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L’ESERCIZIO DELL’AZIONE PENALE NEL RISPETTO DEL PRINCIPIO DI RAGIONEVOLE DURATA

Per esercizio dell’azione penale s’intende l’atto tramite il quale il Pubblico Ministero, una volta appresa la
notitia criminis e svolte le opportune indagini preliminari nei termini di cui all’art 405 cpp al fine di valutare
se sussistono prove sufficienti a sostenere l’accusa in giudizio, ha l’obbligo di rivolgere – ai sensi dell’art 112
Cost - al Giudice richiesta affinché l'autore di un fatto di reato venga punito in quanto responsabile.
La sua richiesta di rinvio a giudizio deve essere vagliata in un’apposita sede, l’ udienza preliminare, in cui il
giudice che la presiede prende visione di tutti gli atti di indagine compiuti dal PM e dalla Polizia giudiziaria e
decide se accogliere o meno la richiesta di ulteriori indagini, garantendo, inoltre, l’applicazione delle dovute
garanzie di difesa dell’imputato (24).
Per converso, è tenuto a presentare richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato ex art.
408 e le indagini sino ad allora espletate vengono conservate nell’archivio della Procura.
Il GIP ha l’obbligo di valutare detta richiesta, tant’è che può anche non accoglierla (409).
Il PM è definito dominus dell’azione penale: l’unico soggetto autorizzato dal nostro ordinamento ad
esercitarla. Una volta esercitata, è irrevocabile; da questo momento inizia la fase processuale in senso
stretto.

A differenza di quanto avviene in altri Paesi Europei – ove è consolidato il principio dell’opportunità
dell’azione penale, che consente scelte discrezionali di politica penale – nel nostro ordinamento vige il
principio di obbligatorietà il quale, nell’imporre il perseguimento di tutti i reati, intende:
 limitare i margini di discrezionalità dell’inquirente;
 garantire l’uniformità di trattamento di tutti i cittadini dinanzi alla legge.
Suddetto principio è ripreso poi da una serie di articoli quali:
o art 24 Cost <<Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi>>
o in forme ancor più perentorie ed impegnative nell’art 6 della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo :<< Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente,
pubblicamente e in tempo ragionevole>>.
o Del resto, è dalla Magna Charta Libertatum di re Giovanni Senza Terra del 1215 che il diritto ad
ottenere una decisione giudiziaria è stato proclamato: <<A nessuno sarà negato o ritardato il diritto
alla giustizia>>.

Il disposto di cui all’art 112 va dunque intenso nel senso che il PM non può decidere di esercitare l’azione
penale in modo arbitrario o influenzato da altri poteri. Se così non fosse, l’azione penale non sarebbe
obbligatoria ed il PM cesserebbe di essere indipendente, dal momento che la responsabilità di scelta
sull’esercizio dell’azione penale ricadrebbe sul potere politico – l’unico legittimato da suffragio popolare.

Occorre però fare i conti con l’altrettanto ineludibile principio prescritto dal novellato art 111 Cost: che, se
da un lato ha ribadito l’importanza del contraddittorio nella formazione della prova e la necessità che il
processo si celebri dinanzi ad un giudice terzo e imparziale, d’altro lato ha altresì introdotto il diritto ad una
giustizia in tempi favorevoli. Ne deriva che, se l’ambizione di voler perseguire tutto e tutti non è sorretta da
un adeguato dimensionamento delle risorse da destinare al settore giudiziario, vengono inevitabilmente a
determinarsi situazioni di congestione del sistema e, nei casi più estremi, la sua paralisi.
L’introduzione del canone costituzionale del c.d. giusto processo ha così imposto, al legislatore, di realizzare
un sistema di garantismo efficientista, che coniugasse, in modo coerente, garanzie sostanziali per
l’imputato e tutela della ragionevole durata del processo, sul presupposto che l’efficienza del sistema
giustizia è un fattore vitale della democrazia. Per raggiungere tale obiettivo è necessario, in primo luogo,
che siano rispettati i principi del contraddittorio, del diritto di accusa e di difesa, della parità delle parti,
dell’imparzialità del giudice ma occorre anche che il processo si svolga in modo tale da tendere ad una
decisione giusta: non è infatti attraverso una tutela sommaria, ancorché rapida, che si persegue l’obiettivo
di un processo equo.

Proprio a tal riguardo è da considerare quanto Paolo Borgna, Procuratore della Repubblica aggiunto presso
il Tribunale di Torino, afferma – un sistema, come quello italiano, che veda insieme:
 Obbligatorietà dell’azione penale;
 Processo con tre gradi di giudizio;
 Impraticabilità politica di ogni amnistia, soprattutto a seguito della Riforma del 1992 che ha portato
alla riformulazione dell’art 79 Cost;
 Blocco del turn over per il personale amministrativo;
 Affermazione della consuetudine per cui le richieste di proroga del PM vengono sempre accolte dal
GIP, nonostante agli artt. 405 e ss il Codice di Rito fissi i tempi di durata delle indagini preliminari.
Si consideri, nello specifico, l’art 406 il quale fissa la proroga dei termini di durata delle indagini preliminari
che, ai sensi del precedente articolo, debbono essere rispettati a pena di inutilizzabilità degli atti di indagine
compiuti dopo la scadenza. Entro il termine finale il PM è tenuto a richiedere l’archiviazione o ad esercitare
l’azione penale. In quest’ultimo caso è sufficiente la notifica dell’avviso di cui all’articolo 415 bis. Ad ogni
modo, il termine di 6 mesi o di 1 anno può essere prolungato nell’ipotesi in cui il PM ne faccia richiesta al
giudice per giusta causa.
È dunque necessario un intervento da parte del CSM o del legislatore affinché venga ristabilito un adeguato
potere di controllo da parte dell’organo giudicante su quello requirente.

È inevitabilmente un sistema che non regge. La inevitabile conseguenza di questa situazione è, per
l’appunto:
 Ingolfamento del sistema;
 Allungamento impressionante dei tempi del processo;
 Estinzione per prescrizione di decine di migliaia di reato (cosa che spesso avviene di già nella fase
delle indagini preliminari).

Ed a ben vedere, l’effettiva entità delle risorse pubbliche destinate all’amministrazione della giustizia
delimita, in ogni sistema, quantità e qualità del servizio reso e si arriva anche a convenire con le accuse che
larga parte del mondo ha rivolto alle Procure italiane, secondo le quali: l’obbligatorietà dell’azione penale è
un feticcio, nonché con quanto dallo stesso Borgna affermato: l’obbligatorietà dell’azione penale non è, di
fatto, mai esistita. Esiste tutt’al più come fine a cui tendere.
Del resto, già Giovanni Conso, nel 1979 scriveva <<di un’obbligatorietà nel senso pieno del termine non è
possibile parlare in concreto. (…) Ad essere obbligato, anche a causa della carenza dei mezzi, non è tanto
l’esercizio dell’azione penale quanto il compimento di scelte prioritarie, il cui prezzo è non di rado
l’accantonamento di casi ritenuti non prioritari sul binario scontato della prescrizione>>.

Una parziale risoluzione è stata rinvenuta nella:

a. Individuazione di CRITERI DI PRIORITÀ, sulla base della convinzione secondo cui i reati dovrebbero
essere perseguiti in modo tale che, pur senza escluderne alcuno in linea di principio, vengano presi
in esame in base a prefissati parametri.
I Procuratori della Repubblica sono dunque dovuti ricorrere a delle scelte di priorità che, per
evitare il rischio fossero arbitrarie e riflettessero le inclinazioni personali dei Pubblici Ministeri,
risultassero ancorate a parametri il più oggettivi possibile (quali ad esempio la gravità del fatto) e,
soprattutto, rintracciabili nei codici: in particolare, si è preso come punto di riferimento l’articolo
132 bis delle disposizioni di attuazione del cpp << Formazione dei ruoli di udienza e trattazione
dei processi>> il quale detta appunto, per il giudice, dei criteri di priorità nella fissazione dei
processi.

1. Nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi è assicurata la priorità assoluta:

a) ai processi relativi ai delitti di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice e ai delitti di criminalità
organizzata, anche terroristica;
a-bis) ai delitti previsti dagli articoli 572 e da 609 bis a 609 octies e 612 bis del codice penale;
a-ter) ai processi relativi ai delitti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale verificatisi in presenza delle
circostanze di cui agli articoli 52, secondo, terzo e quarto comma, e 55, secondo comma, del codice penale;
(1)
b) ai processi relativi ai delitti commessi in violazione delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e
all'igiene sul lavoro e delle norme in materia di circolazione stradale, ai delitti di cui al testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nonché ai delitti puniti con la pena della reclusione non inferiore
nel massimo a quattro anni;
c) ai processi a carico di imputati detenuti, anche per reato diverso da quello per cui si procede;
d) ai processi nei quali l'imputato è stato sottoposto ad arresto o a fermo di indiziato di delitto, ovvero a
misura cautelare personale, anche revocata o la cui efficacia sia cessata;
e) ai processi nei quali è contestata la recidiva, ai sensi dell'articolo 99, quarto comma, del codice penale;
f) ai processi da celebrare con giudizio direttissimo e con giudizio immediato;
f-bis) ai processi relativi ai delitti di cui agli articoli 317, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321 e 322 bis del
codice penale.
2. I dirigenti degli uffici giudicanti adottano i provvedimenti organizzativi necessari per assicurare la rapida
definizione dei processi per i quali è prevista la trattazione prioritaria

Il ricorso al dettato di questo articolo è avvenuto in molte Procure, in realtà, molto prima della effettiva
delibera, da parte del CSM dell’11 maggio 2016 che ha permesso, in sostanza, ai Procuratori, di applicare in
concreto i criteri di cui al predetto articolo.
Questa norma in realtà non è altro che la rappresentazione di quanto avviene, da molto più tempo, in altri
Paesi dove il principio di obbligatorietà dell’azione penale non è limite, dal momento che o non è
costituzionalizzato o non esiste.
Ciò detto, queste scelte di priorità espongono i PM all’accusa di esercitare una discrezionalità di fatto non
prevista dalla Legge, pur essendo legittimate dal CSM.
Queste linee guida tendono a dare uniformità, a livello nazionale, di quelli che sono i criteri nella trattazione
prioritaria degli affari penali ed operano laddove la portata normativa del 132 bis non può arrivare.
I criteri ivi contenuti attengono ben poco al 112 della Costituzione essendo legati all’organizzazione
dell’attività dibattimentali in cui dunque è stato già scelto se esercitare l’azione penale o meno. Quindi, più
che un limite all’obbligatorietà dell’azione penale, costituiscono un limite all’organizzazione giudiziaria e
rispondono a ragioni di efficientismo del sistema.
La violazione di queste linee guida potrebbe comportare, se non sufficientemente motivata, un’azione di
responsabilità nei confronti del magistrato che potrebbe andare ad incidere sulla sua progressione in
carriera. La motivazione del provvedimento costituisce, dunque, la garanzia, per il magistrato che ha
operato una determinata scelta, di non subire delle ripercussioni sulla sua carriera.

Accanto al 132 è da considerare il 133 cp <<gravità del reato: valutazione agli effetti della pena>>.
Questa norma ha un'importanza fondamentale, in quanto ha la funzione di orientare il giudice nella
valutazione dell’accoglimento di una richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto , sulla base di
parametri oggettivi - legati alla gravità del reato - e soggettivi - relativi alla capacità a delinquere del reo, al
fine di impedire di dare luogo a processi lunghi nel caso in cui il fatto sia di facile e pronta soluzione (caso
dell’anziano riportato da Paolo Borgna).
Tuttavia, nonostante l'analitica descrizione degli indici fattuali di commisurazione della pena, secondo
alcuni autori la norma manca di indicare i criteri finalistici sottesi, nel senso che non è chiaro se la gravità
del fatto e la capacità a delinquere vadano interpretate in chiave retributiva o special preventiva. Si tratta di
uno snodo dottrinale rilevante, stante la polivalenza dei termini utilizzati, ancora fortemente dibattuto.
Secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, la soluzione starebbe nei binomi retribuzione-
gravità del reato e specialprevenzione-capacità criminale.

Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente [164, 169, 175, 203], il giudice deve
tener conto della gravità del reato(1), desunta:
1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità
dell'azione(2);
2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato(3);
3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa(4).
Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere(5) del colpevole [103, 105, 108; c.p.p. 220],
desunta:
1) dai motivi a delinquere(6) e dal carattere del reo(7);
2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato(8);
3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato(9);
4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo

A fronte di una disciplina legislativa lacunosa e non sempre rispondente a criteri di coerenza, gli strumenti
più importanti per lo studio della pratica dei criteri di priorità permangono, ad oggi, le circolari emesse dai
capi dei singoli Uffici giudiziari territoriali:
 La prima iniziativa che introdusse un criterio di lavoro basato sull’indicazione di criteri di priorità
può farsi risalire al 1990 ed è nota come “CIRCOLARE ZAGREBELSKY”.
Il documento, volto a disciplinare le procedure organizzative della Procura della Repubblica presso
la Pretura circondariale di Torino, indicò vere e proprie corsie preferenziali per talune ben
individuate tipologie di notizie di reato;
 Merita, poi, una particolare segnalazione la ben più recente circolare, adottata nel 2007 dal
Procuratore della Repubblica di Torino e nota come “CIRCOLARE MADDALENA”: si tratta di un atto
con cui, avuto riguardo all’impatto del coevo provvedimento d’indulto sulla gestione del carico
giudiziario, si sono impartite istruzioni, interne all’ufficio, finalizzate all’accantonamento dei
procedimenti per un catalogo predeterminato di reati marginali e si sono altresì formulati auspici
nel segno di una valutazione ampia da parte del sostituto assegnatario del fascicolo dei presupposti
per l’archiviazione in ordine ai medesimi reati. I criteri individuati devono intendersi non già come
criteri di selezione implicanti inammissibili aprioristiche rinunce ad agire, ma come principi di
buona organizzazione del lavoro.

In entrambe si presuppone una certa discrezionalità del pubblico ministero, ma è nella circolare
Zagrebelsky che questa assume il massimo grado di espansione: per tale motivo, quest’ultima appare come
il vero prototipo dei criteri di priorità.

b. DEPENALIZZAZIONE: effetto delle disposizioni legislative aventi l’obiettivo di degradare fatti di


reato in illeciti amministrativi, al fine di ottimizzare il ricorso alla sanzione penale - che deve essere
pertanto intesa come extrema ratio - e razionalizzare il sovraccarico degli uffici giudiziari e
l’affollamento delle carceri.
Molto più banalmente: trasformazione degli illeciti penali in illeciti amministrativi.
Ciò detto, in Italia non si può parlare di vera e propria depenalizzazione; sarebbe più corretto discorrere di
DEGIURISDIZIONALIZZAZIONE e DEPROCESSUALIZZAZIONE.
Iniziata con la L 706/1975 è stata poi attuata con la L 689/1981 ‘’modifiche al sistema penale’’ denominata,
nella terminologia corrente, in modo improprio, come ‘’legge sulla depenalizzazione’’ dal momento che tale
normativa sancisce, in realtà, il principio di specialità tra disposizioni penali e disposizioni che prevedono
una sanzione amministrativa tale che un fatto di reato non può essere contestualmente disciplinato da
entrambi i tipi di norme, bensì soltanto da quella di carattere speciale.
La normativa in questione ha dato vita, ufficialmente, al concetto di illecito amministrativo: introduce un
sistema compiuto di illecito e sanzione amministrativa, prevedendo principi generali, eccezioni, applicabilità
e competenze. Ha così introdotto un sistema para penale – così definito dal momento che il nuovo sistema
è stato ideato avendo come punto di riferimento il modello penalistico: i reati sono stati trasformati in
illeciti amministrativi (per illecito amministrativo si intende la violazione di una norma giuridica per cui
viene prevista una sanzione amministrativa pecuniaria) modellati sulla struttura del reato e l’accertamento
di questi e conseguenziale irrogante della sanzione è stata affidata all’opera della PA ma, al contempo, si
discosta dal sistema penale vero e proprio perché:
 la sanzione è pecuniaria: può essere fissa ma può anche essere previsto un range minimo o
massimo. Il non pagamento di quest’importo comporta l’emissione di un’ordinanza o ingiunzione
che, a seguito di un procedimento effettuato dall’ufficio legale dell’ente che ha emesso la sanzione,
è volta a determinare l’importo sulla base di criteri come: eventuali precedenti violazioni attuate
dal soggetto, collaborazione con autorità, condizioni economiche.
 non opera il principio del favor rei
 non opera il principio della successione delle leggi penali
 vale il principio ‘’tempus regit actum’’ perché la sanzione è individuata sulla base della legge
vigente al momento della commissione dell’illecito anche se più sfavorevole, in questo modo, per il
trasgressore dal momento che c’è la possibilità di un peggioramento per quanto riguarda la
comminazione della sanzione.
Mentre nel sistema penale vige il principio di irretroattività in base al quale si fa divieto di applicare
la legge penale a fatti commessi prima della sua entrata in vigore in quanto non può essere punito
colui che ha commesso un fatto non considerato reato all’atto del suo compimento.

*Primi cinque articoli della L 689/1981:


o art.1 principio legalità: “nessuno può essere assoggettato a sanzione amministrative se non in forza
di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che
prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in essi considerati”
o art.2 capacità di intender e di volere: bisogna accertare anche l’illecito psicologico dell’illecito
amministrativo. “Non può essere assoggettato a sanzione amministrativa chi, al momento in cui ha
commesso il fatto, non aveva compiuto i diciotto anni o non aveva, in base ai criteri indicati nel
Codice Penale, la capacità di intendere e di volere, salvo che lo stato di incapacità non derivi da sua
colpa o sia stato da lui preordinato. Fuori dei casi previsti dall'ultima parte del precedente comma,
della violazione risponde chi era tenuto alla sorveglianza dell'incapace, salvo che provi di non aver
potuto impedire il fatto”.
o art.3 elemento soggettivo dell’illecito: “Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione
amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria,
sia essa dolosa o colposa. Nel caso in cui la violazione è commessa per errore sul fatto, l'agente non
è responsabile quando l'errore non è determinato da sua colpa”.
o art.4 cause di esclusione della punibilità: “Non risponde delle violazioni amministrative chi ha
commesso il fatto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima ovvero in
stato di necessità o di legittima difesa. Se la violazione è commessa per ordine dell'autorità, della
stessa risponde il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine”
o Art.5 concorso di persone nell’illecito: “Quando più persone concorrono in una violazione
amministrativa, ciascuna di esse soggiace alla sanzione per questa disposta, salvo che sia
diversamente stabilito dalla legge”

Anzi, l’esperienza italiana, in realtà, non ha fatto altro che apportare ulteriori difficoltà di persecuzione e
recupero delle somme da versare da parte della PA chiamata ad assolvere queste funzioni: si vanno, così,
ad ingolfare gli stessi organi amministrativi dal momento che si è tentato di risolvere il problema
spostandolo altrove ma non prevedendo certo una sua concreta risoluzione.

La vera depenalizzazione è avvenuta in Germania nel 1975.


Logica alla base è stata la tutela della società e la riduzione dell’ambito di applicazione della pena
detentiva, a seguito dell’esperienza della sospensione condizionale della pena (sanzione prevista dal Codice
Penale Tedesco: quando il giudice infligge una condanna ad una pena detentiva questa può, in alcune
situazioni e nel caso di reati non particolarmente gravi qualora la pena detentiva non superi i due anni,
essere scontata in libertà condizionale. Oltre alla pena detentiva che il condannato ha ricevuto, il tribunale
stabilisce separatamente il cosiddetto “periodo di libertà vigilata” mediante una decisione ad hoc, che è
compreso tra i due e i cinque anni. La decisione di libertà vigilata definisce le condizioni che il soggetto
condannato deve soddisfare. Ad esempio, è tenuto ad informare il tribunale di un cambio di residenza, a
pagare una somma di denaro alle parti lese o alla tesoreria dello Stato, o anche ad essere assistito da un
funzionario per la libertà vigilata. Obiettivo della previsione di questo istituto è l’evitare che una persona
che abbia commesso un reato per la prima volta, eviti di accedere al carcere e vedere stravolta la propria
vita a seguito dell’ingresso nel circuito carcerario.)
La riforma del 1975 ha portato ad una sostanziale restrizione nell’uso della pena detentiva breve,
considerata anti-riabilitativa e ad un più generalizzato impiego della sanzione pecuniaria quale strumento di
politica criminale diretto alla prevenzione delle future offese. Questa tendenza ha portato a:
- Risultati soddisfacenti di prevenzione generale e speciale nei confronti della piccola e media
criminalità;
- Evitare effetti de-socializzanti della pena;
- Riconoscimento della pena pecuniaria come fondamentale pena sostitutiva, di recente
ristrutturata secondo il sistema dei tassi giornalieri.
Il procedimento si struttura in due fasi:
1. Si calcolano il numero dei tassi giornalieri (da un minimo di 5 ad un massimo di 720) in
base ad una serie di parametri: grado dell’illecito, consapevolezza del condannato;
2. La seconda fase è diretta a precisare l’ammontare del singolo tasso giornaliero in base alla
situazione economica dell’imputato al fine di rendere la sanzione perfettamente calzante
al soggetto colpevole in questione

Altra caratteristica del sistema tedesco che ci aiuta a meglio comprendere quanto quest’opera di
depenalizzazione sia stata efficace ed abbia avuto successo è l’inesistenza di pene accessorie.
È rilevante il fatto che il giudice tedesco, nel momento in cui commina la pena, ha una particolare
attenzione alla situazione specifica dell’individuo: non solo per quel che concerne la determinazione del
quantum dell’importo da versare in sostituzione della pena detentiva ma anche per quanto riguarda la
comminazione della pena stessa, se questa sia sufficiente a far comprendere il disvalore sociale del fatto e
quindi evitare che il soggetto possa commettere altri reati oppure no. Il giudice della sentenza è peraltro
anche il giudice dell’esecuzione: questo è un aspetto estremamente importante perché dà la possibilità di
monitorare, concretamente, anche d’ufficio, se quella esecuzione stia avvenendo secondo le indicazioni che
lo stesso ha fornito e se sia stata quindi efficace. Per questo motivo la Germania non ha un problema di
sovraffollamento carcerario.
Mentre, in Italia, per via del principio di legalità, il giudice non può fare altro che applicare una pena
detentiva o pecuniaria, utilizzando il disposto del 133 per poterla eventualmente configurare ma a livello
soltanto quantitativo e non anche qualitativo. Sanzioni sostitutive possono essere comminate solo
nell’ambito del procedimento di sorveglianza (678 cpp) con misure alternative alla detenzione ma si
dovrebbe precedentemente avere luogo un altro procedimento dinanzi ad un ulteriore giudice specializzato
ed un altro tipo di giurisdizione.

Ulteriori soluzioni sono state introdotte – in occasione della stesura del nuovo codice di procedura penale,
1988-89 - con l’obiettivo di accelerare l’iter processuale ma che non hanno prodotto, almeno fino ad ora, i
risultati sperati. Secondo i rilevamenti statistici le richieste di accesso ai riti differenziati da parte
dell’imputato sono al di sotto del 39%. Le ragioni dell’insuccesso possono essere svariate ma, in generale, la
via del processo in tempi rapidi non è quella preferita dalla strategia difensiva per il semplice motivo che
preferisce andare al dibattimento quando ritiene che, in questa sede, possa avere maggiori possibilità di far
valere le prove a proprio discapito. Si pensi:

c. Alla L.479/1999 con cui è stata estesa l’area di APPLICAZIONE DEL GIUDIZIO ABBREVIATO

d. L 134/2003 con cui è stata ampliata la soglia del LIMITE EDITTALE DELLA PENA PER ACCEDERE AL
PATTEGGIAMENTO
Ad ogni modo, comunque, l’istituto del patteggiamento andrebbe ripensato alla luce, anche e soprattutto,
delle scelte fatte da altri ordinamenti, specie quelli di matrice anglosassone.
Nel procedimento inglese, ad esempio, vige l’istituto del PLEA BARGAINING (accordo con l’accusato) in base
al quale lo sconto di pena viene applicato quando l’ammissione di colpevolezza da parte dell’imputato
consenta, all’Autorità Giudiziaria (e quindi allo Stato) un effettivo risparmio di tempo e di risorse a
vantaggio di una maggiore efficienza del sistema.
Si tratta di una diversa filosofia utilizzata nell’affrontare l’obiettivo processuale: il pragmatismo
caratterizzante questi sistemi fa sì che il pur nobile principio della ricerca della verità soccomba dinanzi
all’esigenza di snellimento del carico processuale con i relativi benefici in termini di tempistiche più brevi
per l’attesa – sia del reo che della vittima – e di un minore onere finanziario.
Nell’ordinamento inglese la giustizia negoziata trova espressione anche nell’istituto del GUILTY PLEA
(dichiarazione di colpevolezza da parte dell’imputato); oggetto nel negoziato possono essere:
 Riduzione della pena da parte del prosecutor – SENTENCE BARGAINING
 Derubricazione del reato contestato all’imputato – CHARGE BARGAINING
 Archiviazione di una o più imputazione contestate – COUNT BARGAINING
Il nostro istituto, invece, non implicando alcuna assunzione di responsabilità da parte dell’imputato, si
riduce ad un mero accordo sull’entità della pena tra difesa ed accusa; inoltre, esso trova, tra l’altro, un
grosso vincolo nell’applicazione in quanto è utilizzabile solo per reati con un limite della pena edittale di 2-5
anni.
Alla luce della nuova impostazione si potrebbe pensare di rimuovere tale limite in modo da allargare
l’utilizzo dell’istituto ed applicarlo nei casi di reale collaborazione da parte dell’accusato.

e. Il Pacchetto sicurezza del 2008 volto ad allargare i presupposti per l’utilizzo dei RITI IMMEDIATO E
DIRETTISSIMO.

f. AMPLIAMENTO DISPOSTO DI CUI ALL’ARTICOLO 131 bis cp esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto
Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena
pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della
condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133 primo comma, l’offesa è
di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
L’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito
per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha
profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero
quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le
lesioni gravissime di una persona. L’offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si
procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi
in occasioni o a causa di manifestazioni sportive, ovvero nei casi di cui agli articoli 336, 337 e 341bis,
quando il reato è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o
agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni e nell’ipotesi di cui all’articolo 341.

Proprio per evitare che i PM lascino migliaia di fascicoli negli armadi senza che siano stati utilizzati criteri di
scelta dichiarati, trasparenti, discutibili o discussi e dunque evitare, soprattutto in questi casi, che vi si
annidi il rischio dell’arbitrarietà – il prof Borgna propone, come soluzione, l’ampliamento del 131 bis cp:
espandendo la possibilità di decidere di non procedere, caso per caso, valutando l’offensività in concreto
del fatto.
Oggi questa decisione, affidata al giudice su richiesta del PM può essere fatta solo per reati per cui la pena
massima prevista dalla legge non superi i cinque anni. Pur essendo il contenuto della norma chiaro ed
abbastanza analitico nel prevedere quelle che sono le condizioni per poter riconoscere la non punibilità, la
sua sostanzializzazione ha dato vita a non pochi problemi ermeneutici. La giurisprudenza si è pertanto
pronunciata numerosissime volte nel corso di questi anni per poter chiarire alcune sfumature che
sfuggivano; motivo per il quale sarebbe stato più opportuno che questa norma avesse avuto natura
procedurale, così da avere una maggiore elasticità nella sua applicazione grazie all’azione della Procura di
valutazione in termini di efficacia ed efficienza.

Dunque, viene individuata come una delle possibili soluzioni all’ingolfamento del sistema processuale
l’ampliamento della portata normativa del disposto dell’articolo 131 bis cp e vengono analizzate i pro ed i
contro di ogni ipotesi fatta:
 non si potrebbe, per esempio, ragionare per blocchi di categorie di reato ma si potrebbe, però,
ragionare facendo riferimento a criteri rispondenti al buon senso e a convenienza economica (come
nel caso di furto per violenza sulle cose del signore anziano che ruba una busta di affettati al
supermarket: settantenne incensurato che ruba al supermercato una busta di affettati. In questo
caso il PM ha l’obbligo di procedere per furto aggravato dalla violenza sulle cose, punito da uno a
sei anni. Questo esempio esprime la convinzione per cui non sarebbe giusta la scelta di non
procedere per certe categorie di reati ma, nel caso in esempio, risponde più che altro a criteri di
buon senso oltre che di convenienza economica, stabilire che per la fattispecie in esame non sia il
caso di mettere in moto un processo penale lungo, costoso e con tre gradi di giudizio). Al
contempo, però, risulterebbe essere pericoloso perseguire la possibilità di archiviare fatti di questo
tipo semplicemente elevando il massimo edittale.
 Non si potrebbe neanche innalzare il limite edittale perché altrimenti lo strumento
dell’archiviazione per particolare tenuità del fatto potrebbe essere applicato anche a casi di furto
con strappo o furto di abitazione (624bis).
Una alternativa fattibile sarebbe, a detta del Procuratore, l’inserimento, nel corpo dell’attuale articolo
131bis, di un comma che preveda, per alcune specifiche fattispecie di reato, la possibilità di ritenere
l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e contenere, pertanto, l’elenco dei reati a cui
l’istituto in esame si vuole estendere.
Sarebbe, inoltre, pensabile di individuare dei criteri orientativi di massima entro cui esercitare, di volta in
volta, la discrezionalità affidata al magistrato per la valutazione della particolare tenuità.
Addirittura, Borgna sarebbe favorevole al fatto che suddetti criteri orientativi siano, anno per anno,
annunciati dalle Procure e discussi nei consigli giudiziarie e con le altre Istruzioni, soprattutto con quelle
espressione del principio di sovranità popolare (Consigli regionali) ben conscio che questo argomento fa
arricciare il naso a molti magistrati dal momento che l’ipotetico ed eventuale confronto con una Istituzione
politica può essere interpretato come il primo passo verso una diminuzione dell’indipendenza della
Magistratura stessa.

g. È poi da considerare l’art.129 cpp rubricato <<Obbligo della immediata declaratoria di


determinate cause di non punibilità>>.
In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l'imputato non
lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il
reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza [68, 69, 70,
444, 459].
Quando ricorre una causa di estinzione del reato [531; 150 ss. c.p.] ma dagli atti risulta evidente che il fatto
non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla
legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione [530] o di non luogo a procedere [425, 469,
529, 531] con la formula prescritta(1).

La norma risponde alla duplice funzione di rendere effettivo il principio di semplificazione massima nello
svolgimento del processo e di tutelare l’innocenza dell’imputato.
In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l’imputato non
lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il
reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza.
Quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che
l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato,
il giudice pronuncia sentenza di assoluzione (530) o di non luogo a procedere con la formula prescritta.
Dunque, nel nostro sistema – a differenza, per esempio, di quello francese in cui il procedimento di
archiviazione non è giurisdizionalizzato – è prevista la figura del giudice che si pronuncia sulla richiesta di
archiviazione perché è necessario che ci sia un vaglio giurisdizionale che tenga conto delle varie ragioni che
portano all’adizione del procedimento suddetto.

Altri Paesi offrono esempi di una maggiore articolazione dei livelli giurisdizionali di primo grado e di un
preciso obiettivo che è quello di ridurre, per quanto possibile, il passaggio alla fase dibattimentale.
Ciò consente di percorrere, ove possibile, la via del processo più snello grazie ad un’opportuna modulazione
delle garanzie processuali.
Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale in senso rigido è, ad oggi, presente solo in Italia.
Le esperienze comparate dimostrano, infatti, una sempre maggiore tendenza dei sistemi processuali a
convergere verso forme intermedie tra sistemi ispirati all’obbligatorietà dell’azione penale o, al contrario,
caratterizzati dalla facoltatività o opportunità dell’azione penale.

L’Inghilterra, in particolare, prevede che, qualora l’imputato ammetta la propria responsabilità, dal
processo sia esclusa l’istruzione probatoria, la cui necessità viene meno quando il caso, seppur grave, di
semplice soluzione. Ciò consente una serie di semplificazioni: dalle notifiche ai testimoni alla loro
escussione; inoltre, anche per i reati più gravi, a giudicare deve essere sempre un tribunale monocratico
allorquando, essendo il caso divenuto di semplice soluzione, è venuta meno l’esigenza della collegialità
dell’organo giudicante.
Esiste un solo ufficio del PM meglio noto come Director of Public Prosecution il quale dirige e coordina la
pubblica accusa che, nella maggior parte dei casi, deve essere preceduta dall’accusa privata (che include
anche quella dell’ufficiale di polizia che ha accertato il reato). L’azione penale risulta essere una facoltà,
difatti il Director of Public Prosecution formula l’imputazione solo allorquando:
 sussista un interesse pubblico alla prosecuzione
 vi sia la consistenza degli elementi probatori, tale da fondare una realistic prospect of convinction.
In Inghilterra la vittima può esercitare l’azione penale mediante citazione diretta davanti agli organi
giurisdizionali a mezzo del deposito di un atto scritto presso il giudice o esponendogli il caso oralmente.

Peraltro, il crown prosecution service – equivalente alla nostra Procura generale della Repubblica presso la
Corte di Cassazione – in qualche modo, come espressione del potere esecutivo del Ministero della giustizia,
prevede che, per legge, venga annualmente stilato un elenco di priorità di notizie di reato che devono
essere perseguite. Si veda dunque come in un sistema molto più elastico e pragmatico il problema della
precedenza di determinati fatti viene superato con l’individuazione precisa di quelle che sono le priorità;
mentre, in un sistema come il nostro, dove vige un eccessivo formalismo, legato al necessario rispetto di un
principio che è inattuabile ma non può comunque essere espunto dall’ordinamento, viene in qualche modo
tamponata da una previsione legislativa che prende spunto da una prassi che è stata adottata dalle singole
procure.

Negli Stati Uniti d’America, invece, la decisione di esercitare l’azione penale è affidata al prosecutor, una
carica fortemente politicizzata, in quanto il suo reclutamento avviene mediante nomina presidenziale e
previa ratifica del Senato. Non è soggetto a limitazioni in proposito, se non quelle derivanti dal principio di
uguaglianza
I Procuratori distrettuali formano e rendono pubbliche le cosiddette guidelines (dalle quali prendono
ispirazione i nostri “criteri di priorità”) in base alle esigenze specifiche del distretto di competenza.
Si tratta di vere e proprie scelte di politica criminale: esse, infatti, spesso, fanno parte del programma
politico degli aspiranti district attorneys. Del resto, il sistema di selezione dei procuratori distrettuali,
adottato dalla maggior parte degli Stati americani, consiste in un sistema di elezione politica diretta. La
scelta avviene fra giovani laureati in legge che colgono, nel periodo trascorso negli uffici della procura
distrettuale, occasione di addestramento professionale e di inserimento nell’ambiente giudiziario e forense.
Tale assetto dà piena legittimazione all’esercizio, da parte dei prosecutors, di una discrezionalità non
meramente tecnica ma politica, anche nell’esercizio dell’azione penale: si tratta, infatti, di un corpo che
risponderà politicamente del proprio operato.

D’altra parte, facendo un esempio più vicino al nostro Paese, non solo geograficamente ma, altresì, per
tradizione giuridica, anche la Francia si discosta non di poco dal sistema italiano: i pubblici ministeri
vengono sì selezionati, al pari dei giudici, con un sistema meritocratico basato prevalentemente su concorsi
pubblici; tuttavia, diversamente dall’Italia, il corpo della magistratura inquirente è riconducibile ad una
struttura gerarchica che fa capo al Ministro della Giustizia. Anche in tale contesto, ove la discrezionalità e
l’assoluta indipendenza dei pubblici ministeri è limitata dal controllo governativo, non è presente il
principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Nel gennaio del 1997, il Presidente della Repubblica Jacques Chirac demandò ad una Commissione
presidenziale il compito di verificare la possibilità di sottrarre il PM al controllo gerarchico dell’esecutivo e
quella di adottare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Nel luglio dello stesso anno, la
Commission de réflection sur la justice presentò un rapporto conclusivo in cui, in breve, si affermava
l’impossibilità oggettiva di perseguire in concreto tutti i reati: di conseguenza, un pubblico ministero
pienamente indipendente sarebbe stato chiamato a fare delle inevitabili scelte di politica criminale, come lo
sono, specie se prive di regolamentazione e di trasparenza, le scelte di priorità nell’esercizio dell’azione
penale. La Commissione concludeva affermando che, in un Paese democratico, fosse inammissibile che
delle politiche pubbliche, come quelle criminali, venissero definite da organi non responsabili
politicamente.

Nel sistema spagnolo, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è previsto dal codice di rito ma non
dalla Costituzione e si traduce, pertanto, in una sorta di discrezionalità a seguito della quale il PM (tale
figura non appartiene al potere giudiziaria, con la conseguenza che non sarà possibile riconoscergli le
prerogative costituzionali riconosciute a giudici e magistrati), ai sensi dell’art 124 della Costituzione
Spagnola <<è obbligato ad esercitare l’azione penale soltanto per quei procedimenti che si possano definire
procedentes>> : cioè procedimenti per i quali si è già raggiunta una certa gravità indiziaria tale da poter
esercitare l’azione penale. Non è raro, quindi, che molte notizie di reato, anche relativamente a situazioni
particolarmente allarmanti, vengano in qualche modo accantonate.
Ecco che allora in subordine e quasi in sostituzione del Ministerio Fiscal, è consentita la possibilità anche
agli accusador popular di poter promuovere un’azione penale. In Spagna vi sono, difatti, due forme
querelanti:
o Accusador particular: l’equivalente della nostra persona offesa colui che viene direttamente
interessato dall’illecito e dalle sue conseguenze.
o Accusador popular. Questa seconda è una figura più particolare: la costituzione spagnola del ’78
post regime autoritario, ha voluto riconoscere al popolo la possibilità di poter autonomamente
denunciare, non solo, ma anche di poter coltivare e promuovere un’azione penale nei confronti dei
soggetti che potevano ritenersi responsabili di reati aventi portata di interesse pubblico.

A tal riguardo sono da considerare due casi estremamente significativi: in cui enti esponenziali si sono
sostituiti al pm per promuovere appunto l’azione penale:
- il caso Botin che ha visto come protagonista il presidente del Banco Sant’Ander, una delle più
importanti banche della Spagna, accusato di riciclaggio, falsi, evasione fiscale. Nei suoi confronti il
Ministerio Fiscal aveva chiesto l’archiviazione e, nonostante ciò, è stato grazie ad una iniziativa
dell’accusador popular a consentire che lo stesso fosse processato
- il caso Noos: più recentemente, datato 2014, riguarda la vicenda di Cristina (figlia del re). Il caso si è
celebrato grazie ad una iniziativa dell’accusador popular che ha riportato, all’attenzione dei giudici,
le condotte di reato attuate dal compagno dell’infanta di Spagna: considerato responsabile di aver
messo in atto dei meccanismi per l’evasione fiscale.

Anche in Belgio vige il principio di opportunità dell’azione penale: il procuratore del Re rifacendosi alle
direttive di politica criminale, deve giudicare sull’opportunità dell’azione penale.

Nel generale contesto europeo, la vigenza del principio dell’obbligatorietà è destinata probabilmente ad
affievolirsi nel quadro del percorso di armonizzazione delle legislazioni nazionali. Nonostante le diverse
sollecitazioni del Consiglio Europeo ad adottare forme di facoltatività dell’esercizio dell’azione penale
(similmente ai sistemi di common law), in Italia si continua ad essere restii all’idea di rinunciare al principio
dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, soprattutto tenuto conto del suo elevato valore
simbolico.

Per concludere, la realizzazione della ragionevole durata dei processi, secondo le previsioni dell’

 Art. 6 CEDU: <<Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata … entro un termine
ragionevole>>
 Art 111 Costituzione
 Art. 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
è assolutamente prioritaria e centrale in tema di giustizia, soprattutto alla luce della particolare incidenza,
del processo penale, sulla sfera dei diritti fondamentali dell’uomo, come la libertà, la dignità, la tutela fisica
e morale, diritti peraltro largamente riconosciuti come assolutamente inviolabili ed indisponibili.

La garanzia della durata ragionevole del processo sancita dall'articolo 6 CEDU e dell'articolo 47 della Carta
di Nizza, è espressamente configurata in entrambi i testi in termini di diritto soggettivo individuale
immediatamente azionabile, anziché in chiave di canone oggettivo la cui attuazione affidata pur sempre alla
legge come invece prevede l'articolo 111 della Costituzione italiana.
Ognuno, in sostanza, ha diritto a che il processo in cui personalmente è coinvolto, sia definito in tempi
ragionevoli. Si tratta di un principio che assume particolare rilevanza per il processo penale, dove è in gioco
l'esigenza di evitare che l'imputato possa restare troppo a lungo sotto il peso dell'accusa.
Certamente occorre evitare che il principio della ragionevole durata si traduca in un incentivo alla giustizia
sommaria. A tal proposito si è sottolineato come le finalità di economia processuale non possono mai
giustificare il disconoscimento di un altro principio fondamentale come il diritto al contraddittorio e in
genere alle garanzie della difesa.
La ragionevolezza della durata dei procedimenti deve essere determinata alla luce delle circostanze del
caso concreto e nell’ottica di una valutazione complessiva.

Per valutare la ragionevolezza della durata, il dies a quo e il dies ad quem nell'arco di tempo da prendere in
considerazione sono rappresentati rispettivamente dalla formulazione di un'accusa e dalla decisione
conclusiva del processo penale. Per la misurazione in concreto della ragionevolezza la Corte di Strasburgo
ha scelto di non fissare dei parametri di carattere generale, riferendosi però ad altri criteri guida impiegati
congiuntamente, che attengono rispettivamente alla:

 Complessità del caso. Nell’ambito di questo primo criterio vengono in rilievo sia le situazioni di
complessità strutturale sia le difficoltà logistiche
 Comportamento dell'interessato. Attraverso questo secondo criterio, invece, si tiene conto della
responsabilità dell'imputato per il prolungamento dei tempi processuali, determinato da iniziative
meramente dilatorie. Ma anche in questo caso la Corte di Strasburgo si è comunque preoccupata di
evitare che questo parametro possa diventare un fattore di ostacolo alla utilizzazione da parte della
difesa di tutti gli strumenti disponibili per far valere le proprie ragioni, escludendo che l'accusato
debba prestare una collaborazione attiva con l'Autorità per la conduzione delle indagini e del
processo.
 Comportamento delle autorità competenti. In base a quest’ultimo parametro, lo Stato, nel suo
complesso è considerato gravato da un'obbligazione di risultato, in base alla quale sono tenuti ad
assicurare una giustizia tempestiva rendendo efficiente tutto il suo apparato, comprensivo non solo
degli organi giudiziari, ma anche dell'insieme di servizi coinvolti nella amministrazione della
giustizia.

La Corte europea dei diritti dell'uomo è orientata nel senso di ritenere il principio della ragionevole durata
commisurata al termine di 3 anni per il giudizio di primo grado, due anni per quello di appello ed un anno
per quello davanti alla Corte di Cassazione. L'esito del giudizio è considerato ininfluente ai fini del
risarcimento del danno da irragionevole durata.
È esclusa la riparazione dei casi in cui l'imputato abbia tratto vantaggio dalla lunghezza dei tempi
processuali ovvero di una riduzione della pena per conseguente estinzione per prescrizione di uno dei reati
contestatigli.
Tra i rimedi per la violazione la Corte di Strasburgo ha incluso anche un'esplicita riduzione delle entità della
pena a causa della durata eccessiva del giudizio.
Il rapporto tra giustizia e tempo evidenza un potenziale conflitto di valori che trova composizione solo nel
contemperamento tra opposte ed irrinunciabili esigenze: il massimo della conoscenza nel più breve tempo
possibile. L’insegnamento profuso dalla giurisprudenza di Strasburgo rammenta che ciascuno Stato è
tenuto a predisporre la propria organizzazione processuale in modo tale da consentire lo svolgimento del
giudizio in tempi ragionevoli, nello spazio di durata necessario ad accertare la fondatezza del diritto vantato
o dell’accusa mossa contro il singolo. L’obiettivo non è quello di una giustizia sommaria ma semplicemente
tempestiva, posto che l’art 6 CEDU non impone, sic et simpliciter, che i procedimenti giudiziari siano spediti
ma implica anche il più generale principio della corretta amministrazione della giustizia. Occorre, dunque,
sempre effettuare un equo bilanciamento tra i vari aspetti di tale fondamentale diritto.

In Italia, per contenere la durata dei processi entro limiti fisiologici imposti dalla Convenzione è stata
promulgata la Legge 89/2001 – c.d. Legge Pinto – che ha previsto, in realtà, solo misure indennitarie e non
anche acceleratorie della procedura. Si è rivelata, così, assolutamente inidonea ad eliminare le
conseguenze delle già contestate violazioni ed a prevenirne altre; tale legge aggrava altresì notevolmente il
già pesante carico di lavoro delle Corti d’appello e della Corte di Cassazione competenti a pronunciarsi sui
relativi ricorsi ed introduce una professionalità collaterale che incide fortemente sull’effettivo costo
economico dell’indennizzo totale.

Insomma, la grave crisi in cui versa la giustizia italiana non dipende dall’attuale assetto organizzativo della
magistratura così come voluto dalla Carta Costituzionale datata 1948 bensì, secondo l’unanime parere degli
esperti, dalla cronica carenza di riforme strutturale, sostanziali e processuali volte a coniugare celerità,
efficienza e garantismo.

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