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Dalla Sconfitta di Manfredi alla pace di Caltabellotta.

Dopo la morte di re Manfredi (1266 )i ghibellini del nord, quelli di Toscana e i fuoriusciti del
Regno di Sicilia, si rivolsero all’ultimo degli Staufen, Corradino figlio di Corrado, appena
quindicenne per strappare a Carlo ed al papa la supremazia.
A convincere il ragazzo furono soprattutto quei seguaci di Manfredi che erano sfuggiti alla cattura
dopo la battaglia di Benevento riparando in Africa, in Spagna o in nord Italia.
il giovane Corradino dovette affrontare l’Angiò, dopo qualche scaramuccia senza importanza, a
Tagliacozzo il 23 agosto del 1268. Inizialmente la battaglia sembrava andare a favore dello Staufen
ma si trattava di una trappola, non appena i soldati di Corradino si abbandonarono al saccheggio
degli uccisi, credendo di aver messo in fuga l’Angiò, Carlo piombò su di loro con la cavalleria che
aveva tenuta nascosta e ne fece strage. Corradino tentò di fuggire ma fu tradito e consegnato al
vincitore.
Pare che l’Angiò avesse chiesto consiglio al papa su cosa fare del prigioniero e da questo fu
invogliato ad eliminarlo. Fu celebrato un processo farsa e successivamente fu eseguita la condanna
a morte per decapitazione nella Piazza del mercato a Napoli.
La rappresaglia e le repressioni furono ferocissime, degne di un libro dell’orrore. In Sicilia, sede
della rivolta, la vendetta fu ancora più spietata anche perché la resistenza sveva durò per altri due
anni. I capi della rivolta furono barbaramente torturati e uccisi; le città ribelli, ed erano tante, furono
saccheggiate ed incendiate, i cittadini, senza distinzione di sesso e d’età massacrati senza pietà ed in
maniera efferata.
Fu questo il biglietto da visita che l’Angiò presentò ai siciliani.
Ma non fu certo la crudeltà della rappresaglia che impressionò il popolo, erano abituati ad assistere
a squartamenti, accecamenti, mutilazioni, roghi e quant’altro la fervida immaginazione dei
torturatori mettesse in atto. Come sempre ciò che importava era la diminuzione delle libertà
baronali e il servaggio da pagare all’angioino, per il popolo contadino in fondo mai nulla cambiava,
un padrone valeva l’altro e sarebbe continuato così per molti secoli ancora.
A mettere in forse fin da subito la stabilità del regno di Carlo furono molteplici fattori. Il primo fu
certamente l’irredentismo siciliano portato avanti da fuoriusciti quali Ruggero di Lauria, ed il
leggendario Giovanni da Procida con i suoi figli, l’altro fattore fu la “mala signoria” introdotta dal
francese. L’accusa che il governo di Carlo fosse così repressivo da generare una rivolta è tuttavia da
considerare con cautela. La “mala signoria” di Carlo non fu né peggiore né più gravosa di quella
sveva, solo stava dalla parte sbagliata, quella papalina e francese! L’unica novità apportata da Carlo
fu quella di statalizzare e rendere ordinari quelli che erano stati i traffici privati dell’imperatore
Federico II. Analogamente allo svevo promosse gli studi, potenziando l’università di Napoli e
proponendo un’università a Roma. Ma non poté certamente ripristinare la situazione d’immunità e
privilegio goduta al tempo degli svevi. Carlo doveva infatti pagare le spese di guerra e compensare i
nobili francesi che lo avevano seguito in Sicilia, il che significava tenere per la corona le collette ed
i feudi che la dinastia sveva aveva confiscato e confiscare quanto ancora non era stato confiscato.
Carlo, pertanto, stava disattendendo a quanto il papa aveva promesso: la restituzione dei privilegi e
dei beni confiscati dal regime tirannico di Federico II.
Un altro fattore ancora fu la trasformazione della struttura sociale della Sicilia. Da anni numerosi
coloni provenienti dall’Italia settentrionale scendevano in Sicilia a colmare i vuoti lasciati dalla
estirpazione coatta della popolazione musulmana ed ebraica e dalla distruzione radicale di interi
villaggi e città. Comunità di mercanti toscani, genovesi, lombardi, ormai sicilianizzati, si erano
insediate nelle città e spesso godevano di privilegi quali l’esenzione fiscale. Carlo d’Angiò si trovò
a governare un’isola latina, nella quale greci ed ebrei erano una sparuta minoranza ed i musulmani
erano praticamente scomparsi. La stessa Lucera, roccaforte musulmana, fu ricolonizzata da Carlo
con agricoltori franco-provenzali. Il mutamento del tessuto sociale lascia pensare che questi signori
avessero interesse nell’organizzare la società siciliana alla maniera dei liberi comuni da cui
provenivano e che certamente avrebbe dato maggiore spinta alla crescita economica dell’isola.
Il fattore che più di tutti destabilizzò il regno fu comunque la disparità politica tra le due province
che re Carlo istituzionalizzò in maniera formale: Carlo operò una scelta che fino ad allora i re
siciliani avevano accuratamente evitato, spostare la capitale da Palermo a Napoli. Fin dai tempi di
Federico II in realtà la politica si svolgeva nella penisola ma formalmente Palermo e la Sicilia
rimanevano la provincia principale del regno, quella che dava il nome all’intero regno
Ulteriore fattore di indebolimento fu la slealtà verso la Chiesa; divenendo il capo indiscusso dei
guelfi italiani a sud e al nord del papato, Carlo era in effetti il più potente sovrano d’Italia ed uno
dei più potenti d’Europa. Era divenuto così ingombrante che nel 1277 la curia elesse un papa
romano, Nicolò III, che non ostacolò o addirittura favorì la formazione di un fronte antiangioino.
Per ultimo, ma non meno importante dobbiamo ricordare come Carlo, in linea con le aspirazioni dei
suoi predecessori desiderava assumere una posizione di preminenza nell’area mediterranea ma non
tenne conto della presenza e degli interessi dell’Aragona, della Catalogna, della Castiglia e del
ricostituito impero bizantino. Pietro III d’Aragona, accogliendo alla sua corte i fuoriusciti siculo
ghibellini, quali Giovanni da Procida, Corrado Lancia e Ruggero di Lauria e servendosi dei loro
servigi aveva intanto cominciato a tessere una ragnatela diplomatica che agiva dall’esterno e anche
dall’interno del regno di Sicilia e inoltre vantava rapporti di parentela maritali con Costanza, figlia
di Manfredi, ed erede, da parte sveva, del regno di Sicilia.
Le cose stavano così e Carlo sembrava essere al centro di una cospirazione internazionale quando il
31 marzo del 1282, al vespro, mentre la gente era riunita a festa davanti la chiesa di Santo Spirito la
rivolta esplose improvvisa ed incontenibile contro un manipolo di francesi che arrogantemente
come sembra fosse loro costume, importunavano le donne.
Fu pertanto logico pensare che “Il vespro” fu il risultato di una lunga cospirazione abilmente tessuta
dai fuoriusciti filo-svevi, favorita da Pietro d’Aragona e ben vista dal papa. Di questo avviso è
anche Tommaso Fazello, il padre della storiografia siciliana che ne dà notizia nella sua opera De
rebus siculis, pubblicata a Palermo nel 1558. E questa è la versione storica fino all’Amari per il
quale le cose non sembra siano andate proprio così. Fu la fazione filo-sveva che, mentre tramava
contro l’Angiò, si trovò ad approfittare di un evento che non aveva organizzato.
Quella che Dante definì “la mala signoria”, fondata sulla violenza materiale e morale aveva
determinato alla fine una reazione spontanea a catena in tutte le classi sociali. Scrive l’Amari: “E
avvenne che i cittadini di Palermo, cercando conforto in Dio dalle mondane tribolazioni, entrati in
un tempio a pregare, nel tempio, nei dì sacri alla passione di Cristo, tra i riti di penitenza e di pace,
trovassero più crudeli oltraggi. Gli scherani del fisco adocchian tra loro i debitori delle tasse;
strappanli a forza dal sacro luogo; ammanettati li traggono al carcere, ingiuriosamente gridando
in faccia all’occorrente moltitudine: “Pagate, Paterini, pagate”. E il popolo sopportava. Il martedì
appresso la Pasqua (cadde esso a dì di 31 marzo), si celebrò una messa nella chiesa di Santo
Spirito. Allora brutto oltraggio a libertà fu principio: il popolo stancossi di sopportare.” Inizia la
mattanza e comincia così l’esperienza comunale di Palermo, Ruggero di Mastrangelo venne eletto
capitano della città, assieme ad altri ricchi commercianti e al grido di “buono stato e libertà” le città
mano mano si sollevano contro l’Angioino e si organizzano a Comune. Difatti Corleone che insorge
subito dopo Palermo, si regge a “comune” e le due città stringono una lega di mutuo soccorso.
Nasce in questo frangente la bandiera giallo-rossa siciliana e la rivolta divampò in tutta l’isola.
Solo Messina ebbe qualche tentennamento a causa della sua posizione geopolitica che la legava alla
parte continentale del Regno. La Sicilia giurava obbedienza al papa e rifiutava alcun re straniero,
analogamente a quanto verificatosi alla morte di Federico II. Ma così non fu perché la curia volle
considerare il Vespro come un’insurrezione contro la chiesa e non si fidava di un popolo dove il
ghibellinismo aveva sempre prosperato; si venne così a crear un asse franco-angioino-pontificio che
mirava a isolare la Sicilia sia dal punto di vista politico che economico. Il ritorno armato di Carlo
costrinse la città di Messina ad approntare una strenua difesa, che vide protagoniste le valorose
donne di Messina, mentre a Palermo, temendo un ritorno angioino, si cominciò a guardare con
interesse a Pietro III d’Aragona, sposo, ricordiamolo, di Costanza erede di Manfredi. Le minacce di
papa Martino ed il ritorno di Carlo non erano riuscite a riassoggettare l’isola ma l’avevano spinta a
scegliere alla libertà comunale l’alternativa aragonese che accontentava sia il popolo che
l’aristocrazia filo-sveva, finendo col dare ragione alle trame pazientemente tessute in 10 lunghi
anni.
Il passaggio dalla “communitas” alla monarchia aragonese fu formalmente indolore.”,
riallacciandosi al periodo aureo della monarchia normanna.
Con l’avvento degli aragonesi la rivoluzione del Vespro si trasformò in “Guerra del Vespro” dal
1282 che data della cacciata degli angioini dalla Sicilia al 1302 con la pace di Caltabellotta e la
divisione del regno di Sicilia tra il regno di Trinacria (agli aragonesi) e il regno di Napoli (agli
angioini) divisione che perdurò fino al 1816 con la nascita del regno delle Due Sicilie.
La triste conclusione della rivoluzione del Vespro è la miglior prova che essa scoppiò improvvisa, a
furor di popolo, senza un programma autonomo ben elaborato, il che espose la federazione delle
“communitas” al tiro di due fuochi ostili, con obiettivi diversi ma con la stessa volontà di
distruggerla: da un lato l’Angiò sostenuto dalla Francia e da papa Martino IV e dall’altro Pietro
d’Aragona, sostenuto dai fuoriusciti ghibellini, fedeli agli Svevi e quindi a Costanza e dall’alleanza
bizantina che tutto l’interesse aveva a tenere lontano l’angioino.

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