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SUL BOLERO DI RAVEL,

CRONACA DI COMPLESSA SEMPLICITÀ

di Marco Buccolo
CHI TROPPO CHI NIENTE

Su alcune composizioni si esige che l’analisi spieghi,

approfondisca, trovi significati nuovi, o almeno non percepibili ad un

semplice ascolto. Su altre composizioni l’analisi non è nemmeno

ricercata, perché si crede che sia un’operazione inutile, o scontata,

assolutamente sovrabbondante rispetto all’essenzialità e alla

semplicità dell’opera presa in considerazione. Probabilmente la

situazione del Bolero di Maurice Ravel è di questo secondo tipo: un

brano noto - forse fin troppo - di struttura ossessivamente ripetitiva

nel ritmo e nella melodia che il grande pubblico crede di fischiettare

correttamente, di timbrica costruita secondo sovrapposizioni crescenti,

dove la curiosità dell’ascoltatore sembra più che altro portata a

individuare con lo sguardo lo strumento che viene via via ad

aggiungersi agli altri già interpellati. Di sicuro la celebrità e la

chiarezza del risultato sonoro non sembrano dare spazio a ulteriori

parole. La stessa discografia, quando si tratta del Bolero, tralascia

ogni contorno per dedicarsi ad altri soggetti ritenuti più impegnativi

per un vasto pubblico.

Anche Maurice Ravel si nascondeva dietro un velo di

semplicismo: piccola cosa, diceva del Bolero, più che altro un

esercizio di orchestrazione. Insomma, neppure l’Autore si portava sul

terreno dell’analisi. Ma per lui questa era un’abitudine. Per le “note di

copertina”, invece, è visibilmente un’eccezione.

In effetti, la scrittura del Bolero è fortemente disarmante. Le

caratteristiche di base sono facilmente riassumibili, andando da un

livello percettivo più generico ad uno più particolare: ostinato ritmico,

ripetizione ciclica della melodia, sovrapposizione progressiva del

totale sinfonico, tonalità fissa e determinata di do maggiore, scansione

accentuativa regolare, nessuna sorpresa durante il percorso se non la

modulazione conclusiva strappa applauso. Un meccanismo sonoro

che non lascia proprio nulla da dire. Ottimo nascondiglio, Maurice.

-2-
MAURICE HAS JUST LEFT THE BUILDING

Per di più, forse Ravel sottolineava la semplicità di questa

composizione anche a causa dell’occasione che l’aveva prodotta. Si

trattò in effetti di una specie di emergenza. Ida Rubinstein aveva

commissionato a Ravel l’orchestrazione di Iberia di Albeniz, e questo

impegno era stato assunto con piacere. Durante un viaggio in Spagna,

però, Ravel venne informato che i diritti per l’orchestrazione delle

opere di Albeniz erano già stati ceduti a Enrique Arbos. Un nuovo

incontro con Ida Rubinstein, dopo un ritorno veloce a Parigi, fu

occasione di accordarsi per una composizione originale, che venne

completata nell’ottobre del 1928 durante un soggiorno a Saint-Jean-

de-Luz.

Il Bolero fu eseguito comunque il 20 novembre del 1928

all’Opéra, insieme a La Valse. «E’ una danza in tempo moderatissimo

- scrive Ravel - e costantemente uniforme, tanto nella melodia che

nell’armonia e nel ritmo, quest’ultimo scandito senza tregua dal

tamburo. Il solo elemento di diversità è fornito dal crescendo

orchestrale». Il progetto dell’orchestrazione di Albeniz si era spostato

su una composizione originale, mantenendo intatta l’intesa di fondo: è

il suono, è la timbrica a essere protagonista. «Una volta trovata l’idea

- aggiungeva - qualsiasi allievo di conservatorio doveva, almeno fino

alla modulazione, riuscire come me».

Si sta avvicinando, nella biografia di Ravel, il periodo di

rallentamento dell’attività compositiva. Dopo il 1928 (che vide oltre

alla première del Bolero anche il conferimento della Laurea Honoris

Causa dall’Università di Oxford e il trasferimento a Levallois presso

il fratello) vedranno luce il Concerto in re per la mano sinistra (27

novembre 1931) e il Concerto in sol per pianoforte e orchestra (14

gennaio 1932). Nel 1933 comincerà a manifestarsi l’apraxia, una

malattia di origine cerebrale che limiterà Ravel nei movimenti, pur

-3-
senza togliergli la lucidità mentale. Ida Rubinstein gli offrirà nel ’35

un viaggio in Spagna e Marocco, in compagnia dell’amico pittore

Léon Leyritz, ma questo non porterà alcun giovamento: il male si

aggraverà fino a render necessario in intervento chirurgico, nel ’37,

che lo porterà alla morte, il 28 dicembre, a 62 anni.

IL RIT(M)O DEL BOLERO. PARTE PRIMA: RITMO.

La natura ritmica del Bolero ha di fisso solo l’aspetto ternario.

Quella che Ravel adotta come terzina di semicrome, all’interno di una

regolare scansione di ottavi, è una delle possibilità che il Bolero offre

nell’arco della sua tradizione. Nel tempo, infatti, questo ritmo ha tanto

visto la presenza della terzina di semicrome come della quartina di

biscrome. Allo stesso modo, questi gruppi sono solitamente collocati

sul tempo della seconda croma, mentre Ravel sceglie di ripetere il

modulo “terzina” sul tempo, sì, della seconda croma, ma anche della

quarta. Queste varianti non sembrano apportare né sottrarre al Bolero

nessuna delle sue qualità specifiche. Mantenendo fissa la globale

ternarietà della battuta, ciò che resta caratteristico è una sorta di colpo

di frusta, di vibrazione ritmica sul tempo debole, che viene ad

interrompere la regolarità della suddivisione dei quarti. Il fatto che

questa “vibrazione” sia quartina o terzina, in fondo, passa inosservato.

Come è irrilevante, in fondo, la scelta di ripetere il modulo in altra

sede.

Potrebbe sembrare solo una questione di gusto della varietà, di

volontà di spezzare ad ogni costo la “monotonia interna” del ritmo. E’

possibile comunque riscontrare, all’interno della struttura adottata da

Ravel, un gioco di simmetrie e asimmetrie. Possiamo mettere in

evidenza questo fattore attraverso un duplice modello si

scomposizione.

-4-
a) Scomposizione per quarti (seminiminime)

Se noi consideriamo come A, come B, e

come C, la frase ritmica composta da due battute di ¾

ciascuna appare strutturata secondo uno schema AAB, AAC.

A A B A A C

Si tratta quindi di una scansione lineare, continua, dove la

volontà di non interruzione viene offerta dal “levare interno”

che prepara (ed enfatizza) gli accenti principali del ¾. La

cellula C, elevando al quadrato questo “levare”, rende maggiormente

l’idea di una ripetizione ciclica della struttura ritmica, anticipando già

il principio di costruzione - dal punto di vista del ritmo - dell’intera

composizione. Già fin d’ora è bene sottolineare come B e C,

sostituibili (e sostituiti) nella terza posizione delle battute, siano la

sintesi dei due elementi strutturali fondamentali: la “binarietà” (B) e la

“ternarietà” (C)

b) Scomposizione per cellule

Se noi consideriamo invece come A e come B,

riducendo quindi l’analisi agli elementi fondamentali della scansione,

avremo questo risultato:

A B A B A A A B A B B B A

In particolare, si metteranno in rilievo queste sottostrutture:

-5-
B (a) B
A B (a) B A

A A A B B B
A A A (b a) B B B
B A A A (b a) B B B A

Ovviamente, siamo andati alla ricerca di centri unificatori, di

parallelismi, di strutture simmetriche. A questo scopo, tra parentesi

sono state indicate le “note perno” individuate all’interno della frase.

E’ facile notare quindi alcuni fattori comuni a tutte le strutture

elencate sopra. Innanzitutto il centro di una struttura simmetrica non

cade mai su un tempo forte della battuta. Le simmetrie vengono

costruite servendosi tanto dell’ “uguaglianza” che della “diversità”.

Per spiegarci meglio: la prima sottostruttura è costruita secondo una

simmetria di elementi A e B alternati attorno ad un perno costituito da

una nota sola. La seconda sottostruttura, appoggiandosi ad un perno

costituito da due elementi ritmici diversi si basa non sulle figure, ma

sulle quantità. Per questo, la simmetria non viene più costruita

semplicemente dalle posizioni di A o di B, piuttosto da “gruppi di

tre”, cioè gruppi ternari interni alla frase ritmica. E’ chiaro che anche

questa seconda situazione si colloca al di fuori degli accenti principali

del ¾. Non è da sottovalutare questo fatto, proprio perché la stessa

orchestrazione farà leva sui tempi deboli, da un lato per spezzare la

monotonia del ritmo di Bolero, dall’altra anche per consapevolezza

che Bolero è una composizione destinata alla danza, con una

necessità, quindi, di alleggerimento anche quando la scansione ritmica

può assumere aspetti particolarmente squadrati e pesanti. A questo

proposito può essere importante notare il ruolo dei pizzicati di archi e

dell’arpa, quando si sovrappongono al ritmo del tamburo: non viene

sottolineato il primo accento della battuta, quanto il secondo e il terzo.

E’ il primo segno, probabilmente, della liberazione del ¾ dal suo

-6-
consueto andamento del “primo accento” forte, che fa molto valzer.

Un poco invasante “un zà zà”.

Ma c’è dell’altro...

IL RIT(M)O DEL BOLERO. PARTE SECONDA: RITO.

Più di altre strutture accentuative, quella del Bolero contiene al

suo interno un meccanismo rituale. La velocità della scansione non è

molto alta, in partitura viene segnato un metronomo di 72 alla

semiminima, e non sembra aspirare a una particolare enfasi retorica, o

almeno solenne. Piuttosto la ripetizione, per lo spazio complessivo di

344 battute, assume una connotazione a metà tra rito e ipnosi. Non c’è

accelerazione, durante il brano, eppure il carico strumentale fa sentire

progressivamente un senso di invasamento, o almeno di progressivo

coinvolgimento della persona durante l’ascolto. Qualcosa di simile

successe alla première del Bolero, quando una signora si mise a

gridare contro Ravel che era un pazzo. Ravel le diede ragione.

L’ascolto non sfugge, resta inchiodato, anche se la volontà (o il

gusto personale) crea delle resistenze, o addirittura - come nel caso

della signora - forti opposizioni. Sembra importante, tuttavia,

sottolineare il minore contributo della melodia a questa

concentrazione, o invasamento che dir si voglia. Il tema va avanti da

sé, non ci riserva nessuna sorpresa, e diciassette ripetizioni sono

abbastanza per rendercene conto. Come nel caso degli incantatori di

serpenti di indiana memoria, non è il suono del flauto a tenere a

costringere i cobra all’ “obbedienza”. Sono i movimenti del flauto, i

gesti del suonatore. E anche nel caso del Bolero, è il ritmo a tenere

vigile l’ascolto. E’ il ritmo ad obbligare l’ascoltatore ad un’attenzione

che non è semplicemente analitica: Bolero è respiro, è battito

cardiaco, tende ad una sintonia profonda con il ritmo biologico. La

danza lo veste di gestualità, lo rende comunicazione esplicita, visuale,

e anche implicita, cioè rituale. In questo senso Bolero è ipnotico. La

-7-
scelta di Ravel, di comporre su elementi così minimi, essenziali,

primordiali, porta immediatamente la sensazione di ascolto ad un

campo che sfugge alla reazione cosciente, non diversamente da

situazioni in cui vengono adottati altri ritmi con la stessa funzione, ad

esempio durante le cerimonie sacre tribali o, venendo più vicino a noi,

attraverso il reggae.

Le sottosuddivisioni del ritmo del Bolero che sono state

evidenziate precedentemente hanno proprio la funzione di andare a

colpire la profondità dell’ascoltatore scalzando poco per volta i criteri

accentuativi regolari secondo i quali è costruita la percezione ritmica

dell’orecchio occidentale. Come dice Marius Schneider: «Il ritmo

musicale non è un fenomeno puramente intellettuale, bensì una forza

psicofisica che trasforma i movimenti corporali in esperienza psichica

e, viceversa, fornisce un contrappeso corporale alla sensibilità

spirituale. L’uomo stesso è oggetto del proprio ascolto. Ma ciò che

conta è il modo con cui ascolta: se cioè si lascia afferrare da ciò che

ascolta, oppure se si lascia soltanto sfiorare da esso. L’ostacolo più

grave all’influenza del ritmo è frapposto dalla nostra mente troppo

analitica, a cui va imputata la definizione, inadeguata e addirittura

falsa, secondo cui il ritmo è la “divisione aritmetica del tempo”1.

L’asimmetria, quindi resta l’unica soluzione possibile: l’uomo già

fisicamente, e anche anatomicamente, è asimmetrico o parzialmente

asimmetrico. La stessa realtà si rivela importante anche nel respiro e

nel senso ritmico delle persone: «Chi canta con rigida simmetria si

stanca. Chi invece respira liberamente, seguendo una certa

asimmetria o elasticità, cantando si sente sollevato»2. E’ un discorso

chiaro, quello che fa Schneider, anche se non ha origine dal Bolero di

Ravel. E infatti, su queste parole autorevoli, resta un dubbio. Se Ravel

avesse voluto ritornare all’asimmetria primordiale, non sarebbe stato

1
Marius Schneider, Il significato della musica, Rusconi,
Milano 19791, pag.147.
2
M.Schneider, cit., pag.148.

-8-
sufficiente assumere un figura ritmica irregolare, ad esempio una

misura di 5, o una misura mista di 4 + 3 ? Insomma: come si concilia

questa ricerca dall’asimmetria con la ripetizione ossessiva delle due

battute che per di più. Basandosi sul ¾, sono quanto di più

pedantemente regolare si poteva scegliere ? «Girare - continua

Schneider - significa ritornare su se stessi, ripetersi. Anche questa è

una caratteristica tipica della nostra vita. Ed ecco che scopriamo un

altro aspetto caratteristico del ritmo, eccellentemente definito da

Klages3: il ritmo è la ripetizione dell’analogo, in quanto ogni giorno

non si ripete con precisione la stessa cosa, ma ritorna ciò che è

fondamentale con forme sempre nuove». Grazie, dottor Schneider.

LA MELODIA

Il primo particolare che emerge quasi a sbalzo sulla melodia,

anch’essa ripetitiva, è la forte bipartizione. Individuiamo già dal

primo ascolto un’area chiara, affermativa: il tema. Per contrasto,

percepiamo un controtema più inquieto, leggermente disassato dalla

tonalità così marcata ed indiscutibilmente maggiore del tema, che si

conclude anch’esso sulla tonica, ma lascia all’ascoltatore una sorta di

retrogusto amaro. Tema e controtema hanno comunque tre

caratteristiche strutturali comuni: sono entrambi di sedici battute,

come abbiamo già detto iniziano e terminano sulla tonica, all’ottava

battuta si fermano entrambi a meditare sulla dominante.

Si diceva, diciassette ripetizioni identiche, più una variata sulla

traccia della prima, sono sufficienti a lasciare l’impronta anche in una

memoria debole. Se il ritmo, come abbiamo notato, è essenziale nella

sua struttura e nella sua conduzione, anche il tema è concepito come

una ornamentazione ciclica, che si serve in particolare della formula

retorica dell’anadiplosi (A), del chiasmo (B), dell’allitterazione (C).

3
Si tratta di Ludwig Klages, essendo citato da Schneider nelle
pagine precedenti. Tuttavia non viene data nel testo né una nota

-9-
(TEMA)

[_____________B______________] [__________________B..

...B_________________] [____B_____]

[__________________A________________]

[__A__]...............................................[__A__]........... [__A__]

[_____________5/4_____________][_____2/4_____][______________5/4____________]

La semplicità apparente di questo tema viene smascherata da

un’attenzione più particolare alla disposizione degli accenti metrici, e

alla ripetizione di alcuni frammenti melodici. L’anadiplosi è la figura

che ci offre maggiori possibilità di analisi in questo senso. Nell’ultima

riga riportata sopra, la formula ritmico melodica contrassegnata con A

viene ripetuta per tre volte con tre posizioni diverse, la prima sul

primo tempo della battuta, la seconda sul terzo tempo, la terza sul

secondo tempo. “Abbattendo” le stanghette e affidando un accento

forte a ciascuna di queste tre cellule ci troviamo di fronte a una battuta

di 5/4, a una di 2/4, a un’altra di 5/4. Ancora una volta il ¾ è un buon

nascondiglio...

(CONTROTEMA)

> >. >

_______________C______________

bibliografica di riferimento, né si può desumere altra notizia su questo


studioso.

-10-
(continua)

Il controtema aggiunge una nuova figura retorica, l’aposiopesi

o reticenza (C), funzionale ad esprimere il tono di dubbio a cui si

faceva riferimento prima. L’insistenza del re bemolle, così marcata

all’inizio, e poi così restìa a sciogliersi in duina, terzina e quartina

discendente è a tutti gli effetti un grosso punto interrogativo da cui è

difficile liberarsi.

Nelle prime battute del controtema, l’idea di spostamento degli

accenti all’interno di un’anadiplosi (anche se in questo caso meno

evidente) viene raccolta dal tema appena concluso. Le tre semiminime

contrassegnate con “>” sono esattamente nella posizione delle cellule

fatte notare in precedenza.

Il carattere interrogativo del controtema viene così a

configurarsi come qualcosa di molto serio. Non si tratta

semplicemente di un rapporto “classico” come quello di antecedente o

conseguente, di tonica o di dominante, di maggiore o di minore.

All’interno di un contesto armonicamente maggiore, il controtema è la

voce di chi si interroga sulle possibilità di conciliazione tra elementi

contrastanti. Abbiamo già notato come Ravel insista a sollecitare un

rapporto dialettico tra elementi tra loro estranei. Quello che prima

avveniva sul ritmo, ora avviene anche sulla melodia. La certezza della

musica di tutti il periodo classico (la tonalità e il rapporto tra le

tonalità) non è più un assoluto.

-11-
Sia nel tema che nel controtema è comunque ben visibile il

principio di ornamentazione. Sono frequenti le ribattute e i ritorni su

note “forti”, ed è chiaro il carattere di contorno che assumono certi

gruppetti di semicrome con funzioni di appoggio, di passaggio o

comunque, di accessorio melodico.

IL RITMO E LA MELODIA: TRE CONTRO DUE, DUE CONTRO TRE

Pur all’interno di un sistema così semplice, dove gli elementi

costitutivi non sembrano portar problemi così grandi nella costruzione

di un tessuto musicale riconoscibile e coerente, vengono a formarsi

alcune situazioni che complicano il risultato. Il senso di binario e

ternario viene minacciato da una sovrapposizione di frammenti di

diversa natura:

Qualche volta alla sovrapposizione si preferisce

l’accostamento, come nel caso di

Il discorso tende ad un’ulteriore complicazione quando

guardiamo il controtema, nel già ricordato passo del re bemolle.

L’utilizzo della sincope conferisce a questa parte un senso di

instabilità ritmica ed accentuativa che va ben oltre il semplice gioco di

contrasto tra “due” e “tre”:

-12-
Ciò che ritmo e melodia fornivano singolarmente, ora viene

sistemato secondo una logica di stratificazione. Il risultato che si

ottiene è un allontanamento progressivo dalla scansione regolare del

tempo. Quello che poteva sembrare un modo omogeneo e fin troppo

semplicistico di condurre una composizione per balletto assume le

connotazioni di una varietà nascosta, da cercare con l’analisi, che di

semplicistico ha ben poco. A meno che non si descriva, con le parole

dello Schneider, quella sintesi realizzata tra lo scorrere (ir)regolare del

tempo e l’ (a)simmetria dei fenomeni naturali. Il che vorrebbe dire, in

poche parole, fare esperienza finalmente di una musica che non è

fuori dall’uomo, ma è nell’uomo, fisiologicamente e

psicologicamente.

-13-
LA MELODIA AGLI STRUMENTI: L’ORCHESTRAZIONE

Ravel parlava del Bolero come di un «crescendo orchestrale».

Tutto qua. A dire il vero, l’impressione di crescendo non è causata da

una progressiva agglomerazione di timbri strumentali. Uno sguardo

alla struttura generale è utile per notare come l’attribuzione del tema a

diversi strumenti produca dei crescendo, ma anche dei diminuendo.

MELODIA RITMO
[1] flauto (Tema)
clarinetto (T)
[2] fagotto (ControTema) flauto

[3] clar. piccolo (CT) flauto

[4] oboe d’amore (T) fagotto

[5] flauto + tromba (T) corno

[6] sax tenore (CT) tromba

[7] sax sopranino (CT) tromba


cambia con soprano a 143
[8] ottavini + corni + celeste (T) flauto + corno

[9] oboe, oboe d’amore, corno inglese, clar. e trombe +corno


clar.basso (T)
[10] trombone (CT) flauto + corno +
viole
[11] flauto, ottavino, oboe, corno inglese, clar. corno + tromba + 2i
e cl.basso, sax tenore (CT) violini
[12] flauto, ottavino, oboe, clar. e 1i violini (T) corni

[13] flauto, ottavino, oboe, corno inglese, corni


clarinetto, sax tenore, 1i violini all’8a (T)
[14] flauto, ottavino, oboe, corno inglese, corni
tromba, 1i e 2i violini (CT)
[15] flauto, ottavino, oboe, corno ing., clar., 2 corni a 4
trombe, sax soprano, 1i e 2i violini, viole,
violoncelli (CT)
[16] flauto, ottavino, 4 trombe, sax soprano e oboe, clarinetto,
tenore, 1i violini divisi (T) corni 2i violini,
viole, v.celli
[17] flauto, ottavino, 4 trombe, trombone, sax oboe, clar., clar.
soprano e tenore, 1i violini divisi (CT) basso, corni, 2i v.ni,
v.le, v.celli
[18] flauto, ottavino, 4 trombe, sax soprano e oboe, clar., corni, 2i
ten. 1i violini v.ni, v.le, v.celli

Se quindi nella prima parte troviamo una scrittura cameristica,

basata sui solisti, soltanto all’attacco [8] troviamo delle

-14-
sovrapposizioni timbriche, e all’attacco [10] assistiamo addirittura ad

una nuova riduzione della strumentazione utilizzata, con l’utilizzo del

trombone solo. Questo passo è notoriamente additato da Alfredo

Casella come un segno dell’evoluzione degli ottoni, e in particolare

del trombone. In questo caso, secondo Casella, si sentirebbe la forte

influenza del jazz sulla musica sinfonica, al punto che si parla di

queste battute come “Tipo di solo jazzistico”4.

Il metodo che alterna nei diversi strumenti la funzione di

solista o di parte ritmica segue solitamente un meccanismo di ricerca

del timbro nuovo. La prima apparizione di uno strumento avviene

generalmente in corrispondenza alla citazione del tema. Solo quando

la funzione tematica viene esaurita, lo strumento passa dalla parte del

ritmo, e lo sottolinea seguendo la nota scansione del tamburo. La

presenza di coppie di strumenti viene così a essere, inizialmente,

utilizzata per le sostituzioni, cosicché è possibile lasciare agli

strumentisti la possibilità di riposo dopo aver scandito una nota fissa.

Unica eccezione a questo proposito è rappresentata dai quattro corni.

La loro presenza viene finalizzata ad un ispessimento progressivo

della struttura timbrica. Come è noto, i corni vengono utilizzati come

legame timbrico tra legni e ottoni. Ravel sceglie di utilizzarli anche

per timbrare il tamburo, che assume risonanze più indirizzate al grave,

utili a preparare un terreno favorevole all’ingresso di nuove

stratificazioni sonore.

Non è corretto, quindi, parlare di un crescendo del volume, o

della ricchezza timbrica. Ciò che cresce è estraneo al ritmo, alla

melodia, e anche al timbro. L’orchestrazione è solo un pretesto. Il

ritmo, lo abbiamo notato, è una costante ipnotica. La melodia è un

4
Alfredo Casella, La tecnica dell’orchestra contemporanea,
Ricordi, Milano 1950, pag.98. Al di là di ogni possibile commento,
credo che il jazz sia da lasciar stare. Che il trombone si sia sviluppato
al punto da assumere un ruolo solistico, può ancora essere accettabile.
Che il jazz sia implicato nel Bolero mi sembra meno plausibile,
soprattutto pensando ai trombonisti che suonavano all’inizio degli
anni ’30.

-15-
legante. Tutti insieme sono solo dei mezzi. Il fine autentico del Bolero

è un decollo progressivo della tensione musicale, qualcosa che non

insiste quindi sulla quantità, ma sulla qualità timbrica, al punto che un

trombone solo, dopo un tema esposto da oboe, oboe d’amore, corno

inglese, clarinetto e clarinetto basso non dà sensazione di diminuendo,

ma viene inserito senza problemi nella continuità del progressivo

sviluppo strumentale. Portare al parossismo l’utilizzo della

strumentazione sinfonica non ha di per sé nessun interesse dal punto

di vista dell’ascoltatore. Potrebbe essere, al massimo, un esperimento

applicabile in qualche brano da “spettacolo orchestrale” (alla

Ketèlbey, per intenderci...). Ravel ha a che fare con un balletto. E ha a

che fare con un pubblico. Questi due elementi non possono essere

sottovalutati, perché in entrambe le direzioni la musica assume una

valenza emozionale, che non può restare in secondo piano.

Possiamo anche interpretare in chiave antropo-psicologica la

strumentazione, come abbiamo fatto per il ritmo? Normalmente, ci si

limita a descrivere sensazioni, a coniare sinestesie più o meno

interessanti, ma nulla di più. Su questa scia, accostare strumenti e

sentimenti umani non porterebbe contributi determinanti in sede di

analisi. Al massimo qualche esibizionismo lessicale. E allora,

cerchiamo altro.

Qualcuno ha tentato di vedere nell’orchestra sinfonica la

metafora dell’uomo totale, il modello trasformato in suono. Partendo

da una teoria secondo la quale gli strumenti non sono altro che “parti

del corpo” usate per produrre suoni (talvolta è evidente la

corrispondenza tra la struttura fisica umana e la forma degli strumenti

musicali) si cerca di individuare legami tra suoni ed emozioni. In

particolare, secondo Claudio Gregorat, un’esecuzione di orchestra

sinfonica raggiunge un risultato molto vicino alla struttura sensitiva

dell’essere umano completo: «Quando ascoltiamo complessi di soli

archi, legni oppure ottoni, sappiamo di assistere a un evento musicale

-16-
parziale, di intenzionale separazione dell’essere totale, oppure a

un’indagine artistica di approfondimento di una delle forze

dell’anima»5. Conclude, in sintesi, che il gruppo degli archi sono il

“sentire”, i legni sono il “pensare”, gli ottoni il “volere cosciente”, le

percussioni (udite, udite!) il “volere inconscio”. Questo,

probabilmente, non aggiungerà nulla di nuovo alla conoscenza del

Bolero (lo stesso Gregorat si richiama molto più frequentemente ad

altra musica, soprattutto a quella di Wagner), ma è sembrato

comunque doveroso sottolineare che anche dal punto di vista

dell’orchestrazione potrebbe essere interessante trovare una via

d’analisi in grado spiegare l’uso degli strumenti oltre il loro aspetto

tecnico.

Che il suono sia collegato ad emozioni, d’altra parte, è cosa

facile da capire. E come Ravel ha creato nel Bolero un ritmo che va al

di là di se stesso, e una melodia che poco per volta si fa dimenticare

per andare anch’essa al di là, così forse è possibile che anche

l’orchestrazione abbia in sé qualcosa di simile.

Si accettano scommesse.

DANZA, TENTATIVO DI LEGGEREZZA

Un aspetto che dobbiamo tenere in considerazione, e che la

nostra mente tende solitamente a separare, è l’elemento della danza.

Ida Rubinstein per questo aveva commissionato il Bolero, e in questa

veste fu conosciuto. L’esecuzione concertistica, complice anche la

felice possibilità riproduzione discografica, lo ha consacrato come

brano di repertorio avulso dalla coreografia, e la notorietà del brano

che lo ha lanciato tra i vertici delle vendite soprattutto nell’epoca dei

33 giri stereofonici (“un Bolero in tutte le case”) lo ha reso più

facilmente identificabile con la colonna sonora di un cartone animato

5
Claudio Gregorat, L’anima degli strumenti musicali, Centro
Scientifico Editore, Torino 1994, pag.125.

-17-
(un nuovo capitolo per la disneyana Fantasia?) che con la base di un

balletto con tanto di étoile.

Non viene dato nessun criterio per stabilire un’ambientazione.

La Spagna? Forse. Ma sono solo mosse, non c’è una caratterizzazione

così forte, come magari avveniva in modo molto più scoperto per il

sottofondo di habanera de L’Heure Espagnole.

Viste le premesse, viene da pensare che il Bolero sia stato

concepito come la danza. Un tentativo, cioè di creare musicalmente

quell’effetto primordiale che la danza ha: rito e ritmo, si diceva prima.

Ma qui bisogno aggiungere: volontà di leggerezza, affrancamento

dalle forze gravitazionali terrestri. E sul Bolero, a questo proposito, si

accende qualche luce in più. Crescendo strumentale, si diceva. Ma

allora, come inquadrare l’attacco [18], quella modulazione in mi

maggiore? Soprattutto, perché far crollare letteralmente il castello

orchestrale ancora una volta sul do finalis?

Proviamo a pensare una nuova opposizione tra “verso il basso”

e “verso l’alto”. Tutta la composizione è una linea ascendente, si è

detto, non in quantità strumentale, ma in tensione musicale. La

modulazione in mi potrebbe essere qualcosa di molto simile a un

decollo raggiunto, a un distacco da terra, dove finalmente il progetto

di affrancamento dalla gravità non è più una tensione causata da

un’opposizione, ma è il vertice del sollevamento (o invasamento che

dir si voglia). La realtà dell’uomo deve però fare i conti con una più

forte attrazione verso il basso, un ritorno al do senza diesis né

bemolle, ad una linea melodica che da battuta 339 in avanti (i famosi

glissati degli ottoni) cerca di prendere definitivamente una direzione

ascendente. E che solo nell’ultima battuta, fermato il ritmo,

disarticolando l’insieme strumentale, perdendo addirittura la terzina

sferzata sulla seconda croma della battuta, insomma perdendo le ali,

ricade su un perentorio do. Quello dell’inizio. In poche parole: tutto

da capo.

-18-
LA RISPOSTA DI LÉVI-STRAUSS

La vita ci pone di fronte a contraddizioni. E qualche volta è

difficile capire come sia possibile uscirne, o quale sia il modo per

giungere ad una conciliazione. Nella storia dell’uomo il mito ha

proprio avuto questa funzione: dare la sicurezza che le opposizioni

possono essere superate, che esistono strade di sintesi, che ci si può

districare nelle contraddizioni talvolta eccessive, o eccessivamente

dense.

E’ Claude Lévi-Strauss a riferire questi ragionamento al Bolero

di Ravel. L’ultimo capitolo del suo libro L’homme nu, che

musicalmente si intitola Finale, contiene diverse pagine sulla musica:

come conciliazione di sensibile e intelligibile, come equilibrio di

tragico e comico, come Bolero. Partendo da una citazione di Pousseur,

Lévi-Strauss conduce una riflessione molto acuta sulla composizione

che va da un estremo all’altro, e che trova nei due estremi un fattore

comune. E il Bolero viene smontato partendo da questa idea di base.

Tema e controtema non sono conciliabili, e Ravel ce lo dimostra

costruendo quella che Lévi-Strauss definisce “una fuga spianata”, una

successione, senza sovrapposizioni, di soggetto e controsoggetto.

L’altra opposizione è quella che si crea tra ritmo e metro, ma di questo

abbiamo già parlato: il metro della battuta (il ¾, per intenderci), perde

la sua fisionomia regolare quando viene a contatto con una melodia

che cerca ad ogni passo di scalzarne la natura ritmica originaria.

Ritroviamo, quindi, l’opposizione simmetria - asimmetria su cui già si

è detto nelle pagine precedenti. Anche la tonalità è di per sé

un’opposizione. Il tema, ormai lo sappiamo, è in do maggiore, ma il

controtema sembra tanto (pur senza esserlo) un fa minore, con ben

quattro bemolli di differenza. «Ammesso questo - dice Lévi-Strauss -

possiamo vedere come tutta l’opera cerchi di superare un insieme

complesso di opposizioni, che sono come incastrate le une dentro le

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altre. (...) Per conciliare questi contrasti, il compositore si rivolge di

colpo all’unica dimensione musicale non ancora compromessa nella

disputa: quella del timbro strumentale. Sollecitati dapprima come

solisti, gli strumenti si associano a due a due, quindi si combinano in

numero sempre crescente finché non appare chiaramente che ogni

soluzione sfugge quando si arriva al “tutti”, cioè quando la qualità si

trasforma in quantità e l’intero volume sonoro a disposizione non si

dimostra d’alcun aiuto»6.

Quello che Lévi-Strauss propone non è semplicemente una

cronaca di un brano musicale. E’ l’affermazione che Ravel si è buttato

alle spalle le certezze della musica occidentale e ha lavorato come se

nulla mai fosse stato scritto o ascoltato. Le caratteristiche

fondamentali del suono (altezza, intensità, timbro, e insieme a queste

l’organizzazione diacronica degli elementi, cioè il ritmo) sono state

scomposte, separate, scoperte e studiate da capo. Non c’è più forma, e

le strutture maturate dalla Storia della Musica durante il suo lungo

cammino non vengono tenute in considerazione. E’ un violento

ritorno alle origini, dove la primordialità (Lévi-Strauss direbbe “il

crudo”) viene cercata quasi con affanno. L’orchestrazione, come

Ravel la concepisce per l’ operazione Bolero, è ridotta ad un semplice

fatto di mestiere che qualsiasi allievo compositore dovrebbe saper

compiere. Quel “mestiere”, segno di sproporzione tra tecnicismo e

idee, ben evidente nei maestri del Conservatoire che l’hanno

pluribocciato al Prix de Rome, viene assunto da Ravel come punto di

partenza: limitando la propria azione al suono, e non alla forma,

ritorna all’essenza degli elementi costitutivi della musica.

Quando il pieno orchestrale avverte che non è più possibile

andare oltre, se non tornare indietro (come afferma Pousseur), l’unica

soluzione possibile è ancora quella della modulazione. E si tratta,

come già detto, di una modulazione improvvisa in mi maggiore. Con

6
Claude Lévi-Strauss, L’uomo nudo, cur. Enzo Lucarelli, il

-20-
la bellezza di quattro diesis di differenza. Quattro diesis da una parte,

quattro bemolli dall’altra, e in mezzo il bel vuoto di diesis e bemolli

del do maggiore in chiave. Anche qui troviamo delle opposizioni...

Secondo Lévi-Strauss quella del mi è la soluzione, perché il re

bemolle del controtema appartiene a fa minore (quarto grado della

tonalità di do, con il “sesto grado abbassato”) e al tempo stesso

appartiene per enarmonia (do diesis) a mi maggiore. Il re bemolle che

avevamo ascoltato finora con sospetto si rivela, all’attacco [18] il

punto di convergenza tra l’inizio e la fine dell’intero Bolero. «Allora,

come in una fuga propriamente detta, i piani sovrapposti del reale,

del simbolico e dell’immaginario si susseguono, si raggiungono e si

sovrappongono fino alla scoperta della tonalità giusta, benché per

tutta la durata del brano questa tonalità fosse rimasta allo stato di

utopia»7

E ANCHE L’ORCHESTRAZIONE SI CONCILIA...

Gli ultimi strumenti a comparire come sottolineatura del ritmo

sono grancassa, piatti e tamtam: «il primo è ritmo senza timbro, il

secondo è timbro senza ritmo, il terzo è la sintesi sonora dei due».

Lévi-Strauss ha vinto la scommessa: anche per l’orchestrazione c’era

una chiave di lettura. Così tutti i conti tornano, e - sembra - non

rimane più alcun punto oscuro.

MA RAVEL, LE AVRÀ PENSATE TUTTE QUESTE COSE ?

E’ sempre difficile dire fino a che punto un artista realizzi ciò

che pensa e pensi ciò che realizza. Dal punto di vista di chi conduce

un’analisi, far troppe concessioni alla propria fantasia interpretativa

può far dire alla musica, come a un testo qualsiasi, il classico “tutto e

il contrario di tutto”.

Saggiatore, Milano 1974, pag.627


7
Lévi-Strauss, cit., pag.629

-21-
Accidenti: ancora contrari, specularità e opposizioni. Ravel,

quando si mette, fa proprio le cose per bene. Ma il dottor Lévi-

Strauss, amante della conciliazione degli opposti, ricercatore accanito

della musica come unità di stimolo e di risposta, di esperienza e di

memoria, viene in aiuto ancora una volta. «Anche se Ravel definiva il

Bolero come un crescendo strumentale e fingeva di considerarlo

semplicemente un esercizio di orchestrazione, è chiaro che il lavoro

ha ben altri significati. Si tratti di musica, di poesia o di pittura,

l’analisi delle opere d’arte non andrebbe lontano se ci si fermasse a

quello che gli autori hanno detto o magari creduto di fare»8.

Ogni artista viene superato dalle opere che produce. Il mestiere

è artigianato. Sta nella testa e nelle mani. Ma l’Arte supera la testa e le

mani. Se ne serve, e le supera. Gli stessi artisti sovente confessano di

ignorare i passaggi che han dato vita ad un certo risultato, e che lo

rendono irripetibile, nonostante gli sforzi più sovrumani. E’ forse

questo, ciò che normalmente chiamiamo ispirazione?

Così accolgo l’idea di Lévi-Strauss. Non perché ipse dixit.

Semplicemente, sento di potermi fidare di lui.

Concludendo in questo modo, mi sento molto più tranquillo.

Alba, 20 maggio 1997

8
Lévi-Strauss, cit., pag.623

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BIBLIOGRAFIA

MAURICE RAVEL, Bolero (partitura d’orchestra), Durand, Parigi 19291

MARIUS SCHNEIDER, Il significato della musica, Rusconi, Milano

19791

CLAUDIO GREGORAT, L’anima degli strumenti musicali, Centro

Scientifico Editore, Torino 1994

CLAUDE LEVI-STRAUSS, L’homme nu, Librairie Plon, Paris 1971, (tr.

It. L’uomo nudo, cur. Enzo Lucarelli, il Saggiatore, Milano 1974)

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