Sei sulla pagina 1di 16

_____________________________________________________________________________________________________

AUTORE
Concetti di autore e politique des auteurs
Il concetto di autore non è ben definito, è una nozione che ha una storia, uno sviluppo lungo e contrastato. È imperativo
differenziare il cinema europeo dal cinema americano/hollywoodiano.
- autore nel cinema europeo: preferisce una relazione diretta con il pubblico, e il riconoscimento del regista va di pari
passo con l’attribuzione alla figura dell’autore del ruolo di garante comunicativo del film (competenze espressive e
comunicative)
- autore nel cinema americano: dapprima completamente integrato nel ciclo produttivo, poi preferisce ritagliarsi uno
spazio di autonomia realizzativa nel ciclo produttivo stesso.

Tre accezioni di riferimento con il termine “autore”:


- diritto d’autore: autore è colui che detiene la proprietà intellettuale dell’opera (film = opera d’arte). Anche in questa
accezione la nozione di autore ha subito molte modifiche. La possibilità di individuare un autore è fondata sulla lingua
e sulla parola
- autore come ruolo professionale: con la progressiva istituzionalizzazione del cinema c’è anche il progressivo definire
ruoli professionali specifici. Il cinema comincia ad avere un prodotto, il film, che funziona come oggetto autonomo
artistico, e proprio grazie a questo si può far corrispondere un’intenzione d’autore ma non sempre un autore, sempre
a causa della differenziazione dei ruoli nel cinema. Oltre alle diatribe tra sceneggiatori e registi, negli anni 10 autori
possono essere anche scenografi, attori e case di produzione (che hanno un marchio riconoscibile nel pubblico).
Louis Delluc introduce nel 1921 il termine “cineasta” per indicare chiunque fosse coinvolto nel cinema (anche critici e
teorici), e dagli anni 30 “cineasta” assume valenza di “autore” con il legarsi delle figure di autore e regista
- autore come ruolo estetico: l’autore è il soggetto responsabile dell’intenzione d’autore/volontà autoriale che ha
generato l’opera. L’ascesa del regista è parallela al diffondersi di una nozione autore inteso come artista, artefice,
unico responsabile del valore estetico del film. In Francia si sviluppa nei primi anni 20 la prima avanguardia: secondo
gli esponenti se era necessaria una rivoluzione estetica, i suoi promotori dovevano essere i responsabili ultimi della
creazione artistica, quindi gli autori. Abel Gance è considerato anche da Louis Delluc l’autore di “La decima sinfonia”
1917, opera fondativa della prima avanguardia e primo film d’autore della cinematografia francese. Si nota tuttavia
una contraddizione, in quanto il primo film d’autore francese fu in realtà americano, “I prevaricatori” 1915, di Cecil
DeMille: in Francia infatti i primi autori veri e propri sono registi americani, anche perché in quel momento il cinema
americano sembrava portare molte innovazioni tecniche e linguistiche originali (che invece sarebbero diventate
presto standard produttivi del cinema mondiale).

Il riconoscimento a livello internazionale dell’autore nella figura professionale del regista si deve quindi alla prima avanguardia
francese.
Percorsi analoghi avvengono anche nelle prime cinematografie europee, come quella tedesca e sovietica. Già a metà degli
anni 20 l'identificazione tra autore e regista sembra stabilita in modo diffuso, e piuttosto si discute fino agli anni 50 sul ruolo che
l’autore deve avere: sociale, politico, estetico.

Secondo la politique des auteurs degli anni 50 (generata da François Truffaut), l’identificazione non è più biunivoca: l’autore
non può essere che il regista, ma non tutti i registi sono autori (discrimine estetico-valutativo che definisce la nozione moderna
di autore).
Secondo i critici della politique, il soggetto del film è la sua messa in scena; la registrazione oggettiva inoltre separa la figura
dell’autore della politique des auteurs dalla figura divulgata in America, dove esiste una corrispondenza autorialità-
riconoscibilità stilistica, mentre in Francia no (stile come segno di una personalità autoriale presente ma amorale e
disprezzabile, vedi la censura di “Kapò” 1960, di Gillo Pontecorvo).
Inoltre, sempre secondo la politique, l’opera di un autore si collega ad un corpus intertestuale e va giudicata rispetto a questo
(quindi non sottostà alle norme di successo/insuccesso e si riscatta in caso di fallimento).

Il tratto in assoluto più distintivo della politique des auteurs è l’insistenza sulla permanenza e il progresso dell’autorialità da
un’opera a quella successiva all’interno di uno stesso corpus autoriale. Si passerà poi alla vera e propria feticizzazione del
marchio d’autore.

Autore nel postmoderno: il marchio di fabbrica e il brand


Caratteristica fondamentale della logica autoriale del postmoderno è la disintegrazione dell’autore e il suo assorbimento nel
prodotto culturale: la questione di fondo per i registi negli anni 80 è la costruzione di sé come autori e “marchio di fabbrica” (tipo
Quentin Tarantino e Wes Anderson), contro la sopraffazione della figura dell’autore da parte dei media contemporanei.
Il marchio di fabbrica è essenzialmente la riconoscibilità di determinate marche testuali, da poter associare a un determinato
regista.

L’interattività caratteristica del nuovo assetto dei media rende possibile l’associazione alla figura di autore di figure non
tradizionalmente autoriali, anche grazie alle frequenti opere derivative (remake) e alle produzioni cooperative.
L’esempio più calzante è quello di “Kill Bill Vol. 1” 2003, e “Kill Bill Vol. 2” 2004, di Quentin Tarantino: egli lavora sulla
costruzione di sé stesso come soggetto di referenza e creatore dell’universo del film nella figura di Bill (che ha il medesimo
ruolo: colui che ha organizzato tutto e a cui tutto ritorna).
L’interesse dello spettatore passa dalla vicenda in sé a come la vicenda viene narrata, e la forma narrativa predominante del
cinema del postmoderno ha come obiettivo il farsi riconoscere dallo spettatore a partire da aspettative basate sul nome del
regista, sul genere filmico o sulla correlazione regista-genere (genere merceologico).

Conseguenza della presenza più o meno palese dell’autore nell’opera attraverso il marchio è un richiamo diretto allo spettatore,
a cui si associa la capacità manipolativa dell’autore stesso.
Questo in quanto il film è prodotto industriale destinato al mercato e in un regime di concorrenza: diventa quindi necessario per
il regista sfruttare il marchio, che già presuppone aspettative dello spettatore rispetto a situazioni e personaggi (in quanto tipici
del regista) e fa leva sul recupero di una memoria mediatica condivisa grazie alle tendenze vintage in voga nel postmoderno.
La presenza di questo marchio/carattere fisso che etichetta il prodotto/film motiva il ricorso alla logica del brand: a garantire
sicurezza allo spettatore è il brand stesso attraverso la figura del regista “noto per”.

_____________________________________________________________________________________________________
GENERE
Ripetizione e variazione
Barry Grant definisce i film di genere come lungometraggi commerciali che, attraverso la ripetizione e la variazione, raccontano
storie note con personaggi noti in situazioni note.
Il cinema fa da sempre ricorso ai generi per due motivi:
- permettono di produrre in economia, raccontando “sempre la stessa storia” con variazioni e risparmiando così su
materiali narrativi e talvolta su set e costumi;
- producono meccanismi di fidelizzazione come le icone divistiche, che si specializzano in determinati generi e
stabiliscono un rapporto privilegiato con un determinato pubblico (bellico-uomini, melodramma-donne, horror-
adolescenti).

I generi cinematografici sono di derivazione letteraria e teatrale ottocentesca (che già attiravano il pubblico per mezzo di temi,
personaggi e narrative ricorrenti), e non sono altro che la continuazione in altro medium di modelli preesistenti. A sua volta, i
generi cinematografici sono ereditati dai media più recenti, come il piccolo schermo.
Il risultato di queste influenze reciproche tra media è il ruolo dei generi come “contenitori” di narrative e personaggi (vedi la
serie televisiva “The walking dead” 2010-, adattamento dai fumetti ispirati alla tradizione cinematografica dei film sugli zombie,
a partire da “Night of the living dead” 1968, di George Romero).

Il concetto di genere per ovvi motivi è legato a fenomeni come il remake, il sequel e i frequenti adattamenti in ogni generazione
di romanzi di successo.

Il sistema dei generi si basa su una dialettica tra ripetizione e variazione.


Il concetto di ripetizione consiste, in pratica, nel raccontare la “stessa” storia. Per essere percepito dallo spettatore come
appartenente a un certo genere, il film può distinguersi in base a:
- determinati elementi (musical-canzoni e danze; horror-eventi spaventosi/soprannaturali)
- una certa collocazione spazio-temporale (peplum-mondo antico e mitologico; fantasy-medioevo fantastico)
- impianto narrativo (commedia romantica-storia d’amore a lieto fine; melodramma-storia d’amore con finale tragico)
- ambientazione sociale (gangster movie-antieroi malviventi nel sottobosco criminale di una grande città)
- stile caratteristico del genere (noir-flashback e illuminazione contrastata).
Il concetto di variazione accompagna necessariamente quello di ripetizione: il genere non ripropone ossessivamente le stesse
formule, ma subisce trasformazioni nel corso del tempo.
Un esempio è dato dal genere fantastico, che durante gli anni 50-60 era considerato di serie B e per un pubblico
adolescenziale dalle scarse pretese culturali, poi grazie a titoli come “2001: Odissea nello spazio” 1968, di Stanley Kubrick è
stato trasformato in un genere di serie A rivolto a un pubblico adulto.

Critici e storici hanno interpretato i generi cinematografici secondo metafore biologiche, riscontrando in ognuno “infanzia”, “età
adulta” e “decadenza”, non necessariamente in ordine cronologico in quanto sono rapportate al cambiamento dei gusti e della
mentalità del pubblico (vedi esempio del genere fantastico, che figurava opere adulte come “Metropolis” 1927, di Fritz Lang e
“Blade Runner” 1982, di Ridley Scott, ma anche opere più adolescenziali come “Star Wars” 1977, di George Lucas).

Rick Altman sottolinea che i produttori da un lato utilizzano soluzioni già sperimentate, ma dall’altro hanno anche l’esigenza di
novità, di rappresentare un film diverso da quello dei concorrenti.
Inoltre, pensa che produttori preferiscano ragionare in termini di ciclo piuttosto che di genere: il ciclo è una serie di film più
piccola di proprietà di un’unica casa di produzione, che si contraddistingue chiaramente nel contesto del genere (un esempio è
il ciclo di James Bond, di Terence Young, nel genere spionistico).
Il fatto che il ciclo sia strettamente collegato ai suoi produttori non preclude imitazioni (vedi il ciclo di Harry Palmer, imitazione di
James Bond con caratteristiche palesemente anti-Bond),né il suo legame a un personaggio specifico. Può essere infatti
strutturato attorno a personaggi e situazioni simili.

I generi inoltre tendono all’ibridazione tra loro.


L’esempio più radicale è la parodia, film comico che ridicolizza i codici di un genere “serio”.
Altro caso emblematico di ibridazione di generi è “La finestra sul cortile” 1954, di Alfred Hitchcock. Il film infatti ha due generi,
due linee narrative e due finali: giallo (indagine su un uxoricida, alla fine arrestato) e commedia romantica (storia d’amore
ostacolata dalla differenza di classi sociali, che si conclude con la continuazione dell’eterna lotta tra uomini e donne - lei
sembra essersi adattata allo stile di vita più umile di lui, ma solo all’apparenza).

Il caso specifico del western americano


Il cinema western nasce basandosi su storie e leggende sulla conquista del selvaggio West. Il “primo” western, nonostante il
genere non esistesse ancora, è “The great train robbery” 1903, di Edwin Porter (che comunque all’epoca venne percepito
come un film sui criminali).
Si costituisce come genere cinematografico negli anni 10, con film come “I pionieri” 1923, di James Cruze, e “The iron horse”
1924, di John Ford.
Con l’avvento del sonoro nel 1927 il western viene declassato a film di serie B (western musicale).
A partire dagli anni 30-40 fino agli anni 70, soprattutto grazie a “Ombre rosse” 1939, di John Ford, il western diventa uno dei
generi portanti della Old Hollywood e sviluppa un catalogo ricchissimo di temi, situazioni drammatiche (rapina, vendetta,
duello), personaggi (sceriffo, cowboy, indiano, prostituta) e convenzioni stilistiche (immensa panoramica paesaggi, tamburi
associati agli indiani)

Solitamente il western è ambientato nella parte occidentale del Nord America, ma molti film con ambientazione diversa sono
comunque assimilati al genere per le situazioni tipicamente western (o perché sono diretti/interpretati da personalità legati al
western). Un esempio è “The wild bunch” 1969, di Sam Peckinpah, ambientato in Messico ma essenzialmente western per
trama e personaggi.

Il western è definito “il cinema americano per eccellenza” in quanto rappresenta il mito della fondazione della nazione - mito
che viene spesso contestato in film come “Il massacro di Fort Apache” 1948, di John Ford, o “Il fiume rosso” 1948, di Howard
Hawks (rappresentazione della violenza dei bianchi contro gli indiani, o di eroi stanchi segnati dalla nevrosi).
Durante la New Hollywood il western rappresenta apertamente la conquista del selvaggio West come un’operazione predatoria
e imperialista che ha portato allo sterminio di un popolo intero.

Tutto ciò riporta alla questione del “verosimile”.


Il verosimile è un codice di eventi e convenzioni, i cui limiti sono stabiliti proprio dal genere cinematografico e che il pubblico di
una certa epoca nel complesso sarà portato ad accettare.
Possono comunque verificarsi modifiche più o meno significative del verosimile con il passaggio da un genere all’altro (per un
pubblico degli anni 70-80, gli eroi umani e fallibili della New Hollywood sono più credibili dei cowboy mercenari infallibili tipici
della Old Hollywood).
Si può dire che il western Old Hollywood sia “alto-mimetico” (personaggi al di sopra del livello d’azione dello spettatore), e che il
western New Hollywood sia “basso-mimetico” (personaggi realistici).

I generi di avventura e action negli anni 80 sostituiscono un western sempre più realistico come generi di punta della New
Hollywood, e sono ancora strettamente alto-mimetici (vedi “I predatori dell’arca perduta” 1981, di Steven Spielberg, in cui le
gesta al limite dell’assurdo di Indiana Jones sono ben accette dal pubblico).
Questo ad indicare che i generi non solo si ibridano tra loro, ma alcuni temi e personaggi di un genere possono sfociare in un
altro (ad esempio, il personaggio del cowboy passa dal western all’avventura).
Di fatto il genere western cessa di esistere a partire dagli anni 80, e nonostante alcuni sporadici titoli palesemente western
come “Django unchained” 2012, di Quentin Tarantino, manca una produzione consistente in grado di tenere in vita i codici tipici
del western.

Rapporto generi cinematografici e cultura nazionale


L’esistenza di un western italiano completamente autonomo (spaghetti western), e più in generale europeo, oltre al western di
Hollywood fa riflettere sul rapporto tra generi cinematografici e cultura nazionale.
Alcuni generi infatti sono strettamente legati alla tradizione di un singolo paese (Bergfilm-Germania, wuxiapian-Cina), e ciò è
utilissimo nel contesto del rapporto cinema-società: i film di genere riflettono infatti in maniera immediata il quadro sociale
dell’epoca (ad esempio, i film di fantascienza anni 50 sono una rappresentazione della paura del nucleare).

Altri generi si pongono come formule transculturali utilizzate da più cinematografie (come i film di guerra, diffusissimi nelle
cinematografie di tutto il mondo negli anni 30; oppure il genere noir che ha avuto una declinazione americana e una francese,
abbastanza diverse tra loro).

Altri generi ancora nascono in un solo paese e sono legati alla sua storia e cultura, come appunto il western americano, ma
grazie al successo internazionale sono imitati (non inventati!) da cinematografie straniere. Un esempio è “Intolerance” 1916, di
David Griffith, sul modello dei film storici italiani sulla romanità come “Cabiria” 1914, di Giovanni Pastrone.

Autore e genere
Secondo le teorie nate sotto Les Cahiers du cinéma, autore e genere si annullano a vicenda: l’autore plasma l’opera a propria
immagine e in autonomia, e il rispetto delle norme del genere cinematografico si pone come limite da trasgredire. In molti casi
infatti non è possibile ascrivere un film a un genere, come nel caso di “La dolce vita” 1960, di Federico Fellini (inutilmente
definito comedy-drama).

Con l’avvento del Romanticismo si stabilisce che la vera opera d’arte deve essere originale e creativa, superando le
convinzioni classiciste. Da questo punto di vista, i generi per le loro norme sono indice di poca originalità e di approccio
pragmatico al cinema, che è industriale e mainstream - quindi, essendo arte e industria agli antipodi, un film di genere non può
essere un film d’autore.

Tuttavia, autore e genere non necessariamente si escludono a vicenda.


Esistono infatti generi derivati da un film d’autore: un esempio è il successo di “Il Decameron” 1971, di Pier Paolo Pasolini, che
fa nascere il filone boccaccesco della commedia erotica italiana anni 70.
Inoltre, lo stesso cinema d’autore può essere considerato un genere a sé, marginale ma dal fortissimo prestigio intellettuale e
anticommerciale e rivolto ad un pubblico colto.
In terzo luogo, molti autori europei moderni hanno lavorato in maniera creativa con le formule del genere, come il rifacimento al
melodramma hollywoodiano in “Il matrimonio di Maria Braun” 1979, di Rainer Fassbinder. In particolare, gran parte degli autori
americani della New Hollywood declinano i generi secondo la propria poetica e il proprio stile.
_____________________________________________________________________________________________________
STILE
Criticità nella definizione di stile
Il vago aforisma di Georges-Louis Leclerc de Buffon «Lo stile è l’uomo» sintetizza una prima criticità nella definizione di stile,
ossia il suo essere a metà tra l’individuale e il collettivo (in arte, rispettivamente lo stile personale di Picasso e lo stile di
un’epoca come il Barocco).
Altra criticità si ha considerando uno stile individuale come particolare e riconoscibile rispetto a una norma, ossia uno stile
collettivo (rapporto originale-convenzionale).
Antoine Compagnon nella sua definizione di stile sottolinea come questa stessa nozione intrinsechi arte, sociologia,
antropologia, sport e moda, e che quindi sia alquanto difficile estrapolare un concetto vergine.

Nel contesto del cinema, definire lo stile come insieme di procedimenti espressivi del linguaggio cinematografico è
estremamente semplicistico, a causa delle molteplici variabili economiche, produttive, tecnologiche e storiche, ma anche
questioni di autore e genere.
Parlando di stile ci si muove all’interno di variazioni dello stesso termine, che evocano ognuna un significato diverso.
Intorno alla nozione di stile ruotano una serie di interrogativi affini anche alla teoria del cinema, all’analisi filmica e alla critica
cinematografica.

Stile e studi sul film


Non esiste una definizione condivisa di stile negli studi di cinema a causa di una precisa coincidenza storica: nel corso degli
anni 60-70 il cinema faceva il suo ingresso nelle università mentre lo stile veniva dichiarato superato dai paradigmi in voga,
come lo strutturalismo e la psicoanalisi.
La questione dello stile è stata ripresa nella seconda metà degli anni 80 con la riaffermazione della storiografia e lo sviluppo di
altri indirizzi di ricerca.
Un altro motivo di assenza di una definizione di stile riguarda la metodologia: a lungo lo stile è stato considerato una categoria
formale e limitata al visivo (movimenti di mdp e montaggio soprattutto), quindi poco importante. In seguito, lo stile si afferma
come centrale nell’esperienza filmica in quanto coinvolge tutti i codici, quindi anche recitazione, struttura narrativa, etc.

Questa rinnovata connotazione di stile cinematografico, anche grazie agli studi di David Bordwell, fa emergere la necessità di
una retrospezione sulla storia del cinema e sulle teorie del cinema.
Vincenzo Buccheri propone di distinguere quattro filoni di ricerca:
- teorie classiche
- formalismo
- approccio semiotico
- approccio sociologico e storiografico.

Stile in relazione all’analisi del film


In The Classical Hollywood Cinema, David Bordwell affianca l’analisi dello stile (struttura narrativa, costruzione spazio e tempo
del film) e l’analisi del modo di produzione (sviluppo storico del rapporto società-sistemi produttivi).
Principi stilistici e norme produttive vanno di pari passo, e definiscono una “fase classica” del cinema americano nel 1917-1960.
È fondamentale sottolineare l’evidente interdipendenza tra stile, tecnologia ed economia (produzione).
Lo stile in questo caso è un paradigma che definisce questioni storiografiche e linguistiche, e le dinamiche tecnologiche del
modo di produzione; un insieme di prescrizioni in grado di subire trasformazioni dovute a tecnologia e linguaggio, senza però
mutare le proprie basi.
Bordwell grazie a questi presupposti delinea la cosiddetta produzione media, standardizzata e seriale, rappresentativa del
cinema americano classico (macrosistema).

Sempre a Bordwell si deve lo sviluppo del modello di analisi problem solving: la scelta stilistica è una soluzione della regia a un
problema tecnico.

Partendo dal rapporto stile-narrazione, Bordwell considera tre modi di sviluppo della forma filmica al di là del cinema classico:
- art cinema (film d’autore europeo anni 50-70)
- historical-materialist (ricerche sul montaggio del cinema sovietico anni 20)
- parametric (casi isolati di autori/film che non fanno “sistema”).

Il rapporto tra stile, tecnologia e storia del cinema viene approfondito dalla statistical style analysis di Barry Salt, riguardo la
ricorrenza di specifiche figure linguistiche e procedimenti tecnici in determinati periodi storici.
Il lavoro di Salt, per quanto considerato limitante, mostra l’oscillare della durata media delle inquadrature nel cinema
mainstream, associato alla crescente complessità della narrazione.

Stile in relazione alla storia del cinema delle origini


Nell’ambito della storia del cinema delle origini, lo stile è inteso come interfaccia tra testo e contesto.
Per comprendere il linguaggio dei primi film li si deve mettere relazione ad un contesto che precede la creazione di
un’istituzione cinematografica, separato dalla storia del cinema tradizionale, dove è anzitutto l’idea di spettatore a essere
messa in discussione.
Questa svolta storiografica introdurrà concetti fondamentali come la suddivisione del modo di rappresentazione in primitivo e
istituzionale di Burch.

Lo stile viene messo quindi in relazione allo sviluppo storico e culturale dei singoli elementi del linguaggio cinematografico, e si
va verso l’analisi del sistema culturale di cui fa parte un film.
Si ha una nuova accezione di stile come cultura, e l’analisi del film entra in rapporto con la storia sociale.
In questo contesto grande impulso è dato dallo New Historicism americano degli anni 80, che insiste sulla frattura tra arte
(testo) e società (contesto).

Anche nella ricerca dei Visual Studies si supera l’idea “il film rispecchia la società” e si cerca di ricostruire l’interpretazione
culturale delle immagini (la vasta rete di significati in cui le opere sono immerse, e che al contempo contribuiscono a produrre).
L’interpretazione culturale delle immagini diventa come ricostruzione di una cultura intera, dei suoi meccanismi e dei suoi
conflitti.

Nell’ambito del cinema italiano Vincenzo Buccheri analizza il rapporto tra stile, modernità e identità italiana nel cinema anni 30,
dove lo stile diventa una forma di discorso sociale.

Stile durante il cinema moderno


Gli studi nell’ambito del cinema moderno si basano soprattutto sulla tradizione critica degli studi di André Bazin, che propone
un superamento della spettacolarità del cinema in favore di un riscatto fenomenico del reale: lo stile ha la funzione infatti di
favorire il realismo del linguaggio cinematografico e di rendere l’atto della ripresa un momento conoscitivo. In questo contesto
si ha una doppia valenza del cinema moderno con la consapevolezza metalinguistica e il recupero della riproduzione realistica.

Il moderno funziona come un’ideologia, nella quale l’autore ha un primo riconoscimento e si declina come atto di responsabilità
etica ed estetica della messa in scena. Il tema di una responsabilità morale del film non riguarda più solo soggetti e temi, ma
anche scelte stilistiche (vedi “Kapò” 1961, di Gillo Pontecorvo, che Jacques Rivette condanna per un movimento di mdp
“immorale” che spettacolarizza la morte).

Da ricordare che con il moderno, le questioni dello stile si legano a una storia critica e ad un progetto culturale essenzialmente
francesi o influenzati dal dibattito francese.
L’ideologia della modernità è pensata con accenti quasi religiosi, motivo tipicamente avanguardistico che si lega al desiderio di
riforma del cinema.
Vincenzo Buccheri specifica che secondo l’ideologia del moderno il cinema è il tentativo di considerare il tutto come si
presenterebbe dal punto di vista della redenzione, a cui si lega la speranza di risolvere attraverso lo stile il rapporto cultura alta-
cultura di massa, e comunicazione-arte.

Lo stile moderno non è quindi unicamente un momento di recupero del realismo, ma anche un progetto di nobilitazione e
liberazione della cultura di massa nel cinema, media popolare e industriale.

Conclusioni
Nonostante la natura compromissoria della nozione di stile, si può dire che lo stile sia la risposta non solo alle sollecitazioni
della tecnologia, ma anche alle contraddizioni sociali, ai discorsi sull’identità nazionale e al rapporto arte-élite borghese-cultura
di massa.
Lo stile quindi diventa catalizzatore di conflitti, contraddizioni, negoziazioni e mutamenti sociali.

Vincenzo Buccheri elabora un modello “integrato” di stile cinematografico, inteso come processo dinamico che di volta in volta
si stabilizza nel momento in cui gusti del pubblico e modelli socio-culturali trovano un equilibrio.

Lo stile resta comunque una nozione teorica indefinita, ma proprio per questo ideale per la ridefinizione delle prospettive di
ricerca interdisciplinari, per meglio capire la storia del cinema e l’esperienza filmica.

_____________________________________________________________________________________________________
TECNOLOGIA
Origini del cinema
Secondo Barry Salt il cinema non potrebbe esistere senza il pensiero razionale (realismo scientifico), mentre al contrario André
Bazin afferma che il cinema è un fenomeno idealista senza nessi al razionale (realismo integrale).
Jean Baudrillard vede nella perfezione realistica dell’immagine la responsabile della perdita della sua forza di illusione.

Ad ogni modo è ovvio che il cinema nasce per rispondere ad un duplice bisogno idealista di restituire in modo credibile il visibile
(ciò che è fotografabile e rappresentabile), e produrre immagini nuove che arricchiscano il visibile stesso.
Si cerca di produrre un “realismo irresistibile” e arrivare ad un punto dove non sia più possibile distinguere il vero dal falso, in
modo tale da illudere e attirare lo spettatore contando sulla contraddizione tra l’oggettività dell’immagine fotografica e il
carattere incredibile dell’avvenimento rappresentato.

Il cinema nasce quindi come “fotografia animata” e modo più efficace per cogliere la vita sul fatto, nel suo lato quotidiano più
normale ma anche per derivarne il suo lato più fantasioso e magico (vedi Georges Méliès, che scopre il montaggio come
artificio illusionistico di base).
È infatti sufficiente una minima manipolazione tecnica per trasformare il cinema del reale in cinema del surreale (riflessi,
doppioni, senso della metamorfosi delle cose; lo schermo acquista fluidità, il tempo si dilata o si ferma, lo spazio si suddivide).

Permangono quindi le potenzialità tecniche della fotografia e si abbozza il principio tecnico del fotomontaggio, indicato da
Henry Robinson come una delle modalità per avvicinare la fotografia alla pittura.

La stessa attuale rivoluzione digitale si fonda sugli stessi parametri, come dimostra il caso dei visual effects che richiama il
“pittorialismo” di Henry Robinson. Per questa ragione, secondo Lev Manovich il cinema infografico (realizzato interamente a
computer) contemporaneo si qualifica a sottogenere della pittura.
Pellicola e colorazione della pellicola
Il film, letteralmente pellicola, è una striscia di triacetato di cellulosa (dal 1950) con 54 immagini semitrasparenti al metro, incise
per mezzo della registrazione della luce riflessa su una superficie fotosensibile attraverso un’emulsione chimica (continuità tra
fotografia e cinematografia). Il cinema tuttavia non può essere immediatamente fruito, ma solo dopo il processo tecnologico
della proiezione.
Il digitale sostituisce poi la pellicola con il sensore o trasduttore (CCD o CMOS) posizionato subito dietro l’obiettivo, composto
in silicio e costituito da minuscoli elettrodi di forma e dimensione uguale sistemati in ordine geometrico su una griglia
bidimensionale divisa in celle (corrispondente nell’immagine finale ai pixel).
Le immagini in pellicola non appaiono finte come quelle digitali perché i granuli di alogenuro di argento del CCD/CMOS sono
irregolari e disposti in ordine caotico nello spazio (configurazione simile a quella della retina dell’occhio umano).

La fedeltà al reale delle immagini in pellicola crea molte problematiche. Il raggiungimento dell’analogicità delle immagini è reso
difficoltoso in quanto il cinema in bianco e nero è basato su una codificazione sul piano della scala di grigi, che traducono le
sfumature della realtà.
Le emulsioni ortocromatiche usate per incidere le immagini su pellicola, sensibili a blu e verdi, costringeranno i registi del
profilmico a lavorare completamente condizionati da questa tecnica (impiegando superfici monocrome bianche o nere, e la luce
solare).

Nel 1922 la Kodak introduce la pellicola pancromatica sensibile a tutto lo spettro del visibile.
L’invenzione del colore nel cinema muto stabilisce un codice cromatico: giallo-sequenze diurne, blu-sequenze notturne, rosso-
passione o pericolo.
La colorazione policroma a pochoir precede il Technicolor, sistema di registrazione del colore lanciato dal film d’animazione
“Flowers and trees” 1932, di Walt Disney e Burt Gillet. Il Technicolor è sostanzialmente composto da tre strati di emulsione,
ognuno sensibile a diverse lunghezze d’onda, che andranno poi a formare i tre colori della pellicola.

Anche la colonna sonora è incisa sulla pellicola positiva tramite una scrittura della luce, sotto forma di una colonna ottica ad
area variabile in cui i segnali luminosi devono essere decodificati da un’apposita cellula fotoelettrica del proiettore. Il collaudo
del Photophone con “Il cantante di jazz” 1927, di Alan Crosland, segna l’avvento del sonoro nel cinema.

L’immagine digitale ha una doppia articolazione:


- fotonumerica (basata sulle riprese lens-based)
- infografica (realizzata al computer).

Luce e trasparenza
Come già visto, la luce naturale rappresenta una necessità primaria per il cinema delle origini, come testimoniano gli studi in
vetro di Georges Méliès e il teatro rotante Black Maria di Thomas Edison.

Il binomio luce e trasparenza diventa fondamentale. La luce, illuminando ogni cosa in senso sia letterale che filosofico, rende
penetrabile l'inconscio ottico della realtà altrimenti nascosto; la trasparenza è la condizione propria delle superfici-interfaccia
attraverso le quali la luce agisce.

Luce e trasparenza sono anche alla base dei primi effetti visivi che ispireranno poi il digitale, come il rotoscoping ideato dai
fratelli Fleischer (la trasparenza di un foglio di celluloide posizionata sul vetro permette di proiettare fotogrammi e ricalcare a
mano le immagini di una controfigura umana, per rendere i movimenti dei personaggi d’animazione più realistici e naturali).
Anche l’effetto Schüfftan si basa su trasparenza e riflessi (specchio biriflettente a 45 gradi rispetto alla mdp, in modo tale da
riflettere ingrandendoli oggetti fuori campo).

Storia della tecnologia cinematografica


Nel contesto del cinema non si può non introdurre le caratteristiche specifiche dell’attrezzatura tecnica.

In primis la mdp, da intendersi come insieme di processi tecnici.


All’origine della mdp c’è la camera oscura, considerata il “peccato originale” del cinema negli anni 70 in quanto poneva l’occhio
al centro del sistema della rappresentazione e sostituiva Dio.
Jean-Louis Comolli ricorda come il cinema sia nato proprio nel momento socio-storico che vede l’affermazione dell’ideologia
borghese capitalista.
La mdp nella versione del cinematografo Lumière è infatti un oggetto tipicamente capitalista, mirato ad ottenere il massimo
risultato con il minimo sforzo: una pellicola larga 35 mm e azionabile manualmente con una manovella, 16 fps.

A metà degli anni 20 la mdp effettua i primi visual effects, ottenuti riavvolgendo e reimpressionando il negativo della pellicola
(da un punto di vista esteriore, questi apparecchi non sono dissimili da quelli fotografici).
Sempre negli anni 20 si diffondono dispositivi leggeri e compatti, che anticipano le attuali handycams (vedi “L’uomo con la
macchina da presa”, 1929, di Dziga Vertov).

L’avvento del sonoro limita la mobilità degli apparati da ripresa: la mdp infatti è necessariamente posta in un vano insonorizzato
per ridurre al minimo il ronzio captabile dai microfoni. Di conseguenza, le carrellate sono completamente impedite e la dizione
della recitazione deve essere ben scandita e chiara.

Negli anni 30, le necessità belliche della WWII permettono la diffusione della mdp Arri della Arriflex, una macchina leggera fatta
apposta per le riprese a mano e l’impiego in esterni.
Questo tipo di mdp, più la produzione di pellicole più sensibili, avranno un profondo impatto sullo sviluppo del cinema moderno.
Il cinema postmoderno cerca di farsi sempre più immersivo, e si hanno molte innovazioni tecnologiche come il sistema Dolby
Surround (inaugurato da “Star Wars” 1977, George Lucas), la louma, una gru snodata a cui è fissata la mdp controllata a
distanza, e i più recenti droni che consentono riprese impraticabili da carrelli e dolly.
Si sviluppa anche il sistema del video-assist (microcamera incorporata nella mdp che permette al regista di controllare le
inquadrature in contemporanea).

In seguito nascono i dispositivi innestabili sul corpo umano come la GoPro e la steadycam, brevettata negli anni 70, che
permette di correggere e ammorbidire le imperfezioni della mdp a mano rendendo i movimenti più fluidi.

Una delle ultime innovazioni è la virtual camera, un sistema che simula i movimenti di mdp in ambienti costruiti a computer
(impiegata nei videogiochi e nel cinema “sintetico”, vedi “Avatar” 2009, di James Cameron).

Il ritorno in epoca digitale del sistema 3D, uno dei più immersivi, è il recupero/sviluppo della visione stereoscopica di Charles
Wheatstone nel 1838.
Il 3D viene impiegato soprattutto nel cinema anni 50 per rispondere alla concorrenza del piccolo schermo (in questo periodo si
affermano anche i sistemi fondati sull’adozione della pellicola a 35mm, come il Cinerama e il CinemaScope).
Negli anni 90 viene introdotto il sistema IMax 3D, e durante il nuovo millennio si usano apparati di ripresa digitali con l’obiettivo
di una rappresentazione naturale, contrapposta all’effetto speciale tipo CGI.
Il trionfo del fotorealismo è segnato da film come “Jurassic Park” 1993, di Steven Spielberg, che determinano la transizione a
un atteggiamento di piena, entusiasta accettazione del 3D.

Lo zoom in sé risale agli anni 30-40 ed è diffusamente impiegato negli anni 50, ma di fatto è già utilizzato nella fotografia
dell’800.
Lo zoom nasce per simulare avvicinamenti o allontanamenti della mdp senza effettivi spostamenti fisici; consente inoltre
l’immediatezza di approccio al profilmico tipica del cinema anni 60-70 (vedi pancinor e Roberto Rossellini).

Altra innovazione degna di nota nel cinema è lo stesso computer - l’impatto che la tecnologia informatica ha avuto sulla
cinematografia è stato radicale nell’ambito dei visual effects e dell’editing (bits e passaggio dal montaggio lineare in pellicola a
quello numerico in software come Avid).

In ultima, la stessa sala cinematografica nella sua qualità di movie house rende possibile la trasformazione del film in cinema.
L’avvento della digitalizzazione e la diffusione dei portable devices ha prodotto la “ri-locazione” dell’esperienza spettatoriale e la
conseguente “inversione” del rapporto pubblico-spettacolo.
Nella sala cinematografica attuale il sistema proiettore-schermo riceve il film o la diretta via satellite (Digital Cinema Package).

Conclusioni
Ogni miglioramento nella storia della tecnologia cinematografica ha rappresentato una modalità in cui il cinema si è reinventato
come media capace sia di superare a livello tecnico la fase precedente, sia di migliorarsi.

_____________________________________________________________________________________________________
POPOLARE
Introduzione
Eric Hobsbawm ne La fine della cultura tratta i fenomeni che coinvolgono la generazione post 1914, anno cruciale nella storia
del cinema.
“Cabiria” 1914, di Giovanni Pastrone, rappresenta infatti l’apogeo dell’industria e della cultura cinematografica, ascrivibile
anche a monumento funebre del cinema muto italiano - l’industria basata su competenze e modi di produzione artigianali, in
grado comunque di produrre opere all’avanguardia, si dirige verso il declino dopo la guerra.

Celebre ammiratore di “Cabiria” è David Griffith, che intanto sta ultimando “Nascita di una nazione” 1915.
Elemento distintivo fondamentale tra i due film è il ritmo, inteso sia in senso visivo sia in senso narrativo, conseguenza della
sostanziale differenza a livello dei modi di rappresentazione.
Griffith utilizza il cinema per dare forma alla concezione del mondo di un paese in ascesa, dinamico, multietnico e capitalista.
Qui il cinema è il mezzo più efficace per raccontare la presa del potere di una nazione e del suo popolo (borghesia, ma anche
proletariato, che pur apparendo massa ignorante e inconsapevole, è sempre popolo).

Rapporto élite-popolo dopo “Cabiria”


Fondamentale la differenza nelle origini di Giovanni Pastrone (borghesi) e dei principali nomi della United Artists, David Griffith,
Charlie Chaplin, Mary Pickford e Douglas Fairbanks (popolari/umili).
Pastrone infatti chiese direttamente a Gabriele D’Annunzio la legittimazione culturale per il suo film, renderlo “opera d’arte” ed
accreditarsi l’audience nazionale borghese e popolare.

Esiste anche negli USA una differenza tra cultura alta e cultura popolare, nata parallelamente all’emergere di un’aristocrazia
locale e di luoghi frequentati da persone con capitale economico e simbolico per aspirare allo status di élite (musei, opere).

Victor Freeburg inquadra le esigenze del mercato e la necessità di capitali del cinema, che lo portano a riferirsi costantemente
a un pubblico popolare: si tratta di costruire una dialettica positiva che porti entrambe le parti (cinema e pubblico) a svilupparsi
reciprocamente in senso qualitativo.
Negli anni 30 Erwin Panofsky segue le linee di Freeburg e sostiene che le potenzialità artistiche e commerciali possono andare
di pari passo (un oggetto è tanto più vivo, ossia capace di riflettere e influenzare i processi sociali del tempo, quanto più è
commerciabile).
Il cinema americano tratta costantemente il rapporto élite-popolo.

- “Il teatro di Minnie” 1928, di Frank Capra


Tratta il successo ottenuto attraverso la parodia “à la Broadway” di sé stesso di un attore parte di una compagnia teatrale di
provincia, successo che rifiuta per tornare al suo pubblico originario, rozzo ma appassionato.
Il film di Capra è emblematico perché, in primo luogo, individua il rapporto inscindibile tra un prodotto culturale, i suoi codici e il
suo pubblico, nella durezza con cui viene castigata la violenza simbolica.
Quel tipo di teatro elementare è pensato per quel tipo di pubblico poco sofisticato, ma non per questo meno degno né inferiore,
come invece è percepito dal pubblico elitario che si sente in diritto di ridere (violenza simbolica nei confronti di altri spettatori).
La cultura di gusto (atteggiamento nei confronti di un prodotto culturale) quindi nasconde un rapporto tra due soggetti (pubblico
alto e basso) mediato dalla rappresentazione teatrale.
In secondo luogo, il film mostra due tipi di audience che si differenziano in modo diverso rispetto alla tradizione europea: la
differenza non è tra pubblico colto e pubblico di cafoni, ma tra pubblico elitario che vuole divertirsi e intrattenersi, e pubblico che
è “fermo” alla dimensione provinciale.
Esiste in questo contesto una sorta di lotta di classe attraverso il grande schermo, lo stigma e il disprezzo pregiudizievole, tra il
pubblico elitario (una minoranza pur sempre di massa) e il pubblico popolare.

- “I dimenticati” 1942, di Preston Sturges


Satira in cui il regista Sullivan diventa ricco grazie a commedie hollywoodiane, tuttavia è insoddisfatto della frivolezza di quello
stesso cinema e si propone di realizzare una rappresentazione impegnata socialmente vicina alle condizioni di vita del popolo
dopo la Grande Depressione. Ciò cambia radicalmente la prospettiva di Sullivan: è infatti lo stesso cinema frivolo e
d’intrattenimento ad aiutare maggiormente la popolazione, distogliendo la loro attenzione dalla dura vita quotidiana.
Il film di Sturges, per quanto discutibile sul piano ideologico, è estremamente sottile e intellettuale e punta palesemente il dito
contro la cultura alta vanesia, superficiale e pretenziosa. Per rispondere alla domanda del popolo, all’occasione volgare ma mai
stupida, è necessario andarvi incontro.

Cinema italiano
La storia del cinema italiano prende forma sulla base di una prospettiva istituzionale (storia nazionale e storia degli apparati
connessi al cinema).
La canonizzazione in cultura alta e cultura bassa fa sì che le opere dei maestri abbiano ampio spazio, mentre le opere di
genere o commerciali sono marginali - questo perché sono considerati meno belli o rivolti ad un pubblico più basso, nonostante
effettivamente tutti i film siano commerciali (speranza recupero del capitale investito con gli incassi) e di genere.

Pierre Bourdieu nota la nascita di vere e proprie community di critici/fan caratterizzate da linguaggi e competenze critiche, che
si inseriscono all’interno delle istituzioni culturali e parlano di produzione di genere e commerciale - in questo contesto si
ampliano le conoscenze relative al cinema e contemporaneamente i film di cui parlano entrano nei festival e acquisiscono
importanza.

Storicamente, la cultura cinematografica italiana si sviluppa in parallelo al processo (sociale) di modernizzazione del paese.
Vittorio Spinazzola in merito propone un primo studio sul cinema come rappresentazione sociale: posto che il cinema è ciò che
viene visto in sala dal più ampio numero di componenti di una società, ogni analisi del cinema parte dal dato relativo agli
incassi - nella convinzione che questo stesso dato sia un presupposto oggettivo in quanto è nel contesto
industriale/commerciale e di massa, e può dipendere da una serie di fattori diversi.
Il successo e la popolarità di un film ha sempre delle ragioni, specie se riguarda un filone cinematografico (trend) e non
un’opera singola. Si può dire che Spinazzola si fondi sul presupposto che se il pubblico rifiuta qualcosa che dovrebbe invece
piacere, e adotta anzi diverse abitudini di consumo, qualcosa non quadra e si deve indagare.
Il pubblico in questo senso è un insieme di soggetti che operano un agire sociale con un senso, anche attraverso la fruizione
del cinema.

Modello Hall di codifica e decodifica


Fausto Colombo traccia uno schema di funzionamento del rapporto produttore-destinatario del prodotto, e stabilisce che il
successo è uno dei fattori che costituiscono i nodi di una rete comunicativa.
Questa è una delle applicazioni possibili al modello di codifica e decodifica elaborato da Stuart Hall negli anni 70.

Il modello Hall parte dal presupposto che un prodotto circola sempre in forma discorsiva (discorsiva audiovisiva nel caso del
film) e viene distribuito a diversi tipi di pubblico. Il discorso deve essere poi tradotto in pratiche sociali affinché possa assumere
un significato e ci possa poi essere un consumo del prodotto iniziale: senza significato non può esserci consumo (quindi la
fruizione di prodotti culturali non coincide necessariamente con il puro intrattenimento).
L’importanza del modello Hall dipende da due fattori:
- il processo di comunicazione tra produttore e consumatore è complesso e aperto, formato da momenti distinti
(produzione, circolazione, distribuzione e consumo, riproduzione)
- il messaggio codificato deve essere decodificato (ciò richiede la condivisione di un codice) e tradotto in pratiche
sociali come intrattenere, istruire e persuadere.
In breve, non esiste alcuna corrispondenza necessaria tra codifica e decodifica.

Secondo Hall, il destinatario del prodotto/consumatore ha sempre tre opzioni nella decodifica del messaggio:
- decodificare con il codice egemonico-dominante
- utilizzare un codice negoziato e poi decodificare concretamente secondo le proprie regole di base
- seguire un codice oppositivo.
Dunque il film non ha un senso intrinseco ma lo acquisisce attraverso la cooperazione tra mittente (produttore) e ricevente
(consumatore).
Conclusioni
La canonizzazione alto-basso vale generalmente anche per il cinema attuale e per i discorsi sociali relativi al cinema del
pubblico (vedi il caso dei cinepanettoni). Probabilmente ciò è dovuto anche ad uno scenario in cui il cinema stesso è sempre
più marginale e elitario/di nicchia.

Hall afferma che è ancora possibile parlare di cultura popolare quando i modi di decodifica e utilizzo di un prodotto culturale
rientra nel quadro della lotta di classe - ossia quando un film, un libro o una canzone sono usati come strumenti di lotta sociale
e rivendicazione di diritti da parte di gruppi discriminati.
In questo senso, la fine del cinema popolare coincide con la fine della possibilità per il cinema di essere politico.

_____________________________________________________________________________________________________
SPETTATORE
Introduzione
Emilie Altenloh espone nel 1914 i risultati della sua ricerca sul profilo sociale degli spettatori anni 10 di una città tedesca,
ottenuti attraverso questionari.
La sua ricerca rappresenta una novità in quanto è una ricerca sul campo a carattere non speculativo, come invece erano le
ricerche sull’audience negli USA, e anche perché non riguarda tanto lo spettatore in sala e davanti lo schermo, ma la relazione
tra lo spettatore, il suo ambiente di vita, la sua classe sociale e l’andare al cinema
Dal lavoro di Altenloh emergono risultati positivi sull’esperienza cinematografica e un’immagine di spettatore attivo.

Spettatore dissociato e teorie su apparato e dispositivo


Il modello di spettatore affermato nel processo di istituzionalizzazione del cinema (con la creazione delle sale) è infatti quello di
uno spettatore dissociato dal contesto e immerso nei mondi fittizi costruiti dai film.
Il cinema è visto a volte come potente strumento di persuasione e manipolazione, con spettatori passivi in balia dei film (specie
bambini, donne, immigrati).
I Payne Fund Studies tra gli anni 20 e 30 raccolgono un volume sugli effetti deleteri del consumo di cinema nei bambini e negli
adolescenti, e in generale dei mezzi di comunicazione.
Grazie ai Payne Fund Studies si sviluppano due linee di ricerca sull’audience:
- ricerche empiriche (ampiezza, composizione, frequenza e abitudini di consumo)
- ricerche teoriche, definite poi speculative.

Dagli anni 40 la questione dell’audience diventa marginale, utile unicamente nella forma del sondaggio funzionale a guidare gli
investimenti e le scelte delle majors.

Solo negli anni 70 la questione riemerge (Jostein Gripsrud la definisce “ritorno del rimosso”) con due elementi essenziali:
- il superamento della censura, che limitava le ricerche sull’audience
- la rilevanza della psicoanalisi, con cui si esamina l’esperienza dello spettatore.

La storiografia riconosce due linee teoriche: le teorie sull’apparato (condizioni di produzione e fruizione dell’esperienza del
cinema) e le teorie sul dispositivo (strategie di coinvolgimento dello spettatore).
Entrambe danno l’immagine di uno spettatore modellato dalle condizioni della visione, indotto a identificarsi con i mondi
rappresentati dai film.
Questi studi riprendono nostalgicamente il tipo di cinema in cui l’esperienza visiva era intensa e coinvolgente, che la
trasformazione dei luoghi di fruizione e la crisi dei testi stanno eliminando.

Spettatore posizionato e femminismo


Il superamento delle teorie dell’apparato e del dispositivo avviene con l’affermazione delle cosiddette teorie cino-
psicoanalitiche, secondo le quali l’esperienza filmica innesca un processo regressivo nello spettatore, che viene indotto a
rivivere fasi del suo percorso soggettivo.
Il rapporto con il film diventa quindi parte costitutiva dell’identità dello spettatore, e in senso lato è uno strumento che posiziona
lo spettatore rispetto al film e alla realtà sociale.
Ciò costituisce la base della teoria dello spettatore posizionato, che appunto attribuisce alla fruizione del cinema un ruolo
decisivo nella costruzione della soggettività dello spettatore e del suo modo di stare al mondo.

La responsabilità del cinema nella costruzione e legittimazione del sistema sociale è al centro di un dibattito nato negli anni 70
a partire dall’idea di spettatore “istituito dal cinema come soggetto”, che va poi a legarsi con la critica femminista.
In questi anni matura la convinzione che la lotta per l’emancipazione femminile si debba condurre anche intervenendo
sull’industria culturale (quindi anche sul cinema) e sui modelli di maschile e femminile che veicola.
Gli studi di Laura Mulvey evidenziano come il cinema giochi un ruolo fondamentale nella costruzione dell’identità di genere
dello spettatore: il cinema hollywoodiano sembra infatti promuovere interessi patriarcali in cui il portatore dell’azione è il
personaggio maschile, mentre i personaggi femminili sono assenti, passivi o ricoprono il ruolo di oggetto del desiderio.
Lo spettatore, sia maschio sia femmina, è quindi indotto durante la visione del film ad allinearsi con il punto di vista del
protagonista maschile, irrimediabilmente patriarcale.
La teoria dello spettatore posizionato ha quindi un evidente problema: la struttura del cinema classico prevede una “posizione”
di visione prettamente maschile, nella quale la donna non può immedesimarsi se non negando alla propria soggettività di
genere.

Spettatore esuberante e iper-spettatore


Un dibattito degli anni 80 fa emergere un paradigma di spettatore più complesso, lo spettatore esuberante.
Questa ha due principali modelli:
- lo spettatore complice, da un approccio cognitivista (alternativo a quello psicanalitico) all’esperienza filmica definita
un processo razionale e cognitivo. David Bordwell sostiene il ruolo attivo dello spettatore, che deve completare il
senso del film attingendo ad una propria serie di competenze, rendendo quindi l’esperienza unica e originale e
facendo dello spettatore un complice della realizzazione del progetto comunicativo film-audience
- lo spettatore resistente, che nonostante sia attivo si presenta ostile al film e lo giudica come ideologicamente
compromesso. Tale modello si presta perfettamente agli studi anni 80 sulle comunità culturalmente minoritarie o
subalterne nella società (donne, omosessuali, gruppi etnici).

L’avvento degli anni 90 e la diffusione di internet e altre tecnologie portano alla creazione di un nuovo paradigma di spettatore
con una capacità di azione enormemente potenziata, l’iper-spettatore.

Con il nuovo millennio le ricerche sull’audience si fermano in quanto il processo di digitalizzazione e la conseguente
trasformazione delle tecnologie e dei media rendono di nuovo urgente la questione della natura dei dispositivi di comunicazione
(come la televisione e lo smartphone).

_____________________________________________________________________________________________________
SERIALITÀ
Introduzione
Per serialità intendiamo da un lato la forma produttiva di tipo fordista (legata alla produzione identica di ogni pezzo grazie alla
catena di montaggio), dall’altro la scomposizione di una materia narrativa in diversi nuclei tematici riproponendo situazioni e
personaggi ma inserendo man mano novità per rinnovare l’attenzione del pubblico.
In ambito prima cinematografico e poi televisivo, nasce per ragioni economiche, per poi rendersi conto che serializzare i
racconti mantiene vivo l’interesse degli spettatori, curiosi di sapere cosa succederà dopo, affezionati ai personaggi.

Origini
A metà 800 la serialità si afferma in letteratura con la stagione del feuilleton (ospita romanzi a puntate).
Negli anni 10 nascono opere con struttura episodica, che si interrompono proprio in momento di tensione e ripropongono stessi
ambienti, personaggi, situazioni. Questo permette di limitare alcuni costi (riciclo set, uso stessi attori) ma anche di inserire
novità e invenzioni (come episodi speciali e omaggi).

Serialità nel piccolo schermo


Comincia a partire dagli anni 80 con la serie “Hill Street giorno e notte” 1981-1987 la narrazione multistrand (multilineare) che
affronta più vicende contemporaneamente.
Inizialmente il concetto di serie era quello di episodi autoconclusivi uniti solo da personaggi fissi; il nuovo modello invece
coincide con la sospensione della narrazione e la flessibilità dei personaggi tipica delle soap opera.

Negli anni 2000 il concetto di serie è ibrido: alcune questioni si risolvono nel singolo episodio (anthology plot: storia centrale
con autonomia), altre invece si prolungano per più episodi o per tutta la stagione (running plot) che sfruttano il potenziale
drammatico e il coinvolgimento spettatoriale.

Serialità nel cinema


Il cinema è influenzato da alcune modalità del racconto televisivo.
La serialità cinematografica degli anni 80 consisteva in un gruppo di film in cui gli episodi erano indipendenti tra loro, ma erano
presenti citazioni palesi alle altre opere e solitamente restava fisso il personaggio principale (vedi Rambo e Rocky). Esiste
quindi un rapporto tra un film e l’altro della serie, ma non sono uno la continuazione dell’altro: sono piuttosto una nuova storia,
e possono essere visti in ordine non cronologico.

A metà degli anni 80 si diffondono due tipi di serialità:


- uno in cui ogni episodio è una risoluzione parziale del precedente, concludendosi in modo aperto rimanda
all’episodio successivo (vedi la trilogia di “Ritorno al futuro”, di Robert Zemeckis)
- uno in cui la narrazione è “un unico film” distribuito in due puntate concatenate, cronologicamente ordinate (vedi “Kill
Bill Vol. 1” 2003 e “Kill Bill Vol 2” 2004, di Quentin Tarantino).

Prodotti derivati
Alle formule precedenti si aggiunge l’insieme di riuso dei nuclei:
- sequel, storie con personaggi già noti al pubblico ma con vicende cronologicamente successive a quelle già narrate
(vedi trilogia “Il Padrino”, di Francis Coppola)
- remake, un adattamento dalla trama apparentemente attuale a un nuovo contesto culturale e a nuovi spettatori, e per
cui l’opera originale rappresenta la materia prima della narrazione (vedi “King Kong” 2005, di Peter Jackson, remake
dell’omonimo film del 1993 di Merian Cooper)
- spin-off, utilizzo di un personaggio secondario di una serie come protagonista di un nuovo prodotto (vedi trilogia “Lo
hobbit”, di Peter Jackson, spin-off della trilogia “Il signore degli anelli”, di Peter Jackson)
- crossover, sovrapposizione di due universi appartenenti a prodotti diversi (vedi “Alien vs Predator” 2004, di Paul
Anderson)
- reboot, adattamento del prodotto originale ad una nuova audience causa lo spostamento dell’interesse verso altre
forme di entertainment (vedi trilogia “Batman Begins”, di Christopher Nolan, che ignora la saga precedente di Tim
Burton).

Un caso particolare è la saga “Star Wars” di George Lucas: la trilogia originale esce nel 1977-1985; a questa segue una
trilogia/prequel nel 1999-2005, una trilogia/sequel nel 2015-2019 e uno spin-off (“The Mandalorian” 2019-).
Da cinema a televisione e viceversa
Rapporto seriale cinema-televisione importante è quello dei film ispirati a serie TV e serie TV ispirate a film.
Nel primo caso il piacere dello spettatore è di ritrovare qualcosa di già noto, a cui viene dato un episodio nuovo, spesso un
prequel (vedi “I segreti di Twin Peaks”, 1990-1991, di David Lynch, e del prequel “Fuoco cammina con me” 1992, di David
Lynch).
Nel caso opposto la conoscenza del film non è necessaria in quanto i personaggi e gli ambienti vengono ripresi.

Questo modello della serialità si è diffuso anche sul web con webseries a low budget (vedi la webserie “Freaks!” 2011) oppure
produzioni grassroots, cioè nate in modo amatoriale e non finanziate dall’industria dell’entertainment.

_____________________________________________________________________________________________________
ATTORE
Origini
L’attore cinematografico sin dagli albori del media è stato una costante: la presenza di interpreti incaricati di sostenere una
rappresentazione ha qualificato ampia parte dei prodotti cinematografici.
Gli interpreti sono istruiti al fine di produrre personaggi, parte imprescindibile della narrazione.
Il cinema è in grado di produrre una narrazione a prescindere dell’intenzionalità degli interpreti (vedi il caso di un neonato o un
animale: il grado di intenzionalità dei soggetti è variabile in base alla loro consapevolezza).
Secondo Edgar Morin il cinema esalta i personaggi nello stesso momento in cui distrugge l’autore.

Corpi e macchine
L’introduzione di tecnologie di riprese implica una centralità della dimensione corporea, e al corpo si associa la riscoperta di
una soggettività.
Secondo Robert Bresson si tratta di cogliere un elemento di senso generato inconsapevolmente da un corpo, a prescindere
dalla sua coscienza o intenzionalità psicologica.

L’ipotesi alternativa è il corpo-macchina: secondo alcuni studiosi, tra i quali Lev Kulešov, l’audience ha bisogno di mostri,
persone eccezionali che ottengono la completa padronanza della loro costruzione meccanica. Inoltre, il corpo-macchina è un
tema diffuso nella cultura moderna e postmoderna (lo dimostrano le molte figure robotiche nei film).
Rispetto alla rappresentazione teatrale, quella cinematografica presenta una frammentazione e un’autonomia dell’immagine: la
ripresa può concentrarsi su singole parti del corpo per valorizzarle, dettagli (occhi, mani…) e possono prodursi personaggi
sintetici combinando inquadrature di parti corporee di diversi attori, oltre la pratica di stuntmen e controfigure.

Per quanto riguarda la valorizzazione, la più importante è quella del volto in primo piano.
Il primo piano dà un’identità ai personaggi, li rende verosimili e dà l’impressione di un innestarsi in loro di processi psicologici
che giustificano le loro azioni. Si afferma quindi un’idea di personalità del personaggio, fatto di pensieri ed emozioni. La
prossimità del primo piano allo spettatore implica una recitazione attenuata, non come quella dei teatri di posa.

Forme dell’attore cinematografico


L’attore può variare in base alle trasformazioni storiche, estetiche, produttive della rappresentazione.
Il cinema attrazione dei primi tempi seguiva il modello della recitazione di teatro di prosa, danza, circo, dove erano importanti i
codici della gestualità e della mimica: a un gesto o a una posa corrisponde uno specifico significato.
Questo tipo di recitazione resiste a lungo nel cinema europeo, mentre a Hollywood nascono lo star system e l’idea di un
personaggio con tratti psicologici e morali. Lo star system permette di identificare il prodotto attraverso il nome dell’attore a cui
è associato e aumentare la domanda.

Il modello di star come personalità non è l’unico; infatti la scuola di montaggio sovietico individua altre tre forme:
- attore come materiale costruttivo
- attore come macchina
- attore come corpo generatore di senso.

Il cinema hollywoodiano distingue anche la star come professionista (esecutore della parte) e come performer (l’interpretazione
è il valore aggiunto della produzione).
La svolta del digitale inoltre può trasformare l’attore con cambiamenti estetici e tecnologici (vedi “Avatar” 2009, di James
Cameron).

Quattro punti di vista sull’attore cinematografico


Il fenomeno dell’attore può essere visto sotto quattro punti di vista:
- prospettiva iconologica: la presenza umana nella rappresentazione per essa come viene figurata, l’attore come
motivo visivo. Questa prospettiva funziona particolarmente nel cinema muto, in cui esistono motivi visivi dominanti
come la recitazione antimimetica o posture esasperate. L’attore Gian Maria Volontè su questo piano offre due
modelli di interpretazione: quella eccentrica ed eccessiva, e quella contenuta. Si alternano poi profili esuberanti e
rigidi
- prospettiva della storia dello spettacolo: considera l’autore nell’ampio sistema dello spettacolo, privilegia il suo
mestiere e tiene conto dell’influenza di altre forme spettacolari nel lavoro attoriale (sistema teatrale). Volonté ha
diverse eredità attoriali, la prima formazione riguarda il sapere sul teatro italiano all’antica, poi la coscienza politica
del lavoro di attore diffuso nella cultura italiana del secondo 900. La sua versatilità interpretativa è maturata da molte
esperienze teatrali, televisive, cinematografiche
- prospettiva del modo di produzione: si concentra sull’organizzazione e la realizzazione, e sulle esigenze culturali (un
esempio è la divisione professionale dello studio system hollywoodiano, in cui figurano diverse categorie attoriali tra
interpreti, e la distinzione dei prodotti in generi
- prospettiva del divismo: richiede attenzione allo star system e alla singola star; in che modo le sue apparizioni
filmiche ed extrafilmiche (interviste, biografie, blog) sono interpretate dai membri delle diverse classi, ecc. Volonté
può essere considerato una star, grazie alla sua coerenza tra le parti interpretate e al suo discorso critico sulle
condizioni sociali e politiche, e la sua competenza performativa. Come divo vuole distruggere modelli e stereotipi, e
lottare contro tipologie di impiego passivo degli attori. È inoltre un attore attivo, che rifiuta determinati ruoli, è vicino
politicamente alla sinistra del PCI, può essere considerato un divo minoritario ma celebrato.

_____________________________________________________________________________________________________
CRITICA
Introduzione
Da tre decenni stanno diminuendo spazi di quotidiani e settimanali dedicati alle recensioni dei film, e le copie vendute delle
riviste di cinema specializzate sono sempre meno. Nell’epoca digitale infatti la critica diventa sempre più a portata di mano e si
trovano miriadi di recensioni, siti di argomento cinematografico, dibattiti sui social network.

Origini e consolidamento industriale


In Italia e in Francia negli anni 10 la produzione discorsiva sul cinema è legata alla promozione delle trame dei film, alla
pubblicità di novità tecniche per gli addetti ai lavori, alla diffusione di giornali, gazzette.
In Italia nascono alcune riviste di cinema e l’uso di affidare a letterati le rubriche cinematografiche, mentre in Francia la stampa
cinematografica si espande.

Il primo critico vero e proprio è Louis Delluc, che si sofferma soprattutto sul concetto di fotogenia e sul ruolo dell’attore.
Predilige il cinema americano, ma è attento anche a generi minori come il documentario, e il suo giudizio è indipendente dalla
promozione commerciale.

Nel periodo tra gli anni 30 e 40 in Italia si consolidano istituzioni cinematografiche sotto il controllo del fascismo (Istituto Luce).
Nascono al contempo discorsi sul cinema americano, il divismo, il rapporto tra cinema e cultura di massa. Sono per lo più
intellettuali di formazione umanistica a svolgere il ruolo di critici sui grandi giornali - tra questi, Cinema redatto da Vittorio
Mussolini e poi da Gianni Puccini (tipo di rivista “di fronda”, iniziativa che dall’interno del regime si oppone a questo
intaccandone i principi).
Le riflessioni si incentrano sul rapporto tra cinema italiano, paesaggio e identità nazionale, sull’importanza della tradizione
letteraria italiana, e su una nuova idea di cinema che anticipa il Neorealismo.

Nel dopoguerra francese c’è un boom editoriale di riviste, in più il successo dei ciné-clubs. Alexandre Astruc scrive in quel
periodo riguardo un dibattito sul realismo, e definisce il cinema come caméra-stylo: un linguaggio che permette all’artista di
esprimere i suoi pensieri attraverso la macchina, come un saggista con la sua penna.
André Bazin distingue invece tre diverse forme di realismo: tecnico, ontologico e psicologico.

Critica cinematografica moderna in Francia


Come già detto, nasce la politique des auteurs grazie all’articolo di François Truffaut “Alì Babà e la politica degli autori”. La
politique applica la categoria di autore su terreni inediti, dove si vedeva inizialmente soltanto mercato, industria (come nel
cinema hollywoodiano).
Anche artisti europei sono al centro del dibattito, tra questi Jacques Becker (Truffaut prende le difese di un suo film minore).

Le caratteristiche della politique sono:


- il volontarismo dell’amore: la visione ripetuta del film e l’intimità con il film. Il film va amato, e per farlo occorre seguire
una procedura - bisogna guardarlo più volte, a distanza ravvicinata allo schermo, e poi discuterlo a fine proiezione.
Non bisogna provare piacere per alcuni film, ma farseli piacere
- il dovere di seguire l’opera nel suo farsi: l’oggetto da amare non è il solo film, il solo apprezzamento estetico, ma
anche tutto il lavoro che c’è dietro. Inoltre occorre considerare il corpus delle opere, e non il singolo film, quindi
occorre considerare l’autore stesso
- il concetto di messa in scena: il contenuto del film non ha un valore assoluto. La messa in scena è un linguaggio
comune, una lingua in grado di superare le differenze specifiche tra culture, uno strumento espressivo universale.

Dal dopoguerra alla politicizzazione


Nel dopoguerra italiano emergono sui quotidiani nuove firme, che stanno al passo con i tempi (critica cinematografica militante)
e seguono un dibattito che discute il rapporto tra pratica filmica e pratica rivoluzionaria.

In Francia il dibattito è tra dispositivo, tecnica e ideologia, ed è influenzato dal marxismo e dalla psicoanalisi.
Les Cahiers du cinéma si politicizza in senso radicale negli anni 70, ma cerca di conciliare la critica dell’ideologia con la
necessità di continuare a studiare ed amare il cinema classico.

A metà degli anni 80 aumentano le pubblicazioni, ci sono nuovi editori e collane di cinema, il cinema entra nelle università.
Tuttavia la critica sui grandi giornali e quotidiani comincia ad andare in crisi.

Metodo, critica e interpretazione


La critica si basa talvolta su regole stabili di funzionamento.
Secondo David Bordwell, la critica funziona come un’attività di problem solving ed il critico cinematografico ha il ruolo
dell’interprete per risolvere un problema, quello di reperire significati non immediatamente individuabili nel film analizzato.
Bordwell individua quattro tipi di significati:
- referenziali ed espliciti (comprensione di situazioni comunicate in modo diretto, non mediato)
- impliciti e sintomatici (necessitano di un’interpretazione, elementi simbolici non immediatamente evidenti).
Il critico oltre a questo deve risolvere altri sottoproblemi, che sono sempre quattro:
- l’appropriatezza (deve dimostrare al lettore che è appropriato parlare del film in questione)
- la corrispondenza (interpretazione supportata da prove)
- l’originalità (si deve differenziare da ciò che è già stato detto)
- la plausibilità (deve rendere credibile il proprio discorso).

Un critico, come ogni oratore, organizza il suo discorso in una struttura (dispositio) e in uno stile (elocutio). Lo stile riguarda il
registro discorsivo adottato, delle scelte lessicali, mentre la struttura riguarda il modo di scrivere (scritto accademico, saggio,
recensione).

In particolare le recensioni possono essere mini-recensioni (settimanali e periodici) recensioni standard (quotidiani e riviste), o
recensioni lunghe (rivista specializzata).

Critica nella cultura digitale


Nascono blogger e critici del web, con una conseguente commistione di tipologie discorsive, e una disarticolazione della
dispositio tradizionale. Nascono inoltre modelli nuovi (lista, elenco, finta conversazione) e le scelte lessicali sono basse e
colloquiali (forma diaristica).
Viene poi ridefinita la nozione di gusto, e si ridefinisce il ruolo dell’expertise (esperto). Esempio evidente è come su siti come
Amazon e MYMovies ci siano recensioni di utenti comuni e critici non professionisti, ma anche di expertise tradizionali.

Questo processo consiste in una deistituzionalizzazione della critica, tanto che alcuni scettici la credono scomparsa, mentre
per altri il lato positivo è che il web ha generato l’avvicinamento di tanti utenti al discorso critico.

_____________________________________________________________________________________________________
SONORO
Suono
Anche se il film è percepito come un medium visivo, il 50% dell’esperienza cinematografica è uditiva.
È più evidente per lo spettatore moderno, grazie al Dolby System e al THX, ma lo è anche per uno spettatore degli anni 10 che
è accolto in una sala chiassosa, che ascolta le parole di un imbonitore e la musica di orchestre o pianisti di sala.
La componente sonora è stata sempre più coinvolta poi dalle modificazioni tecnologiche.

Il sonoro si è subito imposto come una componente fondamentale della politica del blockbuster e la personalità dei sound
designers si è fatta sempre più importante. Inizialmente, con il cinema muto, si pensava che il primato del film fosse visivo. Si
ha poi un cambio di prospettiva quando si diffonde la concezione di esperienza filmica come
audioviewing.
Nel cinema moderno ogni battuta di dialogo è manipolata o registrata successivamente, ci sono microfoni più sensibili, ecc.

Immagine e suono
La dimensione musicale appare come componente più esterna e autonoma rispetto all’immagine. Per certi versi la musica nel
film ha facilitato il volgere dell’attenzione al suono filmico.

L’emancipazione del suono dall’immagine in termini di autonomia fa sì che nascano questioni teoriche e manifestazioni volte
alla limitazione del suono e della parola rispetto all’immagine.
Talvolta immagini e suono esprimono significati paralleli del film, altre volte invece il suono si pone come contrappunto al visivo.
Spesso il parallelismo è adottato nel cinema classico mentre l’opposizione in quello moderno (“Le iene” 1992, di Quentin
Tarantino, dà il ritmo di Stuck in the middle with you alla macabra scena del taglio dell’orecchio; in “Arancia Meccanica” 1971,
di Stanley Kubrick, si usa l’utilizzo contrappuntistico di Beethoven nella scena della cura/tortura di Alex).
Il contrappunto indica anche un’autonomia di suono e immagine - ciascun elemento ha una propria individualità.

È di nota l’impiego della musica di Pier Paolo Pasolini, che in “Accattone” 1961 inserisce passaggi della Passione secondo
Matteo di Bach: il contrappunto è sia ironico, sia una proiezione sacrale della piccola tragedia.

Spazi del suono


Il suono abita uno spazio che è quello dell’immagine, pur interferendo con essa. Contribuisce inoltre a guidare lo spettatore in
un’esplorazione visiva dell’immagine in cui uomo e voce sono al centro e i rumori e la musica hanno una funzione narrativa.

Oltre all’ascolto visualizzato, ossia i suoni in, sincronizzati a una sorgente sonora che l’inquadratura sta mostrando in
contemporanea, è fuori campo che il sonoro trova la sua dimensione principale.
Il fuori campo diviene attivo grazie al suono, rende lo spettatore consapevole dei limiti del suo sguardo e fa nascere in lui il
desiderio di superarli, soprattutto nel momento in cui c’è suono off (fuori quadro) e sta per far apparire la sorgente nella
prossima inquadratura.

I suoni over invece provengono da una sorgente esclusa dal campo visivo dello spettatore: parliamo quindi della voce di un
narratore (ad esempio, la voce maschile nitida in “Jules e Jim” 1962, di François Truffaut, oppure in “Rapina a mano armata”
1956, di Stanley Kubrick, in cui la voce orienta lo spettatore in una serie di flashback e sequenze parallele) oppure della
musica.

Le inquadrature sonore (definite talvolta suoni on) sono illusioni: il suono non può letteralmente essere inquadrato, ma sono il
risultato di montaggio con l’immagine che porta ad associarla o meno a un oggetto.
La riflessione si sposta poi sul ruolo di suono e immagine, in cui le due componenti si condizionano reciprocamente. Eppure il
suono filmico eccede l’immagine, è inafferrabile, sfugge, e spesso la voce filmica ha un potere misterioso e ipnotico.

Ambiente e paesaggio
La rivalutazione del suono e la consapevolezza di incapacità di cogliere la relazione audiovisiva portano a un riesame dello
statuto del suono e del rapporto che ha con l’immagine, e ad una considerazione che riguarda la posizione dello spettatore e
dell’ascolto (presa consapevolezza della complessità e sfuggevolezza della componente sonora).
La questione del sonoro non riguarda una semplice registrazione, ma è una questione di resa: la parola deve riuscire
comprensibile e nitida anche attraverso un urlo o un sussurro, un rumore. L’evoluzione tecnologica ha permesso una resa più
agile ed immediata del suono.

Aumenta pian piano la consapevolezza dell’autonomia del suono dal visivo, e nascono anche tentativi in cui il suono non è
“mediato” ma è identico al reale, risultando assordante e sovrastando qualsiasi altra forma di percezione.
A partire dal cinema moderno il suono diventa protagonista e oggetto privilegiato del sound designer.

Alcuni artisti, come Quentin Tarantino, inseriscono nel CD del soundtrack alcuni dialoghi estratti dai film: si conquista così il
ruolo di oggetto sonoro, sganciato dal visivo dell’immagine e dal primato del visuale.

I film Sound Studies danno una dimensione prioritaria al suono, consapevoli che a differenza del visivo, che si limita allo
schermo, il suono circonda e immerge lo spettatore offrendogli un’esperienza totalizzante.
Questa percezione sarà amplificata dai canali surround (altoparlanti ai lati e alle spalle dello spettatore) e moderni sistemi audio
dei low-frequency effects spesso esaltati da subwoofers (vibrazioni intense che colpiscono dall’interno lo spettatore).
Dunque, non si parla più soltanto di sonoro o colonna sonora ma di ambiente sonoro, come spazio unico e tridimensionale tra
lo spettatore e l’ambiente circostante.

_____________________________________________________________________________________________________
TEORIA
Introduzione
Il cinema si presenta dalla sua nascita accompagnato da molti brevi interventi occasionali: questi testimoniano da un lato il suo
immediato radicamento, dall’altro l’esigenza di dare un senso socialmente condiviso a questo nuovo oggetto di esperienza.
Può trattarsi di interventi che affrontano interessi pratici, oppure testimonianze dei primi spettatori, soprattutto di giornalisti e
scrittori.

Studi sul cinema


Dagli anni 20 in poi nascono interventi di giornalisti, organizzatori culturali, scrittori e registi nella riflessione sul cinema. Questo
perché nasce il lungometraggio, che viene accolto in sale attrezzate per la proiezione e quindi acquisisce maggiore visibilità
sociale.
Inoltre, viene riqualificata la figura ottocentesca dello studioso o del letterato nel nuovo ruolo di “intellettuale”.

Avanguardie incisive nella teoria del cinema sono soprattutto Futurismo e Surrealismo.
Le riflessioni di questo tempo sono considerate moderniste, perché esaltano la capacità del cinema di riformulare il reale
attraverso le moderne tecnologie della percezione.

Le forme del discorso sono quelle di articoli su quotidiani o riviste, alcuni volumi in riviste specializzate, e i temi possono essere
riassunti in tre linee principali:
- la prima ondata di studi è caratterizzata dall’annettere il cinema nel campo estetico, legittimandolo quindi come forma
d’arte. Alcuni sostengono che sia in grado di conciliare arti plastiche con musica, altri che il cinema è una forma
d’arte a sé, con caratteristiche proprie, un’esperienza inedita. Un primo gruppo di studiosi si concentra sul fatto che il
cinema esternalizza e rende oggettivi movimenti interni e soggettivi della coscienza e del pensiero. Un secondo
gruppo invece compie studi “rivelazionisti” e pensa che assistere all’esperienza filmica sia assistere a
un’esteriorizzazione epifanica di aspetti segreti e invisibili del mondo reale. In entrambi i casi il cinema coinvolge i
sensi, l’intelletto, le emozioni dello spettatore, è visto come un dispositivo artificiale che regola rapporti tra soggetto e
oggetto
- la seconda ondata di studi si concentra sul fattore estetico: il cinema ha un linguaggio dotato di regole, norme,
grammatiche specifiche. Per la scuola dei formalisti russi, il film assume la piatta realtà fotografica delle immagini e la
manipola con procedimenti artificiali di carattere tecnico-stilistico. Si oppone alla teoria rivelazionista perché non è il
reale che si rivela attraverso l’inquadratura, ma il linguaggio cinematografico che esprime il reale attraverso il
montaggio
- la terza ondata di studi si distacca sia dalla preoccupazione estetica che da quella linguistica, ma si concentra sul
ruolo del cinema nella società, il suo statuto sociale e di mezzo di comunicazione. Secondo Walter Benjamin il
cinema va distinto tra dispositivo tecnologico e media. Per media intende l’insieme di condizioni storiche, culturali,
tecnologiche che determinano l’esperienza percettiva dei soggetti sociali.

Discipline
Il secondo dopoguerra è caratterizzato da due fenomeni principali:
- il cinema che riflette su sé stesso e sulle proprie capacità di riproduzione del reale e sul tipo di piacere che suscita
(metacinema)
- la riflessione sul cinema che si istituzionalizza all’interno di università e centri di ricerca.

Nel primo caso, il gruppo di teorici e critici di riferimento è quello della Cahiers du cinéma. Il fondatore André Bazin esalta il
rapporto privilegiato del cinema con il reale rispetto alle altre arti.
Nel contesto del secondo caso nasce la filmologia, tentativo di inserire il cinema tra gli oggetti di studio accademici, che
coinvolge psicologi, psicoanalisti, sociologi, antropologi. La riflessione sul cinema si definisce nel dialogo con una rete di nuove
discipline o di discipline rinnovate: semiotica, sociologia, psicoanalisi, filosofia politica (ad esempio, sul versante della critica
ideologica l’influsso principale proviene dalla revisione di Marx).

Il cinema è visto come macchina di produzione e riproduzione di ideologie, per i contenuti che veicola e per la sua natura di
prodotto della tecnologia capitalista. A questi studi si aggiungono i Feminist Studies (vedi Laura Mulvey).

Riguardo al dibattito anglosassone negli anni 80, si sviluppano gli studi culturali che si dedicano particolarmente al ruolo della
cultura pop, dei media e del cinema.
La figura di spettatore risente delle determinazioni culturali, e c’è un nuovo interesse per lo spettatore in quanto soggetto
sociale e per la sua esperienza.

Teorie contemporanee
Negli anni 90 si conferma la natura istituzionale della ricerca, evidenziata dallo spostamento dei Film Studies dalla teoria alla
filosofia del film, e ritorna un interesse per l’approccio estetico del cinema.
Inoltre, il cinema “sparisce” come istituzione determinata e diventa riconoscibile con i nuovi devices digitali (film visti non solo al
cinema, anche in tv, a casa).

La conseguenza è l’individualità dell’oggetto film e la relazione che lo spettatore ha con esso. I tre punti principali del dibattito
contemporaneo sono:
- la definizione del cinema, i criteri che lo definiscono nell’universo dei media contemporanei. Da un lato il cinema nelle
nuove culture digitali è visto come un segno positivo perché il cinema ha trasmesso molte delle sue componenti,
dall’altro si pensa che il digitale trasformi l’esperienza dello spettatore
- la relazione tra cinema e corpo. Il cinema classico pone al centro le relazioni cronologiche e causali tra le immagini,
per cui la percezione legata all’azione si manifesta nel movimento. Il cinema moderno va oltre questo modello e il
nesso tra percezione e azione si rompe - si parla di passati, presenti, futuri molteplici. In questo contesto, Gilles
Deleuze afferma che il film va considerato in quanto corpo, è un oggetto/soggetto in grado di rappresentare sé
stesso e svolgere un’esperienza percettiva. Anche lo spettatore è un corpo che svolge un’esperienza percettiva e la
esprime a sua volta (dunque, nella visione di un film sono coinvolti due soggetti attivi)
- la teoria e la storia del cinema. Dalla fine degli anni 70 cominciano a essere compilate antologie di teoria e critica del
cinema, e dagli anni 90 nasce una riflessione sulla teoria del cinema. I testi più recenti abbandonano la ricostruzione
storica del dibattito e privilegiano una ricostruzione archeologica e una valutazione delle teorie del passato.

_____________________________________________________________________________________________________
CINEFILIA
Definizione
La cinefilia è amore per il cinema, per la storia del cinema e il mito del cinema. La conoscenza della storia del cinema distingue
il cinefilo dal semplice simpatizzante, e presuppone una competenza.

Il mito del cinema è inteso come cinema come mezzo espressivo unico e arte del tutto originale. L’enciclopedia del Cinema di
Gianni Canova definisce “cinefilo” una persona appassionata di cinema talmente tanto da considerare la visione di un film
come l’esperienza più alta in termini estetici e intellettuali.
Com’è ovvio, la cinefilia è una pratica primariamente estetizzante. Il termine cinéphile secondo Antoine de Baecque è
l’invenzione di uno sguardo e la storia di una cultura, poi invenzione di una cultura. Ciò che distingue la cinefilia dal semplice
piacere di andare al cinema, è guardare in film con passione e consapevolezza critica e storica.

Cinefilia classica
Louis Delluc a fine anni 10 acquisisce il titolo di primo vero cinefilo. La sua idea era quella del cinema come un’arte da
valorizzare, che merita quindi una critica, una divulgazione, una promozione culturale.
È considerato anche il padre della critica e il padre simbolico della generazione della Cahiers du cinéma creatrice di una sorta
di première vague (anticipatrice della Nouvelle Vague).

Cinefilia moderna
A partire dal secondo dopoguerra nascono e si divulgano sale cinematografiche, cineclub, riviste specializzate, distribuzioni di
film americani prima inediti causa censura. L’interesse verso il cinema si diffonde e dagli anni 40 svanisce l’idea di cinema
come mezzo veicolo di idee sociali, morali e religiose.
La cinefilia di François Truffaut prevede proprio una liberazione del cinema dai vincoli del contenuto, per fondare invece il
primato della messa in scena.

Per meritarsi la qualifica di cinefili occorre dimostrarsi competenti e apprezzare i film giusti.
Le posizioni intorno ai film si polarizzano e non c’è un giudizio bilanciato.
La cinefilia e la critica però non sempre coincidono, in quanto la cinefilia esiste anche senza la critica.

Cinefilia militante
Dagli anni 60 in poi c’è una politicizzazione della cinefilia. È difficile individuare un percorso unitario nella comunità cinefila
perché questa si è allargata dalla Francia a tutto il mondo.

I “giovani turchi”, indifferenti o ostili alle politiche culturali del Partito comunista francese, si trovano costretti a schierarsi date le
contrapposizioni ideologiche del tempo.
Molti di questi, come Jean-Luc Godard, si affiancano all’ideologia marxista-leninista, che inseriscono anche nella produzione
cinematografica; altri invece abbracciano generalmente l’esperienza del cinema diretto/politico.

In Italia, la rivista Ombre rosse di Goffredo Fofi mescola l’amore per il western hollywoodiano alla militanza politica: credendo
imminente una rivoluzione proletaria, il suo interesse va al cinema popolare e al cinema del Terzo Mondo.
Il cinema è interpretato in questi casi come mezzo discorsivo necessario alla lotta politica.

Cinefilia magnetica
Le novità provenienti dal sistema televisivo e dei videoregistratori, dalla diffusione delle nuove
tecnologie, comportano l’ingresso del linguaggio del cinema nelle scuole, della sensibilità per il cinema d’autore.
Lo spettatore casalingo diventa il principale consumatore di cinema.

La cinefilia appare in questo periodo spiazzata e il cinema non è più il media principale: si avverte da una parte un declino del
cinema, da una parte una sua culturalizzazione.

Nuove generazioni di cinefili possono formarsi grazie alle rassegne televisive o alle videocassette, e la nuova cinefilia è
segnata dal rapporto culturale dello spettatore con i film fuori dalla sala (un esempio è il collezionismo casalingo).

Cinefilia postmoderna
Il 1995 è una data simbolica sia perché è il centenario della storia del cinema, sia perché è uno spartiacque per la cinefilia;
cresce la consapevolezza che grazie al lavoro di storici, università, nuove tecnologie, la storia del cinema è emersa in modo
completo - eppure il medium cinematografico è ora al margine e lascia spazio ad altri media digitali.
La cinefilia è quindi impegnata più che altro ad amministrare il passato.

Tra le novità c’è una tendenza internazionale a rivalutare il cinema popolare, un repertorio che può essere chiamato in diversi
modi (trash, stracult, ecc).

Nuova cinefilia
Gli anni 2000 mettono a disposizione nuovi luoghi, virtuali, per spartire la pratica cinefila (social network, blog, forum per la
condivisione di idee).
Nasce anche il movimento New Cinephilia, che rinuncia a difendere la sala cinematografica come unico luogo e persegue il
peer-to-peer per lo scambio di lungometraggi e filmografie (tramite ad esempio Youtube).

Potrebbero piacerti anche