino stava fermo ai piedi della scalinata, imbacuccato in un
pesante cappotto di lana e con un cappello calato fin sopra gli occhi.
«Signor curato, avete un momento? Dovrei parlarvi di una cosa»
disse in tono incerto e diffidente. Allora lo riconobbi: era Gustave
Vevey, il nipote del fornaio. Se ne andava sempre in giro con Etienne
Blanche, e più di una volta avevo dovuto riprenderli per il loro
comportamento poco rispettoso. Li avevo trovati che lanciavano sassi
a un cane e a rubare i cavoli nell’orto della vedova Clairmont. Dopo
averli sgridati, avevo notato tuttavia che, mentre Etienne assumeva
un’aria sfrontata, identica a quella di suo fratello, Gustave sembrava
davvero dispiaciuto. Era il classico bambino che si lasciava
persuadere contro la propria volontà.
«Certo, Gustave. Cosa mi devi dire?»
Il bambino si torse le dita, restando in silenzio per alcuni secondi,
poi sollevò su di me due occhi impauriti. «Non dovrei dirvelo, perciò
fingete di non averlo saputo da me. Ecco…» Prese un respiro,
cercando di confessarmi la verità: «Ho sentito Etienne e suo fratello
Basile dire che volevano andare nel bosco a… “liberarlo dai
parassiti”».
Cercai di mantenermi calmo. «“A liberarlo dai parassiti”» ripetei,
scuotendo la testa. «Si riferivano ai boemi?»
Gustav annuì: «Credo di sì, ma penso che parlassero anche della
strega». Il suo sguardo di bambino si riflesse nel mio. «Avevano una
corda e un fucile».
Yann

La gamba mi faceva male. Marie camminava ancheggiando, e io


pensavo soltanto a portarla in un posto abbastanza appartato per
sollevarle la gonna; quella sciocca gonna rossa con le stelle alpine
ricamate sul bordo. Lei, intanto, parlava, parlava e gesticolava…
Mi stava dando sui nervi, e mi ero già pentito di averle proposto
quella passeggiata, che in fondo celava ben altri sottintesi. Ormai,
però, ero lì, non potevo tirarmi indietro. Se il prezzo da pagare per
affondare le mani nella sua carne bianca e morbida era legarmi a lei
per tutta la vita, l’avrei pagato, e al diavolo tutto il resto. Nemmeno
mi importava, di quel resto. Ero un uomo finito ormai.
Raggiungemmo il limitare del bosco, sprofondando nella neve fino
alle caviglie e scrollando le spalle per far scivolare via i fiocchi che ci
si erano depositati addosso. Faceva freddo, e il bosco era
impraticabile. Troppa neve, ovunque.
Tuttavia, c’era un sentiero più riparato, su cui gli alberi si
tendevano come archi rendendo meno arduo il percorso. Mi avviai in
quella direzione, e Marie mi seguì docile, con un sorriso perplesso
che si trasformava, a mano a mano che ci inoltravamo nella boscaglia,
in un’espressione di malizioso stupore.
«Yann Rosset!» esclamò con un gridolino, quando le cinsi la vita e
la spinsi con delicatezza contro la corteccia di un larice. Uno sbuffo
bianco si staccò dai rami e ci cadde addosso sotto forma di polvere di
ghiaccio. «Non so che idee tu ti sia fatto, ma io sono una donna
perbene» chiarì, guardandomi con un misto di sfida e finto pudore.
«Che idee vuoi che mi sia fatto, Marie?» sussurrai, avvicinandomi
a lei. I nostri aliti erano due nuvole di fiato tiepido e si mescolavano
l’uno nell’altro. Da quella distanza riuscivo a scorgere tutti i pori
della sua pelle. Le iridi, che in quei giorni mi ero spesso chiesto di
che colore fossero, senza riuscire a darmi una risposta, erano di un
azzurro acquoso, orlate di blu. Accostai la mia bocca alla sua, ma lei
mi fermò posandomi una mano sulle labbra. Le sue dita erano gelide.
«Che cosa vuoi da me, Yann?»
Sospirai. Pretendeva una dichiarazione in piena regola, mentre io
desideravo soltanto togliermi quella voglia sconcia che mi faceva
formicolare le mani.
«Lo sai cosa desidero» bisbigliai, afferrandola dietro la nuca e
costringendola a sollevare il volto verso il mio. «Pensavo che fossi
d’accordo».
I suoi occhi mi dicevano che era combattuta. Non voleva
deludermi, ma allo stesso tempo temeva che mi stessi prendendo
gioco di lei. Alla fine sembrò decidere che, dopotutto, non ero il tipo
e si abbandonò contro di me. Sentii i suoi seni premere contro il mio
torace. Era calda e morbida, tutto quello che desideravo in quel
momento. Colmai la poca distanza che ci separava e premetti le
labbra contro le sue. Non provavo niente, se non una fatua eccitazione
legata ai miei sensi, del tutto estranea ai miei sentimenti.
Marie ricambiò il bacio impacciata. Teneva le labbra serrate e
faticai per aprirgliele con la lingua. Eppure, mentre lo facevo, dovetti
arrendermi all’evidenza: in me si era già sopito ogni desiderio.
Quelle non erano le labbra di Fiamma. Non erano le sue mani che
si aggrappavano alle mie spalle, né i suoi fianchi che si muovevano
contro i miei. Come un lampo passò davanti al mio sguardo
quell’unica notte in cui, tra il buio e il dolore, i nostri corpi si erano
stretti l’uno all’altro, le nostre bocche si erano incontrate in un bacio.
Un solo bacio, che mi aveva avvelenato l’anima, corrodendo il mio
cuore.
Chiusi gli occhi e continuai a baciare Marie. Le accarezzai i
fianchi, poi mi piegai per afferrare un lembo della sua gonna. Un
rumore, poco distante, mi costrinse a sollevare le palpebre.
Io e Marie non eravamo più soli nel bosco. Quando individuai la
fonte del rumore, rimasi impietrito: Fiamma era lì davanti a me, quasi
l’avessi evocata con la forza del pensiero. Immobile tra gli alberi, mi
guardava con gli occhi sgranati, lo sguardo stupefatto e atterrito di un
cervo braccato che sta considerando ogni possibile via di fuga. E,
infatti, fuggì.
Vidi i suoi capelli di fuoco svanire nel bianco, fino a divenire una
macchia indistinta, lo scialle di lana grigia che si confondeva con le
ombre gettate dagli alberi. In pochi secondi, era svanita nel nulla,
inghiottita dal bosco cui apparteneva.
D’istinto allungai un braccio in quella direzione, quasi avessi
voluto fermarla, come se fossi stato in grado di trattenerla.
Marie sussultò, seguendo il mio sguardo. «Quella era la strega!»
esclamò, stringendosi a me.
«Se ne è andata» mormorai, senza distogliere lo sguardo dal punto
dove pochi istanti prima c’era Fiamma. «Ora se ne è andata» ripetei,
abbassando il braccio, mentre i miei occhi cercavano di scorgere
un’ultima scintilla di lei, un bagliore, dove invece non restava altro
che bianco vuoto.
Dopo alcuni secondi di doloroso sconcerto, mi staccai da Marie, lo
sguardo adombrato. «Inizia a fare buio, torniamo al borgo».
Lei non disse niente. Si sistemò la cuffia, rassettandosi la gonna, e
si incamminò per il sentiero. Nessuno dei due parlò lungo il tragitto.
Quando arrivammo davanti alla canonica, Marie si voltò verso di
me: «Tu mi piaci, Yann, e avrei accettato qualunque cosa» disse in un
sussurro, «ma non posso dividerti con quella donna, proprio non ci
riesco».
«Non devi dividermi con nessuno, Marie» replicai, brusco. Sentivo
il freddo salirmi per le gambe e avvilupparsi alla schiena. Detestavo
la neve, odiavo quel suo apparire candida e innocua, quando poteva
ferire più della lama di un coltello.
Marie sorrise con amarezza. «Sei un bugiardo, Yann, e quel che è
peggio è che lo sei soprattutto con te stesso. Ora si è fatto tardi e io…
sono molto stanca». Si diresse verso gli scalini.
La afferrai per un braccio, costringendola a voltarsi verso di me.
«A te ci tengo davvero» dichiarai, guardandola dritto negli occhi.
«Non basta» sussurrò lei, ritraendosi. «Non voglio vivere la mia
vita chiedendomi se, ogni volta che non sei davanti a me, tu sei con
lei».
«Con lei?» esclamai, al colmo dell’indignazione. «Cosa ti fa
pensare che io possa aver voglia di andare da… quella donna? Che
possa avere bisogno di lei?»
Marie mi guardò, e nei suoi occhi c’era un misto di sconforto e
pietà. «Sei rimasto l’unico a credere a questa menzogna» disse, prima
di sottrarsi alla mia presa. «Addio, Yann».
Rimasi solo, sotto la neve. La strada era deserta, il cielo grigio e
insondabile, come la mia anima. Un rumore di passi, alle mie spalle,
mi spinse a voltarmi. Don Agape mi veniva incontro trafelato, il
cappello di traverso e una mano premuta all’altezza del cuore.
«Yann, buon Dio, finalmente vi ho trovato» balbettò, respirando a
fatica.
«Signor curato, me ne stavo andando» dissi, sistemandomi il
giaccone. Non avevo nessuna voglia di sorbirmi una predica da don
Agape.
«A… Aspettate» disse, tendendo una mano verso di me.
In quel momento, nella calma assoluta e immobile della vallata,
due spari, l’uno a pochi secondi dall’altro, rimbombarono nel
silenzio. Sobbalzai e vidi il parroco fare lo stesso. Il suo volto era una
maschera di sgomento.
«Basile…» mormorò, guardando verso il bosco.
«Basile?» domandai, sentendo un brivido percorrermi la schiena.
Non potevo associare nulla di buono a quel nome, e quei due spari mi
facevano temere il peggio. Il mio cuore iniziò ad accelerare i battiti.
«Vuole ripulire il bosco» balbettò don Agape, rivolgendomi uno
sguardo spaesato.
«Che diavolo significa?» esclamai, facendo un passo verso di lui.
«Io credo… che stia andando da Fiamma».
In quel preciso istante le parole che Basile mi aveva rivolto mesi
addietro si mescolarono con quelle di Marie: era chiaro a tutti, tranne
a me, che a Fiamma ci tenevo, più di quanto fossi disposto ad
ammettere. Persino Basile se ne era reso conto. Quale modo migliore
di vendicarsi del torto che gli avevo fatto, se non quello di agire, in
modo indiretto, sulla persona cui ero più legato?
Prima di rendermene conto, stavo correndo verso il bosco, per
quanto la gamba me lo consentiva. Avvertivo la voce del parroco, alle
mie spalle, indistinta e confusa. Mi supplicava di non fare cose
sciocche. Basile Blanche era una testa calda e aveva un fucile.
Non mi importava.
«Che tu sia maledetto, Raphaël, per il giorno in cui mi hai portato
da lei!» grugnii, mettendo in quella disperata corsa tutta la forza che
avevo. Mi sembrava di avere un paletto conficcato nel petto, che mi
toglieva il respiro, e un altro piantato nella gamba. Il dolore era quasi
insopportabile, ma non sufficiente a fermarmi.
Se Basile le avesse anche solo torto un capello, l’avrei ammazzato.
Dio, l’avrei ammazzato a mani nude!
Capire la direzione dei suoi passi, una volta raggiunta la radura in
cui iniziava la salita, non fu affatto difficile. La neve nasconde le
strade, ma rende evidenti le tracce. Incespicai tra rocce invisibili e
rami secchi che spuntavano dal terreno innevato. Nella gola sentivo il
sapore del sangue, ansimavo nello sforzo. La gamba era un peso
morto che mi trascinavo dietro a fatica.
Finalmente, indistinte tra gli alberi, scorsi due figure. Una terza,
poco distante, era accasciata al suolo. Quando mi avvicinai, con
sollievo mi resi conto che la situazione era diversa da come l’avevo
immaginata: Basile era a terra, il fucile abbandonato vicino a lui e la
neve macchiata di rosso. Si teneva la fronte con una mano, e lì
accanto c’era una pietra. Fiamma aveva sempre avuto una mira
maledettamente buona. In quel momento, tuttavia, la sua posizione
non era migliore di quella di Basile: immobile nella neve, teneva lo
sguardo puntato su Etienne, che le rivolgeva contro la canna del
fucile. Le mani del ragazzino tremavano, l’arma era troppo pesante
per le sue esili braccia, e il rinculo l’avrebbe, con molta probabilità,
scaraventato all’indietro. Se quel colpo fosse partito, però, Fiamma
non avrebbe avuto scampo.
Mi avvicinai cauto, senza fiatare. Non volevo che Etienne,
spaventandosi, facesse mosse azzardate. «Posa quel fucile» dissi in
tono misurato, cercando di mantenere la calma.
Etienne mi rivolse uno sguardo a metà tra l’odio e il terrore. La
situazione gli era sfuggita di mano, e ora si trovava nella difficile
posizione di carnefice. Quella donna, che tutti chiamavano strega e di
cui a nessuno importava se vivesse o meno, aveva lanciato una pietra
a suo fratello, ferendolo. L’aveva fatto per difendersi da loro, che
erano in due e armati, ma questo aveva poca importanza. Nella logica
dei fratelli Blanche, Fiamma meritava di morire; sarebbe stato come
uccidere una bestia selvatica, una creatura senz’anima.
Inspirai a fondo, evitando di distogliere lo sguardo da Etienne.
«Questo non è un gioco» aggiunsi, scandendo bene ogni parola. «Fai
come ti dico, abbassa quell’arma».
«Non ascoltarlo» eruppe in quel momento Basile, ancora a terra
nella neve. «Uccidi questa puttana, è una strega, merita di morire».
Una goccia di sudore scese lungo la fronte di Etienne. Il fucile gli
era diventato un peso insopportabile, e le braccia iniziavano a cedere.
«Ammazzala, ti ho detto!»
Il colpo partì, e io chiusi gli occhi. Non avevo il coraggio di
voltarmi verso di lei. Se, voltandomi, l’avessi trovata riversa al suolo,
la parte di me che ancora restava aggrappata alla vita dopo
l’incidente, e dopo Raphaël, sarebbe scivolata via per sempre.
Dopo alcuni istanti, tuttavia, mi costrinsi ad aprire le palpebre e a
sollevare il viso: Fiamma era illesa. Il proiettile l’aveva mancata,
conficcandosi nella neve alle sue spalle. Emisi un sospiro che era un
gemito di sollievo. Lei mi guardò, i suoi occhi si fissarono nei miei
per un istante, per poi sfuggirmi. Si voltò e corse via.
Mi precipitai dietro di lei. Scappare non aveva più senso; non
aveva più senso nascondersi.
Fiamma aveva gambe più allenate delle mie e molto più veloci. In
poco tempo la persi di vista, ma non mi scoraggiai. Sapevo dove
stava andando: tornava a casa, l’unico posto dove si sentiva al sicuro,
il luogo dove poteva chiudermi fuori e dimenticarsi di me, ma io non
avevo intenzione di farmi sbattere la porta in faccia. Non quella volta.
Imprecai, affondando nella neve fino ai polpacci. Lo spavento di
pochi istanti prima si era trasformato in una rabbia furiosa che mi
faceva andare avanti, che mi bruciava dentro come fuoco.
Arrancai fino al capanno e mi scagliai contro la porta. «Apri, apri
maledizione, aprimi!» gridai, picchiandovi i palmi e avvertendo il
dolore irradiarsi fino alle spalle.
«Vattene!» gridò la sua voce, da dentro. Era arrabbiata almeno
quanto me.
«Cristo santo, apri questa porta o, quanto è vero Iddio, la butto
giù!»
Dentro tutto taceva. Il sangue mi salì al cervello, ero fuori di me e
non sapevo nemmeno perché. Mi accanii contro la porta con tutta
l’ira che covavo dentro e, in pochi secondi, ne ebbi ragione. L’uscio
si spalancò, rivelando l’interno buio e stipato di oggetti.
Vidi Fiamma correre a ripararsi dietro il tavolo, guardandomi con
astio. «Vattene!» gridò di nuovo, afferrando una bottiglia dal tavolo e
lanciandomela contro. Dopo avermi colpito su una spalla, il vetro si
ruppe in mille pezzi ai miei piedi. «Vattene, vattene!» continuò lei,
prendendo tra le mani tutto quello che le capitava sotto tiro e
scagliandolo verso di me.
Mi colpì con oggetti di qualunque forma e peso, ma io,
riparandomi il volto con un braccio, continuai imperterrito ad
avanzare verso di lei. Quando il tavolo fu sgombro, Fiamma
indietreggiò ancora, arrivando ad appiattirsi contro il muro alle sue
spalle.
«Vai via, via! Non ti voglio qua!» gridò, quando infine fui davanti
a lei.
Mi sanguinava una guancia, e sentivo il sangue bagnarmi le labbra.
La afferrai con entrambe le braccia. Lei si dimenò, scuotendo la testa
e gridando come se la stessi ustionando con il tocco delle mie mani. I
suoi capelli volteggiavano come lingue di fuoco, sembravano avere
vita propria.
«Basta!» esclamai, furibondo. «Ora basta!»
«Vai via, vattene! Torna da lei! Non ti voglio qui. Non ti voglio!»
«Sì, che mi vuoi. Tu mi vuoi tanto quanto io voglio te» sussurrai,
stringendola a me. Continuava a dibattersi, ma più debolmente. Stava
perdendo le forze, come me, l’energia necessaria a combattere
quell’oscuro sentimento che ci avvinceva, che ci spingeva a cercarci e
respingerci, senza requie. Non potevamo più ribellarci, solo
constatare la resa.
«Vai da lei» bisbigliò di nuovo, con poca convinzione, la fronte
premuta sul mio petto. Le sue mani si erano aggrappate alle mie
scapole e si tenevano come se fosse l’unico appiglio possibile per
sfuggire a quell’abisso che minacciava di inghiottirci da un momento
all’altro.
«Non c’è nessun’altra. Ci sei tu sola. Ci sei sempre stata tu sola» le
sussurrai all’orecchio. I suoi capelli odoravano di vento. «Fiamma…»
Soltanto allora sollevò il volto verso il mio, guardandomi dritto
negli occhi. Ricambiai il suo sguardo per un lungo istante. «Fiamma»
ripetei. Non avevo mai pronunciato il suo nome ad alta voce. Mai,
con nessuno. Ora sembrava che non potessi più farne a meno.
«Fiamma, Fiamma…» dissi, prima di sporgermi avanti e premere le
mie labbra contro le sue, nel nostro secondo bacio. Se il primo ci
aveva precipitato all’inferno, questo non poteva che liberarci da quel
tormento.
Divorai la sua bocca, come se ne avessi una fame insaziabile, lottai
con la sua lingua, prendendole il volto tra le mani e spingendola
contro il muro. Lasciai che il mio corpo aderisse completamente al
suo, staccandomi da lei solo per afferrarle una mano e premerla
contro la mia gamba sinistra, che bruciava di dolore. «Sono tuo, tuo.
Ogni pezzo della mia pelle ti appartiene, ogni ferita, ogni goccia di
sangue».
Fiamma seguì con le dita l’esatta linea della cicatrice che non
avevo permesso mai a nessuno di toccare. Conosceva il mio corpo
come nessuna l’aveva mai conosciuto, ero una sua creatura. Si
abbassò, fino a posare la guancia là dove un tempo le sue esili dita
avevano ricucito la mia carne. La gonna si allargò attorno a lei come
uno sbuffo, e io posai la mano sul suo capo, affondando le dita tra i
suoi capelli arruffati.
«Sì, sei mio» disse, chiudendo gli occhi. «Sei sempre stato mio».
Avvertii un nodo stringermi la gola. Nonostante tutto, sentivo il
bisogno di dirlo: «Se Raphaël fosse tornato…»
Fiamma si sollevò, tornando a guardarmi negli occhi. «Se Raphaël
fosse tornato, ti avrei amato lo stesso. Ti avrei amato sempre».
Scossi la testa. «Raphaël, tu e lui…»
Fu lei a prendermi il volto tra le mani. La sua espressione era seria.
«Raphaël era un fratello. Era la mia famiglia. Con te è diverso, tu sei
il vento che mi soffia dentro, sei colui che muove i miei passi. Se
sparissi in questo momento, sparirei con te».
Le nostre bocche, fameliche, tornarono a incontrarsi. Mentre la
baciavo, con un’avidità che non avevo mai conosciuto, le sbottonai il
corpetto dell’abito, lasciandoglielo scivolare giù dalle spalle. La sua
pelle era bianca come la neve che cadeva all’esterno. Affondai il
volto tra i suoi seni, che erano piccoli e delicati, con i capezzoli di un
pallido rosa. Lei appoggiò la nuca al muro, respirando con la bocca
aperta, i polsi rivolti verso l’alto e le dita che si aprivano e
richiudevano sui palmi sudati. Quando fu nuda, tra le mie mani, mi
concessi un istante per guardarla, in piedi contro la parete. Una
sagoma esile e candida, con una cascata di capelli rossi che le
ricadevano addosso. Non avevo mai desiderato una donna come
desideravo lei.
La sollevai e la feci stendere sulla paglia del giaciglio dove aveva
sempre dormito sola. Tra i baci e le carezze, date con toni ruvidi
dettati dall’urgenza, lasciai che anche lei mi spogliasse, facendo
scorrere le dita sulla mia pelle che la voleva, che la chiamava, da
quella notte di quattro anni prima, quando ci eravamo toccati per la
prima volta. Mi ero intestardito a volerla dimenticare, senza esserci
mai riuscito. Fiamma era la memoria del mio cuore.
Tutto il tempo che avevo trascorso lontano, dopo il nostro primo
incontro, non avevo fatto altro che desiderare di tornare da lei,
cercando di sopire quel desiderio, provando a uccidere i sentimenti
che si agitavano in me. Credevo di odiarla, per avermi salvato
sottraendomi alla montagna, che era l’unica cosa che amavo; ma non
era vero: amavo lei più di qualsiasi altra cosa. Lei, che aveva
guardato dentro di me e si era lasciata guardare dentro. Lei, che della
montagna aveva la stessa imperiosa tenacia e quella limpidezza che
era propria del ghiaccio e dell’acqua di fonte.
Eppure, il pensiero di Raphaël non mi abbandonava mai. Era una
scheggia conficcata nella carne, tra le costole e il respiro. Mio fratello
l’aveva amata, aveva amato la donna che in quel momento stringevo
tra le braccia, pensando di non averne il diritto.
Mio fratello era morto in guerra.
Mi staccai da lei, dalle sue labbra congestionate di baci, dalla sua
pelle delicata che avevo graffiato con la mia barba. «Io ho bisogno di
sapere se tu e mio fratello…»
«Mai» rispose Fiamma, quasi mi avesse letto nel pensiero. Si
ritrasse da me, stendendosi sulla paglia, e divaricò le gambe. «Te l’ho
detto: non c’è mai stato nessuno, oltre a te».
Guardai la sinuosa linea dei suoi fianchi, le ginocchia aguzze e il
sesso ricoperto di peluria ramata, bevendo con lo sguardo ogni
particolare. Poi mi stesi su di lei e, senza gentilezza, senza esitazioni,
la penetrai.
Fiamma

Fu doloroso, una lotta piena di morsi e graffi, un’urgenza difficile da


spiegare. Il corpo di Yann sul mio, nel mio, il suo respiro contro la
fronte, i denti là dove le labbra non bastavano più, le unghie
conficcate dappertutto. Gli occhi aperti, per non perderci. Come se
quello sconfinare l’uno nell’altra non fosse sufficiente a colmare il
vuoto degli anni, la solitudine di quella distanza forzata.
Yann era in ogni mio battito di cuore.
Lo strinsi a me, quando, dopo un ultimo gemito, si abbandonò sul
mio corpo che non conservava più segreti, per lui. Il respiro roco,
irregolare, il cuore che martellava furioso, le sue dita impigliate fra i
miei capelli, le mie cosce strette ai suoi fianchi. Ci eravamo arresi,
infine.
Premetti piano le dita sulla sua pelle umida di sudore. L’aria,
intorno a noi, era bianca e rarefatta, ma il freddo non riusciva a
raggiungerci. Le gambe intrecciate, gli accarezzai la nuca e le spalle,
tenendolo stretto addosso. Sulle mie braccia nude iniziavano a
scurirsi i segni delle sue dita, quando mi aveva afferrata per
impedirmi di fuggire, diventavano un livido.
«Non volevo farti male» disse la sua voce, nell’improvviso silenzio
che si era creato. Sembrava arrivare da un posto lontano.
«Non mi hai fatto male» mentii, ma non del tutto. Il cambiamento,
la rinascita, tutto ciò che segna le svolte della vita è fatto di dolore.
Non gli avrei mai rimproverato il male che mi aveva fatto
congiungendosi a me, perché non lo percepivo come una perdita,
semmai come un dono.
Yann sollevò il volto, scrutandomi. I suoi occhi erano blu come il
cielo al tramonto, quando sta per cedere il passo alla notte, ma
conserva ancora una debole traccia di azzurro. I suoi occhi erano lo
specchio che non avevo mai posseduto per guardare me stessa.
Riuscivo a decifrarmi soltanto attraverso di lui.
Quattro anni prima l’avevo tolto alla morte. Glielo avevo tolto
perché lo volevo per me.
Ricordavo ancora come mi era sembrato strano quel suo corpo
forte e nudo, illuminato dalla tremula luce della candela. L’avevo
visto piangere e soffrire, avevo tenuto la sua mano, mi ero macchiata
le mie con il suo sangue. Mia madre diceva che salvare la vita a una
creatura significa creare con lei un legame che va oltre l’esistenza e la
morte. Yann era sempre stato mio.
Quella notte, dopo aver fasciato le sue ferite, Vivienne gli aveva
fatto bere del laudano per alleviare il suo dolore. Era stato allora, tra il
sonno e la veglia, che lui mi aveva cercata: «Resta qui. Non
andartene. Non lasciarmi solo».
Mi ero sdraiata accanto a lui. L’alba era prossima, e mia madre era
uscita con Raphaël a cercare altra legna per il fuoco.
Yann era così diverso da Raphaël, avevo pensato, guardando il suo
volto giovane, eppure, allo stesso tempo, già invecchiato. Il sole e il
gelo avevano segnato la sua pelle sulla fronte e intorno agli occhi. I
capelli erano più scuri di quelli del fratello, la mascella più
pronunciata e le labbra piene. Mi ero soffermata su quel dettaglio.
Provai qualcosa di difficile da decifrare, qualcosa che mi aveva spinto
ad avvicinarmi a lui sempre di più. Il suo odore, la sua pelle, il suo
corpo nudo, che trovavo bellissimo, tutto di Yann mi attirava come
una falena alla fiamma. Non era ancora amore, ma lo sarebbe
diventato con il tempo.
Nulla acutizza un sentimento più della privazione.

Iniziai a tremare, vinta dal ricordo di quella notte. Yann si fece serio.
«Fa freddo» disse, sollevandosi.
Quando si staccò da me, mi sentii morire il respiro tra le labbra. Se
ne sarebbe andato. Si era preso ciò che voleva, non c’era nient’altro
che potessi dargli. Tutto ciò che avevo, tutto ciò che ero, l’avevo
messo nelle sue mani.
Rimasi in silenzio, guardandolo alzarsi e, nella sua nudità, aggirarsi
per la casa. Si piegò verso il camino, dove non restava altro che
cenere fredda, e vi buttò alcuni ramoscelli secchi e della corteccia.
Restò lì, piegato sulle ginocchia, a osservare le fiamme che, con
fatica, attecchivano al legno. Un soffice bagliore si diffuse
nell’ambiente ormai buio, allungando le ombre intorno a noi.
La cicatrice sulla sua gamba era un solco di sofferenza impossibile
da colmare. Yann era venuto da me e mi aveva amata, ma restava
comunque una fortezza senza ponti levatoi, un luogo impervio in cui
soffiava sempre il vento. Il freddo che aveva dentro non potevo
scioglierlo.
Rimasi silenziosa, aspettando il momento in cui si sarebbe
rivestito, uscendo dalla mia vita. Ma non accadde. Anche lui
sembrava indugiare, indeciso su quale fosse il comportamento da
adottare, o forse solo combattuto. Dal suo sguardo, fisso sul fuoco,
traspariva il tormento, la lotta interiore che lo faceva esitare. Se fosse
rimasto, non avrei potuto dargli più di quello che aveva già preso: me
stessa. Yann questo lo sapeva.
Alla fine si alzò, ma non si diresse dove, poco prima, avevo
lasciato cadere i suoi vestiti. Tornò da me. Si stese al mio fianco,
abbracciandomi da dietro, affondando il volto tra i miei capelli, il
fiato che mi solleticava la nuca. Le mani, ruvide e callose,
avvolgevano i miei seni; le sue ginocchia si piegarono nelle mie. Visti
dall’alto saremmo sembrati un solo corpo.
«Hai ancora freddo?» domandò in un sussurro.
«Quando sei accanto a me, non so cosa sia, il freddo» mormorai.
La sua presenza era qualcosa di caldo e confortevole, qualcosa cui
non ero abituata.
«Bene. Ora dormi».
«E tu?» domandai, senza riuscire a mascherare una traccia di
panico nella voce. Odiavo sentirmi inerme, piena di incertezze.
«Io resto qui, vicino a te» rispose, stringendomi a sé. C’era, in
quella sua stretta, senso del possesso e protezione insieme. Nessuno
mi aveva mai abbracciata così, mi faceva sentire amata, completa.
Una sensazione che non avevo mai provato, nemmeno con Raphaël,
che era parte della mia anima.
«Ti amo, Yann».
Lui non disse niente. Il fuoco continuò a crepitare, diffondendo
bagliori rossastri intorno a noi. Rimasi in ascolto, le orecchie tese, ma
non sentii altro che gli schiocchi del legno che bruciava, fino a
quando il sonno non si impossessò di me.
Mi svegliai all’alba, come facevo ogni giorno, e rimasi immobile
alcuni secondi, ascoltando il silenzio. Era troppo profondo, così
insondabile; mi spaventava. Mi voltai piano, il cuore che accelerava il
suo ritmo, per poi rallentare fino quasi a spegnersi.
Se ne era andato.
Di notte, in silenzio. Aveva lasciato morire il fuoco, raccolto i suoi
vestiti ed era svanito. Non mi ero accorta di niente.
Mi misi a sedere sul pagliericcio, avvolgendomi le braccia attorno
al corpo. Avevo freddo, freddo dentro. Mi sentivo morire.
Dopo alcuni secondi, mi costrinsi a raccattare lo scialle da terra e
me lo avvolsi attorno alle spalle. Sul pavimento, vicino alla porta,
c’erano i cocci di vetro e terracotta degli oggetti che, il giorno prima,
gli avevo lanciato addosso. Avrei dovuto fargli male, pensai. Avrei
dovuto impedirgli di avvicinarsi a me, di prendermi e imprimersi
sulla mia pelle più di quanto già non fosse. Ormai il danno era
irrimediabile: se prima ero riuscita a sopravvivere alla sua assenza,
ora che avevo conosciuto ciò che era in grado di dare, il suo modo di
amare, mi sentivo persa.
Mia madre aveva ragione: niente distrugge quanto l’amore.
Mi sollevai sulle gambe incerte. Tra le cosce avvertivo un pulsare
sordo, e una sbavatura di sangue si era seccata sulla mia pelle. Feci
qualche passo, confusa: mi sentivo smarrita nella mia stessa casa.
Non aveva violato solo il mio corpo, ma il mio intero mondo.
All’improvviso, qualcosa catturò la mia attenzione. Sul tavolo,
sgombro di ogni cosa, era posato un fascio di lettere. Mi avvicinai e
allungai un braccio. La mano mi tremava quando, dopo aver sciolto lo
spago che le teneva legate, scorsi la calligrafia ordinata e compunta di
Raphaël emergere dalla carta. Per un istante vidi tutto nero e dovetti
appoggiarmi allo schienale della poltrona per sorreggermi.
Raphaël. Quelle erano le lettere di Raphaël. Quelle che aveva
giurato di scrivermi e che io non avevo mai ricevuto. Una lacrima si
staccò dalle mie ciglia e precipitò nel vuoto.
Yann me le aveva sottratte. Per tutti quei mesi, in cui mi ero
convinta di meritare il suo silenzio, Yann aveva custodito quel
segreto. Mi aveva imbrogliata, si era fatto beffe di me sottraendomi
quanto avevo di più caro. Non lo avrei mai perdonato. Le gambe
cedettero e mi accasciai al suolo.
Sentivo il freddo del pavimento attraverso la pelle nuda. Lo scialle
mi era caduto, lasciandomi priva di difese. Tra le dita stringevo quei
fogli ingialliti che avevano attraversato la guerra per consegnarmi
parole ormai impossibili da afferrare, da rimettere nel giusto ordine.
Raphaël era morto. Di lui non restava niente, era svanito come la
neve in primavera, assorbito dal terreno su cui aveva versato il
sangue.
Ero annientata dal pensiero che il mio migliore amico, il ragazzo
con cui ero cresciuta e che, in un giorno di autunno, aveva cercato di
baciarmi con la forza, avesse infranto il silenzio tra noi e mi avesse
scritto. Sì, aveva giurato di farlo, ma la guerra cambia molte cose. La
guerra cambia le persone. Invece, Raphaël mi aveva davvero scritto.
E non aveva mai ricevuto risposta.
Era morto da solo, nel fango di una trincea o sui monti neri del
Carso, senza una parola di conforto da parte mia. Era morto credendo
che lo avessi abbandonato.
Quel pensiero faceva più male di tutto il resto. In quel momento,
sentii di odiare Yann. Lo odiavo come non avevo mai odiato nessuno
nella mia vita. Nemmeno Dio.
Rimasi immobile sul pavimento per un tempo che mi parve
infinito. I fogli stretti nella mano, la pelle esposta al gelo. Niente
sembrava sfiorarmi, nulla mi toccava.
Ero morta anch’io, morta dentro.
Solo quando, parecchio tempo dopo, qualcuno bussò alla mia porta,
mi costrinsi a sollevare il viso. Vedevo sfocato attraverso le lacrime
che mi riempivano gli occhi, senza riuscire a sgorgare. Si stavano
congelando, come il mio cuore. Presto non sarebbe rimasto altro che
un blocco duro impossibile da sciogliere.
«Fiamma, sei in casa?» disse una voce, oltre l’uscio. La voce di
Rhian.
Mi fece pensare ad Aerv, il bambino che avevo aiutato a nascere
nel bosco, e solo allora qualcosa sembrò rianimarsi in me,
permettendomi di sollevarmi e raccogliere da terra i miei vestiti, che
giacevano intonsi dove Yann li aveva lasciati cadere la sera prima.
Volevo cancellare ogni ricordo, dimenticare l’immagine di lui che
mi prendeva, che mi voleva. Di lui che mi diceva addio. Perché,
anche se non l’aveva fatto, era chiaro che quelle lettere erano un
addio. Yann sapeva che non l’avrei potuto perdonare per avermele
nascoste.
Aprii la porta, e Rhian mi apparve subito invecchiato rispetto
all’ultima volta che lo avevo visto. Eppure, non erano passati che
pochi giorni. Rughe profonde segnavano gli angoli della sua bocca,
gli occhi ristagnavano in un alone d’ombra e l’espressione era tesa e
preoccupata.
«Cosa è successo?» domandai, pensando subito al bambino.
«Aerv… Rose?»
«Aerv sta bene, e anche Rose. Stanno tutti bene, per ora». Rhian
infilò una mano in tasca e ne estrasse un oggetto piccolo e sottile, un
ago. Me lo mostrò tenendolo sul palmo della mano: era
completamente corroso dalla ruggine. «Il fato ci è avverso, Fiamma.
Questo è l’ago che abbiamo piantato nel terreno la notte in cui è nato
Aerv».
Sentii un brivido percorrermi la schiena, ricordando che Rhian mi
aveva spiegato che gli zingari misuravano in quel modo la sfortuna
che ognuno è costretto a sopportare nella vita.
«C’è dell’altro» aggiunse, senza darmi il tempo di parlare «la maga
ha letto i segni: qualcosa di terribile sta per accadere, qualcosa che si
abbatterà su tutti noi. Dobbiamo andarcene».
Lo guardai, senza capire.
Rhian sollevò lo sguardo alle montagne innevate. Sembravano
placide, immobili. Cime candide dipinte su uno sfondo grigio
piombo, ma io sapevo quanto potevano diventare crudeli. Tutto ciò
che è meraviglia e stupore cela in sé una fatale violenza. E lo sapeva
anche Rhian.
«Ce ne stiamo andando» disse, rivelandomi infine il motivo per cui
era venuto a bussare alla mia porta.
«Ve ne andate?» mormorai. «Ma… Aerv è così piccolo, e Rose è
debole. C’è troppa neve, come farete con i carrozzoni?»
«Troveremo un modo. Ce la siamo sempre cavata, lo faremo anche
in questa occasione». Mi fissò dritto negli occhi. «Il fatto di avere un
destino stabilito non significa che non possiamo tentare di sfuggire
alla malasorte».
«In questo caso, spero che la fortuna vi assista. Preparerò dei tonici
per Rose e per il bambino, per aiutarli a superare il viaggio».
«Fiamma…» Rhian sembrava combattuto. Alla fine, mi guardò
dritto negli occhi, e vidi qualcosa agitarsi dietro le sue iridi scure.
«Ho rivolto le stesse parole a tua madre, venti anni fa: vieni via con
noi. So che questa è la tua casa, che il tuo cuore appartiene a questo
luogo, ma… il bosco non è un posto sicuro, credimi. Parti con noi, ci
prenderemo cura di te, saremo la tua famiglia».
Lo guardai per un lungo istante, il tempo necessario ad assimilare
le sue parole. Stavo per scuotere la testa, per dirgli che non me ne
sarei mai andata da lì, ma qualcosa mi fermò. Cosa mi tratteneva, in
fondo? Ero sola.
Mia madre e Raphaël erano morti. Li avrei portati sempre nel
cuore, ma non li avrei rivisti mai più. Quanto a Yann, desideravo
soltanto dimenticare il suo nome. Dimenticare il male che mi aveva
fatto.
«Io…»
Rhian attese alcuni secondi, poi scosse la testa. Sembrava avere
fretta di andarsene, di tornare all’accampamento. «Tu pensaci» disse.
«Partiremo domani, al sorgere del sole. Questo non è più un posto
sicuro».
«Rhian!» Lo fermai, quando era già lontano nella neve. Lui si voltò
e i suoi occhi incrociarono i miei. Sapevo che non avrei avuto altre
occasioni per domandarlo: «Perché Vivienne non è partita con voi,
quando ne ha avuto l’occasione?» gridai. Le mie parole si dispersero
nella foschia rarefatta che ci avvolgeva. «Perché?»
Rhian lasciò passare qualche secondo. «Per amore» disse infine.
«Non poteva sopportare l’idea di abbandonare l’uomo che amava,
anche se lui aveva abbandonato lei».
In quel momento, capii. Finalmente capii mia madre, il suo dolore,
la sua solitudine. Il suo mettermi in guardia.
Ogni scelta che compiamo, ogni decisione che prendiamo
comporta un prezzo da pagare.

Fiamma,
inizio questa lettera senza sapere se leggerai le mie parole. Può
darsi che deciderai di bruciare la busta senza nemmeno aprirla, ma è
più probabile che non arrivi mai nelle tue mani. Me ne farò una
ragione, in fondo non mi aspetto alcuna risposta.
Scrivo perché non ho altro che mi aiuti a mettere a tacere i miei
rimorsi, che allevii il mio senso di colpa.
Il mondo, fuori della valle, è diverso da come l’avevo immaginato.
I primi giorni di viaggio sono stati i migliori, poi ogni cosa è
diventata grigia e fangosa. Ci siamo avviati come un gregge
inconsapevole, smarriti come le pecore che tante volte ho definito
bestie prive di cervello. Ora al loro posto ci sono io, ci siamo noi,
soldati strappati alle loro vite e buttati in questo calderone di cenere
e miseria.
Sono passate poche settimane, e mi sembra già di non ricordare
più i colori: il cielo è indefinito e monotono, la pianura giallastra e i
monti, a est, blocchi di pietra e granito senza forma e dimensione.
Ogni cosa è piatta, deformata rispetto a quella che dovrebbe essere
la sua vera essenza. Anche la vita.
Infatti, mi sembra di non stare vivendo. Sono congelato, aspetto
soltanto che questo incubo finisca. Aspetto di tornare a casa, di
riempirmi gli occhi con i boschi e le montagne, montagne vere, non
queste sciocche sagome senza prospettiva. Aspetto di tornare da te,
anche se forse tu di me non vuoi più sapere niente.
Mi dispiace, Fiamma. Per quel bacio e per tutto il resto. Non sono
stato un buon amico. Alla fine mi sono rivelato meschino ed egoista
come le persone che un giorno, da bambini, avevamo giurato di non
diventare mai.
Come vorrei tornare ai giorni spensierati della nostra infanzia,
quando eravamo soli contro il mondo e bastavamo l’uno all’altra.
Non avevamo preoccupazioni, allora, se non quella di sfuggire agli
altri bambini, che ci davano il tormento.
Ti ho sempre ammirata per il tuo coraggio. Vorrei averne una
briciola, quaggiù dove sono ora. Una sola scintilla del tuo coraggio
basterebbe a illuminare questo buio, che è fatto di fumo nero e terra,
che riempie le narici e la bocca e impedisce di respirare. Non siamo
ancora al fronte ma, giorni fa, in una locanda abbiamo incontrato un
ufficiale che tornava da lì: ci ha fatto paura. Ricurvo su se stesso, la
testa fasciata, mangiava da solo, in silenzio, indifferente alle risate e
agli scherzi di noi giovani reclute, ancora ignare di quello cui
stavamo andando incontro, ancora innocenti. Ancora in preda a quel
brivido di eccitazione che ci faceva apparire questa guerra come
l’occasione per dimostrare il nostro valore facendo gli eroi. Quanto
può rendere sciocchi l’ignoranza!
Vassez, che viene dalla bassa valle ed è il più schietto di noi, non ci
ha messo molto a cercare di coinvolgerlo nella nostra goliardia.
Invano. L’ufficiale ha sollevato su di noi due occhi vuoti, bui. È stato
il primo assaggio di guerra che ho avuto: gli occhi di quell’uomo.
Lentamente è sceso il silenzio anche fra noi, i nostri giochi hanno
smesso di essere piacevoli e hanno assunto un sapore acido, di cose
marce.
L’ufficiale ci ha scrutato a uno a uno, con quegli occhi di tenebra.
Il suo era uno sguardo colmo di amarezza e del tutto privo di
speranza. Alle domande insistenti di Vessez, che ha continuato a
incalzarlo senza rendersi conto di nulla, gli angoli della sua bocca si
sono piegati in giù. Il suo volto era una maschera di sgomento. «Non
vi posso raccontare come è il fronte. Dovrete vederlo con i vostri
occhi, e non ve lo auguro. Con le parole non si può descrivere:
bisogna vedere».
«È dura, sì, lo sappiamo» è stato l’ingenuo commento di Vassez,
che voleva darsi arie da uomo vissuto.
L’ufficiale ha scosso la testa. Nei suoi occhi si era spenta ogni
luce. «Non sapete niente».
Quella sera abbiamo finito di mangiare in silenzio, ognuno
immerso nei propri pensieri.
Due giorni fa ci hanno spostato in una nuova baracca, dove
resteremo una settimana. Da qualche ora ha iniziato a piovere e
siamo tutti incupiti. Persino le carte con cui ci intratteniamo sono
fradice.
Poco lontano si odono le detonazioni dell’artiglieria, il fragore
della guerra. Qui, però, non succede nulla. Solo pioggia e nebbia e
soldati che rientrano dal fronte. Marciano in silenzio, trascinando nel
fango i piedi gonfi per il congelamento, avvolti nei sacchetti da
trincea. Li vediamo passare davanti alle baracche, un esercito
stremato, agonizzante. Una schiera di disgraziati che non parlano,
camminano soltanto. I loro sguardi hanno la stessa vacuità che
caratterizzava lo sguardo dell’ufficiale alla locanda. Esprimono lo
stesso muto terrore.
Li osservo e mi chiedo cosa mi aspetti. Cosa ci sarà per me,
laggiù? Non sono certo di volerlo sapere, ma inizio a immaginarlo. E
allora sì, vorrei il tuo coraggio, Fiamma, per sopportare questo
orrore senza fine; questi giorni che si trascinano lenti e che mi
tengono lontano da te.
Al polso porto il braccialetto che ho intrecciato con i tuoi capelli.
Toccarlo mi rasserena, mi fa pensare a te, al giorno in cui ci siamo
conosciuti. Volevo una tua ciocca, per dimostrare agli altri bambini
di avere coraggio. Ma il mio coraggio sei tu.
Guardo il giorno fare spazio alla notte. Persino le stelle ci sono
precluse, in questa spoglia terra di nessuno. Così chiudo gli occhi e
immagino le nostre montagne e le nostre stelle, così abbaglianti, così
luminose.
Mi manchi, non smetterai mai di mancarmi.
La candela si sta consumando.
Buonanotte, amica mia.

Fiamma,
non hai risposto alla mia lettera di qualche settimana fa. Vorrei
soltanto sapere se stai bene, solo questo.
Quanto a me, sono in dubbio se raccontarti quello che accade qua
intorno, ma immaginando che non leggerai mai queste parole,
consapevole quindi di scrivere solo per me stesso, per non smarrire
del tutto il lume della ragione, ti riporto un resoconto dettagliato
della realtà.
Siamo all’inferno.
Quell’inferno che don Jacques minacciava nelle sue prediche, e di
cui noi ci facevamo beffe, esiste davvero. Io l’ho visto.
Ci hanno spostato ancora, dividendo il gruppo, piuttosto affiatato,
che si era creato. Sono finito con Vessez, che nel frattempo ha perso
molto del suo infantile entusiasmo, vicino al posto di sanità. Il tenente
colonnello medico è tutto tranne che rassicurante, e una
rassicurazione è tutto ciò che i feriti che arrivano in gran numero
ogni giorno chiedono. Restano sulle barelle cenciose per ore, sotto la
pioggia, aspettando il medico che riserva loro solo una visita
sommaria, prima di passare al paziente successivo.
Sono troppi, e lui è uno solo, ma questo non giustifica le sue
risposte brusche, i suoi modi spicci. L’ho visto scuotere la testa ed
esclamare: «Niente da fare» davanti a un poveretto che elemosinava
soltanto un’illusione.
La verità, Fiamma, è che abbiamo perso qualunque umanità. La
morte è diventata un’abitudine, non rappresenta più un’eccezione,
ma appartiene ormai alla quotidianità.
Ogni giorno io e Vessez portiamo fuori dal baraccamento le
barelle su cui giacciono i corpi dei soldati che il medico non ha fatto
in tempo a visitare e che sono morti nell’attesa, soli, sotto questo
cielo impietoso, dove persino il sole non osa affacciarsi. Fumiamo
una sigaretta lì, tra i corpi sfatti di quelli che non ce l’hanno fatta, e
torniamo al posto di sanità con le barelle vuote.
Non ci guardiamo più negli occhi. La guerra ha impresso su tutti
noi un unico marchio di cinismo necessario a sopravvivere.
Se mi vedessi adesso, non mi riconosceresti, credo. Persino io
fatico a riconoscermi, ma è pur vero che non mi scruto in uno
specchio da troppo tempo. Non ne avrei il coraggio.
Un tempo eri tu il mio specchio. Ti guardavo e sapevo di me molte
più cose di quelle che riuscissi a immaginare. Mi sono specchiato in
te, nei tuoi occhi, anche il giorno del nostro ultimo incontro, quando
ho agito in preda a un impulso che non voglio giustificare in nessuno
modo, e non mi sono piaciuto.
Mentirei se dicessi che non desideravo farlo da tanto, troppo
tempo, ma ho sbagliato tutto comunque, perché avrei dovuto saperlo
che non mi volevi. Sì, lo sapevo, ma ho finto che non fosse così.
Io ti amavo, Fiamma. Ti amo ancora.
Ecco, ora l’ho detto. Tra le bende macchiate di sangue e il fragore
delle detonazioni ho trovato il coraggio di confessare quello che ho
dentro da così tanto che non riesco nemmeno a ricordare quando ho
iniziato a provare questi sentimenti. Da sempre, suppongo.
Ridi di me, odiami, se necessario, ma non ignorare questo
accorato appello: io ti amo. Anche qui, dove amare è un lusso che
pochi possono permettersi.
Ma tu lo sai, vero? Conosci la forza di questo sentimento, perché
l’hai provata sulla tua pelle. Ne hai sofferto tanto quanto io ho
sofferto per te.
Non prendertela, non c’è astio nelle mie parole. Nessun rancore.
Può sembrarti assurdo, ma la guerra ha ridimensionato tutto. Ciò
che pensavo mi avrebbe spezzato il cuore, lo ha invece fortificato. La
distanza mi ha permesso di vedere le cose nella giusta prospettiva.
Lucien Borel lo diceva sempre: puoi scorgere davvero tutti i
particolari di un paesaggio solo quando non ne fai più parte.
Ora vedo tutto con chiarezza, Fiamma. Vedo il tuo amore per lui,
per mio fratello, e non mi sembra più insensato e scorretto come mi
era apparso un tempo, tutt’altro, perché, vedi, credo che anche lui ti
ami. A modo suo, naturalmente.
Yann non è un uomo semplice, ma tu questo lo sai. L’incidente lo
ha reso insofferente e lunatico. È un uomo senza pace, un uomo che
non riesce a perdonarsi. Tu sola puoi salvarlo.
Fallo, ti prego. Fallo per me.
Non so se riuscirò a tornare da questo incubo che si fa sempre più
scuro. I contorni delle cose svaniscono, una parte di me muore ogni
giorno. Solo tu rimani nitida, su uno sfondo di stelle. Ogni notte
chiudo gli occhi immaginando il tuo volto che mi sorride. Sfioro il
braccialetto e vedo i tuoi capelli muoversi nel vento come scintille di
fuoco. Sei tu che mi fai andare avanti. Sei la speranza in un universo
che ha smarrito ogni fiducia nel domani.
Buonanotte, amica mia.

Fiamma,
ho perso il conto dei giorni, il tempo ha smesso di esistere. La vita
si è trasformata in sopravvivenza, e ho l’impressione, a ogni passo
che faccio, che non ci sarà ritorno. Scrivere a te, anche se ormai
sono quasi certo che non riceverai mai queste lettere, è l’unico modo
che ho per tenermi ancorato alla realtà. Sei il mio punto fisso in un
mondo che ha smarrito ogni riferimento.
Ci hanno spostato sulla prima linea, finalmente ho conosciuto le
trincee e ho potuto dare una forma al terrore sordo che questa parola
evoca nei soldati che ho visto scendere da qui.
Sono ferite che si aprono nel fango, piaghe infette della terra.
Sopra, soltanto strepiti, sibili di pallottole, richiami rauchi e cozzare
di ferraglia. Non so più cosa sia il silenzio.
Quando siamo saliti per dare il cambio, abbiamo scorto due
soldati che vigilavano alle feritoie, immobili. Non hanno risposto ai
nostri richiami, e solo dopo qualche istante ci siamo resi conto che
erano morti. Avevano ancora il fucile in mano.
I due cadaveri sono stati spinti fuori, sul mucchio che ripara le
buche. Un olezzo disgustoso si è sollevato nell’aria, ma non ci
abbiamo fatto caso. Non le notiamo più, queste cose. È il solo modo
per andare avanti senza impazzire: restare indifferenti. Indifferenti ai
corpi che si disfano nella melma. Corpi di uomini che potremmo
essere noi, domani, o tra qualche ora. Resteremo qui, a ingrassare la
terra già gonfia di sangue. Le nostre ossa si cementificheranno alle
rocce, si perderanno nella memoria. Chi ci ricorderà, quando tutto
questo sarà finito? Ma, in fondo, finirà mai? Non ho più risposte da
darmi.
Penso ai giorni di sole su all’alpeggio, alla trasparenza
dell’acqua, al frinire delle cicale nei prati. Ho le montagne
conficcate nel cuore, non le posso dimenticare. Tu fai parte di tutto
ciò, sei il paradiso che ho perduto e in cui non posso tornare a
camminare.
Ti arrabbieresti, vedendomi così sfiduciato. Mi scrolleresti,
dicendomi di reagire, di non abbattermi. Ma tu non sai quello che sto
passando. Non puoi nemmeno immaginarlo.
Non dormo più. Di notte i colpi scrosciano attorno a noi come
grandine, una sparatoria continua, dal tramonto all’alba. Un
martirio intollerabile che tra non molto ci porterà alla follia.
Il cielo, sopra la trincea, è un livido disgustoso, offuscato dai fumi
dei colpi. Non vediamo altro, da quaggiù, costretti a questa
immobilità che ci rende isterici, i nervi a fior di pelle. Gli austriaci ci
tengono sotto mira incessantemente, non riusciamo neanche a
ritirare i viveri. Il più delle volte i soldati incaricati di portare la
gavetta vengono freddati sulla strada. Noi preferiamo patire la fame
per due giorni, piuttosto che osare affacciarci e andare a recuperare
il cibo e l’acqua.
La vita ci ha tradito, Fiamma. Quanti sogni infranti, quante
aspettative deluse.
Almeno tu cerca di essere felice. Vai da lui, non esitare, non avere
paura. Ciò che ti ho detto quella volta, nel bosco, non era altro che
una menzogna dettata dalla gelosia. È vero, Yann non ti ha mai
chiamata per nome, ma solo perché il tuo nome lo turba più di
quanto sia disposto ad ammettere. Sì, ti ha maledetta, ha scagliata
contro di te parole impronunciabili, solo e unicamente per
mascherare con il disprezzo ciò che custodisce in fondo al cuore.
Mio fratello ti ama. L’ho capito quella notte, quando ho visto il
modo in cui ti guardava, sopraffatto. Paura e desiderio: non è forse
questo l’amore?
Sono dovuto uscire, quella notte, perché la vista del sangue mi ha
sempre nauseato. Ora è diverso, mi sembra di non avere altro, nelle
narici, che quell’odore ferroso e salino. Mi annebbia la vista,
confonde i miei sensi, ma non posso sfuggirgli. Così come quella
notte non sono riuscito a sfuggire a ciò che i miei occhi hanno visto.
Lo stavi baciando o forse lui baciava te. Che importanza ha,
ormai? Lo avevate già capito, allora. È stato amore a prima vista,
quello che ti piega le ginocchia, che non ti lascia scampo.
In questa storia io non sono altro che uno spettatore. Forse ho il
merito di avervi fatto incontrare, null’altro.
Sono patetico, lo riconosco. Siedo quaggiù, in questa fossa che
forse diventerà la mia tomba, tra compagni che magari domani
saranno morti. Non credevo che il mondo sapesse essere tanto
crudele, che potesse strapparti di dosso ogni gioia e sputarla ai tuoi
piedi. Quello che mi avvilisce, che mi demoralizza, è vedere morire
così inutilmente. Non siamo altro che pezzi di carne da macello. La
Patria è soltanto un’illusione.
Perdonami se queste parole sono così crude, così colme di
sconforto. Vorrei stracciare il foglio, poi penso che non leggerai mai
queste mie lettere, e allora mi concedo uno sfogo che non è altro che
un urlo silenzioso lanciato verso stelle che non posso vedere, ma che
da qualche parte, in un cielo che non si è ancora capovolto, esistono
ancora. Così come esisti tu.
È l’unica cosa che mi dona sollievo: sapere che esisti
Sei ciò che rende questo mondo migliore, Fiamma.

Fiamma,
non scriverò altre lettere, dopo questa. È buio e fa freddo, troppo.
Dalle pareti pantanose della trincea affiorano scarpe e arti di
gente sepolta o sprofondata lentamente. Nei miei incubi peggiori non
avrei potuto immaginare un simile, raccapricciante spettacolo. Siamo
circondati dalla morte, non ci sono spiragli alla tragedia che si sta
consumando sotto i nostri sguardi impotenti, ormai passivi,
annientati.
Fuori della trincea è anche peggio: il terreno è seminato di spoglie
umane che si aggrovigliano, elmetti sforacchiati, che a nulla sono
serviti sotto il fuoco incessante delle mitragliatrici, fucili ormai
inutili, cappelli piumati imbrattati di fango e sangue; e carta da
lettere e cartoline che si sollevano pigre a ogni alito di vento, per
spostarsi di qualche metro. Parole che mai raggiungeranno le
persone alle quali sono destinate, ultime speranze, soffi di vita che si
perdono nel nulla.
Da uno spiraglio tra due sacchi scrutiamo questo cimitero di
miseria; morti insepolti, sepolti vivi. È la fine del mondo.
Dopo questo, non può esistere nient’altro.
I cecchini, dall’altra parte, ci attendono con selvaggia avidità, con
implacabile pazienza. Non restiamo che noi in questo buco scavato
nelle viscere della terra. Ultima scintilla di vita, ultimo bagliore di
umanità perduta. Non sfuggiremo a questa trappola funebre, che si
richiude su di noi ogni giorno di più.
Piove da due giorni. Siamo fradici, paralizzati dal freddo, sfiniti.
Sfibrati dall’attesa che si prolunga come un’ombra, quando il sole
scema dietro l’orizzonte. Mi resta un solo foglio e un mozzicone di
matita. Strappo il foglio a metà: una metà è per te, l’altra per Yann.
Devi farmi una promessa, Fiamma: portagli questa busta. Se le
mie parole non sono cadute nel vuoto, quando le leggerai, saprai da
tempo che ho ragione.
Tu lo ami, come non hai mai amato me. Non è un rimprovero e
nemmeno un rimpianto. Voglio solo la tua felicità, amica mia. Da
questo inferno, fatto di crepuscoli lividi e infiniti silenzi, non desidero
altro.
Non dormo da troppi giorni, ho le mani scarnificate, gli occhi
gonfi e la fronte mi brucia di febbre. Non riesco più a scrivere, quindi
perdonami se in questa mia ultima lettera sarò breve.
Sopra ricomincia il bombardamento, che si era acquietato per la
pioggia. Tra non molto la ripresa nemica si scatenerà su di noi per
debellare quest’ultima nostra folle resistenza. Non ho più tempo.
Dai l’altra busta a mio fratello, per favore. È importante, ti chiedo
soltanto questo.
Fiamma, lasciarti andare è la cosa più difficile che io abbia mai
fatto. Più difficile di questa guerra, che è il confine ultimo della mia
vita.
Se chiudo gli occhi, mi sembra di sentire la brezza della valle che
spira sui prati e sulle rocce rugginose, nella selva di larici rossi e tra
le betulle. Le montagne si stagliano contro il crepuscolo. Il bosco è
già al buio, ma su ai pascoli arriva ancora l’ultimo sole e fa caldo;
mentre noi, quaggiù, avvolti dall’ombra, iniziamo ad avere freddo.
Scende la notte e il cielo si accende di stelle, e sono tanto luminose
da lasciarti ammutolito. E non ci pensi, non ancora, che non siamo
altro che una manciata di biglie lanciate nell’infinito. Scintille fragili
e palpitanti che illuminano un mondo troppo buio.
E ci sei tu, che non smetti di sorridere.
Addio, amica mia, mio unico amore.
Agape

La luce della candela proiettava sulle pareti ombre dalle forme


confuse. Ero ancora turbato dagli eventi di quel pomeriggio. La corsa
nella neve, il colpo di fucile, Yann Rosset che inseguiva Fiamma nel
bosco… Mi era sembrato tutto confuso, come se non fossi dentro la
scena, ma un semplice spettatore esterno.
Ero tornato alla canonica con Basile Blanche e suo fratello Etienne,
entrambi scossi. Il primo sanguinava copiosamente da un taglio sulla
fronte.
«La strega mi ha quasi ammazzato, signor curato» aveva borbottato
a denti stretti, mentre gli intimavo, senza troppi complimenti, di
camminare davanti a me.
Avevano cercato di uccidere una donna, quei due. Non potevo
lasciar perdere. «A me sembra che sia stato tu a cercartela» era stato
il mio brusco commento. «Non credo che ti avrebbe colpito, se tu per
primo non avessi cercato di spararle».
«È una strega» aveva protestato, come se bastasse a giustificarlo.
«È una creatura di Dio» avevo risposto, freddo «e Dio non tollera
che sia fatto del male alle sue creature. Oggi avete compiuto un
peccato che va ben oltre le mie competenze giudicare. Ve la vedrete
con il Signore alla resa dei conti, e con don Jacques, prima di lui».
Nella mia visione delle cose vedersela con don Jacques era molto
peggio che affrontare Belzebù in persona.
Etienne Blanche camminava tenendo lo sguardo basso, le braccia
penzoloni lungo i fianchi. Il fucile lo aveva lasciato nel bosco, forse
di proposito, forse senza nemmeno rendersene conto. Aveva sparato a
una donna sola e indifesa. Le aveva sparato senza nessun motivo
apparente, per puro odio. Un odio profondo e ingiustificato, dettato
dal pregiudizio e dall’ignoranza. Sembrava annientato da ciò che
aveva fatto.
Quando il colpo, era partito ero appena sopraggiunto nella radura
trafelato, del tutto fuori di me. Avevo paura che Yann Rosset si
facesse ammazzare, invece per poco a morire non era stata la ragazza
dei boschi. Il proiettile si era conficcato nella neve alle sue spalle. Lei
era rimasta immobile, una statua di sale. Se avesse mosso anche un
solo muscolo, forse l’avrebbe colpita; non l’aveva mancata di molto,
in fondo.
«Dio, perdonali, perché non sanno quello che fanno» mormorai,
rivolgendo una preghiera al cielo plumbeo, contro cui si stagliavano
le montagne cupe e innevate. Giganti di pietra muti e impassibili,
contro cui nulla potevano le nostre invocazioni. Restavano sordi ai
nostri drammi, quei blocchi di roccia e ghiaccio, indifferenti alla
miseria delle nostre vite, che non erano altro che semi di soffione
paragonate alla loro immutabile eternità.
Marie ci aprì la porta della canonica, sgranando gli occhi quando
vide il volto insanguinato di Basile. «Buon Dio, cos’è successo?»
esclamò, coprendosi la bocca con la mano.
Basile le lanciò un’occhiata in tralice. «Il tuo cavaliere è corso
dietro alle sottane della strega, se ci tieni a saperlo, Marie».
Gli posai una mano sulla schiena e lo spinsi dentro prima che
potesse dire altro. Lo sguardo cupo di Marie, tuttavia, mi diede la
risposta che cercavo: sapeva già tutto. La sua passeggiata con Yann
Rosset non doveva essere andata come aveva sperato, e questo
confermava i miei sospetti. Gli occhi di quell’uomo, del resto,
parlavano chiaro: non era Marie la donna che voleva.
Quando Etienne aveva sparato quel colpo, avevo visto tutto il
sangue defluire dal suo volto. Non aveva il coraggio di voltarsi verso
Fiamma. Anche se non lo avevo mai provato, nella sua forma più
passionale, sapevo riconoscere l’amore quando lo vedevo.
«Marie, vai ad avvisare don Jacques. E voi sedetevi qui» intimai ai
fratelli, indicando due sgabelli della cucina.
Vi presero posto cauti, Basile accigliato ed Etienne in preda ai
rimorsi. Era solo un ragazzino.
Mi sedetti davanti a lui, scrutandolo in volto. «Spero che tu ti renda
conto del gesto che hai compiuto, Etienne. È un fatto di enorme
gravità…»
Lui mantenne lo sguardo basso, evitando i miei occhi.
Suo fratello scosse la testa. Il sangue gli si era rappreso attorno agli
angoli della bocca, dandogli un’aria sinistra, da pagliaccio del circo.
«È stata lei a provocarci» affermò, senza pudore. «Ha cercato di
lanciarci addosso uno dei suoi malefici».
Mi voltai verso Basile, lo sguardo colmo di rimprovero, ma prima
che potessi parlare sentii il passo strascicato di don Jacques,
accompagnato dal battere del bastone, avvicinarsi nel corridoio.
Quando si affacciò nella cucina fiocamente illuminata, la sua
espressione non trasmetteva il minimo sconcerto; la sua espressione
restava impassibile come sempre.
Marie doveva averlo già informato di ogni cosa, pensai; oppure,
cosa altrettanto probabile, don Jacques non si stupiva più davanti a
nulla. I suoi occhi erano specchi grigi, freddi e imperturbabili.
«Avete interrotto le mie preghiere serali, don Agape» disse, senza
preoccuparsi di mascherare il malumore. «Spero che si tratti di una
questione importante, che non avreste potuto risolvere senza il mio
intervento, perché non c’è nulla che mi secchi di più che essere
disturbato quando sto pregando». Si schiarì la voce, spostando lo
sguardo da me ai fratelli Blanche. «Qui davanti a me vedo soltanto
due ragazzi spauriti» aggiunse, nel tentativo di sminuirmi.
«Questi due ragazzi spauriti, come li definite voi, hanno appena
sparato contro una donna indifesa».
Don Jacques strinse le dita al pomo del bastone. «È così?»
domandò, rivolgendo ai due fratelli uno sguardo bonario, che non
aveva nulla a che fare con le occhiate che invece riservava a me.
«Niente affatto, padre. Stavamo andando a caccia di volpi, quando
quella donna, la matta, è spuntata da un gruppo di alberi gridandoci
contro insulti e lanciandoci sassi. Guardate cosa mi ha fatto!»
esclamò Basile, indicandosi la fronte.
«E voi avete pensato bene di spararle?» Il tono di don Jacques era
calmo e misurato. Nessun rimprovero traspariva dalla sua voce.
«Ci ha colto di sorpresa. È partito un colpo, ma non si è fatto male
nessuno. Etienne può confermarvelo!» Basile allungò un braccio
verso il fratello e lo scosse per una spalla. Il ragazzino annuì appena,
continuando a tenere gli occhi bassi. Ringraziando il cielo, possedeva
ancora un minimo di coscienza per rendersi conto di quello che aveva
fatto.
«Bene, per quanto mi riguarda la situazione è chiarita. Non vedo
alcuna colpa in questo» fu la pacata conclusione di don Jacques.
Mi sollevai di scatto, un movimento brusco e repentino che mi rese
instabile. Barcollai, poi ritrovai l’equilibrio. «State scherzando,
spero!»
L’occhiata che don Jacques mi rivolse sarebbe stata sufficiente a
carbonizzare l’intero villaggio. «Vi sto dando forse l’impressione di
essere uno che scherza?»
In effetti, no. «Avete intenzione di… di lasciare impunito un simile
gesto?»
«Come ho già detto, non vedo colpe in quanto accaduto questo
pomeriggio, si è trattato di un semplice incidente. Dovreste essere più
indulgente, don Agape, verso il vostro gregge; e meno nei confronti
di chi a questa comunità non è mai appartenuto. Quella donna ha
scelto di sua volontà di allontanarsi da Dio; di conseguenza non è più
un nostro problema». Scandì quelle parole con un astio difficile da
comprendere.
«Non è questa la pietà che mi hanno insegnato» replicai, dopo
qualche secondo. «Non è questo il Dio che ho imparato ad amare. Dio
non abbandona le sue creature».
«La vostra ingenuità, don Agape, è abbagliante come quella di un
bambino. Forse finora non avete ben capito Nostro Signore. O
meglio: non lo avete capito affatto».
Mi lasciò lì, ammutolito, incapace di articolare una qualsiasi
risposta.
I fratelli Blanche avevano lasciato la canonica in silenzio,
trascinando i piedi fuori, nella neve.
Quanto a me, ero rimasto immobile, seduto nella cucina deserta,
finché il soffuso lucore dell’alba aveva rischiarato le pareti di legno e
il camino di pietra. I passi di Marie alle mie spalle mi avevano
ridestato dal torpore in cui ero caduto mentre riflettevo sulla mia vita,
sul senso di ogni cosa.
Avevo preso i voti per sfuggire alla responsabilità di scelte che,
all’epoca, mi erano parse ben più ardue. Avevo seguito la corrente a
testa bassa. Mi ero lasciato guidare e, alla prima occasione, ero
fuggito, pensando che, più strada avessi messo tra me e il passato che
mi lasciavo alle spalle, meno avrei sentito il peso della vita che mi ero
cucito addosso. Un vestito che mi stava stretto e mi impacciava nei
movimenti, un abito che non sentivo mio.
«Siete già sveglio, signor curato?» mi domandò Marie, passandomi
accanto per accendere il fuoco.
Solo in quel momento mi resi conto del fiato bianco latte che
usciva dalle nostre bocche. Doveva fare molto freddo, ma non me ne
ero accorto.
«Non ho dormito affatto» risposi, cercando di sgranchire gli arti
freddi e rigidi, rimasti immobili troppo a lungo. Posai le mani sulle
reni, raddrizzando la schiena. Mi doleva ogni parte del corpo.
Le montagne, oltre le finestre, erano sagome scure spazzate dal
vento. La neve che si sollevava sulle cime le faceva apparire avvolte
dalla nebbia, misteriose e insondabili come il cuore umano. E
altrettanto spaventose.
«Marie, credi che ci sia qualcuno, lassù?»
«Proprio voi lo domandate?» esclamò Marie, stupefatta.
«Sì, proprio io. Non sono sicuro di niente, Marie. Non ho le
risposte».
Lei si pulì le dita sporche di cenere sul grembiule. «Siete un uomo
di Dio, reverendo, non Dio stesso. Solo Lui ha tutte le risposte».
«Sì, ma… dovrei averle. Qualcuna, come minimo. Come posso
insegnare la parola di Dio, se sono il primo a dubitare?»
«Io credo, reverendo, che l’importante non sia avere le risposte, ma
farsi le domande giuste».
Restai a guardare il giorno che cancellava il buio dalla neve,
restituendole il suo candore. Non c’era altro che bianco, davanti ai
miei occhi. Avrebbe dovuto rasserenarmi ma, per qualche strano
motivo, quell’assenza di prospettiva mi inquietava. Ci si poteva
aspettare qualunque cosa da un mondo che aveva smarrito i suoi
colori.
Quello strano senso di angoscia non mi abbandonò per tutto il
giorno. Cercai di evitare don Jacques, e non fu affatto difficile:
sembrava che anche lui stesse evitando me.
Le strade del borgo erano deserte e impraticabili, così rimasi alla
canonica a godermi il caldo tepore del camino. Considerai l’idea di
recarmi da Lucien Borel a recuperare qualcuno dei miei libri, poi
rinunciai. Non ci eravamo lasciati bene l’ultima volta. Il maestro,
sempre così cortese e disponibile, mi era sembrato nervoso e
scostante, un comportamento che avevo attribuito agli sbalzi d’umore
della moglie, a quella tristezza incurabile che affliggeva gli occhi di
Adélaïde Borel. Fiamma le preparava impacchi per la congiuntivite,
ma la signora Borel non soffriva di congiuntivite: erano lacrime di
dolore quelle che rendevano il suo sguardo rosso e vacuo. Da quanti
anni la sofferenza scavava il cuore di quella donna dall’apparenza
mite e tranquilla?
Quella sera, prima di spegnere la candela sul mio inginocchiatoio,
recitai una preghiera per ogni abitante di quel piccolo villaggio
sperduto tra gli alberi e la neve che, in qualche modo, aveva toccato il
mio cuore: i coniugi Borel, Marie, Yann Rosset e Fiamma, la ragazza
dei boschi. Ognuno di loro, a modo proprio, aveva cambiato una
piccola parte di me, mi aveva spinto a interrogarmi, a guardarmi
dentro.
Marie aveva ragione: non contava la risposta, ciò che aveva
davvero importanza era la domanda.
Mi addormentai chiedendomi se Dio, dall’altra parte di quel cielo
di piombo, stava quanto meno apprezzando quel mio incessabile
interrogarmi.
A svegliarmi, dopo quelli che mi parvero pochi minuti da quando
avevo ceduto al sonno, fu un terribile boato. Un’eco che si perdeva
nell’oscurità. Mi sembrò che ogni cosa attorno a me traballasse. Il
portacatino si ribaltò, e così l’inginocchiatoio. Dapprima, pensai a un
terremoto. Poi mi ricordai delle montagne. Le montagne si stavano
ribaltando, vomitando sul villaggio il loro carico di neve e detriti.
Il cuore mi schizzò dal petto alla gola, faticavo a respirare; faticavo
a orientarmi, in quel buio fatto di scossoni e sussulti.
Alla fine, trovando in me un coraggio che non sospettavo di avere,
scansai le coperte dal letto e mi misi in piedi con cautela. La terra
sembrava aver ritrovato il suo equilibrio. Mi infilai la tonaca sopra la
camicia da notte e, con gli scarponi slacciati, spalancai la porta della
stanza.
Marie correva nel corridoio tenendo una candela accesa nella
mano. I capelli sciolti le ondeggiavano sulle spalle come alghe molli
e pallide.
«Cos’è successo?» gridai.
«Una valanga, signor curato! Mio Dio…»
Le tolsi la candela di mano, facendo strada. «Dobbiamo…
Devo…»
In quel momento una sola cosa avevo in mente: la manciata di
anime che erano sotto la mia responsabilità, quelle vite che era mio
compito guidare e salvaguardare, che dovevo radunare e condurre in
salvo.
Mi gettai il cappotto sulle spalle e, senza un attimo di
ripensamento, spalancai la porta della canonica.
Gli abitanti di Saint Rhémy si stavano riversando fuori dalle case.
Era gente di montagna, quella. Convivevano con la forza implacabile
e distruttrice delle Alpi da tutta la vita, conoscevano ogni variazione
di clima, ogni scherzo del destino. Eppure, sui loro volti segnati dalla
fatica e dai troppi inverni, quella notte scorsi un grande sgomento.
La valanga sembrava essersi arrestata senza travolgere il borgo, ma
il bosco era sommerso. La neve era arrivata fino alle prime case.
Aguzzando la vista, mi resi conto con sollievo che erano ancora in
piedi.
Rimasi a bocca aperta a guardare quello spettacolo tremendo e
incredibile insieme, fino a quando una voce non sovrastò il confuso
chiacchiericcio che, dopo qualche istante, aveva rianimato gli abitanti
del villaggio.
«Mia figlia è lassù». Il tono era disperato. L’uomo si fece strada
nella neve. Il suo volto era una maschera di terrore. «Vi prego,
aiutatemi, mia figlia è nel bosco. Devo… Devo andare a prenderla».
Quando riuscii a capire a chi appartenesse quella voce, rimasi
senza parole. Lucien Borel arrivò davanti a me, afferrandomi per il
bavero del cappotto. I capelli bianchi gli svolazzavano sulle tempie,
gli occhi erano accesi di disperazione.
«Aiutatemi, vi prego. Dobbiamo andarla a prendere. Dobbiamo…»
Si accasciò ai miei piedi. Le gambe non lo reggevano più.
Ci misi qualche istante ad assimilare quella notizia: Fiamma era la
figlia di Lucien Borel. Allora, compresi le parole della signora Borel,
che non avevano mai smesso di ronzarmi nella mente: «Me lo ha
portato via». Non si riferiva a Martin, bensì a Lucien. Vivienne le
aveva rubato l’amore di suo marito, quell’uomo disperato e smarrito
che in quel momento mi stava supplicando di aiutarlo, di non
costringerlo a vedere morire un altro figlio.
Sollevai il volto verso le montagne. Una lunga linea di creste
bianche orlava il cielo di feltro. L’alba illuminava la polvere di neve
che si sollevava tutto intorno. C’era un silenzio strano, irreale.
Profondo e assoluto. Per la prima volta mi parve di udirla, la voce
della montagna. Era la voce di Dio.
Solo che non veniva da fuori, era dentro di me. Fu allora che
compresi il mio errore: avevo sempre cercato qualcosa che andasse
oltre; oltre la mia effimera esistenza, oltre la mia mortalità. Invece,
avrei dovuto guardarmi dentro, cercare laggiù, nei recessi del mio
cuore spaventato. Era da lì che veniva la forza necessaria a reagire
alle avversità della vita.
Dio era davvero nei dettagli. I dettagli, in quell’universo di astri e
galassie, di montagne impervie e oceani senza orizzonti, eravamo noi
esseri umani.
«Andiamo» dissi, sollevando Lucien Borel da terra e rimettendolo
in piedi. Non pesava niente, mentre io mi sentivo addosso un vigore
nuovo. Ero sempre stato un uomo imponente e mi ero sempre
vergognato di esserlo; mi sentivo inadeguato in quel corpo ampio, che
occupava troppo spazio. Finalmente riuscivo a dare un senso alla mia
corpulenza: significava protezione. Ero nato per quel compito, la
strada che avevo percorso non l’avevo percorsa invano. «Andiamo a
prenderla. Tutti insieme!».
Gli abitanti del villaggio rimasero ammutoliti. Avvolti nelle sciarpe
e negli scialli, che si erano buttati sulle spalle in tutta fretta mentre la
montagna rovesciava la sua furia su di noi, mi guardavano smarriti,
incapaci di reagire. Allora compresi due fatti di non trascurabile
importanza:
loro sapevano. Sapevano tutto di Lucien Borel. L’avevano sempre
saputo, e avevano custodito quel segreto gelosamente, come avrebbe
fatto una famiglia;
loro erano una famiglia. Tasselli di un unico mosaico, necessari
l’uno all’altro.
«Noi siamo una comunità» gridai. «Siamo un solo cuore, e ognuno
di noi è indispensabile affinché questo cuore non smetta di battere.
Dio vi esorta a non abbandonare nessun fratello: fate questo al più
debole di voi, e l’avrete fatto a Lui stesso. Ricordate?»
Le mie parole sembrarono cadere nel vuoto.
«Quella ragazza» continuai, indicando il bosco da cui spuntavano
soltanto le cime degli alberi, quelli che non erano stati sradicati via
dalla furia distruttrice della slavina «la chiamate strega, l’avete
sempre tenuta lontana, ma lei ha sempre fatto parte di voi. Ha curato
le vostre ferite, guarito i vostri mali, aiutato i vostri figli a venire al
mondo. È da lei che tutti, tutti, siete andati in silenzio a cercare un
rimedio alla sofferenza. Abbandonatela adesso, e Dio non vi
perdonerà. Abbandonatela, e il rimorso del vostro egoismo vi
perseguiterà per sempre».
Li guardai a uno a uno, come li avevo guardati dal pulpito, e cercai
di trasmettere loro quello che provavo. Quel senso di comunione di
cui mi sentivo, finalmente, parte.
Mi diedero le spalle e se ne andarono, tornarono alle loro case.
Li vidi riapparire dopo alcuni minuti, le espressioni risolute. Nelle
mani ognuno di loro stringeva una vanga per spalare la neve.
Yann

Spaccavo la legna nel fienile, fuori c’era troppa neve per farlo. La
luce non aveva ancora rischiarato il villaggio, restava una striscia
purpurea all’orizzonte. Il fiato delle bestie usciva nel gelo,
condensandosi in nuvole sottili nell’aria impregnata dal fetore del
letame e dal sentore più dolce del fieno secco.
Su di me conservavo il profumo di Fiamma, quell’odore selvatico
che mi era entrato sottopelle anni prima e non ero più riuscito a lavare
via. Sulle mie labbra il suo sapore iniziava appena a dissolversi.
Presto non sarebbe stato altro che un oscuro ricordo da sotterrare
dove tenevo nascosto tutto ciò che mi faceva male: nella parte più
buia di me.
Mi avrebbe odiato. Mi avrebbe maledetto e detestato, e ne avrebbe
avuto ogni ragione. L’avevo persa per sempre, ormai.
Calai l’ascia sul ceppo, guardando il legno spaccarsi, immaginando
che ogni colpo di scure fosse un colpo inflitto a me stesso. Nemmeno
io mi sarei perdonato. Mai.
Cedere all’istinto, possederla, vedermi privato di qualunque
volontà, se non quella del cuore, era la punizione che meritavo.
Essermi condannato a un’intera esistenza senza di lei, dopo aver
conosciuto il calore della sua pelle contro la mia, era ciò che
meritavo.
A dividerci ci sarebbe stato per sempre un abisso di dolore, quel
vuoto incolmabile che Raphaël aveva lasciato dietro di sé e che si
tendeva come una crepa fra me e lei. Era una ferita che nemmeno
Fiamma, con le sue abili dita, poteva ricucire. Era una ferita
insanabile.
La porta della stalla si aprì, e Agnés fece il suo ingresso avvolta
nello scialle di lana. Fra le mani stringeva i secchi del latte vuoti,
veniva per la mungitura. Si fermò, quando mi vide, rabbuiandosi:
«Yann? Che cosa…?» Guardò la legna che avevo spaccato, in preda a
quell’impulso distruttivo che mi animava da ore, da quando avevo
lasciato la casa di Fiamma. C’erano schegge di legno ovunque, tra la
paglia e nei miei capelli. Me le scrollai di dosso con un movimento
brusco.
«Spacco la legna, non lo vedi?» esclamai, piantando la scure nel
ceppo.
Agnés restò in silenzio per alcuni secondi. «Non sei tornato a casa,
questa notte» disse infine. «La mamma era in pensiero».
Mi asciugai il sudore dalla fronte con la manica della camicia. Non
avevo risposte da dare.
«Yann!» Un urlo improvviso, fuori della porta del fienile, ci
costrinse a sollevare la testa di scatto. Deglutii qualcosa di amaro nel
riconoscere la voce di Fiamma: era alterata dalla rabbia. E dalle
lacrime, forse. Rimasi paralizzato, incapace di muovermi.
Agnés inclinò il viso, scrutandomi con aria sospettosa e
preoccupata insieme. Poi, vedendo che non reagivo in alcun modo, si
mosse verso la porta della stalla.
«Aspetta» dissi, riscuotendomi. «Non…» Mi bloccai, indeciso su
come proseguire. Non potevo affrontare Fiamma in quel momento,
non dopo quella notte. Se l’avessi guardata negli occhi, se avessi
scorto l’odio che di certo in quel momento li faceva ardere, ne sarei
morto. Il suo disprezzo mi avrebbe annientato, mi avrebbe levato ogni
sentimento, non lasciando altro che un guscio cavo in cui l’eco del
mio cuore si sarebbe persa nel nulla, fino a consumarsi.
«Agnés, ti prego, non dirle che sono qui» sussurrai.
Mia sorella sembrava confusa.
«Yann!» gridò di nuovo Fiamma. La sua voce scavava solchi di
dolore nel mio cuore. La immaginavo fuori, nella neve, furibonda e
scarmigliata. Non ero in grado di sovrapporre quell’immagine a
quella che avevo di lei nei pochi istanti in cui aveva dormito tra le
mie braccia, così fragile, così indifesa.
Agnés aprì la bocca, stava per dire qualcosa. Un lampo di
comprensione passò nel suo sguardo. «Le lettere» disse infine. «Le
hai dato le lettere».
Il mio silenzio impotente confermò i suoi dubbi. Mi diede le spalle
e si diresse verso la porta. Quando la aprì, la luce del giorno si riversò
nel fienile. Una luce bianca e accecante che feriva gli occhi. Mi
ritrassi, restando nell’ombra.
La voce di Fiamma arrivò più nitida alle mie orecchie, mi colpì
come schegge di ghiaccio sul volto: «Dov’è quel vigliacco?»
Agnés si richiuse l’uscio alle spalle, e le loro parole mi furono
attutite.
«Yann non è qui. Non so dove sia. Torna a casa, Fiamma». C’era
un misurato equilibrio nel modo di esprimersi di mia sorella, che
cozzava con il tono stridulo della donna che amavo e che, in quel
momento, voleva urlarmi addosso tutto il suo disprezzo.
«Allora, dagliela tu, questa, e digli che non lo perdonerò mai, mai,
per avermi nascosto le sue lettere».
«Posso capire la tua rabbia…» disse Agnés, nel vano tentativo di
acquietarla.
«No. No, non puoi».
Immaginavo i suoi occhi colmi di lacrime, il volto stravolto,
deformato dall’ira, dalla delusione.
«Fiamma…»
«Non mi vedrete più» disse lei. «Mai più. Me ne sto andando, parto
con gli zingari. So che non vi interessa…» Prese tempo. Parlava al
plurale, sapeva che ero lì, che la stavo ascoltando. Si rivolgeva a me,
e le sue parole erano una lama affilata che mi scavava la pelle, che mi
feriva nel profondo. «Mi avete sempre disprezzato, mi avete nascosto
le sue lettere, condannandomi al silenzio. Perché? Perché? Meritavo
questo?» proseguì dura, implacabile. «Non sarò più un problema per
voi. Addio» concluse, mentre la immaginavo dare le spalle ad Agnés,
i capelli che si sollevavano attorno a lei come una nuvola
incandescente.
Per un istante, un solo istante, desiderai lasciar cadere ogni difesa,
correre da lei, consentirle di riversarmi addosso la sua rabbia e
supplicarla di non lasciarmi, nonostante tutto. Ma le mie gambe erano
di marmo, il cuore era sprofondato nel petto e taceva, muto. Rimasi
immobile, nascosto nell’ombra, come il peggiore dei codardi. Quando
non udii altro che il vento che soffiava fuori, capii che se ne era
andata veramente.
Se ne era andata per sempre.
Un colpo, un solo colpo, dato con forza contro la parete del fienile,
poi le ginocchia mi cedettero e mi accasciai, premendomi contro il
cuore la mano che sanguinava, le nocche spellate, scorticate come la
mia anima in quel momento.
Quando Agnés rientrò, mi trovò lì, rannicchiato in un angolo. Mi
guardò con un’espressione che non dimenticherò: una pena profonda
traspariva dal suo sguardo.
Stavo andando in pezzi davanti ai suoi occhi. Quei pezzi, che per
tanti mesi, per anni, avevo cercato a fatica di tenere insieme, si
frantumavano come ghiaccio sfiorato dal sole.
«Immagino tu abbia sentito quello che ha detto» mormorò.
Annuii, senza parlare. La voce mi avrebbe tradito.
Agnés sospirò, poi si piegò e appoggiò davanti a me una busta
ripiegata su se stessa.
«Questa è per te».
Dopo qualche istante, vedendo che non reagivo in alcun modo, si
voltò per andarsene.
«Ho sbagliato tutto, Agnés».
Mia sorella si arrestò, senza però tornare a guardarmi. «No, Yann.
Hai sbagliato alcune cose. Non sei infallibile, nessuno di noi lo è, in
fondo. Dovresti smetterla di odiarti. È questo il tuo problema: non
puoi perdonarti. Ma ci sono cose su cui non abbiamo alcun potere. La
morte di Raph è una di queste».
«Quali sono le altre?»
«La montagna che sfugge al tuo controllo, ad esempio, o il fatto
che tu e Raph vi siate innamorati della stessa donna». Indugiò, poi
espirò nell’aria una nuvola di fiato tiepido: «Non è tardi, Yann».
«Per cosa?»
«Per assolvere colpe di cui non sei diretto responsabile e rimediare
agli errori che hai fatto spinto da queste convinzioni. Pensaci. E leggi
quella lettera, è di Raphaël».
«Cosa?» domandai, confuso. Ero convinto che fossero parole di
Fiamma, un modo per dirmi addio.
«La calligrafia, sulla busta, è quella di Raphaël».

Ci misi del tempo a trovare il coraggio. Non ero mai stato un lavativo,
nella mia vita, ma quel giorno non misi piede fuori del fienile.
Temevo che, se mi fossi sollevato dall’angolo buio in cui mi ero
rintanato, come una bestia ferita che si allontana da tutto per morire
da sola, mi sarei sgretolato come una statua di sale.
Alla fine, quando la luce divenne fragile e pallida e il giorno iniziò
a scolorire nella notte, presi coraggio e stracciai la busta, estraendone
un foglio fragile come una foglia secca prossima a sbriciolarsi.
Erano le ultime parole di mio fratello. Oltre quel pezzo di carta e
inchiostro non sarebbe rimasto più nulla.
Chiusi gli occhi, il volto sprofondato nella pagina che odorava di
paglia e muffa, poi li riaprii e cercai di dare un senso ai caratteri fitti e
sottili che componevano la missiva.

Yann,
se in questo momento stai leggendo le mie parole, significa che lei
ti ha portato questa lettera.
Lei ti ama, Yann. Ti ama, come tu ami lei.
Non scuotere la testa, non accartocciare il foglio, non servirà a
niente. Da questa distanza vedo tutto con più chiarezza.
Se c’è una cosa che ho capito, da questa guerra che non lascia
scampo, è il senso del tempo. Ne abbiamo a disposizione uno sputo e
lo sprechiamo a vivere una vita che non vogliamo, mettendo a tacere
i nostri desideri. Siamo così fragili, così insensati.
Vai da lei, Yann. Amala, proteggila, lascia che si prenda cura di te.
Lei sola può sanare le tue ferite, quelle che ti porti dentro e
addosso da quella notte. Le hai permesso di ricucire la tua pelle,
permettile anche di rimettere insieme la tua anima.
Non hai colpe per quello che è successo, la montagna sa essere
crudele, come la vita. Pensavi di conoscerla, ma non si conosce mai
davvero ciò che si ama, lo si può solo amare.
Yann, la mia vita finisce qui, non la tua.
Rialzati, fratello mio. Rialzati e vai da lei, è tutto ciò che ti chiedo.
Vivi la vita che avrei voluto vivere. Ogni istante, ogni suo sorriso.
Sei mio fratello, e ti amo. Qualunque piega prenderà la tua
esistenza, questo non cambierà le cose.
Sei mio fratello, custodisci quanto ho di più caro. Lo lascio nelle
tue mani, di cui mi sono sempre fidato, di cui non smetterò di fidarmi.
Con affetto, Raphaël
Dalla busta cadde fuori un braccialetto di corda. Guardandolo con più
attenzione, mi resi conto che non era fatto di spago, ma di capelli. I
capelli di Fiamma. Raphaël non lo toglieva mai, era il suo
portafortuna.
Raphaël…
Una macchia bagnata si allargò sul foglio, sciogliendo l’inchiostro.
Prima che potessi rendermene conto, le lacrime mi stavano rigando le
guance. Lacrime di rabbia, di amarezza, di insopportabile dolore. Mi
piegai su me stesso, singhiozzando, emettendo suoni rauchi che
spaventarono le vacche. Gli animali avvertono la paura.
I palmi premuti contro gli occhi, piansi come piange un bambino,
le ginocchia al petto, la fronte schiacciata contro il muro. Il dolore mi
investiva a ondate, lasciandomi disarmato, impotente. Tutto quello
che pensavo di aver lasciato morire dentro me era vivo e gridava,
strepitava. I confini della mia carne non potevano trattenere quella
pena senza fine. Picchiai il pugno contro il muro ancora e ancora, fino
a non sentire più dolore.
L’amore che provavo, la ferita al cuore dove prima c’era il posto di
Raphaël, la voragine che si era aperta sotto i miei piedi quando la
montagna mi aveva tradito… Ogni cosa si riversò da me come un
torrente in piena che valica gli argini.
Alla fine mi ritrovai debole e tremante; dentro avvertivo un’eco di
insopportabile silenzio che mi terrorizzava più di tutto il resto. Mi
sollevai e, sulle gambe tremanti, lasciai il fienile.

Mia madre era in cucina. Seduta davanti al fuoco, guardava le fiamme


contorcersi e consumare lentamente i ramoscelli umidi. C’era odore
di legna bruciata in casa, di cibo cucinato. Avrebbe dovuto
confortarmi, invece non fece che acuire la mia angoscia.
Mia madre sollevò il volto, rivolgendomi una lunga e penetrante
occhiata. «Yann» disse soltanto, come se pronunciare il mio nome
fosse sufficiente a dissipare le ombre che mi avvolgevano.
Mi avvicinai alla credenza, afferrando la bottiglia della grappa.
«Yann…»
«Cosa? Cosa, mamma?»
«Mi si spezza il cuore a vederti così».
Le lacrime cristallizzate sulle guance, mi attaccai al collo di vetro,
bevendo una sorsata di liquore che mi infiammò la gola.
«Sei sempre stato il più responsabile dei miei figli, quello che si
faceva carico di ogni cosa, dei doveri e anche delle colpe» disse mia
madre, tornando a guardare il fuoco. «Questa mattina, quando ho
visto quella donna…»
«Non tornerà più».
«… quando ho visto quella donna» continuò mia madre, ignorando
le mie parole «ho capito due cose: Raphaël non c’è più, e tu, figlio
mio, devi permetterti di essere felice. Provaci, almeno».
«Che ne sai, mamma, di quello che potrebbe rendermi felice?»
dissi in tono accusatorio. «Alla felicità ho rinunciato troppo tempo
fa».
«Ne sei innamorato?» domandò lei in un sussurro.
Sospirai, bevendo un altro sorso di grappa. «Sì».
«Sposala, allora».
«È tardi. Se ne è andata con gli zingari. Sono la sua famiglia, in
fondo, è giusto così. Non è mai appartenuta a questo posto».
Mia madre distolse lo sguardo dal fuoco, l’espressione accigliata.
Poi scosse la testa. «Quella è la figlia di Lucien Borel, Yann.
Appartiene al villaggio tanto quanto me e te. Fa parte di noi».
Spalancai la bocca, e la bottiglia di grappa mi cadde di mano,
frantumandosi ai miei piedi. Il liquido macchiò il pavimento,
assorbito dal legno.
Fu in quel momento che la montagna si rovesciò su di noi. Ci fu un
boato, seguito, subito dopo, da un rumore che non avevo più scordato,
dalla prima volta che l’avevo udito: era la neve che gridava e correva
veloce, travolgendo tutto quello che trovava sul suo percorso: alberi e
rocce, case e persone.
Persone!
«Fiamma».
Fiamma era tornata nel bosco.
Mia madre si sollevò, l’espressione spaventata e confusa. Le pareti
della casa tremarono, gli oggetti caddero dai ripiani, le pentole di
stagno si staccarono dal muro e cozzarono tra loro mentre rovinavano
a terra. Io corsi verso la porta.
«Yann!»
Spalancai l’uscio quel tanto che bastava per vedere la polvere di
neve vorticare nell’aria. Il bosco era svanito, inghiottito dalla furia
bianca e fatale della valanga.
Un turbine candidissimo di neve omicida.
«Yann!»
Corsi fuori, sordo a ogni richiamo. Corsi nonostante la gamba,
indifferente al terrore che la neve mi causava. Mi aveva vinto una
volta, costringendomi a rinunciare alla mia vita. Non mi avrebbe
portato via più di quello che avevo già perduto.
«Dio!» gridai, contro il cielo muto della notte, affondando fino al
ginocchio. «Non portarmela via, solo questo ti chiedo».
I cumuli di neve avevano cancellato il sentiero. Gli alberi si erano
spezzati, non lasciandomi intuire la direzione da imboccare. Mi
fermai, ansimando. Non riconoscevo più la strada per andare da
Fiamma, avevo perso l’orientamento. Mi portai le mani alla fronte,
sentendo il panico serrarmi la gola.
Fu allora che lo vidi, immobile davanti a me: aveva l’elmetto
ammaccato e la divisa logora, ma gli occhi erano di un sorprendente
azzurro, gli occhi erano quelli di Raphaël. Mi guardò per un tempo
che mi parve infinito, poi si voltò e iniziò a correre, senza lasciare
tracce nella neve.
Lo seguii. Lo seguii perché non avevo altro cui aggrapparmi, se
non quella visione che forse apparteneva al bosco, forse alla mia
coscienza.
Mio fratello conosceva la strada meglio di me, la conosceva meglio
di chiunque. Era stato il primo a percorrerla. L’aveva calpestata anche
la notte del mio incidente, quando mi aveva portato da lei per la
prima volta. In quel percorso c’era il mio destino.
All’improvviso lo persi di vista, era svanito nel nulla, ma io avevo
capito la direzione giusta e proseguii da solo, certo dei miei passi. Ero
stato un soldato della neve, sapevo muovermi sui valichi insidiosi, tra
i crepacci e i ghiacciai. Ero ancora un soldato della neve, nonostante
tutto.
Arrivai alla radura che albeggiava. Del capanno spuntava soltanto
il tetto, da cui le beole erano state sradicate via. Con grande fatica lo
raggiunsi e iniziai a scavare a mani nude. Non sentivo più le dita,
avevo le nocche scorticate per essermi accanito contro il muro del
fienile, ma non mi importava.
Spostai cumuli e macerie, tronchi spezzati e sassi, sperando di
riuscire ad aprirmi uno spiraglio per raggiungerla nella sua prigione
di ghiaccio.
L’inferno non aveva affatto il colore del fuoco e delle tenebre.
L’inferno era bianco, io lo avevo visto.
Mi spezzai le unghie, iniziai a sentire le braccia che cedevano, ma
la neve restava dov’era.
«Ti prego…» singhiozzai. «Ti prego, Dio, non abbandonarmi
adesso…» sussurrai, affondando le braccia nella neve fino al gomito.
Speravo di sentire le mani di Fiamma, dall’altra parte di quel muro
che ci divideva, sfiorare le mie.
Se fosse morta, sarei morto con lei. Alla fine la montagna aveva
vinto, non mi restava più niente.
«Io ti amo» dissi, posando la fronte contro la neve. «Ti amo».
Una luce riverberò sul mio volto. Levai il viso e scorsi il nuovo
parroco farsi strada tra le rovine del bosco reggendo un lume. Alle
sue spalle c’era tutto il villaggio.
Fiamma

La casa di Lucien profumava di carta stampata. Le pareti e il


pavimento erano di legno, c’erano tende alle finestre e cuscini sulle
sedie. Dal letto in cui ero confinata guardavo tutto con interesse e
curiosità. Non ero mai stata in una casa, una casa vera.
Della valanga conservavo pochi e confusi ricordi. Il freddo, sopra
ogni cosa. E il senso di soffocamento che avevo provato, quando la
neve aveva investito il capanno, facendo crollare i muri e riversandosi
su di me.
È la fine, avevo pensato.
Poi avevo visto Raphaël tendermi una mano. L’avevo afferrata, alle
spalle non mi lasciavo nulla, se non una vita ormai vuota come il
guscio di una chiocciola.
Uno spiraglio di luce si era aperto nella neve che mi avvolgeva.
Voci confuse, e poi… il suo odore. L’avrei riconosciuto tra mille
altri: tabacco, cuoio e resina.
Yann mi aveva stretto a sé. Non Raphaël, Yann.
Aveva pronunciato il mio nome una, due, cento volte. Mi aveva
chiamato con una disperazione che mi aveva spinto a sollevare le
palpebre, nonostante l’incredibile stanchezza che mi avvolgeva come
una pianta rampicante. Mi sentivo incorporea, non avvertivo neanche
più dolore.
«È viva» l’avevo sentito sussurrare, una mano dietro la mia nuca,
mentre mi teneva stretta a sé. Alle sue spalle lampi di luce, mormorii.
Non avevo fiato per parlare, né la forza sufficiente a ribellarmi. Mi
ero lasciata sollevare docilmente dalle sue braccia, avevo accettato
che mi portasse via dal bosco, giù al villaggio.

La casa di Lucien era diventata un rifugio e anche una prigione. Mi


ero slogata una caviglia e avevo un polso rotto. La mia casa era
svanita sotto la neve.
Ero viva per miracolo. Ero viva grazie all’ostinazione e alla
generosità di chi, prima di allora, non mi aveva mai dimostrato affetto
né riconoscenza: gli abitanti di quel villaggio cui, da bambina, avrei
desiderato appartenere più di ogni cosa.
Altri non avevano avuto la stessa fortuna, quella notte. Una lacrima
scese silenziosa sulla mia guancia, bagnando il cuscino.
La porta si aprì, e Lucien fece il suo ingresso tenendo tra le mani
un vassoio con sopra una scodella da cui si sollevavano volute di
fumo.
«Sei sveglia» disse, l’espressione lieta che si spense, quando scorse
le mie lacrime.
Mi affrettai a passarmi il dorso della mano sul volto. «Sì».
Posò il vassoio sul comodino. «Ti ho portato un po’ di minestra…»
«Non ho fame».
«Devi mangiare qualcosa, se vuoi ritrovare le forze».
«Dopo».
Lucien sospirò, ma non insistette. Sapeva quanto potevo diventare
ostinata.
«Posso?» domandò, indicando la sedia accanto al letto.
«È casa vostra, Lucien, non dovete chiedere il permesso».
Vi prese posto in silenzio, lo sguardo basso. Quando lo sollevò, nei
suoi occhi scorsi una pena senza fine. «C’è qualcosa che devo dirti,
Fiamma. Qualcosa che avrei dovuto dirti molto tempo fa, ma che, per
una serie di ragioni, non sono mai riuscito a fare».
«Vi ascolto» dissi, guardandolo dritto negli occhi.
«Non è… affatto semplice» mormorò, rimirandosi i palmi delle
mani. Erano lisci e bianchi. Lucien Borel lavorava con i libri e
l’inchiostro, un lusso che in pochi potevano permettersi in quella
valle di ghiaccio e pietra.
«Sono certa che saprete trovare le parole. Sono il vostro mestiere,
in fondo».
Lui accennò un sorriso. «Talvolta non sono le parole, ma è il
coraggio, quello che manca». Inspirò. «Si tratta di Vivienne, tua
madre… Vedi, io… l’ho amata».
Rimasi a guardarlo, in silenzio. Avevo l’impressione di trovarmi su
una lastra di ghiaccio, sarebbe bastato un solo movimento sbagliato a
spezzare quella crosta che era più fragile di quanto potessi
immaginare. Equilibrio. Era tutta questione di equilibrio.
«Vivienne era silenziosa» continuò Lucien, torcendosi le dita «ed
era… bellissima. Era appena arrivata dalla bassa valle, lavorava alla
canonica, il capo coperto, lo sguardo basso. Non parlava con nessuno,
ma non si dava arie. Semplicemente non le interessava farlo. È
sempre stata una creatura solitaria, tua madre. Sembrava non sentire il
bisogno di avere altri esseri umani accanto a sé, non la spaventava il
silenzio, e nemmeno l’isolamento».
«Lo so. Ho vissuto diciassette anni nel bosco con lei, soltanto con
lei. Capisco quello che intendete dire».
Il maestro annuì. «Quel suo modo di essere… La invidiavo, ecco.
Io avevo quarant’anni, allora, venti più di lei, e avevo appena perso
mio figlio. L’unico figlio che mia moglie è riuscita a darmi. Ne
abbiamo persi altri tre, creature troppo fragili che non sono nemmeno
riuscite ad aprire gli occhi sul mondo. Martin, invece, aveva quattro
anni, quando la polmonite lo ha portato via, in un inverno troppo
rigido».
Chiuse gli occhi, e io allungai una mano verso di lui. Lucien strinse
le mie dita, come se bastassero a salvarlo da quell’abisso su cui stava
sospeso.
«Non dormivo. Ero sempre stanco e di cattivo umore. Facevo
lunghe passeggiate nel bosco, perché gli sguardi della gente mi erano
divenuti insopportabili. È stato lì che mi sono imbattuto in Vivienne,
la prima volta. Sapevo chi fosse, ma non le avevo mai rivolto la
parola, né lei lo aveva fatto con me. Quel giorno, però, qualcosa nel
mio sguardo dovette convincerla a mettere da parte ogni reticenza e a
parlarmi: “Non c’è rimedio per il dolore” mi disse “ma posso
prepararvi un infuso che concili il sonno; ne avreste bisogno”. Stava
raccogliendo della camomilla, lo ricordo come se fosse ieri. Il suo
cesto traboccava di fiori, e l’aria, intorno a noi, aveva un profumo
dolce, di miele. I suoi occhi, com’erano quel pomeriggio, non li posso
dimenticare.
«Iniziò così. Preparò un decotto che mi aiutò a dormire, a
recuperare un po’ di fiducia nel domani, e io ricambiai nell’unico
modo che avevo per sdebitarmi: le insegnai a leggere e a scrivere.
Desiderava imparare a comporre i nomi dei fiori e delle piante, che
sembrava conoscere meglio di qualunque altra cosa, per poter
completare un erbario. Amava i vegetali molto più degli esseri umani.
Ci incontravamo ogni pomeriggio, nel bosco. Lei mi insegnava a
distinguere l’achillea dall’angelica, e io le leggevo il Decamerone.
Fiammetta era il suo personaggio preferito…»
Un debole sorriso comparve sul suo volto, e io capii che non ci
sarebbe stato ritorno, dopo quella confessione.
«Ci siamo innamorati come due ragazzini. La ragazzina, però, era
soltanto lei. Io ero un uomo adulto, sposato. Un uomo con una moglie
sull’orlo della follia, dopo la perdita del figlio. Non potevo
permettermi quel sentimento, non potevo… Invece la amavo, più di
quanto avessi mai amato. L’ho amata sempre, anche quando è fuggita
nel bosco per custodire il suo segreto, per non rovinarmi. L’ho amata
ogni giorno, fino alla fine, ma non potevo lasciare mia moglie, ne
sarebbe morta…» Scosse la testa, gli occhi lucidi, lo sguardo colmo
di rammarico. «Non potevo abbandonarla».
«Così avete abbandonato noi» sussurrai, sottraendo la mia mano
dalla sua.
All’improvviso, mi sembrava tutto una menzogna: Lucien, l’unico
amico che avessi mai avuto dopo Raphaël, non era affatto un mio
amico, era mio padre.
«Non vi ho mai abbandonate, Fiamma. È vero, non sono stato un
compagno, tantomeno un padre… ma avrei desiderato esserlo, l’avrei
desiderato con tutto me stesso, credimi».
«È difficile da accettare» risposi, fredda. «Lei è rimasta per voi e,
quando è morta, è morta sola. C’ero soltanto io accanto a lei. Vi ha
definito la sua rovina…»
Una lacrima si staccò dalle ciglia di Lucien, rotolando sulle guance
cascanti, incespicando nei solchi lasciati sul suo volto dallo scorrere
del tempo. Un volto che non mi era mai apparso familiare come in
quel momento: la forma degli occhi, il disegno delle labbra, il naso
dritto. Mi aveva lasciato in eredità questo e molto altro: l’amore per le
parole, il desiderio di conoscenza. Il mio stesso nome veniva da uno
dei suoi libri.
Lo odiavo e, allo stesso tempo, sentivo di non averlo mai amato
così profondamente.
«Voglio stare sola» dissi, voltando il viso dall’altra parte. Non
sopportavo le sue lacrime. Non le sopportavo perché sapevo che
erano sincere; perché, nonostante tutto, in quei diciannove anni, pur
non essendo stato un padre, era riuscito a dimostrarmi il suo amore.
Vivienne non glielo aveva vietato. Lo aveva accolto in casa nostra e
lasciato che mi prendesse sulle ginocchia e giocasse con me, che mi
insegnasse a leggere e a scrivere, come aveva fatto con lei, che si
interessasse a ogni aspetto della mia vita; con discrezione e
semplicità, non lasciando trapelare altro che il suo affetto e la sua
amicizia.
Quanto era stato difficile, per entrambi, separarsi dopo quelle
giornate trascorse insieme e tornare ognuno alla propria vita?
Vivienne da sola nel bosco, e Lucien al villaggio, con la moglie che
non amava ma di cui si sentiva responsabile. Quanto era stato difficile
rinunciare alla vita che avrebbero voluto vivere, se solo avessero
potuto?
L’amore è il più complicato dei sentimenti. Il più meschino e, allo
stesso tempo, il più coraggioso.
Quando rimasi sola, mi raggomitolai su me stessa, per quanto me
lo concedevano il polso e la caviglia fasciata, e caddi in un sonno
confuso e agitato, da cui mi risvegliai parecchie ore dopo.
La prima cosa che scorsi, sbattendo le palpebre, fu la sagoma di un
uomo seduto accanto a me.
«Don Agape» mormorai, le labbra secche e incollate tra loro.
«Come ti senti, Fiamma?»
«Come se mi avesse investito una valanga».
Il reverendo accennò un sorriso. «Rende bene l’idea, in effetti».
«Loro non ce l’hanno fatta, vero? Gli zingari, intendo».
Lo sguardo del parroco si oscurò. «No, purtroppo. Subito dopo
essere stati da te, siamo andati nella radura in cui erano accampati,
ma non c’era più nulla da fare. Che Dio accolga le loro anime erranti»
sussurrò, segnandosi.
Pensai a Rhian, a Tal, a Rose, a Jago… Poi, con uno sforzo che non
pensavo di riuscire a sopportare, ricordai il faccino rugoso e paonazzo
di Aerv, quando lo avevo accolto al mondo. Ero stata la prima
persona a tenerlo tra le braccia, quel bimbo che aveva vissuto meno di
un ciclo di luna. Strappato alla vita dalla furia omicida dalla
montagna, dai suoi artigli di ghiaccio.
«Non è giusto» dissi, mentre il sasso che avevo nella gola, e mi
impediva di respirare, si scioglieva in lacrime salate. Mi coprii il
volto con le mani e singhiozzai tra i palmi aperti. Non riuscivo ad
accettare che fossero tutti morti. Avevano incrociato la mia strada per
un periodo troppo breve, ma sufficiente a modificare la direzione dei
miei passi, a cambiare me. Non li avrei mai dimenticati.
«No, non è giusto. È la vita» disse don Agape, posandomi una
mano sul capo in una lieve carezza che si trasformò in un abbraccio
quando mi aggrappai a lui.
«Tu sei qui, però, Fiamma. Qualcosa si è salvato».
«Ora mi direte che questa è la prova che Dio esiste» biascicai tra le
lacrime, senza staccarmi dal suo petto caldo e confortevole. Era un
uomo immenso, in tutti i sensi.
«No. Questa è la prova che tu esisti, nonostante tutto. Nonostante
Dio».
Mi allontanai da lui quel tanto che bastava a guardarlo negli occhi.
Erano occhi buoni, color nocciola, e trasmettevano una pacata
sicurezza. Qualcosa che non avevo scorto nel nostro unico,
precedente incontro.
«La montagna ha cambiato anche voi. O forse è stato l’inverno»
sussurrai, senza staccare lo sguardo dal suo. «Prima non avevate
nessuna certezza».
«Non ne ho nemmeno adesso, tranne una: non siamo soli in questa
vita. Siamo sempre parte di qualcosa, ed è quel qualcosa che spesso ci
salva, anche da noi stessi».
A interromperci fu un lieve bussare.
Yann si affacciò alla porta della stanza. Aveva un aspetto orribile:
le guance scavate, gli occhi che sprofondavano nell’ombra, la barba
incolta. Fra le mani scorticate stringeva il cappello di lana. Fu quel
particolare a commuovermi. Il modo in cui stringeva quel berretto,
come se fosse il solo appiglio che gli permettesse di non cedere del
tutto. Ero abituata a vederlo freddo e sprezzante, sicuro di sé. In quel
momento, mi apparve, invece, per ciò che era davvero: un uomo
pieno di fragilità, disarmato. Spogliato da tutti i suoi atteggiamenti
più irritanti, restava solo Yann, il mio Yann. Quello che in una notte
di tormenta si era abbandonato tra le mie mani di ragazzina. Lo stesso
uomo che mi aveva presa tra le braccia per riscaldarmi e farmi
addormentare.
Don Agape si sollevò. «Entra, Yann. Immagino che abbiate molto
da dirvi, perciò vi lascio soli». Mi lanciò un’ultima occhiata. Era
piena di gratitudine. «Ti devo molto, Fiamma: con poche parole mi
hai insegnato più di quanto io sia riuscito a imparare in anni di studio.
Dio è nei dettagli. L’ho capito qui, tra queste montagne che sono
meravigliose e terribili. L’ho capito tra gente semplice che vive con
poche risposte, ma sa farsi le domande giuste. Ora lascia che anche io
ti insegni qualcosa che ho imparato sulla mia pelle: fuggire non serve
a nulla. La vita troverà comunque il modo di raggiungerti, e le cose è
meglio affrontarle di petto che vedersele sbucare dalle spalle.
Credimi».
Lo seguii con lo sguardo, fino a quando non sparì dietro la porta.
Allora mi costrinsi a guardare Yann.
Si era avvicinato di qualche passo, ma sembrava indeciso se
proseguire ancora o tornare indietro. Non dissi nulla. Lo lasciai libero
di scegliere.
Alla fine, si fece coraggio e arrivò al mio fianco. Lasciai che
guardasse le escoriazioni che rovinavano il mio volto, la mano
fasciata, la caviglia gonfia. Anche lui era ridotto male, del resto: le
nocche erano spellate e il dorso delle mani pieno di graffi.
Sembravamo due reduci.
Eravamo due reduci. Reduci dalla vita, dal male che ci eravamo
fatti.
«Pensavo di averti persa» disse piano, un sussurro.
«Mi hai persa».
Passò qualche secondo, in cui il silenzio si fece fragile e teso. Poi
allungai una mano verso di lui e accarezzai la sua.
Quel tocco fu sufficiente a farlo crollare. Cadde in ginocchio di
fianco al letto, stringendo la mia mano, premendosela contro le labbra
aride. Vidi che al polso portava il braccialetto di Raphaël, che aveva
intrecciato con i miei capelli di bambina. Sfilai la mano da quella di
Yann e sfiorai piano il bracciale.
«Una parte di me non potrà mai perdonarti» dissi.
«Una parte di me non potrà mai perdonarsi».
«Per tutti questi anni non hai fatto che tenermi lontana da te, dal
tuo cuore… Pensavo mi odiassi. Devi avermi odiata davvero, per
avermi negato le sue ultime parole» considerai, senza distogliere lo
sguardo dal bracciale.
«È vero, ti ho tenuta lontana da me. Dal mio cuore no, quello mai.
Io ti amo. Le lettere le ho tenute nascoste perché avevo paura».
«Paura di cosa?»
«Che amassi lui molto più di quanto ami me».
Chiusi gli occhi. Sentivo il suo amore premere contro le mie difese,
voleva entrare e appropriarsi di uno spazio che era suo, che era
sempre stato soltanto suo. Io, però, non mi fidavo più di lui.
«Mi hai fatto male, Yann, più di quanto tu possa immaginare».
Lui posò la guancia sul mio cuore, sentivo il suo respiro sfiorarmi
la pelle. «Non ti sto chiedendo di perdonare il mio egoismo. Resta
con me, però. Odiami, ma resta con me. Disprezzami ogni giorno
della tua vita, ma resta con me. Sposami, Fiamma. O non sposarmi, se
non vuoi, ma resta con me. Non lasciarmi. Mai».
Neve

La mano stretta in quella della mamma, attraversiamo il villaggio,


dirette al cimitero. I nostri cesti traboccano di fiori. Li abbiamo
raccolti dai prati prima che i braccianti li falcino per fare il fieno.
Alcuni finiranno nei barattoli della mamma, nelle sue bottiglie piene
di magia. Nonna Corinne li chiama intrugli, ma io so che ogni sera,
prima di andare a dormire, beve un bicchierino del tonico che la
mamma ha preparato per alleviare i suoi dolori alla schiena. Lo fa di
nascosto, e sempre di nascosto la mamma riempie la bottiglia quando
vede che si è svuotata.
«Equilibrio» mi ha risposto, quando le ho domandato il perché di
quello strano comportamento. «È tutta una questione di equilibrio,
Neve».
Camminiamo lente, il sole è ancora alto, e le montagne ci
sovrastano maestose.
I cancelli del cimitero scricchiolano, le lapidi appaiono al mio
sguardo come sentinelle ricoperte di muschio. Nonna Adélaïde sta
piantando violette davanti alla tomba dello zio Martin. Lascio la
mano della mamma e le corro incontro.
Lei mi sorride. «Gli piacevano tanto le violette, al mio Martin. Me
ne portava sempre un mazzolino, quando tornava dal bosco».
«Abbiamo portato anche noi dei fiori per lui!» esclamo, indicando
il mio cestino ricolmo di genziane e sambuco.
Con l’aiuto della mamma sistemiamo i fiori sotto la tomba. La
nonna ha detto che lo zio Martin era un bambino come me, quando è
volato in cielo.
«E aveva i capelli come i tuoi» mi ha sussurrato una volta,
accarezzando con delicatezza le mie trecce «rossi come quelli di tua
madre e di tuo nonno».
«Il nonno li ha bianchi» avevo puntualizzato.
«Prima di essere bianchi erano rossi come il rame delle pentole» mi
aveva spiegato lei con un sorriso un po’ triste.
«Davvero i tuoi capelli erano rossi come i miei, e come quelli della
mamma?»
Il nonno, che leggeva un libro sulla poltrona davanti al camino,
aveva sorriso. Un sorriso velato di rimpianto. «Tanti anni fa, sì».
Mentre io e la nonna disponiamo i fiori, la mamma si allontana tra
le tombe con il cesto sotto braccio. Sembra pensierosa. Supera la
tomba del vecchio parroco di Saint Rhémy. Non l’ho mai conosciuto,
è morto la notte della valanga, lo ha trovato don Agape la mattina
dopo. Era nel suo letto, immobile, gli occhi spalancati e il rosario in
una mano.
In paese dicono che la sua anima l’ha presa il diavolo, con cui don
Jacques aveva fatto un patto per convincerlo a scrollare la montagna.
Quella notte sono morti gli zingari che erano accampati nella foresta,
gli amici della mamma.
Lei mi racconta spesso di loro. Erano vagabondi con il dono del
fuoco nelle mani, avevano occhi pieni di luoghi e piedi fatti per
viaggiare e danzare lievi sulle note della musica che non li
abbandonava mai. Misuravano la fortuna con un ago per cucire e
sapevano leggere il futuro nel palmo di una mano.
La scorsa primavera don Agape ha fatto collocare una lapide nel
luogo dove gli zingari hanno incontrato la furia della montagna. Io e
la mamma siamo rimaste a lungo a guardarla, anche dopo che lo
scalpellino se ne era andato.
Quando le ho chiesto di leggermi cosa c’era scritto ho scorto una
lacrima scendere piano sul suo volto: «Gli zingari stagnini qui
sperduti nella vita nomade, randagia per la dura ragione
dell’esistenza, li colse e li vinse un turbine candidissimo di neve
omicida. Viatore, pensa a loro e per loro prega».
«Così nessuno potrà mai dimenticarli, maman» avevo mormorato,
stringendo la sua mano.
«Sì, così nessuno potrà dimenticarli» aveva ripetuto lei, lo sguardo
che si perdeva nel bosco, laggiù dove un tempo aveva vissuto.
A raccontarmi quella storia era stato papà. Una sera, seduto ai piedi
del mio letto, mi aveva rivelato che la mamma era in realtà una fata
dei boschi, una creatura selvatica che aveva scelto di vivere tra gli
uomini per amor suo.
«Come hai fatto a convincerla, papà?»
Lui aveva scosso la testa. «Non è stato per niente facile. Le fate
sono, per loro natura, molto diffidenti. Ci è voluta tanta pazienza, ho
dovuto dimostrarle di essere un brav’uomo. Un uomo che valesse la
pena del sacrificio che stava facendo: rinunciare alla sua natura fatata
per diventare umana». Poi aveva abbassato il tono di voce: «Ora ti
rivelo un segreto, Neve: credo che un po’ di magia le sia rimasta
attaccata addosso. Non smette di incantarmi».
«La mamma aveva le ali, quando era una fata?»
«No, però, era amica di una volpe e sapeva parlare con gli alberi.
Questo lo sa fare ancora, in realtà».
«Alla mamma non manca il bosco?» avevo domandato con una
punta di panico nella voce. Spesso, guardandola, avevo l’impressione
che fosse in un altro posto, un posto dove io non esistevo, e lei era
libera da qualunque vincolo.
Lui aveva sollevato gli occhi. La mamma era lì, nell’ombra del
soppalco. Si erano rivolti un lungo sguardo, poi lei aveva sorriso.
«Quando ero una fata, ero una creatura libera, ma molto sola. Ora,
invece, non so cosa sia la solitudine. Se c’è stato un prezzo da pagare,
sono lieta di averlo pagato».

Usciamo dal cimitero e ci inerpichiamo per la strada che porta ai


prati. È quasi il tramonto e la luce si sta affievolendo. I braccianti
stanno raccogliendo l’erba in fascine, è la notte di San Giovanni, e al
calare del sole accenderemo i falò e ci sarà una grande festa.
La mamma è stanca, cammina piano. Io la seguo dondolando
avanti e indietro il cesto ormai vuoto, fino a quando non scorgo papà.
Lascio cadere il canestro e gli corro incontro. Lui abbassa la falce e
mi prende tra le braccia. Ha la fronte sudata sotto il cappello e la
barba cosparsa di fili d’erba. Glieli tolgo con delicatezza, e lui mi
scompiglia i capelli sulla fronte. Quando la mamma ci raggiunge, mi
rimette a terra e si sporge a darle un lungo bacio sulle labbra, mentre
con la mano le accarezza il pancione. Gli altri contadini distolgono lo
sguardo, io invece li guardo sorridendo.
«Dovresti essere a casa, a riposare» dice papà, preoccupato.
«Lo sai che non ci so stare fra quattro mura» risponde lei,
premendosi i palmi contro la schiena.
Lui le sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi torna ad
accarezzarle il ventre, protettivo. «Non discuto, tanto è inutile».
«Saggia decisione».
Papà sospira, ma ha lo sguardo divertito.
Non è sempre così arrendevole. A volte urlano tanto forte che
penso che i muri della casa verranno giù. La nonna e la zia Agnés si
scambiano un’occhiata e mi portano a giocare il più lontano possibile,
ma io le sento lo stesso le loro grida.
Una volta, quando ero più piccola, la mamma è sparita per tre
giorni. Il papà sembrava un animale in gabbia, come quel tasso che
Etienne Blanche ha catturato mesi fa e che teneva chiuso in una
cassa: ringhiava e mostrava i denti a chiunque provasse a parlargli.
Alla fine, dopo aver detto che era stato uno stupido a mettersi una
bestia selvatica dentro casa e che avremmo vissuto benissimo anche
senza di lei, è andato a riprenderla. Quando sono tornati, piangevano
entrambi e si tenevano stretti come se avessero paura di lasciarsi di
nuovo.
La mamma si era rifugiata nel bosco, in quello che restava della
sua casa andata distrutta durante la valanga.
È stato grazie a quella valanga che i miei genitori si sono ritrovati,
dopo essersi cercati per anni.
Si erano persi, mi aveva spiegato la mamma, ma io li ho aiutati a
ritrovare la strada. «Neve, nel tuo nome c’è il dolore e la rinascita».

Io e la mamma raggiungiamo il sentiero che porta alla montagna. Ci


sono delle piante che vanno raccolte in questa particolare notte. La
chiamano la notte delle streghe, perché i confini fra i mondi sono più
sottili. Il sole sposa la luna, e tutte le piante e le erbe acquistano
straordinarie virtù curative.
Artemisia, salvia selvatica, mentuccia di montagna, verbena e ruta:
dobbiamo raccoglierne in grande quantità, se vogliamo avere scorte
sufficienti per i mesi a venire.
Risaliamo per il bosco costeggiando il torrente. La mamma si
muove lenta a causa del pancione, ma conosce la strada che porta alle
montagne meglio di quella che conduce al borgo.
«La strada di casa non si scorda mai. Un giorno tornerò qui, Neve.
Quando non avrò più respiro e le mie membra saranno rigide e inerti,
allora tornerò, e nessuno, nemmeno tuo padre, potrà strapparmi a
questo luogo». Si ferma a prendere fiato, il bambino le preme contro
le costole. Alza gli occhi alle montagne, e il suo sguardo si perde
nell’azzurro del cielo. «Dicono che l’altopiano sia il confine ultimo
tra la terra dei vivi e quella degli spiriti…» sussurra.
Io annuisco. Sì, io li ho visti gli spiriti dell’altopiano, credo a loro.
La mamma siede su una roccia, posando il cesto per la raccolta al
suo fianco. «Mi riposo un po’» dice, accarezzandosi piano la pancia.
«Inizia tu a cercare le piante che ci occorrono… Attenta al coltello,
maneggialo con cautela».
Annuisco, afferrando i manici del canestro. So già cosa cercare. Mi
allontano di qualche passo, impettita. La mamma mi ha affidato un
compito importante, la raccolta di San Giovanni è un lavoro delicato.
Subito dopo, tuttavia, mi faccio prendere dall’apprensione. Quando
mi volto per controllare se sta bene e farle un sorriso, scopro che non
è sola.
Accanto a lei, che tiene gli occhi chiusi e le mani dolcemente
premute sul ventre, c’è il ragazzo biondo che ho visto spesso vagare
per i boschi. Ha un sorriso gentile e i suoi occhi sono uguali a quelli
del papà. Anche lui guarda la mamma proprio come, spesso, la
guarda papà, con tenerezza e amore incondizionato.
Quando si accorge di me solleva il viso, sorridendomi. Io ricambio
il suo sorriso sventolando la mano.
Vorrei dirgli che nemmeno lui, come gli zingari, è stato
dimenticato; che al cimitero c’è una lapide con il suo nome, anche se
lui non è lì, e che quando nascerà il mio fratellino gli daranno il suo
stesso nome, Raphaël Rosset.
Lui si porta un indice alle labbra: è il nostro segreto. Dopo aver
posato una carezza tra i capelli della mamma, mi dà le spalle e si
incammina nella foresta. Accanto a lui c’è una volpe dal muso
d’argento.
All’improvviso, il bosco si riempie di musica, e io li vedo, gli
zingari. Suonano e danzano, ci sono ragazzini che si rincorrono e
donne che agitano verso il cielo piccoli tamburi fatti di campanelli. E
c’è un bambino che muove i suoi primi passi. Ha la pelle color
caramello e gli occhi scuri come inchiostro.
E allora capisco che quello che mi hanno detto è vero: nessuno
muore mai davvero se resta nei cuori di chi lo ha amato.
Nota dell’Autrice

Benché la vicenda degli zingari stagnini sia un fatto storico realmente


accaduto nel Comune di Saint Rhémy en Bosses tra il 1919 e il 1920,
qui appare soltanto come vicenda romanzata. Pertanto, qualsiasi
riferimento a fatti o persone reali è del tutto casuale.
Di veritiero resta soltanto l’incisione sulla lapide, visibile ancora
oggi, che cita:
Gli zingari stagnini
qui sperduti nella vita nomade,
randagia per la dura ragione dell’esistenza,
li colse e li vinse un turbine
candidissimo di neve omicida.
Viatore, pensa a loro e per loro prega.
Ringraziamenti

Il primo, doveroso, ringraziamento va alla redazione Neri Pozza, al


Circolo dei lettori della Fondazione Pini e alla giuria del Premio della
Sezione Giovani, che hanno reso possibile questo libro.
Non avrei potuto scrivere questa storia senza il sostegno delle mie
compagne di viaggio in questa avventura che è la scrittura: Andreina
Grieco, Catia Furlan, Raffaela Monda, Sara Sidoti e Sonia Favi, vi
sono debitrice per avermi incoraggiato con impagabile entusiasmo,
consentendomi di non perdere il ritmo che mi ha permesso di
presentare il romanzo al concorso entro il termine stabilito. Questa
storia è vostra quanto mia.
Sono profondamente grata a Sara Piasente, perché da anni mi
consiglia i libri giusti, che portano a galla le idee migliori. E per
essere un’amica vera, sempre pronta ad ascoltare i miei dubbi e a
darmi suggerimenti onesti.
Silvia Grassi si è offerta di leggere la prima stesura, e non mi ha
negato franchezza e utili consigli.
Grazie a Luca Sulpizi per aver scorto in me quella scintilla che mi
ha consentito di fare luce, una parola dopo l’altra, su questa storia, e
per avermi spiegato la Fede. Sia essa in Dio o, più semplicemente, in
se stessi.
Sono riconoscente alla biblioteca di Saint Rhémy che ha risposto
con garbo e sollecitudine alle mie domande sulla vicenda degli
zingari stagnini; mentre la biblioteca di Aosta mi ha concesso di
attingere informazioni da testi altrimenti irreperibili.
Una menzione speciale va al mio amico Antonio Custode, che ha il
merito di avermi mostrato, in foto, la targa commemorativa da cui è
scaturita l’idea di questa storia, ed è stato poi tanto gentile da
accompagnarmi personalmente sul luogo in cui la lapide è collocata.
Più che a chiunque altro, però, il mio affetto e la mia gratitudine
vanno alla mia famiglia, al loro appoggio costante e partecipe. Grazie
per aver creduto in me, per avermi permesso di sbagliare e di
ritrovare la strada. Ce la abbiamo tutti, una strada dentro. Io sono
incredibilmente fortunata a poterla percorrere con voi accanto.
Sommario
Quando gli zingari erano uccelli

Agape

Yann

Fiamma

Agape

Yann

Fiamma

Agape

Yann

Fiamma

Agape

Yann

Fiamma

Agape

Yann

Fiamma

Agape

Yann

Fiamma

Agape

Yann

Fiamma

Neve
Nota dell’autrice

Ringraziamenti
I mille volti della lettura
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