In copertina: Grotta Lascaux, pittura parietale nel Pozzo con la scena di lotta tra il cosiddetto “sciamano” e
il bisonte ferito (da Bataille 1955).
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INDICE
Introduzione p. 5
Il tema dell'arte paleolitica è uno dei più discussi nell'ambito delle scienze preistoriche, il suo significato
e la sua interpretazione sono stati e sono oggetto di riflessione e di dibattito nella comunità scientifica.
In questa sede intendiamo mettere a fuoco un particolare aspetto delle varie letture che sono state date
al fenomeno figurativo paleolitico, che insorge prepotentemente e si diffonde rapidamente nel continente
europeo a partire da circa 40-35.000 anni orsono, un aspetto che, secondo alcuni Autori, rimanderebbe
ad una interpretazione di tipo “sciamanico” della pratica iconografica dei cacciatori-raccoglitori.
Lo sciamanesimo è una delle più antiche pratiche spirituali e rituali del mondo che utilizza stati alterati
di coscienza per portare alla guarigione sia fisica che spirituale. Gli sciamani sono guaritori, saggi e vi-
sionari, sono intermediari tra il mondo visibile e invisibile e raggiungono la loro conoscenza, che li con-
traddistingue, attraverso l'esperienza dei mondi sensibili, percepita soltanto in stati alterati di coscienza
(Bourguignon 1973; Vitebsky 1995, 1997; Boekhoven 2010). La valenza primaria di questo comporta-
mento è la permeabilità tra il mondo sensibile e un “altrove” che sfugge ai sensi. In un contatto diretto
con una realtà extrasensibile (in ambienti di acqua, nel cielo, in caverne, nelle rocce) lo sciamano, uomo
o donna, invia il proprio spirito “altrove”, dove incontra spiriti (più spesso animali) con i quali dialoga
e dai quali cerca di ottenere dei risultati (predizioni, guarigioni, lotta contro spiriti negativi, soluzioni
a calamità naturali, propiziazioni…). È questa la trance, in forma di visione. In una seconda forma lo
sciamano ospita dentro di sé uno spirito ausiliario (anche in questo caso più spesso un animale) e la sua
natura quindi diventa doppia, umana e animale insieme. Questi stati di alterazione si raggiungono in
vari modi, con l’assunzione di sostanze allucinogene, a seguito di affaticamento estremo, digiuno, stati
di malattia, ma anche col supporto di canti (Halifax 1982), di danze frenetiche, di suoni (il tamburo e
i cembali sono accessori primari) (Mastromattei e Farano 2006) oppure con un concentrazione intensa
in luoghi appartati. Nel repertorio delle visioni, documentato su base etnografica, compaiono segni
entoptici, personaggi antropozoomorfi, vortici, tunnel, sensazioni di volo o di levitazione.
L’ipotetico stretto rapporto tra arte preistorica e sciamanesimo è comparso spesso negli studi paletno-
logici, ma questa impostazione per la prima volta viene espressa in modo articolato e con una valenza
universale nel 1988, quando David Lewis-Williams e Thomas A. Dowson pubblicano la loro visione
sciamanica dell'arte rupestre sudafricana (The signs of all times: entoptic phenomena in Upper Palaeoli-
thic Art) con un tentativo in verità non approfondito (piuttosto un rimando) di applicazione all'arte
paleolitica d'Europa. Il lavoro suscitò un certo dibattito, alimentato soprattutto da Paul Bahn, che è
culminato nel 1996 con l'edizione del volume Les Chamanes de la Préhistoire di Jean Clottes e David
Lewis-Williams, i quali hanno fornito l’occasione per affrontare la discussione sul tema “sciamanesi-
mo” e preistoria, impostando la riflessione su temi non del tutto nuovi ma per la prima volta formaliz-
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zati in un approccio che ha visto dialogare uno studioso di preistoria, specialista di arte paleolitica, e
un antropologo culturale, i quali in precedenza, separatamente, si erano cimentati sul tema. La stretta
connessione che essi vedono tra lo “sciamanesimo”, la trance e le conseguenti allucinazioni e l’applica-
zione di questo paradigma a comportamenti ipotizzati per le comunità paleolitiche hanno fatto prose-
guire il dibattito, che talora si è trasformato quasi in uno scontro che ha visto Paul Bahn nel ruolo di
principale censore di ipotesi a suo dire inaccettabili.
Nel 2001 Clottes e Lewis-Williams pubblicano Les Chamanes de la préhistoire. Après le chamanes,
polémiques et réponses per rispondere a critiche loro rivolte soprattutto da studiosi anglofoni e di lì a
poco Clottes (2004) ripropone l’opportunità di rivolgersi allo sciamanesimo come ambito spirituale
per decifrare i fondamenti del pensiero paleolitico, giustificandola col fatto che esso attiene essenzial-
mente alle comunità di cacciatori-raccoglitori e quindi statisticamente resta l’ipotesi più probabile.
Inoltre, rileva lo studioso francese, i comportamenti sciamanici sono diffusi ampiamente in Europa
e in Asia e poi anche nelle Americhe e questa ubiquità dello sciamanesimo si può spiegare o con un
fenomeno di convergenza dovuto a basi neurologiche dell’Uomo moderno oppure attribuendo alle po-
polazioni che alla fine del Paleolitico hanno popolato le Americhe l’esportazione di credenze pregresse
di tipo sciamanico.
In Francia le reazioni alla tesi “sciamanica” erano state rare, quasi occasionali e ciò ha portato alcuni
specialisti ad editare nel 2006 un’opera collettanea (Chamanismes et arts préhistoriques. Vision critique,
a cura di M. Lorblanchet et alii), con l’intento di dare voce, dans le pays le plus riche en grottes ornées, ad
una doverosa reazione contro il ritorno ad un comparativismo etnografico già molto criticato e anche
contro una non inedita visione universale dell’interpretazione sciamanica, implicanti una regressione
metodologica e concettuale.
C.W. Meighan (1982) trent’anni fa trovava una spiegazione al successo delle interpretazioni sciama-
niche in relazione all’arte rupestre nel fatto che la società occidentale a partire dagli anni ‘960 aveva
mostrato interesse sociale e politico all’uso delle droghe. In verità è anche possibile che in Francia, dove
il dibattito sull’arte paleolitica è sempre stato più vivo, la scomparsa di una figura carismatica come
quella di André Leroi-Gourhan, che ha autorevolmente dato un’impronta particolare agli studi sull’ar-
te paleolitica nella seconda metà del ‘900, abbia consentito il riaprirsi di un dibattito allargato (Bahn
2006), il fiorire di riflessioni che, per maturare, hanno avuto necessità anche di ripercorrere strade già
battute, consentendo anche la riproposizione di impostazioni deboli.
In tale dibattito vogliamo inserirci con questa riflessione che riprende il tema dell’arte preistorica, la
principale evidenza archeologica che potrebbe consentire di formulare ipotesi sui cosiddetti compor-
tamenti “sciamanici”, sulla sua valenza simbolica, di strumento di comunicazione non verbale, di
fenomeno indicativo della coscienza. Il nostro filo conduttore è soprattutto il testo del 1996 di Clottes
e Williams, che consente di affrontare le diverse problematiche e di ampliare la riflessione proposta da
singole affermazioni o da visioni totalizzanti sul fenomeno “arte”, partendo dal seguente quesito: può lo
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“sciamanesimo”, che produce stati alterati della coscienza, essere applicato alla interpretazione di alcu-
ne attività spirituali e simboliche delle genti paleolitiche? Seguendo il filo del loro ragionamento, delle
loro ipotesi e delle confutazioni del loro avversario, abbiamo cercato di mettere a fuoco a quale tipo di
esperienze, pensieri, significati e simboli possono essere ricollegate le testimonianze archeologiche che
le grotte hanno conservato, utilizzando come principale parametro il rigore del metodo archeologico.
L’impostazione archeologica, arricchita da una prospettiva storico-religiosa, cerca di mettere in luce se
l’origine di alcune pratiche “sciamaniche” può effettivamente essere vista nel mondo della preistoria,
nella fase del nostro passato che l’archeologia delle origini cerca di decifrare partendo non da testi o
da osservazione diretta dei fenomeni, ma dalla mera documentazione che comprende essenzialmente
le evidenze grafiche e figurative, talora alcuni prodotti ed eccezionalmente impianti e tracce di attività
umane che non rimandano ad aspetti utilitaristici ma a pratiche simboliche (danza? musica? masche-
re?). Abbiamo correlato queste problematiche alla complessità dell’evolversi della coscienza in una vi-
sione darwinista che rende ragione e giustifica la complessità medesima. É un processo che, attraverso
il lungo percorso del nostro genere Homo, inizia in Africa circa 2,5 milioni di anni orsono e solo nella
diffusione della specie sapiens (circa 40.000 anni fa in Europa e 150.000 anni prima in Africa) troverà
un’articolazione e un’esplosione di pratiche, atteggiamenti e simboli (Martini 2008) che ci consentono
di impostare questa nostra riflessione. Essa vuole affrontare il complesso problema della religiosità delle
genti paleolitiche e di quanto le testimonianze a noi pervenute (in speciale modo l’arte parietale rupe-
stre e mobiliare) possono legittimare l’inserimento delle ipotizzate pratiche sacrali-rituali paleolitiche
nell’ambito del cosiddetto “sciamanesimo”.
Ci piace in questa presentazione proporre al lettore una citazione di Clottes e Lewis-Williams che ha
ispirato una parte del percorso di noi due autori, non il percorso relativo alle pagine di questo testo ma
quello di due cammini formativi differenziati e apparentemente lontani, anche per anagrafe, ma riuniti
attorno a posizioni condivise:
Chaque fois que nous parlons en public de l’art des cavernes, les memes questions reviennent: «Pourquoi ces
dessins?», «Qu’allaient-ils faire dans ces grottes profondes?». Sous des formes diverses, ces interrogations posent
le problème de la signification de l’art. La volonté de savoir est si inhérente à la civilisation occidentale qu’elle
nous paraît aller de soi. Or, pour d’autres cultures, par exemple les aborigènes d’Australie ou les Indiens des
Amériques, la connaissance ne constitue ni un droit ni un devoir. Elle est relative et hiérarchisée. Nul n’a le
besoin – ni a fortiori le droit – de tout savoir (Clottes e Lewis-Williams 1996, p. 61).
Infatti, l’ossessione tutta occidentale di produrre significati provoca inevitabilmente un inquinamento
delle interpretazioni, sia nel metodo che nel merito, con l’abuso delle testimonianze etnografiche e con
la proiezione dei propri prodotti sociali, culturali, religiosi ed economici, nella vita dei nostri antenati
preistorici.
Non si può non essere d’accordo con chi ritiene che ogni cultura ha i propri sciamani (Anati 2001-2002
pag. 5), ma proprio per questo un paradigma metodologico fondamentale è la prudenza nell’applicare
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sistemi investigativi e interpretativi contingenti a fenomeni religiosi e sociali relativi a popolazioni
cronologicamente distanti e culturalmente differenziate. L’indagine sui grandi miti, di per sé viatico
rassicuratore per chi affonda i processi cognitivi individuali e collettivi nello studio del passato più o
meno remoto, strumento di ordinamento del caos e del disordine, richiede un approccio interdiscipli-
nare che affronti l’infinita variabilità delle realtà storiche. In questa nostra lettura dei fenomeni solo
il metodo archeologico documentale ha ispirato il nostro spirito inquisitivo, rivolto alla messa in luce
di fatti e di comportamenti probabili: suggestioni, echi, risonanze, immaginazioni, partecipazioni e
proiezioni non sono state chiavi di lettura delle culture paleolitiche che hanno generato quell’ampia e
variegata mitologia che le figurazioni preistoriche ci raccontano e che noi tentiamo di decifrare dando
il giusto nome alle cose e ai personaggi.
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“SCIAMANESIMO”:
UNA STORIA DI DEFINIZIONI E DI APPROSSIMAZIONI
Quando Ides Evert Ysbrant, originario di Glackstadt, una piccola cittadina nel nord della Germania,
fu inviato come ambasciatore da Pietro il Grande di Russia nelle lontane regioni del regno, ed anche
in Mongolia e Manciuria, rimase certamente impressionato da quei rituali delle notti siberiane, sicu-
ramente bislacchi per un europeo del XVII secolo. Non avrebbe però potuto immaginare che quel
termine tunguso, šaman, utilizzato nei suoi diari per indicare il sacerdote che presenziava quelle ceri-
monie, sarebbe poi entrato nel gergo comune. I suoi scritti furono divulgati in una pubblicazione del
1699 ad Amsterdam, dal titolo “Relation du voyage de M. Evert Isbrand envoyé de Sa Majesté czarienne
en 1692, 93 et 94”. A seguito del grande successo ottenuto, questo resoconto fu tradotto in varie lingue
(tedesco, olandese, inglese) con la conseguenza che il termine šaman ebbe la propria traslitterazione
fonetica. Sicuramente la più radicata è quella inglese shaman, la dizione italiana è un neologismo molto
più recente del termine inglese dal quale deriva.
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trollare eventi naturali e metereologici, un personaggio che tramite
conoscenze segrete e doti innate è in contatto con forze e tensioni
non percettibili nella realtà comune. La figura sciamanica appare
presente in varie aree geografiche, in Asia settentrionale (soprattutto
Siberia), nelle Americhe, con forme diversificate tra nord e sud del
continente, nelle culture tribali africane e anche in Australia (figg. 2,
3). Essa quindi viene oggi percepita come un modello universale di
comportamento metastorico, che identifica il tema archetipico e ap-
punto universale del rapporto tra terreno e ultraterreno, un tema che
ha il suo antecedente nell’origine della coscienza in precisi momenti
della preistoria.
Figura 2 – Lo sciamano Matsúwa, famo- Nella costruzione di quest’immagine del personaggio sciamanico
so tra gli Huicol delle Sierre messicane
come medicine-man, offriva preghiere hanno senza dubbio contribuito gli studi accademici del XIX secolo,
alle divinità per ridare al malato armonia
e vitalità (da Halifax 1982). la cui impostazione è stata ereditata anche nella prima metà del XX
secolo: lo “sciamanesimo” è visto come un fenomeno transcultura-
le, ma solo per quelle culture “primitive”, diverse dal nostro mondo
civilizzato che non accetta, in nome della teologia del logos europeo,
irrazionali atteggiamenti e credenze. Di conseguenza il fenomeno
sciamanico è stato volutamente banalizzato e ridotto a performan-
ces istrioniche, talora connesse a stati patologici, non a caso visto tal-
volta anche come una pratica pericolosa. Tutto ciò sino alla rottura
concettuale ed epistemologica impressa da Mircea Eliade nel 1951
con la pubblicazione del suo famoso studio. Lo studioso rumeno af-
fronta l’argomento forte delle sue conoscenze nel campo delle scien-
ze dell’uomo e in particolare della storia delle religioni e, in estrema
sintesi, del “sacro”. L’impostazione schematica del lavoro si giustifica
con la necessità di mettere ordine e di tenere sotto controllo l’esposi-
zione e la comparazione di atteggiamenti molto complessi, registrati
in culture diverse e in epoche anche lontane tra loro. Analiticamente
Eliade individua e segnala momenti essenziali dell’esperienza sciama-
nica (acquisto dei poteri, reclutamento, iniziazione, elezione, rituali,
Figura 3 – Lo sciamano Sioux Oglala
viaggi estatici), attributi (tamburo, maschere e copricapi sciamanici,
Hehaka Sapa (1862-1950), conosciuto
come Black Elk (Alce Nero), insieme al pugnali rituali, accessori simbolici) (figg. 4-8), cosmogonie e miti che
padre (da Halifax 1982). Partecipò alle
battaglie di Little Big Horne e di Woun- sono patrimonio immateriale di popoli moderni (Tungusi, Buriati,
ded Knee. Altaici, Yakuti, Samoiedi, Goldi, Maciù, Teleuti, ma anche altri al
di fuori del locus classicus della Siberia, come Coreani, Giapponesi,
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Tibetani, Indonesiani, Eschimesi, Americani, Australiani) e di antiche civiltà (in Grecia e nell’Europa
centrale, nel Caucaso e in Tracia, nell’altopiano iranico e in India). La tesi finale di Eliade è una let-
tura archetipica dello sciamanesimo come fenomeno che è comune a civiltà e manifestazioni culturali
diversificate nel tempo e nello spazio, anche all’interno di gruppi culturali con microdifferenziazioni
nell’ambito della sfera sacrale e religiosa, come, ad esempio, nell’ambito delle pratiche spirituali dell’A-
sia estrema o nel mondo degli dei e dell’ultraterreno nella Grecia antica.
In questa riflessione sul tema dello “sciamanesimo” possiamo evidenziare il ruolo che l’impostazione
data da Eliade, a suo tempo innovativa, ha avuto per alcuni decenni nella lettura del fenomeno. Una
conseguenza di rilievo, non necessariamente positiva, è l’aver creato un grande contenitore concettuale
dove sono confluite manifestazioni religiose, sacrali, rituali collegate a origini culturali diverse, con esi-
ti e atteggiamenti individualmente originali. Inconsapevolmente Eliade ha conferito allo “sciamanesi-
mo” un valore ontologico enfatizzato che è andato ad oscurare micro e macrofenomeni religiosi-sacra-
li-rituali degni invece di una loro identità e specificità. In pratica nella seconda metà del secolo scorso
è stato avviato un approccio approssimativo al tema in discorso, ridotto ad una definizione astratta,
troppo generalizzata e forzatamente unitaria. Non
è questa la sede per affrontare il problema della ine-
vitabile costruzione di altri –ismi che sarebbe pro-
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dotta da un’analitica differenziazione degli attributi macro e microscopici di quelle che, parafrasando
Montale, potremmo chiamare le “infinite possibilità dell’irreale”.
Torniamo quindi alla nostra riflessione principale e vediamo di quali definizioni possiamo avvalerci in
un’analisi storica del fenomeno. Partiamo da una definizione che gode di ricevuto credito in ambito
accademico:
“Sciamano” […] indica un tipo molto particolare di “stregone”, tipo diffuso nelle civiltà subartiche dell’Asia
e dell’America: lo sciamanismo è caratterizzato soprattutto dall’azione svolta in stato di estasi, ma anche da
una particolare ideologia religiosa; lo sciamano ha, infatti, spiriti tutelari che lo aiutano nelle sue imprese
[…]. Bisogna osservare che diverse di queste caratteristiche e di altre che qui sarebbe lungo enumerare ricor-
rono anche nelle attività di altri stregoni ed è perciò che i termini sciamano e sciamanismo sono adoperati
spesso in senso largo anche al di fuori dell’area culturale indicata in cui, tuttavia, quelle caratteristiche
hanno una precisa concomitanza e un rilievo particolare (Brelich 1966).
Questa posizione è ispirata da una semplificazione del fenomeno di cui lo stesso autore probabilmente
è consapevole, visto che ammette l’esistenza pluriesperienziale di più “caratteristiche”, con un passag-
gio anche dal singolare al plurale. In ogni caso la lettura riduttiva e semplificativa è data dall’uso della
definizione, di “sciamano” e “sciamanesimo”, come se fosse un’etichetta identificativa.
Al di fuori dell’ambito accademico, nella cerchia delle edizioni divulgative di buon livello restano
definizioni, come quella che segue (AA.VV. 1974) che, nella loro approssimazione, creano un certo
imbarazzo:
Sciamanismo: particolare ideologia religiosa, diffusa soprattutto in area subartica, secondo la quale alcune
persone possono entrare in comunicazione con il mondo degli spiriti per ottenere determinati benefici. […].
Uno sciamano è un fattucchiere o stregone che opera in stato d’estasi: a tale condizione giunge con l’ausilio
di mezzi psichici – danze, canti, suoni di tamburi, ecc. – e di mezzi fisici – droghe, tabacco, ecc. – ma, è già
costituzionalmente portato all’estasi. […]. Anche agli sciamani, come tra gli stregoni in genere, si attribuisce
la volontà di fare del male (*magia nera), […] questi viene bandito dalla comunità o ucciso.
È immediato il carattere approssimativo e quasi sciatto di questa forma di divulgazione che degrada
lo “sciamano”, ormai ridotto a fattucchiere, drogato e in alcuni casi anche pericoloso per la comunità,
una concezione che contrasta con l’inserimento dello “sciamanismo” nell’ambito degli atteggiamenti
non religiosi ma delle ideologie religiose secondo le quali si possono ottenere dei benefici empirici
semplicemente contattando gli spiriti. È evidente che una simile definizione, nella sua origine non
accademica, riflette un’impostazione che valorizza la cultura occidentale sensu lato, un’impostazione
europocentrica che nasce dalla tradizione greca-giudaica-cristiana che ha connotato le nostre radici,
un’impostazione che individua l’altro come diverso, il barbaro come individuo lontano, ma che non si
riscatta quando pare assegnare al primitivo una sua dignità in quanto lo relega in un tempo lontano
(preistoria) o nell’incultura non ancora redenta dalla civiltà. Mettiamoci nei panni di un Tunguso o di
un Buriate del XVI-XVII secolo che assistono alla celebrazione di una Messa cristiana; a loro sembre-
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rebbero certamente risibili certi passaggi, come per esempio il fatto che i fedeli mangino il corpo del
proprio Dio, che l’ostia sia Dio, ma non si troverebbero poi così distanti da quell’officiante-“sciamano”
avvolto in sobri ma coloriti paramenti, che segue cerimoniali codificati che non ammettono deviazioni
o innovazioni personali, che beve sostanze alcoliche, che viene avvolto nei fumi dell’incenso quando
muove ritmicamente il turibolo, che garantisce ai partecipanti al rito la salvezza ultraterrena, che nelle
formule del rito, recitate o cantate, si rivolge direttamente ad un essere superiore con accenti di confi-
denziale rispetto e sottomissione, che svolge il suo ruolo di mediatore tra terreno e ultraterreno.
Può essere interessante citare una definizione diffusa e rintracciabile sul web, digitando la parola chiave
“sciamanesimo”su un qualsiasi motore di ricerca:
Non è un sistema di credenze o una filosofia o un’ interpretazione del mondo. Non è neppure una religione
come la intendiamo di solito. È solo il modo naturale, spontaneo di guardare la realtà, quello che abbiamo
ancora da bambini prima che i dogmi della nostra cultura lo reprimano. Lo sciamanesimo è soltanto quel
che c’ è prima di ogni sistema di credenze1.
Ed ancora:
Lo sciamanismo o sciamanesimo sta attualmente vivendo una rinascita nel mondo contemporaneo, nella
ricerca delle radici perdute, di nuove vie alla guarigione o di un senso più profondo della vita, sempre più
persone si rivolgono all’antica conoscenza degli sciamani. Molti trovano nel legame primordiale con la na-
tura e nell’antica visione dello sciamano una via d’uscita alla corsa insensata al successo e alla ricchezza, e
all’ isolamento creato da una società materialista e tecnologica2.
L’aspetto nuovo in queste definizioni di facile divulgazione è costituito dall’atteggiamento di simpatia e
di comprensione ideologica nei confronti dello “sciamanesimo” e dello “sciamano”. Talora emerge an-
che una sorta di insofferenza nei confronti delle istituzioni religiose e politiche del mondo occidentale,
forse mediata anche dalle esperienze New Age. In generale le definizioni presenti nei siti web vedono in
queste pratiche un’origine arcaica, ancestrale, preistorica, dando loro un’accezione positiva.
Sarebbe troppo lungo affrontare il problema delle variabilità delle definizioni, sia nella storia degli
studi accademici sia nelle trasformazioni che il tema in discorso ha visto negli strumenti divulgativi e
mediatici. Può essere sufficiente ricordare che è possibile ritrovare, nella estrema variabilità delle con-
notazioni, sia positive sia negative, impostazioni e letture schematiche, riduttive, altre più concilianti
e tolleranti, sino agli estremi di definizioni entusiaste che sottolineano le implicazioni salvifiche delle
pratiche sciamaniche. Il tema può essere affrontato con posizioni molto soggettive, la sfera dell’imma-
teriale alla quale esso si riferisce non comporta dati incontrovertibili. Siamo nella dimensione “mitica”
dell’irrazionale, che precede quella filosofica con la ricerca dei perché e quella scientifica della pratica
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sperimentale. Siamo nella dimensione in cui ognuno afferra quello che vuole3.
Poche righe di Sergio Botta, in un recente studio, offrono un importante spunto di riflessione:
Nell’opera di Russell T. McCutcheon all’atto immaginativo si accompagna anche un profondo interesse
per le implicazioni sociali e politiche, che nel suo Manufacturing Religion [New York, 1997], fanno della
religione un prodotto delle pratiche invalse negli studi moderni: la religione appare dunque quale categoria
generata da un meccanismo rappresentativo accademico che opera all’ interno di un preciso ambito di prati-
che discorsive e garantisce la conservazione delle istituzioni nelle quali tali discorsi sono articolati e riprodotti
(Botta 2010).
Se decliniamo questa osservazione allo “sciamanesimo” possiamo attribuire ad esso la valenza di un
mero prodotto creato in un determinato momento storico, al fine di legittimare gli studi e gli studiosi
dell’argomento.
Spesso si usa il termine fenomeno (anche al plurale) per indicare lo “sciamanesimo”, ma tale impiego
non è corretto, in quanto, come cercheremo di evidenziare nei capitoli seguenti, esso non esiste, ma
esistono solo discorsi sullo “sciamanesimo”.
De-costruire lo “sciamanesimo”
Prima di addentrarci nelle implicazioni sostanziali che l’argomento trattato comporta, cerchiamo di
definire il significato etimologico del termine “sciamano” e di verificarne le dinamiche di origine. Tale
termine, di matrice tungusa, è entrato nel circuito linguistico occidentale attraverso la mediazione rus-
sa šaman, di probabile derivazione sanscrita (ramaņa: asceta buddhista, ramaņera: monaco), forse con
una mediazione cinese (sha-men?). Questa definizione, che appare in letteratura quella maggiormente
adottata e che parrebbe ancorata ad un preciso significato, in verità non rispecchia l’incertezza di colle-
gare ad un unico e codificato termine la varietà di letture di pratiche concernenti la sfera sacrale, varietà
che già nella loro area nucleare, il territorio siberiano, appare ampia, anche se connotata da definizioni
non troppo diverse tra loro:
«I nomi per lo sciamano sono molteplici attraverso tutta la Siberia. D’altra parte uno stesso gruppo può avere
espressioni diverse per indicare lo sciamano e la pratica sciamanica» (Mazzi 2009, pag. 21).
In estrema sintesi, il nucleo del problema sta nell’aver ben chiaro cosa vogliamo, ma soprattutto cosa
possiamo, definire. L’esistenza della figura dello “sciamano” è un fatto ben definito, radicato in un con-
testo storico e geografico preciso, che va annoverato tra le scoperte attribuite al mondo e alla cultura
occidentale nelle fasi d’espansione e di colonizzazione verso terre e continenti sconosciuti. Lo “sciama-
3 Concetto tutt’altro che nuovo, basti pensare alla famosa espressione di Gaston Bachelard, filosofo
della scienza: “Niente va da sé, Niente è dato, Tutto è costruito”.
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nesimo”, invece, appare come un’invenzione dell’accademia occidentale, ovvero dell’ideologia collegata
alla struttura accademica dominante alla fine del ‘700, la quale crea una propria immagine astratta del
fenomeno-sciamanesimo enfatizzando attributi concreti del personaggio-sciamano.
Per capire meglio, facciamo un passo indietro e leggiamo quanto scrive nel 1699 Ides Evert Ysbrant nei
suoi resoconti:
“Se cinque o sei tungusi abitano vicini […] si rivolgono tutti allo stesso sciamano […]. Ogni volta che essi si
riuniscono presso di lui, lo si vede vestire un abito adorno di ferraglie dal peso di più di duecento libbre con
ogni sorta di figure diaboliche […]. Questo sciamano […] prende un lungo tamburo su quale batte colpo su
colpo e questo rumore assai spiacevole, accompagnato da urla terribili […] produce una musica che incute
terrore […]. Lo sciamano cadeva all’ indietro come se avesse perso coscienza ed è allora essi gli rendono onore
come a un santo” (Marazzi 2009, pag. 17).
In questo testo cogliamo lo sbigottimento di un viaggiatore di fine XVII secolo, approdato in terre
sconosciute. Egli indica con il termine “sciamano” l’individuo che gli appare come l’operatore del sacro
all’interno di quella comunità. In questo caso Ysbrant, che ha operato una trascrizione fonetica del ter-
mine tunguso con il quale l’operatore del sacro viene indicato dai suoi adepti, parla solo di “sciamano”,
non di “sciamanesimo”.
Quasi coeva al resoconto di viaggio in discorso è la prima citazione in lingua inglese, shaman (Corte-
lazzo e Zolli 1988), termine che indica l’operatore, la persona e non la pratica rituale-sacrale. Occorre
aspettare quasi un secolo (1780) per vedere introdotto un termine, shamanism, che supera l’identità del
personaggio e lo trasforma in una tendenza comportamentale simbolica (Battisti e Alessio 1966). Cosa
è accaduto in questo lasso di tempo? Quali dinamiche hanno portato alla creazione di un fenomeno?
Ysbrant non poteva immaginare che l’importazione di quel termine nel lessico occidentale, a seguito
di una sua osservazione su un “personaggio” esotico, diverso, fuori della norma, avrebbe prodotto nel
tempo la creazione di una categoria astratta tra le più generali, e quindi generiche, che conosciamo,
con l’estensione del suffisso –ism. Il viaggiatore, attento e scrupoloso, si era limitato a traslitterare un
termine straniero che indicava uno specifico individuo operante all’interno di una precisa comunità
collocata in una vastissima area geografica: in altre parole la sua indicazione è fortemente determini-
stica e non vuole trascendere né il luogo né il tempo in cui egli osserva il comportamento “rituale” del
personaggio. Con queste premesse così ben definite, quali sono stati i modi di trasferimento di un’indi-
cazione specifica della categoria-personaggio (sciamano) ad un fenomeno metastorico (sciamanesimo)?
Innanzitutto, come sempre nelle vicende umane, è il caso che determina l’evento. L’adozione del ter-
mine shaman è casuale in quanto il personaggio che Ysbrant ci ha illustrato per primo, indicando
l’individuo ma anche la pratica rituale a lui connessa, avrebbe potuto anche essere indicato con altro
termine. Infatti, in quel vastissimo territorio che comprende la già sterminata Siberia, la Manciuria e la
Mongolia, quelle pratiche rituali-magiche- religiose-sacrali (e qui la terminologia da adottare richiede
estrema prudenza) sono peculiari di individui “eccezionali” (cioè che escono dai parametri ordinari
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della comunità ed emergono per capacità e proprietà fuori della norma) che venivano indicati con più
termini identificativi: ad esempio nella sola area siberiana qam o yayan sono indicazioni specifiche di
operatori del sacro e, se vogliamo, sinonimi di shaman agli occhi di un viaggiatore occidentale che non
riesce a non cogliere anche la bizzarria (o meglio l’alterità e la diversità, diremmo oggi) di quel com-
portamento.
L’adozione del termine shamanism, che risale come già detto alla fine del ‘700, non ha una diffusione
immediata e generalizzata nel mondo occidentale. La cultura italiana, periferica e provinciale, non
prende in considerazione questa problematica. All’assenza di studi e testi sul fenomeno, fa riscontro an-
che l’assenza del termine nei dizionari di lingua italiana, dove i termini “sciamanesimo” e “sciamano”
compaiono solo nel 1828 (non compaiono nel Dizionario della lingua italiana, per le Stampe de’ fratelli
Masi, Bologna 1824 né nel Dizionario Universale Critico Enciclopedico della Lingua Italiana dell’Abate
d’Alberti di Villanova, per Luigi Cairo, Milano 1825), con una definizione emblematica, anche per
l’impostazione grafica (radice + suffisso):
Sciaman-i: Sacerdoti della religione de’ Mongolli e de’ Chinesi settentrionali. –esimo, -ismo: n. m. religio-
ne primitiva de’ Chinesi e de’ Mongolli, fondata sul culto degli astri e degli oggetti principali della natura.
–ista: seguace dello sciamanesimo o della religione degli sciamani (Vanzon 1828).
Ecco che con la semplice applicazione di un suffisso possiamo creare ogni sorta di categoria, o di fe-
nomeno, e come ha scritto J. L. Austin (1962), l’atto stesso di enunciare le parole è performante. Ma
in realtà tali categorie semantiche potranno esistere nei dizionari, nei manuali, nei testi scientifici, ma
ciò non significa che esse coincidano con una realtà. I suffissi –esimo e –ismo non servono solo alla
rappresentazione, ma comportano anche la strumentalizzazione di un concetto e di un atteggiamento
mentale che si basa su una realtà astratta (metastorica). Essi sono catalizzatori e catene di distribuzione
di etichette e nello stesso tempo riescono ad accentuare la fruibilità e la divulgazione ma anche una
certa genericità dell’informazione e della comprensione del dato.
L’accademia italiana rimane sostanzialmente ai margini di questo filone di indagini che ha implicazio-
ni di studi sulla storia delle religioni, di etnografia ed etnologia. I due termini in discorso scompaiono
dai dizionari italiani già nel 1829 (Marchi 1829; Cardinali 1829), riappaiono nel 1838 (Tramater 1838;
in questa voce si aggiunge anche che lo sciamanesimo è un ramo del buddismo), se ne perdono le trac-
ce nel 1861 (Tommaseo e Bellini 1861; anno dell’Unità d’Italia, una coincidenza?) e ancora non sono
considerati nel 1897 (Broglio 1897). Riappariranno, e avranno una loro collocazione stabile, solamente
nel XX secolo, in un mutato panorama degli orizzonti degli studi.
La diffusione del termine “sciamanesimo”, già di per sé generico, vede un’inapplicabilità del termine
medesimo a realtà non univoche emergenti tra la fine del XIX e i primi del XX secolo, con la stagione
delle grandi esplorazioni e l’ingresso nella visione occidentale del mondo di un gamma variegata e po-
liedrica di realtà sociali, comportamentali e, in sintesi, di civiltà tra loro diverse a livello di rapporto con
l’ambiente e le risorse disponibili, di struttura sociale, di strutture religiose-rituali-sacrali. Ne consegue
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la tendenza da parte di etnologi e di antropologi della prima metà del Novecento di moltiplicare le pos-
sibilità semantiche del termine “sciamanesimo” estendendolo in un proliferare di pluralismi a realtà tra
loro autonome e diversificate, lontane nel tempo e nello spazio. Nasce così la stagione degli “sciamani-
smi”, un’etichetta, come già Evans-Pritchard la definiva negli anni attorno al 1930, utilizzata per con-
testi sociali e culturali contemporanei delle Americhe, dell’Australia, dell’Asia (Cina, Corea, Giappone)
e dell’Africa, senza dimenticare il distretto artico. Una visione storica delle vicende e dell’evoluzione
degli studi non deve sorprenderci e, all’interno di quel contesto storico, si comprende e si giustifica la
mancanza di dignità per ogni particolarismo. Nello stesso tempo guardiamo con indulgenza a sottili
sofismi il cui scopo era di gettare il ragionamento al di là dell’ostacolo: è il caso, agli inizi del secolo,
di A. van Gennep («Puis le mot a eu succès aupres du grand public ignorante et en même temps amateur
d’exotisme euphonique») (Van Gennep 1903) secondo il quale il termine chamanisme è una definizione
vaga e pericolosa tra quelle usate dalle scienze delle religioni; egli sottolineava ironicamente che per
definire una religione non si può fare riferimento all’operatore del sacro, altrimenti si dovrebbe parlare
allo stesso modo di “pretismo”, “pastorismo” e “bonzismo”.
Un ampliamento degli orizzonti, soprattutto in termini diacronici, si deve a Mircea Eliade il quale
attua un’indagine approfondita mettendo in campo anche realtà storiche antiche (preistoriche in senso
archeologico, cioè senza fonti scritte). Riflettendo sul significato delle ossa nella simbologia sciamanica
e alludendo ad un origine preistorica dello “sciamanesimo”, passa in rassegna svariate esperienze reli-
giose e ne vede la sopravvivenza simbolica anche in religioni insospettabili; a proposito del passo biblico
in Ezechiele, XXXVII, 1-8, scrive:
«Sempre a proposito di risorgere dalle ossa, si potrebbe ricordare la celebre visione di Ezechiele, benché essa
vada integrata in un orizzonte religioso del tutto diverso da quello degli esempi su citati…» (Eliade 1974,
pag. 186).
Nel contesto generale della sua riflessione, Eliade non riesce ad uscire dal paradigma interpretativo che
gli impone la sua cultura di appartenenza. In altre parole nonostante egli voglia ricondurre lo “scia-
manesimo” ad una forma primigenia di religiosità (la “vera” religiosità proprio in quanto primigenia),
non può non fare a meno di considerare l’esperienza giudaico-cristiana come qualcosa di altro (diverso)
rispetto alle altre.
Veniamo, infine, ad uno dei concetti base di questo capitolo. A differenza del fenomeno “sciamano”, che
come già detto si può considerare una scoperta, il fenomeno “sciamanesimo” è un’evidente invenzione.
La scoperta dello “sciamano” nell’infinita varietà comportamentale del genere umano e la conseguente
attribuzione ad esso di una definizione divengono il riconoscimento di un’identità fattuale. Al contra-
rio la definizione di una categoria fenomenica astratta (“sciamanesimo”) appare come un’operazione di
semantica rappresentativa che nasce dall’esigenza di produrre un significato metastorico attribuendo
all’identità fattuale un surplus semantico. Oggi sappiamo che la sua origine è ben definibile, all’interno
delle accademie europee, certamente inglesi, alla fine del ‘700. Da allora lo “sciamanesimo” esiste come
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realtà nelle definizioni e nelle riflessioni sui comportamenti rituali-sacrali dei primitivi, siano essi at-
tuali o cronologicamente lontani da noi, e con questa definizione dobbiamo raffrontarci. Senza entrare
nello specifico delle variabilità concettuali e fattuali che esso implica, questo termine descrive fenomeni
documentati in molteplici aree geografiche e lungo un ampio arco cronologico della storia dell’uomo.
In questa sede ci interessa mettere a fuoco il problema nell’ambito delle scienze storico-archeologiche,
e più specificatamente paletnologiche, un settore di studio privo di fonti letterarie e di testimonianze
dirette, nel quale le evidenze produttive e simboliche, e solo esse, consentono di ricostruire, se e quando
possibile, le realtà e i comportamenti dell’uomo. Nel processo che lo studioso di preistoria avvia alla
ricerca di risposte è fondamentale partire da un’impostazione corretta della domanda e dei quesiti.
Uno dei rischi nell’impostazione del problema è la possibilità di considerare questo tema di indagine
come un fenomeno di religiosità preistorica. Un pericolo che ne contiene al suo interno uno ulteriore,
quello di parificare la religiosità preistorica alla religiosità primitiva. Sostituendo “preistorica” con “pri-
mitiva”, certi fenomeni ed esperienze non sono più da intendersi come appartenenti semplicemente ad
un determinato contesto storico, nello specifico alle diverse culture del Paleolitico, bensì ad una realtà
sociale non raggiunta dalle strutture della nostra civiltà occidentale. Nonostante il notevole salto qua-
litativo che l’adozione dei concetti darwiniani di evoluzione (come trasformazione) ha conferito anche
alle riflessioni sugli aspetti simbolici del comportamento delle comunità antiche, forse non è del tutto
spenta l’impronta di una facile e ingenua linearità che già ispirava la sequenza evolutiva di J. Lubbock
alla metà del secolo XIX (ateismo, feticismo, culto della natura o totemismo, sciamanesimo, idolatria
o antropomorfismo) nella visione che vedeva alla periferia del primato europocentrico la presenza di
popoli “inferiori”.
Inventio ed “ invenzione”
Luigi IX re di Francia pensò bene, tra il 1253 e il 1255, di inviare un’ambasceria presso la potente corte
mongola, dove in quegli anni regnava Munke Khan. Il sovrano mongolo si preoccupò maggiormente
dell’espansione imperiale verso i territori dell’est, piuttosto che verso l’Europa, con la quale, comunque,
vi furono forti contatti, visto che le truppe asiatiche arrivarono fino alle porte di Vienna. L’inviato del re
di Francia, Vilhem av Ruysbroeck, in quei tre anni percorse migliaia di chilometri in terre sconosciute
ed a lui dobbiamo i primi resoconti su queste aree. Non possiamo naturalmente dare credito completo
ad un uomo di corte del XIII secolo. Pensiamo a quali furono i presupposti ideologici che ispirarono,
due secoli dopo, l’apparato ecclesiastico e la politica in occasione della scoperta dell’America, pensia-
mo alle reazioni “teologiche” tra fine ‘400 e primi del ‘500 di fronte all’incontro con “l’altro”, con il
“diverso” e, in ultima istanza, con il “pagano”; analogamente possiamo comprendere lo sbigottimento,
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derivazione diretta dalla paura della diversità, provato da un emissario di Luigi IX il Santo, un grande
re-soldato cristiano, che guidò sia la settima sia l’ottava crociata. Ci sono tutti i presupposti per consi-
derare inattendibile la (rap)presentazione di quei popoli e i resoconti trasmessi e diffusi in Europa. Sino
al XVII-XVIII secolo non troviamo nelle fonti testimonianze di grande interesse per l’area siberiana e
centro-asiatica. Dobbiamo attendere quindi quattro secoli dopo le missioni pionieristiche di Vilhem av
Ruysbroeck, in occasione delle grandi conquiste russe oltre gli Urali. Riemerse dall’oblio, quelle terre
furono oggetto di nuovo stupore e di rinnovata repulsione cristiana, pari a quella della società medie-
vale. In quest’ottica vanno visti i primi resoconti sull’area siberiana risalenti alla colonizzazione russa,
a firma dell’Arciprete Avvakum Petrovi (1621-1682), che certamente era in contrasto con le Riforme
del Patriarca Nikon (finì sul rogo per questo), ma che rimaneva un uomo di chiesa che vedeva negli
“sciamani” degli imbroglioni al servizio del demonio.
Dopo le pubblicazioni del già più che citato Ides Evert Ysbrant, il termine “sciamanesimo” entra, se non
nel gergo comune, almeno in ambito scientifico. Nel corso del XVIII secolo, quello dei Lumi, la visione
delle pratiche “sciamaniche” appare (paradossalmente?) in linea con le tendenze della Chiesa cattolica.
Gli “sciamani” sono visti come ciarlatani che compiono prodigi dinnanzi ad una popolazione retro-
grada, primitiva, ignorante e superstiziosa; studiosi come Daniel Gottlieb Messerschmidt (1685-1735),
Johann Georg Gmalin (1709–1755), Peter Simon Pallas (1741-1811) erano su questa linea. Di contro,
vi era anche un filone divergente, rappresentato per esempio da pensatori come il filosofo Johann Got-
tfried Herder (1744-1803) e il poeta Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), i quali avevano una
visione un po’ esotica, come una forma di folklore e di superstizione, che produceva alla fine un’idea
romantica dello “sciamano” inteso come “buon selvaggio”. Visione questa che rimase confinata in pochi
circoli ed abbracciata, anche in seguito, da un ristretto gruppo di ricercatori tra i quali ricordiamo G.
N. Potanin (1835-1920).
Il primo studioso specialista dello “sciamanesimo” mongolo-buriato è stato Dorji Banzarov (1822-
1855), un ricercatore controverso, il quale pone un nuovo problema, quello della visone etica o emica
di un fenomeno. Nato nella Repubblica Buriata e quindi vicinissimo alle tradizioni di quelle terre,
poteva giudicare se stesso e la sua cultura (prospettiva emica)? Oppure solo ad un occhio estraneo a
tale realtà sarebbe stato lecito giudicare (prospettiva etica)? Si tratta di una domanda molto delicata ma
a prescindere dalla risposta, resta il fatto che questo studioso avvia una riflessione, che possiamo anche
sospettare essere più o meno di parte, improntata a presupposti scientifici. Riflessione che trova seguito
anche in altri lavori, ad esempio quello di Vasilij Vasilievi Radlov (1837-1918), che nel 1884 uscì con
Aus Sibirien oppure, dello stesso anno, le opere di N.N. Agapitov e M. N. Xangalov.
Se il ‘700 ha visto la riduzione di “sciamano” a sinonimo di mago, fattucchiere o stregone, la fine
dell’Ottocento, in concomitanza con la diffusione delle teorie evoluzioniste, corrisponde all’avvio di
una moltiplicazione dei significati: in altre parole avviene la scoperta degli “sciamanesimi” nel mondo,
tendenza che è all’origine della confusione che tutt’oggi regna nella letteratura. Si tratta di un evento di
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non poco conto che si accompagna, anche nei decenni successivi, ad una svolta fondamentale ovvero
l’ingresso in questi studi di discipline quali la psicologia e l’antropologia.
La visione del XX secolo è stata fortemente influenzata dalla scuola antropologica americana, a partire
dai presupposti di Franz Boas (1858-1942), considerato il padre dell’antropologia america, il quale
trattò il tema sciamanico sulla base della sua esperienza diretta con lo sciamano Quesalid-Maxulagi-
lis, rappresentante secondo lo studioso delle credenze degli indiani Kwakiutl pur non appartenente a
quell’etnia essendo nato George Hunt. Franz Boas proponeva studi interdisciplinari (archeologia, psi-
cologia, geografia, biologia, linguistica e mitologia) per rapportarsi in maniera più appropriata agli stu-
di sciamanici. Ai nostri occhi oggi la proposta di un approccio pluridisciplinare può sembrare un’in-
novazione e un traguardo nella storia degli studi, tuttavia è necessario considerare che gli studi di Boas
e seguaci hanno assunto un approccio olistico assumendo forme di diffusionismo estremo, come se
lo “sciamanesimo” fosse un patrimonio immateriale che passa da comunità a comunità. Boas era uno
studioso di fenomeni osservati sul territorio nord-americano che giunge a giustificare la presenza dello
“sciamanesimo” in Alaska, Canada e Stati Uniti a seguito della sua diffusione dalla madrepatria scia-
manica (all’epoca ancora si guardava alla Siberia come zona nucleare), non solo attraverso movimenti
di individui, ma anche di trasmissioni di tradizioni sacre. Una diaspora che porta ad un’ampia varietà
di atteggiamenti religiosi in quelle terre che appaiono difficili da catalogare e da definire. Si giustifica
così la genericità delle sue definizioni che mostrano la tendenza a trovare riparo sotto una sorta di “tetto
sciamanico” che copre e comprende una realtà troppo poliedrica per essere adeguatamente spiegata.
Possiamo citare brevemente altre impostazioni contemporanee a Boas. Sulla scia dei sociologi Emile
Durkheim (1858-1917) e Marcel Mauss (1872-1950), che consideravano la magia come immorale e
malvagia mentre la religione veniva vista come un fattore di coesione e solidarietà sociale, lasciare un
atteggiamento simbolico in bilico tra magia e religione significa relegarlo in un limbo tra falsità e la
verità, fra male e bene, tra primitivo ed evoluto. Questa sorta di dualismo, ancora dominante nel pa-
radigma moderno, ha affiancato l’impostazione evoluzionista della prima metà del Novecento. Si pensi
a studiosi come Wilhelm Schmidt (1868-1954) e James Frazer (1854-1941), che ritenevano lo “sciama-
nesimo” uno stadio primitivo della religione, che almeno nelle società avanzate si era trasformato in
monoteismo. Nel pensiero di W. Schmidt non si trattava di una trasformazione bensì di un ritorno al
monoteismo, forma originaria del concepimento divino, che aveva subito una successiva disgregazione
in svariate divinità. Di pensiero opposto era Raffaele Pettazzoni (1883-1959) che vedeva un originario
politeismo con numerose forme divine, tra le quali, per agonismo, ne emerge una sola scaturendo così
in monoteismo. Ovviamente, le posizioni evoluzioniste del secolo scorso sono, per così dire, meno
drastiche di quelle fineottocentesche, ma ancora non pienamente convincenti. Si guarda allo “sciama-
nesimo” come una forma primordiale di religione, una sorta di istinto religioso che permeava l’uomo
preistorico. E questa lettura apre una nuova questione: l’uomo preistorico rappresenta o no il ground
zero dell’attuale umanità? Seguendo questa prospettiva dovremmo considerare la preistoria come un
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lunghissimo stadio della nostra storia sociale e culturale durante la quale si sono evoluti diversi modi
di vita simbolica e produttiva, in un’ottica di progressivo miglioramento. In altre parole al grado zero
sarebbe seguito poi un grado uno e poi due e così via sino al culmine del percorso che seguirebbe,
secondo questa impostazione, una linea retta ascendente. In realtà nella storia dell’uomo ogni stadio
appare un fenomeno a sé, punto di partenza per uno stadio successivo, ma in ogni stadio l’uomo vive
la possibilità di utilizzare le esperienze dei suoi predecessori, senza dover ricominciare da zero. Questo
è il paradigma più semplice della conoscenza come motore dell’evoluzione culturale: in ogni stadio
l’uomo si costruisce un bagaglio esperienziale che comprende anche scoperte e invenzioni che sono
state e sono condivise e che costituiscono il sapere globale. Ma non tutto si trasmette verso l’eternità: la
mente cosciente seleziona, adatta, porta a modificazioni tecniche e comportamentali, in un processo di
valutazione, momento per momento, delle risposte più idonee alla sopravvivenza. La storia evolutiva è
la storia della coscienza vigile, che vaglia i contributi e le conoscenze che altri uomini hanno portato nel
passato e che altri ancora portano. Infatti, nella storia dell’uomo la coscienza, così come il sapere, non
è un mero e statico evento biologico ma un patrimonio trasmissibile e la nostra specie sapiens, l’unica
sopravvissuta nel percorso di più di due milioni di anni del genere Homo, possiede saperi e conoscenze
(cum-scientia) ereditati dalle specie precedenti e nel processo di trasmissione delle conoscenze ogni sa-
pere acquisito diviene permanente. Ne consegue che la preistoria non è l’epoca che precede la “storia”
vera e propria, non è l’epoca primordiale nella quale l’uomo non ha avuto organizzazione sociale né
vita simbolica, ma rappresenta il più lungo segmento storico della storia dell’umanità durante il quale
trasformazioni biologiche e culturali hanno portato ad un processo di selezione molto articolato alla
fine del quale è rimasta, e non per un programma finalistico predefinito ma per una serie di casualità
e adattamenti, la nostra specie sapiens e il suo bagaglio di tecnologie e spiritualità, di psiche e di teche.
All’interno di questo bagaglio il simbolismo acquista, rispetto alle specie precedenti, una consistenza
molto maggiore e il mondo spirituale, che già col Neanderthal comprendeva la memoria dei defunti,
si arricchisce del fenomeno figurativo, di comportamenti simbolici, di manufatti simbolici, dando agli
stati dell’anima uno spessore prima sconosciuto (Martini 2008).
É il momento di una citazione recente:
“Tutto questo rende più che verosimile l’ ipotesi secondo cui lo sciamanismo, nella sua forma elementare,
sarebbe un fenomeno antichissimo, che potremmo far risalire alle comunità – squisitamente cacciatrici! –
del Paleolitico superiore, protrattosi in Asia settentrionale fino al 4000 a.C. circa. È probabile che siffatte
tradizioni si siano conservate in certa misura inalterate proprio in quest’area del mondo, come anche fra
gli Eschimesi dell’America settentrionale, tanto più che nell’estremo nord e nell’Artide hanno continuato a
regnare a lungo presupposti abbastanza simili condizioni di vita polari e subpolari, prevalenza della caccia
di grandi mammiferi terrestri e marini). L’eccezionale rilevanza che generalmente viene riconosciuta allo
sciamanesimo siberiano sarebbe pertanto più che legittima. Quanto detto non esclude ovviamente che col
passare del tempo anche in Siberia si siano avuti processi di differenziazione e si siano sviluppate forme
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particolari e specificità locali” (Müller 2001, pag. 115-116).
In questa citazione di Müller, che risale appena ad un decennio orsono, le parole sono pesanti come
macigni. Prima di tutto, “forma elementare” è semplicemente un sinonimo di primitivo. In campo
religioso non esistono le forme elementari, esattamente come in altri settori: un architetto non de-
finirebbe mai il tepee come una forma elementare di casa, ma una dimora relativa ad una cultura
specifica. Inoltre se avvalliamo la considerazione che un’esperienza religiosa possa essere correlata a
specifiche condizioni di vita e a regimi di sussistenza, sarebbe come dire che il Cristianesimo è una
“forma elementare” di religione delle comunità capitaliste. In realtà questa posizione è ispirata ad un
determinismo ambientale che produrrebbe il mantenimento e il perpetuarsi, escluse piccole specificità,
della forma originaria.
Paradossalmente questo punto di partenza è simile a quello di Mircea Eliade, non propriamente un
seguace di Darwin, ma ovviamente sono le prospettive ad essere diverse. In altre parole, se Schmidt e
Frazer vedono nell’attuale religione un’esplicita evoluzione e un conseguente miglioramento da confes-
sioni precedenti, lo studioso rumeno, pur essendo cristiano, guarda ad essa come ad una zavorra storica
che opprime la verità, ovvero, l’esperienza sciamanica primordiale. Lasciamo tuttavia Eliade, sul quale
torneremo in seguito.
Nel panorama italiano, specialmente romano, all’inizio del Novecento prende avvio una metodologia
storico-religiosa (culminerà nell’istituzione, nel 1924, della prima Cattedra di Storia delle religioni,
della quale il primo titolare fu Raffaele Pettazzoni), ma lo “sciamanesimo” non ricopriva ancora un
ruolo rilevante in questi studi in quanto era ritenuto un fenomeno a carattere locale, siberiano, e mate-
ria di studio per etnologi. Tuttavia lo “sciamanesimo” andava acquistando il ruolo di tematica specifica
negli studi antropologici. Pettazzoni, fin dai sui primi scritti sull’argomento, fu consapevole della ten-
denza alla creazione di una nuova categoria interpretativa, con il relativo rischio del suo inserimento
in una sequenza evolutiva religiosa, che avrebbe dato a quel fenomeno una patente di universalità,
rendendolo oggetto di studio, come pratica decontestualizzata e metastorica (Botta 2010). In una delle
sue più celebri opere (Pettazzoni 1957) egli ribadisce la sua idea del politeismo originario, contro l’idea
del monoteismo primordiale di Schmidt, che vedeva una prima ed unica divinità buona e giusta. Per
avvalorare la sua tesi si serve anche di immagini tratte dall’arte paleolitica, in particolar modo, pre-
senta l’immagine del noto essere composito della Grotta dei Trois-Frères, in Ariège, indicandolo come
“Signore degli animali”.
Anche il successore di Pettazzoni alla cattedra romana, Angelo Brelich, non si occupò dello “sciama-
nesimo” in maniera monografica, ma solo marginalmente e quando oramai Eliade ed il suo pensiero
stavano occupando una posizione di primo piano in tali studi. Brelich finì così per esserne influenzato
(Brelich 1966).
Restando in ambito italiano, Ernesto de Martino muoverà pesanti critiche al pensiero di Eliade, rite-
nendo lo studioso rumeno troppo partecipe dell’oggetto indagato:
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Il metodo seguito da Mircea Eliade nella sua ricerca sullo sciamanesimo è ancora quello della teologia storica
del Nuovo Testamento alla ricerca di una essenza del Cristianesimo… di fronte al “miracolo” della prima
“elevatissima” forma di vita religiosa del genere umano, raggiunta con il metodo sottrattivo… non sa trova-
re altra causa proporzionata che Dio, uscendo così anche formalmente dalla storia, Mircea Eliade una volta
raggiunta con lo stesso metodo, l’essenza dello sciamanesimo, compie anche lui il salto nella metastoria: … ,
va ancora oltre nel processo di riduzione, e postula un’esperienza estatica “ in sé”, fenomeno “originario” non
storico, del genere umano; un’esperienza che sarebbe costitutiva della condizione umana, e che apparterrebbe
per conseguenza “all’umanità arcaica nella sua totalità” (Botta 2010).
Già in questo breve testo si comprende come il pensiero eliadiano sia stato un punto di riferimento
anche per chi affronta con spirito critico il testo sullo “sciamanesimo”, che si configura allora, e se vo-
gliamo anche oggi, come motore e perno di tutte le successive trattazioni, nella contrapposizione tra
storicismo e fenomenologia.
La fine dell’Ottocento vide il sorgere di nuovi studi ispirati a basi innovative e a impostazioni legate
alle osservazioni e alle riflessioni di ricercatori, come Bogoraz e Ioxelson, catapultati in terra di Siberia
come esuli politici. Altri studiosi seguirono però la loro scia: Vitaševskij, Popov, Seroševskij, Pripuzov,
Troščanskij (per gli iacuti); Šimkevič, Lopatin, Širokogorov, Lipskij (per i tungusi); Katanov e Anoxin
(per i turchi sud-siberiani); Anučin (per gli osiachi). Di grande rilevanza per gli studi di quest’area fu
l’uscita di Aboriginal Siberia della studiosa polacca Czaplicka, nel 1914 (Marazzi, a cura di, 2009). Tra
questi etnologi ed antropologi, così importante per l’opera di Eliade, ha certamente un rilievo S. M.
Širokogorov (1887-1939), da cui Eliade medesimo attinse moltissimo, ma rielaborandone, come vedre-
mo, i concetti. L’antropologo russo, a differenza di molti altri, propendeva verso l’idea di un’origine
recente dello “sciamanesimo”, basandosi sia sull’etimologia che sui dati etnografici. Širokogorov consi-
derava il fenomeno in questione un risultato ottenuto dalla diffusione del Buddismo in Asia centrale,
vedendo nel Lamaismo tibetano-mongolo l’anello intermedio tra i due estremi. Il modello diffusio-
nista entra in contraddizione con quanto si è ritenuto in precedenza, visto che considera determinate
esperienze come il frutto di una riduzione di esperienze precedenti e non concedendo autonomia, per
esempio, allo “sciamanesimo”. A questo proposito sembra perfettamente calzante lo spunto sollevato
dall’antropologo Pino Schirripa, quando fa riferimento al filosofo Wittgenstein:
Wittgenstein usa l’esempio della categoria “gioco”, che sembra potersi applicare parimenti al mio discorso.
Noi accomuniamo sotto la categoria “gioco” cose che non hanno molto in comune, ad esempio il calcio, un
puzzle e il nascondino. Il filosofo austriaco nota che questi possono stare sotto la stessa categoria perché ogni
elemento che noi riuniamo sotto la categoria “gioco” può condividere alcuni tratti con un altro elemento, il
quale avrà una condivisione parziale con un terzo alla fine può accadere che tra il primo elemento e l’ultimo
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non ci sia niente in comune. Ciò che rende possibile che stiano nella stessa categoria è comunque il fatto che
condividano dei tratti con quelli che potremmo chiamare anelli intermedi (Schirripa 2010).
Mutuando questa impostazione da “gioco” a “sciamanesimo”, il concetto non cambia, anzi, si am-
plifica. Questo lo si avverte sia per il fenomeno ormai universalizzato dello “sciamanesimo” sia al suo
interno negli “sciamanesimi” particolari, da considerarsi singolarmente, come categorie politetiche,
con pari dignità rispetto alle esperienze a noi più note e più diffuse.
Dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917, per questioni politico-ideologiche gli studi russi virano im-
provvisamente verso un diverso orizzonte. Gli “sciamani”, che già dovettero subire le persecuzioni cri-
stiana, scontarono anche quella sovietica. Nel migliore dei casi vi era un vero e proprio riciclo del loro
“essere sciamano” con la forzata acquisizione del ruolo di attore che nei teatri durante pubbliche rap-
presentazioni trasformava in finzione quelle che erano le sue reali attitudini e le sua profonda capacità
di fare da tramite col mondo reale. L’alternativa alla finzione era il gulag. Molti “sciamani” decisero di
attuare un gesto di grande valore simbolico, consegnando il loro tamburo alla sede del soviet di villag-
gio. La repressione fu talmente pesante che si fecero anche scritti propagandistici contro di essi; ne è un
esempio Šamanstvo i bor’ba s nim, ovvero “Lo sciamanesimo e la lotta contro di esso”, di I. M. Suslov,
dove gli “sciamani” sono visti come nemici del popolo e del socialismo, tanto da ritenere necessaria una
formazione antireligiosa e antisciamanica per le popolazioni siberiane.
Gli etnologi dell’epoca, il cui maggior esponente fu S. A. Tokarev (1899-1985), tendevano a conside-
rare lo “sciamanesimo” come un residuo di superstizione animista, nato agli albori dell’ordinamento
patriarcale basato sul clan, e lo “sciamano” come un individuo psicologicamente labile, che nonostante
ciò era riuscito ad accentrare su di sè i poteri conservativi della società con il conseguente accumulo
di poteri personali: la prima traccia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo (Müller 2001). Oltre al
dramma umano è innegabile il danno culturale che si è verificato in quel periodo e in quel contesto,
con una enorme perdita di rituali, preghiere, invocazioni e canti che non sono sopravvissuti nella me-
moria storica post-comunista.
“Sciamanesimo” e psicopatologie
Andando a ritroso nella storia degli studi sullo “sciamanesimo”, abbiamo notato che il fenomeno è
stato oggetto di studi sui fenomeni religiosi e quindi, anche di conseguenza, ha interessato etnologi
ed antropologi. Alla fine dell’Ottocento l’incremento degli studi afferenti alle discipline psicologiche
e psichiatriche provocò uno slittamento del campo di ricerca del fenomeno “sciamanico” verso queste
discipline, sottraendo la riflessione all’ambito delle scienze umane. Tale orientamento, a cui dedichia-
mo questo breve paragrafo, ebbe termine con l’uscita degli studi di Mircea Eliade, i quali spostarono
prepotentemente il modello interpretativo precedente portando ad un chiaro giro di boa e fornendo
una chiave di lettura che, anche con il superamento post-Eliade, resta un contributo fondamentale per
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creare le basi degli studi più recenti. “Sciamanesimo” e psicopatologie, dunque.
Nel periodo compreso tra la fine del XIX secolo e il termine del secondo conflitto mondiale, un ipote-
tico manifesto degli studi “sciamanici” sarebbe stato presentato con questi concetti di sintesi (Müller
2001 pag. 101): «Lo sciamanesimo è una forma religiosa creata da uomini estremamente instabili dal punto
di vista nervoso» (Bogoraz) oppure «...in genere le persone che hanno a che fare, in questa o in quella misu-
ra, con la pratica sciamanica non sono del tutto normali o sono francamente malate di mente.» (Snessarev).
Una domanda sorge spontanea : come mai una tale concentrazione di individui soggetti a psicopato-
logie nell’area siberiana? Forse Bogoraz e Czaplicka risponderebbero che ciò è causato dalla cosiddetta
isteria artica, patologia da essi coniata e sostenuta. Gli attacchi isterici che avrebbero colpito uno “scia-
mano” sarebbero stati causati dalle condizioni ambientali: il clima perennemente rigido, i paesaggi
monotoni e monocromi e una carenza vitaminica per difetti alimentari avrebbero causato il propagarsi
della “sindrome di Menerik”, che flagellava tali zone. Tale sindrome si manifesterebbe con crisi di pani-
co o simili a quelle epilettiche, crisi di pianto, ecolalia (ripetizione di parole e frasi udite) ed ecoprassia
(imitazione ossessiva di posizioni e movimenti visti) (Müller 2001). Tutto ciò sarebbe stato travisato
dagli indigeni, come manifestazione empirica di una possessione o di un out of body. Fautore di questa
teoria è lo studioso svedese Åke Joel Ohlmarks (1911-1984), che nel 1939 con il suo Studien zum Pro-
blem des Schamanismus abbraccia pienamente la tesi “isterica”, considerando lo “sciamanesimo” come
una reazione di sopravvivenza:
Essi sarebbero periti se non si fossero rifugiati nella reazione di natura isterica. Questa costituiva una sor-
ta di ultimum refugium che consentiva di sopravvivere in condizioni insopportabili. […] Questa nuova
creatura, lo sciamanismo, permise il naturale sviluppo della labilità e della sensibilità nervose di natura
isterica […] in periodi di miseria e di calamità o in casi di gravi malattie, gli impauriti membri della tribù
trovavano conforto e la certezza di un imminente miglioramento (Müller 2001, pag. 102).
Ohlmarks giustificava la presenza del fenomeno anche in aree ben lontane dall’estremo Nord con la
tesi del diffusionismo. In queste aree non soggette alla sindrome di Menerik lo “sciamanesimo” non
sarebbe più dovuto a fattori psichici, ma volontari. La condizione estatica sarebbe qui raggiunta per
mezzi artificiali (droghe, alcool, suoni e danze) o addirittura simulata apertamente.
Le tesi migratorie sono già state discusse e criticate, ma in connessione con quelle psicologiche, assumo-
no una prospettiva diversa. Non si tratta più solamente di una diffusione dell’istinto religioso naturale
dell’Homo sapiens (che non sarebbe in questo caso una diffusione, ma un affioramento) ma addirittura
quella di canoni codificati dalle originarie patologie psichiche, che a questo punto, avrebbero (esse e
solamente esse) una vera e propria patria di origine. Parlando a tutti gli effetti di malattie, il modello
diventa quello epidemiologico.
Molti studiosi che abbracciavano queste tesi notavano somiglianze (e in effetti non si può negare una
certa omomorfia) tra una seduta sciamanica e il decorso di una crisi epilettica o con il quadro clinico
di uno schizofrenico e probabilmente le similitudini sono state enfatizzate dall’entusiasmo di applicare
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interpretazioni nuove ed emergenti come quelle legate alla lettura psicologica dell’evento oppure, come
nel caso di Bogoraz, da una visione ideologica postrivoluzionaria dominante in Unione Sovietica.
Tale impostazione su basi mediche conviveva con altre, secondo le quali non si aveva a che fare con una
religione o un’espressione di religiosità e di conseguenza lo “sciamano” non poteva certo essere conside-
rato né una sorta di “sacerdote” né un “operatore del sacro” sensu lato, bensì, come riteneva l’etnologo
Arnold van Gennep (1873-1957) un individuo che ricopre un ruolo religioso e sociale contraddistinto
da un forte grado di personalizzazione, che esula dalla categoria “religione” ma che costituisce, in una
visione sociale del rito, la base formativa e il cemento della struttura della comunità.
Tuttavia l’approccio psicopatologico continuava ad avere una certa fortuna, anche se i fautori, nel dopo
Eliade, si contano sulle dita di una mano; tra di essi vi è l’etnopsicologo francese George Devereux
(1908-1985) il quale, pur conoscendo certamente gli scritti dello studioso rumeno, afferma che «non
esisterebbero né ragioni né giustificazioni per non considerare gli sciamani come veri nevrotici, addirittura
come psicotici» (Müller 2001, pag. 107).
In archeologia preistorica questi presupposti non sono chiaramente verificabili, a disposizione abbiamo
solamente le testimonianze materiali (arte parietale e mobiliare) che naturalmente non forniscono il
quadro clinico dei paleolitici. Ovviamente le tesi psicopatologiche e quelle sull’origine preistorica dello
“sciamanesimo” non possono trovare nessuna coincidenza.
Dove e quando potrebbero essere riscontrabili le condizioni ambientali che richiede l’isteria artica? La
prima risposta sarebbe sicuramente collegata alle glaciazioni, in particolare al Pleniglaciale würmiano,
nel cui arco temporale di durata si verificarono situazioni climatiche estreme, in particolare nelle aree
montane e nelle latitudini nordiche. Da un lato ciò avrebbe dovuto produrre la diffusione massiccia
dell’arte rupestre a tutte le latitudini, se essa fosse ovviamente collegata allo “sciamanesimo” come fatto
patologico, dall’altro con il venir meno delle rigide condizioni ambientali di tipo glaciale a partire da
circa 18.000 anni fa e con il progressivo miglioramento climatico del Tardoglaciale (18-10.000 anni
orsono) dovremmo registrare la cessazione di tali espressioni artistico-religiose.
Prima di sintetizzare il pensiero eliadiano sullo “sciamanesimo” è opportuno far presente quanto sia
arduo tentare una simile sintesi. Le idee dello storico delle religioni rumeno sono state in perenne evo-
luzione e mutamento, in quanto egli, con la sua eccezionale curiosità intellettuale che ha avvicinato la
sua poliedrica struttura mentale a diversi campi della conoscenza e della scienza, è sempre stato per-
meabile all’evoluzione degli studi, delle ricerche ed alla codifica di nuove teorie. Questo non significa
rinnegare precedenti posizioni ma, al contrario, non rifiutare e confrontarsi anche con posizioni discor-
danti dalle proprie, per ampliare il campo di discussione. Ne è un esempio palese l’intero paragrafo del
suo Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, dedicato a confutare le teorie psicopatologiche di Åke Joel
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Ohlmarks, non cancellandole bensì ampliandone la visuale e la prospettiva interpretativa. Eliade non
nega la presenza di soggetti patologici (ovviamente i parametri per distinguere i malati dai sani sono
ispirati alla cultura occidentale), ma li include in una complessa varietà del fenomeno
“...il malato mentale ci si palesa come mistico mancato o, ancor meglio, come la scimmiottatura di un mi-
stico. La sua esperienza è priva di contenuto religioso anche se in apparenza rassomiglia ad una esperienza
religiosa, allo stesso modo che un atto di autoerotismo può produrre lo stesso risultato dell’atto sessuale pro-
priamente detto (l’emissione del seme) pur non essendo per questo che una imitazione scimmiesca data la
mancanza della presenza concreta dell’altra parte” (Eliade 1974, pag. 45)
sostenendo oltretutto che lo “sciamano” siberiano si caratterizza per la memoria e la capacità di auto-
dominio, che in lui sono superiori alla media.
La critica principale che viene rivolta ad Eliade, di essere un seguace della scuola fenomenologica, è una
critica nel metodo non tanto nel merito. I fenomenologi, come gli storicisti, considerano la religione un
dato storico che non esiste in sé ma che è generato da eventi esperienziali e quindi, in estrema sintesi,
se eliminiamo le zavorre delle esperienze che nascondono l’assoluto, si porta alla luce l’essenza del sacro:
esso solo si dà e si manifesta in maniera del tutto involontaria e soggettiva. Quindi del sacro si può fare
solo esperienza. Eliade (1974, pag. 15) aggiunge:
«tutto ciò che è storia è sempre una caduta del sacro, una sua limitazione e diminuzione».
In questa posizione si coglie una prima criticità, una sorta di atto fideistico in una naturale predispo-
sizione originaria dell’umanità ad entrare in contatto con il divino (Homo religiosus), capacità che nel
lungo percorso dei millenni della nostra storia si sarebbe perduta. Eliade guarda alla storia come ad
una scala da percorrere a ritroso, da cui probabilmente è impossibile scendere per arrivare a terra, ma
almeno è possibile arrivare all’ultimo gradino, che lo storico delle religioni individua nella preistoria
dell’uomo. Infatti scrive:
“... non v’ è possibilità alcuna di rinvenire ove che sia nel mondo e nella storia un fenomeno religioso puro e
perfettamente originario. I documenti paletnologici e preistorici di cui disponiamo non vanno altre il pale-
olitico e nulla ci autorizza a credere che durante le centinaia di migliaia di anni che han preceduto la più
antica età della pietra l’umanità non abbia conosciuto una vita religiosa così intensa e varia quanto quella
delle epoche successive” (Eliade 1974, pag. 29).
Tale posizione aprirebbe una serie di riflessioni, di domande e di congetture che metterebbero a dura
prova il confronto pluridisciplinare di archeologi, antropologi fisici, etologi e genetisti. Non è questa
le sede né l’occasione, qui ci interessa maggiormente il ruolo che in Eliade viene attribuito alle culture
preistoriche e in particolare agli atteggiamenti simbolici dei cacciatori-raccoglitori e al loro rapporto col
sacro e col rito. Nella sua visione, gli uomini del Paleolitico non rappresentano il ground zero dell’uma-
nità, essi, come noi, sono pienamente inseriti in un processo storico continuo, con la differenza, rispet-
to ai contemporanei, di avere un accumulo esperienziale meno pesante. Studiando l’uomo paleolitico,
quindi, non si arriverà mai all’essenza dell’esperienza sacrale ma a questa limitazione ontologica farebbe
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riscontro una diminuzione del grado di approssimazione nell’interpretazione. Ne deriva, portando alle
estreme conseguenze il pensiero di Eliade, che i cacciatori-raccoglitori del Pleistocene facevano parte
di un’umanità già religiosamente decaduta e che i loro operatori del sacro potevano non essere poi così
diversi degli “sciamani” contemporanei, loro discendenti (anche un sacerdote cattolico o un monaco
buddista lo sarebbero in questa visione). Entrambi sono costretti a relazionarsi con un deus otiosus, ora-
mai non più in diretto contatto con tutta l’umanità, come accadeva in un’età mitica dove, al contrario,
vi era un deus negotiosus, occupato a tempo pieno ad interagire con l’umanità. In questo scenario lo
“sciamano” altro non è se non un individuo che ha mantenuto capacità arcaiche di intermediazione
con il divino, dopo che all’intera umanità è stato precluso l’accesso diretto al soprannaturale. Eliade
esprime questo concetto molto chiaramente:
“Abbiamo parlato dell’esperienza estatica come di un fenomeno originario perché non v’ è ragione alcuna
per considerarla il prodotto di un certo momento storico, cioè un fenomeno provocato da una data forma di
civiltà: noi piuttosto incliniamo a considerarla come costitutiva della condizione umana, conosciuta anche
dall’umanità arcaica nella sua totalità. Ciò che può essersi modificato e mutato con le varie forme di cultura
e di religione è solo l’ interpretazione e la valorizzazione dell’esperienza estatica” (Eliade 1974, pag. 534).
Nella grotta di Lascaux si può osservare, secondo Eliade ma anche secondo molti altri, un’evidenza
archeologica che testimonia rituali sciamanici simili a quelli rintracciabili in epoca moderna. In questa
grotta vi è effettivamente una delle raffigurazioni più emblematiche in rapporto al tema che stiamo
trattando.
Secondo i sostenitori dello “sciamanesimo” come forma espressiva della religiosità preistorica, questa
scena raffigura uno “sciamano” in stato di trance, munito di maschera aviforme, mentre affronta un
bisonte che appare ferito e con le viscere che fuoriescono dal ventre; un bastone che reca all’estremità
l’immagine di un uccello è a terra. Tutto ciò troverebbe riscontri etnografici. Molto spesso il bastone,
sia tra gli “sciamani” buriati che tra quelli tungusi, è usato come cavalcatura per l’ascensione celeste o
nella discesa agli inferi e vi sono riportate le effigi dell’animale il cui spirito è tutelare per lo “sciamano”.
In questo caso maschera e raffigurazione zoomorfa sul bastone rimanderebbero allo “spirito” uccello.
In altri casi, come quelli recenti siberiani, si possono trovare anche renne e cavalli. Eliade vede in quelle
società paleolitiche un rapporto con la sfera animale, ormai perduto:
“...Infine bisogna tener conto della solidarietà mistica tra l’uomo e l’animale che costituisce una nota do-
minante della religione dei cacciatori primordiali. In ragione di questa solidarietà, certi esseri umani son
capaci di trasformarsi in animali, di comprendere la loro lingua o di partecipare della loro prescienza e dei
loro poteri occulti. Ogni qual volta uno sciamano giunge a partecipare del modo d’essere degli animali, egli
ristabilisce, in un certo qual modo, la situazione che esisteva in illo tempore, nei tempi mitici, quando la
frattura tra l’uomo e il mondo animale non s’era ancora compiuta” (Eliade 1974, pag. 116).
Un’osservazione, questa, che potrebbe aprire una serie incontrollabile di speculazioni derivate da diversi
aspetti disciplinari; resta in ogni caso un assunto indiscutibile, vale a dire che l’uomo ha stabilito di
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essere altro rispetto all’animale, soprattutto sulla base del parametro relativo all’esistenza di una co-
scienza, la cui definizione appare vaga e tutto sommato aleatoria. Stupisce tuttavia come questa idea
abbia travalicato anche pensieri differenti: da Hegel a Kojève, fino ad Agamben:
“… l’uomo non è, infatti, una specie biologicamente definita né una sostanza data una volta per tutte: è
piuttosto, un campo di tensioni dialettiche… L’uomo esiste storicamente in questa tensione.. (è in tal senso
che Kojève può scrivere che «l’uomo è una malattia mortale dell’animale » (Agamben 2002).
in una visione dell’uomo come un animale alla continua ricerca della propria natura originaria, del
contatto con il mondo animale.
Riprendiamo però il tema dello “sciamanesimo” stricto sensu, ovvero quello siberiano: Eliade concorda
con Širokogorov sulle influenze buddiste, ma anche indiane, a differenza del ricercatore russo, tuttavia,
non abbracciando la tesi diffusionista, non riteneva lo “sciamanesimo” siberiano una forma degene-
rativa del buddismo, in questo caso più strettamente collegato al lamaismo mongolo-tibetano, e non
credeva altresì nella nascita recente dello “sciamanesimo”. Eliade non esplicita mai, e nemmeno sugge-
risce, l’ipotesi che l’India possa essere stata la zona nucleare della diffusione degli attuali sistemi, ma tra
le righe traspare sempre questa possibilità. Innegabilmente l’India ricopre nelle riflessioni eliadiane un
ruolo centrale, sia a livello quantitativo di produzione letteraria sia a livello qualitativo: il sub-continen-
te indiano come luogo dove trovano risposta molti fondamentali interrogativi. Leonardo Ambasciano
(2010) lo definisce (anche se per altre motivazioni) il “peccato” del pansanscritismo ed effettivamente
è sotto gli occhi di tutti l’empatia che lo storico delle religioni ha con l’universo indiano, dovuta ad
un’influenza culturale presente in Romania, proprio negli anni della sua formazione. Sebbene alcuni
ritengano giustificabile definire Eliade eccessivamente emico, il suo contributo è stato fondamentale
per aprire la gabbia che confinava gli studi sciamanici in una sfera prettamente psicopatologica.
Una citazione di Sabbatucci ci aiuta ad entrare nel clima e nel pensiero che ispira le più recenti posizio-
ni sul tema in discorso (compreso quella di chi scrive):
“Se l’operazione fenomenologica può essere vista come oggettivazione della religione, la critica storica le si
contrappone come vanificazione dell’oggetto religioso. Vanificazione delle arbitrarie categorizzazioni con-
cernenti: la forma della religione (le note denominazioni in –ismo), la produzione mitico-rituale, la con-
cezioni di esseri o poteri extraumani, e via dicendo, fino ad arrivare alla stessa categoria del religioso che si
rivela forviante, o comunque inutile, per l’approccio a culture diverse dalla nostra, e nelle quali la diversità
si rivela anche, o soprattutto, per la mancanza di un “civico” da contrapporre al “religioso” (Sabbatucci
1991, pag. 127).
Anche se oramai fenomenologia e storicismo sono due binari morti, negli studi attuali non si riesce
completamente ad uscire da questo dualismo. I più recenti studi italiani sullo “sciamanesimo” trovano
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la loro espressione più interessante in pubblicazioni di ricercatori della scuola romana (Saggioro, a cura
di, 2010), ispirate a rigorose riflessioni, nelle quali tuttavia si coglie l’influenza dello storicismo di quella
scuola. Ma non è nostro intento procedere verso una disamina critica delle diverse posizioni, quanto
piuttosto introdurre il tema dello “sciamanesimo” nell’ottica dell’archeologia preistorica.
Nell’archeologia delle origini le più recenti riflessioni accademiche sullo “sciamanesimo” si collegano
alle diverse posizioni derivate dalla valutazione del significato che l’evoluzionismo darwiniano ha avuto
negli studi scientifici e storico-umanistici, vale a dire sono collegate alla riflessione su modi e tempi dei
processi evolutivi almeno negli ultimi sei milioni di anni. Il modello attualmente più condiviso tra an-
tropologi, archeologi ed ecologi è quello di una serie di stadi crono-culturali che, insieme, costruiscono
un percorso non unilineare di sviluppo, bensì una sequenza di stadi autonomi nella quale ognuno
diviene l’antecedente culturale dello stadio successivo, con acquisizioni, conoscenze e comportamenti
destinati a proseguire se utili ed altri, non efficaci, che si perdono per strada. In questa visione darwi-
niana dello sviluppo dei saperi materiali e immateriali, il tema dello “sciamanesimo” si pone come un
evento simbolico che non fa parte del patrimonio biologico del genere Homo ma compare sulla scena
dell’evoluzione in un preciso momento della nostra storia più antica.
A questo punto, prima di affrontare il tema principale di questo studio, occorre che il lettore si lasci
guidare in una digressione sull’origine della coscienza e sulla coscienza delle origini, che solo apparen-
temente sembra portarci fuori strada.
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2
LA MENTE DEI PROGENITORI
E L’ORIGINE DELLA COSCIENZA
Lo sviluppo raggiunto dalle neuroscienze, dalle scienze cognitive e dalle innovazioni tecniche ha risvegliato
l’interesse per il tema “coscienza”. La definizione di funzione cosciente è oggetto di un lungo e continuo
dibattito, in quanto il termine coscienza non indica un fenomeno unitario ma diverse nozioni e stati qualita-
tivi –i qualia– (“qualcosa di cui conosciamo il significato sino al momento in cui qualcuno ci chiede di definirla”
- William James) e, per dirla con le parole di Michele di Francesco (2000) a cui rimandiamo per un’ampia
esposizione delle diverse posizioni filosofiche in merito all’indagine sulla dimensione più soggettiva (si veda
anche Desideri 1998), la coscienza è qualcosa di familiare che improvvisamente ci pare misteriosa quando
la proiettiamo sui modelli fisici della realtà. Nella biologia della conoscenza ancora dobbiamo attendere che
gli studi mostrino come il cervello riesca a costruire configurazioni neurali relative all’organismo, al mondo
circostante e alla relazione tra di loro e inoltre manca una teoria della coscienza basata sull’evoluzione che
contenga un riferimento alla natura della relazione tra coscienza e corpo e alle trasformazioni che tale con-
nessione ha avuto nella storia del genere Homo. Questo è il momento storico nel quale ci poniamo ancora
domande, nonostante le già numerose risposte ottenute; quello che chiediamo alla scienza è di proporre dei
modelli neurali che spieghino la nascita della coscienza, come essa è emersa nel corso dell’evoluzione e quali
sono le relazioni con altri processi mentali (formazione di concetti, memoria, linguaggio, senso estetico).
Ciò che più attiene al campo archeologico riguarda la capacità, tipica degli umani, di avere una vita mentale
organizzata e la capacità di strutturare e coordinare i pensieri e le azioni. Coscienza quindi non tanto come
capacità di avere sensazioni e intenzioni, ma piuttosto autocoscienza, vale a dire consapevolezza delle proprie
capacità e strumento di conoscenza. Alla consapevolezza del proprio io si unisce il valore rappresentazionale
della coscienza, inteso come capacità dell’organismo di riconoscere il proprio ambiente. Di conseguenza la
coscienza va vista come strumento di costruzione di conoscenza (cum-scientia) in quanto si relaziona con le
cose del mondo. Ne deriva che la coscienza, intesa come consapevolezza che un organismo ha di sé stesso e
di ciò che lo circonda, non è solo una funzione biologica (sensi, pathos) ma è una svolta decisiva nella storia
evolutiva che ha dato avvio ad una serie di processi creativi: coscienza morale, religione, organizzazione so-
ciale, tecnologia, arte, scienza.
Nel dibattito sulle definizioni di coscienza è un presupposto importante la consapevolezza che le definizioni
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che oggi possiamo valutare derivano da una storia contingente e geograficamente delimitata della nostra
cultura, vale a dire la storia del pensiero Occidentale. La sua formazione passa attraverso tre stadi principali,
come ha evidenziato Umberto Galimberti (2004), visti come “una progressiva fissazione delle basi discorsive”:
-stadio del linguaggio simbolico, nel quale le espressioni sono mitico-religiose-rituali e i loro significati non
sono univoci ma fluttuanti e non ancorati al tempo e allo spazio. Ne deriva che gruppi umani diversi pos-
sono attribuire ai medesimi simboli significati diversi e che la globalizzazione di temi e linguaggi potrebbe
essere da noi interpretata in modo fallace, poiché la comunicazione usa strumenti comprensibili solo all’in-
terno della comunità che condivide i linguaggi medesimi. È lo stadio relativo all’archeologia preistorica.
-stadio del linguaggio filosofico, che ha origine con la nascita della filosofia e nello specifico con l’introdu-
zione del concetto di non contraddizione, al quale la nostra cultura occidentale deve il superamento delle
possibili variabilità dei significati nel linguaggio simbolico: una cosa è sé stessa e non può essere altro. L’a-
nalisi della nozione di coscienza è legata, come bene illustra Galimberti, alla nozione più generale di mente,
che nella storia del pensiero filosofico occidentale risente di una lunga tradizione speculativa: dallo stadio
omerico che ha alla base l’azione unificante del mìthos, a quella platonica dove il lògos determina le norme, a
quella aristotelica nella quale l’unità funzionale dell’organismo vivente è l’anima, sino a S. Agostino che nella
vita dell’individuo introduce l’interiorità.
-stadio del linguaggio scientifico, che chiude per ora il ciclo, nel quale la regola scientifica preclude le pos-
sibilità di dare diverse interpretazioni, togliendo al simbolo ogni valore e sostituendolo con il codice, la cui
validità –e di conseguenza la sua necessaria condivisione– si basa sulla ripetibilità e quindi sulla sua continua
verificabilità. La filosofia moderna con la nuova visione del mondo nata dalla scienza postgalileiana ha dato
un chiaro valore semantico al concetto di mente, ponendo la coscienza al suo interno: è quest’ultima che
assume il ruolo di essenza dell’io (Cartesio) e si pone al di fuori dell’ordine naturale delle cose: una cosa è sé
stessa e non altro.
Nel dibattito attuale vale la pena di riportare alcune definizioni, al fine di chiarire quale può essere l’im-
postazione concettuale di riferimento per chi si pone interrogativi sul simbolismo antico, nel nostro caso
preistorico, scegliendo, come stiamo facendo in questo momento e i lettore insieme a noi, il tema di arte
preistorica e sciamanesimo.
Edoardo Boncinelli (1999) distingue una coscienza fenomenica da una cognitiva. Quest’ultima, tipica dell’uo-
mo mentre l’altra si riferisce al mondo animale, definisce lo stato di consapevolezza individuale delle proprie
esperienze, il quale genera la capacità di vivere e rielaborare i propri stati psicologici interiori. La coscienza
cognitiva, che si integra nell’uomo con quella fenomenica, può essere spiegata oggettivamente mediante le
scienze cognitive.
Antonio R. Damasio (2000) distingue una coscienza nucleare da una coscienza estesa. La prima si configura
come fenomeno semplice, biologico, con un livello unico di organizzazione che non conosce il passato e non
si estende nel futuro (ora e qui), come istantaneo senso di sé. La coscienza estesa, invece, è un sistema com-
plesso e articolato che fornisce un senso elaborato del sé, un’identità individuale (io e gli altri) e che colloca
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la persona nello spazio e nel tempo. Si tratta di un’attitudine che si evolve nel corso della vita e che solo negli
umani raggiunge i suoi limiti superiori attraverso la memoria operativa, il ragionamento e il linguaggio.
Edelman (1991, 1993), che non prende sostanzialmente strade diverse da quelle appena citate, distingue una
coscienza primaria, intesa come stato di consapevolezza mentale del presente che non contempla né il passato
né il futuro, da una coscienza superiore, tipica dell’uomo, capace di riconoscere le proprie azioni e i propri sen-
timenti nella consapevolezza della propria identità personale nel presente, nel passato e nel futuro (il senso
del tempo è un evento conscio), cosciente di essere cosciente.
Questi pochi esempi, tratti da un ampio repertorio di proposte e di speculazioni, consentono di prendere
atto delle attuali tendenze interpretative principali, nella consapevolezza condivisa che esiste una grande
difficoltà di capire i meccanismi biologici della coscienza. Di contro, o meglio a compensazione, una lettura
psicologica della capacità di consapevolezza può dare un supporto, quando non contrasta con i dati scienti-
fici, nella comprensione delle dinamiche di interrelazione tra simboli e codici nella ricostruzione dei saperi.
Esiste tuttavia un elemento di incompatibilità tra capacità di spiegare (lògos) ciò che esiste e la dimensione
simbolica: il simbolo, compreso nella (e dalla) nostra capacità cosciente, mostra l’esistente, è l’esistente, ma
nello stesso tempo non esiste. Ecco che il simbolo, come ha espresso Carl G. Jung (1976 a, b), diventa sintesi
di due opposti e la coscienza comprende consapevolmente l’uno e l’altro. Da qui l’incompatibilità con la
definizione di una struttura di consapevolezza che sia solo coscienza di qualcosa che si possa spiegare, dimo-
strare, replicare. La forza demolitrice del lògos ha censurato e tentato di cancellare l’intuizione di Eraclito sul-
la capacità della mente di ricomporre i contrari, assunto che per nostra fortuna abbiamo ereditato attraverso
un prezioso lacerto della sua produzione (DK fr. B 54). La coscienza ha origine simbolica e nella sua capacità
di “mettere insieme” (syn-bàllein) ci consente di fare riferimento ad elementi che nelle leggi della logica sono
contrari. Fare riferimento, in quanto la coscienza può rimandare, pur senza contenerli, ad elementi che non
appaiono. In altre parole e in estrema sintesi, il cacciatore-raccoglitore paleolitico, che attraverso la sua com-
plessa struttura culturale è giunto a dare una visione metaforica del mondo e del suo rapporto con la realtà
(pitture parietali, oggetti simbolici, danze e comportamenti simbolici), si pone davanti al reale in un atteg-
giamento di disponibilità non solo verso ciò che è possibile in quanto esistente, ma anche verso ciò che non
appare. Coscienza e simbolo vanno visti, nella nostra struttura sapiens, come potenziali simbiotici in quanto
l’una ha la capacità di trascendere il sensibile e può comprendere ciò che è possibile, l’altro materializza il
non-essere rendendolo possibile.
Siamo quindi a prendere in considerazione la capacità simbolica della coscienza, la quale giustifica l’incom-
prensibile rimandando ad una dimensione non-logica che va oltre la realtà oggettiva del dato, dà corpo ad
un’alterità del reale rendendo visibile, concreta e materiale tale alterità attraverso gesti, figurazioni, parole
e suoni. Ma essa rimane contestualmente una realtà incompiuta, che non può essere sistematizzata dalla
coscienza razionale in quanto non è logica, non rientra in un ordine, è suscettibile di devianze e variazioni.
Questa capacità simbolica, per niente rassicurante se alla nostra coscienza chiediamo solo rielaborazioni di
ciò che realmente accade, supera e integra la definizione di consapevolezza del sé, di identità e di conoscenza.
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Parlare di coscienza nell’archeologia delle origini non significa affrontare il problema della “mente” primiti-
va, in quanto la coscienza è solo un ingrediente della mente e non rappresenta il massimo della sua comples-
sità. Tale apice è rappresentato dalle manifestazioni culturali, dall’arte all’etica, dalla tecnologia al consorzio
sociale (Martini 2008). Coscienza quindi come strumento di conoscenza ma soprattutto mezzo di sviluppo
di capacità mentali che riuniscano il sensibile e ciò che sensibile non è.
La documentazione archeologica consente di affermare che la coscienza compare ad un certo stadio dell’e-
voluzione, quando viene acquisita la capacità di raccontarsi, di raccontare e di trasmettere le dinamiche e le
relazioni tra l’organismo e il mondo circostante, quando la consapevolezza del proprio esistere nello spazio
e nel tempo porta ad una progressiva conoscenza di emozioni, di tecniche, di pratiche e di comportamenti
efficaci, capaci di superare l’esame selettivo della sopravvivenza generando una sempre più matura sapienza
ambientale. È indubbio che l’uomo non è l’unico animale cosciente ma è indubbio anche che l’uomo è l’uni-
co animale (forse con l’eccezione degli scimpanzé) che ha coscienza di sé. Inoltre è l’unico animale dotato di
un linguaggio articolato, in possesso di strumenti tecnici avanzati, capace di progettare e, mediante l’astra-
zione, di proiettarsi nel futuro, facendo tesoro della memoria e quindi del passato. Con la comparsa del gene-
re Homo abbiamo evidenze comportamentali che rientrano nella definizione di coscienza superiore, ma nella
storia dell’uomo non tutto ciò che definisce il nostro concetto di coscienza è simultaneo bensì è comparso, è
maturato, si è evoluto, si è trasformato lungo un arco temporale di due milioni e mezzo di anni. Il modello
che vogliamo suggerire è che l’evoluzione del genere Homo attraverso le diverse specie che lo compongono
vede una progressiva complicazione della coscienza e il suo arricchimento attraverso l’adozione e lo sviluppo
del linguaggio simbolico via via più articolato. La progressiva complicazione della coscienza può aver confe-
rito un progressivo adattamento evolutivo ponendo le basi per lo sviluppo di caratteristiche che migliorano
l’adattamento medesimo. L’uomo in oltre due milioni di anni ha triplicato il volume del suo cervello: dopo
uno stadio molto lungo che va dalle origini sino a 250.000 anni fa, lo sviluppo cerebrale del Neanderthal e
del sapiens avviene in tempi relativamente brevi se paragonati al tempo disteso, apparentemente immobile,
delle prime fasi della storia del nostro genere.
Con le prime specie del genere Homo viene superato lo stadio della coscienza percettiva, caratteristica della
cosiddetta coscienza primaria comune a molti animali e si avvia lo stadio della categorizzazione concettuale,
che sappiamo connessa alla corteccia frontale, temporale e parietale1. Essa si basa sulla relazione sinergica tra
1 Nell’emisfero sinistro la regione temporale superiore, la parietale inferiore e quella frontale superiore sono connesse
alla cosiddetta MNA (Minimal Neural Architecture) determinante gli atteggiamenti imitativi (Iacoboni 2005) deputata
al controllo dei comportamenti emulativi e imitativi che generano l’esperienza sociale e del sapere condiviso. Le zone
cerebrali connesse al linguaggio sono quella localizzata nel lobo frontale sinistro (area di Broca) per l’emissione di parole
e associazioni di parole (frasi), quella posta nel lobo temporale legata alla comprensione dei significati ed altre aree
parietali associative. La MNA è in pratica un sistema neurale composto da aree corticali connesse ai cosiddetti neuroni
a specchio, una classe di neuroni che determinano la comprensione nelle interrelazioni, attivati nel momento in cui
l’individuo compie un’azione oppure quando egli assiste alla medesima azione compiuta da un altro individuo. I neuroni
a specchio detti “eco”, per ora scoperti solo nell’uomo, sono connessi anche alla percezione uditiva e permettono di
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diverse funzioni: la percezione, la capacità concettuale, la memoria. Le specie di Homo più evolute raggiun-
gono lo stadio della coscienza semantica, alla quale si connette lo sviluppo maturo della fonologia.
In conclusione, appare evidente che la coscienza può essere posta alla base delle trasformazioni culturali, il
cui paradigma più semplice può essere individuato nella possibilità che l’uomo ha di utilizzare le esperienze
dei suoi predecessori, senza dover ricominciare da zero, inserendo nel proprio bagaglio scoperte e invenzioni
che sono state e sono condivise e che costituiscono il sapere globale. Ma non tutto si trasmette verso l’eter-
nità: la mente cosciente seleziona, adatta, porta a modificazioni tecniche e comportamentali, in un processo
di valutazione, momento per momento, delle risposte più idonee alla sopravvivenza. La storia evolutiva è
quindi la storia della coscienza vigile, che vaglia i contributi e le conoscenze che altri hanno portato e porta-
no in altri tempi e in altri luoghi. Nella storia dell’uomo la coscienza, così come il sapere, non è un mero e
statico evento biologico ma un patrimonio trasmissibile. La specie sapiens, l’unica sopravvissuta nel percorso
di più di due milioni di anni del genere Homo, possiede saperi ereditati dalle specie precedenti, un bagaglio
accumulato nel corso di un lungo processo di trasmissione delle conoscenze nel quale ogni sapere acquisito
diviene permanente.
Non possiamo in questa breve, e apparentemente fuorviante, digressione sulla coscienza delle origi-
ni accennare ad una riflessione sull’acquisizione matura del linguaggio articolato, considerato un even-
to cruciale nel cammino dell’evoluzione umana e strettamente connesso, negli studi di ispirazione co-
gnitivista dedicati all’evoluzione medesima, alla problematica e discussa connessione tra linguaggio e
pensiero e, nello specifico, alla lettura del pensiero come mera interiorizzazione dell’espressione verbale.
Coscienza e fonologia
Il linguaggio rappresenta senza dubbio uno dei motori che hanno determinato il successo della nostra specie
nel cammino delle trasformazioni evolutive, in relazione anche alla struttura cerebrale (Bastir et alii 2011), e
che hanno dato voce alla capacità di recepire e dare significato a stimoli sensoriali. Non è questa la sede per
illustrare nel dettaglio le varie teorie sull’origine del linguaggio, le quali hanno spesso, al di là di specifiche
diversità, un elemento condiviso, individuabile nell’ipotesi che un sistema di comunicazione non verbale ma
gestuale abbia stimolato lo sviluppo della capacità fonologica articolata. Una sintesi molto chiara e stimo-
lante si deve ad un’opera recente di Francesco Ferretti (2010), il quale chiarisce molto bene quanto e come
il linguaggio vada considerato un sistema molto complesso perché coinvolge diversi sistemi di elaborazione
e possiede una relazione di dipendenza diretta con gli stati mentali (pensiero) che esso riflette e quindi viene
ad esprimere.
Stephen J. Gould ed Elisabeth Vrba (1982) nel considerare le modalità con cui si genera l’efficacia di una
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struttura ai fini della sopravvivenza hanno introdotto in questa problematica il concetto di exaptation (ex-at-
tamento, una cooptazione funzionale di strutture selezionate per altri fini, vs. ad-attamento, per selezione
naturale, due vettori fortemente correlati tra loro nelle trasformazioni evolutive). L’exaptation consiste nella
capacità di riutilizzare una struttura già esistente, formatasi per una funzione diversa, in altre parole durante
l’evoluzione possono insorgere caratteri innovativi che non derivano da una selezione verso una determinata
funzione ma verso un’altra già esistente, il che significa in rapporto alla capacità del linguaggio che il nostro
organismo, sulla base di un codice comportamentale imitativo, sfrutta un sistema-precondizione di control-
lo di processi semantici e di ordinamento delle informazioni acquisite e una serie di capacità originariamente
legate non alla fonazione ma ad altro (comportamento motorio, visivo, uditivo, relazionale...)2. Vale a dire
che il sorgere delle capacità linguistiche potrebbe essere collegato ad uno sviluppo delle aree corticali legate
ai neuroni a specchio, dovuto ad un insieme variato di fattori (integrazione con l’ambiente, adattamento e
incremento dei vantaggi alimentari, sistemi di trasmissione di conoscenze) che hanno stimolato comporta-
menti di emulazione e di imitazione all’interno di processi dove la selezione naturale ha premiato i risultati
più efficaci. É opinione corrente (ma la storia dell’origine del linguaggio deve ancora essere scritta in modo
inconfutabile e oggi anche la genetica fornisce occasione di ipotesi sull’evoluzione del linguaggio umano)
che solo la specie sapiens, comparsa in Africa circa 200 mila anni orsono, abbia raggiunto una capacità vocale
articolata, maggiormente sviluppata rispetto a quella delle specie precedenti, che questa funzione di piena
comunicazione verbale sia il risultato di un lungo processo evolutivo che ha origine non solo con la comparsa
del genere Homo ma, milioni di anni prima, con le scimmie antropomorfe e con i loro progenitori, svilup-
patosi, in un’ottica darwiniana, attraverso processi di selezione e fasi di affermazione. Tuttavia va specificato
che è opinione abbastanza condivisa ritenere che la capacità di una completa articolazione del linguaggio
non sia patrimonio dei primi sapiens (200.000) ma che essa si attesti più recentemente (100-50.000 anni
fa). In altre parole il modello emergente su questo problema vede la comparsa in Africa di uomini anato-
micamente moderni ma non ancora dotati di tutte le attitudini comportamentali “moderne”, vale a dire
la complessità concettuale, le pratiche simboliche, l’articolazione del parlare. Non possiamo escludere che
proprio la comunicazione verbale possa essere stato il veicolo di trasmissione di saperi materiali e immateriali
che hanno condotto alla “modernità” della nostra specie. Contestualmente dobbiamo anche pensare che
l’evoluzione del linguaggio umano, le cui basi neuronali sono localizzate in aree di interconnessione di parti
differenti del cervello, sia stata favorita da progressive capacità di controllo motorio-gestuale e cognitive, che
hanno innescato processi di sperimentazione di comunicazione verbale, in forme sempre più complesse e
2 Ne è un chiaro esempio, ampiamente citato, l’origine dell’ala degli uccelli, la quale è divenuta dapprima “sistema”
deputato alla termoregolazione e poi una precondizione (exaptation) per la capacità di volare. Gould e Vrba in verità
rinominano, ampliando la riflessione, il neologismo coniato da Darwin pre-adaptation, indicativo della possibilità che le
funzioni di alcuni organi possano essere riciclate rispetto alla loro finalità iniziale anche verso finalità del tutto diverse,
in una sorta di cooptazione che non contrasta con le trasformazioni connesse alla selezione naturale. Gli organismi,
quindi, sarebbero in grado di riutilizzare strutture già formate e collaudate per funzioni nuove.
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con modalità sempre più veloci e istantanee, raggiungendo un sistema di fonazione efficace collegato a quella
particolare anatomia della cavità orale (bocca e orofaringe) e della gola (faringe, dietro la lingua e sopra la
laringe, dal palato alle corde vocali) che contraddistingue la nostra specie. Si rimanda su questo complesso
problema agli studi di Philip Lieberman (2006) sulla “fisiologia del parlare”, in particolare alle osservazioni
sulla lunghezza del collo calcolata in esemplari di erectus, neanderthalensis, sapiens arcaico e sapiens recente.
La variabilità di tale lunghezza, calcolata sulla base delle vertebre cervicali, è stata messa in relazione alla
formazione di un tratto verticale vocale capace di produrre l’intera gamma di suoni che l’uomo attuale sa
emettere. Detta capacità è stata riscontrata solo nei campioni di sapiens recente, vale a dire risalenti a non più
di 40-50.000 anni orsono. La capacità di esprimersi vocalmente costringe la funzione della memoria ad uno
sforzo strutturale e ad una complicazione, in quanto i suoni articolati che ora sono possibili grazie ad una
variazione del tratto sopralaringeo devono essere “archiviati” e normalizzati in categorie. Ciò porterebbe
ad ipotizzare uno sviluppo biologico dei centri concettuali del cervello o meglio una interazione tra centri
del linguaggio e centri concettuali che procura una vera e propria esplosione simbolica nei comportamenti
del sapiens, ignota alle specie di Homo più antiche: non pare possibile parlare di linguaggio se manca un
sistema simbolico (Deacon 2001). Va messo chiaramente a fuoco che il sapiens recente si presenta come un
individuo con lo stesso cervello del sapiens arcaico, ma con una capacità mentale molto diversa caratterizzata
dal pensiero simbolico che assegna alla nostra specie un primato speciale nella natura (Tattersall 2008).
Il lettore capirà ora perché abbiamo proposto questo excursus sul linguaggio: infatti l’insorgere di un parlato
complesso e completo, simile a quello attuale nelle sue potenzialità, coincide con quella fase che gli arche-
ologi preistorici chiamano Paleolitico superiore, il cui inizio è posto in Europa attorno a 40.000 anni fa in
coincidenza con l’arrivo da Est nel nostro continente di gruppi sapiens, portatori di conoscenze tecnologiche
innovative e di rivoluzionari sistemi simbolici, tra i quali la cosiddetta arte.
John Pfeiffer (1982) ha utilizzato per primo la dizione di “esplosione creativa“ per indicare quella improvvisa
fioritura artistica che con l’arrivo dei sapiens in Europa dà avvio ad un patrimonio complesso di simboli
visivi, uno stadio che, sulla sua scia, Steven Mithen (1996) ha definito un “big bang culturale” che ha por-
tato a ridefinire alcune strutture cognitive preesistenti sulla base della innovativa fluida interrelazione tra la
progredita capacità fonologica, la sapienza tecnica e l’aumentata coesione sociale.
Tutto ciò quindi si configura non (non solo?) come un evento biologico ma come un salto culturale che
dà inizio ad una grande complessità comportamentale, che diventa il punto di partenza per un ulteriore
cammino, un nuovo percorso di esplorazione del mondo attraverso i simboli: lo stadio simbolico viene ad
arricchire la cultura “episodica” degli Australopiteci e quella “mimica” di erectus/ergaster (Donald 1996).
La documentazione archeologica, quindi, ci dice che con lo sviluppo del linguaggio, e con l’acquisizione
quindi di un lessico probabilmente ampio, aumenta la capacità di astrazione e si sviluppa la capacità simboli-
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ca del sapiens. La coscienza del sé, già presente alle origini, si sviluppa in una lenta progressione attraverso una
maggiore coesione sociale, attraverso un processo di crescita complementare che contestualmente incremen-
ta il senso del sé e la capacità di implementare il consorzio sociale. Tale sviluppo non dipende esclusivamente
dalla capacità di fare tesoro delle esperienze e quindi di accumulare sapienza, fatto che è comune a molti
esseri viventi, ma alla maturazione del processo di scambio sociale, di comunicazione complessa verbale e
non verbale. In altre parole l’identità prende corpo attraverso le differenze che l’individuo rileva all’interno
del gruppo e l’affermazione dell’identità cementa e fortifica il legante sociale.
La coscienza quindi, nella visione dell’archeologia preistorica, nasce come risultato della selezione naturale
e la sua attivazione consente il funzionamento della mente. In altre parole se la coscienza si è sviluppata
significa che ha dimostrato la sua efficacia in determinati ambienti, assegnando al genere Homo la certifi-
cazione di idoneità alla sopravvivenza. Se l’essenza delle coscienza è il processo di ogni individuo di pensarsi
coinvolto in un processo di consapevolezza della propria esistenza e di quella di altri individui, il più antico
stadio della nostra storia come genere Homo vede forme di aggregazione sociale (la documentazione archeo-
logica documenta la caccia di gruppo rivolta a grandi mammiferi oltre 1,7 milioni di anni fa), nelle quali la
coscienza estesa è condivisa e la condivisione delle conoscenze comporta la loro trasmissione di generazione
in generazione. Questo meccanismo, che comporta la possibilità di gestione della vita, non può non essere
stato in relazione all’ambiente in cui si sono mossi i primi gruppi umani. Lo stadio evolutivo indicato come
Homo, nella sua specie habilis (la più antica) è relativo ad un organismo complesso che si è mosso in un
ambiente complesso, con la necessità di un’ampia gamma di conoscenze e l’obbligo (pena l’estinzione) di
scegliere tra molteplici risposte (e combinazioni di risposte) da dare agli input ambientali. Tutto ciò implica
una pianificazione delle azioni tese a creare solo situazioni favorevoli. Non è il caso degli organismi semplici
diffusi in ambienti ospitali che possono sopravvivere anche con poche conoscenze e senza pianificazione.
Gli organismi complessi devono avere senza dubbio delle disposizioni innate ma esse devono essere associate
ad ulteriori disposizioni modificabili in rapporto ai condizionamenti esterni e quindi suscettibili di variazio-
ni in rapporto alla capacità di apprendimento e di trasmissione delle conoscenze. Il genere Homo potrebbe
aver raggiunto un equilibrio biologico, una sorta di sistema automatico e involontario di regolazione degli
stati organici e di controllo delle possibili deviazioni che possono minacciare la sopravvivenza. In questo
stato naturale, la coscienza diviene lo strumento di conoscenza del corpo, che consente di interagire con il
mondo, adattando la ristretta gamma di stati biologici (struttura muscoscheletrica, viscere etc) alla dinami-
ca, imprevedibile e a volte repentina variabilità dell’ambiente (“La mente pensosa del corpo aiuta a salvare il
corpo”, Damasio 2000).
I primi stadi comunitari hanno certamente avuto un legante in una forma di comunicazione verbale che gli
specialisti cercano di ricostruire per quanto riguarda il livello di articolazione nella fonazione. Il linguaggio
è una conversione in un sistema fonetico ordinato e articolato di immagini non linguistiche relative a eventi,
relazioni, reazioni etc. Il linguaggio è anch’esso creatore di “simboli” in quanto trasforma in suoni codificati
ciò che esiste non verbalmente, vale a dire quella conoscenza del sé e del mondo che l’organismo già possie-
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de in “immagini”. Il linguaggio non è motore della generazione di coscienza ma contribuisce a generare la
coscienza estesa in quanto assegna ad ogni cosa del mondo un suo specifico nome. Con l’uso della comuni-
cazione verbale l’ascoltatore crea immagini che sono essenzialmente la traduzione di singole parole oppure
di frasi; nello stesso momento chi ascolta rappresenta, mediante la coscienza, sé stesso nell’atto di ascoltare,
di recepire una comunicazione verbale, di comprenderla, di elaborarla di avviare una interrelazione (autoco-
scienza). Il risultato ultimo è quindi l’aggregazione tra chi parla e chi ascolta (Ferretti 2010). Ciò consente di
ipotizzare che l’evoluzione del linguaggio possa essere stata in relazione ad un sistema di consorzio sociale e
di interrelazioni tra individui e tra gruppi umani, sempre più complesso nel corso dell’ominazione.
Proviamo a rileggere il capoverso precedente sostituendo al termine “linguaggio” quello di “fare segno”,
scambiando quindi il sistema di comunicazione verbale con quello non verbale: anche la figurazione con-
verte immagini del reale in un sistema ordinato e articolato di segni bidimensionali, è anch’essa creatrice di
simboli in quanto rappresenta e fa esistere ciò che non esiste se non nelle immagini interiori, non assegna
nomi fonetici ma crea immagini che la coscienza percepisce, cataloga e codifica; contestualmente chi osserva
un’immagine ha coscienza dell’evento e autocoscienza e il risultato finale è una comunicazione aggregante.
Tutto ciò porta a considerare che nella storia evolutiva della coscienza una tappa fondamentale (o una serie
di tappe) sia stata la possibilità di rielaborare con strumenti e modalità differenti (verbali, visive, gestuali) il
sistema cosciente della vita e del mondo. In altre parole, nel momento in cui la coscienza ha reso l’individuo
consapevole di possedere al suo interno “immagini” del mondo, fornendogli la patente di idoneità alla cono-
scenza del reale, ciò ha comportato una maggiore efficienza nella gestione del reale, creando quelle premesse
di trasformazione e di evoluzione positiva che ha dato origine a stadi di civiltà culturalmente più complessi.
Ogni individuo diviene quindi elemento che può autoregolarsi in funzione della sopravvivenza propria e
della sua comunità, attuando comportamenti, progetti e reazioni dettate dall’autoconservazione (“ Primo e
unico fondamento della virtù è lo sforzo di conservare sé stessi e la coscienza ci dà la possibilità di affrontare questo
sforzo”. Spinoza).
L’esperienza tecnologica accumulata attraverso le generazioni e l’evoluzione delle diverse specie comporta
un progressivo controllo delle varie “arti”. La documentazione archeologica illustra con certezza questo
controllo in diversi comportamenti specifici che possiamo inserire all’interno di una griglia cronologica e di
una successione che l’archeologia ha ormai codificato in una serie di grandi tappe evolutive che qui citiamo
in ordine cronologico: la lavorazione delle rocce e la produzione di strumenti in pietra da parte di Homo
habilis (2,5 milioni di anni); l’addomesticazione del fuoco da parte di H. erectus sensu lato (con sicurezza a
partire da 400.000 anni fa), il rito funerario da parte di H. neanderthalensis (circa 100.000 anni orsono) con
la mera conservazione del cadavere in una fossa (luogo della memoria) scavata all’interno della grotta dove
vive la comunità (sentimenti ed emozioni come fatto sociale). Arriviamo quindi alla comparsa della specie
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sapiens, con la quale prende corpo un simbolismo diffuso che investe diversi atteggiamenti (l’arte, la danza,
la musica, le pratiche funerarie, gli ornamenti corporali) lasciando per gli archeologi tracce di un pensiero
che, rispetto alle epoche precedenti, si è fatto metaforico e di gesti anch’essi metaforici e simbolici.
La rivoluzione del sapiens è la creazione mediante simboli figurativi di un modello del mondo, dove una
parte di rilievo è assegnata al mondo animale, alla donna che garantisce la riproduzione, alla caccia e, molto
secondariamente in termini quantitativi, a quegli individui teriomorfi che in questa sede più ci interessano.
Questa grande tappa nella storia evolutiva della coscienza concerne la capacità di elaborare immagini, cioè la
capacità di rendere in modo bidimensionale la percezione che è tridimensionale, per masse e volumi.
Assistiamo quindi alla creazione di un linguaggio non verbale che da allora non ha più abbandonato la
nostra specie, alla nascita, grazie alla coscienza simbolica, di un comportamento tipicamente sapiens, che
chiamiamo “arte”, il quale è cognitivo, comunicativo ed emozionale (Deacon 2001). Esso consente di porre
in relazione “cose” del mondo e segni iconici non in un’associazione diretta, immediata, primaria bensì me-
taforica, capace di “mettere insieme” (syn-bàllein) diversi punti di vista che trascendono la realtà fenomenica.
Si tratta della competenza simbolica che ci rende unici tra i viventi e che rappresenta non uno statico evento
biologico ma il risultato, in un’ottica evoluzionista, dell’utilizzo di conoscenze pregresse, trasmesse da specie
a specie, rese permanenti ed esplose nel momento in cui potevano dimostrare la loro efficacia. La pratica
simbolica, che le evidenze archeologiche relative ai cacciatori-raccoglitori paleolitici documentano appro-
fonditamente con la pratica figurativa ma che è precedente a quest’ultima (si pensi alla valenza metaforica
del rito funerario già presso i Neanderthal), è connessa all’attitudine alla rappresentazione (representational
stance) (Deacon 2001) che consente di superare l’immediatezza dell’azione, del gesto o dell’oggetto reale.
Affrontare il problema dell’origine del fare segno e inserire tale genesi all’interno di un processo evolutivo
come conquista cognitiva, significa anche fare i conti con un altro quesito: l’arte preistorica è connessa al
sorgere del senso estetico oppure possiamo interpretare la capacità estetica di Homo come un fattore che
prescinde dalla pratica figurativa e che ha avuto un suo percorso, autonomo da altri comportamenti cogni-
tivi e simbolici (linguaggio, figurazioni, pratica musicale, produzione di ornamenti corporali…)? Non ci
aiutano i neurofisiologi, i quali non possiedono elementi sufficienti per poter prporre una valenza universale
del giudizio estetico (Maffei e Fiorentini 2008). Un recente studio di Lorenzo Bartalesi (2012) fa il punto
sulla situazione e, attraverso una colta disamina di molti contributi, dimostra come al momento attuale
le indagini sull’evoluzione del senso estetico vivano una situazione di difficoltà e di blocco per due motivi
principali. In primo luogo una riflessione sul tema non può che basarsi sulla documentazione archeologica,
la quale è parziale e lacunosa e suscettibile di diverse variabili negative: la casualità delle ricerche e le loro
differenze qualitative (nel tempo e nelle diverse aree geografiche di Africa ed Europa), la deperibilità dei do-
cumenti di natura organica che non si sono conservati se non in casi eccezionali, l’impossibilità di correlare
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le morfologie craniali dei fossili umani su base neurologica con i meccanismi degli atteggiamenti estetici.
Oltre a questo ostacolo, l’Autore individua anche nei modelli filosofici e interpretativi dominanti, di origine
romantica, un problema epistemologico che dovrà essere superato, liberando gli studi sull’evoluzione dei
fatti estetici dalle connessioni con quelli sull’origine dell’arte. Crediamo che questo nostro contributo possa
aiutare a raggiungere una consapevolezza nuova del fenomeno segnico paleolitico, emancipando il concetto
di estetica dalla capacità del sapiens di descrivere e raccontare il proprio mondo esterno ed interno mediante
l’uso, più o meno sapiente, della linea e del colore. La presenza della simmetria bilaterale nei manufatti pro-
dotti in Africa sin dai primi stadi culturali, così eclatante ed immediata nei profili regolari delle amigdale, i
residui di ocra rossa forse destinata a pitture corporali o su supporti deperibili portati alla luce in siti abitativi
europei del Paleolitico inferiore fanno ipotizzare la presenza di un senso estetico già collateralmente presente
ai comportamenti utilitaristici dei più antichi cacciatori-raccoglitori.
Nel patrimonio di informazioni, di riflessioni e di stimoli che Charles Darwin ci ha lasciato compaiono an-
che alcune affermazioni, tardive in quanto posteriori di circa un ventennio all’edizione originale dell’Origine
della specie (Darwin 1876), concernenti il sense of beauty negli uomini e negli animali inferiori, il quale nella
sua forma più elementare riguarderebbe “la percezione di un particolare tipo di piacere provocato da deter-
minati colori, forme e suoni”. Tale senso del bello, da Darwin definito “un soggetto oscuro”, è presente nella
mente del vecchio naturalista non come problema isolato ed estemporaneo ma, come dimostra il Bartalesi
(2012), fa parte dei quesiti e dei dilemmi che lo hanno accompagnato durante i suoi lunghi viaggi, dei quali
ha lasciato traccia già nei diari del Beagle e nei taccuini. La “bellezza” è un elemento naturale che egli osserva
nella variabilità naturale (“bella e armoniosa diversità della vita”), in organismi adattati a determinate funzio-
ni in forme perfettamente adeguate (“mirabile adattamento”) e anche, nell’ambito della selezione sessuale nel
regno animale, come elemento per attirare il partner durante il corteggiamento.
Seguendo l’impulso darwiniano, alcuni recenti modelli di psicologia cognitiva vedono il fenomeno “arte
paleolitica” come un nuovo sistema di rappresentazione (in primis Currie 2004) basato sulla innovata capa-
cità di relazionare liberamente tra loro domini immaginativi diversi, reali e non reali, osservati nella realtà
e desiderati-pensati-temuti, in pratica un meccanismo di associazione di idee generato da un atteggiamen-
to simulativo, una “finzione”. Il progressivo atteggiamento finzionale, una forma di adattamento creativo,
potrebbe essere messo in relazione con il progressivo prendere corpo del senso estetico, un atteggiamento
emozionale che, secondo alcuni (una sintesi in Bartalesi 2012), potrebbe anche precedere l’acquisizione del
linguaggio articolato. Ciò sarebbe in linea con quanto già affermato da Darwin riguardo al linguaggio mu-
sicale, ipotizzato come presupposto per lo sviluppo delle capacità verbali in quanto la produzione di note, di
ritmi e il senso della melodia fanno parte del patrimonio delle “specie più basse”.
Finzione ed emozione, quindi, collegate alla capacità di relazionare coscientemente tra loro reale e non reale,
mondo visibile e mondo interiore, sarebbero l’antecedente genetico del senso estetico, del tutto separato ed
autonomo dal sorgere dell’arte e delle pratiche iconografiche. Nel dibattito attualmente in corso, a cui parte-
cipano diverse voci, emergono alcuni paradigmi: uno che concerne l’atteggiamento rappresentazionale che
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non può prescindere dalla capacità simbolica e che agisce all’interno di essa (Deacon 2001), un altro che vede
la capacità estetica come un adattamento psicologico con valori di efficienza (Cosmides e Tooby 2006), ad
essi si contrappone l’ipotesi della priorità dell’estetico sull’artistico basata sulla prospettiva di un dispositivo
estetico pre-cognitivo, che armonizza stati emozionali primari anticipando la pratica figurativa simbolica,
senza per altro escludere che esso possa avere assunto un ruolo importante nello sviluppo biologico intellet-
tivo (Desideri 2011).
L’origine dell’arte e, indipendentemente da essa, del sense of beauty darwiniano resta oggi al centro del dibat-
tito speculativo che solo nei suoi paradigmi principali interessa questo nostro lavoro, nel quale hanno preso
corpo alcune posizioni dominanti. La lettura delle arti visive, ma anche della musica, di chiara ispirazio-
ne darwiniana, come adattamento biologico in funzione della selezione sessuale prevede uno spostamento
dell’attenzione dall’ornamentazione del corpo ad una parte rocciosa o ad un supporto mobile. L’interpre-
tazione dell’arte come adattamento psicologico individuale, dovuta soprattutto ai modelli della psicologia
evoluzionistica, vede la figurazione come stadio evolutivo generato da atteggiamenti estetici più antichi,
concernente l’organizzazione mentale del singolo in funzione della soluzione di problemi, ad esempio la
scelta di aree ecologiche favorevoli (estetica ambientale evoluzionistica). Ad un contesto non individuale né
inter-individuale su base competitiva (adattamento biologico sessuale) rimanda la lettura dell’arte e del sen-
so estetico come adattamento psicologico con funzione sociale, tesi che interpreta la pratica ornamentale e
quella figurativa come segnali di identità parentale e di gruppo in grado di trasfigurare le esperienze sensibili
dell’ordinario quotidiano in atteggiamenti straordinari.
A impostazioni adattive si contrappone una visione dell’arte come epifenomeno evolutivo della mente
dell’uomo per selezione naturale. In particolare per Stephen J. Gould (2002) l’origine della figurazione è
un evento importante ma collaterale ad un unico e solo fenomeno adattivo nel corso dell’evoluzione, quello
dell’aumento della massa cerebrale.
A questo punto il lettore ha avuto la possibilità di assumere le premesse informative necessarie per iniziare
un percorso di valutazione, sulla base della documentazione archeologica, del fenomeno artistico paleolitico
e le sue relazioni con l’ipotizzata valenza sciamanica. Quale valore, quali significati e quale attendibilità
assegnare al comportamento visuale dei cacciatori-raccoglitori sarà l’obiettivo della seconda parte di questo
testo. Molti temi connessi al tema della produzione figurativa paleolitica sino a questo punto sono stati
necessariamente trattati con quella superficialità e quella approssimazione che sono inevitabili quando gli
argomenti proposti hanno la funzione di aprire la strada al tema principale. Certi della comprensione di chi
ci sta seguendo, affrontiamo ora la riflessione su segni, figurazioni, simboli e stati dell’anima nel Paleolitico.
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PRIMA E AL DI LÀ DELL’ARTE:
SEGNI, FIGURAZIONI, SIMBOLI E STATI DELL’ANIMA NEL PALEOLITICO
Con questo capitolo ci inseriamo nel dibattito che ha coinvolto da alcuni anni diversi studiosi i quali,
attraverso un contenzioso a volte anche violento, hanno affrontato il complesso problema della religio-
sità delle genti paleolitiche e di quanto le testimonianze a noi pervenute (in speciale modo l’arte parie-
tale e mobiliare) possono legittimare l’inserimento delle ipotizzate pratiche sacrali-rituali paleolitiche
nell’ambito del cosiddetto “sciamanesimo”.
Dopo aver inquadrato storicamente il fenomeno “sciamanesimo”, contestualizzando la sua origine e la
sua evoluzione, è il momento ora di affrontare il tema centrale di questo lavoro, ossia quanto sia oppor-
tuno utilizzare questa definizione, del resto tramandata senza molti distinguo negli studi paletnologi,
per indicare alcune esperienze magico-religiose-sacrali che la documentazione archeologica consente di
ascrivere alle comunità di cacciatori-raccoglitori paleolitici.
Le evidenze archeologiche che possono rimandare direttamente al tema dello “sciamanesimo”, in quan-
to figurazioni di presunti “sciamani”, sono ben definite: raffigurazioni dipinte e incise di antropomorfi
con “maschere” o travestimenti zoomorfi (sulle pareti delle caverne e su prodotti di arte mobiliare),
piccole statuette a tutto tondo con le medesime caratteristiche, forse un bassorilievo su placca di avorio,
raffigurazioni di personaggi “feriti”. La documentazione “sciamanica” sulla quale discutere, quindi,
rimanda unicamente alla produzione artistica e alla simbologia affidata ai segni e alle raffigurazioni
(Clottes 2010) che compaiono nell’Aurignaziano all’inizio del Paleolitico superiore e che sono attestati
sino alla fine del Pleistocene.
Le figure in discorso sono in massima parte nude, come del resto la quasi totalità delle immagini
maschili e femminili paleolitiche, secondo una prassi iconografica che non possiamo non ritenere co-
sciente (Vialou 2003); la nudità del corpo, assunta a convenzione, diviene verosimilmente un aspetto
simbolico o meglio il corpo, quale forma reale che si muove nel mondo insieme alle specie animali, può
essere caricato di significati. Non individui in azione, all’opera nelle loro attività quotidiane di caccia-
tori-raccoglitori, ma nudi corpi, come quelli del bestiario raffigurato, che insieme agli enigmatici segni
lineari e geometrici popolano pareti e soffitti delle caverne o superfici di supporti in pietra e in osso.
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Risulta evidente quindi, con questa premessa, il significato profondo che assumono il travestimento o
la maschera: essi rendono il corpo umano altro, un non-esistente nel mondo reale che ha la sua ragio-
ne d’essere negli stati dell’anima, un simulacro cui affidare la visione interiore del mondo medesimo.
Travestimenti e maschere in una lettura materiale dell’iconografia sono attributi accessori che mate-
rialmente ricoprono, rivestono e trasfigurano una realtà corporea, creando una simbologia concettuale.
Travestimenti e maschere, però, in una visione immaginifica possono evocare un’immagine mentale,
altrettanto simbolica, basata sulla trasfigurazione e la creazione di una finzione. In altre parole la ma-
schera o il copricapo zoomorfo non sarebbero reali, ma nella raffigurazione sono già altro, cioè quello
che essi simboleggiano, in una sostituzione ontologica che non può mai divenire coincidenza.
Paolo Graziosi (1956) ha bene espresso questa tendenza ad una visione simbiotica tra uomo e animale
resa dalle pitture paleolitiche:
“Tutte sono in genere accomunate dalla stessa spiccata tendenza a non definire la forma umana, a lasciarla
il più possibile in uno stato di indeterminatezza, ai confini tra antropo e teriomorfia e soprattutto a na-
scondere o a trasformare la sembianza umana del volto: sembra quasi che l’artista paleolitico, maestro nella
ricerca del particolare anatomico quando riproduce il mondo animale, perda ogni capacità di osservazione
e di espressione se si tratta di delineare la fisionomia del suo simile, o meglio soggiaccia ad una potente ini-
bizione che impedisce alla sua mano di riprodurre l’essere umano in quella forma che lo renderebbe imme-
diatamente riconoscibile e nettamente differenziato dal mondo zoomorfo riprodotto nelle oscure profondità
di quelle grotte” (Graziosi 1956, pagg. 200-201).
Nella riflessione sul ruolo che queste figurazioni possono aver avuto nella creazione di un’idea “scia-
manica” riferita all’arte del Paleolitico in primo luogo è necessario verificare se -e in che misura- le
immagini in discorso possiedono i requisiti di antropozoomorfizzazione che la tradizione assegna al
ruolo di queste figure, vale a dire far emergere i nessi che fanno delle varie figure allegoriche un sistema
simbolico proponibile. A tale monitoraggio si deve unire l’analisi del contesto, vale a dire la natura
dello spazio di grotta nel quale è stata realizzata l’immagine (cunicolo disagevole, galleria, area aperta,
salone...) e il rapporto della figura con lo spazio medesimo e con eventuali altre immagini, non esclu-
dendo anche le dimensioni delle figurazioni. Ciò significa che alla verifica dell’identità si deve unire la
verifica della funzione “sciamanica” nei limiti in cui l’osservazione tafonomica e una visione “spaziosa”
dell’intero contesto possono consentire di avanzare ipotesi attendibili.
Gli antropozoomorfi
Sono personaggi ibridi, con attributi zoomorfi innestati su una struttura corporea antropomorfa, non
troppo schematici né caricaturali né grotteschi. Se alcune immagini restituiscono la suggestione del
travestimento e forse dell’uso di una maschera, altre paiono suggerire invece una trasfigurazione, una
metamorfosi concettuale dell’individuo umano che diviene un ibrido antropozoomorfo, un teriomor-
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fo. Le due possibilità alla fine coincidono nel medesimo risultato: la creazione di un altro. Un processo
di enfatizzazione avvolge queste figure, anche in alcuni dettagli, ad esempio nell’itifallismo di alcuni
soggetti (Balazut 2012).
In merito all’arte parietale, una recente rassegna (Welté e Lambert 2012) annovera 23 teriomorfi pre-
senti in 12 grotte o ripari sotto roccia, 2 risalenti all’Aurignaziano, 8 al Paleolitico superiore medio
(Solutreano, Solutreo-maddaleniano), 14 alla fase recente e finale del Paleolitico (Maddaleniano). A
questo repertorio parietale noi aggiungiamo altre raffigurazioni parietali e mobiliari, che vengono de-
scritte singolarmente più oltre, superando la trentina di osservazioni senza contare una dozzina circa
di casi dubbi o discutibili.
La maggiore concentrazione è in Francia con una ventina di evidenze (pitture, incisioni, bassorilievi)
alle quali si uniscono almeno sei immagini dubbie. Nove sono in Spagna le figure attendibili (pitture,
incisioni, una piccola scultura a tutto tondo, sei nella Grotta di Altamira) alle quali si sommano altre
cinque evidenze non certe. I quattro teriomorfi dalla Germania sono relativi alla piccola statuaria a
tutto tondo e ad un bassorilievo. In Italia si annoverano cinque casi di teriomorfi (una pittura, incisio-
ni, una statuetta).
L’immagine dipinta in stile schematico rinvenuta nella Grotta di Fumane presso Verona (Broglio
2005), risalente a circa 36-37.000 anni fa (quindi la più antica figurazione parietale in Europa), raffigu-
ra un antropomorfo con un copricapo munito di corna e con una sorta di asta in una mano (tav. 1/1).
Nella sua iconicità essenziale nel tratto e nell’espressione lo “sciamano” di Fumane contiene gli attributi
che fanno di questa immagine uno standard figurativo: la maschera e un segno (bastone?) della sua
identità. Il frammento roccioso è stato rinvenuto durante gli scavi nei livelli di abitazione aurignaziani,
probabilmente crollato dalla parete della grotta o dalla volta; questa collocazione in giacitura non pri-
maria impedisce di valutare se il suo posizionamento originario avesse una qualche valenza in rapporto
alla visibilità immediata o meno dell’immagine all’interno del sito.
Di qualche millennio più recente è il sorcier della Grotta Chauvet, localizzata presso Vallon-Pont-
d’Arc nell’Ardèche (Le Guillou 2001), attribuito all’Aurignaziano, dipinto su una cresta rocciosa ver-
ticale a morfologia conica, in associazione diretta con una rappresentazione femminile (tav. 1/2, 3).
Accanto è visibile la figura parziale di un felino. Le tre immagini, ancora in studio per quanto concerne
la decodifica e la stratigrafia dei segni, appaiono in stretto rapporto, soprattutto la figura femminile e
l’antropozoomorfo. La prima consiste nella rappresentazione del profilo delle due gambe (le estremità
terminano a punta senza accenno ai piedi) che racchiudono in alto il triangolo pubico, ben evidenziato
da una marcata colorazione nera, nel quale un risparmio cromatico mette in risalto il taglio vulvare.
Questa figura, più grande che in natura, occupa la parte centrale della roccia conica. Su di essa incom-
be un antropozoomorfo con testa di bisonte pienamente campita in colore nero, al pari del triangolo
pubico che gli è molto vicino; è ben dettagliata nelle corna a lira, nell’occhio e in alcuni particolari del
muso. Anche il dorso ricorda il bisonte nella sua sagoma gibbosa, dorso che è dipinto nella sua parte
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superiore mentre è evocato dalla morfologia della roccia nella porzione inferiore. Completano l’imma-
gine una gamba umana e un segno che potrebbe indicare o un braccio (con mano?) oppure un lungo
e stretto fallo. Di dubbia interpretazione restano alcune linee che potrebbero rimandare ad una lunga
coda. Il profilo lineare nero dell’avantreno di un felino, al di sopra e laterale alle due suddette figure,
non sembra in relazione diretta con esse. La rappresentazione è localizzata in una galleria, lunga circa
60 metri, ad una estremità dell’ampio complesso ipogeo di Chauvet, alla quale è stato dato l’appella-
tivo di “Galleria dei Megaceros”, la quale dopo un ingresso stretto si allarga nella cosiddetta “Sala del
fondo”. In questa area sono localizzate tutte le rappresentazioni umane di Chauvet, consistenti, oltre
alle due in discorso, in altri quattro segni vulvari (tre incisi e uno dipinto) isolati, di dimensioni più
grandi del reale. Tutte sono posizionate in modo che risultino ben visibili, a circa m 1,80 dal piano di
camminamento.
A circa 18.000 anni fa risale la famosa scena nel cosiddetto “pozzo” di Grotta Lascaux, in Dordogna,
nella quale è rappresentata una sorta di breve narrazione, assai rara nelle produzioni paleolitiche che
hanno un carattere fortemente iconico, che vede due protagonisti (tav. 1/4): un bisonte in posizione
stante appare ferito da una lunga zagaglia e i suoi intestini fuoriescono dal ventre, con la testa abbassata
sta caricando un individuo apparentemente steso a terra (il corpo è reso con due esili tratti paralleli, le
braccia sono allargate e le gambe unite in assenza di movimento: altezza cm 43) munito di una masche-
ra aviforme e con il fallo chiaramente eretto. Accanto a lui un’asta che reca all’estremità una figura di
uccello (la testa è rigorosamente identica a quella della maschera) e un altro bastone (propulsore? una
corta zagaglia?). La scena nel contesto della galleria non è isolata (un rinoceronte è dipinto nei pressi)
ma emerge nella sua identità narrativa.
La scena comprende soggetti (uomo, bisonte, uccello) che sono presenti nella grotta solo in questo
settore ed è associata ad una sola figura (escludendo il già citato rinoceronte), un cavallo incompleto
(groppa, testa) rappresentato di profilo sulla parete opposta alla scena e abbastanza decentrato, che
indica il carattere ubiquitario di questa specie animale all’interno del “Santuario”. Alcune differenze
nel trattamento grafico e la composizione dei pigmenti fanno supporre che rinoceronte e cavallo siano
stati eseguiti in momenti diversi rispetto al complesso uomo-bisonte-asta con uccello (Aujoulat 2004).
Il “pozzo”, termine improprio, è un ambiente localizzato al fondo della cosiddetta “abside”, ribassato
rispetto al piano di camminamento della medesima. Detto ambiente presenta ampie superfici parietali
idonee alla pittura, tuttavia solo una porzione molto limitata è stata utilizzata per la pittura. In defini-
tiva tre elementi sono da rilevare: l’unità grafica del complesso medesimo, il fatto che il bisonte è una
figura abbastanza rara (4,3% nel repertorio animalistico di Lascaux), l’economia degli spazi disponibili
ed effettivamente utilizzati. Essi conferiscono a questo pannello un significato particolare, che resta a
noi ignoto, estraneo alle grandi immagini iconiche della prima sala della grotta (“Sala dei tori” ) e delle
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gallerie, a carattere chiaramente eidetico, ma estranea anche alle sottili incisioni, singole o sovrapposte,
celate e pressoché invisibili su alcune pareti in diversi settori della caverna.
In questo spazio domina la figura tramandata in letteratura come Sorcier. Alta cm 75, la sua restitu-
zione grafica dovuta alle abili mani e alla capacità grafica dell’abate Henri Breuil ci consente oggi di
riflettere su una immagine che il tempo non ha risparmiato, della quale restano solo alcuni sbiaditi
tratti in colore nero (tav. 2/1, 2). Si tratta di un essere fortemente composito la cui natura umana è
riconoscibile negli arti inferiori e nel tronco, sul quale si impostano una testa zoomorfa (felino?) mu-
nita di una lunga barba e corna cervine, orecchie di renna, secondo Leroi-Gourhan occhi di civetta;
completano la fisionomia animale due corte zampe, un sesso bene evidenziato rivolto all’indietro come
i felini e una lunga coda equina.
Una seconda immagine, ben nota in letteratura come petit sorcier à l’arc musical (fig. 9), concerne una
figura antropozoomorfa incisa all’interno di un pannello (fig. 10), localizzato anch’esso nel cosiddetto
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Figura 9 – L’incisione parietale del pe- Figura 10 – Rilievo del pannello nel cosiddetto Santuario della Grotta di Trois-Frères com-
tit sorcier à l’arc musical della Grotta di posto da decine di figure zoomorfe (soprattutto bisonti, insieme a rari equidi e cervidi) e da
Trois-Frères, teriomorfo con attributi di un’unica figura umana teriomorfa, riprodotta al centro della composizione, immediatamen-
bisonte (da.Breuil 1952). te visibile allo spettatore (da Azema 2010).
Santuario, nel quale sono raffigurate decine di figure zoomorfe (bisonti e cavalli in maggioranza, i
quali insieme alla renna costituiscono il bestiario principale) sovrapposte le une alle altre, secondo un
canone distributivo e in atteggiamenti che, a parere di Marc Azéma (2012), indicherebbero una scena
relativa al comportamento dei bisonti nella stagione del calore. Il teriomorfo, unico in questo pannello
animalistico, è inciso al centro della superficie in una zona dove le immagini e i segni si rarefanno, non
vi sono sovrapposizioni importanti e ciò conferisce al soggetto una immediata visibilità e riconoscibi-
lità che sottolineano il suo ruolo catalizzatore all’interno del groviglio di segni. Raffigurato di profilo
in posizione dinamica (una gamba è alzata e in movimento; danza?), tiene le braccia (umane) protese
in avanti, ha il sesso evidenziato ma non esagerato, la testa e le corna sono di bisonte e al bisonte ri-
manda anche una certa peluria. Vengono di solito evidenziate, di questo antropomorfo mascherato, le
due linee subparallele allungate che convergono in basso e, all’estremità opposta, sulla bocca; alcuni
autori hanno sposato l’ipotesi che si tratti della raffigurazione di uno strumento musicale (da cui la
definizione corrente), con due possibilità: un flauto oppure uno strumento ad arco che è presente presso
comunità primitive attuali. Il cosiddetto arco musicale produce suoni se pizzicato nella corda con le
dita oppure percuotendo la corda con una piccola bacchetta, in ogni caso la bocca ha la funzione di
cassa di risonanza. Il confronto etnografico pare alquanto debole in quanto le due linee non segnano
un vero e proprio arco e la perizia dei dettagli anatomici del personaggio antropozoomorfo contraste-
rebbe con l’approssimazione dell’incisione se riferita all’arco musicale. Anche l’ipotesi del flauto, non
ben definito nella sua morfologia se di flauto si trattasse, è debole. Non possiamo escludere che le due
linee convergenti verso la bocca e verso il naso non possano indicare una forte soffio, una potente getto
del respiro, in ogni caso un elemento aereo e non un manufatto.
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Figura 11 – Rilievo del pannello nel Santuario della Grotta di Trois-Frères, realizzato da Figura 12 – Particolare del dieu cornu,
H. Breuil, che contiene l’antropozoomorfo detto dieu cornu associato a numerosi bisonti e con attributi di “piccolo bisonte” come
renne (da Azema 2010). scrisse H. Breuil (da Breuil 1952).
Una terza figura di possibile antropozoomorfo (“dieu cornu”) è visibile, anch’essa nel “Santuario”,
all’interno di un ampio pannello comprendente molte immagini zoomorfe (fig. 11), che sono di dimen-
sioni decisamente maggiori. Definita da Henri Breuil (1952) petit être complexe (bisonte con retrotreno
umano), è alta cm 30, presenta la testa rivolta all’indietro ed è caratterizzata da dettagli anatomici na-
turalistici (fig. 12), gli zoccoli e il pelame appartengono indiscutibilmente ad un bisonte, la coscia è va-
gamente più umana, ma sono soprattutto la postura obliqua (molto simile al Sorcier appena descritto),
la morfologia del fallo eretto con estremità affilata e il testicolo arrotondato (vedi infra uno dei sorciers
di Gabillou) che inducono ad introdurre questa terza figura di Trois-Frères tra gli antropozoomorfi.
Nella Grotta di Gabillou, in Dordogna, sono segnalati quattro sorciers (Gaussen 1984), dei quali uno
non certo. La cavità è composta da una angusta galleria, percorribile in epoca paleolitica solo stando
curvi, lunga oltre 30 metri, con un andamento sinuoso delle pareti sulle quali sono state realizzate
numerose figure e segni (oltre 200), quasi senza soluzione di continuità. I soggetti zoomorfi sono so-
prattutto cavalli (58), renne (28), bovidi (18), bisonti (12), oltre a poche altre immagini di altre specie,
quelli antropomorfi sono 8. Ad essi si associano 72 segni lineari e geometrici (Gaussen 1984). Lo stile
naturalistico e dinamico, omogeneo per l’intera produzione, avvicina queste immagini a quelle di
Lascaux; su base stilistica quindi, confermata dall’attribuzione culturale dei manufatti in selce e osso,
le immagini di Gabillou risalirebbero a circa 18-17.000 anni fa. Le figure hanno sempre dimensioni
piccole (unica eccezione: 80 cm è la lunghezza di un cavallo all’ingresso) che non superano i 30 cm,
con estremi di 6 cm (piccola renna sul soffitto dell’ultima sala) e 8 cm (testa di cerbiatta). Va segnalato
che non vi sono sovrapposizioni di immagini.
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Il sorcier di Gabillou per antonomasia (fig. 13; tav. 2/3) con testa di
bisonte (altezza cm 37) ha chiari attributi zoomorfi (corna e muso,
coda) mantenendo una fisionomia chiaramente umana, non solo per
alcuni dettagli anatomici (braccia, gambe, un piede, una mano) ma
anche per la postura verticale. Il sesso non è indicato e ciò costituisce
un’anomalia nel panorama teriomorfo; Duhard (1996) ritiene che la
caratterizzazione molto netta della testa zoomorfa possa essere con-
siderato un carattere sessuale terziario e divenga un indice di genere
maschile. Il teriomorfo è inciso, insieme ad altri due segni, alla fine
della lunga galleria, isolato su una superficie della parete delimitata
da due ampie fratture verticali che fanno da cornice naturale alla
superficie utile per l’incisione, la quale è stata pienamente utilizzata
Fig. 13 – Il sorcier più famoso tra i quat-
tro presenti nella Grotta di Gabillou, adattando l’immagine antropomorfa, appena curva, alla superficie
con attributi di bisonte, inciso isolato
su una parete della grotta (da Duhard medesima. La sua localizzazione e la morfologia complessiva del sito,
1996). la difficoltà di percorso della galleria istoriata, ma anche la tecnica ad
incisione prevalente (poche tracce di ocra residuale sono state rilevate
solo in alcune immagini) e le dimensioni delle figure ci consentono
di ipotizzare per questa grotta una funzione più sacrale che abitativa,
con una valenza delle immagini non pienamente e non unicamente
eidetica.
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Infine, una figura di ipotizzato sorcier acefalo, non sicuro, è localiz-
zata a circa dieci metri di distanza dalla precedente verso l’ingresso.
Una figura composita metà uomo (gambe) e metà cervo (testa) com-
pare nella Grotta Carriot, nella regione di Quercy, non lontana da
Pech Merle. Il teriomorfo, dipinto in colore rosso all’estremità della
galleria non lontano da una immagine femminile del tipo Gönn-
ersdorf-Lalinde, appare in posizione leggermente flessa, con le brac-
cia distese rivolte verso il basso, le ginocchia forse appena flesse e
munito di un copricapo a corna cervine schematizzate in tre rami
Fig. 16 – Rilievo dell’antropozoomorfo (fig. 16; tav. 2/4). La pittura, ormai evanescente, non mostra altri
della Grotta Carriot, con corna di cervo,
dipinta in rosso (da Lorblanchet 2010). dettagli. Localizzata nel fondo della grotta, al pari delle altre figu-
re (13 animali, 3 profili femminili) e ai numerosi segni puntiformi
e a tacche, è ben visibile. La frequentazione del sito risale alla fine
del Maddaleniano, circa 12.000 anni da oggi (Lorblanchet 2010).
Tra le evidenze figurative (pitture e incisioni) presenti nella Grotta di
Cala Genovese nell’isoletta di Levanzo (Egadi, Trapani) (Graziosi
1962) compare un piccolo gruppo di tre antropomorfi incisi, forse una
scena, dei quali uno con testa o maschera di uccello, vista di profilo;
è incompleta (mancano gli arti inferiori), le braccia sono sollevate (le
mani non sono segnate) ed è provvisto di una corta capigliatura (fig. 17;
tav. 3/1; la figura maggiore cm 31). Nella composizione, ammettendo
Fig. 17 – – Rilievo, dovuto a Paolo una relazione diretta tra i tre individui così come essa viene percepita
Graziosi, dei tre antropomorfi incisi di
Grotta di Cala dei Genovesi, uno dei di fronte alla parete della grotta, questo individuo mascherato sem-
quali con testa o maschera di uccello (da
Graziosi 1962).
bra essere secondario rispetto all’antropomorfo barbuto di dimen-
sioni maggiori al centro del gruppo, verso il quale pare rivolto il suo
sguardo. L’attribuzione cronologica, sulla base anche dei contesti industriali presenti nel sito, è all’Epi-
gravettiano finale avanzato. Questo antropozoomorfo è uno dei rari esempi, come nella Grotta dell’Ad-
daura 2 (vedi qui di seguito), di personaggi mascherati raffigurati in associazione con altri individui.
Questa infatti è l’anomalia, o meglio l’originalità, delle figure mascherate anch’esse aviformi di Grotta
dell’Addaura 2, presso Palermo, all’interno del famoso e discusso pannello (Graziosi 1956; Mezzena
1976, Vigliardi 1991 per la bibliografia completa.) che racconta una scena coinvolgente diversi antro-
pomorfi (fig. 18; tav. 3/2, 3). Le figurazioni, tutte incise, nel loro insieme (oltre alla “scena “ in discorso
compaiono soggetti zoomorfi) sono state eseguite sulla roccia in almeno quattro momenti, in una fascia
cronoculturale compresa tra la fine dell’Epigravettiano e il primo Olocene. Il dibattito interpretativo,
che ha coinvolto diversi studiosi sin dalla scoperta, ruota attorno a due ipotesi principali concernenti i
51
due personaggi non in piedi e a gambe flesse al
centro del gruppo: acrobati? personaggi sacri-
ficati mediante soffocamento? Nei due casi le
corde che legano collo e caviglie dei due perso-
naggi assumono funzione diversa; la seconda
ipotesi avrebbe anche l’appoggio del fallo in
erezione (non raffigurato negli altri personag-
gi del gruppo) interpretata come conseguenza
fisica dell’asfissia. In questa sede ci interessa
inserire nel repertorio in esame le figure con
maschera aviforme, indiziata da un becco af-
fusolato ed evidente che compare nei due tipi
di soggetto, quello con abbondante capigliatu-
ra e quello apparentemente calvo. L’originalità
di questa evidenza all’interno del repertorio
teriomorfo non sta tanto nell’iconografia dei
personaggi, che appare canonica nel repertorio
europeo, quanto nel fatto che essi sono inseriti
in una narrazione: non soggetti singoli iconici
identificati in un rapporto individuale con un
animale oppure isolati, ma identità plurime la
Fig. 18 – Rilievo di parte del pannello di Grotta dell’Addaura 2, nella
porzione ove compare la scena con antropomorfi incisi dei quali alcuni
cui funzione, per quanto enigmatica e inde-
con maschera aviforme (da Graziosi 1973). cifrabile, si esplica all’interno di un gruppo e
all’interno di un evento. Nel repertorio noto, solo i tre “diavoletti”
di Teyjat (vedi infra) incisi su un bastone di comando, indicano una
presenza teriomorfa plurima in un contesto, anche in quel caso, forse
narrativo.
Anche nella penisola iberica sono segnalati, sia pure in numero mino-
re, teriomorfi parietali, spesso discutibili o incerti, talora a pieno titolo
rientranti nel repertorio in discorso. Nella Grotta di Les Pedroses,
nelle Asturie su una parete di una galleria interna restano tracce di
una pittura molto deteriorata di un antropozoomorfo con testa di bo-
vide (fig. 19), inserita in un pannello di piccole dimensioni con figure
Fig. 19 – Les Pedroses. Rilievo di an- zoomorfe (de Balbín Berhmann et alii 2000). Per quanto il pigmento
tropozoomorfo (da de Balbín Berh-
mann et alii 2000). rosso sia deteriorato, è ancora visibile il corpo di un personaggio uma-
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Fig. 20 –Grotta di Altamira. Rilievi, dovuti a H. Breuil, delle incisioni parietali di antropozoomorfi (da Breuil e Obermaier 1935). Si noti
la tendenza a rappresentare i personaggi con le braccia sollevate e protese in avanti. Due sono i soggetti con muso (maschera?) zoomorfa
riconoscibile, in questo caso aviforme.
no eretto visto di profilo (si segue la linea di una gamba, del ventre, forse dei glutei, delle braccia) sul
quale si innestano un largo e robusto collo e una testa di bovide con corno rivolto in avanti.
Nell’area cantabrica è presente nella Grotta di Altamira, presso Santander, insieme alle famose figu-
razioni maddaleniane (Breuil, Obermaier 1935), una serie di incisioni parietali di soggetti antropo-
zoomorfi più o meno chiari (fig. 20). Bene evidente è il museo (maschera?) aviforme del teriomorfo
completo (fig. 20, terza da sinistra) con struttura corporea chiaramente umana, testa con becco molto
evidenziato, rappresentato stante ma in modo dinamico con le braccia alzate e leggermente inclinato
in avanti. Particolare enfasi è data al sesso, la cui robustezza, più che le dimensioni, è messa in risalto
dal segno profondo come compare nel rilievo di H. Breuil. Ad essa si associa un’altra incisione di perso-
naggio aviforme (fig. 20, seconda da sinistra). Tra le sei segnalate va citata l’immagine di “orante” qua-
le esempio di testa che rimanda genericamente al mondo zoomorfo
senza possibile determinazione della specie animale; è raffigurata di
profilo, con gambe incomplete, sesso assente, corpo robusto senza
dettagli, braccia alzate verso l’alto con il dettaglio approssimativo
delle dita. Indubbio è il riferimento all’individuo molto simile di
Hornos de la Peña (vedi infra).
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Nella Cueva de Ardales (Malaga) una schematica figura incompleta,
già segnalata come pinnipede, è interpretata oggi come antropomorfo
femminile con testa aviforme (Cantalejo et alii 2006): sul profilo par-
ziale del corpo, appena bombato sul ventre, si innestano una sorta di
piccolo seno e un lungo collo terminante con una testa allungata con
estremità a guisa di becco (fig. 22). Innegabile è la suggestione della
testa ai repertori aviformi, l’assegnazione ad individuo femminile è le-
gata esclusivamente all’ipotizzato piccolo seno, nel complesso la figura
non possiede quella chiarezza iconica che consentirebbe di inserirla a
pieno titolo tra gli antropozoomorfi. Citiamo questa evidenza di Arda-
Fig. 22 – Cueva de Ardales. Rilievo
les come esempio delle raffigurazioni vagamente antropomorfe oppure
dell’incisione parietale di un dubbio con lineamenti del viso grotteschi che vanno inserite nel repertorio
antropozoomorfo femminile con testa
di aviforme (da Cantalejo et alii 2006). in analisi solo dubitativamente a causa della loro incertezza e labilità
rappresentativa, in quanto potrebbero indebolire il modello rappresen-
tazionale del teriomorfo, dove gli attributi umani e quelli animali sono
ben netti, bene evidenziati e inequivocabili.
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Figure forse teriomorfe sono segnalate alla grotta di Cobrante e al
Castillo (Welté e Lambert 2012).
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Dordogna, facente parte di un lungo ambiente sotterraneo (oltre 10 Km)
a più piani comprendente spazi frequentati dall’uomo e dall’orso delle
caverne. Nel fondo della cosiddetta Sala delle Pitture compaiono imma-
gini zoomorfe (bisonte, cavallo, forse stambecco), segni puntiformi e la
figura umana, tutte inserite in un unico pannello. L’uomo (altezza cm 15)
è figurato in piedi, con le gambe atteggiate in una tripla flessione, braccio
teso in alto e in avanti, sesso in evidenza (?), accanto a lui il bisonte (fig.
26). Anche in questa scena, di piccole dimensioni (cm 35 x 15), mancano
riferimenti al mascheramento, ma resta l’impianto di base che rimanda
a Lascaux e a Roc-de-Sers. Anche lo stile, per quanto più sintetico, sem-
Fig. 27 –– Petit Sorcier della Grotta La- brerebbe coerente con quello degli altri due complessi e quindi è stata
scaux (da Duhard 1996).
ipotizzata una analoga cronologia (Delluc e Delluc 1984).
Prudenza e riserva merita l’antropomorfo forse con testa animale della Grot-
ta di Fontanet, in Ariège, attribuito ai teriomorfi da Denis Vialou (1986),
raffigurato di profilo, leggermente piegato in avanti con testa proprement zo-
omorphe e pelame animale (altezza cm 17,5). In verità questa attribuzione, da
altri contestata (Duhard 1996), è dubbia in quanto l’incisione è ampiamente
lacunosa, anche a causa di un rivestimento calcitico, soprattutto nella parte
Fig. 29 –– Dubitativo sorcier di Fonta-
net (da Duhard 1996). della testa, fondamentale per la sua inclusione nei sorciers (fig. 29).
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Passando all’arte mobiliare, la rassegna di Welté e Lambert (2012) regi-
stra 24 immagini, 3 aurignaziane (Hohelstein-Stadel, Hole Fels, Geis-
senklosterle in Germania), 8 gravettiane (Kostienki I e Malta in Russia,
a cui si uniscono sei citazioni da fonti bibliografiche) e 12 maddalenia-
ne (Étiolles, Gourdan, Tuc d’Audoubert ed Ènlene in Francia, Las Cal-
das e La Garma in Spagna, Kesslerloch in Svizzera) e 2 epigravettiane
(Tolentino e Macomer in Italia). La maggiore concentrazione delle evi-
denze in area pirenaica potrebbe essere casuale e non essere indicativa
di un’area nucleare.
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attribuito agli ultimi millenni del Pleistocene su basi stilistiche, tecnologiche e iconografiche. La massa
del corpo, sicuramente umano, ha in grande evidenza i glutei e le cosce (l’estremità degli arti inferiori
manca), i seni sono ridotti e il ventre non è prominente. La testa ha lineamenti zoomorfi vaghi, gros-
solanamente accennati e l’attribuzione di Mussi e Melis al Prolagus resta ipotetica. L’incertezza della
definizione della specie animale, tuttavia, nulla toglie alla valenza antropozoomorfa della statuetta.
Di rilievo sono le implicazioni collegate al personaggio teriomorfo femminile di Tolentino, nelle Mar-
che (tav. 4/5), inciso su un ciottolo di ftanite, che fu scoperto casualmente nel 1884 durante scavi in
una cava di argilla e conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Ancona. Questo reperto figu-
rativo è stato a lungo trascurato sino a quando
Massi et alii (2007) non lo hanno riproposto
valorizzando il suo significato e la sua posizio-
ne nel quadro delle figurazioni antropomorfe
paleolitiche. Le analogie formali e stilistiche
consentono di riferire questa evidenza al Tar-
doglaciale, coerentemente con gli studi sedi-
mentologici. La figura è rappresentata eretta,
con le braccia incrociate sul ventre che incor-
niciano i due seni, la testa, volta verso sinistra
e vista di profilo, pare rimandare ad un equi-
de. Mancano alcuni dettagli anatomici (piedi,
dita di una mano…) mentre quello del trian-
golo pubico, concettualmente non irrilevante,
è ben marcato.
58
figura completa di cavallo che sembra adagiato sul fianco, forse ferito
(una sorta di lungo dardo pare penetrato nel ventre), la bocca aperta e
l’occhio apparentemente chiuso potrebbero suggerire che l’animale non
è più in vita. Accostato al cavallo, dietro al retrotreno, è stata inciso
l’antropozoomorfo, stante ma in posa appena dinamica; la testa pare
a morfologia equina (la trascuratezza tecnica rende in una qualche
maniera labile l’attribuzione), la grande bocca indicata con un lungo
segno rettilineo è serrata, compare un grande occhio subcircolare,
sulla sommità del capo due brevi fasci di linee convergenti potrebbero
indicare un accenno alla criniera. Tosello vede anche una lunga bar-
ba bifida, ma in verità questa suggestione non tiene conto che questi
due fasci di linee sono una parte delle numerose linee, anche riuni-
Fig. 34 – Grotta Las Caldas. Riprodu-
zione grafica del teriomorfo femminile te in fasci, che attraversano tutta la figura. Segue un lungo collo e,
a bassorilievo su corno cervino, con at-
tribui di stambecco (da Serangeli 2004). sotto di esso e sotto il sottile braccio con la mano segnata dalle dita
una lunga appendice potrebbe indicare il seno. Gli arti inferiori sono
inglobati in una informe appendice ricoperta da segni lineari anche
riuniti in fascio. Pur non essendoci sovrapposizione di segni, le due
figure appaiono in stretta relazione e il modulo costruttivo (anima-
le davanti-antropomorfo dietro) rientra nei canoni utilizzati nell’arte
mobiliare francese (vedi infra).
59
Femminile è anche il teriomorfo femminile di La Madeleine, in Ar-
dèche (Delporte 1993) (fig. 35 ), inciso su ciottolo (lunghezza massima
del supporto cm 9,8; sulla faccia opposta compare un’analoga figura
apparentemente maschile), visto di profilo, con corpo schematico, ap-
prossimativo e parziale, un solo braccio alzato e molto piegato, una te-
sta chiaramente zoomorfa ma indeterminabile come specie. L’attributo
di genere è il piccolo seno, graficamente ben definito.
Fig. 37 – Abri Mège. In alto: i tre “diavoletti” dell’Abri Mège, esseri compositi incisi su supporto osseo in associazione con un cavallo
e altri soggetti zoomorfi; in basso: rilievo dell’intera incisione che li comprende (da Duhard 1996).
60
Possiamo inserire nel repertorio teriomorfo
mobiliare, in qualche caso con prudenza e
talora con forti dubbi, anche altre immagini.
L’Abri Mège a Teyjat, in Dordogna, ha resti-
tuito il famoso “bastone di comando” perfora-
to e inciso (cm 31 di lunghezza), noto per le tre
figurine antropozoomorfe dette “les diablotins
de Teyjat” (Capitan et alii 1909) e attribuito
al Maddaleniano superiore. Esse sono inseri-
te in una sorta di pannello che comprende, al
centro, l’incisione completa e accurata di un
cavallo, forse morto (Soubeyran 1991), la figu-
ra principale attorno alla quale sono disposte
altre immagini animali (testa di cerbiatto, ser-
penti –o anguille-, cigni, un cavallo più picco-
Fig. 38 – In alto: rilievo e ricostruzione delle incisioni sulle due facce della
rondella ossea della Grotta di Mas d’Azil, una (a) rappresenta un individuo lo) e i tre “diavoletti” (fig 37). Il corpo di que-
vagamente zoomorfo e itifallico che affronta un orso, nell’altra (b) l’orso ha
abbattuto l’uomo. In basso: Le Pèchialet. Rilievo dell’incisione mobiliare sti tre esseri compositi è vagamente globoso
con associazione di orso e antropomorfo armato (da Duhard 1996). e ricoperto da abbondante pelame, le gambe
(esplicita è la raffigurazione delle cosce e delle ginocchia, i piedi sono raffigurati in due casi) sono più o
meno flesse, assenti gli arti superiori, la testa genericamente zoomorfa e appartenente ad un’unica tipo-
logia animalistica presenta lunghe orecchie appuntite e un’appendice enigmatica (corno?). Tra le varie
ipotesi presentate dopo la loro scoperta nel 1908, (figure caricaturali, esseri immaginari, personaggi
mascherati) (Duhard 1996) la più plausibile sembra quella di soggetti teriomorfi.
Nella Grotta del Mas d’Azil, sui Pirenei francesi, su una porzione di rondella ossea (dimensioni del
frammento mm 78 x 37) ottenuta da scapola di probabile bovino, le due facce sono incise con moti-
vo analogo (fig. 38/1): su un lato una figura umana con tratti del volto alterati (non necessariamente
mascherati, ma la sagoma del viso è vagamente zoomorfa) e itifallica affronta probabilmente un orso,
del quale rimane visibile una grande zampa protesa verso l’uomo (tav. 4/7); sull’altra una figura an-
tropomorfa rovesciata (rappresentata con la testa in basso e i piedi in alto) appare abbattuta da un orso
(Chollot 1964), in uno schema iconografico al momento unico. Sono chiare le analogie con le altre
figurazioni sopra descritte, compresa la presenza di un’asta che in questo caso è sulla spalla dell’indivi-
duo sulla prima faccia. L’attribuzione è al Maddaleniano IV. Una lotta tra un antropomorfo (masche-
rato?) forse munito di un asta e un orso (fig. 38/2) compare anche su un reperto mobiliare della Grotta
Le Pèchialet in Dordogna (Breuil 1927), una placca di scisto (cm 18,9 x 9,5), che potrebbe risalire al
Gravettiano o al Maddaleniano. La citiamo qui perchè evoca senza dubbio la rappresentazione sulla
61
rondella del Maz d’Azil: si tratta di una sorta di scena dinamica che
vede un orso in verticale tra due personaggi in movimento, uno dei
due sembra colpito da una zampata e in procinto di cadere. Manca-
no indicazioni sul sesso e non vi sono tracce di mascheramento. Le-
roi-Gourhan vi legge una rappresentazione drammatica, Marshack ha
ipotizzato una danza cerimoniale o un contrasto cerimoniale con l’orso
(cit. in Duhard 1996).
L’associazione uomo-bisonte, che nelle figurazioni parietali accompagna sovente il personaggio terio-
morfo, è presente anche su un reperto mobiliare dal Riparo di Laugerie Basse, in Perigord, oggetto
di scavi alla fine del secolo XIX (con riprese di indagini negli anni ‘960), in un periodo cioè non
caratterizzato dal rigore metodologico dello scavo stratigrafico, con relativa perdita di informazioni
crono-culturali per le varie classi di reperti. La frequentazione del sito pare relativa soprattutto alla
fine del Paleolitico (Breuil H. 1934, Roussot 1984). Un frammento osseo di renna (cm 24,5 di lun-
ghezza), molto deteriorato e a luoghi di difficile lettura, mostra una scena interpretata generalmente
come scena di caccia, con una figura umana distesa (in relazione alla morfologia del supporto stretto
e lungo) che segue un figura di bisonte, forse con una freccia nel fianco (fig. 40). L’inserimento nel
repertorio antropozoomorfo resta molto dubitativo per la genericità dei tratti del viso, ma possibile.
L’attribuzione probabile è al Maddaleniano IV.
Hommes blessés
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collegate al tema dello sciamanesimo paleolitico. Sono figure umane più o meno stilizzate o sommarie
che appaiono attraversate da linee o tratti multipli che si interrompono poco al di fuori del loro profilo.
Tali segni lineari rappresenterebbero, secondo le interpretazioni più diffuse, zagaglie o dardi penetrati
nel corpo. Del repertorio, in verità non abbondante, citato in letteratura (Delluc e Delluc 1989, Lor-
blanchet 1984a, b e 2009) sembrano superare l’esame critico di una verifica formale e identificativa
solo poche figurazioni, quella della Grotta di Cougnac e il cosiddetto arciere della Grotta di Pech Merle
(entrambe nella regione del Lot, in Francia), ambedue riferite alla cultura del Gravettiano e risalenti a
circa 25-23.000 anni fa.
Nella Grotta Cougnac, presso Gourdon nel Lot, all’interno del grande fregio con figure di Megaceros
è dipinta in nero una figura antropomorfa parziale (solo le gambe e parte del dorso) in movimento,
colpita da dietro da tre segni lineari (dimensioni del pannello cm 40 x
28) (tavv. 5/1, 2). Una seconda figura in movimento e ferita, questa vol-
ta completa, anch’essa nel grande fregio, è interessata da sette linee che
convergono nel corpo (zagaglie?), la testa globosa è schematica e non si
ravvisano indizi di mascheramento (dimensioni del pannello cm 45 x
30 (fig. 41; tav. 5/3).
L’immagine della Grotta di Pech Merle, nel Lot, dipinta in rosso sulla
volta, secondo A. Lemozi (1929) apparirebbe munita di maschera avi-
forme, tuttavia la morfologia complessiva della testa potrebbe anche
Fig. 41 – Grotta di Cougnac. Rilievo
della pittura parietale di homme blessé, essere il risultato di un linguaggio schematico ed essenziale, il sesso è
associata nel medesimo pannello ad
altra analoga figura di antropomorfo presente e ben sviluppato, volontariamente messi in risalto i due occhi
ferito (vedi tavv. 5/1, 2) (da Duhard in uno schema dove i dettagli anatomici sono pressoché assenti, il cor-
1996).
po è attraversato da otto tratti lineari tra loro non uniti, ma distaccati
all’altezza del dorso e del ventre dell’individuo (quattro proiettili con
l’indicazione dell’entrata e dell’uscita oppure otto proiettili?) (fig. 42;
tav. 5/4). Tre segni «aviformi» (?) sono posizionati presso la testa.
Forse non dissimile dalla ipotetica rappresentazione di un potente soffio
d’aria del già citato petit sorcier à l’arc musical (fig. 9) (per quanto con-
cerne l’ipotesi del potente soffio d’aria e non dello strumento musicale) è
quella relativa all’apparente figura di orso della Grotta di Trois Frères,
la quale, pur non avendo chiari attributi umani, non sembrerebbe estra-
nea al repertorio di antropomorfi mascherati. É raffigurato, come si os-
serva nel rilievo di Henri Breuil (fig. 43), di profilo (lunghezza cm 60),
Fig. 42 – Grotta di Pech-Merle. Ri-
lievo dell’antropomorfo ferito dipinto costellato da numerose piccole incisioni circolari che ricoprono soprat-
sulla volta, dubitativamente munito di
tutto gli arti posteriori, il retrotreno e il corpo nella sua parte mediana
maschera aviforme (da Leroi Gourhan
1965). ed è ricoperto da alcuni segni lineari. La figura è inserita in un pannello
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localizzato sotto il Sorcier e a destra del pannello con l’ipotetico
sorcier con testa rivolta all’indietro, al margine inferiore di un gro-
viglio di linee relative a immagini zoomorfe. Il dato particolare
ed anomalo di questa incisione all’interno del bestiario paleolitico
è l’ipotizzato atto di sputare, reso con una serie di lunghe linee
parallele che fuoriescono dalla bocca dell’orso a formare un largo
fiotto. Non possiamo escludere che esse rappresentino un elemen-
Fig. 43 – Grotta di Trois Frères. Rilievo, per
to aereo e non liquido. Tale anomalia potrebbe aprire il dubbio,
mano di H. Breuil, dell’incisione parietale che avanziamo con estrema prudenza, che si tratti non un animale
tradizionalmente interpretata come orso fe-
rito; qui si avanza l’ipotesi che possa essere ferito sofferente (Delluc e Delluc 1989) ma di un antropomorfo
letta come immagine di antropozoomorfo mascherato ferito che emette un forte soffio d’aria, anche se nessun
ferito che emette un forte soffio d’aria (da Art
Des Cavernes 1984). elemento morfologico rimanda chiaramente al corpo umano.
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l’arte paleolitica sarebbe un sistema di narrazioni mitologiche. Già nell’articolo su Rock art Research
del 1997 (una stroncatura presentata come una lunga e circostanziata recensione del sopra citato testo)
aveva attaccato duramente le loro tesi, non tanto sull’interpretazione delle singole testimonianze arche-
ologiche, ma all’intero impianto su cui si struttura la tesi dello “sciamanesimo” nella preistoria. Non
sempre i toni del dialogo sono stati concilianti, al punto che, nella nota editoriale in chiusura all’arti-
colo di risposta di Clottes e Lewis-Williams sulla medesima rivista (Bahn 1998), l’editore si scusa per
i toni accesi ed invita i “contendenti” a preoccuparsi della conservazione dell’arte parietale paleolitica,
più che della sua interpretazione.
Le critiche di Bahn a Les Chamanes de la Préhistoire risparmiano i capitoli 2 e 3:
“Two of its chapters (Nos 2 and 3) are excellent, straightforward, factual accounts of the phenomenon of
Palaeolithic cave art and the history of its interpretation…”
ma continuano:
“The problems — and they are many, profound and varied — lie in the other three chapters”(Bahn 1997,
pag. 62).
Effettivamente sono questi i capitoli che creano maggiori problemi, visto l’elevato margine di specula-
zione che producono.
Entriamo quindi nel vivo del dibattito, che vogliamo presentare al lettore sotto forma di quesiti, gli
stessi che si è posto chi scrive. Tuttavia è opportuno premettere alla specifica riflessione sullo”sciama-
nesimo” nel mondo paleolitico una illustrazione del fenomeno “arte”, il quale rimane l’evidenza docu-
mentaria primaria su cui basare riflessioni, osservazioni, proposte, ipotesi interpretative. Rispondiamo
quindi ad alcuni quesiti preliminari in modo che le nostre note e osservazioni sul fare segno e sul
simbolismo consentano al lettore di valutare a tutto tondo la questione.
Quesiti
1 - Quando compare il “fare segno” nella storia dell’uomo e come possiamo interpretare questo fe-
nomeno? i segni sono in un qualche modo ispirati ad un’organizzazione o sono forse casuali?
Al momento la documentazione del fare segno attribuisce all’Uomo di Neanderthal le prime esperien-
ze grafiche, si tratta di evidenze molto scarse, talora oggetto di discussione sulla loro intenzionalità ma
un lotto, per quanto esiguo, di segni ha superato il necessario vaglio critico e attesta, in conclusione,
che i Neandertaliani hanno dato avvio ad una esperienza grafica di tipo lineare (Martini 2008). Il pro-
blema dell’esperienza grafica come origine del pensiero simbolico sembra investire anche il segmento
storico del Paleolitico inferiore, con rare incisioni su osso e su pietra, ma il problema rimane aperto
anche perché alcuni recenti studi hanno dimostrato la necessità di una grande prudenza, in quanto
impronte di canali vascolari e azioni meccaniche ad opera di elementi abrasivi avrebbero prodotto
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delle pseudo-incisioni naturali, identificabili solo con uno studio mediante opportune strumentazioni
ottiche, informazioni di anatomia comparata e la conoscenza delle dinamiche di accumulo dei resti
ossei nei depositi antropici.
Comprendente una serie di evidenze distribuite in alcune regioni europee, sia ad Est (Ungheria, Bulgaria),
sia in area mediterranea (Italia e Spagna), sia nell’area occidentale (Francia), alle quali si unisce, per ora, un
documento da Israele, la grafica neandertaliana è limitata a rari frammenti lapidei e a più numerosi fram-
menti di osso (costola, scapola e, più spesso, frammenti indeterminabili) e di corno sui quali compaiono
segni incisi (fig. 44) eseguiti in modo più o meno sommario e organizzato, di tipo geometrico-lineare (Mar-
tini et alii 2004). Questo primato che assegniamo all’Uomo di Neanderthal è giustificato dalla capacità di
realizzare:
- motivi lineari generici, costruiti mediante un intreccio di linee parallele e subparallele, sempre molto ravvi-
cinate, disposte a gruppi che si intersecano e che provengono da più direzioni. Il numero delle linee, e quindi
la complessità dei fasci, è variabile. Si tratta di una sintassi molto standardizzata che interessa una superficie
del supporto, sulla quale talora il moti-
vo è decentrato e si avvicina ai margini
laterali.
- motivi lineari specializzati, profon-
damente diversificati, ma aventi come
carattere comune una specifica defini-
zione del tratto lineare: motivo a linee
concentriche, motivo a zig zag costruito
con l’associazione di singoli segni a V,
motivo cruciforme (questo elemento,
che rimane un unicum, desta una forte
perplessità sia per la regolarità geome-
trica bidimensionale del supporto, sia
per l’essenzialità del segno cruciforme,
sia per la complessità concettuale colle-
gata all’utilizzo di una linea di frattura
naturale per definire e realizzare l’im-
magine);
- motivo lineare con scansione ritmica
in gruppi di linee.
Appare chiaro che questo repertorio
Fig. 44 – Documentazioni grafiche musteriane. 1: Grotta Costantini, 2: Cham- grafico a carattere lineare non ha nul-
plost, 3: Chez-Pourré-Chez-Comte, 4: Tata, 5: Quineitra, 6: Grotta Temnata, 7 :
Bacho Kiro, 8: Abri La Ferrassie (da Martini et alii 2004). la a che vedere con la pratica figurativa
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che, a partire da 40.000 anni fa circa, il sapiens europeo ha introdotto nel suo patrimonio comportamentale,
lasciando pitture, incisioni, bassorilievi e altorilievi, statuette a tutto tondo nei quali ha raccontato simbolica-
mente un mondo interiore attraverso immagini zoomorfe e antropomorfe nelle quali i soggetti sono sempre
riconoscibili e attraverso segni geometrico-lineari che per noi restano enigmatici. La grafica neandertaliana
tuttavia si presenta come il primo documento attestante la volontà e la capacità di trasportare su un supporto
-che è altro da sé- immagini della mente, sebbene non ancora identificate in soggetti del mondo sensibile.
I documenti iconografici sopra descritti costituiscono la base speculativa per chi vuole affrontare una teoria
della figurazione (Gestaltung) come percorso preparatorio e formativo della immagine riconoscibile, vale a
dire della costruzione di una forma mediante linee oppure mediante superfici. Le evidenze grafiche nean-
dertaliane si pongono come esperienze non tanto di “forme”, implicanti un risultato finale compiuto (la
rappresentazione del mondo), quanto di “figurazioni”, termine che possiede una connotazione di mobilità,
di incompiuto, di azione in progress. Nel procedimento concettuale che origina l’esperienza grafica, la figura-
zione lineare neandertaliana può essere interpretata come genesi di una esperienza formale, sensu stricto, che
non pare rientrare, stando alle documentazioni archeologiche, nel bagaglio espressivo del Paleolitico medio,
come antecedente alla rappresentazione formale che sarà patrimonio della specie sapiens.
I tre motivi principali sopra evidenziati possono esser riferiti, nell’ambito di un processo iconografico, a stadi
diversi. Il motivo lineare generico consiste, in estrema sintesi, ad una materializzazione di un movimento
libero, non soggetto ad un progetto formale, esso è dato da linee “in libertà” in una sorta, parafrasando Klee,
di originaria condizione di moto. L’assenza di una direzione privilegiata nei motivi lineari generici, l’assenza
di un punto di riferimento, di un inizio, di una fine e di un centro rendono queste figurazioni, in un certo
senso, mobili. Nel risultato finale il punto, ovvero i punti, di partenza delle singole linee sono annullati dalla
loro trasformazione in linee, linee così fittamente interconnesse da trasformarsi in superfici.
I motivi specializzati, invece, e quelli a scansione ritmica si pongono su un piano concettuale diverso in
quanto il campo compositivo del supporto (superfici piane, margini, bordi) sono soggetti a misurazione,
ad una classificazione dello spazio che permette la configurazione di un ritmo e la regolarità, in altre paro-
le la comprensione immediata di un progetto grafico. Il motivo cruciforme (Tata) e le linee concentriche
(Quneitra) nascono da una direzione del movimento, in questi due casi esiste un punto come centralità e
come origine dell’andamento centrifugo (estremamente appariscente nell’oggetto di Quneitra) che produce
un risultato grafico assai dinamico. Lo stesso effetto di dinamismo che si ricava nella costruzione mediante
segni a V di Bacho Kiro e nelle linee scandite di Grotta Costantini; nel primo l’impulso motorio crea una
figurazione con una base figurativa di tre V ad apici contrapposti dalla quale ha origine una crescita longi-
tudinale binaria. In questi motivi il risultato finale non è una superficie, ma un movimento di linee che, sia
pure organizzate, non raggiungono uno schema costruttivo elaborato. Tale risultato, invece, è bene visibile
nella sintassi dei motivi lineari con scansione ritmica (Costantini, La Ferrassie), collegati ad una operazione
mentale ancora più complessa che prevede la costruzione di uno schema basato su un’articolazione spaziale,
sulla divisibilità della superficie del supporto in misure prefissate, su una graduazione dei segni che nella loro
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completezza e interconnessione illustrano l’essenza di un progetto.
Potremmo dire che i motivi lineari specializzati e quelli a scansione ritmica rappresentano, nella ricostruzio-
ne del processo figurativo neandertaliano, l’antitesi della concettualità dei motivi lineari generici: dilatati i
primi, con un impulso motorio molto forte e una dinamica centrifuga legata al fluire organico e codificato
delle singole linee, improntati alla densità gli altri, nella loro essenza di superfici. In altre parole alla progres-
sione energetica delle linee concentriche dall’interno verso l’esterno della placchetta in selce di Quneitra fa
riscontro la densità energetica interna della sovrapposizione di linee sui reperti di Champlost e di Grotta del
Cavallo, che permea tutta l’ossatura della figurazione; mentre la stratificazione di linee generiche crea un’im-
magine fissa e statica, le altre due tipologie di motivi lineari danno origine a figurazioni libere e dinamiche.
Di difficile soluzione è la questione se collegare le incisioni neandertaliane ad azioni utilitaristiche oppure ad
esperienze grafiche di tipo simbolico, campo interpretativo, quest’ultimo, che apre innumerevoli possibilità,
tutte connesse, nell’ambito dello psichismo, ad azioni e gesti che implichino la manipolazione di supporti
lapidei e il conferimento di un “marchio” oppure a valori intrinseci del solo segno quale vettore di significati.
In questo contesto di domande senza risposta è fondamentale evidenziare la complessità concettuale diffe-
renziata che sta alla base di queste esperienze grafiche neandertaliane, l’esistenza di procedimenti mentali
ai quali si lega il “fare segno”, i quali possono essere messi in degna luce mediante un’analisi formale, per
quanto sommaria, delle figurazioni. Il dibattito sulla nascita delle esperienze simboliche, in altre parole, po-
trebbe arricchirsi di una riflessione sui contenuti formali delle incisioni neandertaliane, al fine di evidenziare
la complessità dello psichismo dei neandertaliani che hanno elaborato, per primi, non solo la pratica della
conservazione dei defunti (Facchini et alii 1991, Defleur 1993) ma anche strategie operative nella litotecni-
ca (Jaubert 1999) particolarmente complesse in termini di progettualità ed assai efficaci in termini di resa
produttiva.
2 - Il segno lineare quindi rappresenta l’inizio dell’esperienza grafica. Quando l’uomo comincia a
rappresentare la realtà rendendo riconoscibile l’oggetto della sua azione grafica? Nella pratica
Nulla dies sine linea: Apelle (IV secolo a.C.), riconosciuto come maestro nel tracciare linee a fon-
damento dell’immagine, secondo Plinio passò l’intera vita a coltivare questa sua dote (Cappelletto
2009). Ma in verità Apelle ripeteva quanto già faceva parte del patrimonio immateriale dell’umanità.
Presso le comunità di cacciatori-raccoglitori europei della specie sapiens compare, attorno a 40-35 mila
anni fa, la pratica di elaborare immagini, con una certa variabilità tecnica (pittura, incisione, piccola
statuaria a tutto tondo, bassorilievo, statuaria modellata in argilla) e tematica (figure zoomorfe, figu-
re umane, segni geometrico-lineari). Si tratta di un linguaggio figurativo, articolato sin dalle prime
manifestazioni iconografiche in un sistema organico e codificato di comunicazione non verbale, che si
contraddistingue come uno dei principali parametri culturali dell’Uomo anatomicamente moderno.
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Le prime manifestazioni grafiche pre-sapiens non sono mai giunte alla elaborazione di un sistema di
materializzazione della visione, sistema che possiamo ricondurre alla invenzione ad opera del sapiens
del segno lineare come strumento grafico. In effetti la linea, che non appartiene al nostro spazio visivo
comprensivo invece di discontinuità tra masse e volumi, costituisce un espediente materiale che per-
mette di rendere bidimensionali delle discontinuità tridimensionali. In realtà più che un espediente la
linea diventa una buona soluzione per il nostro sistema visivo atto a percepire contrasti (Martini 2008).
Ecco quindi che il sorgere del codice visuale sembra collegarsi, in una visione biologica, alla capacità
non solo di ricevere un’informazione dalla visione ma di trasmettere l’informazione attraverso la pro-
duzione di un’immagine. Esclusiva del sapiens pare questa capacità di diffondere un codice figurativo
e il suo complesso mondo di significati all’interno dei sistemi educativi di una comunità, inserendo un
nuovo strumento nei sistemi di comunicazione non verbale e un nuovo apporto nella rete dei saperi
collettivi. In questo stadio potrebbe situarsi il raggiungimento della completa “modernità” del sapiens,
caratterizzata tra l’altro (vedi cap. 2), anche dalla capacità di un linguaggio complesso e articolato e da
un sviluppo che implica la possibilità di atteggiamenti simbolici e di comunicazione polivariata, il cui
risultato ultimo non può non essere una maggiore coesione sociale e un incremento della solidità del
consorzio comunitario.
Con le prime comunità sapiens europee, che gli archeologi indicano col nome della loro cultura (Au-
rignaziano, cronologicamente compreso tra ca. 40-30.000 anni orsono) si diffonde la cosiddetta “arte
preistorica”, da intendersi come un sistema organico e non estemporaneo di figurazioni riprodotte sia
sulle pareti delle caverne (arte parietale) sia su supporti in osso o pietra trasportabili (arte mobiliare)
attraverso varie tecniche. Il linguaggio iconografico (lo “stile”, se vogliamo usare un termine corrente)
delle prime manifestazioni figurative aurignaziane non è omogeneo.
Un’ampia e ben documentata serie di incisioni ha come oggetto l’organo sessuale femminile, rappre-
sentato in modo schematico ma perfettamente riconoscibile, raffigurato come tema isolato, avulso
dall’unità corporea, come ideogramma che in forma di sineddoche rimanda -una parte per il tut-
to- al grande tema della fertilità e della procreazione (fig. 45; tav.6/1-3) . Talora anche fessure nelle
pareti rocciose hanno evocato, nel loro gradiente simbolico, l’organo sessuale femminile: esemplare
è il caso ben noto della Grotta di Gargas, sui Pirenei francesi, dove una nicchia stretta e profonda
con apertura a morfologia ellittica svasata richiama l’apertura vulvare (Foucher et alii 2007); che
tale evocazione potesse aver assunto una valenza simbolica è confermato dall’estesa applicazione
nel fondo della fessura di molta ocra rossa che conferisce una colorazione rosso accesa alla fessura
medesima (tav. 6/4). L’importanza simbolica del tema della riproduzione è sottolineata anche dalle
raffigurazioni a tutto tondo di robusti falli, realizzate con un naturalismo che nulla lascia all’immagi-
nazione (tav. 6/5, 6). Ideologicamente legata al tema dei segni vulvari, e più in generale al tema della
fertilità, è la piccola statuaria antropomorfa, le cosiddette “Veneri” (figg. 46, 47; tav. 7/1-5), nella quale
l’enfatizzazione delle parti anatomiche legate alla gravidanza è attuata con un procedimento mentale di
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astrazione molto moderno, vale a dire
con una scomposizione dei volumi
anatomici e una loro ricomposizione
tese a dare profonda espressione al
tema della fertilità senza perseguire
alcun intento ritrattistico. Volumi
che restano enfatizzati anche quando
il linguaggio grafico si esprime attra-
verso esiti bidimensionali molto sche-
matici, sia nella piccola statuaria (tav.
7/6) sia nelle incisioni (tav. 7/7).
L’altro grande tema delle figurazioni
paleolitiche concerne il mondo ani-
Fig. 45 – Rilievo del blocco calcareo con due segni vulvari profondamente incisi
(da Anati, a cura di, 2003). male, ritratto sia con soggetti singo-
li sia in scene talora particolarmente
elaborate e complesse, con diverse tecniche (tav. 8/1, 2, 3), un tema che rimane costante per tutto il
Paleolitico superiore e che viene trattato con diversi stili e linguaggi iconografici. Il fenomeno figu-
rativo va inteso come una manifestazione organica di comunicazione eidetica, un sistema maturo, il
risultato di un procedimento mentale che, partendo dall’assimilazione del reale percepito, lo rielabora
e lo restituisce in segni e in un alfabeto iconografico non improvvisato né spontaneo bensì codificato
in un linguaggio comprensibile a tutti. Il fare segno, inserito in una progettazione (Homo si distingue
dal mondo animale -e dalle scimmie che si sono trovate in mano un pennello utilizzato per lasciare
tracce di colore su una tela- in quanto non gli è data la possibilità di essere semplicemente bensì deve
fare progettualmente: Cacciari e Donà 2000), è techne e psiche e nel corso dei millenni in quanto “fare” è
stato soggetto a regole, ciò che chiamiamo stili artistici, nomoi non scritti adottati per millenni, variati
Fig. 46 – Veneri paleolitiche. 1: Balzi Rossi, 2: Tursac, 3: Savignano, 4: Lago Trasimeno, 5: Mauern (da Mussi et alii 2000).
70
Fig. 47 – Veneri paleolitiche. 1: Lespugue, 2: Grimaldi 3: Willendorf, 4: Kostenki, 5: Gagarino, 6: Khotylevo, 7: Avdeevo
(da Mussi et alii 2000).
e concettualmente diversi ma sempre compresenti. Infatti già nelle prime manifestazioni aurignaziane
sono presenti in Europa diversi stili nella pittura e nell’incisione, uno naturalistico attento alle propor-
zioni e ai dettagli anatomici, talora anche con effetti di chiaroscuro e di visione prospettica (tav. 9/1,
2), quello apparentemente approssimativo con rappresentazioni di animali visti di profilo (tav. 9/3) e
infine quello schematico, rigido ed essenziale (tavv. 1/1; 9/4) che talora utilizza anche la sineddoche,
cioè rappresenta una parte per il tutto; in relazione a quest’ultimo, ne è un esempio la schematizzazio-
ne dell’organo sessuale femminile (tav. 6/2) che richiama la figura femminile gravida esplicitata nella
piccola statuaria femminile a tutto tondo già presente nell’Aurignaziano (tav. 7/1) con un modello che
troverà ampia diffusione nello schema della “Venere” gravettiana (tav. 7/2) (Cohen 2003), in un sistema
omogeneo negli stili e nel tema sia nell’Est europeo sia nell’Europa atlantica e centrale (Vialou 2003).
all’Aurignaziano risale anche una produzione di piccole statuette zoomorfe con volumi anatomici es-
senziali che consentono l’immediato riconoscimento della specie animale (tav. 9/5).
La compresenza di stili diversi durante l’intero Paleolitico superiore (40-10.000 anni fa) indica che le
regole che l’uomo si è dato non sono mai state vincolanti e che la storia delle figurazioni paleolitiche,
cioè la storia dell’esperienza creativa pleistocenica è segnata da più nomoi che si alternano e si succedono
nell’essere dominanti uno sull’altro, ma che sempre coabitano nella mente e nella mano dei cacciato-
ri-raccoglitori.
Nell’ambito delle scienze cognitive è in corso da tempo un dibattito sul significato e sul valore della
prima arte figurativa, in particolare sul significato adattivo dell’arte medesima, dibattito che ancora
prende spunto dalle posizioni darwiniane per evolversi in diverse posizioni, alle quali abbiamo fatto
cenno nel capitolo precedente. Di grande interesse è senza dubbio la riflessione di Ellen Dissanayake
che a partire dagli anni ’80 ha proposto una serie di posizioni di tipo evoluzionistico che emergono
all’interno delle diverse tesi dell’arte come fenomeno adattivo biologico a funzione sociale. Riprendia-
mo qui alcune sue osservazioni tratte da scritti (Dissanayake 1988 e 1992) che trovano il conforto della
71
documentazione archeologica e che sono a nostra parere del tutto condivisibili. La pratica figurativa
dell’Homo aestheticus appare come un fatto straordinario (making special) o meglio come un atteggia-
mento che trasporta fuori dell’ordinario gesti, azioni, oggetti, soggetti di ordinaria quotidianità, così
come altre pratiche non utilitaristiche quali i comportamenti rituali, religiosi, cerimoniali. Seguendo il
ragionamento dell’antropologa americana possiamo identificare e sottolineare alcuni caratteri peculiari
dell’esperienza figurativa, rimarcandone il carattere straordinario in un particolare stadio dell’evoluzio-
ne del genere Homo.
Escludendo la grafica neandertaliana, il fare segno producendo immagini riconoscibili che rimandano
a soggetti del mondo reale, sia pure in chiave simbolica, costituisce un patrimonio universale della spe-
cie sapiens del Paleolitico recente in possesso di un sistema cerebrale evoluto e di una fonazione matura
con linguaggio articolato: ovunque l’uomo anatomicamente moderno si sia diffuso a partire da 40.000
anni fa circa ha lasciato tracce iconiche e non solo segni lineari. Ciò che vincola la pratica figurativa
paleolitica è che quanto viene dipinto, inciso, scolpito o modellato deve esistere, in altre parole la co-
siddetta arte ubbidisce alla regola primaria, il nomos estetico (Cacciari e Donà 2000), secondo il quale
l’uomo non può che dare forma (organica o anorganica) a ciò che è reale nel mondo, che tutti osser-
vano e vedono nella medesima struttura corporea. Le “sequenze formali” di George Kubler altro non
sono se non procedimenti linguistici in campo visivo che riflettono canoni condivisi e comprensibili a
tutti. Il concetto di sperimentazione e di avanguardia, così stimolante nel secolo passato alla ricerca di
linguaggi espressivi nuovi, non sembra congeniale alle genti paleolitiche.
Le tecniche di esecuzione sono le stesse a tutte le latitudini, quindi non possiamo escludere –ma questa
asserzione richiede la massima prudenza- che l’insorgere della pratica figurativa presso i sapiens evoluti
possa avere utilizzato esperienze estemporanee e non necessariamente rudimenti trasmessi nel tempo
e nello spazio.
La pratica figurativa richiede un grande impegno a livello di tempo, di conoscenze e di energie: tale
investimento riguarda la ricerca delle materie prime idonee alla pittura (minerali e organiche), la pro-
duzione di manufatti litici che consentano l’incisione, la modellazione della roccia per le immagini a
rilievo, un rapporto talora non facile con lo spazio quando le figurazioni vengono eseguite in difficol-
tosi cunicoli, in anfratti o in disagevoli gallerie oppure nella pittura di grandi pannelli di diversi metri
quadrati di estensione su piani di esecuzione di solito distanti da terra.
Fondamentale è la valenza sociale del fare segno, che va visto anche come uno strumento di comuni-
cazione non verbale e di formalizzazione di un codice dei saperi condiviso dalla comunità all’interno
di una dimensione simbolica. Le sue funzioni, verosimilmente variate, si esplicano nella dimensione
rituale-religiosa-sacrale in cui le figurazioni vengono prodotte e utilizzate.
In ultimo, pare verosimile che l’adozione di uno o più stili sin dai primordi delle esperienze figurative
(naturalistico o schematico) sia collegato ad un senso estetico che si percepisce, tra l’altro, nella simme-
tria e nell’equilibrio armonico delle forme e dei profili, nell’uso della monocromia e della policromia e
72
del chiaroscuro, nel rapporto tra immagine e supporto mobile o parietale.
Nessuna produzione figurativa, in ogni epoca, possiede un valore in sé, esso varia in rapporto al conte-
sto in cui la figurazione viene accolta, condivisa, interpretata e, possiamo dire, consacrata. Lo stesso si
dica per la sua funzione. Quando l’uomo, nel corso della sua lunga storia “artistica”, ha osservato una
figurazione non lo ha mai fatto con occhio vergine, ma condizionato in ogni epoca dal background
culturale su cui si è inserita la sua percezione e la sua lettura del visuale. Possiamo affermare che ogni fi-
gurazione, in quanto trasfigurazione del reale che essa racconta, contiene in sé elementi di una cultura.
Si comprende quindi quanto sia difficile attribuire a immagini così lontane da noi nel tempo significati
e funzioni che sono proprie delle comunità di cacciatori-raccoglitori, che in ambienti molto differenti
dai nostri, all’interno di regimi economici non produttivi ma predatori hanno elaborato modi di vita e
visioni simboliche del mondo che possono risultare oggi a noi aliene, quasi estranee. La nostra ricerca
dei significati non può non tenere conto delle stratificazioni di senso e di funzione che ogni immagine
simbolica porta con sé, dovute alla memoria collettiva, ai saperi condivisi, alla storia culturale di chi
quella immagine ha prodotto.
Le immagini antropomorfe “sciamaniche” o le impronte di mano hanno fatto ipotizzare una rap-
presentazione con fini propiziatori per la caccia, nella quale la mano acquisisce il valore simbolico di
possesso, di potere o quanto meno di controllo di una situazione. Questa interpretazione assegnerebbe
all’arte paleolitica una valenza legata ad una sorta di magia venatoria. D’altra parte il fatto che il reper-
torio figurativo paleolitico comprenda, in modo molto preponderante, immagini di animali legati alla
caccia, che era la risorsa primaria di sopravvivenza, non può non collegare strettamente l’attività vena-
toria a pratiche simboliche ad essa connesse. Importanti sono, in quest’ottica, le figurazioni di animali
feriti o abbattuti (grotte di Cosquer, di Montespan, di Font-de-Gaume, di Pech Merle, ad esempio)
(tav. 10/1, 2) o di segni geometrici che potrebbero indicare l’immagine di trappole (figg. 48-50; tav.
10/3). Nella grotta di Tuc d’Audoubert, rimasta intatta dopo l’abbandono delle comunità paleolitiche,
si sono conservati a ridosso di un blocco stalagmitico due bisonti modellati in argilla (tav. 10/4) e, nella
sala antistante, sono presenti impronte di piedi di adolescenti limitate al solo calcagno (tav. 16/4, 5),
ordinate in cinque file, le quali potrebbero essere i segni lasciati nel corso di una danza con valenza
rituale. Tuttavia sarebbe riduttivo attribuire alla cultura visuale questa unica valenza, in quanto, anche
se non siamo in grado di trovare le necessarie spiegazioni, la simbologia molto articolata che sottende
alle immagini indica una complessità e una pluralità di atteggiamenti. Alcune grotte sono state uti-
lizzate come veri e propri santuari e solo secondariamente a fini abitativi o utilitaristici; è il caso delle
famosissima Grotta di Lascaux (Aujoulat 2004), dove hanno un significato specifico la posizione delle
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figure, tutte ad un’altezza superiore a due metri dal piano di
osservazione, le loro dimensioni a volte gigantesche rispetto
a quelle naturali, nonché la sovrapposizione, talora, di molte
figure che creano pannelli articolati in un percorso visivo
(tav. 10/5). Esemplare è anche la Grotta di Cussac, presso Le
Buisson-de-Cadouin in Dordogna, un “santuario” proba-
bilmente gravettiano (una data su resto umano, considerata
attendibile, è pari a circa 25.000 anni da oggi) ancora poco
noto in quanto scoperto nel 2000 (Aujoulat et alii 2004)
Fig. 48 – Grotta di Trois-Frères. Rilievo di incisio-
ne parietale di cavallo ricoperto da segni clavifor- che ha restituito, nel suo lungo sviluppo sotterraneo di 1,6
mi (Art Des Cavernes 1984 ).
km, essenzialmente evidenze simboliche (arte, deposizioni
funebri; tra l’altro si tratta di una delle poche attestazioni di
connessione probabile tra manifestazioni figurative e pratiche
funerarie) e rare documentazioni d’uso quotidiano. Il bestia-
rio raffigurato, coerente con l’usuale repertorio (mammouth,
rinoceronte, stambecco, cavallo, bisonte) è presente sulle pa-
reti ma anche sull’argilla del suolo della galleria. Il carattere
principale è dato a Cussac dalle dimensioni decisamente più
grandi della norma, quasi gigantesche; si consideri che uno
dei bisonti del cosiddetto Grand Panneau (tav. 10/6) misura
circa 4 m di lunghezza. É innegabile quindi il valore monu-
mentale che certe figurazioni possono assumere quando sono
Fig. 49 - Cueva di Rincon. Rilievo di incisione
parietale di cervo colpito da freccia (da Montes state eseguite anche con la ricerca di un impatto visivo fuori
Barquín et alii 2005).
dell’ordinario.
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lenza non di rappresentazione del reale ma di sistema articolato finalizzato a stimolare le reazioni
individuali di fronte al reale stesso, cade anche la validità del termine “rappresentazione” che do-
vrebbe essere sostituito da “evocazione”. Certamente sarebbe fuori luogo assegnare alle immagini
dipinte o incise sulle pareti delle caverne o su oggetti mobili quella valenza che la cultura moderna
occidentale assegna alla definizione di “opera d’arte”. È questa una concezione che trova le sue radici
nella filosofia greca, e più precisamente nella istituzione del logos (“l’intelligenza dell’Europa”), che
ha dato origine al nostro sistema culturale: arte come rappresentazione del “vero”, dimostrazione del
“vero” attraverso assunti approvati dalla comunità, figurazione del “vero” mediante immagini rico-
noscibili e, come presupposto, visibili. In altre parole la cultura occidentale ha creato una definizione
di arte come rappresentazione eidetica, cioè che presuppone uno spettatore (Martini 1998). Questa
valenza di visibilità della figurazione è documentata in gran parte dei complessi iconografici rupestri
preistorici, che sono stati pensati, progettati e realizzati in rapporto alla posizione dello spettatore.
Eclatante in questo senso è una figurazione di bovino nel Diverticolo assiale della Grotta Lascaux
(tav. 11/1-3), posizionata a più di due metri di altezza rispetto al piano visivo dello spettatore, che
è stata realizzata deformata nelle dimensioni e nelle proporzioni anatomiche le quali invece risulta-
no realistiche e aderenti alla natura per chi le osserva dal basso; segnalato per la prima volta da N.
Aujoulat (1992), si tratta del più antico caso di anamorfosi sinora noto, una correzione che prevede
una progettazione e una previsione del piano visivo dello spettatore, che testimonia l’assoluto fine
eidetico dell’immagine. Un altro caso di anamorfosi si registra nella medesima grotta, nella scena
del pozzo con l’antropomorfo con maschera aviforme e il bisonte ferito. Una veduta frontale della
rappresentazione fa percepire l’uomo apparentemente caduto a terra dopo essere stato caricato dal
bisonte, nel cadere allarga le braccia, apre le dita e abbandona il propulsore (tav. 1/4). Secondo Nou-
gier (1966), invece, seguito poi da Marc Groenen (citato in Duhard 1996 pag. 99), va considerata la
prospettiva visuale: la scena doveva essere vista dall’alto del cosiddetto pozzo e non frontalmente e
in tale posizione d’osservazione l’antropomorfo appare verticalizzato, non atterrato (fig. 51), si erge
fiero difronte all’animale e le braccia allargate amplificano l’atteggiamento vittorioso. “Le chasseur est
vertical, dominateur, le bras gauche tendu vers le bison éventré qui perd ses entrailles. C’est l’ homme qui
a terrassé l’animal. Au contraire, le piquet à l’oiseau est oblique, comme si l’on avait eu grand mal à le
planter.” (Nougier 1994, pag. 187).
L’interpretazione delle figurazioni paleolitiche come fenomeno eidetico non fornisce una spiegazione a
tutti i documenti archeologici e alle molteplicità di evidenze, ci riferiamo a quelle che non sono imme-
diatamente percepibili. Numerose incisioni di soggetti zoomorfi sono sovrapposte le une alle altre in
un groviglio inestricabile di segni che solo una paziente opera di rilevamento grafico o un movimento
di luce radente permettono di decifrare, mentre visivamente le singole immagini non sono immedia-
tamente percepibili nei loro contorni. Si tratta per lo più di figure di dimensioni modeste, realizzate
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nelle caverne in cunicoli percorribili con
difficoltà, che perdono la loro riconoscibi-
lità nel labirinto di linee sottili (figg. 10,
11, 52; tav. 11/4) e che per tale motivo fa-
cevano parte di un progetto che escludeva
uno spettatore. Figurazione non eidetica,
quindi, che potremmo definire arte per-
formativa, una sorta di action art ante lit-
teram, nella quale gesto e immagine dan-
no origine ad una “azione figurante” lega-
ta ad un’operazione del tutto individuale
di rapporto con l’immagine prodotta,
simbolo di un significato che ci sfugge.
Se nell’arte eidetica l’uomo produce un
simulacro, sensu lato, destinato alla vista
della comunità e realizza quell’immagi-
ne secondo un lessico condiviso e quin-
di comprensibile, nell’arte non eidetica il
Fig. 51 – La scena del pozzo di Grotta Lascaux nella reale visuale pro-
spettica dall’alto che corregge l’inclinazione dei personaggi (da Bataille simulacro è interiore, spirituale, non ne-
1955). In tav. 1/4 la visione frontale sul piano di esecuzione con l’effetto
dell’uomo disteso a terra.
cessariamente visibile, intangibile anche
per l’esecutore. Si tratta di una categoria
particolare delle figurazioni paleolitiche il cui fine pare il fare, il gesto. Segno e gesto, immagine e fare
si identificano e nella loro simultaneità trovano la loro ragione d’essere, non esiste altro al di fuori della
figura e al di fuori del luogo dove essa è stata prodotta. Nel cunicoli spesso lontani dall’ingresso della
caverna, quasi sempre stretti, bassi e disagevoli per chi voleva utilizzare pigmenti o uno strumento con
estremità appuntita per incidere la parete rocciosa o il soffitto (fig. 53; tav. 11/5), l’esecutore probabil-
mente era solo, intento ad una azione non destinata ad uno spettatore, pronto ad un percorso interiore
che prevedeva la realizzazione di più figure, spesso sovrapposte, intersecatesi e fuse in un groviglio di
linee che rendeva la figure stesse invisibili anche a chi le aveva tracciate. Nessuna progettazione, proba-
bilmente, ma la libertà assoluta dell’interiorità che si manifesta nel gesto.
Questa chiave di lettura delle figurazioni preistoriche, quindi, che vede il prodotto figurativo “compiu-
to” nell’atto del figurare e che insiste sul significato interiore del “gesto figurante”, rimanda a certi com-
portamenti documentati nelle civiltà dell’Asia estrema, ad esempio nell’arte zen dove l’”arte”, chiamata
“via”, è un’azione, un operare un percorso interiore che in un primo stadio affronta l’origine e il senso
delle cose e successivamente coincide con il ritorno alla realtà; in quest’ultima fase vengono elabora-
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te immagini che rendano visibili l’origine
delle cose, fruibili solo da chi le crea, senza
spettatori. In questo caso, quindi, il gesto
e il movimento danno senso all’immagine
prodotta. Restando ancora al di fuori degli
schemi culturali occidentali, figurazioni
non eidetiche sono le famose linee sull’al-
topiano di Nazca, destinate a non essere
viste da parte della comunità, effimere
nella loro natura di rappresentazioni sotto-
poste agli agenti atmosferici. Senza dubbio
deve ancora maturare nell’archeologia del-
le origini una metodologia di indagine del
patrimonio figurativo che affronti il “fare
segno” in tutte le sue implicazioni, nella
consapevolezza tuttavia che nessun model-
lo teorico e nessuna metodologia potranno
condurci alla conoscenza globale delle rap-
Fig. 52 – Grotta di La Mouthe. Rilievi parziali, per mano di H. Breuil,
di due pannelli nella sala de la Hutte. In alto, pannello del Grand Bou- presentazioni preistoriche.
quetin con sovrapposizione di incisioni di uro, stambecco, renna, rino-
ceronte, mammuth; in basso, pannello de la Hutte con sovrapposizione
di figure zoomorfe (cavalli) e segni lineari e geometrici (da Azema 2010). L’origine del linguaggio figurativo paleo-
litico potrebbe forse essere messo in rela-
zione con un sistema di relazioni interper-
sonali più complesso rispetto alle epoche
precedenti oppure ad una evoluzione dei
sistemi di percezione, ma ogni ipotesi che
affronti problematiche sociali o biologiche
deve trovare la conferma in un sistema
comparato di analisi e di studi pluridisci-
plinari che non è ancora stato avviato. Per
quanto rivolte ad un’utenza del tutto diver-
sa dal lettore che ci sta seguendo in questa
L’arte paleolitica è senza dubbio un’arte cifrata che solo in casi eccezionali ha una valenza (debolmente) narra-
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tiva e descrittiva. Articolata, in estrema sintesi, in tre grandi categorie (figure zoomorfe, figure antropomorfe
e segni), la sua interpretazione e la ricerca dei significato hanno visto, da quando essa è stata riconosciuta
come patrimonio culturale delle civiltà delle origini poco dopo la metà del secolo XIX, una serie di posizioni.
In accordo con la tendenza culturale della società borghese occidentale, i primi studiosi pensavano di ave-
re di fronte esperienze di “arte per l’arte”, create nel buio delle caverne in un processo creativo di ricerca
del bello. La scoperta, di lì a poco, del “primitivo”, collegata allo sviluppo degli studi etnografi ed etno-
logici, ha portato ad una lettura comparata dei comportamenti paleolitici con quelli di popolazioni non
civilizzate, creando un comparativismo etnografico a volte esasperato al cui interno ha assunto una posi-
zione di primario interesse l’aspetto magico. Magia e rito diventano così l’alibi per la mancata spiegazione
razionale delle evidenze e dei comportamenti. A questa impostazione risalgono la lettura delle immagini
di animali feriti o bersagliati da proiettili di argilla o recanti sul ventre immagini di armi da lancio come
pratiche simboliche di magia venatoria (ferimento o uccisione virtuale della preda in una simulazione
scaramantica), l’interpretazione delle immagini femminili (Veneri) con gli attributi femminili enfatizzati
come figurazioni collegate alla simbologia della fecondità.
Gli studi della prima metà dl ‘900 sono dominati dall’abate Henri Breuil (1877-1961) che ha condiziona-
to la storia degli studi grazie al suo indiscusso carisma scientifico derivato anche dall’aver acquisito una
conoscenza diretta di tutto o quasi il patrimonio figurativo paleolitico del tempo e anche in virtù del
suo attivismo editoriale. Breuil risente dell’impostazione etnografica e di conseguenza l’aspetto magico
mantiene un valore forte nella sua impostazione e nella lettura dei pannelli zoomorfi dipinti e nella inter-
pretazione dei segni. Il suo apporto innovativo va visto nell’aver fatto emergere, superando il semplicistico
aspetto magico, il potenziale spirituale delle popolazioni paleolitiche. Infatti il simbolismo indiscusso
di quelle figurazioni supera con Breuil il mero tentativo dell’uomo di controllare attraverso immagini (e
probabilmente anche mediante gesti e formule) ciò che non si può controllare ma diviene la manifesta-
zione di un mondo spirituale profondo che consente al cacciatore paleolitico di trascendere la quotidia-
nità. Quella che egli chiama “le grand art animalier occidentale” riscatta il “primitivo” e gli attribuisce
un profilo spirituale del tutto nuovo, assecondando in verità quella visione dell’uomo che gli derivava
dall’essere prima di tutto un prete cattolico, ordinato a 23 anni, educato nel seminario di Saint Sulpice e
alla Sorbona, al quale fu consentito di operare più come archeologo e studioso che come uomo di chiesa.
Il 1945 è un anno di svolta negli studi: Max Raphaël pubblica Preistoric cave paintings e, superando l’im-
postazione razionalista-etnografica-spiritualista precedente, introduce una lettura sociale del fenomeno fi-
gurativo, dove non hanno posto atteggiamenti individuali o comportamenti occasionali. L’arte paleolitica
farebbe riferimento ad un ordine definito, ad un codice ideologico condiviso riflettente le dinamiche so-
ciali ed in essa un significato prevalente avrebbe la nozione di totem, vale a dire che il repertorio figurativo
di ciascuna grotta mostrerebbe la prevalenza di una animale totemico, indicativo secondo lo studioso au-
striaco, del potere di un determinato clan. L’importanza differenziata delle varie specie animali, ognuna
collegata a gruppi umani diversi, sarebbe testimoniata dalle sovrappposizioni di animali differenti, l’uno
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sull’altro, in relazione all’alternarsi delle comunità dominanti in
quel territorio.
Poco più tardi Annette Lamig-Emperaire (1962), riprendendo
l’impostazione sociale di Raphaël, offre una interpretazione
dell’arte parietale partendo da due presupposti: la bipartizione
maschile-femminile come fondamento della struttura sociale
preistorica e la ripetitività nel repertorio delle grotte dell’asso-
ciazione bisonte-cavallo, vista come richiamo simbolico a quel-
la bipartizione. Si tratta di una visione simbolica su base di ge-
nere che di lì a pochi anni fu ripresa da André Leroi-Gourhan
(1965) e inserita in una più ampia visione dell’arte preistorica,
con il conforto di tabelle statistiche di associazione a dimo-
Fig. 54 – Grotta di Pech Merle. Incisione con
l’associazione donna-mammouth (vedi anche strazione di questa diade, l’elemento maschile-cavallo e l’ele-
tav. 11/7) (da Leroi-Gourhan 1965).
mento femminile-bisonte, contornati da specie animali e da
segni complementari. Anche i segni non sono esenti da questa
suddivisione di genere: i segni pieni (circolari, ellittici) si collegherebbero al principio femminile, quelli
lineari sottili al principio maschile. Leroi-Gourhan mette fine al comparativismo etnografico e giunge
quindi a ipotizzare l’esistenza di un autonomo linguaggio paleolitico con un’ampia valenza diacronica
(da 40.000, con la comparsa dei sapiens in Europa, sino a 10.000 anni orsono, dunque per tutta la fase
recente del Paleolitico) e geografica (dall’est all’ovest europeo). Il fenomeno figurativo, quindi, avrebbe
temi e linguaggi omogenei, ripetibili e ripetuti senza variazioni né espressive né semantiche, indicativi
di strutture psichiche invariabili che hanno generato ideologie universali e simbologie generali, come
dimostrerebbe la coppia maschio-femmina riprodotta in associazioni ricorrenti tra due specie animali
(cavallo-bisonte) oppure nel dittico donna-mammouth (fig. 54; tav. 11/7).
Al momento attuale è ancora forte il peso dell’impostazione data da Breuil prima e da Leroi-Gourhan
poi che vede l’arte paleolitica come un fenomeno omogeneo. Si sta comunque facendo strada una vi-
sione innovativa secondo la quale la pratica culturale del fare segno si compone di esperienze distinte,
anche geograficamente, emergenti soprattutto attraverso la variabilità dei linguaggi stilistici adottati
(schematico, naturalistico più o meno realista, essenziale, astratto…), esperienze che tuttavia sono col-
legate tra di loro da una dinamica evolutiva e da uno sviluppo diacronico attraverso 30.000 anni. Tale
visione nasce dall’assumere lo stile come parametro di valutazione e dal tentativo di tracciare un per-
corso cronologico nel quale sia chiara l’importanza che diacronicamente hanno avuto i diversi stili, con
periodi di compresenza tra linguaggi diversi e periodi di adozione privilegiata di uno stile sull’altro. È
indubbio che sia lo stile sia parte dei contenuti vanno a caratterizzare la variabilità del fenomeno figu-
rativo consentendo a noi archeologi di individuare entità e tradizioni culturali autonome, ma è altret-
tanto evidente che esso possiede una sua profonda unità collegata prima di tutto alla sua funzione di
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sistema di comunicazione non verbale, ma anche al contesto economico-sociale poco variabile sino alla
fine del Pleistocene (e anche qualche millennio più tardi) e a quello ecologico che unisce strettamente
l’uomo alle popolazioni faunistiche nella condivisione dell’habitat. In altre parole l’arte paleolitica è un
chiaro marcatore di identità culturale e sociale, al cui interno possiamo identificare sia legami con ma-
croregioni culturali europee sia microculture su base regionale. Alla variabilità stilistica, di contenuti
e concettuale sembra unirsi anche una varietà di funzioni e di finalità che sarebbe riduttivo limitare a
poche, codificate e universali categorie.
In un contributo abbastanza recente Jean Clottes (2004), nel ribadire l’ipotesi sciamanica dell’arte pa-
leolitica, rileva che le interpretazioni tradizionali del fenomeno figurativo pleistocenico (quella dell’arte
per l’arte, quella totemica, quella magica rivolta soprattutto alla caccia e alla fecondità, quella strut-
turalista) debbono essere considerate fallaci in quanto non rispondono ai principali requisiti necessari
per avvalorare una ipotesi nell’ambito delle scienze umane: capacità di spiegare il numero massimo di
eventi, capacità di spiegare il numero massimo di diversità, coerenza con fatti solidamente comprova-
ti, verificabilità dell’impostazione, sua replicabilità nella sequenza delle scoperte. L’ipotesi sciamanica
troverebbe non solo la giustificazione legata alla sua congruità con questi requisiti, ma avrebbe anche il
supporto dei seguenti caratteri: universalità di certi fenomeni, comparazioni etnografiche, le maggiori
evidenze di arte paleolitica.
Questa impostazione di Clottes ci consente a questo punto del nostro percorso, volto alla messa in luce
degli stati dell’anima, di riprendere il filo del discorso sullo “sciamanesimo”.
5 - “Sciamanesimo”, stati alterati di coscienza e arte paleolitica sono temi tra loro collegati?
Secondo Jean Clottes e David Lewis-Williams la tradizione sciamanica affonda le proprie radici nella
Preistoria e in tutti i periodi e in tutti i luoghi alcune persone sono state in grado di alterare il proprio
stato di coscienza e addirittura di governarlo, utilizzando una capacità che fa parte del sistema nervoso
dell’essere umano.
“Toutes les cultures, y compris celles du Paléolithique supérieur, ont été confrontées, d’une façon ou d’une
autre, à ce problème d’ états de con science différents. Certaines – bien entendu pas toutes – ont suscité des
chamanes” (Clottes e Lewis-Williams 1996, pag. 12).
In merito a questo punto emerge chiaramente l’influenza del pensiero eliadiano, che trova la sua espres-
sione in Le chamanisme et les techniques archaiques de l’extase, opera spesso citata dai nostri autori, i
quali si servono di questo testo, pietra miliare degli studi sciamanici, per effettuare confronti etnogra-
fici raccolti in grande quantità da Eliade. Portano tuttavia questo processo più oltre, spingendosi ad
identificare le singole tappe del processo allucinatorio di uno “sciamano” e ne identificano tre (con
uno stadio intermedio) (fig. 55):
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Fig. 55 – Immagini collegate, secondo Clottes e Lewis-Williams, ai tre stadi della trance (da Clottes e Lewis-Williams 1996).
Stadio 1: Il più leggero, dove il soggetto in trance vede forme geometriche (punti, linee a zig-zag, cer-
chi, griglie, meandri etc.) dai colori scintillanti, che si muovono e si mischiano tra loro. Con gli occhi
aperti queste immagini vengono proiettate sulle pareti e sui soffitti, nel nostro caso sulle superfici della
grotta (tav. 12/1-3). Il significato simbolico di queste manifestazioni varia in ogni cultura sciamanica.
Secondo Lewis-Williams, queste forme geometriche sono da ricondurre a dei fenomeni entoptici, ov-
vero a immagini che si producono direttamente all’interno dell’occhio. Esse sono da ricondurre anche
a stimoli semplicemente meccanici e lo stesso Lewis-Williams (2004) scrive che possono essere causate
da una forte pressione, per esempio delle dita, sui bulbi oculari. Questo entrerebbe evidentemente in
contraddizione con le tesi universalistiche che si basano sull’uguaglianza del sistema nervoso del genere
umano, ma secondo lo stesso autore, le forme percepite fanno comunque parte di un ventaglio di scelta
limitato riscontrabile universalmente. Anche P. Bahn (1997) non esclude che queste immagini possano
rappresentare il soggetto delle raffigurazioni parietali paleolitiche, ma contesta apertamente che siano
il frutto di un’esperienza estatica sciamanica, asserendo che esse potrebbero essere ricondotte a molti
fattori (privazione del sonno, fervente preghiera, allucinazioni notturne, prolungato isolamento, una
pratica eccessiva di masturbazione) e che basandosi su tesi neuropsicologiche si dimostrava soltanto che
gli artisti paleolitici erano esseri umani. Resta indubbio che l’ipotesi di Clottes e Lewis-Williams debba
restare confinata tra le varie possibilità teoriche, archeologicamente non dimostrabili.
Stadio 2: A questo livello fa il suo ingresso la soggettività dell’individuo. I segni geometrici assumono
un significato concreto, derivante dalla cultura di appartenenza e dallo stato d’animo di una persona.
Clottes e Lewis-Williams propongono semplici esempi: un occidentale può interpretare una forma ro-
tonda e luminosa come un bicchiere d’acqua se ha sete o un oggetto pericoloso se nel suo stato d’animo
prevale un sentimento di paura. E ancora, linee a zig-zag possono diventare ondulazioni di un serpente.
Allo stesso modo una serie di rombi concentrici potrebbero suggerire il segno vulvare, agglomerati di
punti possono formare un profilo di un soggetto riconoscibile (tav. 12/4-6)).
Stadio di transizione: si colloca tra lo stadio 2 e 3 ed è rappresentato letteralmente da un vortice, da cui
il candidato alla trance profonda è fortemente attratto. All’ingresso del turbinio si accende una luce
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fortissima, mentre ai suoi margini si forma una griglia da cui si scorgono le prime vere allucinazioni,
con persone, animali ed altro.
Stadio 3: quando il soggetto emerge dal tunnel, il mondo delle allucinazioni è estremamente reale, ma
le figure geometriche che l’individuo si porta appresso dallo stadio 1 non spariscono, assumono sola-
mente una posizione periferica rispetto all’immagine principale che sembra galleggiare sulle pareti in
cui è proiettata. Le rappresentazioni di questo livello non sono sempre coerenti con il mondo naturale:
qui gli autori citano un occidentale che in preda allo stadio 3, pensando ad una volpe, credeva di essere
lui stesso una volpe. Secondo Clottes e Lewis-Williams, da questo stadio deriverebbero sia gli esseri
compositi (dovuti appunto al mescolarsi dei diversi fattori in fase di trasformazione) sia il bestiario
raffigurato nell’arte delle grotte. Infatti, sempre secondo i due autori, tutti gli stadi sono universali,
cambiano solamente (negli stadi 2 e 3) le raffigurazioni specifiche, determinate dalla cultura di appar-
tenenza, dall’ecoregione e dai sistemi economici.
É evidente l’enfasi con cui i due autori utilizzano dei dati etnografici, dedicando un intero paragrafo
alle manifestazioni artistico-sciamaniche del popolo boscimano San nel sud dell’Africa, da collegarsi
all’esperienza paleolitica. Si tratta di un’operazione che si ispira alla prassi metodologica dell’etnoarche-
ologia, che ha avuto momenti di successo qualche decennio or sono e che oggi viene adottata con pru-
denza e nella consapevolezza che comportamenti simili tra primitivi attuali sensu lato e comunità prei-
storiche possono nascere da motivazioni utilitaristiche e/o simboliche diversificate e che tuttavia certe
analogie non possono non prescindere dalla diversa collocazione cronologica e geografica, con tutto
quello che essa implica a livello di rapporto con l’ambiente. Anche i postulati archetipici junghiani, che
non sono dimostrabili archeologicamente, necessitano di indizi probatori che aprano possibilità verosi-
mili. L’archeologia preistorica, come tutte le scienze umane, è una para-scienza che solo raramente dà
delle risposte ai nostri numerosi quesiti. Il problema non è giungere alla risposta, bensì formulare cor-
rettamente la domanda e, da quella, evidenziare una serie di possibilità da sottoporre al vaglio critico
di una seria metodologia archeologica. In questo senso l’etnoarcheologia, se si stravolgono il senso e lo
scopo della disciplina enfatizzandone la possibilità interpretative, diventa una sorta di trappola. Bahn,
in questo senso, cade nella trappola, perché nella critica ai due colleghi propone altri esempi etnografici
che, a suo parere, smentirebbero quelli citati dai due antagonisti e non affronta invece il vero problema,
che è a tutt’oggi in discussione, vale a dire quello dell’origine sciamanica o meno dell’arte rupestre San.
Non sono congrui né attinenti alla realtà archeologica nemmeno certi aspetti dello “sciamanesimo”
quali l’iniziazione sciamanica, i viaggi dello “sciamano” nei mondi inferiori e superiori ed il cosmo
sciamanico in quanto sono trattati come caratteri degli “sciamanesimi” attuali e quindi la loro propo-
sta rimane nella mera sfera speculativa.
6 - Il patrimonio figurativo paleolitico attesta che la caccia è uno dei grandi temi simbolici espressi
dalle comunità di cacciatori-raccoglitori. Possiamo ricostruire il rapporto tra uomo e animale in
83
quelle epoche?
Col Neolitico l’uomo da predatore nella natura diventa produttore, con la capacità di replicare i ritmi
naturali della nascita e della crescita delle piante e, con l’addomesticamento degli animali, di stilare
con essi un patto che, come dice Marguerite Yourcenar, è continuamente infranto dalla loro messa a
morte. Nella nostra civiltà il ruolo dell’animale è quanto mai subordinato dalla specie umana: ani-
mali da allevamento, domestici ed anche quelli protetti in natura (talora la non protezione dell’uomo
porterebbe all’estinzione) rendono questi esseri eterodiretti. L’archeologia, anche attraverso gli studi di
archeozoologia, indica che durante il Pleistocene i gruppi umani paleolitici erano in una qualche forma
dipendenti dall’animale e che il nomadismo, legato a spostamenti paralleli alle migrazioni dei gruppi
di animali, era l’unica strategia comportamentale in grado di assicurare cibo e sussistenza necessari
alla sopravvivenza (per quanto con integrazioni alimentari vegetali legate alle locali risorse ittiche). La
sapienza tecnologica ha portato l’uomo, nei millenni, alla creazione di armi e strumenti sempre più
efficaci, la sapienza ambientale lo ha condotto ad una integrazione con l’ambiente capace di suggerirgli
strategie di utilizzo ottimale delle risorse disponibili, comprese la selezione degli animali cacciati al
fine di mantenere un elevato grado di acquisizione di risorse carnee e nello stesso tempo sacrificando
gli individui adulti a favore di quelli più giovani, per garantirsi una continuità di risorse. Il rapporto
tra il cacciatore-predatore paleolitico e il mondo animale, quindi, appare ben diverso da quello dei cac-
ciatori moderni o attuali che non contempla una sorta di equilibrio tra le forze in campo, una identità
dell’uomo come animale tra gli animali, sottoposto alle medesime leggi di natura in una dimensione
orizzontale, non gerarchica.
Ma l’uomo possiede una capacità che lo distingue: l’astrazione, la dimensione metastorica del reale, la
visione simbolica del mondo. Ecco che quando l’uomo sapiens inizia a rappresentare il mondo (quale
mondo? quello tangibile o quello immateriale dell’interiorità, intangibile ma altrettanto reale?) gli
animali diventano un patrimonio simbolico col quale l’uomo si confronta nelle pratiche pubbliche dei
“santuari” (arte eidetica), dove le immagini sono destinate ad essere osservate, dove irrompono con le
loro dimensioni a volte enfatizzate rispetto a quelle naturali sovrastando lo spettatore, dove acquista-
no movimento e dinamicità nel fluttuare delle deboli luci delle fiaccole. Ma gli animali sono anche
oggetto delle figurazioni nei momenti del tutto riservati di introspezione individuale nel fondo buio
dei cunicoli delle grotte, quando la persona dipinge o incide immagini non destinate ad essere viste
(arte non eidetica) (Martini 1998). Il mondo animale per l’uomo paleolitico rappresenta un patrimonio
vastissimo di simboli, la cui illustrazione e spiegazione ci sono precluse. I vari tentativi destinati a deci-
frare la simbologia zoomorfa, che non hanno portato a risultati attendibili, hanno nel tempo proposto,
come abbiamo visto, diversi modelli interpretativi.
Clottes e Lewis-Williams, invece, non sembrano avvertire nessun problema interpretativo: le rappre-
sentazioni di animali sono tipiche dello stadio 3 (o stadio 2, talora si registra una certa confusione in
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questo). Lo “sciamano” paleolitico, in preda alla trance, avrebbe proiettato le allucinazioni sulle pareti
delle caverne, per poi ridisegnarle così come le aveva vissute, ovvero, senza proporzioni (un mammut
può essere quindi più piccolo di un cavallo), e senza elementi naturali (piano di appoggio, limiti delle
superfici etc). Per questo gli animali raffigurati sembrano galleggiare e fluttuare sulle pareti rocciose.
Una volta impressi sulla roccia, quelle figure e quei segni restavano a disposizione per una successiva
pratica di trance, strumento o promemoria, come avviene per i gli “sciamani” samoiedi in Siberia
(Clottes e Lewis-Williams 1996, pp. 91-92). Tuttavia, se molte immagini sono un evidente frutto di
cooperazione tra diversi soggetti, come è possibile che sia stato lo “sciamano” in estasi a produrle? Poi-
ché gli “sciamani” in condizione estatica non avevano le capacità tecniche e sensoriali per realizzare
raffigurazioni complesse e raffinate, dobbiamo presumere che esse venissero realizzate post-trance e,
quindi, appaiono evidenti i punti deboli di questa teoria.
I segni, intesi come immagini non ricollegabili al mondo zoomorfo, antropomorfo o fitomorfo, che
l’uomo paleolitico ha affidato alle raffigurazioni parietali e su supporti mobili sono molteplici: linee,
punti, fasci di linee, scacchiere, segni “araldici”, claviformi, tettiformi e molti altri. Attestati sin dagli
albori del fare segno nel Paleolitico superiore (in Europa a partire da 40.000 anni fa) sia isolati sia in
associazione con raffigurazioni naturalistiche e realiste (figg. 48, 50; tav. 10/3, tav. 13/1-4), costitui-
scono un repertorio “astratto” di ampia diffusione geografica e di lunga durata, anche nelle epoche
postpleistoceniche. Per essi, come del resto per tutte le altre rappresentazioni, non è possibile decifrare
il loro significato, ma per essi solamente nemmeno il valore intrinseco del “significante”. Infatti, mentre
di una figurazione di cavallo non conosciamo il significato, mentre è evidente il significante (il cavallo
stesso), questi segni non rientrano in alcun modo nella nostra percezione concettuale e rappresentativa.
Nella tradizione degli studi sulla cosiddetta arte preistorica tale varietà di tratti, fasci, punti e figura-
zioni geometriche, riuniti in un’unica generica definizione (segni geometriche e lineari), vengono a co-
stituire una categoria apparentemente omogenea (immagini non realistiche) che forse non rispecchiava
la poliedricità del simbolismo preistorico. «…le seul lien soit celui que nous établissons artificiellement en
les qualifiant de “signes”, faute de mieux» (Clottes e Lewis-Williams 1996 pag. 47).
André Leroi-Gourhan, a cui dobbiamo nella seconda metà del ‘900 un notevole salto qualitativo degli
studi sull’arte paleolitica, giunse ad interpretarli ipoteticamente come “marcatori etnici”, ipotesi che si
unisce a diverse altre, ad esempio a significati e funzioni topografiche dei segni stessi all’interno delle
grotte, a pratiche di “magia venatoria” quando sembrano ricordare la forma di armi da lancio (clavifor-
mi) e compaiono in associazione con figure zoomorfe oppure, volendo riconoscere sempre e comunque
nel “segno” una rappresentazione del mondo, mappe territoriali, trappole, capanne.
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Se osserviamo la distribuzione geografica dei segni, siano essi elementari siano invece complessi, si
nota che le diverse tipologie hanno diverse diffusioni, soprattutto quelli complessi. Per esempio, i tet-
tiformi fanno parte di un repertorio francese risalente alla fine del Paleolitico (una cultura dell’Europa
occidentale detta Maddaleniano), hanno una forte concentrazione in quattro grotte della regione del
Perigord (Rouffignac, Combarelles, Bernifal, Font-de-Gaume) e non sono segnalati né altrove né nei
millenni precedenti. Ciò pare indicare una valenza di questi segni fortemente localistica, il cui valore
semantico andrebbe cercato anche nelle relazioni con altri segni o figure naturalistiche sulle medesime
pareti di grotta dove essi compaiono. L’analisi delle associazioni tra segni e figurazioni in contesti chiusi
e a limitata scala di diffusione potrebbe essere una strada da percorrere, ma al momento mancano dati
sufficienti per una riflessione attendibile. Per esempio, indizi di legami semantici sembrano affiorare tra
i segni angolari e le figure di bisonte in alcune grotte dei Pirenei (Mas d’Azil e Niaux), dove si rilevano
anche associazioni tra segni puntiformi e segni claviformi. Allo stesso modo, per tornare al nostro tema
principale, nelle grotte dei Trois-Frères e di Fontanet, in Ariège, è indubbia l’associazione tra figura
umana e bisonte, con eclatanti soluzioni di rappresentazione di figure metà umane e metà bisonte con
sesso evidenziato, alla quale si uniscono i segni angolari.
Secondo Clottes e David Lewis-Williams questi “segni” sarebbero la rappresentazione grafica sulle
pareti nelle grotte delle immagini entoptiche che caratterizzano lo stadio 1 della trance. I due autori
ritengono inoltre che sia un errore dissociare questi “segni” e le rappresentazioni naturalistiche, perché
entrambe fanno parte di un unico impianto visivo da collegare con il mondo degli spiriti. Tuttavia va
notato che alcuni segni meno generici, i cosiddetti claviformi e tettiformi, non rientrano nel ventaglio
delle possibilità documentate nell’ambito delle immagini entoptiche. Come ironicamente commenta
Bahn, i due si nascondono dietro un non sottile gioco epistemologico:
“La signification de ces motifs que nous écartons ne nous concerne pas pour le moment, mais nous remar-
querons que leur exclusion de la catégorie des “signes” dans leur acception habituelle renforce plutôt qu’elle
n’affaiblit notre démonstration puisqu’elle invalide par avance une critique potentielle, à savoir que pra-
tiquement tout graphisme pourrait être interprété comme relevant de perceptions mentales géométrique»
(Clottes e Lewis-Williams 1996, pp. 93-94).
Non si può scartare a priori l’ipotesi di un’origine entoptica per queste immagini, ma è opportuno
ricordare che queste figure sono graficamente molto semplici e potrebbero derivare anche da altro,
come per esempio dall’osservazione di quotidiani fenomeni naturali: le linee a zig-zag, ad esempio,
potrebbero essere state ispirate da giochi di luce, i cerchi da l’ondulazione dell’acqua (Bahn1997, pag.
63). Il problema in verità è più complesso e riguarda la capacità grafica delle diverse specie del genere
Homo nel percorso evolutivo della co(no)scienza (cum-scientia). Mentre lo stadio Neanderthal non va
al di là della grafica lineare e non possiede la capacità di rappresentazione di soggetti reali, nello stadio
sapiens, caratterizzato dall’invenzione della linea e quindi anche dalla capacità di rendere bidimensio-
nalmente ciò che percepiamo in modo tridimensionale, sono documentati anche segni: segni primari
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(punti e linee), isolati e più spesso in associazione, e segni elaborati e complessi per i quali non sempre
si può stabilire se trattasi di segni primari sottoposti ad una complicanza concettuale oppure se sono
il risultato di una scomposizione di masse e volumi tridimensionali (oggetti reali osservati) a cui segue
una loro ricomposizione bidimensionale per superfici.
Jean Clottes e David Lewis-Williams considerano i teriomorfi come il frutto delle allucinazioni dello
stadio 3 della trance. Nelle risposte alle numerose critiche ricevute (Clottes e Lewis-Williams 2001,
2007) i due autori vagliano la possibilità che queste entità indefinibili possano essere una fase interme-
dia della trasformazione dello “sciamano” nell’animale-spirito ausiliare e quindi le immagini di anima-
li perfettamente riconoscibili non sarebbero altro che “sciamani” completamente trasformati. Secondo
questa interpretazione quasi tutta l’arte paleolitica sarebbe, di conseguenza, di origine sciamanica. Mol-
ti autori, tra cui P. Bahn, sostengono che l’esiguo numero di teriantropi presente nell’arte preistorica,
ed anche nelle figurazioni segnalate in Namibia (esempio etnografico studiato da D. Lewis-Williams,
in cui queste creature rappresentano lo 0,85%), fa pensare ad una loro importanza limitata. Clottes e
Lewis-Williams (2007, pp.183-184), a questo proposito, rispondono trasferendo questo quesito sull’arte
cristiana e facendo notare che nonostante il numero delle raffigurazioni di Cristo in una chiesa possono
essere numericamente minoritarie, la loro importanza rispetto a quella di altri personaggi (ad esempio
i Santi) è indiscutibile. Per non parlare del Dio Padre e dello Spirito Santo. Effettivamente è così, ma
a questo punto dovremmo ritenere che i paleolitici avessero, come la Chiesa cristiana, una teologia in
grado di supportare tale carenza, in quanto questi soggetti (così come Maometto ed Allah) non sono
raffigurabili proprio per la loro “potenza” ed ineffabilità.
Tra le figure composite uomo-animale ha acquisito una risonanza particolare il cosiddetto “stregone”
della Grotta dei Trois-Frères (Ariege), tramandato nella replica fedelmente disegnata dall’abate Breuil,
la cui perizia nel riprodurre gli originali era indiscussa. Questo sorcier è una vera e propria miscela di
parti anatomiche animali, impostate su una postura antropomorfa, postura che compare in altre raf-
figurazioni simili con teste di bisonte. Citata da sempre come esempio di pratiche magiche e religiose,
anche con rimandi a pratiche “sciamaniche”, questa immagine non è esente dai dubbi di Bahn, secon-
do il quale essa potrebbe anche indicare un mero travestimento per la caccia oppure un richiamo per le
prede, esattamente come avveniva nel Blackfoot (Canada), e non necessariamente deve rappresentare
uno “sciamano”, un signore degli animali o un essere mitologico (Bahn 1997, pag. 65).
Clottes e Lewis-Williams portano a favore alla tesi dell’origine sciamanica degli esseri compositi anche
una osservazione sulla loro localizzazione. In particolare, proprio a proposito dello “stregone” di Trois-
Frères:
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«La localisation de ce que l’ont a appelé le “Sorcier” des Trois-Frères en position dominante, très haut au-des-
sus du Sanctuaire est particulièrement frappante» (Clottes e Lewis-Williams 1996, pag. 94).
In verità una posizione dominante non è inusuale in quelle grotte definite «santuari», ad esempio La-
scaux, Chauvet, Pech-Merle, Font-de Gaume, dove la funzione abitativa della caverna era secondaria
rispetto a quella simbolica. A Lascaux, per esempio, il famoso fregio continuo della “sala dei tori” e
tutte le immagini riprodotte nelle gallerie e nei diverticoli non sono all’altezza dello spettatore ma,
posizionate a circa 2,50-3 metri di altezza, sovrastano lo spettatore medesimo e incombono, con le
loro dimensioni talvolta esagerate (la pittura di un toro supera i 5 metri di lunghezza), sopra le teste
di chi percorreva quegli spazi al tremulo bagliore delle fiaccole. È l’immagine simbolica che supera la
dimensione spaziale ordinaria: collocata in alto e con la complicità di sistemi percettivi non dissimili
dai nostri, esercita col suo peso materico-coloristico quella funzione di distacco e di alterità che ben
conosciamo quando entriamo, ad esempio, nella cattedrale di Colonia o nella basilica di S. Apollinare
in Classe dove tutta l’architettura o i mosaici fanno sentire fisicamente il peso del divino. Si tratta di un
carattere tipico dell’arte eidetica, destinata ad essere vista, e la posizione elevata del sorcier, a prescindere
dal valore semantico, è relativa all’effetto psicologico che doveva produrre.
I due autori, ripetiamo, tentano di ricostruire sulla base del repertorio iconografico parietale un iter
estatico comprendente 3 stadi; segni, immagini e figurazioni presenti sulle pareti delle grotte stareb-
bero ad indicare ognuna la sequenza degli stadi medesimi. Tale ricostruzione, basata sull’iconografia
reale, dovrebbe ripercorrere il modello teorico della trance, da loro stessi proposto sulla base di con-
fronti etnografici (anche relativi ai San), che è composto dallo stadio delle immagini geometriche, che
passa poi alla visione di oggetti suggeriti dalle immagini geometriche stesse, per aumentare in seguito
nel vortice luminoso che mantiene ai suoi margini ancora immagini geometriche, concludendosi poi
nell’allucinazione finale. Si tratta di un procedimento molto audace che non trova alcun riferimento né
archeologico né etnografico che lo convalidi nel metodo e nel merito. L’esperienza San, alla quale i due
autori si rifanno, non contiene elementi che possano in alcun modo suffragare questo ipotesi forzata e
non collegata alla documentazione che essi citano, la quale è ripresa da grotte diverse e da localizzazioni
disparate senza alcun elemento di contiguità tra di loro.
La percezione delle produzioni visuali è naturalmente collegata alla loro collocazione nello spazio e
nell’ambiente in cui sono state realizzate. Soggetto-visione-spazio sono tre paradigmi profondamen-
te connessi che possono illuminare sulla struttura culturale dei gruppi umani (Wunenburger 1999).
Tra le rare recenti riflessioni su questo tema è opportuno esaminare la proposta (Meschiari 2001-02),
impostata in un’ottica speculativa, di individuare nel modo di rappresentare lo spazio un possibile ar-
chetipo concettuale dell’arte paleolitica. I tratti incompiuti, aperti e discontinui oppure sovrapposti e
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coincidenti che materializzano l’immagine non sarebbero congrui con i parametri della percezione ot-
tica della realtà e molti esempi del repertorio iconografico paleolitico verrebbero a contraddire la legge
fisica secondo la quale due corpi non possono occupare lo stesso spazio. Su questa base interpretativa
la visione paleolitica dello spazio viene vista come “ambigua, aperta, embricata” al pari del “pensiero
magico e più in particolare della cosmologia sciamanica”. Meschiari offre l’occasione per puntualizzare
la riflessione sul significato dello spazio grafico in cui sono inserite le immagini. Se fosse valido il suo
assunto, dovremmo dedurre che l’arte informale del XX secolo, a partire da Braque e Picasso, sarebbe,
al pari di quella paleolitica, “immagine di una vera e propria concezione magica dello spazio” e non il
risultato di differenti ed elaborati procedimenti concettuali, di alfabeti iconici variabili, di linguaggi
e di rappresentazioni del mondo esterno ed interno che documentano la visione del reale attraverso
la scomposizione e ricomposizione dei volumi e la loro riduzione bidimensionale, in contesti anche
affollati non necessariamente destinati ad uno spettatore. La dottrina cubista dello spazio esemplifica
caratteri che potremmo ritenere validi per molte figurazioni paleolitiche in una lettura formale delle
opere. Il Cubismo (e Braque per primo dopo essere stato turbato da Les Demoiselles d’Avignon di Pi-
casso) ricerca una dimensione spaziale, inventa lo spazio, cerca di figurare uno spazio nuovo. “Bisogna
dipingere anche ciò che sta tra la mela e il piatto”, scrive Braque, e in questo intento perseguito da lui
con pazienza e delicatezza e da Picasso con impaziente irruenza virile, possiamo trovare il rapporto tra
oggetti e spazio “vuoto” che i pannelli paleolitici esprimono. Essi raffigurano un mondo compatto, non
osservato da molti punti di vista ma riprodotto sulla base di più fuochi ottici: il risultato è che lo spazio
appare violentato, reso impenetrabile, compenetrato nelle immagini che non si muovono nello spazio
ma sono lo spazio. Occhi che vedono, e che non solo osservano, registrano e accettano la mancanza di
profondità in questi pannelli incisi o dipinti dove le figure si incastrano, si sovrappongono, con una
stupefacente attenzione alla disposizione dei segni, delle linee, dei punti che costruisce ciò che, bana-
lizzando, chiamiamo attenzione ai particolari anatomici e stile naturalistico.
La posizione di Meschiari, che cerca il supporto di letture filosofiche-speculative più o meno appro-
fondite e non sempre bene informate sull’arte paleolitica (Bachelard 1957, Lommel 1967b, Eliade
1968, Dagognet 1977, Perrin 1992, Durand 1994, White 1996) e che avrebbe invece dovuto tener
presente un sempre attuale dibattito tra organicità e astrazione (Bianchi Bandinelli 1956; Blanc 1958),
rimanda e si ispira anche a quella assunta pochi anni prima, e decisamente più elaborata, da Clottes e
Lewis-Williams, la quale non può prescindere da una collocazione delle pratiche “sciamaniche” in uno
spazio definito che si identifica nella grotta nell’accezione eliadiana di spazio fisico in cui si manifesta
una ierofania che interrompe l’omogeneità dello spazio indistinto. La grotta si carica di significato e
pertanto è necessario organizzare e strutturare il suo spazio interno in rapporto al rito sciamanico e al
ruolo assunto da ogni parte dell’ambiente, individuando tre categorie spaziali: le grandi sale, i corri-
doi, le piccole nicchie (Clottes e Lewis-Williams 1996, pp. 103-110). Le grandi sale ornate sarebbero
deputate alle cerimonie comunitarie, durante le quali danze, canti e raffigurazioni animali preparava-
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no alle allucinazioni. Inoltre la realizzazione delle immagini sarebbe dovuta a personaggi elitari che,
rappresentando un loro modello dell’aldilà collocato oltre le pareti rocciose, rafforzerebbero il proprio
status sociale. Queste immagini avrebbero preparato i soggetti che volevano alterare il proprio stato di
coscienza e che avrebbero completato in disparte il proprio percorso in uno spazio più piccolo. Nel
passaggio da spazio ampio a spazio ristretto avrebbe preso forza l’influenza delle immagini, le quali
nello stadio 3 della trance sono delle allucinazioni influenzate da visioni pregresse, cioè dalle figurazio-
ni delle grandi sale:
«Les relations de pouvoir n’ étaient pas absentes du processus, parce que ces salles servaient aussi à canaliser les
vision et à réduire la part de nouveauté, partie intégrante des expériences hallucinatoires. L’un des rôles des
salles ornées était d’essayer – sans toujours y parvenir – de discréditer toute originalité et tout individualisme
qui auraient pu mettre en péril le statu quo politique et religieux. Bref, ces salles majeures renforçaient le
conformisme des visions et consolidaient le pouvoir établi» (Clottes e Lewis-Williams 1996, pag. 106).
Nella sua critica, del tutto condivisibile, Paul Bahn può solo affermare che «The pyramid of speculation
rises ever higher» (Bahn 1997, pag. 65).
Clottes e Lewis-Williams, per avvallare la loro tesi ricorrono molto spesso a paragoni con le religioni
più diffuse, come Cristianesimo ed Islamismo, correndo il rischio di far passare il messaggio che le
comunità paleolitiche organizzassero il proprio cerimoniale in base al loro credo e di conseguenza lo
spazio, sostanzialmente come avviene per una chiesa o una moschea. Ma dobbiamo considerare che
mentre chiese e moschee riflettono nella loro struttura architettonica l’ideologia religiosa, la grotta è
immutabile nella sua conformazione ed è proprio questa immutabilità dei confini naturali a costituire
una cornice che nella sua fissità genera e codifica il rituale. Si consideri anche che se il percorso estatico
richiede spazi differenziati, anche nelle dimensioni, risulta difficile applicare e verificare la validità di
questo modello nelle diverse morfologie delle grotte, le quali nella loro molteplice variabilità spaziale
avrebbero dovuto produrre altrettante esperienze e non una sorta di ecumene sciamanica.
Per quanto concerne poi l’idea di un’élite manipolatrice di menti è chiaro che si tratta di una ipotesi che
nessun dato archeologico consente oggi di prendere in considerazione. Essa potrebbe essere giustificata
dallo studio, per esempio, dei rituali funerari, ma ad oggi essi indicano che l’inumazione non era riser-
vata a tutti i membri della comunità ma solo ad un numero limitato di persone, tuttavia non possiamo
definire quale sia stato nel Paleolitico il criterio di selezione, certamente, come dimostra senza ombra
di dubbio l’attuale documentazione archeologica, né il sesso né l’età né l’appartenere, come qualche
studioso ha ipotizzato, a categorie di disabili o di soggetti patologici.
I corridoi (sezioni di collegamento tra una sala ed un’altra) rappresentano il massimo punto olistico nel-
la teoria di Clottes e Lewis-Williams: il loro utilizzo e quindi la loro funzione nel presunto meccanismo
cerimoniale non cambia, che contengano o no figurazioni. A Niaux, per esempio, i segni claviformi
assegnerebbero loro la funzione di limite, di soglia. Non importa, secondo i due autori, che essi siano
ben visibili, sarebbe sufficiente la loro mera presenza per dare allo spazio del corridoio una valenza di
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luogo secondario, di passaggio tra due spazi primari. Parimenti, tuttavia, secondo i nostri autori, un
corridoio privo di segni o immagini non sarebbe privo di significato, ma, se sfociava in una grande sala
decorata, il suo vuoto iconografico avrebbe accentuato l’impatto del visitatore che vi penetrava, al pari
del ruolo del silenzio nella musica, dicono loro, che accentua il suono che lo succede. Il lettore si sarà
già accorto che questo nostro tentativo di verificare separatamente le diverse ipotesi rischia di apparire
un artificio ozioso, soprattutto se si vuole mantenere il rigoroso metodo archeologico come parametro
di valutazione di ipotesi che al momento sembrano nascere dalla fantasia e dalla suggestione, contri-
buendo alla creazione di una “teoria sciamanica” molto molto debole.
Veniamo alle piccole nicchie, agli anfratti e ai cunicoli inaccessibili, luoghi reconditi che potevano
accogliere una o poche persone per volta. Prendiamo come esempio il famoso pannello della Grotta di
Trois-Fréres nel quale le figurazioni si presentano spesso sotto forma di palinsesti sovrapposti di incisio-
ni, vale a dire un groviglio inestricabile di segni realizzati in momenti successivi sulla medesima parete
(figg. 10, 54); lo spettatore che si pone di fronte ad essi al chiarore tremulo di una torcia certamente non
avrebbe consapevolezza delle singole figure. Oppure prendiamo ad esempio il soffitto (Grand Plafond)
nella grotta di Rouffignac che accoglie figure zoomorfe anche di dimensioni superiori al metro linea-
re, che sono state realizzate stando distesi
sulla schiena e avendo uno spazio libero
tra corpo e soffitto di circa 50-60 cm, si-
tuazione che rendeva impossibile all’ese-
cutore avere la completa visuale della sua
raffigurazione (fig. 56; tav. 11/5).
Clottes e Lewis-Williams ritengono, se-
guendo il filo della loro lettura sciama-
nica, che queste nicchie anguste e questi
stretti cunicoli fossero delle vere proprie
camere di isolamento dove attendere le
visioni. Gli stati alterati di coscienza, in-
dotti proprio dal senso claustrofobico che
provocavano questi spazi chiusi, avrebbe-
ro portato il soggetto ad incidere le pro-
prie visioni nella roccia. In verità potreb-
Fig. 56 – Rilievo (parziale) dell’insieme di figure zoomorfe dipinte sul
be essere verosimile, ma l’ipotesi seguente
Grand Plafond nella Grotta di Rouffignac; l’esecutore ha potuto realiz- non è archeologicamente dimostrabile,
zarle stando sdraiato sulla schiena e avendo a disposizione uno spazio
molto angusto per l’estensione del braccio in quanto lo spazio tra piano che in questi spazi nascosti ed angusti le
di appoggio e soffitto era esiguo (vedi tav. 11/5), di conseguenza non era
possibile avere la percezione immediata di ogni figura nella sua interezza
immagini non fossero destinate ad uno
(da ART DES CAVERNES 1984). spettatore ma fossero il prodotto di gesti
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e di azioni (incisioni su roccia, raramente pitture monocrome col solo profilo dell’animale) collegate
ad una percorso interiore che si attua nell’oscurità di un impervio cunicolo. L’azione si identifica e si
conclude nel gesto, senza implicazioni di condivisione o di comunicazioni al di fuori di sé. Nella cul-
tura giapponese, la scrittura o il tracciare segni sulla sabbia in momenti di meditazione e di solitaria
introspezione non sono poi pratiche così dissimili da quelle che possiamo immaginare aver prodotto
questo repertorio performativo non eidetico destinato ad essere celato agli occhi del gruppo e, talora,
anche alla percezione del suo autore (Martini 2008).
Un cenno ai cosiddetti siti all’aperto. Clottes e Lewis-Williams ritengono questi siti non estranei all’ar-
ticolato rituale sciamanico, tuttavia come essi stessi sottolineano, la conservazione delle pitture e delle
incisioni in questi siti è stata messa a dura prova dalla stessa esposizione agli agenti naturali ed atmo-
sferici, tanto che i siti conosciuti sono veramente pochi. Il più importante è sicuramente quello di Foz
Coâ in Portogallo. L’esiguità del loro numero ci impedisce di dare valore a qualunque osservazione.
In sintesi, per rispondere al quesito di partenza sulla coscienza delle potenzialità sacrali dello spazio,
l’osservazione diretta degli ambienti di grotta dove sono documentati cicli pittorici eidetici oppure dove
sono rimasti simulacri di animali probabilmente connessi a cerimonie oppure raffigurazioni di gesti
collegati alla caccia (abbattimento simulato della preda nell’immagine) rende evidente la connessione
che esiste tra il fare segno, la sacralità del gesto e del prodotto figurativo e lo spazio chiuso della grotta.
Si deve alla finezza speculativa di Denis Vialou (2004) una riflessione sul rapporto tra lo spazio parie-
tale (parete, soffitto dove produrre le figurazioni) e il dispositivo parietale (la figurazione); l’architettura
sotterranea che si dispiega nell’oscurità è stata scelta non casualmente ma secondo un progetto di inte-
razione tra immagini e spazio disponibile. La contiguità fisica dei pannelli parietali con molti soggetti,
delle figure singole e dei segni lineari, geometrici e puntiformi oppure la loro distanza spaziale, che si
tramuta in una separazione visiva, fanno parte di una valutazione globale che considera inscindibile l’e-
lemento spazio dall’elemento simbolico affidato all’immagine. Simbolismo e sacralità, metafora e rito,
quindi, appaiono fusi col “supporto”, così come è bene documentato anche nell’arte mobiliare dove è
la superficie disponibile a dettare le regole della composizione.
Le documentazioni archeologiche che ci attestano la pratica rituale nel Paleolitico in modo indubi-
tabile sembrano indicare nella grotta lo spazio privilegiato dove avviene e si materializza la coscienza
del sacro. Nella struttura comportamentale dell’homo religiosus, in ogni tempo e ad ogni latitudine,
lo spazio abitato è una realtà disomogenea le cui parti possono avere significati e funzioni qualitativa-
mente molto differenziati. L’esperienza sacrale ha sempre avuto la necessità di essere delimitata entro
confini, limiti, cornici ben definiti; ne fanno fede le pratiche rituali delle società arcaiche a partire dalla
protostoria ma anche i confronti con le popolazioni primitive attuali. Si pensi, tra l’altro, alla pratica
del sulcus primigenius, che già dalla fine del Neolitico sino alla fondazione di Roma costituisce il gesto
primario per la fondazione di una struttura, monumentale o no, che supera la dimensione naturale e
utilitaristica. Si pensi anche alla determinazione dell’omphalós geografico come punto di orientamento
92
e di collegamento tra mondo reale e non, al significato costruttivo dei templi nelle società religiose
arcaiche, alla chiesa cristiana come contrapposizione alla dimensione profana del luogo abitato. La
grotta durante il Paleolitico sembra possedere il requisito di poter diventare uno spazio sacro e per
questo diviene il luogo privilegiato dove gli “artisti” del Paleolitico superiore esprimono la loro conce-
zione simbolica del reale, è nella grotta che si attuano quei comportamenti che paiono attestare, pur
nella loro nebulosità documentale, l’esistenza di riti di iniziazione, di rapporti forse cultuali col mondo
animale, è nella grotta che viene conservata la presenza materiale e immateriale dei defunti. La grotta
come spazio sacro, témenos entro cui ha luogo la ierofania o il rapporto privilegiato con il non-reale, va
intesa come l’acquisizione di un punto di riferimento sul quale fondare un ordine e un codice di inter-
pretazione del mondo. L’omogeneità dello spazio non differenziato equivale al caos, la rottura di questa
omogeneità e la costruzione di un “centro” sacrale sono la condizione per dare validità ed efficacia al
rito (Grifoni Cremonesi e Martini 2008).
Se le grotte sono dei corridoi che collegano il mondo sensibile con il mondo dell’aldilà, le loro pareti sono evi-
dentemente l’ultima barriera che inibisce il contatto tra questi due piani del cosmo sciamanico. Non sono solo
più semplice roccia, ma assumono un significato ed un ruolo in alcune delle forme d’arte espresse dai paleolitici
(Clottes e Lewis-Williams 1996). In letteratura è possibile ritrovare diversi tentativi di dare significati simbolici
e archetipici al valore della roccia e per evidenziarne uno significativo citiamo nuovamente Mircea Eliade, da
cui i nostri due autori attingono molto. Così si esprimeva lo studioso rumeno in merito alle cratofanie litiche:
“Per la coscienza religiosa del primitivo la durezza, la ruvidità e la permanenza della materia sono una ierofania.
Non v’è nulla di più immediato e di più autonomo della pienezza della sua forza e non v’è nulla di più nobile e di
più terrificante della roccia maestosa, del blocco di granito audacemente eretto. Innanzitutto, la pietra è. Rimane
sempre sè stessa e perdura” (Eliade 2008, pag. 195).
Se quindi la parete rocciosa diventa un membrana che separa i vivi dagli spiriti, i frequentatori paleolitici delle
grotte evidentemente si saranno comportati di conseguenza relazionandosi con esse ed anche certe evidenze
giunte sino a noi verrebbero ad assumere un particolare significato, come i denti o i frammenti di osso e di
conchiglia conficcati in fessure nelle pareti delle sale e dei corridoi (tav. 13/5-8), nel tentativo di permeare la
membrana (rappresentata dalle pareti rocciose) che divide due mondi (Clottes e Lewis-Williams 1996, pag. 83).
Mentre Bahn contesta l’intento rituale di queste testimonianze archeologiche, per Clottes e Lewis-Wil-
liams invece questo è un elemento prioritario su cui si basa la loro dimostrazione, insieme alla teoria
dell’utilizzo dei rilievi naturali (Clottes e Lewis-Williams 2007 pag. 157).
È evidente che la presenza di oggetti ossei e litici nelle fessure delle pareti rappresenti una situazione
inusuale, un gesto speciale: «Inevitably, all of this is assumed to have some ritual purpose, which is probably
fair enough (albeit far from certain) (Bahn 1997 pag. 64). Nella letteratura paletnologica vengono spes-
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so ricollegati alla sfera rituale e sacrale documenti che sembrano indicare o una situazione fuori della
norma oppure uno stato eccezionale. Ma il presupposto fondamentale per tentare una riflessione su tali
documenti al fine di convalidare un loro legame con la sfera del “sacro” non è tanto l’esser fuori dalla
norma, quanto piuttosto la ripetitività di un gesto, di una pratica comportamentale, di atti materiali
che possono avere in modo indiscutibile un significato simbolico. Questo carattere di ripetitività del
gesto simbolico, che attesta un codice ideologico all’interno di un sistema culturale, rende verosimile
la sua attinenza alle esperienze del sacro (Grifoni Cremonesi e Martini 2008). La pratica di appoggia-
re o incastrare scaglie ossee, denti e conchiglie in crepe e fessure delle pareti è segnalata in 17 grotte
(Enlène, Labastide, Trois-Fréres, Tuc d’Audoubert, Troubat, Miers, Sainte-Eulalie, Altxerri, Gargas…)
nell’areale franco-spagnolo (Clottes 2004), in altri casi si tratta di frammenti litici; sono numeri che
soddisfano il requisito della ripetitività e ciò, unito al fatto che queste evidenze sono in grotte dipinte,
sembra conferire a questi gesti inusuali una liceità simbolica. È evidente la debolezza della spiegazione
come “volonté de dépasser la réalité prosaïque du monde où l’on vit pour accéder à celle d’un monde-autre”
(Clottes 2004, pag. 200), tuttavia resta l’enigma di una metafora gestuale diacronica e transculturale
(Clottes 2007; Peyroux M. 2012) che al momento non siamo in grado di decifrare.
La parete rocciosa-supporto come potenziale informativo viene presa in considerazione solo saltuaria-
mente dagli studiosi, in verità uno studio sull’universo figurativo paleolitico non dovrebbe prescindere
dal considerare la parete come parte integrante dell’opera figurativa (Lejeune 2004). Oltre all’archi-
tettura globale (Vialou 2004) è fondamentale evidenziare sempre il rapporto tra immagine e supporto
roccioso come fonte di informazione per l’analisi morfologica, spaziale e culturale. Talora tale interre-
lazione è così evidente da non passare inosservata: ci riferiamo all’utilizzo che i sapiens paleolitici hanno
fatto dei rilievi e delle fessure naturali delle pareti della grotta, di stalattiti e stalagmiti, di sporgenze,
buche e crepe che potevano essere fonte di ispirazione per la realizzazione di immagini (tav. 14/1-4).
Il parere di Clottes e Lewis-Williams è che queste immagini rappresentassero gli animali-spiriti che
uscivano (o almeno tentavano) dalle pareti. Spesso ai rilievi rocciosi sono stati aggiunti attributi che
conferiscono un carattere zoomorfo, più raramente antropomorfo, alle sporgenze e in taluni casi alle
stalagmiti e alle stalattiti. Un caso esemplare si trova nella Grotta di Altamira, nella Spagna cantabri-
ca, dove su alcuni rilievi naturali sono state realizzate (nove casi nel lungo –circa 70 metri- e stretto
cunicolo detto Cola de caballo) delle suggestioni di viso umano o animale, con un’ambiguità forse
intenzionale, ottenute con pochi segni in colore nero indicanti gli occhi e la bocca (tav. 14/1). Questi
esigui ed essenziali interventi su una morfologia naturale evocano una visione frontale, in letteratura
spesso impropriamente citata come “maschera”, di un viso o di un muso. La frontalità della visione,
secondo Bahn, avrebbe dato ai suddetti Autori l’occasione di accentuare la caratteristica e la sensazione
della fuoriuscita di questi presunti animali-spiriti, mentre in realtà l’utilizzo delle difformità delle pareti
per le raffigurazioni avrebbe prodotto un’ampia varietà di percezioni, molte a veduta laterale. In verità
l’utilizzo di morfologie e volumi naturali è ormai un dato assodato e indiscusso e rientra nella discussione
94
più ampia dell’interpretazione di immagini destinate ad essere viste; in questo caso dobbiamo cogliere
la volontà di suggerire ed evocare, mediante l’impiego e la trasformazione di un modellato naturale, una
visione tridimensionale e non meramente bidimensionale dell’immagine, non solo in ambiente di grotta,
ma anche in contesti all’aperto e nell’arte mobiliare (Taborin 2000), secondo una progettazione organiz-
zata e concettualmente codificata forse destinata ad una rappresentazione volumetrica (Brot 2012).
In realtà l’interpretazione del ruolo e del significato delle pareti rocciose è più complesso dell’ipotesi
“membrana”, in verità molto semplice e quasi banalizzante. Infatti una visione globale della pratica
figurativa nelle grotte indica che le pareti delle caverne avevano un ruolo attivo nella disposizione e
talora anche nella ispirazione delle immagini, ma non solo le pareti quanto piuttosto tutto l’ambiente
ipogeo, compresi i cunicoli e gli spazi angusti, le vaste sale ove istoriare pannelli più o meno maesto-
si, le stalattiti e le stalagmiti sia isolate sia in gruppi, la presenza talora di corsi d’acqua. Si tratta di
un ruolo non solo “partecipante” (Leroi-Gourhan) bensì “pienamente attivo” (Lorblanchet 2006) nel
quale segni e figurazioni sono parte integrante di un ambiente dove oscurità e luce, silenzio e suoni,
spazi angusti e aree aperte interagiscono col gesto del raffigurare e con la percezione dello spettatore.
Nella visione riduttiva di “membrana” che consente il passaggio tra mondi diversi, la parete si limita
ad essere una mera superficie dove pitture e incisioni vengono riportate, uno statico supporto ricettivo
di incisioni e pitture, mentre invece la parete è uno degli elementi spaziali che ispira e partecipa alla
rappresentazione del mondo e dell’interiorità, che anima il vasto universo metaforico di animali e uo-
mini, nell’integrazione tra superfici, volumi, spazi pieni e vuoti. Solo una lettura dinamica che faccia
interagire spazio, gesto e figurazione, integrando la parete istoriata in una dimensione anche sonora
della grotta (Reznikoff 2012), può far comprendere quanto la percezione delle figurazioni possa essere
stata globale per le comunità paleolitiche, stimolando non solo la capacità visiva ma l’intera gamma di
sensi e creando i presupposti per un incontro con gli stati dell’anima.
A questa partecipazione creativa globale partecipano le diverse categorie di rocce, le morfologie, la
natura e le caratteristiche delle pareti e dei soffitti: i calcari compatti danno corpo e volume a solidi
bovini e cavalli o a donne gravide (tav. 14/3, 4), la fanghiglia argillosa che ricopre talora le pareti ha
permesso di tracciare impressioni profonde di cuppelle che metaforicamente feriscono la preda (tav.
14/5) oppure di realizzare raffigurazioni (tav. 14/6) e tracciati digitali (“macaroni”) (fig. 57; tav. 14/6),
superfici concave e rientranze delle pareti circoscrivono pitture limitando la loro dilatazione nello spa-
zio, stalattiti e stalagmiti evocano, suggeriscono e offrono volumi prestabiliti a immagini di mammuth
col vello ricadente che attendevano solo alcuni dettagli dipinti o qualche leggera scalfittura della roccia
per prendere corpo. Questa visione corale che ingloba e unifica lo spazio della caverna e le immagini
figurative suggeriscono non tanto uno stato di alterazione della coscienza, quanto piuttosto un gesto
cosciente e la consapevolezza dell’atto creativo.
95
Le impronte di mano costituiscono un repertorio pittorico
di ampia diffusione, dalle coste atlantiche al Mezzogiorno
italiano, dal nord della Francia al sud della penisola iberi-
ca. La loro cronologia, quando accertata con metodologie
attendibili, risale per lo più alla fase media del Paleoliti-
co superiore (cultura del Gravettiano, tra 29-20.000 anni
fa). Impronte di mani sono state lasciate sulle pareti del-
le grotte, con due procedimenti: colorando la mano con
pigmento e appoggiandola sporca di colore (impronta in
positivo) oppure appoggiando la mano pulita sulla roccia
e soffiandole sopra un pigmento polverizzato (impronta in
negativo) (tav. 15/1-3, 5). Queste tracce possiedono una
suggestione particolare, soprattutto quelle in positivo, in
quanto sono l’unica testimonianza tangibile e reale della
presenza fisica di un individuo nella grotta, il suo “timbro”
sulla scena del rito e del sacro, non mediata dalla finzione
dei linguaggi grafici e raffigurativi.
La loro localizzazione all’interno delle caverne è varia; in
mancanza di uno studio esaustivo ed ampio sulla loro di-
Fig. 57 – Grotta di Altamira. Esempio di digitazioni
stribuzione spaziale, resta al momento significativo quan-
(“macaroni) sul rivestimento argilloso delle pareti di to rilevato nella Grotta di Gargas (Foucher et alii 2007,
grotta (da Breuil 1952).
2012), sui Pirenei francesi, dove le impronte, presenti in
tutta la grotta, sono concentrate soprattutto nella Sala 1, laddove si sono svolte tutte le attività della
vita quotidiana, dalla produzione dei manufatti e degli ornamenti alla preparazione del cibo (tav. 15/3,
4). Le incisioni zoomorfe invece sono localizzate nelle gallerie secondarie e nei diverticoli, in aree an-
che anguste dove non sono state rilevate tracce di azioni utilitaristiche legate alla quotidianità. Questa
differenziazione spaziale delle immagini evidenzia verosimilmente comportamenti e ideologie variati.
Le impronte di mano appartengono sia a maschi sia a femmine, di tutte le età, dall’infanzia agli adulti.
Le interpretazioni che sono state date alla produzione di impronte di mano sono molte e in alcuni casi
anche fantasiose. Spesso in associazione con figure zoomorfe o ad esse sovrapposte, sono state ritenute
simboli di possesso nei confronti delle prede di caccia (magia venatoria). Presenti sia isolate sia a gruppi
le impronte di mano sono state interpretate come testimonianze di riti di iniziazione all’interno delle
caverne. A volte l’impronta non è completa e appare chiaramente mutila (tav. 15/5) e mancano intere
dita oppure falangi di una o più dita: in questo caso è stato ipotizzato che tale repertorio fosse collegato
ad un linguaggio simbolico, per noi inaccessibile, espresso attraverso il marchio di mani complete o
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incomplete. Non sono infine mancate le ipotesi relative ad episodi di mutilazione.
Clottes e Lewis-Williams (1996, pag 94-96) ritengono che anche queste testimonianze rientrino all’in-
terno del quadro sciamanico. L’impronta in negativo fa pensare loro non ad una volontà di raffigurare
una mano, ma all’intento di penetrare nella parete della caverna. La pittura, preparata ritualmente,
avrebbe ricoperto la mano e le zone limitrofe, facendo in modo che essa venisse inglobata nella pietra.
Non contava quindi l’impronta in sé, ma il momento stesso in cui le mani sparivano dietro la parete
superando ogni dimensione spaziale. Ogni impronta rappresenterebbe un singolo rituale sciamanico.
Ad avvalorare questa idea vi sarebbe il fatto che alcune impronte sono mutile. L’amputazione volontaria
avrebbe aiutato a produrre uno stato alterato di coscienza, come attestato presso i Khoekhoe nel sud
dell’Africa. Osserva Bahn (1997, pag. 65), e noi con lui:
“Where on earth do these fanciful notions come from? And just when you think things cannot conceivably
become more absurd, they turn to the possibly amputated finger joints (and of course it is by no means certain
that they were amputated rather than bent over) and suggest that ‘the pain thus caused might possibly have
contributed to the induction of an altered state of consciousnesses!! Words fail me at this point.”
Si tratta di una domanda che trova la sua giustificazione in alcune scarse evidenze paleolitiche francesi,
piccole impronte di mano o delle sole dita (tav. 16/1) e impronte di piedi (tav. 16/2) lasciate sul suolo
fangoso da bambini e giovani che hanno frequentato le caverne. Nel Réseau Clastres, una galleria lun-
ga circa 1,2 km che si estende oltre la Galleria Carthailac nella Grotta di Niaux, nei Pirenei francesi
(il Rèseau Clastres geologicamente fa parte della grande ed estesa Grotta di Niaux ma i paleolitici vi
avevano accesso da un altro ingresso, sono stati rilevati 17 raggruppamenti di impronte umane, per un
totale di circa 500 osservazioni; più di 130 erano impresse su un banco di sabbia per una lunghezza
di circa 20 m e la loro posizione indica che quella zona è stata attraversata da tre giovanetti che hanno
camminato affiancati (tav. 16/6) (Clottes 1991 e 1995). Particolare interesse rivestono alcune impronte
anomale in quanto la traccia del piede non indica la postura regolare di una persona che cammina
bensì una posizione inusuale; infatti le impronte riguardano in un sito i soli talloni (tav. 16/3-5), in un
altro indicano che il piede era appoggiato non di piatto ma di taglio (tav. 16/6). Ciò ha fatto ipotizzare
un incedere in pose non ordinarie oppure passi di danza. Si tenga presente inoltre che tali evidenze
sono collocate in parti della grotta dove sono stati rinvenuti simulacri di animali (tre bisonti, un orso)
probabilmente oggetto di pratiche cerimoniali. Clottes e Lewis-Williams nel tentativo di dare una
spiegazione ad ogni evidenza archeologica che abbia una qualche connessione più o meno verosimile
con la sfera del sacro e del rituale, soprattutto in ambiente di grotta, vedono nelle raffigurazioni di
alcune piccole mani (Gargas, Fontanet etc.) e nelle orme di talloni di presunti fanciulli della grotta di
Tuc-d’Audoubert la testimonianza che la loro frequentazione di ambienti ipogei non era per motivi
97
profani. I due autori accusano i sostenitori della tesi contraria di essere troppo influenzati dalla menta-
lità occidentale che “proibisce” il sacro ai bambini (Clottes e Lewis-Williams 1996, pag.96-99).
Oltre alle impronte di mano e di piede sono attestate in tutta l’Europa sud-occidentale digitazioni
tracciate sulla parete umida e fangosa delle grotte da dita di individui giovani: si tratta di impressioni
lunghe e parallele ottenute facendo scorrere le dita unite sulla parete, impressioni isolate oppure unite
a immagini zoomorfe. Un esempio è documentato nella grotta di Rouffignac (Sharpe e van Gelder
2004; van Gelder 2012) dove studi recenti hanno individuato digitazioni di sette individui, dei quali
tre sono bambini e cinque probabilmente femmine (tav. 14/7).
Elemento importante, a nostro avviso, rimane tuttavia la ripetitività del gesto di lasciare impronte di
mano e la presenza di impronte di piedi relative ad una postura anomala oppure, seguendo una inevi-
tabile suggestione che non sfocia nella prova archeologica, a passi di danza; pratiche che non possono
essere ricondotte a semplici attività utilitaristiche all’interno delle caverne. Per quanto concerne l’età di
accesso alla sfera del sacro, dobbiamo tenere presente due fattori: che le impronte, in base alle dimen-
sioni, sembrano riferirsi non tanto a bambini ma ad adolescenti e che la documentazione archeologica
nel suo complesso pare indicare, nell’arco temporale della vita media paleolitica, una precocità com-
portamentale di quelle popolazioni rispetto agli standard moderni e contemporanei. Pare lecito ipo-
tizzare che quelle tracce (impronte di mano e di piede) della presenza di fanciulli nelle grotte ipogee e
nei cunicoli, in ambienti dove restano anche simulacri zoomorfi (orso, bisonte) presso i quali insistono
le impronte podaliche, possano indicare pratiche di iniziazione espletate da individui giovani e molto
giovani.
13 - Se il sapiens paleolitico ha “fatto segno” in rapporto a sistemi percettivi che solo la nostra spe-
cie possiede e ha elaborato un linguaggio di comunicazione figurativo attraverso diversi canoni di
rappresentazione (stili), l’arte del sapiens attuale ha qualche connessione con quella paleolitica?
Come abbiamo visto, la nascita dell’arte, questa grande tappa nella storia evolutiva, risale al momento
in cui individui sapiens evoluti, attorno a 40.000 anni fa, acquisiscono la capacità di elaborare imma-
gini, cioè capiscono di poter rendere in modo bidimensionale la percezione che invece è tridimen-
sionale, per masse e volumi. Lo studio di questa documentazione archeologica può essere affrontato
solo in un’ottica pluridisciplinare che coinvolga archeologi, studiosi di scienze umane, di estetica e di
neuroscienze. Infatti il fenomeno “arte” dà inizio ad un percorso di esplorazione del mondo attraverso
i simboli. Si tratta di un cammino che l’uomo sta ripercorrendo ancora oggi all’interno del suo sistema
complesso di rappresentazione del mondo esterno e della propria realtà interiore. Ne sono una prova
alcune coincidenze sui sistemi di rappresentazione, sia a livello di elaborazione del segno sia a livello
di linguaggio stilistico, che emergono nel repertorio figurativo paleolitico e nell’arte contemporanea.
Ecco alcuni esempi.
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In due pitture di Grotta Lascaux (circa 18.000 anni fa) è presente l’anamorfosi (vedi supra), un effetto
di illusione ottica che prevede la figurazione distorta di un’immagine e la riconoscibilità del soggetto
solo da un preciso piano di osservazione, cioè guardando l’immagine da una posizione precisa (fig. 51;
tav. 11/1-3). Usata sin dal Rinascimento, oggi viene impiegata da alcuni artisti, ad esempio da Julian
Beever che opera su marciapiedi e pavimenti soprattutto con gessetti, creando illusioni tridimensionali
anamorfiche.
Altra coincidenza formale, che indica una struttura compositiva e percettiva per lo meno
simile in ambito preistorico e contemporaneo, è indicata dalla sineddoche, un procedimento espressi-
vo che consiste nell’uso di una parte per il tutto, ad esempio la raffigurazione di una parte anatomica
per indicare l’intero corpo. Sin dalle prime espressioni figurative dell’Aurignaziano (40-30 mila anni
fa circa) tale procedimento è stato adottato nel Paleolitico per immagini dipinte o incise, soprattutto
per quanto concerne il corpo femminile, del quale si rappresenta il suo attributo principe, vale a dire
l’organo vulvare (tav. 1/2, 3; tav. 6/1-3).
La rappresentazione dell’intero corpo femminile nel repertorio delle cosiddette “Veneri” (tav. 7) bene
illustra il procedimento di scomposizione e ricomposizione dei volumi che diverse tendenze dell’arte
del ‘900 ci hanno reso abituali. Nell’immagine definitiva che viene offerta allo spettatore, nel prodotto
finito colpiscono il sistema percettivo principalmente i volumi delle parti anatomiche legate alla ma-
ternità (seno, ventre), la testa diviene una appendice secondaria, un volume marginale utilizzato talora
come elemento quasi decorativo (ad esempio, Willendorf) (tav. 7/2), le braccia, che sono superflue in
questa visione della donna gravida, non sono ignorate ma vengono ridotte a deboli volumi sfumati che
si confondono talora col seno, sul quale sono appoggiate, infine i piedi, anch’essi superflui, sono spesso
del tutto ignorati e quindi non rappresentati.
Allo stesso procedimento di scomposizione e ricomposizione del soggetto rimandano alcune statuette a
tutto tondo, poco elaborate; in esse il soggetto è immediatamente riconoscibile in quanto viene evocato
nei suoi volumi essenziali e nelle morfologie più specifiche. Il mammuth, ad esempio, (tav. 9/5) diviene
immediatamente riconoscibile in virtù della specifica morfologia convessa del piccolo cranio, della
grande massa corporale gibbosa, della proboscide: il semplice accenno a questi tre elementi identitari
rende immediatamente riconoscibile questo pachiderma nei prodotti poco elaborati.
La rappresentazione del movimento costituisce da sempre un banco di prova per chi opera nella fi-
gurazione. Nel Paleolitico tale rappresentazione è stata realizzata con soluzioni diverse (Azema 2010
e 2012), alcune molto semplici incentrate sul dinamismo soprattutto degli arti ma anche della testa o
della coda; altre soluzioni sono appena più complesse. Una prevede la scomposizione del movimento
per sovrapposizione di immagini successive: si tratta di un elemento costruttivo e percettivo, che ap-
pare con una certa frequenza, nel quale l’animale (tav. 8/4) viene ritratto con una sovrapposizione di
alcune parti anatomiche al fine di rendere l’effetto di movimento. Un’altra soluzione grafica si basa sul-
la scomposizione del movimento per giustapposizione di immagini ravvicinate di una parte anatomica
99
(tavv. 8/5; 9/2) al fine di rendere visivamente il movimento di un unico soggetto. Sono procedimenti
sui quali, sollecitati oggi da stimoli percettivi molto elaborati, non siamo usi riflettere in merito alle
loro implicazioni percettive, ma che sappiamo essere stati alla base della creazione, ad esempio, dei
cartoni animati, oltre che essere presenti già nelle esperienze figurative dell’infanzia.
Un ulteriore linguaggio grafico presente sin dalle prime esperienze figurative paleolitiche europee con-
cerne la visione schematica della realtà, secondo canoni standardizzati e ampiamente diffusi nel tempo
e nello spazio. Il corpo del cosiddetto “sciamano” della Grotta di Fumane (vedi supra) è reso in una
soluzione bidimensionale attraverso poche linee rappresentanti il tronco, gli arti superiori e inferiori
(tav. 1/1).
In estrema sintesi, possiamo osservare che l’uomo, sin dalle sue prime espressioni figurative, ha utiliz-
zato diversi linguaggi (stili), diversi alfabeti segnici e diverse soluzioni nel suo tentativo di rappresentare
il mondo. Nell’arte contemporanea, sia quando l’obiettivo principale dell’artista è stato il racconto e la
descrizione della realtà sia quando nuove strade -formali e informali- sono state aperte, certi linguaggi
attestati sin dalla preistoria sono rimasti in quanto sono connessi ai sistemi di percezione del nostro
cervello e alla pratica di restituzione di quanto percepito. L’uomo contemporaneo, del resto, appar-
tiene alla specie Homo sapiens che ha raggiunto una completa maturità e “modernità” circa 40.000
anni orsono, senza subire da allora ad oggi sostanziali modifiche anatomiche. Oggi, quindi, stiamo
ripetendo molto di quanto è già stato detto, stiamo seguendo molti percorsi già tracciati. Mantenere
viva la memoria e la consapevolezza di questi percorsi costituisce la garanzia per comprendere meglio
il nostro presente.
100
4
PIÙ DOMANDE CHE RISPOSTE
Il tema dello sciamanesimo negli studi di archeologia preistorica ricorre in letteratura ogni volta che un au-
tore affronta il problema della religione o della religiosità o dello psichismo o, più in generale, del rapporto
col sacro nei popoli cacciatori-raccoglitori. Allargando il campo di indagine, i termini sciamano e sciama-
nesimo nel pensiero occidentale sono stati impiegati per indicare rispettivamente individui e pratiche spiri-
tuali e simboliche molto differenti, inseriti in contesti culturali e sociali diversificati. Col primo appellativo
si tende ad indicare ogni individuo avente confidenza con pratiche capaci di controllare l’incontrollabile o
di conoscere ciò che è ignoto ai più (mago, stregone, indovino, guaritore). Quanto al cosiddetto “sciama-
nesimo” il termine indica una serie di atteggiamenti diversificati nella complessità e nella tipologia delle
pratiche e appare veramente riduttivo identificare questa serie di pratiche con esperienze visionarie (trance).
Lo sciamanesimo, se vogliamo utilizzare questo termine di origine tungusa, è un tipo di religione osservato
presso popolazioni siberiane nel XVII secolo (vedi cap. 1) e i suoi rituali mettono in pratica, in una sorta di
rappresentazione, le relazioni complesse tra il gruppo umano e la popolazione faunistica del suo territorio.
Un elemento in comune alle diverse riflessioni, sia quelle più prudenti sia quelle più audaci, è l’impiego
del termine “sciamanesimo” per indicare un atteggiamento psichico e fisico non ordinario, una possibile
alterazione dello stato di coscienza -forse uno stato di trance-, un’attitudine a relazionarsi col mondo interio-
re-psichico-animistico-soprannaturale-totemico (la genericità dei termini è proporzionale alla leggerezza con
quale vengono usati) in virtù di capacità fuori norma di alcuni membri all’interno della comunità.
Molte interpretazioni risalenti ai secoli XVIII e XIX vanno viste come mistificazioni basate su pregiudizi
ideologici e/o religiosi ma anche come frutto di procedimenti descrittivi connotati da una certa ignoran-
za di complessi fenomeni culturali, considerati “altro” rispetto alla norma sociale e religiosa dominante.
Chi si è occupato recentemente degli studi sull’argomento in discorso ha unanimemente sottolineato
il carattere problematico del termine sciamanesimo, che va considerato un prodotto semplificato della
tendenza alla confusione semantica e della ristrettezza concettuale, applicato a realtà etnografiche molto
complesse dell’area siberiana. Nonostante l’allarme sull’uso disinvolto e acritico dei termini sciamano e
sciamanesimo, essi sono stati diffusi e applicati in contesti diversi, tra i quali non possiamo non ricordare
l’impiego strumentale in occasione di esperienze di politica coloniale oppure di censure ideologiche. Un
esame critico dell’impiego dei termini nelle prime fasi interpretative delle pratiche sciamaniche rivela
che le diverse accezioni impiegate vanno a configurare un quadro molto complicato a causa delle ampie
generalizzazioni semantiche (Boekhoven 2010).
101
Nella primo capitolo abbiamo cercato di mostrare sinteticamente come l’origine dell’uso dei termini
“sciamano” e “sciamanesimo” vada ricercata nell’avvio e poi nella tradizione di studi accademici eu-
ropei, derivati dall’interesse per popolazioni “diverse” venute alla ribalta con le esplorazioni in Asia
occidentale. È nostra opinione che mentre lo “sciamano” può essere considerata una scoperta, lo “scia-
manesimo” è un invenzione. Riteniamo di aver sufficientemente evidenziato la leggerezza e talora l’im-
proprietà dell’uso generalizzato e univoco del termine “sciamanesimo”, in quanto indicativo di uno dei
tanti stati dell’anima che l’etnografia ha mostrato come atteggiamento metastorico presso gruppi uma-
ni definiti “primitivi”. Detto termine, che non rende giustizia alla grande variabilità di comportamenti,
credenze, simboli e implicazioni sociali che invece si possono documentare, appiattisce differenti stati
dell’anima in una serie limitata di pratiche che uniscono la magia, la religione, il totemismo, l’animi-
smo, la capacità taumaturgica e altre attitudini, le quali possono essere eccitate ed enfatizzate, secondo
alcuni autori, da sostanze allucinogene.
In estrema sintesi, lo sciamanesimo è divenuto oggi sinonimo di religione antica o preistorica, di magia, di
stregoneria, di saggezza e lo sciamano ha acquisito da un lato il ruolo di rozzo mistificatore e di diabolico
operatore in arti occulte, dall’altro quello di profondo conoscitore e attuatore di epifenomeni non accessibili
alla gente comune che mettono in comunicazione il mondo ordinario e consapevole con quello spirituale e
inconscio. In breve, il concetto di sciamanesimo è stato spalmato lungo due variabili semantiche differen-
ziate, una relativa alla profondità della pratica religiosa, l’altra verso il suo opposto, rappresentando entrambi
l’apice di una irrazionalità primitiva come antidoto ad una eccessiva struttura razionale.
Storie più o meno probabili su volti, maschere e animali che non parlano
Nella letteratura paletnologica il ruolo dello “sciamano” come interlocutore unico con la realtà metasto-
rica è correlato al mondo animale, in una simbiosi eccezionale, cioè non comune a tutti, di saper dialo-
gare con entità extra-naturali. Tale modello interpretativo deriva, nella ricostruzione paletnologica, da
una mutuazione concettuale dalla documentazione etnografica più o meno recente la quale introduce
nella scena il mondo animale così frequente nelle figurazioni parietali e rupestri paleolitiche. Lo svilup-
po e il successo, soprattutto in ambito anglosassone, del comparativismo etnografico, collegato anche
alla diffusione delle impostazioni dell’antropologia culturale, ha significato una tendenza generalizzata,
anche in taluni ambiti scientifici europei, a coniugare l’archeologia documentale -fortemente radicata
nelle principali scuole archeologiche del Vecchio Mondo- con l’etnoarcheologia. La ricostruzione dei
modi di vita delle genti paleolitiche non può contare su fonti scritte ma può avvalersi solo della capacità
di dare voce alla documentazione archeologica; capita sovente che, qualora l’esigenza di “spiegazioni” si
dimostri troppo forte ed impellente di fronte al mutismo del documento preistorico, si faccia ricorso ad
102
analogie comportamentali con primitivi attuali, i cui modi di vita –funzionali e simbolici, utilitaristici
e spirituali- possono oggi essere osservati, catalogati e, con una forzatura metodologica, utilizzati per la
creazione di modelli estendibili anche a realtà del mondo delle origini, evidenziando i comportamenti
adottati da società ritenute analoghe e non procedendo per analogie puntuali. Spesso il risultato è
quello di un approccio multiplo (animistico, totemico….) al tema dello “sciamanesimo” che, sulla base
del comparativismo etnografico, unisce e ingloba impostazioni culturali, strutture sociali, impianti re-
ligiosi e rituali differenti nel tempo e nello spazio, in una visione universale e sempre mutuabile dell’at-
teggiamento interiore verso realtà non direttamente documentabili. In questa reiterata tendenza ad un
impiego acritico di termini introdotti in ambito paletnologico già ai primordi degli studi, si è diffusa
l’adozione dei termini “sciamano”, per indicare un mago o uno stregone con maschera zoomorfa, e
“sciamanesimo”, per indicare un atteggiamento rituale o magico-religioso, entrambi ipotizzati sulla
base delle immagini dei cosiddetti “esseri compositi” realizzate nella produzione figurativa dipinta o
incisa del Paleolitico superiore europeo. Questa lunga “tradizione spirituale”, per usare la definizione di
Hultkrantz (1995, pp. 166), viene oggi messa a fuoco anche evidenziando la variabilità di impostazioni
religiose, le differenti mitologie e la diversificazione delle pratiche cerimoniali. Taluni tendono ad usare
il temine sciamanesimo al singolare, altri al plurale (Vitebsky 1997, Atkinson 1992), in ogni caso è
opinione condivisa che all’interno del sistema concettuale paleolitico non esistano identità di credenze
e di pratiche e che oltre alla variabilità geografica e diacronica si debbano ammettere trasformazioni
sia di contenuti sia di espressione. Un rigoroso metodo archeologico rende necessario un procedimento
di ricostruzione storica che prenda in considerazione: una valutazione critica della terminologia e del
valore semantico dei singoli termini impiegati, un esame della documentazione archeologica (icono-
grafica o simbolica sensu lato, materiale), l’attinenza o meno tra significante e significato, la validità
della mutuazione tra definizione concettuale e documento archeologico, in ultimo l’attendibilità delle
ipotesi che possono emergere dal procedimento. A ciò si aggiunga il fatto che le testimonianze arche-
ologiche fuori della norma, inusuali ed eccezionali non indicano necessariamente un contesto sacrale
(Grifoni Cremonesi e Martini 2008):
“The basic problem appears to be that, in a wholly laudable effort to escape traditional views of the art of
indigenous people as worthless, childlike or ‘primitive’, the pendulum has been swung to the other, romanti-
cised extreme, where every single mark they made has to be deeply spiritual and complex; in either case, their
humanity is diminished” (Bahn 1997, pag. 64).
Il dibattito ancora in corso, invece, appare chiaramente ispirato ad una tendenza metodologica e ad
una debolezza procedurale che pone dei limiti alla sua elaborazione, incapace di emanciparsi dalle
strettoie imposte da analogie etnografiche archeologicamente non documentabili, da ipotesi teoriche
derivate da modelli neurologici archeologicamente non documentabili, da correlazioni tra segni e figu-
razioni con stati dell’anima indotti da letture teoriche archeologicamente deboli.
Ma ciò che l’archeologia non comprova resta nelle infinite possibilità del reale e quindi dobbiamo
103
trovare fondamenti almeno ragionevoli che salvaguardino le nostre ipotesi (“…l’Archeologie n’est pas une
science ‘ dure’, au sense où on l’entende pour les mathématiques ou la physique. Les ‘preuves’, dont il est souvt
fait état, n’existent qu’ à un niveau de compréhension assez peu élevé.” Clottes 2004, pag. 195), che rendano
l’ipotesi medesima, nell’assoluta impossibilità di dimostrarla senza ombra di dubbio, almeno “..la meil-
leure hypothèse possibile, celle qui, en toute rigueur, doit être adoptée en attendant qu’une autre la supplante en
remplissant mieux les conditions de ce que doit être une best-fit hypothesis» (Clottes 2004, pag. 196).
L’ipotesi sciamanica, la migliore possibile secondo Clottes sull’interpretazione dell’arte paleolitica, si basa
sull’universalità, a suo dire, di diversi fenomeni interiori: le immagini elaborate nei sogni, le allucinazio-
ni e le visioni che comprendono la costante presenza di segni geometrici (entoptici), della sensazione di
vortice o di tunnel, il volo o il passaggio fisico istantaneo tra situazioni differenti, l’incontro con esseri
zoomorfi talora parlanti. Su questa base l’Autore, appoggiandosi a comparazioni etnografiche, innesta un
altro paradigma di supporto all’ipotesi (“…le pouvoir attribuì aux images. Il est le fondement de la magie
sympathique.” Clottes 2004, pag. 196). Su questo presupposto viene spiegata la varietà di riti magici basati
sulle immagini, con i quali si tenta di governare l’ingovernabile attraverso gesti e formule.
Sulla base dell’ipotesi “più probabile” relativa all’esistenza dello “sciamanesimo” nel Paleolitico supe-
riore, Clottes e Lewis-Williams si spingono anche a determinare particolari della pratica rituale, sino
alla possibilità di poter ricostruire, dalle raffigurazioni presenti nelle caverne, la struttura sociale delle
comunità paleolitiche, con tanto di elite, addetti ai rituali e subordinati. Pur rimarcando che la nostra
percezione di quelle immagini non può essere la stessa dei gruppi preistorici in quanto il paradigma in-
terpretativo è cambiato, i due autori reiterano l’applicazione di schemi, concetti e termini della attuale
cultura occidentale alla vita interiore delle comunità paleolitiche. Nel riprendere l’interpretazione del
fare segno come pratica religiosa sensu lato, essi non esitano a definire quelle attività come “sciamani-
che”, ma la sostanziale fragilità nella loro impostazione e nel loro impianto teorico è l’universalità del
modello secondo il quale “primitivi attuali” e paleolitici sarebbero al medesimo grado di evoluzione
culturale («on avait affaire à l’espèce humaine à un même degré d’ évolution»), condizione che impliche-
rebbe affinità comportamentali e di pensiero, la medesima visione del mondo e la stessa modalità di
descriverlo e di trasporlo in immagini (Clottes e Lewis-Williams 1996, pag. 63). Nella loro riflessione,
quindi, il popolo San diviene il principale paradigma comparativo. Tale tendenza a considerare valori
assoluti e universali emerge chiaramente dall’affermazione che la tendenza ad accedere a stati di co-
scienza alterata fa parte dei bisogni ineluttabili di uomini e donne delle società di cacciatori-raccoglitori
(Clottes e Lewis-Williams 1996, pag. 81), al pari, quindi, del mangiare, bere e respirare. Non è questa
la sede per discutere sulla opportunità -mancata- di distinguere aspetti universali da quelli costanti che
possono concernere società accomunate da particolari assetti, ad esempio lo stesso regime economico,
oppure di valutare l’esistenza o meno, nel contesto storico esaminato, del concetto di prassi. Certamen-
te i due autori conoscono un assunto di Malinowski, risalente al 1925 e che qui citiamo da C. Pignato
(2001, pp. 12-13), assunto che sembra anticipare di diversi decenni la loro lettura dell’arte paleolitica:
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“A evoluzionismo ormai tramontato, il funzionalista Bronislaw Malinowski (1884-1942), impegnato
nell’ impresa di rivalutazione della sfera profana e della ragione strumentale, osserverà che, se Taylor aveva
dovuto lottare contro il pregiudizio etnocentrico che impediva di considerare “religiose” certe pratiche e cre-
denze dei primitivi, adesso bisognava combattere contro il pregiudizio opposto, ereditato dai vittoriani, “che
per il selvaggio tutto è religioso, che egli vive in perpetuo in un mondo di ritualismo e misticismo”.
Riprendiamo il filo del discorso, ovvero ripartiamo dal principale punto critico dell‘ipotesi sciamanica
dell’arte paleolitica, vale a dire il suo carattere globale, volto a spiegare complessivamente un fenomeno
figurativo di lunga durata, che si manifesta in Europa attorno a 40-35.000 anni fa e prosegue senza inter-
ruzioni sino alla fine delle civiltà dei popoli cacciatori-raccoglitori all’inizio dell’Olocene, trasformandosi
poi nei temi e nei linguaggi paralleli alle trasformazioni comportamentali, economiche e ideologiche
dei pastori-allevatori neolitici. Clottes vede l’arte paleolitica come un evento omogeneo nella scelta dei
luoghi (la grotta), nella grammatica del segno (animali e segni dominanti, rarità di antropomorfi e di
scene narrative, assenza di paesaggi). L’inalterabilità del codice visuale renderebbe l’esperienza figurativa
“une religion dont les bases coceptuelles sont restées suffisamment stables pendant plus de vingt millénaires puor
engendrer des comportements identiques a l’échelle de l’Europe» (Clottes 2004, pag. 197).
In sintesi, in Clottes e Lewis-Williams delle pure possibilità teoriche, ovvero le ipotesi più probabili,
sono presentate come quasi-prove archeologiche che vengono a determinare alcuni punti fermi nella
speculazione, i quali acquistano progressivamente forza e vigore sino a divenire non più possibilità ma
fatti. Resta il fatto che la probabilità (per quanto alta) di una ipotesi (per quanto ritenuta la migliore)
non rende dimostrabile l’assunto iniziale: tale procedimento, non sempre critico, non può essere ac-
quisito assolutamente come modello di valutazione senza invalidare la metodologia archeologica, in
quanto si basa solo su congetture e su suggestioni che l’archeologo non può verificare.
Dal presupposto che l’espressività dei paleolitici connessa al rito, nella sua accezione più ampia, possa o
meno essere definita “sciamanica” discende anche un ulteriore assunto, che sembra emergere dal lavoro
di Clottes e Lewis-Williams se sviluppiamo i loro assunti, vale a dire la tendenza a considerare lo “scia-
manesimo” come la prima religione dell’Uomo, anzi, visto il loro uso di espressioni come “grado evo-
lutivo” e “ineluttabile”, sembra quasi che questa forma di espressione religiosa sia connaturata ad Homo
sapiens. Ciò ci consente di evidenziare alcune osservazioni sulla religiosità dei popoli primitivi e sui
rischi che si corrono quando, parlando del Paleolitico, ci si avventura nei sentieri della “religione”, un
tema assai dibattuto da diverse prospettive metodologiche e disciplinari (Grifoni Cremonesi e Martini
2008) che nella storia degli studi è strettamente connesso a quello del significato dell’arte paleolitica.
Trattato già dagli etnologi della seconda metà dell’800, sulla scia delle teorie evoluzioniste, l’argomento
nei decenni successivi ha visto il successo di uno schema unilineare composto da forme di religiosità
primordiali semplici seguite da altre via via più complesse. Nel testo del Lubbock “Prehistoric times”
(1875) sono già differenziate alcune forme di esperienze sacrali sequenziali: l’assenza di religiosità (atei-
smo), la perorazione della propria causa presso una divinità forzandone la volontà (feticismo), l’iden-
105
tificazione dello spirito religioso con elementi naturali, piante o soprattutto animali (totemismo), il
contatto con spiriti o con forze sovrannaturali mediante intermediari (sciamanesimo), l’adorazione
di divinità naturali (idolatria) e infine il sincretismo tra religione e morale. A questo primo schema
sono seguiti integrazioni o avanzamenti concettuali, sempre basati sul comparativismo etnografico,
tra i quali possiamo ricordare l’attenzione concessa da Tylor all’animismo, visto come il livello zero di
religiosità, col quale si introducevano nelle credenze umane i fenomeni naturali, seguito da una pro-
gressiva complicazione dal politeismo al monoteismo. Vanno menzionate anche la proposta di Spencer
di considerare il manismo e il culto degli antenati come antecedente dello spirito religioso più avanzato
e quella di Frazer che vede un’età della magia precedere universalmente l’età della religione, la quale
porterebbe maggiore efficacia alle formule magiche destinate a controllare l’incontrollabile natura.
Non è il caso di soffermarsi sulle teorie di Freud (totemismo) e sulle posizioni di alcuni sintetizzate da
Pettazzoni (“essere supremo”, personificazione del mondo uranico), la ripresa del significato del culto
dei morti (vedi Spencer) ad opera di Ankerman con la connessa paura degli spiriti dei morti come ori-
gine delle pratiche magiche e rituali; in sintesi possiamo ricordare qui le principali impostazioni che si
registrano nel corso del ‘900. L’esperienza religiosa intesa come rapporto col soprannaturale è alla base
delle riflessioni di Rudolf Otto, di Gerardus van der Leeuw e di Mircea Eliade, nelle quali acquista
una forte valenza il timore per la divinità e l’ultreterreno. A questa impostazione fenomenologia della
religione seguirono la corrente simbolista, la visione strutturalista di Claude Levy Strauss e infine
una scuola di pensiero che impostò sul comparativismo storico-etnografico una lettura storicistica, la
quale ha avuto in Raffaele Pettazzoni, Angelo Brelich e Ernesto De Martino i più autorevoli esponenti
(Massenzio 1997). È ancora attuale la lettura critica che Alberto Carlo Blanc (1956) fece delle diverse
scuole, sottolineando che le varie teorie altro non erano se non modelli che collocavano in diverse
prospettive storiche categorie attuali, secondo un ordine variabile dal più semplice al più complesso in
rapporto alle singole scuole. In rapporto al significato dell’arte paleolitica, le diverse scuole etnologiche
hanno influenzato le varie posizioni e tra i vari enunciati non possiamo non citare il testo di André
Leroi-Gourhan (1964). Il dibattito sullo sciamanesimo ha riportato recentemente in auge un modello
di lettura che risale a Frazer, Durkeim, Levy-Bruhl, Frobenius, Reinack, secondo il quale sulla base
delle analogie con gruppi umani “primitivi” attuali, ad esempio i Boscimani, è possibile ricostruire i
significati del fare segno nella preistoria più antica. Se da un lato prosegue una tendenza analitica, le cui
esigenze sono nate dallo strutturalismo e che parte dal dato documentale e lo enuclea nei suoi aspetti
formali, tafonomici e cronologici, dall’altro va registrata l’esigenza di ottenere risposte ai grandi quesiti
anche a discapito del rigore metodologico e da questa necessità ha origine questo rifiorire, in verità
anacronistico, del comparativismo etnografico con i suoi valori assoluti e universali.
Denis Vialou (1998) ha bene stigmatizzato l’impostazione di Clottes e Williams come un ritorno alla
generalizzazione dell’interpretazione etnografica che rinvia alla magia e allo sciamanesimo nell’inter-
pretazione dell’arte paleolitica. Un’impostazione fragile in quanto legata alla soggettività e all’arbitrio
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dello studioso e anche ai possibili fenomeni di convergenza tra segni (ad esempio quelli geometrici)
adottati in seno a culture differenti, la quale può portare ad infondate ipotesi di parallelismo.
Nelle polemiche tra gli studiosi non si trova cenno all’esistenza di un equivoco metodologico di base
che consiste nella natura etnocentrica insita in ogni giudizio formulato all’interno della cultura occi-
dentale verso culture diverse (“...non è possibile per lo studioso occidentale di culture occidentali rinun-
ziare all’ impiego di categorie interpretative maturate nella storia culturale dell’occidente: una prospettiva
assolutamente non etnocentrica è un assurdo teorico e una impossibilità pratica, poiché equivarrebbe ad
uscire dalla storia per contemplare tutte le culture, compresa la occidentale.” De Martino 2002, pag. 394
e ss.). Equivoco che può essere superato solo mediante l’adozione di una metodo di indagine critico e
soprattutto non dogmatico, nella consapevolezza che ogni categoria interpretativa ha una sua origine
storica e culturale e riflette ideologie e sistemi interpretativi collegati all’ambito genetico della propria
cultura. L’esame di contesti e di espressioni culturali che sono altro rispetto a chi conduce l’esame
stesso può dare liceità al confronto solo se riusciamo ad evidenziare le analogie che fanno della nostra
cultura e delle culture altre espressioni diversificate di una “comune umanità”. Un postulato questo
che può essere fatto nostro in questa riflessione sull’arte paleolitica: esso si basa, per quanto le scienze
di archeologia preistorica possono dimostrare, sull’appartenenza dell’Uomo attuale e di quello del
Paleolitico superiore alla medesima specie, sul livello simbolico complesso che i sapiens evoluti aurigna-
ziani hanno raggiunto attorno a 40.000 anni orsono, quando anche altre capacità, in primis quella del
linguaggio articolato, trovano piena maturazione, sul fatto che da allora l’Uomo ha cercato e cerca di
dare forma, nome e visibilità ai suoi stati dell’anima. La messa a fuoco della “comune umanità” è un
problema irrisolto che nasce all’epoca delle scoperte di nuovi continenti, di nuovi mondi nei quali, al
di là degli interessi economici che poi ebbero il sopravvento con l’espansione della borghesia coloniale,
la cultura occidentale è stata costretta a commisurarsi con culture altre sincroniche. Ma quel possibile
“umanesimo etnografico” (De Martino 2002) non vide mai la luce. Nella ricerca archeologica rivolta
ad epoche così lontane, che mette in luce sia comportamenti interiori sia pratiche quotidiane utilita-
ristiche, occorre far emergere la consapevolezza dell’unilateralità della nostra visione e del rischio di
etnocentrismo dogmatico che essa comporta.
Una forzatura appare il modello delle “tre tappe” nell’estasi sciamanica. In più occasioni P. G. Bahn
ha cercato di confutare tale modello, facendosi forte di esperienze terapeutiche indicanti che in uno
stato di coscienza normale è molto improbabile rammentarsi di allucinazioni avute durante uno stato
alterato e che esse possono accadere molto raramente sotto gli effetti di droghe. In una serie di contri-
buti tesi a confutare il binomio stati alterati della coscienza-arte paleolitica, Helvenston e Bahn (2006,
cum bibl.) presentano una serie di argomenti destinati a mostrare la fragilità dei “tre stadi della trance”
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(TST) e dell’ipotesi neuropsicologica che sorregge il teorema di Clottes e Lewis-Williams. Con l’appor-
to scientifico anche di esperti neuropsicologi, forniscono una disamina delle sostanze che potrebbero
effettivamente portare a stati allucinatori (la mescalina derivata dal cactus messicano Peyotl, assente in
Europa nel Paleolitico superiore; la marijuana solo se assunta in grandi quantità; la psilocibina, conte-
nuta nel fungo Psilocybe semilanceolata, menzionata in Europa solo nel XVIII secolo; LSD, sintetizzato
in laboratorio, ma noto in natura sin dall’antichità come sostanza tossica alcaloide derivata dall’acido
lisergico presente nel fungo Claviceps purpurea che attacca piante coltivate, il quale procura allucinazio-
ni, delirio, convulsioni, epilessia). Altre sostanze naturali (funghi o piante), che tra l’altro sono entrate
in Europa solo in epoca storica, provocano stati incompatibili con la trance (sonno profondo, euforia,
visioni con molti colori…) oppure sono così tossiche da portare al delirio profondo o al decesso.
Il metodo archeologico non consente di dimostrare l’impiego nella preistoria di sostanze per eccitare
sensi e provocare sensazioni o alterazioni. Non abbiamo informazioni certe per il Paleolitico, mentre è
documentata la presenza di resti di papavero da oppio già nel Neolitico antico italiano (insediamenti
di La Marmotta nel Lazio e di Isolino Virginia in Lombardia) a partire da 5.600-5.150 anni da oggi
(Banchieri e Rottoli 2004-09, ivi bibliografia completa e aggiornata sulla presenza del papavero nella
preistoria e sulle implicazioni culturali) o di cannabis in un contesto neolitico a Balfarg in Scozia attor-
no a 2.900 a.C. (Long et alii 2000) oppure dell’allucinogeno Hiosciamina mescolata ad una bevanda
fermentata simile alla birra nel sito con Vaso campaniforme di Calvari d’Amposta in Spagna nel III
millennio a.C. (Garrido Pena 2005), tuttavia queste evidenze non comportano necessariamente la di-
mostrazione del suo impiego a fini allucinogeni e nemmeno, di converso, quella per finalità medicinali.
In estrema sintesi non esistono studi neurologici in grado di confermare il modello secondo il quale
la presenza di allucinazioni in uno stato di alterazione della coscienza implichi necessariamente una
pratica sciamanica. Trance e allucinazioni sono contemplate in diverse tendenze mistiche e religiose
sia in Oriente (ad esempio nel sufismo) sia in Occidente (non dimentichiamo l’Estasi di Santa Teresa di
Gian Lorenzo Bernini), anche con ferite corporali (Padre Pio da Pietrelcina). Un cenno, ma non vo-
gliamo approfondire, merita il testo di Gilles Delluc (2006) il quale confuta adeguatamente la tesi che
l’ambiente ipogeo sia di per sé un habitat favorevole ad allucinazioni accidentali, come talora speleologi
e archeologi hanno testimoniato (Clottes 2004).
Prendendo spunto dalla citazione delle sostanze stupefacenti, possiamo osservare che allucinazioni,
trance e sciamanesimo sono divenuti nella letteratura popolare, e talora anche specialistica, una terna
indivisibile, sebbene i tre termini indichino stati e pratiche non necessariamente collegati. Bahn (2006)
individua l’origine dell’errore, o della mistificazione, nell’impostazione di Mircea Eliade (da lui impro-
priamente, in verità, accostato anche a Carlos Castaneda) il quale avrebbe avuto la responsabilità, cor-
relando strettamente l’esperienza visionaria alla pratica sciamanica, di tramandare un modello mistico
non sottoposto ad un controllo etnografico rigoroso e che è stato ereditato acriticamente in seguito
senza essere stato dimostrato. In definitiva Eliade propone (e questa affermazione è da Bahn mutuata
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da recenti riesami critici della produzione eliadiane) il mito classico dell’individuo non civilizzato che
perpetua una religione primitiva più pura e più autentica di quelle occidentali, in una visione che omo-
geneizza impostazioni e tradizioni religiose diversificate. É evidente come questa impostazione che ren-
de trance e sciamanesimo equivalenti, non condivisa dalla maggioranza degli studiosi ma ancora oggi
adottata in alcune cerchia di antropologi-etnologi dello sciamanesimo nordamericano, sia presente nel
modello di Clottes e Lewis-Williams quando essi tentano di dimostrare l’universalità dei simboli e dei
segni incisi o dipinti nelle grotte paleolitiche europee.
Gli antropozoomorfi
Il repertorio della documentazione iconografica relativa agli antropozoomorfi (oltre 40 elementi, una
dozzina dei quali dubbi, tra figure parietali e mobiliari) e alle figure umane ferite (3 soli esempi)
consente, con la riserva del loro numero non elevato, di fare alcune osservazioni e di avanzare ipotesi
interpretative. In primis va evidenziato lo strumento tecnico: le figurazioni in discorso sono in grande
maggioranza sia dipinte sia incise, minoritariamente a bassorilievo, raramente si tratta di statuette.
Per quanto concerne il contesto cronologico, la più antica produzione figurativa, sia grafica (Fumane
e Chauvet) sia a tutto tondo (Hohelstein-Stadel, Hole Fels, forse anche Geissenklosterle), risale agli
albori della produzione visiva, all’Aurignaziano, tra 37-30.000 anni fa. La documentazione parietale
e mobiliare francese, spagnola e italiana estende il range cronologico sino alla fine del Paleolitico (fase
IV del Maddaleniano in Europa occidentale, Epigravettiano finale in Italia), attorno a 12-10.000 anni
orsono. Questa ampia estensione diacronica consente di inserire la produzione in discorso nell’ambito
di una specifica tradizione iconografica (sensu Severi 2004) che secondo Clottes (2010) va vista come
la trascrizione per immagini di credenze diffuse in tutta Europa.
L’area franco-cantabrica ha restituito il maggior numero di evidenze (oltre venti non dubitative), quat-
tro in Germania (tutte aurignaziane), cinque in Italia.
Non necessariamente la figura antropozoomorfa è accostata ad una zoomorfa: spesso compare infatti
isolata (Fumane, Trois-Frères, Gabillou, Carriot, Altamira, Las Caldas, inoltre si considerino anche le
immagini dubbie di Lascaux, Les Combarelles, Fontanet) ma anche in associazione con un animale,
in atteggiamento di contrasto. La lotta con l’animale riguarda poche specie: l’antropozoomorfo si
contrappone a bisonte con certezza in due casi (Lascaux, Gabillou; resta incerta la valenza teriomorfa
del personaggio umano nelle evidenze di Roc-de-Sers, Villars, Laugerie Basse), in tre immagini a orso
(Mas d’Azil, Le Pèchalet). L’uomo-bisonte di Grotta Chauvet che non è in atteggiamento di lotta con
un animale ma in associazione stretta con una sineddoche femminile (vulva e gambe), non lontano
da una pittura di felino. Una relazione non necessariamente di lotta si registra anche con un equide
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(Étiolles), con un equide preferenziale (Abri Mège) o con più animali incisi sul medesimo ampio pan-
nello (Trois-Frères). Uno dei sorciers di Gabillou è affrontato ad un antropomorfo acefalo.
In merito alla maschera (o alla trasfigurazione), va evidenziata in primo luogo la coerenza formale (cor-
po umano, testa/maschera ed elementi accessori animali). Il personaggio ha in maggioranza chiare fat-
tezze di bisonte/bovino (Trois-Frères, Gabillou, Chauvet, Lascaux, Les Pedroses, Fumane), ma anche
di uccello (Lascaux, Altamira, Levanzo, Addaura; incertezze permangono per Cueva di Ardales e Los
Casares), di felino (Hohelstein-Stadel e Hole Fels), di equide (Lascaux, Étiolles, Tolentino, incisione di
Las Caldas), una volta di cervo (Carriot), stambecco (bassorilievo di Las Caldas), orso (Geissenklosterle
e ipoteticamente Trois-Frères), in molti casi la fisionomia animale resta incerta o indeterminabile come
specie (La Madeleine, Abri Mège, Mas d’Azil, e Péchialet, Altamira, Hornos de la Peña, Macomer,
Geissenklosterle), in altri è dubbia proprio la valenza teriomorfa (Roc-de-Sers, Villars, Les Comba-
relles, Fontanet, Laugerie Basse). Particolarmente complesso è il sorcier di Trois-Frères che nella sua
mimetizzazione compendia diversi animali, ma anche il sorcier barbuto di Espélugues pare rinviare a
due specie distinte.
Molto frequente è l’attributo fallico, più spesso in erezione o enfatizzato (Lascaux, Trois-Frères, Gabillou,
Mas d’Azil, Altamira, forse Chauvet) ma anche come semplice attributo di genere chiaramente espresso
senza enfasi (Lascaux, Trois-Frères, Gabillou). La rappresentazione esplicita del fallo indica una netta
maggioranza di figure maschili conclamate, decisamente minoritarie quella esplicitamente femminili (La
Madeleine, Étiolles. Las Caldas, Cueva di Ardales dubitativamente, Macomer, Tolentino).
Inoltre è da sottolineare l’impostazione della figura quasi sempre in movimento (gradiente? danzante?),
a gambe più o meno flesse, con braccia alzate; fa eccezione l’antropomorfo di Fumane dove la rigidità
del soggetto è condizionata dal linguaggio fortemente schematico.
L’antropozoomorfo è munito di asta (arma? simbolo dello status?) solo in poche immagini (Lascaux
con rimando alla fisionomia aviforme della maschera, Fumane e anche Roc-de- Sers se incluso tra gli
antropozoomorfi) e sempre si tratta di soggetti maschili.
In merito alla localizzazione delle immagini nel contesto spaziale della grotta, possiamo rilevare alcune
tendenze: localizzazione in aree isolate (corridoi, gallerie) e non in ampie sale, posizionamento di solito
in punti ben visibili ma solo eccezionalmente dominanti, isolamento da complessi narrativi importanti
(pannelli, gruppi di figure...) e conseguente acquisizione di un loro specifico impatto visivo. In due soli
casi, Étiolles e Addaura, l’incisione è collocata in un sito all’aperto, ma con intenti e funzioni diversi-
ficate: nel primo caso su un supporto mobile forse desacralizzato lasciato in un focolare (Arias Cabal e
Ontañon Peredo, eds., 2004), nell’esempio siciliano su un ampio pannello con intento eidetico. In sin-
tesi quindi è importante sottolineare un carattere topografico ricorrente della figurazione del repertorio
in discorso: la distribuzione in zone selezionate del contesto ipogeo o di grotta, su superfici parietali che
ne favoriscano la visibilità e sottolineino la valenza spaziale di ciascuna icona o scena all’interno di una
“cornice” che la delimita e che in tale limite visuale ne enfatizza la carica percettiva.
110
I vari elementi ricorrenti assegnano alla figura umana con fattezze animali una sua identità, sia nelle
rappresentazioni iconiche isolate sia nelle elementari scene narrative di contrasto con l’animale. Il legame
con il mondo zoomorfo è indiscutibile, l’identificazione uomo-animale è totale, anche nelle scene di lot-
ta. Appare ingenua, nel complesso simbolismo che inutilmente cerchiamo di spiegare e di illuminare nei
suoi significati, l’ipotesi di una elementare rappresentazione di scene di caccia, per la quale il cacciatore
si maschera per non farsi riconoscere e avvicinarsi alla preda. In questo senso appare paradigmatica la
rappresentazione del teriomorfo di Chauvet associato non ad un animale ma ad una sineddoche femmi-
nile; tale rappresentazione apre uno scenario nuovo che amplia il rapporto dei sorcier anche alla sfera della
fertilità e che supera il legame sinora univoco con il mondo animale e con la caccia.
J. Hahn (1986) ha a suo tempo preso l’antropozoomorfo (uomo-leone) aurignaziano di Hoholenstein-Sta-
del (tav. 4/1) come esempio del “messaggio” (Botschaft) basato sulla fusione di due concetti, forza e ag-
gressività (Kraft und Aggression), che si arricchiscono anche col concetto di potenza. Il suo modello in-
terpretativo, proposto per l’arte mobiliare dell’area sud-occidentale della Germania, è stato recentemente
riconsiderato (Serangeli 2004) per verificarne l’estendibilità diacronica e geografica. Giungendo alla con-
clusione che nell’iconografia del Paleolitico superiore europeo l’aggressività non è un registro assegnabile
al bestiario raffigurato (tranne rarissime eccezioni), nemmeno alle specie tendenzialmente pericolose per
l’uomo, ma al contrario sia nella rappresentazione statica che in quella in movimento il mondo zoomorfo
è contrassegnato da una particolare armonia.
Condividendo e ampliando queste osservazioni, è importante evidenziare un carattere generalizzabile
alla quasi totalità delle immagini paleolitiche, cioè la valenza iconica delle figure zoomorfe e antropozo-
omorfe, fissate sulla roccia o sul supporto osseo mobiliare nella loro statica struttura ontologica, anche
quando posseggono un’impostazione dinamica che apparentemente dà l’impressione di una narrazione.
La suggestione forte che queste pitture e incisioni emanano è che siamo di fronte non tanto a racconti di
avvenimenti, quanto piuttosto a codici simbolici (per noi enigmatici), identificati e connotati dalle costan-
ti iconografiche e dalle associazioni sopra rilevate. Le ipotesi interpretative possibili restano diverse e solo
un metodo rigoroso di giudizio e di attendibilità può impedire di trasmettere e divulgare modelli fragili.
Soffermiamoci brevemente sulla valenza iconica che emerge da un’analisi delle figure in discorso, le quali
sono talvolta costruite su precisi nomoi di impianto formale che sembrano coinvolgere alcune categorie
di immagini, analizzate da Marc Groenen (2004) al fine di evidenziare la possibile esistenza di un tema
iconografico.
Una categoria concerne le figure di animali irreali, vale a dire i soggetti riconoscibili come zoomorfi che
possiedono alcuni caratteri anatomici non riscontrabili in natura (ad esempio, il “liocorno” di Lascaux);
esse sono numericamente limitate (circa una dozzina tra Francia e Spagna) e prive di analogie tra loro e di
conseguenza non pare evidenziabile un canone standardizzato e ricorrente.
Lo stesso vale per la categoria degli animali compositi (anch’essi circa una dozzina), formati da porzioni
corporali di specie diverse sempre identificabili.
111
Più ricorrente, come abbiamo visto e descritto, è l’impianto relativo ai teriomorfi almeno per
quanto concerne alcune associazioni primarie (uomo-bisonte o bovino, uomo o donna-uccello) e
secondarie (uomo o donna-cavallo, umano.felino, umano orso, umano-cervo, donna-stambecco);
ricordiamo inoltre il già citato frequente itifallismo che comporta una chiara indicazione di ge-
nere.
Il tema iconografico antropozoomorfo, secondo Groenen, sarebbe relativo ad immagini di esseri
sovrannaturali collegati a miti, raffigurati spesso in un atteggiamento dinamico che pare rinviare
a pratiche rituali. Non è fuori luogo ipotizzare che questo tema iconografico materializzi e si iden-
tifichi con una rappresentazione mentale che ha fatto parte per millenni del patrimonio culturale
immateriale dei cacciatori-raccoglitori paleolitici, divenendo quindi un espressione simbolica ca-
ratterizzata dalla ricorrenza di alcuni attributi compositivi e formali.
In merito all’ipotesi sciamanica, va rilevato che il numero dei teriomorfi, come abbiamo visto, è
minimo in rapporto alle decine di migliaia di immagini dell’arte paleolitica nel suo complesso.
Il loro numero è decisamente inferiore a quello delle figurazioni zoomorfe colpite da frecce, da
dardi e da proiettili oppure in associazione a impronte di mano (teoria della magia venatoria) e
decisamente minoritario anche delle figurazioni con gli attributi sessuali femminili o maschili,
di donne gravide o con volumi enfatizzati, di antropomorfi maschili itifallici (teoria della magia
fecondatrice o della fertilità) non associati a figure animali. Se l’arte paleolitica nascesse da uno
stato di coscienza alterato o se volesse rappresentare la valenza “sciamanica” delle figurazioni, do-
vremmo forse aspettarci un numero decisamente maggiore di teriomorfi.
Hommes blessées
Le raffigurazioni di personaggi feriti (tav. 5), i cosiddetti hommes blessées (nel repertorio della
documentazione archeologica non abbiamo incluso immagini pseudo-blessés troppo dubbie nella
grafica parziale o sommaria), hanno portato diversi autori a dare letture anche molto differenti,
che qui di seguito sintetizziamo. In primo luogo è opportuno chiarire che tali immagini nulla
hanno a che vedere con le figure antropozoomorfe e che il loro inserimento in tale categoria (figu-
ra di Pech Merle: uomo a testa di uccello secondo Lemozi, uomo-scimmia per Ucko e Rosenfeld
che confondono una gamba con una ipotetica coda) è del tutto aleatoria, in secondo luogo va
detto che l’impostazione simbolica e non quella narrativa pare la più accettabile, visto il carattere
metaforico dell’arte paleolitica, così come verosimile appare la lettura dei tratti lineari, conver-
genti verso il corpo, come metafora di proiettili o di colpi (Lorblanchet 2006). L’abate Breuil
interpretava queste raffigurazioni come narrazioni di eventi cruenti, Leroi-Gourhan riprendeva la
medesima lettura riconoscendovi personaggi vinti, per Graziosi invece, più orientato sull’aspetto
simbolico, gli individui feriti sarebbero stati metafore di una magia distruttiva o di morte, pari-
112
menti simbolica la lettura di altri studiosi, tra i quali Jean Clottes, come pratica di esorcismo di
demoni maligni. Interpretazioni sciamaniche in senso stretto sono quelle di Smith che vede in
questi personaggi l’ingresso o l’uscita dal corpo dello spirito guida e, divergente nell’interpreta-
zione dei segni lineari, quella di Lewis Williams (1997) che li interpreta come giavellotti metafo-
rici; A. Lemozi (1961), invece, li legge come una rappresentazione della morte dello sciamano (...
rituelle ou en effigie...), ipotesi che Lewis-Williams riprende enfatizzando la lettura: la figurazione
diventa così la rappresentazione di sciamani in stato di coscienza alterata e in preda ad allucina-
zioni (per le ferite?) e, contestualmente, essa dimostra l’importanza del ruolo sciamanico all’inter-
no della comunità. É evidente che tale interpretazione non possiede alcun elemento obiettivo di
validità e deriva da una impostazione retta non da prove archeologiche ma da alcuni presupposti:
il valore universale del sistema nervoso dell’uomo; l’interpretazione univoca dell’arte preistorica
come fenomeno collegato alla trance; la lettura nell’ottica sciamanica di immagini di individui
feriti segnalati in Africa meridionale e in altri continenti; le analogie formali (antropomorfo e
segni lineari convergenti o ricoprenti il corpo) tra queste ultime e les hommes blessées paleolitici
francesi. Presupposti teorici non documentali che hanno il merito di suggerire e di indurre alla
massima prudenza interpretativa, in quanto il tema delle ferite corporali sull’uomo (da Cupido a
San Sebastiano) e sull’animale (Arcangelo Gabriele) è di ampia diffusione geografica e diacronica
(Lorblanchet 2006 e 2009) e possiede valenze e significati anche molto differenti.
I segni geometrici
Il tema dei segni geometrici (tav. 12) come indicativi del percorso di alterazione non riceve al mo-
mento attuale una spiegazione definitiva: che essi siano tentativi di esplorazione delle possibilità
grafiche da parte dell’artista dalle quali ha inizio una figurazione più complessa (naturalistica o
geometrica) oppure che siano essi considerati «formes motrices et perceptives primaires» ossia strut-
ture di base del fare segno, la loro significazione all’interno del repertorio grafico e pittorico pale-
olitico resta al momento ignota e senza una spiegazione plausibile. Anche ammettendo che alcune
immagini siano state prodotte sotto l’effetto di sostanze allucinogene o di droghe, come potrem-
mo distinguere queste da quelle realizzate in uno stato non alterato della coscienza? Inoltre non è
di poco conto il fatto che i segni geometrici facciano parte di repertori grafici di contesti culturali
di ogni latitudine e di ogni tempo; ciò comporta la possibilità che la soggettività dello studioso
dia valore nel momento dell’interpretazione a fenomeni di convergenza iconografica, assegnando
significati simili a segni adottati da gruppi culturali differenti; il risultato quindi è, come nel caso
di Clottes e Lewis-Williams, l’approdo a ipotesi di parallelismo infondate che creano un’impalca-
tura interpretativa altamente fragile.
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Hic sunt leones: verso territori sconosciuti
Molte domande, molte illazioni, poche risposte. Non esiste in archeologia preistorica un criterio rigo-
roso e oggettivo che possa attribuire la pratica figurativa alle esperienze sciamaniche. Gli studi sulle
figurazioni esaminate in ambito etnografico e concernenti pratiche sciamaniche osservate e documen-
tate in popolazioni attuali indicano con chiarezza che lo “sciamano” non interviene direttamente nella
realizzazione dell’immagine durante la cerimonia ma ha solo un ruolo di controllo; inoltre indicano
che senza l’informazione diretta non potremmo attribuire le raffigurazioni alla pratica sciamanica, in
quanto né lo stile, né i soggetti possono essere indicativi della funzione delle raffigurazioni medesi-
me, siano esse sciamaniche, propiziatorie, divinatorie, augurali, invocative, distruttive; indicano infine
una compresenza di significati, dalla propiziazione per la caccia al simbolismo sessuale, dalla magia
amorosa o fecondativa ai riti distruttivi, dall’invocazione per la pioggia alle pratiche propiziatorie per
l’agricoltura, dal rito cerimoniale al totemismo, comprese le pratiche sciamaniche in senso stretto, ma
anche la registrazione di eventi a futura memoria (Lorblanchet 2006).
Le figurazioni simboliche preistoriche, come tutte le immagini simboliche, si muovono in una dimensio-
ne astratta e metastorica, in bilico tra reale (oggetto dell’immagine) e non reale (significato del simbolo).
Tutto ciò presuppone un sistema espressivo condiviso e “convenzionalizzato” (Corballis 2008, a proposito
dell’interazione nel linguaggio) tra chi produce immagini e chi osserva e recepisce le immagini stesse.
Ciò conferisce alla produzione figurativa e alla sua valenza di comunicazione un forte attributo sociale e
contestualmente trasporta il fare segno nell’ambito della cultura. La comprensione del segno e della figu-
razione sigla un accordo tra esecutore e fruitore («convenzionalizzazione») che fa del gesto figurativo un
evento socio-culturale. Ma da questo accordo è quasi sempre escluso chi tenta oggi di ripercorrere a ritroso
il cammino semantico dei segni e delle figurazioni simboliche a causa della loro eterogenesi.
La natura stessa del simbolo, come ha bene evidenziato Mino Gabriele nella sua introduzione al com-
mento dei Simulacri di Porfirio (III sec. d.C.), che è libero da ogni esigenza di aderenza totale col reale,
consente a ciò che è altro di divenire una entità autonoma e non una mera sostituzione. “Smesso l’abito
‘ di chi ne fa le veci’ può apparire come ‘cosa’ in sé, autosufficiente, fino a proporsi, specialmente in ambito
mistico-religioso, come una teofania, sino a diventare esso stesso oggetto di culto” (Porfirio 2012).
La lettura delle immagini simboliche, già ardua per i contesti culturali che hanno lasciato fonti scritte,
per chi si occupa di preistoria è resa ancor più complessa –e talora disarmante nella sua inquietudi-
ne– proprio dall’assenza di fonti letterarie. Su questo handicap si innesta la generalizzabile difficoltà
di accedere ai significati, visto che l’indicare altro genera l’eterogenesi del simbolo, la sua capacità di
adattarsi, senza regole, ad espressioni iconiche, gestuali, sonore molto diverse, utilizzando un infinito
lessico non codificato col quale ciò che non esiste nel reale del mondo ma solo nel reale degli stati dell’a-
nima prende corpo, prende nome, acquisisce identità. Il simbolo crea una realtà visiva che sostituisce la
voce, incapace di dare nome all’intangibile che non si può definire, emana il suo messaggio attraverso
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la materia, il colore, la natura del segno, le dimensioni dell’immagine, la sua collocazione. Il reale, che
sia esso un corpo di bisonte o di uomo, mediante il simbolo diventa figura, in una pratica rappresen-
tazionale che esprime l’esigenza tipicamente umana di sfidare il trascendente. In questo senso l’arte
preistorica può essere vista come arte “sacra”, non solo come tendenza verso il sovrannaturale (quanta
cultura occidentale, geneticamente legata alla religio romana e al suo innesto con la tradizione giudai-
co-cristiana, in questa espressione!) ma come espressione del senso eticamente religioso di chi vuole
dare corpo e immagine agli stati dell’anima. Lo stato dell’anima, come le idee, non sono visibili, visibili
sono le immagini che occhio e mente percepiscono attraverso la struttura della figura. É importante, in
questa riflessione, approfondire il livello di lettura strutturale e mettere in luce la ripetitività evidente
di alcune posture. La maggioranza dei personaggi teriomorfi è dinamica: si vedano ad esempio il petit
sorcier à l’arc musical (fig. 9) e le dieu cornu (fig. 12) della Grotta di Trois-Frères, il sorcier di Gabillou
(fig. 13), il discusso sorcier di Fontanet (fig. 29) e almeno uno dei tre “diavoletti” dell’Abri Mège (fig.
36); la posizione con le braccia sollevate ricorre in due immagini ad Altamira (figg. 20, 21) e ad Hornos
de la Peña (fig. 23), forse a Grotta di Los Casares (fig. 24), nel bassorilievo sul blocco F nel Riparo di
Roc-de-Sers (fig. 26) e nel cosiddette “orante” di Geissenklosterle (fig. 31); alcune di queste immagini
appena citate possiedono fattezze del viso aviformi. Tali atteggiamenti ricorrenti (corpo in movimento
e braccia alzate) conferiscono alla figura una valenza aggiuntiva: il gesto diviene il nutus della figura
medesima e arricchisce la struttura figurale di un valore numinoso.
Non è un caso se nella tradizione degli studi paletnologici una visione “sciamanica” è stata adottata
come chiave di lettura della produzione figurativa paleolitica: questa possiede quella primitività che la
accomuna, non cronologicamente, con il mondo cosiddetto sciamanico di età storica, con esso con-
divide tipologie simboliche che nella metafora possono far ipotizzare identità concettuali, religiose ed
emotive che non siano solo coincidenze comportamentali casuali. Se cerchiamo di mettere in luce le
condizioni, o le cause, che hanno determinato l’invenzione dello “sciamanesimo” possiamo evidenziare
tre parametri: la totale anarchia (tale ci appare) dell’universo simbolico di popolazioni estranee alla cul-
tura dell’Occidente, la loro estrema varietà di linguaggi –verbali e non verbali–, le ideologie e la super-
ficialità dei dominatori culturali che hanno cercato di uniformare una tendenza interiore dell’Uomo
sapiens sotto l’unica etichetta dello “sciamanesimo”. Esso, in fondo, altro non è se non una speculazione
sul trascendente, condotta con il bagaglio culturale di una società occidentale che usa gli strumenti che
le sono propri e che la connotano, nel tentativo di coniugare il logos col mythos e la mistica. Gli stati
dell’anima resi visibili dalla metafora figurativa fanno parte di universali atteggiamenti sacrali-religiosi
fondamentali, archetipi della natura umana collegati ad atteggiamenti interiori che nella storia dell’uo-
mo si sono espressi in multiformi modi (Kerényi 1991).
Le spiegazioni ai fenomeni simbolici e agli atteggiamenti utilitaristici delle comunità preistoriche non
fanno quasi mai parte dei risultati delle speculazioni né delle applicazioni pratiche, sperimentali e
simulative degli studiosi. Nel campo di studi che abbiamo trattato in questo lavoro l’approccio con
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l’immateriale, con le pieghe nascoste della nostra coscienza riflessiva che vorremmo illuminate dalle
neuroscienze, con la visione metaforica del mondo e della vita diviene un viaggio verso territori scono-
sciuti (hic sunt leones), un’esplorazione dell’altro da sé e in questo percorso sono molte le insidie e le ten-
tazioni ad abbandonare la strada della corretta metodologia, alla ricerca di una rassicurante spiegazione
a tutti i costi e di una confortante decifrazione dei documenti iconografici. Scrive Chiara Cappelletto
(2009): “Credo…che il tentativo della neurologia di indagare l’uomo attraverso la sua espressione artistica,
la quale dovrebbe trattenere la traccia del suo «demone» interiore, risponda certo al vincolo di ogni progetto
di conoscenza, per il quale l’uomo indaga l’uomo attraverso le sue manifestazioni, e però tenda a togliergli
la maschera in cui egli si rispecchia, lasciando l’ impressione che con il prefisso «neuro» si ammicchi a un’ in-
telligenza non riflessiva, il che è di per sé uno sterile paradosso”. Probabilmente l’approccio neuroestetico
potrà offrire spunti di riflessione teorica nel tentativo di comprendere i meccanismo della percezione
e, oltre all’indagine sui meccanismi della visione, un apporto fondamentale può essere l’interrelazione
tra la realtà raffigurata e chi osserva quella raffigurazione, ossia l’attitudine, che da 40.000 anni sem-
bra far parte del nostro patrimonio organico e gnoseologico, di elaborare raffigurazioni le quali non
rappresentano il mondo come realmente è al di fuori di noi ma indicano -nelle linee, nelle forme e nei
volumi- procedimenti di comprensione del mondo ed elaborazioni di quanto osserviamo. L’immagine
figurativa (arte) “non ripete le cose visibili, ma rende visibile” (Klee 2004), essa è “sensibilmente reale ma
non è essenzialmente reale” (Cappelletto 2009).
In quest’ottica si pongono anche le riflessioni di David Freedberg (1993), di Margaret Livingstone
(2007) e di Semir Zeki (2003), che ha introdotto il termine “neuroestetica” nel 1999 in merito all’arte
come esperienza cognitiva, nella quale immagine e fruizione dell’immagine coincidono. E non lontane
erano le dichiarazioni che Kandinskij ha lasciato nei suoi appunti di lavoro riguardo non solo al punto,
alla linea e alla superficie ma anche agli effetti che i colori hanno sul nostro sistema percettivo.
Nonostante le radicate resistenze nel campo storico-artistico a perseguire l’analisi formale e l’analisi
del contesto, da più parti sta prendendo corpo l’esigenza di verificare le relazioni tra la figurazione e
gli aspetti formali di un’immagine e le reazioni emotive; molta strada è stata fatta da quando nel 1959
Ernst H. Gombrich (1965) tentò di coniugare arte e psicologia scientifica. Ma lasciamo questo campo,
che già oggi contiene premesse per uno sviluppo delle conoscenze nelle scienze dell’uomo, archeologia
compresa, e nell’antropologia a tutto campo, intesa come punto di incontro dello studio delle culture
umane e della biologia, attendiamo gli ulteriori sviluppi nella riflessione sulle esperienze figurative in
una pratica che unisca scienze e scienze umane e torniamo, per concluderli, ai nostri specifici quesiti
sull’arte preistorica.
Quali assunti, quindi, possiamo proporre sul tema arte (“prodotto dell’attività del cervello visivo”,
secondo Zeki) e stati dell’anima? Quello che con molta genericità viene detto “sciamanesimo” è un
fenomeno troppo vasto nel tempo e nello spazio per conferire alla realtà preistorica una sua cifra at-
tendibile e chiara. Una nota al problema terminologico. Dopo The Linguistic Turn (1967, a cura di
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Richard Rorty) non possiamo rimanere indifferenti all’utilizzo indiscriminato dei termini e in ambito
archeologico lo studioso deve prendere in considerazione diverse opzioni: la prima concerne l’utilizzo
indiscriminato e acritico dei termini, un’altra prevede la risemantizzazione dei concetti, infine va con-
siderata l’opportunità di una nuova logopoietica. Nel primo caso dovremmo rassegnarci a rimanere
ancorati a concezioni che avranno il demerito di condurre gli studi ben poco lontano. Risemantizzare
i concetti e le parole significa rimodellare nella semantica la rappresentazione, non necessariamente
cambiare le parole: nel nostro caso i termini “sciamanesimo” e “sciamano”, in un utilizzo scientifico,
devono assumere un significato ulteriore rispetto all’uso comune. Ne deriverebbe l’elevazione di questi
termini a “sovra-categoria religiosa”, ovvero come parametri semantici unici per identificare delle co-
stanti presenti in differenti ambienti religiosi, al pari di quanto già avviene per alcune “sovra-categorie
religiose” come monoteismi, politeismi, dualismi, religioni salvifiche ed altre ancora. Saremmo così
legittimati a risemantizzare il termine “sciamanesimi”, i quali andrebbero così ad esistere solo in una
prospettiva di riscontro fattuale di alcune costanti presenti in diverse realtà e ritenute fondamentali;
esse potrebbero essere viste nelle capacità d’azione dell’operatore del sacro (out of body experience), nel
finalismo stesso delle sue azioni (medicine man), oppure in una sincretica cosmologia.
La ricerca di un ordine all’interno di un argomento così poliedrico, quasi caotico, come quello trattato in
questo lavoro necessita, quindi, di alcuni punti di riferimento. L’aspetto tassonomico è fondamentale, non
solo perché rassicura ma poiché consente di dare il giusto nome alle evidenze archeologiche, agli eventi
ricostruibili, ai comportamenti. Volutamente la nostra riflessione è stata limitata all’area europea dove,
a partire da circa 40.000 anni orsono, ha avuto luogo quella formidabile esplosione del comportamento
simbolico che ha prodotto la visione metaforica del reale attraverso l’immagine, il suono, il gesto. Al li-
mite geografico abbiamo voluto unire il limite cronologico (fine del Pleistocene ovvero fine del Paleolitico
superiore) che, nella sostanza, ci ha fatto prendere in considerazione i primitivi “storici” cacciatori-racco-
glitori e non quelli attuali. La coerenza e l’organicità di questi presupposti costituisce, anche per gli studi
futuri, una premessa per la valutazione critica di letture e di interpretazioni dell’arte paleolitica che si
appoggiano a modelli, come quello etnoarcheologico, non in grado di dare attendibilità e probabilità alle
ipotesi, in quanto è impossibile dimostrare l’esistenza di valori comportamentali universali nel tempo e
nello spazio. Limitando questa riflessione al campo della produzione di immagini, dobbiamo rimarcare
che le difficoltà interpretative sono accentuate dal fatto che lo studioso di arte paleolitica ha a disposizione
solo delle icone, delle immagini minimamente configurate, essenziali nell’inferenza visiva. La validità
dell’immagine come marker interpretativo risiede nel fatto che essa, al contrario della parola che muore
non appena viene pronunciata, resta come fatto reale, inserito in una relazione spaziale che il nostro si-
stema percettivo ottico valuta globalmente e tramandato come evidenza verosimilmente carica del peso
della memoria e di una lunga tradizione culturale.
Una rigorosa analisi formale, topografica e cronologica consente di limitare al massimo il rischio di
derive semantiche rassicuranti, ma pur sempre derive, in quanto può fornire i presupposti per valutare
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quanto ogni immagine sia importante in rapporto al contesto in cui è inserita, se e quanto quell’immagine
è attraente in un modello eidetico della produzione oppure se fa parte di un comportamento performativo
individuale (action art), quali sono i suoi attributi attenzionali. Inoltre, su questa base, è possibile creare
un ordine, possibilmente gerarchico, che fa distinguere elementi primari e secondari nella rappresenta-
zione visiva e, di conseguenza, mentale; tale organizzazione, in ultimo, conduce alla formulazione di una
struttura iconografica che diviene indicatore della cultura. L’esame del sistema figurale antropozoomorfo
paleolitico mette in evidenza una gerarchia diffusa nel tempo e nello spazio che vede in primo rango la
linea, strumento di rappresentazione bidimensionale del soggetto, elemento principe rispetto al colore e
rispetto anche alla luce, sia nelle raffigurazioni statiche sia in quelle dinamiche.
Le riflessioni sulle figure teriomorfe e, più in generale, sulle figurazioni paleolitiche europee non con-
sentono di entrare nelle profondità della memoria condivisa dei popoli cacciatori-raccoglitori, tuttavia
sono utili a definire l’esistenza in quelle culture di una iconografia organizzata in canoni formali, ben
riconoscibile anche in virtù di un alfabeto segnico limitato, in stretta connessione col contesto ambien-
tale e probabilmente in relazione con rappresentazioni mentali codificate.
Nel repertorio delle immagini che fanno parte del patrimonio figurativo paleolitico europeo i terio-
morfi presentano piccole varianti individuali che tuttavia non influenzano la loro identità, quella che
Ernst Gombrich (1978) chiamerebbe “costanza fisionomica”, e che superano il concetto di “ambiguità”
come formulato da Semir Zeki (2007). Importante per la nostra comprensione e per l’individuazione
del repertorio è la diversificata complessità iconografica: immagini più elaborate e maggiormente strut-
turate nei dettagli anatomici o fisiognomici sono di supporto alla lettura di figurazioni più essenziali,
più astratte, più rozze e approssimative. Le oltre trenta immagini sicuramente antropozoomorfe a noi
note non ritraggono altrettanti personaggi ma significano un’unità concettuale e simbolica, nella di-
versità grafica e rappresentazionale, che resta riconoscibile nella rigida struttura corpo umano+muso
oppure corpo umano+maschera animale, nonostante la variabilità delle fattezze delle diverse specie e
dei particolari anatomici (corna, criniera, coda, sesso…). In altre parole l’intero repertorio teriomorfo
si caratterizza per una percezione-sensazione di costanza ontologica piuttosto che di differenze, in
quanto i dettagli antropomorfi e zoomorfi interagendo realizzano un’impressione fisionomica globale.
L’impianto generale, quindi, è la sostanza simbolica percepita e le differenze sono semplici dettagli va-
riabili, deviazioni di poco conto. È fondamentale percepire questa unità nella somiglianza, in quanto
essa conferisce all’immagine teriomorfa un valore di costanza simbolica in grado di resistere e di essere
tramandata per millenni, dall’Aurignaziano alla fine del Maddaleniano. Potremmo dire che nell’artifi-
cio figurativo sono state rispettate tutte le condizioni che consentono il riconoscimento di una sostanza
simbolica: in primis un’appropriata raffigurazione mediante linee o superfici di parti anatomiche o di
posture antropomorfe e di grafemi essenziali di tipo zoomorfo, alle quale si unisce l’accenno ricorrente
ma non costante alla sessualità (più spesso maschile). Il risultato è la creazione di una sorta di archetipo
iconografico che appare, nei circa trenta mila anni della sua adozione, stabilizzato nella (in-)coscienza
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dei vari tracciati culturali del Paleolitico superiore. Va fortemente sottolineata l’esistenza di un equi-
librio iconografico, dovuto alla ricorrenza di principi rappresentazionali che sono ben evidenti nelle
produzioni, sia parietali sia mobiliari, realizzate a incisione, a pigmento o a tutto tondo. A tali principi
si sono adeguati gli autori che hanno realizzato tali opere all’interno di specifiche e ben connotate
culture (Aurignaziano, Gravettiano, Maddaleniano, Epigravettiano) o all’interno di tendenze stilisti-
che diversificate (linguaggio schematico, naturalistico verista o essenziale); tali principi iconografici
appaiono diffusi in tutta Europa, trasversali alle diverse epoche e sembrano connotare sia una classe
di motivi simbolici sia un sistema simbolico di lunga durata. Esso diviene nel repertorio figurativo
paleolitico una sorta di stereotipo che non connota uno specifico schema cronoculturale ma un “siste-
ma significante iconico” (mutuando da Pozzi 1981), un alfabeto segnico che qualifica atteggiamenti
simbolici ricorrenti presso i cacciatori-raccoglitori europei. La valenza “significante” del sistema pare
garantita nel nostro caso da due fattori principali: la ripetitività delle combinazioni e delle interrelazio-
ni tra parti anatomiche umane ed animali, nonché la coerenza di tali combinazioni in ordine ad una
possibile lettura semantica. Il rigido carattere normativo (nomos) del primo fattore induce a valutare il
repertorio figurativo antropozoomorfo paleolitico come un sistema espressivo facilmente circoscrivibile
e delimitante un messaggio iconico-simbolico condiviso e codificato. Possono forse stupire la lunga
durata e la fortuna di questo artificio iconico durante il Paleolitico, la sua ripetizione durante trenta
millenni, verosimilmente determinata dall’aderenza della finzione (associazione uomo-animale) al co-
dice simbolico, per lo meno nel sistema segnico sino a qui decritto. Ma meno stupisce la fortuna che
l’ipotesi sciamanica in rapporto all’arte preistorica ha avuto, con eccessi di varia entità, nel corso degli
studi paletnologici sino ai nostri giorni e possiamo anche tentare di giustificare il fascino che tale let-
tura del fenomeno figurativo teriomorfo ha avuto nella divulgazione popolare ma anche all’interno del
dibattito accademico e scientifico. La finzione antropozoomorfa, che è in indiscutibile contraddizione
con quanto si osserva nel reale, si connota come un reale prodigioso che sembra equivalere a quanto nel
campo della psicologia sociale, all’interno degli studi sui processi mnemonici nell’evoluzione culturale,
viene definito “concetto controintuitivo minimale” (MCI, minimal counterintuitiveness) (Norenzayan
et alii 2006), vale a dire quel fenomeno che appare incredibile e in contraddizione con le nostre at-
tese (controintuitivo) pur mantenendo intatte le sue caratteristiche di base (minimale). Sono proprio
gli aspetti incredibili (impropriamente detti fantastici) a raccogliere una notevole fortuna attraverso
decenni e secoli: si pensi ad esempio agli innumerevoli casi nella letteratura fiabesca (animali, piante
o spaventapasseri parlanti, dal lupo di Cappuccetto rosso ai personaggi di Alice’s Adventures in Won-
derland oppure del Mago di Oz), nella mitologia sacra (la trasformazione dell’acqua in vino a Cana)
e profana (basti ricordare, ad esempio, le sirene oppure la capacità di Circe di trasformare uomini in
maiali o ancora eventi legati ad esseri ibridi), sino ad Harry Potter e ai maghetti di ultima generazione.
Questo per quanto concerne le immagini di soggetti identificabili. Tuttavia la nostra incapacità (im-
possibilità?) di decifrare altri segni aniconici che restano per noi enigmatici (lineari, geometrici, astrat-
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ti, schematici) impedisce di valutare se anch’essi possedessero la funzione rappresentativa del medesimo
campo semantico o di contenuti analoghi. Infatti tali segni, che apparentemente non rappresentano,
restano strutture grafiche il cui significato figurale ci è precluso. Ma questo è un argomento che può
sfociare nell’elaborazione teorica delle infinite possibilità di ciò che non si comprende.
Perché la maschera? La figura teriomorfa, che sembra indicare un personaggio mascherato (o una tra-
sfigurazione, ma la sostanza non cambia), introduce una simbologia che fa della finzione e del travesti-
mento la chiave di lettura della figurazione stessa. In prima istanza potremmo osservare che la fattezza
zoomorfa, sempre identificabile sia nel fantasioso sincretismo del sorcier della grotta di Trois-Frères sia
in quelle dove i tratti animali sono ridotti all’essenziale, diventa un tratto distintivo dell’eccezionalità
del personaggio: la maschera e il travestimento sottolineano e impongono la diversità di quell’indi-
viduo all’interno del gruppo, la sua uscita dalla norma fisionomica, la sua deviazione. Ma forse, con
l’estrema prudenza necessaria in queste osservazioni interpretative che non possono trovare il conforto
della dimostrazione archeologica, possiamo osare anche una lettura diversa. Con quel repertorio di
figure non è in gioco il riconoscimento ma l’accensione di una metafora prodotta dalla persona (nella
lingua latina è la maschera, nella lingua greca il termine prosopon -letteralmente davanti agli occhi-
indica la maschera scenica ma anche il viso; è chiara quindi l’identità tra individuo-volto-maschera).
Significa che l’individuo assume in pieno un ruolo e diviene “immagine” di qualcosa, nel senso che
diventa realmente altro. L’immagine, nel processo metaforico che accompagna la cultura visuale dalle
origini ad oggi, è funzionale alla costruzione di un’identità o meglio diviene essa stessa identità. É
questo un tema che è bene evidente, nella cultura greca arcaica, nel significato di eidolon, col quale
forse potremmo ipotizzare assonanze in merito alle nostre figure teriomorfe. L’eidolon, impropriamente
tradotto “immagine”, appare piuttosto come il “doppio”, una categoria psicologica in bilico tra essere e
non essere, che esiste in quanto visibile ma che è irreale in quanto esterno all’individuo. L’eidolon non
è una mera imitazione, nè una visione illusoria della mente, nè una creazione del pensiero, è visibile ai
nostri occhi ma impalpabile come un’ombra. Se identità e alterità si confondono, si sovrappongono e si
uniscono attraverso la maschera, la parete della grotta sulla quale è incisa o dipinta la figura teriomorfa
diviene una sorta di specchio nel quale l’individuo proietta la sua immagine altra e quindi una soglia
verso il simbolico. Le evidenze grafiche antropozoomorfe inducono a ipotizzare, o per lo meno consen-
tono di non escludere, un modello binario di identità, una specularità metafisica e simbolica tra reale e
immagine, una coincidenza col “doppio”. Nella storia antica dell’uomo le relazioni tra l’io e il doppio
non hanno mai posseduto quei caratteri patologici che oggi invece propendiamo immediatamente a
riferire a questo tema, in virtù del radicarsi nella cultura occidentale di nozioni intodotte dapprima da
scrittori del romanticismo ottocentesco (dai personaggi di Edgar Allan Poe, agli sdoppiamenti di Frate
Medardo in Die Elixiere del Teufels di Ernst Hoffmann, al Dorian Gray di Oscar Wilde) e poi siste-
matizzate da Sigmund Freud e Otto Rank in termini psicanalitici. Nel mondo greco, nello specifico,
non ha ragione d’essere la nozione di scissione delle personalità, bensì l’identità tra l’io e il suo doppio è
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totale, continua e parimenti reale anche se uno dei due termini non è visibile. Non possiamo escludere,
anche se non potrà essere archeologicamente dimostrato, che un’analoga impostazione non possa essere
attribuita alle immagini teriomorfe paleolitiche, nelle quali la maschera zoomorfa, lungi dall’essere un
mero accessorio scenico, non sostituisce ma indica una realtà identitaria metaforica e simbolica. La
maschera, quindi, può essere intesa non come accessorio che occulta, ma come mezzo per enfatizzare
un’identità, per visualizzare le individualità attraverso la pratica iconica.
Poichè ogni rappresentazione eidetica presuppone uno spettatore, è importante sottolineare alcune os-
servazioni generate dall’esame della documentazione grafica antropozoomorfa. Sia l’immagine parieta-
le sia quella mobiliare inducono ad un contatto visivo ma anche tattile tra l’immagine e il suo fruitore,
un contatto che unisce due spazi separati, vale a dire la superficie della parete di grotta o il supporto
istoriato e la dimensione spaziale di chi osserva quella parete o di chi maneggia il blocco calcareo
o l’osso ccon le figure. Le immagini teriomorfe note ritraggono quasi esclusivamente personaggi di
profilo; è un’eccezione l’antropozoomorfo della Grotta di Gabillou (fig. 14), il cui volto è chiaramente
rappresentato frontalmente, che sembra aprire la possibilità di quello che Françoise Frontisi-Ducroux
chiamerebbe “il gioco dello sguardo”, ovvero il rapporto diretto che si istaura quando lo spettatore
incrocia gli occhi dell’immagine, la quale, divenendo specchio, gli rimanda il proprio doppio (“Il viso
di chi guarda l’occhio di qualcuno appare, come in uno specchio, nell’occhio che si trova davanti a lui
“ Platone, Alcibiade).
Sul tema del significato di queste figurazioni antropozoomorfe potrebbe essere opportuno non aggiun-
gere ipotesi alle tante che già sono state date ma cercare di formulare correttamente i quesiti. Resta
tuttavia il dubbio se effettivamente valga la pena di porsi la domanda: ma chi c’è dietro la maschera?
Uno “sciamano” oppure un essere sovrannaturale? Un personaggio mitologico o un cacciatore che ma-
scherato cerca di avvicinarsi alla preda non visto? Il dubbio rimane in quanto siamo autorizzati, come
archeologi e, più in generale, come storici dell’antichità, a porre domande solo se, limitandoci al campo
artistico-figurativo, possiamo acquisire la valenza semantica di un’immagine o di una scena, vale a
dire quando, anche mediante l’analisi formale e contestuale della raffigurazione, possiamo evidenziare
eventi reali. Ogni risposta puntuale alle sopra esemplificate domande darebbe adito a obiezioni più o
meno cariche di motivazioni e alla fine del faticoso processo speculativo rimarremo con gli stessi dubbi
iniziali, in quanto non potremmo mai verificare se l’immagine teriomorfa ritragga una scena (caccia-
tore mascherato in avvicinamento) oppure se vuole indirizzare l’attenzione dello spettatore verso un
soggetto reale (sciamano) o irreale (divinità, personaggio mitologico). Metodologicamente è necessario
anche chiederci se è corretto o meno porsi la stessa domanda per ogni figura teriomorfa oppure se gli
individui antropozoomorfi rimandano ad un significato universale, comune a tutti nell’arco di tempo
compreso tra 40-35.000 e 10.000 anni circa da oggi. Un punto fermo rimane la costanza fisionomica,
una conformità stilistica dell’immagine che non sembra aver lasciato troppo spazio di espressione indi-
viduale a chi ha realizzato le figure teriomorfe e che per molti secoli ha parlato a numerose generazioni.
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In una visione complessiva delle raffigurazioni preistoriche, quindi, i teriomorfi non sembrano ritrarre
elementi del reale, ma paiono indicare dei “contenuti” dei quali essi sono l’espressione simbolica, stati
interiori che, sebbene non decifrabili e destinati a rimanere senza definizione, sono messi in luce e
materializzati mediante la capacità creativa del linguaggio metaforico, in questo caso figurativo, che si
unisce a quello musicale o gestuale.
Le informazioni che possiamo ricavare dalle raffigurazioni paleolitiche in discorso non sono di tipo se-
mantico in quanto ci è precluso l’ingresso nei contenuti specifici del fare segno. Esse si limitano a farci
riflettere se possiamo ottenere la medesima informazione da figurazioni diverse ma con costanti affini,
più o meno vicine nello spazio territoriale dell’Europa di fine Paleolitico (dalla penisola iberica alla
Francia pirenaica e centrale, alla Germania, sino all’estremità occidentale della Sicilia), anche molto
lontane cronologicamente e in contesti di grotta non sempre identici. Inoltre, verificato e ammesso che
le informazioni ottenute siano ragionevolmente attendibili e diagnostiche, possiamo selezionare alcune
ipotesi rispetto ad altre sulla base dell’ipotesi più probabile.
L’ipotesi “sciamanica” appare, nel contesto complessivo che abbiamo evidenziato, molto debole e non
proponibile (la rappresentazione figurativa si lega all’illusione e non all’allucinazione), mentre sembra
mantenere validità una lettura del fenomeno figurativo di tipo genericamente simbolico-rituale. Una
lunga tradizione di studi archeologici, antropologici, etnografici e filosofici ha evidenziato lo stretto
rapporto, nella storia dell’uomo, tra rito e figurazione. Le immagini singole, i gruppi di figure, le poche
scene a carattere narrativo appaiono, nella loro cristallizzata e ripetuta organizzazione convenzionaliz-
zata per oltre 30.000 anni durante la fase più recente del Paleolitico, come enunciazioni simboliche di
un patrimonio interiore e spirituale che si basa sui due grandi temi della caccia, come fonte primaria
di sostentamento della specie, e della fertilità, come garanzia naturale alla sopravvivenza. Su questi due
pilastri tematici sembrano innestarsi sia i linguaggi condivisi (stili iconografici) che hanno durata e
diffusione differenziata nell’arco cronologico sopra detto ma che sono anche interessati da fenomeni di
convergenza e parallelismo espressivo, sia le soggettività e le peculiarità di singoli contesti crono-cultu-
rali anche in rapporto, per esempio, alle diverse specie animali rappresentate, alla maggiore o minore
adozione di segni geometrici, all’uso diversificato dei reperti mobili in rapporto alle rappresentazioni
parietali. Le immagini relative alla caccia e al mondo animale, al di là del significato a noi incompren-
sibile delle loro associazioni sulle parte delle caverne, non raccontano il mondo in modo diretto, non
appiattiscono il reale nei suoi attributi formali percettibili ma stimolano intuizioni condivise facendo
leva sulla sensibilità dello spettatore (come scrive Leonardo da Vinci, in una macchia di colore si vede
ciò che l’occhio cerca) ed evocano significati che dovevano essere radicati nella memoria e nelle pratiche
di quella popolazione. Lo dimostrerebbero la ripetitività degli schemi iconografici, di singoli dettagli
e spesso anche di localizzazione delle immagini. Questa cristallizzazione del sistema segnico nei suoi
caratteri principali consente di ritenere molto probabile, saremmo tentati di dire oggettiva, la valenza
simbolico-rituale delle figure antropozoomorfe, le quali hanno comunicato e trasmesso per millenni
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significati, credenze e stati dell’anima.
L’iconicità delle immagini rituali, come ci insegnano diversi approcci disciplinari, è in relazione alle
esigenze di immediatezza del rito (hic et nunc), nel sistema di comunicazione simbolica la loro stan-
dardizzazione non ammette invenzioni o deviazioni soggettive, la loro complessità è legata anche alle
esigenze di condensazione di valenze e significati diversi. Gli archeologi preistorici possono utilizzare,
con tutte le difficoltà e le insidie interpretative ben note, solo la tradizione iconografica, la quale, nella
storia dell’uomo, è sempre accompagnata nelle pratiche simboliche e rituali da una tradizione orale e
gestuale (danza, movimenti, posture) in questo caso non disponibile; si tratta di un limite sostanziale
molto forte in quanto la fisionomia di una cultura si identifica anche nelle modalità e nei mezzi di
trasmissione dei contenuti.
Narrazione, richiamo mitico, simbolismo: tre significati possibili delle figurazioni paleolitiche i cui
contorni sfumano e che si integrano se diamo al fare segno una valenza di comunicazione. Essa forse
si svolgeva non solo attraverso il linguaggio non verbale (immagini) ma forse anche attraverso atteg-
giamenti gestuali (passi di danza? posture particolari?) e, perché no, attraverso la parola, attraverso
espressioni orali che non hanno lasciato traccia. Una valenza di comunicazione globale, quindi, che
assume rilievo se consideriamo l’impianto semiologico delle figurazioni paleolitiche (Remacle 2004),
nell’interazione tra la scelta dello spazio sotterraneo, le caratteristiche del luogo (oscurità, sonorità,
visibilità), il soggetto raffigurato, le dimensioni dell’immagine, la sua integrazione con lo spazio e il
supporto roccioso, le tecniche di esecuzione. Tutto ciò implica una visione molto dinamica del mondo
figurativo, della pratica iconografica e del contesto complessivo dove la cosiddetta “arte” viene pra-
ticata, dinamica in quanto la comunicazione tra le immagini e la persona avviene sulla base di più
atteggiamenti che coinvolgono il corpo, i sensi, la mente: lo spostamento fisico della persona medesima
nei vari ambienti della grotta, l’impatto visuale che le immagini hanno il compito di creare, la com-
prensione del simbolo.
Il risultato ultimo della nostra riflessione, per concludere, è un modello di interpretazione della cultura
visiva paleolitica intrisa di dubbi e incertezze. Infatti, da un lato possiamo incorrere nel rischio di for-
mulare ipotesi che enfatizzino il significato del simbolo iconico attribuendogli un senso non previsto,
dall’altro la nostra percezione e la nostra capacità di rielaborazione dei dati topografici, iconografici e
formali potrebbero non essere in grado di cogliere riferimenti e valenze affidati a quel repertorio vi-
suale (Pozzi 1981). Ciò detto, il modello “sciamanico”, espresso talora in modo così dogmatico come
paradigma applicabile all’arte rupestre di ogni continente e di ogni epoca, appare fragile, la valenza
universale che gli è stata assegnata non ha credibilità. Più attendibile appare una lettura diversificata
che contempli due atteggiamenti differenti nella pratica iconografica.
Uno concerne una produzione figurativa pubblica (arte eidetica) che, attraverso una visione metafo-
rica del mondo, affida al simbolo rituale una memoria condivisa, una produzione che ha nello spazio
circoscritto delle grotte, siano esse ad uso abitativo oppure rituali, la legittimazione della propria sa-
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cralità. In quest’ambito si colloca la grande produzione dei “santuari” paleolitici, dove le immagini
zoomorfe dominano nell’ambiente, strutturate e localizzate in modo tale (iconicità manifesta) che siano
immediatamente visibili e riconoscibili, enfatizzate anche dalla policromia, strumento immediato di
comunicazione.
L’altro concerne percorsi individuali nascosti (arte non eidetica), celati nelle cavità e nei cunicoli quasi
inaccessibili e disagevoli, dove singoli processi istantanei di figurazione, ripetuti nel tempo o dal mede-
simo individuo, hanno lasciato pannelli di segni e figure sovrapposti, indistricabili, invisibili agli stessi
esecutori; il segno come risultato di un gesto che in sé esaurisce la finalità dell’immagine, segno che
esiste ma non racconta né rappresenta, risultato concreto di una performance individuale effimera, che
non lascia traccia, specchio di un rapporto immediato con il proprio stato dell’anima. Le figurazioni
non eideteche, ovvero di iconicità occulta, nella loro interpretazione performativa si configurano non
tanto come tracciato visuale bensì come percorso grafico cinetico molto simile al gesto della scrittura:
il gesto dinamico dell’incisione o della pittura consentono a che le esegue di osservare lo snodarsi della
linea sulla parete rocciosa ma, quando è inserita in un precedente caotico groviglio di segni, ne impe-
disce la visibilità e la collocazione come realtà iconica all’interno di uno spazio; il questi casi il movi-
mento che produce il segno diventa simile, non solo al gesto della scrittura, ma anche all’articolazione
vocale che produce suoni, percepiti dinamicamente nell’uso della voce. I prodotti grafici performativi
o della scrittura non appena sono materialmente conclusi o muoiono (gesto) –al pari delle esperienza
foniche- o restano immobili (scrittura) fossilizzati su una supporto anch’esso statico.
Questo doppio binario interpretativo delle figurazioni paleolitiche porterebbe a giustificare produzioni
differenti che un’unica lettura non saprebbe spiegare. Ma tale interpretazione non univoca non spiega
né illustra le componenti e i significati della dimensione rituale e sacrale, sulla quale ci poniamo molte
domande. Per ora restano domande ancora senza risposta e in questo senso è in parte condivisibile l’as-
sunto di Georges Braque, col quale ci congediamo dal benevolo lettore che è giunto insieme a noi alla
fine del percorso: “Più si esplora, più il mistero si approfondisce, e resta sempre fuori dalla nostra portata.
… L’arte è fatta per inquietare: la scienza dà sicurezza”.
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